sabato 30 giugno 2007

Liberazione 30.6.07
Andare "oltre Rifondazione" e non condannarsi a restare sempre minoranza
Lo insegna la storia del Pci ed è il compito storico dei comunisti tutti
A un Pd a vocazione maggioritaria si risponde con una più grande vocazione della sinistra
di Sandro Curzi


Premetto che sono state, in particolare, la "lettera da Genova" e la "lettera a Fausto" di Ramon Mantovani, pubblicate martedì da Liberazione , a spingermi a intervenire nel dibattito che da settimane, anzi da mesi, anima il nostro partito. Il tema centrale ("andare oltre Rifondazione", anzi, come dice Bertinotti, "siamo già oltre Rifondazione", con il conseguente "fare presto e subito un nuovo partito di sinistra") è evidentemente di quelli che mette in discussione alla radice la nostra militanza, qui ed ora. E quindi necessita, insieme, di riflessioni personali, di sincere testimonianze individuali o di gruppo, e di un franco dibattito pubblico. Pensavo di starmene ancora un po' a riflettere e a confrontarmi con i compagni - di Rifondazione e non - con i quali mi capita quotidianamente di discutere. Del resto i segnali di frantumazione, di disorientamento e complessivamente di precarietà che ci arrivano dal sistema politico, dalla coalizione politica di centro-sinistra con la quale abbiamo vinto alle ultime elezioni generali e dalla stessa variegata sinistra (e qui intendo partiti, correnti, movimenti, forze sindacali, giornali d'area, ecc.) sono tali da suscitare insieme confusione e necessità di chiarezza, angoscia e istinto di contrattacco, delusione e nuove speranze.
In questo quadro, dico subito che mi pare stravagante, prima ancora che sbagliato e riduttivo, definire "politicista", come fa Mantovani, la proposta di un compagno (nella fattispecie, Bertinotti) che si interroga sul che fare. Come mi pare difficilmente contestabile che, con la costituzione del Partito Democratico, si "apre un vuoto". E ardito contestare il "profilo riformista" di Veltroni.
Difatti - e introduco così, nel testo che avevo già abbozzato, le prime impressioni suscitate in me dal discorso pronunciato da Walter al Lingotto di Torino accettando la candidatura a segretario del Pd - Veltroni si conferma, ad ogni sua uscita e atto politico (compresa la sua difficile ma felice esperienza di sindaco di Roma), un convinto e convincente riformista. Il suo discorso mi è sembrato provvidenziale acqua sul deserto della politica, così come concretamente praticata negli ultimi tempi in Italia dai partiti dello stesso centro-sinistra. Conteneva, di fatto, un robusto programma di governo. Apriva oggettivamente grandi possibilità al Pd, a condizione che esso sappia tirarsi fuori da una politica flebile e invadente, inadeguata e arrogante, e dalle sabbie mobili dei giochino di potere e dei veti incrociati in cui rischiava (e rischia tuttora) di sprofondare la stessa esperienza del governo Prodi. Il punto che mi è piaciuto di più del discorso è stato ovviamente quello della lotta alla precarietà, dell'aiuto concreto da assicurare ai giovani per affrontare la paura del futuro. In conclusione, ritengo che dal punto di vista della sinistra-sinistra, se essa per prima saprà mettere in campo una presenza politica forte e non massimalista, Veltroni si riconfermi un progressista con il quale si potrebbe fare molto cammino insieme, in favore degli ultimi, dei meno abbienti e di tutto il Paese.
Detto questo, ho molto apprezzato la franchezza e la "sfida" lanciata da Mantovani, con l'onestà intellettuale che tutti gli riconosciamo. E non si può non essere d'accordo sulle sue conclusioni: "la discussione congressuale sia chiara".
Dichiaro qui, con estrema chiarezza, che sono perfettamente d'accordo con quanto chiaramente esposto nella lettera genovese firmata da Haidi Giuliani e decine di altri compagni. In sintesi: 1) in questa fase dello sviluppo capitalistico, della globalizzazione e della vita politica, sempre meno sensibile al contatto diretto con i rappresentati, i loro interessi effettivi e in particolare i bisogni degli ultimi, "la storia e le ragioni della sinistra rischiano di essere messe ai margini" e "il mondo del lavoro rischia di scomparire dalla scena politica"; 2) "bisogna rispondere a queste difficoltà ancora una volta rinnovandosi. Costruendo un'organizzazione adeguata ai tempi"; 3) "noi vogliamo un partito diverso dagli altri… una formazione politica arcobaleno… una grande Sinistra di massa senza steccati e fondamentalismi, capace di coniugare rappresentanza e reale partecipazione". In definitiva, il soggetto dotato di adeguata "massa critica", di cui ha parlato Bertinotti.
Conosco personalmente solo Haidi fra quei firmatari. Eppure non avrei potuto esprimere meglio di quanto non abbiano fatto loro il mio stesso sentire: "Siamo disposti, da ora, a lavorare per questo". E ho la sensazione che sia, questo, un sentire e siano, queste, un'analisi e una volontà molto diffuse fra le nostre compagne e compagni, fra i ragazzi del movimento, fra i militanti (preoccupati quanto noi) del Pdci e dei Verdi, e fra i delusi e sconcertati compagni Ds che si sono rifiutati di seguire D'Alema, Fassino e Veltroni sulla strada che li sta conducendo a fare un partito con Prodi, Rutelli e Marini.
Dunque: andare oltre Rifondazione? E che altro fare, mentre tutto si muove e insidia alla radice la nostra concreta possibilità di opporre, al montante liberismo e alla crisi della politica, un'alternativa credibile e una via d'uscita? Chi non è interessato solo alla manifestazione del proprio pensiero critico o alla mera testimonianza della propria militanza "alternativa", non può far finta di niente se il gruppo dirigente del Pci-Pds-Ds distrugge definitivamente quello che era rimasto di una grande storia, annullando ogni residua organizzazione politica e presenza istituzionale che si rifaccia, in termini quantitativamente rilevanti, alla sinistra. Personalmente credo che quello a cui stiamo assistendo sia un grande, incomprensibile suicidio in progress. Credo che la "carta Veltroni" sia una carta buona ma anche un po' l'ultima carta a disposizione: potrebbe servire a ribaltare la situazione e sopravvivere per un po', potrebbe rivelarsi un'inutile tentativo prima della sconfitta definitiva. E forse in questo senso Veltroni avrebbe potuto cercare e trovare lumi nella lezione di Gramsci sulla formazione dei gruppi dirigenti, anche per citarlo in quel suo seguitissimo intervento nella città di Gramsci e di "Ordine Nuovo".
Una cosa mi pare certa: l'"ex Pci" non esiste più (nemmeno in formato Botteghino) e la sinistra è orfana di una rappresentanza parlamentare anche quantitativamente all'altezza della sua tradizione e delle sfide da affrontare. Allora, non possiamo chiuderci, impauriti o appagati, fra le quattro mura della nostra alterità. Qui mi viene personalmente in soccorso tanti anni di militanza nel Pci. E ricordo a me stesso e a Mantovani: noi ci occupiamo di politica per dare corpo alla rappresentanza degli ultimi, dei sottopagati, dei senzalavoro, dei senza casa, dei disoccupati, dei meno abbienti. Dare corpo a questi interessi significa - oggi più che mai - non solo enunciarli, conclamarli, gridarli, ma cercare di risolverli. La politica serve a risolvere i problemi. E quindi non debbo avere paura di sporcarmi le mani. Mi debbo porre la questione del governo. "La rottura con il governo non è un tabù". Certo, ci mancherebbe altro, ma non può tornare ad essere un tabù nemmeno la partecipazione al governo. "La vocazione del nuovo partito deve essere l'alleanza strategica con il Pd": e chi lo ha mai detto, nelle nostre file? Ma nemmeno si può dire che la nostra vocazione dovrebbe escludere a priori l'alleanza con il Pd. Condividere la "vocazione governista" del Pd? Nessuno di noi mi sembra che l'abbia mai proposto.
"Una sinistra di governo, come dice Mussi" per Mantovani "sarebbe la morte del nostro progetto più che decennale". Mantovani avrebbe ragione se quella "vocazione governista" fosse meccanicamente trasferibile dal Pd alla Sinistra Democratica e se a qualcuno fosse venuto in mente di trasferirlo anche al nuovo soggetto della sinistra. In campo, per ora c'è solo il "partito a vocazione maggioritaria", che è l'illuminante e sconfortante autodefinizione al quale sono affezionati alcuni dirigenti del Pd. Dunque è questo esplicitamente un partito di governo. Ad esso dovremmo forse opporre una forza, uguale e contraria, "a vocazione minoritaria", anti-governativa per definizione?
Io vengo dal Pci, partito di lotta e di governo. Un partito che si sforzò di organizzare le masse e difendere i diritti, e contemporaneamente di muoversi come "partito di governo", nonostante i notori divieti da guerra fredda. Ritengo che, se c'è una cosa che la sinistra non possa fare, a quasi vent'anni dalla caduta del Muro, è quella di regalare a reazionari, conservatori e "riformisti" il monopolio della "cultura di governo", dell'aspirazione e della possibilità di accedere direttamente al governo del Paese.
Come donne e uomini che vogliono, con ostinazione e coerenza, "cambiare il mondo" abbiamo il dovere, direi il compito storico, di resistere alla tentazione di una inequivocabile autocollocazione rigidamente alternativa ma minoritaria, e di operare in concreto nelle piazze, nei luoghi di lavoro, nelle istituzioni, nello stesso sistema mediatico e, se possibile, nel governo, per la redistribuzione del reddito e delle opportunità, e per un'Italia che possa fare la propria parte non a fianco ma contro una politica e un establishment internazionale che produce e si nutre di guerra e di sottosviluppo.

Liberazione 30.6.07
Caro Ramon, non sono d'accordo. Nell'appello di Bertinotti non c'è politicismo. Al contrario, indica la strada necessaria e possibile per una alternativa di società
Il socialismo del XXI secolo, sviluppo logico per Rifondazione
di Nicola Cipolla

Il compagno Ramon Mantovani ha scritto, su Liberazione di martedì 26 giugno, un articolo dal titolo: "Caro Fausto non sono d'accordo". Io non solo non solo d'accordo con i ragionamenti di Mantovani ma ritengo, come altri compagni dentro e fuori Rifondazione Comunista, che il messaggio contenuto nell'intervento di Fausto all'Assemblea della Sinistra Europea sia un grande contributo allo sviluppo logico di un'azione di "rifondazione" del partito sotto la sua guida che è cominciata con la rottura con il governo Prodi, inadempiente agli impegni presi (senza la quale io personalmente non mi sarei mai posto il problema di tesserarmi a Rifondazione pur avendola sostenuta dall'esterno) la scelta dei movimenti No Global, da Genova a Firenze, la scelta della dimensione europea che lo ha portato alla presidenza della Sinistra Europea come socio fondatore ed infine la partecipazione critica e determinante all'attuale fase di governo nel nostro paese.
L'appello rivoltoci si iscrive perfettamente in questo percorso e indica una strada necessaria e possibile per una alternativa all'attuale deriva sociale, politica e culturale dominata dalle forze neoliberiste. Il socialismo del XXI secolo è un obiettivo a cui possono lavorare «forze che vengono da storia comunista, socialista, democratico radicale, di cattolicesimo sociale, nuove culture di movimento avendo già incontrato tutte queste le grandi culture del femminismo e dell'ecologismo critico».
«L'obiettivo di un soggetto plurale ed unitario della sinistra in Europa e in Italia è irrinviabile».
«La sinistra europea può essere l'occasione per cambiare tutto ciò. Un passo cifrato lo state facendo altri più decisi passi vanno fatti». Bisogna considerare la SE «come l'apertura di una porta da spalancare verso la costruzione di una sinistra più ampia, plurale, forte in Europa e in Italia». «Per fare ciò occorre cogliere il momento, l'attesa che si produce. Non tutti i momenti sono uguali, lo sappiamo bene, se si suscita un'attesa come si sta suscitando in questo momento, allora si può organizzare un'emozione collettiva. Una forza nuova non la si fa soltanto con la ragione ma con la passione… ».
Questa è l'essenza del messaggio. Come si fa a parlare di una mossa politicista, oppure come si fa a dire che oltre a Rifondazione non c'è quasi nulla? Alla prima conta delle adesioni il movimento promosso da Mussi si presenta forte di personalità certamente non accusabili di politicismo come Giovanni Berlinguer, Giulietto Chiesa, Pasqualina Napoletano e Claudio Fava del Parlamento Europeo. Mi ha fatto meraviglia che persino Angius abbia rinunciato a partecipare alla formazione del Partito Democratico e abbia aderito a questa nuova formazione della sinistra. Per chi, come me, ha vissuto la lotta politica interna al Pci da posizioni di sinistra ed ambientaliste l'adesione a questa formazione politica di personalità come Fulvia Bandoli, lo stesso Mussi mi ricordano la grande battaglia ambientalista contro il nucleare condotta contro la maggioranza della direzione e con l'appoggio della stragrande maggioranza degli iscritti al Congresso di Firenze. Ma il distacco dall'avventura del Partito Democratico non riguarda soltanto i compagni che provengono dall'esperienza della sinistra del Pci; riguarda anche, come nel caso di Claudio Fava, nuove acquisizioni del Pds di personalità autonome con forti legami di massa cementati in lunghe battaglie contro la mafia e il consociativismo, per la pace (Sigonella), per l'ambiente. Questi legami gli hanno permesso di superare all'interno della lista unitaria DS-Margherita, alle elezioni europee, sia i candidati della destra della Margherita sia quelli della Cisl. Ma è forte anche il radicamento nel sindacato. In Sicilia hanno aderito alla formazione di Mussi anche dirigenti sindacali come la segreteria regionale della Fiom e il segretario regionale della funzione pubblica e tantissimi altri dirigenti della Cgil, il che può consentire alla nuova formazione unitaria della sinistra un rapporto con il mondo sindacale che si era, nella nostra Isola specialmente, quasi vanificato. Del resto dal mondo sindacale in Sicilia viene anche il deputato regionale Cantafia che fino a pochi mesi, prima delle elezioni regionali, dirigeva la Camera del Lavoro di Palermo la più grande struttura sindacale dell'Isola. Ma anche tra i Comunisti Italiani nella mia regione esistono forze decisive per il rinnovamento, a cominciare da Rosario Crocetta, sindaco di Gela (la quinta città della Sicilia, centro industriale dominato nel bene e nel male dall'Eni di cui lo stesso Crocetta è dipendente), che ha vinto nelle ultime elezioni con il 65% dei voti in virtù di una grande lotta di massa contro la mafia che ricorda il coraggio e lo spirito di Li Causi e di Pio La Torre (Crocetta vive una vita blindata per le minacce alla sua vita più volte manifestatesi). Ed anche nel settore dei Verdi si sono avute significative affermazioni nel trapanese e soprattutto ad Agrigento città dove il candidato dei Verdi si è presentato alle elezioni amministrative in contrapposizione sia con il candidato delle destre sia con il sindaco Zambuto fuoriuscito dalla CdL e appoggiato dalla Margherita e dai Ds. L'11% abbondante ottenuto nella prima tornata ha permesso poi nel successivo ballottaggio di sconfiggere in modo determinante il candidato delle destre. In Sicilia Rita Borsellino ha rinunciato all'invito di partecipare alla direzione del Partito Democratico ed anche Orlando ha una posizione fino a questo momento interlocutoria. Invece l'effetto positivo delle prime mosse unitarie a sinistra a livello nazionale: l'Assemblea dei 150 parlamentari lo si avverte in Sicilia anche in alcune manifestazioni recenti di lotta. Un esempio: è stato facile a Legambiente, Wwf e al Cepes di Palermo convocare in tre giorni in questa afosa stagione una grande assemblea per protestare contro il via libera dato da Prodi a Cuffaro per gli inceneritori in Sicilia già oggetto di una lunga resistenza popolare che ha visto uniti cittadini ed anche amministrazioni comunali con risultati positivi che già cominciano a vedersi ad esempio contro l'inceneritore di Casteltermini.
A questa assemblea erano presenti non solo i militanti delle organizzazioni ambientaliste e di sinistra e dei centri sociali di Palermo e rappresentanti del sindacato ma anche parlamentari nazionali di Rifondazione, dei Verdi e della Sinistra di Mussi e Rita Borsellino che hanno deciso di svolgere un'azione comune anche attraverso la Commissione Parlamentare di Inchiesta sui rifiuti. Questa iniziativa si collega con l'altra promossa dai sindacati contro la beffa del sindaco Cammarata che all'indomani delle elezioni ha fatto recapitare ai cittadini di Palermo le bollette della Tarsu aumentate come minimo del 75% con migliaia di errori che superano questa stessa percentuale e che promuoveranno assieme ai movimenti ambientalisti una manifestazione il 2 luglio al momento dell'insediamento del Consiglio Comunale palermitano.
Certo le prime iniziative politiche unitarie che già si svolgono a livello nazionale facilitano enormemente lo sviluppo delle azioni unitarie di base. Ma questo non basta di fronte alla minaccia di un accordo bipartisan per modificare il sistema elettorale italiano secondo i modelli americano e francese estranei alla cultura del nostro continente e soprattutto alle tradizioni proporzionaliste della sinistra socialista da Erfurt in poi e dello stesso movimento popolare cristiano che renderebbe molto difficile se non impossibile la presenza di un arco di forze imponenti (tutti parlano di un 15% dell'elettorato a sinistra del Partito Democratico) dentro le istituzioni parlamentari italiane. Non basta rinviare tutto ad un accordo puramente elettorale, questo sì politicista, che non permetterebbe neanche la sommatoria dei voti delle singole minuscole formazioni.
Anche qui l'esempio della Sicilia è purtroppo illuminante. Tre anni fa, due anni prima della scadenza della legislatura regionale, cominciarono le grandi manovre tra Cdl, destra Ds e Margherita per introdurre in Sicilia vincoli tali da eliminare all'Ars, con lo sbarramento del 5% a livello regionale, le forze di sinistra; Rifondazione, Comunisti Italiani e Verdi. Invece di rispondere subito con un accordo politico forte ci si ridusse all'ultimo momento a costituire liste con contrassegni sconosciuti, assieme a forze politiche chiaramente estranee allo schieramento di sinistra e persino equivoche. Questa improvvisata formazione prese nelle elezioni regionali meno voti di quelli che un mese prima alla Camera ed al Senato la sola Rifondazione aveva ottenuto in Sicilia con il suo simbolo e con il suo collegamento con le scelte politiche nazionali. Alle elezioni nazionali, un mese prima, Rifondazione, Comunisti Italiani e Verdi avevano ottenuto ben più del 7% e quindi avrebbero potuto validamente e da soli unite tempestivamente in un programma ed una formazione comune superare facilmente l'ostacolo del 5%. Ma non c'erano le condizioni politiche perché ancora durava l'ostracismo dei gruppi dirigenti siciliani del Prc nei confronti dei Comunisti Italiani e soprattutto dei Verdi, rei di avere accolto nelle loro file elementi che erano stati per motivi amministrativi allontanati dal partito della Rifondazione Comunista.
Con la formazione della Sinistra Democratica di Mussi, che in Sicilia ha ottenuto percentuali congressuali superiori alla media nazionale, ora la situazione è profondamente cambiata direi in meglio. Anche sulla base di questa esperienza occorre fare presto a costituire una formazione politica unitaria capace di accogliere tutte le componenti della sinistra. Bertinotti dice che «l'obiettivo di un soggetto plurale ed unitario della sinistra in Europa e in Italia è irrinviabile». In Sicilia, per le sue caratteristiche, avrebbe dovuto essere avviato almeno tre anni fa. Del resto il discorso di Veltroni e il suo elogio del sistema francese e le accoglienze positive che questo discorso ha avuto da parte di Luca di Montezemolo spingono non già a confronti congressuali interni ed a nuove divisioni ma ad una azione comune per far sì che di questo necessario processo di unità a sinistra Rifondazione sia con tutti i suoi militanti all'altezza del momento, dei pericoli e delle opportunità che oggi si presentano al nostro movimento ed a tutta la sinistra.

Liberazione 30.6.07
Siamo tutti cittadini uguali, la questione di genere non c'è come ogni conflitto
Walter e la sintesi dei contrari ovvero come il leader tiene a bada le donne
di Lea Melandri

In un articolo pubblicato su L'Unità col titolo "Due o tre cose che vorrei dire al candidato Veltroni", Vittoria Franco scriveva: "L'obiettivo ambizioso, e per noi irrinunciabile, è forgiare un partito di donne e uomini, un partito segnato dalla presenza femminile, presenza numerica e culturale, di contenuti e proposte. Per la prima volta cofondatrici del nuovo Partito". E aggiungeva: "Vogliamo partecipare, avere voce, influenza… portiamo in dote un patrimonio enorme di competenze, di capacità amministrative, di concretezza. Non è rivendicazionismo ma affermazione del principio di cooperazione fra i generi nella costruzione della democrazia".
Le metafore che si usano per esprimere un'idea non sono mai casuali, e le parole "dote", "cooperazione", "competenza" sono inequivocabilmente legate a quel "matrimonio dei contrari" -intelligenza/sensibilità, teoria/pratica, ecc. - o se si preferisce, a quella "alleanza tra i sessi" di cui aveva scritto Ratzinger prima di diventare Papa, indicandola come fondamento "naturale" della famiglia. L'idea di un "patto" tra uomini e donne, capace di conciliare uguaglianza di diritti e "differenze" psicologiche, culturali tra loro complementari, non è certo estranea al femminismo, così come la certezza di poter essere, per una politica in crisi, una "forza di innovazione". Far riconoscere nella loro valenza positiva attitudini ritenute tradizionalmente segno dell'inferiorità femminile, ha costituito, rispetto al conflitto tra i sessi e alla radicalità con cui si è espresso negli anni '70, un'uscita di salvezza, una specie di quadratura del cerchio - quello che, con un ossimoro veltroniano, si potrebbe definire un orientamento "che non nasce dal nulla, ma che è del tutto nuovo", un modo per "conservare innovando".
Non c'è perciò da meravigliarsi se nel discorso con cui ha proposto la sua candidatura alla guida del Pd a Torino, Veltroni ha potuto, con inattesa brillantezza, inaugurare il suo "meraviglioso viaggio collettivo" all'insegna di una compagnia paritaria di uomini e donne, una faticosa conquista femminile, è vero, ma assunta e concessa paternalisticamente da chi sa di poter contare ancora a lungo sul consenso a rappresentazioni del mondo e della politica prodotte storicamente dal sesso dominante. Se questa è la risposta alla richiesta di "democrazia paritaria", che viene oggi da più voci del femminismo, credo sia necessario sgombrare il campo dagli equivoci che una formulazione riduttiva del "50 e 50" può avere indotto, facendola passare come la strada di una possibile pacificazione o ricongiungimento dei due rami divisi dell'umanità, la forza rigeneratrice che le donne non hanno mai mancato di dare al "triste fratello" nei passaggi più difficili della sua storia privata e pubblica.
Un riconoscimento fatto dall'alto e smentito nei fatti dall'assenza di candidature femminili alla guida del Pd - fatta eccezione forse per Rosy Bindi, contraria al 50 e 50, ma non alla valorizzazione delle capacità femminili - conferma quanto si poteva temere: l'indisponibilità di molti uomini a mettere in discussione il fondamento sessista della politica, nel momento in cui si limitano ad "aprirsi" a nuovi soggetti.
E non è un caso che nel discorso di Veltroni le donne vengono associate a "giovani", "cittadini", "movimenti", "federalismo". Se la pòlis , con le sue istituzioni, i suoi saperi, resta quella che si è costruita storicamente sul dominio di un sesso solo, la cittadinanza piena concessa al sesso escluso non è che la conferma dell'esistente e può approdare all'esito opposto: togliere la parola a chi non si riconosce in questo tipo di "integrazione".
La presenza numerica paritaria risponde a un principio elementare di civiltà, è l'applicazione dell'articolo 51 della Costituzione italiana, che, come tale, non avrebbe dovuto comportare umilianti trattative di "quote". Ma la «presenza culturale, di contributi e proposte», di cui parlava Vittoria Franco nel suo articolo, richiede una ridefinizione ben più radicale dell'economia, della politica, del rapporto tra privato e pubblico, tra individuo e società. Ha bisogno, prima di tutto, che si faccia luce sul razzismo inconsapevole che ancora impedisce alla cultura dominante, nel nostro Paese in particolare, di vedere le donne come persone, corpi pensanti, esseri dotati di volontà, responsabilità, capacità intellettuali e morali. Il divario tra uomini e donne passa fondamentalmente attraverso la divisione dei ruoli sessuali, la considerazione del lavoro di cura come "naturale"donatività femminile, l'esercizio acrobatico per conciliare casa, figli e lavoro esterno come problema riguardante le politiche famigliari; passa vistosamente attraverso la violenza di cui le donne sono vittime quotidianamente, sia quando vengono maltrattate o uccise, sia quando sono costrette a subire, vergognandosene, le conseguenze di una sessualità imposta: è il caso dell'aborto.
Ma di tutto questo, nel lungo discorso di Veltroni, pur così "generoso" di elargizioni all'altro sesso, non c'è traccia. La questione "donne" si potrebbe tranquillamente espungere e trattare a parte, collocata com'è nell'incipit e nel finale, due inserti ad effetto a cui non fa seguito nessuna implicazione, come se, accolto l'ospite alla propria tavola, i commensali riprendessero a parlare dal punto in cui ero rimasti. Come si può prendere sul serio l'affermazione di apertura - che l'«irruzione della soggettività femminile» sarebbe «un'esperienza decisiva» per il neonato partito democratico -, quando tutto il corposo panorama della «grande forza riformista» descritto dal suo aspirante leader parla una lingua ineccepibilmente neutra? Dopo la breve apparizione iniziale, e subitanea scomparsa, le donne riemergono in chiusura, trasformate in "esempio" o "parabola" edificante, una forma di riconoscimento a cui non aveva resistito nemmeno il Presidente della Repubblica nel suo saluto di fine anno. Veltroni racconta di una giovane amica che avrebbe espresso la volontà, due mesi prima della morte, avvenuta a soli 15 anni, di adottare un bambino africano, colpita dal sapere che in molti paesi del mondo i bambini muoiono di povertà e di fame, e non solo di malattia.
Solo la sottile misoginia che passa talvolta inavvertita sotto le apparenze di una compassionevole celebrazione, poteva associare la "differenza femminile" - come elogio della sensibilità, dell'abnegazione, delle doti sacrificali della donna - alla morte prematura di una adolescente.
Ma, a guardare bene, non è così vero che il "matrimonio dei contrari", nella visione veltroniana della politica, riguardi solo il rapporto tra i sessi. Nel tentativo di tenere insieme realtà che si contrappongono in modo evidente, la figura retorica che viene ripetutamente in soccorso è la "sintesi". «Non per furbizia» - si affretta a dire Veltroni -, ma per sincero amore del dialogo, dello scambio, del rispetto reciproco. E' così che, per "voltare pagina", mettere a tacere insulti, logiche di guerra, scontri violenti, si finisce per bandire la conflittualità tout court. E quella che si dipana nel lungo affresco del programma riformista è una sequenza fatta di accoppiamenti immaginari - lotta alla povertà senza toccare la ricchezza, "libertà e giustizia sociale", "integrazione e legalità", "multiculturalità e sicurezza", "ambientalismo e conquiste tecnologiche", lavoratori precari e imprese, accoglienza e rigore, giovani e anziani - sintesi di facciata messe a copertura di un pragmatismo fatto di certezze molto meno favolistiche e seduttive: l'impresa, il mercato, la crescita economica, la sviluppo tecnologico, la mobilità sociale verso l'alto lasciata al talento individuale e a qualche benevola "opportunità", la stessa "pari opportunità" che permetterebbe oggi alle donne di entrare nella grande "casa" pubblica degli uomini.

Liberazione 30.6.07
Il problema non è l'"oltre" ma il "come" si lavora all'unità a partire da noi
Prc, che fare? Cambiare l'ordine del discorso e uscire da sé senza perdersi

Stiamo attraversando un momento difficile; lo sta attraversando il nostro paese, le nostre città, la sinistra, i movimenti, noi. Soprattutto la politica.
Siamo di nuovo di fronte a un "che fare" che ci incalza e a cui dobbiamo rispondere con quanta più chiarezza ed efficacia possibili. Lasciamo, per brevità, il campo delle complesse analisi sociali e delle elaborazioni culturali e limitiamoci ad alcune problematiche che sono entrate con forza nel nostro dibattito e che, se non affrontate con chiarezza, possono farci perdere la bussola.

Crisi della politica
E' il tema più accattivante e insidioso, uno schermo che può coprire le cose negative più diverse ma anche offrire alla vista le opportunità del presente: per esempio l'occultamento di responsabilità politiche individuali e collettive di cui non si voglia più dar conto ai soggetti di riferimento oppure la voglia di scorciatoie politicistiche, ricercate per far fronte alle dinamiche che attraversano oggi tutti i ceti politici e spiazzano la scena pubblica. O, ancora, l'autoreferenzialità e l'autotutela dei gruppi e delle lobby di potere e altro ancora. Ma anche l'occasione per guardare al futuro con rinnovata passione politica, con libertà di giudizio e di ricerca, scoprendo e sperimentando nuove pratiche e nuove dimensioni dell'agire politico, nuove relazioni tra i soggetti, i luoghi del conflitto, le idee di cambiamento, stando dentro ai processi di liberazione e libertà umana nell'epoca della globalizzazione.
Niente si inventa dal niente e i vizi tipici dei ceti politici, ma anche dei gruppi dirigenti più responsabili, nell'epoca dell'esposizione mediatica fine a se stessa, non troverebbero soluzione invocando i rischi epocali di una nostra dispersione e/o ininfluenza. Possono, debbono quelle forze - noi per primi - fare tutto il possibile per lavorare e sperimentare insieme, per unire le risorse con pratiche innovative che non ci imprigionino di nuovo nelle trappole dell'appartenenza, nelle filiere dell'autotutela così tipiche dei ceti politici in crisi, condividendo invece con coraggio scelte e responsabilità. Ma, anche, lavorando col senso del limite e il realismo dell'esperienza, che ci fanno dire che oggi bisogna certo aprire percorsi e avviare processi, e compiere anche tutte le forzature possibili ma sottraendoci a ogni retorica dell'unità salvifica del "fare in fretta", e dunque senza disperdere risorse e patrimoni, coinvolgendo tutte e tutti e verificando con attenzione tutte le difficoltà sul cammino prima di compiere un altro passo.

L'oltre, il come e il dentro
Non ci aiuta per esempio la retorica dell'"oltre". "Oltre" tutto - il ‘900, le forme della politica, la rappresentanza democratica - e oggi, si parva licet, per qualcuno oltre Rifondazione. Il problema non è l' "oltre" ma oggi il "come" Rifondazione nei mesi che abbiamo di fronte possa contribuire al meglio delle sue forze e della sua esperienza al processo di unità a sinistra. Proponiamo di contrastare la retorica dell'oltre, sperimentando, nella ricerca e nella sperimentazione dei percorsi unitari, la pratica del "dentro" le cose, fatta con spirito di osservazione, di ascolto, di intelligenza, come ci viene da alcune delle esperienze più vive della nostra vicenda politica, dei movimenti altermondialisti, della storia delle donne.

Cogli l'attimo?
La scelta dei Ds di costituire il Partito Democratico ha liberato alcune importanti energie, donne e uomini che hanno scelto di stare a sinistra. E' importante costruire con loro e con tutti i soggetti che si richiamano alla sinistra (anche senza aggettivi) un confronto molto stretto, un programma di azione unitaria, non solo a livello parlamentare, ma sia a livello nazionale che nelle regioni, con iniziative politiche e programmatiche, un percorso vero, democratico, senza scorciatoie politicistiche. A volte l'ansia di cogliere l'attimo fuggente può essere causa di corta visione, persino di strabismo. Meglio cogliere l'occasione e costruire le condizioni perché non si esaurisca o rimanga inerte.

Un governo così così? Fino a quando?
Abbiamo scelto di far parte di un governo eletto sulla base di un programma condiviso, in maniera più o meno convinta, da una coalizione. Questo governo è condizionato, all'esterno e all'interno, da forze disgregatrici che tirano a destra l'impostazione politica e programmatica.
A fronte di alcuni innegabili risultati concreti, ci sono grossi rischi: inefficacia, confusione, diminuita autorevolezza e credibilità, sia sul terreno delle condizioni materiali dei settori sociali meno abbienti, sia sui diritti e le libertà individuali (con i condizionamenti pesanti del "partito del Vaticano"), sia sul terreno della cosiddetta sicurezza ( a questo riguardo, amministratori eletti col nostro voto vorrebbero città blindate, chiuse a migranti e persone in disagio), sia infine sul terreno della partecipazione alle cosiddette missioni militari e della militarizzazione del territorio.
Non è indifferente, per noi e per gli impegni unitari che dobbiamo sviluppare con il resto della sinistra radicale, chiederci e chiedere: come, perché, con che pratiche di ascolto e verifica "dentro i sentimenti popolari" possiamo continuare a essere parte di questo governo?

E noi?
Il nostro partito è immune, per la grande maggioranza, da intrallazzi; non è immune dalla corsa alle istituzioni e dalla tenace ambizione a restarvi.
La Conferenza di Carrara è stata impostata con un documento che elencava molte manchevolezze e difetti. Si aggiungano la scarsa democrazia interna, la vita di partito dominata dalle cariche istituzionali, anzi gli incarichi dirigenziali nel partito per lo più considerati tappe per raggiungere le istituzioni. Giacché si conta se si appare. E' come se esistesse una lista d'attesa in cui gli uomini del partito - in una visione tutta patriarcale della politica , da cui talvolta non siamo immuni nemmeno come donne - si sostengono a vicenda in attesa dei turni.

Innovare, innovare
Occorre porre mano ad applicare i deliberati di Carrara, innovare e cambiare, incidere sulla forma partito ancora burocratica e gerarchica, tutta maschile nelle pratiche, con investiture dall'alto: spesso luogo di scontri di potere all'ultimo sangue. Rendere trasparente e sottoporre all'attenzione pubblica una scelta di questo genere, l'impegno a tutti i livelli del partito per un passo così importante di rinnovamento, sarebbe un contributo essenziale anche al processo unitario a sinistra che ha bisogno come dell'aria di contenere e sconfiggere le logiche da ceto politico che l'attraversano.
La formazione della Sinistra Europea è una grande occasione: il confronto permanente con associazioni e movimenti, reti nazionali e nodi locali, problemi del territorio e questioni internazionali, ci aiuta nello scambio con pratiche lontane dalle nostre, con soggetti con cui abbiamo in comune la convinzione che un altro mondo è possibile e dipende da tutti e tutte pensarlo, costruirlo, praticarlo a partire dalle nostre vite, dai nostri corpi, dalle nostre relazioni.

Un grande impegno
La Sinistra Europea è un nostro impegno, anche alla luce dell'esito positivo della grande assemblea del 16-17 giugno, un vero e proprio successo ancora più significativo dopo l'amaro esito delle elezioni amministrative e il tragico errore della piazza anti-Bush del 9 giugno. Errore di autosufficienza, di separatezza, di automoderazione. Stare nei movimenti, senza cedere ai calcoli politicistici delle convenienze di governo e dei condizionamenti dell'establishment: questa deve essere la nostra pratica costante, a cominciare dal grande sussulto di laicità e libertà del Gay Pride, ai movimenti che chiedono un pianeta libero da speculazioni, fame, miseria, guerre, ai movimenti delle donne.

Ma andiamo all'oggi
E' in atto un tentativo strisciante di cancellare e liquidare Rifondazione Comunista, la sua storia, la sua ricerca, la sua sperimentazione, con le sue contraddizioni, le sue aperture ad esempio sulla nonviolenza e sulla democrazia di genere. E' in atto un processo, ora dichiarato, ora camuffato, di chiudere questa esperienza nell'archivio delle residualità del '900.
Riteniamo che questi tentativi vadano criticati e, dove necessario, fermamente contrastati a tutti i livelli, dai gruppi dirigenti nazionali e quelli territoriali. Subito, per tempo. Soprattutto ci sembra arbitrario qualsiasi uso proprietario, privatistico, personale di questo luogo politico che è davvero un bene comune e non può dipendere dalle opzioni di questo o quell'esponente politico del partito.
Si aprirà a breve la fase congressuale, che immaginiamo dura e difficile: non intendiamo affrontarla in termini identitari, difensivi, conservativi. Quando parliamo di identità, non parliamo di dogmi o ideologie, parliamo di un punto di vista di analisi e letture dei processi sociali, materiali, simbolici. Insomma di uno sguardo sul mondo diverso, di quell'anomalia che Rifondazione ha rappresentato nel quadro politico italiano ed europeo e che rende oggi possibile mettere in cantiere l'ambizioso progetto dell'unità della sinistra radicale.
Intendiamo mantenere aperta la rifondazione comunista come parte integrante, per tutto il tempo che sarà necessario, della più generale impresa di rifondazione della sinistra, contrastando i tentativi di rottamare la nostra storia e il nostro presente in una sorta di vuoto presentato come "sfida", una sorta di dissoluzione per consunzione, per esaurimento di ruolo, per scarsa utilità, appunto la dismissione. "Uscire da sé senza perdersi" intitolammo un documento del 2006.
Continuiamo a pensare che occorra uscire da sé, e in molte l'abbiamo fatto e lo facciamo, ma che appunto non bisogna perdersi. E, per non perdersi oggi nella morta gora dei calcoli e dei giochi politici che non portano da nessuna parte che interessi veramente la stessa prospettiva di una nuova sinistra, bisogna intanto cambiare l'ordine del discorso: Rifondazione Comunista è utile, anzi è necessaria.
La prospettiva unitaria e il forte impegno che la rifondazione della sinistra richiede hanno assoluto bisogno di Rifondazione Comunista, della sua forza organizzata, dei suoi nuclei territoriali, di quella ricerca teorica e sperimentazione innovativa che sta procedendo ancora troppo faticosamente, anche per incertezze di prospettive, ma a cui dobbiamo dedicarci con sempre maggiore cura se davvero vogliamo contribuire a partire da noi alla nuova impresa.

Prime firmatarie
Imma Barbarossa, Elettra Deiana, Titti De Simone, Rita Corneli, Stefania Brai, Daniela Dioguardi, Linda Santilli, Eleonora Forenza

l’Unità 30.6.07
Per la prima volta nel ’61 divenne pubblico il tema delle responsabilità togliattiane nelle purghe contro gli italiani
Così si chiudono i conti con la storia
di Roberto Roscani


Era il 10 novembre del 1961. A Mosca era finito da poco il XXII congresso del Pcus. No, non il XX, quello famoso del rapporto segreto di Krusciov e dell’emergere in piena luce dei crimini staliniani. Eppure quel successivo e meno ricordato XXII congresso poteva essere ancora più esplosivo almeno per le sorti del Pci. Infatti quel 10 novembre del 1961 il caso esplose dentro all’austero e di solito riservatissimo comitato centrale. La questione esplosiva era proprio la sorte di centinaia di comunisti italiani e i esuli antifascisti finiti nei gulag insieme a milioni di russi. Il tema più controverso era il ruolo del partito e quello di Togliatti. Esplose nelle stanze di Botteghe Oscure il caso di Paolo Robotti, operaio torinese genero e collaboratore strettissimo di Togliatti finito anche lui nelle mani Kgb e ripreso per i capelli prima che finisse in un campo in Siberia. Togliatti non mosse un dito per Robotti, e forse Robotti era stato arrestato per colpire indirettamente Togliatti. Quella storia venne raccontata per la prima volta in quell’assemblea e fu pubblicata sull’Unità stavolta clamorosamente senza i freni e autocensure..
Era una grande occasione: le carte erano in tavola, il partito spaccato, Amendola all’attacco di Togliatti e l’ingraiano Natoli che chiedeva il congresso straordinario. Il comitato centrale fu chiuso da Togliatti. Ma quel discorso (caso unico nella storia del Pci) non venne mai pubblicato, non ve n’è traccia neppure all’Istituto Gramsci tra le carte di allora. Conteneva - per quel che sappiamo dai testimoni - una rivendicazione del suo ruolo negli anni duri. Dentro c’era anche qualche minaccia politica: se volete fare un partito antisovietico allora io ne farò uno mio. Disse più o meno.
Ecco, oggi a Levashovo, Piero Fassino è andato a chiudere quella storia. Il muro non c’è più da 18 anni, l’Urss è un ricordo, il Pci chiuse la sua vicenda nell’inverno del 1991. In questi anni molti conti son stati fatti, tanti giudizi cambiati, tanti errori rivisti. Fassino a San Pietroburgo rende omaggio agli italiani (comunisti e antifascisti, esuli in quella Russia che doveva essere il paradiso dei lavoratori e che divenne la loro prigione e la loro tomba) uccisi e riconosce le colpe e le responsabilità »della delazione dei loro stessi compagni e della colpevole connivenza di quei dirigenti che - pur autorevoli come Togliatti - non ebbero il coraggio di sfidare la macchina oppressiva della dittatura». No, certamente Togliatti quel coraggio non l’ha avuto anche se nella Mosca degli anni Trenta, nel cima avvelenato delle purghe, quel coraggio non lo ebbero in molti. Fassino chiude quel capitolo non senza ricordare chi «non si sottrasse alla propria responsabilità morale e politica. Tra chi non si piegò anche Antonio Gramsci che si battè per sottrarre i suoi compagni ad un destino tragico». È la storia di Gino De Marchi amico di Gramsci ingiustamente accusato di essere una spia e scagionato dallo stesso fondatore del Pci, ma poi ucciso nelle purghe.
Qualcuno si chiederà perché Fassino abbia voluto compiere anche quest’ultimo passo. Mancano cento giorni più o meno alla data di nascita del Partito democratico che sarà - formalmente o meno - anche la data che chiuderà la storia dei Ds. Tra cento giorni non ci sarà più il partito che - con tutte le sue rotture - porta l’eredità nella storia italiana del Pci. Questa era in qualche modo l’ultima occasione per rendere omaggio a quegli italiani uccisi dallo stalinismo e di distinguere tra chi ebbe il coraggio e chi no. Veltroni l’altro giorno al Lingotto ha parlato del Pd come di un partito non ideologico. Nuovo, come spogliato di ogni storia che può permettersi di non esser mai estremista o moderato per legittimarsi. Fassino prima di passare al partito nuovo che fortissimamente ha voluto compie un gesto che chiude, senza lasciare nodi irrisolti alle spalle, la storia dei Ds.

il manifesto 30.6.07
Titti Di Salvo, di Sd: «Accelerare? Non si può puntare solo alla somma di quel che c'è. Partiamo dal territorio e dai fatti concreti»
«No ai recinti. Unire la sinistra compreso lo Sdi»
di Micaela Bongi


L'inizio dell'era Veltroni, il segretario di Rifondazione, Franco Giordano, che preme sull'acceleratore dell'unità a sinistra proponendo un'assemblea a luglio con vertici dei partiti, sindacati, associazioni e movimenti. E la Sinistra democratica di Fabio Mussi come risponde? La capogruppo a Montecitorio di Sd, Titti Di Salvo, rilancia la proposta fatta alla riunione del 23 giugno: una fondazione di tutte le sinistre, compreso lo Sdi.
Giordano, che punta anche a un simbolo comune per le amministrative del 2008, non vi convince?
Noi abbiamo proposto una fondazione per rielaborare la cultura politica della sinistra. L'interpretazione critica del passato è la parte più semplice. Più complicato è interpretare e proporre strategie in un mondo profondamente cambiato. Noi nasciamo per contribuire a cambiare l'Italia. Per essere una sinistra di governo. Di fronte all'accelerazione rispondiamo che siamo nati proprio per unire la sinistra, è nei nostri geni Ma occorre una profonda elaborazione politica, non si può semplicemente puntare alla somma di quel che c'è. La nostra scelta è quella di fare massa critica insieme ad altri su appuntamenti decisivi come il Dpef, la precarietà... Con lo Sdi abbiamo deciso di non partecipare alla conferenza del governo sulla famiglia. Insomma, scelte operative avendo chiaro l'obiettivo. Scegliamo il terreno del fare. La proposta di Giordano è più generale: mettere insieme nel giro di 15 giorni una serie di soggetti.
Ma lancia l'assemblea per avviare una campagna sui contenuti.
Sì, ma noi percorriamo un'altra ipotesi, che punta ai fatti concreti. Quello che dice Giordano ha più significato se parte dal territorio. A livello nazionale ha controindicazioni in più, è una soluzione più fredda. Noi abbiamo scelto concretamente di lavorare all'unità della sinistra, ma anche con lo Sdi sulla laicità per dimostrare che ci interessa una unificazione della sinistra seria.
Al vostro interno si discute se privilegiare il rapporto con lo Sdi o con Prc, Pdci e Verdi. Bertinotti dice che la candidatura di Veltroni alla guida del Pd favorisce la nascita della Cosa rossa e da Sd Angius risponde che la Cosa rossa non esiste...
Io penso che la Cosa rossa sia uno slogan giornalistico utilizzato contro la potenzilità politica e culturale di un soggetto nuovo. La sinistra non ha recinti. Noi pensiamo a un movimento popolare, aperto, largo. Lo Sdi dovrebbe chiarirsi, ma non è questo il punto. Il nostro progetto non può essere tirato come un elastico, non ci sono due poli, lo Sdi da una parte e il Prc dall'altra con la Sinistra democratica che deve decidere se ingrossare una cosa o l'altra. Si dice che dopo la candidatura di Veltroni bisogna accelerare. Io dico fare presto, ma anche bene. Naturalmente il Pd è interlocutore e alleato di questa proposta politica.
Ma allora, l'assemblea di metà luglio non vi interessa?
La proposta è stata letta con interesse, naturalmente. Valuteremo, senza chiusure. Riconosciamo la volontà di mettere sul terreno un altro fatto politico rispetto al Pd, includendo anche altri soggetti, non solo i quattro partiti della sinistra. L'intenzione è positiva, ma appunto credo che il processo sarebbe ancora più positivo a livello territoriale.
Parli dei fatti concreti. Come la lettera dei quattro ministri sulla politica economica. Ma se Prc e Pdci ripetono che lo scalone va abolito, Mussi è apparso più possibilista sull'allungamento dell'età.
In quella lettera c'è scritto che si deve trovare l'accordo con il sindacato. La proposta messa sul tavolo quando si è rotto, quella dei 58 anni con tre anni per sperimentare, è importante. 58 anni è l'età in cui realisticamente si va in pensione.
Hai detto che il Pd è interlocutore e alleato. Veltroni, a Riotta che gli ha chiesto se la sinistra sarà scaricata, ha risposto che le coalizioni si formano in ragione degli assetti istituzionali e se la legge elettorale consentirà di scegliere coalizioni omogenee, si potrà vedere.
Ah. Non corrisponde a quanto ha detto al Lingotto. In ogni caso la sinistra avrà un riconoscimento elettorale molto alto. Non penso si potrà prescidere dalla sinistra.
Veltroni alla guida del Pd vi preoccupa? Potrebbe attirare anche una parte di Sd o dei suoi elettori.
Ha carisma, una capacità di ascolto che lo rende un dirigente politico apprezzato da tutti. Intrepreta nel modo migliore il Pd, è il leader autentico per un progetto moderato. Il Pd non sceglie sulla laicità, e non scegliendo sceglie. Non sceglie sul lavoro e sul socialismo europeo. Veltroni resta un interlocutore importante.
Potrà essere anche il leader dell'Unione?
Il leader non lo sceglie il Pd, lo scelgono le primarie. Naturalmente Veltroni ha un profilo che gli consente di esserlo.

Repubblica 30.6.07
Sinistra e Cgil di fronte al bivio
di Eugenio Scalfari


Il Veltroni-day di mercoledì scorso, il Dpef di giovedì, la trattativa sullo «scalone» e l´età pensionabile ancora in bilico, il livello di gradimento del Partito democratico subito dopo la candidatura del sindaco di Roma, la deposizione di Vincenzo Visco, accusato dal generale Speciale di abuso d´ufficio, dinanzi alla Procura di Roma: tanti fatti politici (anche l´imputazione del viceministro delle Finanze lo è) raccolti in un brevissimo arco di giorni dimostrano che la politica è in pieno movimento e non è affatto andata in ferie. E dimostrano un´altra cosa ancora, di notevole importanza, e cioè che l´agenda dei temi in discussione non è più – come da qualche tempo era – nelle mani dell´opposizione ma è ritornata in quelle del governo e della maggioranza: risultato importante per il centrosinistra che tra l´altro tre giorni fa ha colto un´altra vittoria al Senato nella votazione delle mozioni sulla politica fiscale.
Siamo forse arrivati a quella famosa «svolta» tanto auspicata dopo un anno di caduta del consenso, di inarrestabile impopolarità di Prodi e di Padoa-Schioppa, di secessione politica del Nord e di recupero del berlusconismo tra i ceti produttivi sempre più tentati dalla scelta – eversiva negli effetti se non nelle intenzioni – dello sciopero fiscale?
È ancora presto per dare la svolta come avvenuta. Gli ultimissimi sondaggi, effettuati dopo l´accettazione di Veltroni della candidatura a segretario del costruendo Partito democratico, registrano un robusto segnale positivo nelle intenzioni di voto verso il nuovo partito ma contemporaneamente un crollo ulteriore del consenso nei confronti del governo, disceso ad un livello minimo. È vero che si tratta di sondaggi effettuati prima dell´approvazione del Dpef, ma il giudizio negativo del campione interrogato (i dati compaiono oggi su questo giornale) è di tale severità da render quantomeno impervio il cammino della ripresa e quindi l´efficacia della svolta.
Il percorso sarà dunque ancora per lungo tempo in salita. La tenuta del governo e l´arrivo in campo di Veltroni sono due elementi strettamente interconnessi che non possono fare a meno l´uno dell´alto. Al di là delle intenzioni dei protagonisti questo reciproco condizionamento è un dato oggettivo che dev´esser tenuto ben presente da tutti gli interessati. Ogni errore ed ogni scarto da questo strettissimo sentiero di recupero della fiducia collettiva potrebbe esser fatale; ogni iniziativa che non tenga conto di quel legame rischia di far deragliare il convoglio che si è faticosamente rimesso in moto. Protagonisti e comprimari debbono sapere che non c´è più spazio per improvvisazioni, per retropensieri, per ricerche di visibilità e per fughe in avanti o all´indietro.
Il centrosinistra può recuperare la sua forza iniziale soltanto se sarà compatto; altrimenti cadrà in tutte le sue componenti, nessuna delle quali scamperà dal naufragio.
* * *
Berlusconi ha definito il programma esposto da Veltroni dalla tribuna del Lingotto un "compitino"; Fini, Casini e Bossi un libro dei sogni. Tutti e quattro hanno chiesto comunque che Prodi e il suo governo si tolgano immediatamente di mezzo. Poi si vedrà.
La tattica è quella di colpire l´anello debole del convoglio avversario, la strategia consiste nel bruciare Veltroni ai nastri di partenza prima che il vettore del Partito democratico sia entrato in orbita.
Tutto ciò è molto chiaro ma non nasconde, anzi rivela una forte preoccupazione nelle file del centrodestra. Se il Partito democratico decollerà con le primarie del 14 ottobre, da quel momento in poi sarà molto difficile bloccare il recupero del centrosinistra e si porrà invece con forza il principale problema che affligge da tempo la destra italiana: come disfarsi di Berlusconi. I possibili eredi sperano in un governo interinale che faccia esplodere il centrosinistra e riduca Veltroni ad un crisantemo appassito.
Si dirà che queste marce e contromarce sono puro politichese e non interessano i cittadini alle prese invece con altri e assai più concreti problemi. Verissimo.
Ma è altrettanto vero che tutti quei problemi sono stati individuati ed elencati nel programma di Veltroni e ne è stata indicata anche la soluzione. Non è affatto un libro dei sogni. Le soluzioni sono a portata di mano per quanto riguarda il precariato, la politica fiscale, la sicurezza e la legalità, le infrastrutture, l´ambiente, la riforma del Parlamento, i poteri del "premier".
Resta ancora insoluto il tema della legge elettorale, che non è cosa da poco.
Quanto al tema della laicità, una forza politica forte non ha ragione di temere divisioni su questo punto: la Chiesa, anzi le Chiese, hanno pieno diritto di esprimersi nello spazio pubblico liberamente usufruibile da tutte le associazioni portatrici di valori, fermo restando il principio che nessuno di quei valori può sovrapporsi alla laicità dello Stato democratico, custode delle libertà e del pluralismo delle opinioni.
I cattolici democratici che hanno scelto da tempo il centrosinistra hanno avuto il merito di segnare il confine non valicabile tra il magistero della Chiesa e l´indipendenza delle istituzioni, laiche per definizione. Da questo punto di vista il tandem Veltroni-Franceschini rappresenta plasticamente questo positivo connubio ed è abissalmente lontano dalla sudditanza dimostrata dal centrodestra di fronte alle irruenze d´un magistero troppo spesso tentato da pulsioni fondamentalistiche.
* * *
Commentando il discorso-programma del Lingotto molti analisti hanno richiamato l´esempio di Blair. I più acuti hanno osservato che Blair ha avuto successo dalla sua politica sociale ed economica perché prima di lui era toccato alla Thatcher di fare il "lavoro sporco". Veltroni invece – hanno scritto – il lavoro sporco dovrà farlo lui e non sarà fatica da poco.
In ogni paese e in ogni epoca c´è un lavoro sporco da fare. Nell´Italia dei primi anni Novanta il lavoro sporco lo fecero Giuliano Amato e poi Carlo Azeglio Ciampi, scongiurando una crisi finanziaria di dimensioni inedite, ancorando la lira ad un cambio stabile nel sistema europeo dei pagamenti e avviando la concertazione con le parti sociali. Lo proseguì Lamberto Dini varando una riforma delle pensioni di buona qualità.
Venne poi la volta del governo Prodi-Ciampi e il lavoro sporco (per dire un lavoro impopolare ma indispensabile per aprire la via al futuro) fu quello di portare l´Italia in Eurolandia chiedendo al Paese pesanti sacrifici e aprendo il mercato del lavoro alla flessibilità con le leggi Treu.
Dopo il quinquennio berlusconiano, trascorso in un profluvio di leggi che non hanno innovato nulla nella struttura economica ma hanno, in compenso, dilapidato le risorse della pubblica finanza, il lavoro sporco lo hanno fatto Prodi, Padoa-Schioppa, Bersani, Visco, riportando in un anno la finanza pubblica dentro ai parametri di Maastricht e recuperando un avanzo primario di bilancio da zero al 2.5 per cento del Pil.
Veltroni – se e quando verrà il suo turno – avrà anche lui un lavoro sporco da compiere e sarà quello di indebolire le corporazioni e portare avanti la liberalizzazione dell´economia. Contemporaneamente occorre governare il presente ed è ciò che il governo attuale ha cominciato a fare con il Dpef approvato giovedì: l´aumento del potere d´acquisto delle pensioni più basse, aiuti alle famiglie e ai giovani, finanziamento delle infrastrutture a cominciare dalla Tav, detassazione dell´Irap, detassazione dell´Ici, avvio del federalismo fiscale.
Veltroni ha delineato le tappe successive e innovative: lotta al precariato, diminuzione delle aliquote delle imposte sul reddito di pari passo con la lotta contro l´evasione e il sommerso.
Questo non è un libro dei sogni ma quanto già in parte avvenuto e potrà avvenire per realizzare un Paese unito, non più diviso tra Nord e Sud, tra giovani e anziani, tra lavoratori dipendenti e autonomi, così come indica il programma del Lingotto.
* * *
Nella settimana che viene ci sarà il round, si spera definitivo, tra governo e sindacati sull´età pensionabile, una "soap opera" che va avanti ormai da troppo tempo e che a questo punto si deve chiudere.
A noi sembra che esistano tutti gli elementi per arrivare ad un accordo nel rispetto degli interessi delle parti e della compatibilità con i parametri di bilancio, cioè con le risorse versate allo Stato dai contribuenti.
E´ auspicabile che sulle proposte "ultime" che il governo presenterà ci sia l´accordo dei sindacati, molte rivendicazioni dei quali sono già state accolte.
Al di là delle proposte ultime il governo non può e a nostro avviso non deve andare. Se la Cgil riterrà di proclamare uno sciopero generale, è suo diritto e avrà le sue ragioni. Uno sciopero del genere non comporta la crisi di governo, a meno che non sia provocata dal ritiro di alcune componenti della coalizione.
Si assuma ciascuno le sue responsabilità, dopo avere ben meditato sulle conseguenze politiche, ma vorrei qui dire storiche, alle quali può portare un gesto inconsulto suggerito da esclusivi interessi di partito.
Anche di questo ha parlato Veltroni a Torino incitando i sindacati a non chiudersi nella difesa pur legittima dei loro associati senza tener presenti gli interessi dei giovani e dell´intera comunità nazionale. Il sindacato è stato forte ed essenziale alla stabilità della democrazia quando ha operato nel quadro delle compatibilità nazionali, debole invece e disutile quando ha assunto le forme d´una corporazione. Sarebbe grave se oggi imboccasse questa strada che non ha né sbocco né ritorno.

Corriere della Sera 30.6.07
Il pensatore del Seicento, lontano dalla religione ma tentato di negare il mondo
Spinoza, Dio e il Nulla
Il paradosso del grande filosofo: un legame segreto lo avvicina a Cristo
di Emanuele Severino


La filosofia nasce volendo essere libera: indipendente da miti, fedi, religioni, opinioni, istinti, costumi sociali, oltre che da ogni costrizione e comandamento che provengano dall'esterno di ciò che essa porta alla luce, chiamandolo «verità». Ma lungo la sua storia la filosofia si è posta sempre in rapporto con tutte queste forze, da cui essa non intende farsi guidare, per indagarne il significato e la consistenza: soprattutto con le religioni monoteistiche (e con il potere politico) — e in particolare col cristianesimo. All'interno della grande epoca della tradizione filosofica, cioè del pensiero che pone l'Eterno al di sopra o nel cuore del Tempo, e al suo fondamento, Spinoza è certamente il più lontano dal mondo religioso. Si può dire che quello di Spinoza sia addirittura «il più radicale e alternativo sistema della storia filosofica dell'Occidente dopo la venuta di Cristo»? Lo sostiene Filippo Mignini, che con grande perizia e acume ha curato la prima edizione italiana di tutte le opere del filosofo, con la collaborazione di un'altro specialista, Omero Proietti, per i Meridiani di Arnoldo Mondadori editore: Spinoza Opere; quasi duemila pagine, ottime traduzioni inedite; un evento culturale importante.
Sono note le vicende di questo grande, probo e pacifico pensatore ebreo, cacciato dalla Sinagoga e condannato, oltre che dagli ebrei, dai cristiani, protestanti e cattolici, e dagli Stati. Nonostante l'ammirazione di un ristretto circolo di amici, lo si considera «l'uomo empio e pericoloso di questo secolo», come scrive Arnauld, approvato da Leibniz (che però nel 1671 invia a Spinoza, a cui riconosce «insigne perizia nell'ottica», il proprio scritto Notizia sui progressi dell'ottica, per averne il giudizio). Anche Boyle, il grande precursore della chimica moderna, indirettamente in contatto con Spinoza, contribuisce a denunciare l'empietà. «Ateo, fatalista, materialista, dissacratore della Scrittura e di ogni religione, corruttore della morale e dalla stessa convivenza umana»: queste, ricorda Mignini, le accuse principali rivolte al filosofo.
Ma il giorno di Natale del 1784 Herder dona a Goethe gli Opera Posthuma di Spinoza: «Rechi oggi il santo Cristo in dono di amicizia il santo Spinoza», scrive; «Spinoza sia sempre per voi il santo Cristo». Odiato o dimenticato per un secolo, a partire dagli ultimi lustri del XVIII secolo il pensiero di Spinoza viene riconosciuto in tutta la sua potenza. Jacobi, Fichte, Schelling, Herder, Goethe, Schiller, Lessing, Hegel, Schopenhauer, Nietzsche, Borges, Einstein, tra gli artefici e i testimoni di questa rinascita. Che anche oggi è attuale — soprattutto per le tesi sul rapporto tra Stato e Chiesa, fede e ragione e per la difesa della democrazia. «La libertà di filosofare — si legge sul frontespizio del Tractatus theologico-politicus — si può concedere senza danno per la pietà e la pace dello Stato, ma, anche, essa non si può togliere senza togliere la pietà e la pace dello Stato». Sullo sfondo di queste tematiche, la decisione del filosofo di «ricercare un bene vero e condivisibile »: «qualcosa grazie al quale, una volta scoperto e acquisito, godessi in eterno una gioia continua e suprema».
Tale bene è Dio. Un Dio, certo, molto diverso da quello pensato dalla filosofia dopo l'annuncio cristiano: ad esempio non è persona, non ha volontà né scopi, include la natura, e quindi anche ciò che erroneamente gli uomini credono male e peccato. E tuttavia possiede quei caratteri della potenza e dell'eternità che sono propri di ogni modo in cui la tradizione filosofica ha pensato il divino.
Si tratterebbe di comprendere che anche alle radici di una filosofia come quella di Spinoza, così lontana dalle (sia pur grandi) abitudini concettuali della civiltà occidentale, è presente l'essenza stessa di quelle abitudini, il tratto decisivo rispetto al quale le pur profonde differenze tra Spinoza e i suoi avversari passano in secondo piano. «Alle radici», diciamo: perché si tratterebbe di scendere sul fondo dell'abisso su cui è sospeso il pensiero dell'uomo occidentale, e ormai dell'uomo planetario. Sin dall'inizio dell'Etica, il suo capolavoro, Spinoza distingue ciò che esiste necessariamente, cioè non è mai inesistente, ed è Dio, l'Eterno, da ciò che invece non esiste necessariamente, nel senso che non è sempre esistente ed è l'insieme delle «cose prodotte da Dio», esistenti nel Tempo. Ora, essenzialmente, radicalmente più decisiva del modo in cui Spinoza «dimostra » l'esistenza di Dio — e più decisiva di ogni altra «dimostrazione» di tale esistenza, proposta lungo la storia del pensiero occidentale — e la convinzione che le cose del mondo non esistono necessariamente: nel senso, appunto, che non sono sempre esistenti (anche se accadono necessariamente). Spinoza condivide questa convinzione con ogni altra forma (anche religiosa, dunque) del pensiero dell'Occidente.
Si dirà: è ovvio che la condivida! Infatti è la verità più evidente di tutte! E oggi si aggiunge: ed unica verità evidente!— Questo dire e questa aggiunta sono inevitabili. Infatti, anche se la cosa è tutt'altro che facile a comprendersi, l'onnipresente essenza della civiltà occidentale e appunto la convinzione che le cose del mondo non siano sempre esistenti e che questa loro non necessaria esistenza sia l'evidenza originaria o, addirittura, come oggi si conviene, l'unica evidenza assoluta.
Perché, allora, perdere tempo con ciò che oggi è rimasta l'unica verità fuori discussione, e non impegnarsi invece per diradare un poco le nebbie dell'incertezza che avvolge la vita dell'uomo? Proviamo a rispondere così: perché quanto sembra l'unica verità veramente fuori discussione è invece l'errare più profondo, e anche più nascosto. Ma come possiamo azzardarci a dir questo? Che presunzione! Ancora maggiore, la presunzione, se si tiene presente, che anche per la scienza moderna le cose del mondo non esistono sempre: esse sono, dopo non essere state, e tornano a non essere: sporgono provvisoriamente dal nulla.
Certo, sembra proprio un azzardo e una presunzione. Con i quali, tuttavia, acquista un maggior spicco il motivo per cui affermiamo che anche una filosofia come quella di Spinoza, così lontana dalle abitudini morali e concettuali dell'Occidente cristiano, e, ciò nonostante, profondamente solidale con l'essenza di tali abitudini. Anche a Nietzsche (che vede in Spinoza il pensatore a lui «più vicino») compete questa solidarietà.
Poi, si tratterà di pensare la follia di quell'essenza. Credere che le cose escano e ritornino nel nulla — ad opera di un Dio o da sole — non è forse credere che le cose siano nulla? non è forse credere che ciò che non è nulla sia nulla? e questa fede non è forse la mano più terribile e violenta? non uccide forse uomini e cose nel modo più originario e radicale, quello che sta al fondamento della violenza visibile che tutti sono capaci di scorgere? Sul fondamento di questa fede, ogni santità è la culla dell'omicidio e di ogni altra forma di annientamento.
Certo, è indiscutibile che per Spinoza (sulla scia di Seneca e in generale dello stoicismo) le decisioni umane e tutte le cose avvengono per «fatale necessità» (fatalis necessitas); che nessuna cosa può esistere diversamente da come esiste e che dunque ogni cosa è necessaria. Certamente! Ma nel senso che ogni cosa del mondo si genera e si corrompe necessariamente: non nel senso che non si generi e non si corrompa. Che tali cose escano dal nulla e vi ritornino seguendo o non seguendo un percorso inevitabile indica due prospettive che per quanto fortemente opposte hanno tuttavia in comune la convinzione decisiva e abissale: che le cose del mondo sono nulla. La stessa convinzione che accomuna nell'essenziale le esperienze in cui, lungo la storia dell'Occidente, si pone un Dio alla guida della produzione e distruzione delle cose e le esperienze dove invece si ritiene che tale produzione-distruzione non abbia bisogno di alcun Dio. Questa accomunante convinzione è l'«intima mano», assolutamente più intima e terribile di quanto possa supporre Herder, quando, volgendosi al «santo Cristo» e al «santo Spinoza», si chiede: «Quale intima mano congiunge i due in uno»?

Corriere della sera 30.6.07
Madrid: dipinti e disegni dell'artista olandese al museo Thyssen-Bornemisza
Van Gogh: i colori degli ultimi due mesi
di Julio Neira


Diciannove dipinti e quattro disegni di Vincent van Gogh, tre olii di Cézanne, due di Pizarro e uno di Charles François de Daubigny, compongono la prima mostra dedicata agli ultimi due mesi di vita del geniale artista olandese, trascorsi a Auvers- sur-Oise. Il 20 maggio del 1890, Van Gogh scese dal treno in quel piccolo paese ad un'ora da Parigi. La settimana prima era uscito dal manicomio di Saint-Rémy, dopo avervi trascorso un anno da internato. Due mesi più tardi, il 27 luglio, si sparò un colpo di pistola.
In soli settanta giorni Van Gogh realizzó altrettanti quadri e una trentina di disegni. Fra i dipinti ora esposti, Il giardino di Daubigny, Case di Auvers e Due donne nel bosco.
Auvers era abitata da pastori e contadini, che soffrivano la modernizzazione del paesaggio francese, rappresentata dalla sostituzione delle capanne tradizionali con ville moderne con tegole d'ardesia o i tetti dai colori vivaci.
Questo contrasto, che sará il tema principale dei dipinti che Van Gogh realizzerà fra maggio e giugno, simboleggia anche la sua crescita come pittore, dagli insegnamenti della tradizione pittorica olandese fino al colorismo moderno appreso dagli impressionisti di Parigi.
A luglio saranno i campi spogli, essenziali, sprovvisti di pretesti narrativi, l'oggetto della sua continua ricerca del sublime.
Disegnare con il colore è il tratto dominante di tutta la sua tarda opera. Nel periodo di Auvers, Van Gogh si attiene meno ai particolari naturalistici, il suo tratto si moltiplica e si contorce, producendo arabeschi fra alberi e case, oscillazioni nei campi di grano, movimenti e ritmi sinuosi di enorme vitalità dinamica (Paesaggio al crepuscolo, Campi di grano, Campo con papaveri).
Nella ultime opere, Van Gogh opera una sorta di sintesi fra le due tappe opposte e complementari del suo lavoro. Questa magnifica mostra permette di assistere all'apoteosi emozionale e tragica di una vita dedicata ossessivamente alla pittura.
(Trad. di Patrizia Olgiati)
VAN GOGH: GLI ULTIMI PAESAGGI, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza, sino al 16 settembre. Tel. 0034/913690151

Cara Unità,
per una volta – tanto per cambiare – facciamo noi un po’ di ingerenza nello Stato vaticano e chiediamo formalmente a Joseph Ratzinger che desista dal suo tentativo di ripristinare la messa in latino. Avevamo già colto nel nuovo papa la propensione a ritornare indietro nel tempo, dalla sua scelta di orpelli come il camauro e la mozzetta... Ma quella di imbrogliare i suoi seguaci ricorrendo a una lingua che essi non conoscono (vieppiù rivolgendo loro la schiena, come previsto dalla messa tridentina), è una mossa troppo scorretta! Se non torna sui suoi passi saremo costretti a evocare lo spirito di Martin Lutero, che ritraduca a beneficio di tutti i fedeli e in tutte le lingue la parola del Signore. Il loro Signore.
Paolo Izzo, Roma

venerdì 29 giugno 2007

Liberazione 29.6.07
Il Piddì verso Montezemolo
Allarme rosso per la sinistra
Il discorso di Veltroni pone il partito fra i moderati
di Ritanna Armeni


Non ci aspettavamo che Veltroni facesse un discorso di sinistra, che collocasse quindi il nascente Pd, anche elettoralmente oltre che culturalmente, nella tradizione e nello spazio politico della sinistra. E, tuttavia siamo rimasti sorpresi perché il discorso del candidato leader sul futuro partito democratico è stato talmente netto da provocare anche in chi si aspettava più o meno quei contenuti una reazione istintiva e immediata: sì in questo paese ora è davvero urgente far nascere una forte sinistra perché se questo non avviene in tempi brevi, le conseguenze potrebbero essere molto serie. Nei prossimi anni (e non nei prossimi venti, ma nei prossimi due) potremmo assistere non solo al suo indebolimento, ma alla sua emarginazione nella società e alla sua irrilevanza nel quadro politico.
Questa affermazione non vuole essere né allarmistica, né vittimistica. Essa muove dalla constatazione che il discorso del futuro leader del partito democratico e del presumibile nuovo candidato premier colloca il Pd in modo organico tutto all'interno dell'area moderata attribuendo nei fatti ai temi classici della cultura politica della sinistra o un significato negativo o un senso al più evocativo.
Walter Veltroni questa volta non si è limitato a raccontare i suoi sogni per un mondo migliore, ma ha cercato di dare una risposta ai problemi e questa risposta è stata moderata, americana, corretta, come è prassi anche del liberalismo, da un atteggiamento di solidarietà e compassione, un richiamo alla dirittura morale e al senso di responsabilità della politica. Stefano Bocconetti nell'articolo di ieri ne ha fatto un'analisi puntuale e obiettiva. Ma la controprova di quello che Bocconetti sosteneva ieri e che questo articolo sostiene oggi sta nelle reazioni e nei commenti al discorso di Veltroni dell'area moderata e borghese del paese. Le reazioni positive del presidente della Confindustria che si è profuso in elogi per una relazione che «è entrata nel merito dei problemi sollevati dalla Confidustria» fanno il paio con il giudizio del Corriere della sera.
Ieri, nell'editoriale del vicedirettore Dario Di Vico, ha elogiato gli attacchi che il futuro capo del partito democratico ha fatto alla sinistra «che non fa costruire la Tav, che difende solo gli occupati e lascia al loro destino i giovani, che preferisce lottare contro la ricchezza piuttosto che contro la povertà, che gode quanto più la pressione fiscale è alta e si ritrae quando occorre tutelare la sicurezza dei cittadini».
Di Vico naturalmente fa una caricatura della sinistra a suo uso e consumo, che si potrebbe commentare con molta ironia, qualche numero e qualche consiglio di buone letture, ma non è questo l'importante. Il punto è un altro. Se è vero che questa è l'idea della sinistra che suscita Walter Veltroni all'editorialista, se a partire da questo giudizio si arriva ad un approdo moderato, benedetto dai maggiori rappresentanti del padronato, e dal "partito" che si riconosce nel Corriere della sera, quali scenari si aprono nella politica italiana? Quale futuro si può prevedere per il governo Prodi? Quali conseguenze possono esserci nell'Unione, cioè nella coalizione che sostiene il governo? Domande alle quali non è possibile dare una risposta oggi, ma che sono di strettissima attualità e rispetto alle quali non si può far finta di niente.
I tempi, infatti, ancora una volta sono strettissimi ed esigono risposte rapide. Se è vero, come molti osservatori sostengono, che con il discorso di Veltroni è cominciato il conto alla rovescia per il governo Prodi; se è vero che il progetto politico del probabile futuro premier costituisce una virata a destra rispetto al programma dell'Unione, che cosa avverrà di quella complessa e delicata alleanza fra sinistra moderata e sinistra radicale che finora ha sostenuto il governo? So bene che molti ne auspicano la conclusione e vedono nella emarginazione della sinistra radicale e di quelli che vengono definiti i suoi "ricatti" finalmente la quadratura del cerchio nella complessa vicenda della governabilità italiana. Finalmente potrebbero farsi una riforma elettorale presidenziale, una controriforma delle pensioni, una riduzione compassionevole e moderata della precarietà, un taglio come si deve alla spesa sociale. Finalmente si potrebbe assestare un bel colpo a questi sindacati che si ostinano a difendere i lavoratori e i pensionati. E continuare a dire tante belle parole sull'ecologia e senza paura di smentirsi altrettante belle parole sulla Tav e sulle grandi opere di acciaio e cemento. Si potrebbe dare un sostegno ai Dico, ma senza esagerare con la laicità e alla famiglia, che rimane importantissima, sperando che la Chiesa di Ratzinger non infierisca, altrimenti sono guai.
Ma davvero tutto questo potrebbe farsi? Ne sono proprio sicuri quelli che ieri hanno applaudito Walter Veltroni? Alcuni dubbi potrebbero esserci. Un dubbio si chiama sinistra, quella sinistra ancora divisa, ma che anche in questi ultimi giorni, è riuscita a procedere unita, a spostare significativamente sulle pensioni la posizione del governo e a sostenere la lotta del sindacato. Se riesce a fare un passo avanti, se riesce abbandonando pregiudizi e rendite di posizione a ricostruire la sua esistenza nel nuovo quadro politico che si sta delineando non solo salverà gli interessi dei lavoratori e delle classi meno abbienti, ma salverà sé stessa. Il discorso di Walter Veltroni, il suo spostamento nell'area moderata, ha avuto il merito di renderlo ancora più chiaro.

Liberazione 29.6.07
Il presidente della Camera: con la discesa in campo del sindaco di Roma «nasce la quarta via», la guardiamo con «interesse ed esternità»
Il segretario del Prc Giordano: «Lavoriamo ad una soggettività unitaria. Entro due settimane ci si riunisca tutti» e lancia l'idea di liste comuni nel 2008
Bertinotti: «C'è un asse Veltroni-Royal. Serve una sinistra unitaria e plurale»
di Angela Mauro


Con Veltroni in campo, è «ancora più forte il problema della costruzione di una sinistra di alternativa, plurale e unitaria». All'indomani dell'outing del sindaco di Roma al Lingotto di Torino, Fausto Bertinotti ribatte su quelle che, a suo avviso, sono le urgenze delle forze che stanno a sinistra del Partito Democratico. Il presidente della Camera ragiona sugli scenari politici in rapida evoluzione, dopo l'avvio del percorso di Ds e Margherita verso il Pd, la scissione di Sinistra Democratica dalla Quercia, il cammino intrapreso da Rifondazione nella Sinistra Europea, l'esperienza del governo Prodi e, ora, la "corsa" (in netto vantaggio) di Walter Veltroni verso la guida del Partito Democratico e, presumibilmente, anche verso quella di un futuro esecutivo di centrosinistra. In particolare, l'ultimo dei fattori elencati introduce una novità nello scenario non solo italiano, ma della intera «Europa latina», dice Bertinotti. Walter come Ségolène, è la riflessione del presidente della Camera, il quale vede, nella coppia, gli eredi di un altro duetto molto omogeneo: Blair e Schroeder. «La Terza Via, quella cultura liberal sociale che vede il suo esaurimento nel mondo anglosassone, rinasce qui, lungo un'asse franco-italiano e diventa Quarta Via», afferma Bertinotti. Lo stampo è lo stesso: la Quarta Via non cambia i contenuti della Terza, ma si manifesta con un «involucro modificato». Sia Royal che Veltroni, infatti, continua il presidente della Camera, operano su una «modifica dei partiti dai quali provengono». In Francia, la socialista Ségolène ha tenuto in buon conto le possibili alleanze con il centro di Bayrou; in Italia, Veltroni è il candidato forte per la leadership di un nuovo soggetto, il Pd, nato dalla fusione di Ds e Dl e dunque dalla conclusione delle opzioni politiche che separatamente rappresentavano. La Quarta Via, inoltre, è caratterizzata da un elemento di «forte personalizzazione della politica» e presenta connotati diversi in fatto di «linguaggio, generazione dei leader, uso della loro immagine sui media».
Di fronte a tutto questo, insiste Bertinotti, la sinistra di alternativa, che è «esterna» alla cultura di Ségolène e di Veltroni, ha la necessità di costruire un «profilo unitario e plurale». Come guardare ai due nuovi fenomeni del panorama politico? «Con interesse ed esternità», risponde il presidente della Camera, per dire che «insieme si può stare, ma la sinistra di alternativa è un'altra cosa rispetto a loro».
Focus sull'Italia. La possibilità di alleanze elettorali e di governo con Veltroni va verificata. Bertinotti rimane dell'idea (già formulata a metà giugno in occasione della nascita della Die Linke tedesca) che «non sta scritto da nessuna parte che la sinistra debba stare al governo, ma se ci sta, se ci sono le condizioni per cui possa starci, è meglio».
Per Bertinotti, il punto nevralgico è accettare «la sfida per l'egemonia». Sia chiaro: con Blair-Schroeder o con Veltroni-Royal, «i due filoni principali della cultura politica restano gli stessi. Da una parte, la sinistra riformista, dall'altra quella di alternativa». Tertium non datur. Il quadro, è il ragionamento, non offre spazi per terze opzioni, come quella rappresentata da una eventuale Costituente socialista, cui tengono in diversi, anche all'interno di quelle forze che si collocano a sinistra del Partito Democratico (Angius per esempio non fa mistero della propria collocazione in Sd, nel socialismo europeo, ma nè con Bertinotti, nè con Veltroni).
Il "tifone Walter" ispira riflessioni a sinistra. Il segretario del Prc Franco Giordano lancia la sua proposta a Sd, Pdci e Verdi: «Liste unitarie alle prossime amministrative». Giordano cita gli esempi di Taranto, Gorizia, L'Aquila nella tornata elettorale di alcune settimane fa. «Quando emerge la possibilità concreta di poter far valere questa idea alternativa di comunità - dice - noi non temiamo rivali, neanche quando abbiamo contro il Pd». Per riuscire, però, è necessario «far lievitare un processo reale, di popolo, far maturare le condizioni nei territori». Nel contempo, «dobbiamo lavorare a una soggettività unitaria che non neghi le identità di nessuno o le faccia diventare un freno», continua il segretario di Rc. E lancia l'altra proposta: «Entro due settimane ci si riunisca tutti: vertici dei partiti disponibili, sindacati interessati, associazionismo di base, movimenti, per organizzare in tutta Italia una grande campagna basata su contenuti precisi. Un'assemblea di massa per ricostruire una sinistra unitaria, pacifista, antiliberista».
E' d'accordo Paolo Cento dei Verdi. A maggior ragione nell'era Veltroni, spiega, «dobbiamo produrre un fatto politico nuovo a sinistra e accelerare sulla costruzione di un polo arcobaleno, antiliberista e pacifista». La proposta d'azione del sottosegretario allo Sviluppo Economico parte dal «coordinamento nazionale, pensato da Giordano», per farne un laboratorio che approdi a una «costituente federalista delle sinistre». Ma attenzione: «Veltroni sarà leader del Pd e molto probabilmente anche premier. Sarebbe sbagliato contrapporsi, con lui bisogna dialogare perchè il prossimo governo si regga su due gambe: il Pd e il polo di sinistra».
Competizione e interlocuzione, dunque. Perchè a sinistra, anche dentro Rifondazione, un'altra esperienza di governo viene fortemente auspicata e non ci si scoraggia di fronte all'approccio spiccatamente di destra di alcuni passaggi del discorso di Veltroni (sicurezza, immigrazione). Si confida nel confronto e nell'approdo ad un programma condiviso. E' ottimista Carlo Leoni, ex diessino e veltroniano, ora in Sd: «Veltroni è persona di dialogo, non di rottura. La sinistra che dobbiamo costruire sarà alleata del Pd». Certo, per essere riconosciuti come interlocutori bisogna «costruire la sinistra in Italia». Partendo dal basso, perchè al vertice «le cose si stanno muovendo». Spiega Leoni: «Possiamo fare tutti i coordinamenti nazionali che vogliamo, ma è importante agire sul territorio, nei posti di lavoro, dare avvio a un percorso partecipato e aperto». Con di fronte un Partito Democratico guidato da Veltroni «non basta "gufare" per il loro insuccesso...».
Innegabile però che con la discesa in campo del sindaco di Roma, gli ex diessini di Sd, alle prime esperienze fuori dall'ombra della Quercia, siano al centro della curiosità mediatica e non solo. Colpisce l'appello di Giuseppe Caldarola, uscito dai Ds in contrasto con la modalità di costruzione del Pd e non confluito nell'area di Mussi, che si dice pronto («Ci sto pensando, ma Walter mi piace») a tornare alla casa madre. «All'apertura di Veltroni (che a Torino ha esplicitamente teso la mano agli ex colleghi di partito, ndr.) voglio rispondere con un'apertura e proporla anche agli amici con i quali in questi mesi ho condotto una battaglia - spiega -. Tra questi Gavino Angius, ma non solo. Anche i socialisti». Ma Leoni non ha dubbi: «Angius ha chiarito che sta nel socialismo europeo e il Pd non sta lì. Ho molta stima di Walter, ma noi abbiamo lasciato i Ds perchè contrari al Pd a prescindere da chi l'avrebbe guidato. Caldarola è libero di scegliere ciò che meglio crede, noi abbiamo già scelto». E, se non bastasse, c'è Cesare Salvi: «Sinistra e Veltroni, anzi sinistra o Veltroni: sono cose incompatibili». Quanto a future alleanze di governo: «L'accordo con Prodi è stato catastrofico perchè il governo va male», dice Salvi. Con un altro leader, «non può che andare meglio di così». E segna una distanza netta da Veltroni anche Pino Sgobio dei Comunisti Italiani: «Walter rafforzerà il Partito Democratico e il versante moderato della coalizione di centrosinistra. Noi però siamo sempre più convinti che oggigiorno non serva più la politica delle mezze misure e delle riforme morbide, ma quella delle scelte nette, chiare e decisive: il lavoro e le pensioni, ad esempio, sono per eccellenza il metro su cui il centrosinistra dovrà misurarsi».
Ma ce n'è anche un altro di campo su cui misurarsi: la legge elettorale. Veltroni è stato chiaro a Torino, lodando il modello francese. E ieri la presentazione di un disegno di legge dell'Ulivo (a firma di Anna Finocchiaro) ispirato al doppio turno d'oltralpe ha scatenato la sinistra di alternativa. «Tutto si complica nel confronto sulla riforma della legge elettorale», dice Massimo Villone, senatore di Sd. La presentazione del provvedimento all'indomani dell'appello di Veltroni «fa entrare nel confronto parlamentare la dialettica interna al Pd e questo non può produrre effetti positivi». Anche Giovanni Russo Spena, capogruppo del Prc al Senato, condanna «l'insistenza dell'Ulivo sul doppio turno alla francese, già bocciato dalla maggioranza delle forze politiche» e rincara sulla «campagna di An a favore del referendum». Si tratta di «segnali pessimi, di ostruzionismo mascherato per agevolare il referendum. Insistiamo sul confronto parlamentare: noi siamo per il modello tedesco».

Liberazione 29.6.07
L'orazione del Lingotto risponde all'"uomo di mezzo"
Un'Italia di mezzo che non lascerà niente al futuro
di Antonella Marrone


Lunghissimo da leggere il discorso di Veltroni. Ma è una fatica che vale la pena fare per entrare nel cuore del nuovo Partito Democratico. Un'orazione, quella del Lingotto, che non lascia dubbi, che risponde in maniera quasi ossessiva alle domande del folliniano uomo di mezzo. Enunciati con cui non si può non essere d'accordo: ammortizzatori sociali per i giovani, lotta all'evasione fiscale, uguaglianza di opportunità (il figlio dell'operaio come il figlio dell'imprenditore). Enunciati, però. Perché Veltroni non può non sapere, ad esempio, che il figlio dell'operaio e quello dell'imprenditore partiranno sempre impari in una società basata sul potere economico e sulla separazione dei generi. Quella meritocrazia che, tornata alla ribalta come panacea contro le ingiustizie sociali, fa ridere. Si fa un bel parlare di operai e precari, di donne e di quote rosa. Finché si resta così, a rimorchio della finanza, e degli imprenditori, non saranno certo il pddì e il suo nuovo leader a far cambiare le cose. Si avrà qualche tesoretto in più, più pizzardoni o ghisa in giro, ma il rischio non è quello di trasferire ai giovani, come ha detto Veltroni in uno dei passaggi più contraddittori ed inquietanti, i disastri dei conflitti degli anni Settanta, ma di trasferire niente di più di quello che ha già trasferito la terza via, ossia un modello di «riforma del capitalismo» che ha prodotto quello che è sotto gli occhi di tutti, e nessun valore. Né umano né politico. Neanche la laicità di uno Stato sovrano. Per questo non ha senso parlare di solidarietà, di patto fra generazioni. La solidarietà è un valore caro ad altre epoche, ad altre lotte. A periodi in cui il conflitto nonviolento, non si rifiutava. Per questo se da una parte non ci ha stupito la visita a Barbiana, dall'altro fa sorridere l'omaggio ad un uomo, un religioso come Don Milani che, sulla solidarietà sociale aveva fondato il proprio lavoro pedagogico, e non certo sulla falsa "meritrocrazia".
Ogni frase, ogni punto, ogni punto e virgola, del discorso di Torino, hanno un significato. E anche un po' del suo contrario. Questo spiega il gradimento al 72% (sondaggio Ipr di Repubblica.it organo ufficiale, del nascente partito) del discorso.
Difficile insomma non condividere l'ansia per il proprio paese, il desiderio di giustizia sociale, la spinta verso l'Europa. Anche lo spinoso tema della sicurezza mette d'accordo un vasto arco parlamentare e popolare: chi darebbe del razzista al padre che si preoccupa per la figlia in un quartiere che non riconosce più? Partiamo proprio da questo punto, il quarto, ma sappiamo di poterlo dire, non il meno importante (in americano, last but non least). Un quadro che fa riferimento sostanzialmente alla criminalità "straniera", il bisogno di inclusione (parola usata solamente due volte nel discorso e una per i giovani precari) si affianca al bisogno di mettere al sicuro la cittadinanza dai migranti. Come? Più gente in strada, dice, nel senso di forze dell'ordine, ipotizzando un decisivo salto di qualità nella tutela della sicurezza delle persone e delle imprese. Perché "sentire" la presenza fisica della divisa tranquillizza il cittadino e scoraggia il delinquente. Sarà per questo che qualche burlone sul Web lo ha chiamato il discorso di Silvio Veltroni, perché viene subito in mente lo strombazzato poliziotto di quartiere?
Andiamo avanti. Molto ambiente, è stato notato da tutti. Con qualche conoscenza del problema in termini climatici, antropologici e botanici, forse, ma con decise incertezze per quanto riguarda il discorso "economico" legato al tema e senza dubbio un vuoto sul quello che è stato l'ambientalismo nel nostro paese negli ultimi dieci anni, almeno. «Quello a cui pensiamo è un ambientalismo del si». Peccato che l'Italia più ambientalista sia piena di no. E come farà il piddì a far passare la sua politica senza entrare in conflitto (termine aborrito dal neo incoronato leader) con le tante realtà locali che prima di veder sventrare, rovinare, deturpare la propria terra da futuribili tecnologie vogliono poter dire la loro, contare, partecipare? In effetti la parola partecipazione non compare mai nel discorsone. Vaga menzione al verbo partecipare viene fatta solo quando si parla delle liste per il 14 ottobre. Partecipazione poca, dunque. Ma si tratta di una democrazia decisionista, che sa ascoltare, valutare, eppoi decidere il meglio per tutti.
Una democrazia che, a leggere il testo è stata sì buona dal dopogerra fino agli anni Sessanta, ma poi è degenerata fino a portare il paese nella palude in cui si trova oggi. Significativo ed inquietante questo passaggio: «C'è poi un capitolo, del patto fra le generazioni, che dobbiamo avere il coraggio di non dimenticare. A carico di noi tutti, ormai da vent'anni, pesa un ingente debito pubblico, conseguenza dei conflitti sociali degli anni '70 e dell'irresponsabilità degli anni '80. Anche questo, rischiamo di trasferire alle generazioni più giovani e ai nostri figli». E più lo leggi e più ci resti male. Perché in tutto il sermone quello che poi non si salva è la storia passata. La storia passata che nessuno vuole vincolante, nessuno vuole che sia la lapide del futuro. Ma insomma una cosa buona, quella democrazia - che non sarà smagliante e moderna come quella del piddì - avrà pur fatto. Se non altro ha garantito che vicino all'odierna "Italia di mezzo", ci sia ancora un Italia a sinistra.

Liberazione 29.6.07
Al Parlamento francese Verdi-Pcf uniti in un sol gruppo


Si chiamerà "Gruppo della sinistra democratica e repubblicana" e riunirà all'Assemblea nazionale Verdi e Partito comunista francese (oltre a due eletti dei territori d'Oltremare). Un gruppo tecnico, con presidenza a rotazione, che non preannuncia una fusione delle forze politiche, ma anche una risposta alle difficoltà delle presidenziali e allo stradominio Ump-Ps alle legislative che lasciano ai comunisti meno dei 20 seggi necessari per un proprio gruppo parlamentare. I vantaggi sono tecnici (risorse, tempi di parola, ecc.). Ma anche politici. Il desiderio del partito socialista di inglobare ambientalisti e sinistra è fallito. Solo il Prg ha raggiunto il gruppo Ps. E i dissidenti di sinistra dei socialisti non hanno accettato l'idea di un gruppo più ampio di sinistra. Dentro al Pcf diverse le reazioni, per Patrick Braouezec, si tratta di «un matrimonio d'interesse che potrebbe essere la premessa a una forza d'alternativa della sinistra»; per André Gérin è invece, «una malessa», necessaria, ma indigesta.

il manifesto 29.6.07
Franco Giordano: a luglio un'assemblea aperta per lanciare la sfida al Pd moderato di Veltroni
«Sinistra unita alle urne del 2008»
Per il segretario di Rifondazione «per essere efficaci nel governo e ricostruire la sinistra bisogna procedere in modo partecipato senza negare le identità di nessuno. Il partito non si scioglie». Congresso a febbraio
di Matteo Bartocci


Accelerare l'unità a sinistra per andare insieme alle elezioni amministrative dell'anno prossimo ed essere subito più efficaci nell'azione di governo. In una pausa dopo giorni al cardiopalma di trattativa su welfare e pensioni, Franco Giordano rilancia l'esigenza di un percorso unitario e «sfida» il candidato Veltroni a misurarsi con il resto della coalizione.
Per il segretario di Rifondazione «sciogliere» il partito è un'idea del tutto «infondata»: serve invece uno scatto dal basso e di massa per arrivare a un soggetto unitario con chiunque, «partito, sindacato, associazione o movimento, si dica disponibile». Una lunga marcia che passerà, alla fine di gennaio, anche per il primo congresso di Rifondazione senza Bertinotti dal '94. «Attorno allo scalone, alla legge 30 e alla precarietà - esordisce Giordano - si è aperta una partita simbolica che dirà molto dell'identità politica e sociale di questo governo. Nessuno infatti ha ancora dimostrato che c'è un problema di compatibilità economica. Perché con l'aumento dei contributi i lavoratori dipendenti l'abbattimento dello scalone se lo sono pagato da soli. E con gli aumenti contributivi dei co.co.co si possono avviare tutele ancora più significative per i giovani. La partita quindi è compiutamente politica ma parla della vita reale di migliaia di lavoratori.
Ma la trattativa si è arenata proprio sullo scoglio più grande, lo «scalone« Maroni.
Bisogna discutere e cancellarlo subito come da programma. Lo dico nella maniera più semplice, voglio poter tornare a Mirafiori e dire in due parole: quello che abbiamo promesso abbiamo fatto. Per tutto quest'anno abbiamo sempre dovuto contrastare l'iniziativa dei poteri forti che in più modi hanno condizionato l'azione del governo. Alle aziende non sono bastati nemmeno i 10 miliardi di euro che riceveranno tra cuneo fiscale e fondi ordinari, gli imprenditori dimenticano che sono loro i veri assistiti di questo paese.
Sulla precarietà però alcuni attribuiscono proprio a Veltroni di aver speso al Lingotto parole importanti.
Beh, allora Walter potrà darci una mano a superare la legge 30. Perché altrimenti, come dire, c'è troppa distanza tra la sfera eterea dei princìpi e l'esigibilità concreta dei diritti sociali. Una distanza in cui maturano quel disincanto e disillusione che purtroppo rappresentano l'Italia di oggi. Dal suo discorso mi aspettavo posizioni diverse, la fredda ragione mi fa dire che il Pd è un partito moderato e Veltroni lo interpreta al meglio. Su alcuni punti è perfino preoccupantemente moderato.
Per esempio?
Al di là delle proclamazioni un po' algide è stridente il contrasto tra le dichiarazioni sull'ambiente e sul clima e il sì alla Tav, al carbone o ai rigassificatori. Anche sul tema della sicurezza mi pare aver scelto di assecondare la fobia ideologica delle destre che costruiscono sistematicamente il nemico per sfuggire il conflitto sociale. Vorrei dire a Walter: attenzione, così si alimenta un'identità territoriale ostile e si porta acqua al mulino di politiche securitarie.
E sul patto tra generazioni?
Così come l'ha presentato mi sembra una trita contrapposizione tra diritti degli anziani e dei dipendenti con quelli dei giovani. E' un classico del pensiero liberal-conservatore pensare di distribuire poche risorse tra lavoratori e precari, tra giovani e anziani, senza aggredire le cause della loro disuguaglianza. Bisogna redistribuire i profitti e orientare i consumi verso nuovi stili di vita, in breve, avviare a critica le forme attuali del capitalismo che producono quelle disparità e aggrediscono la natura. E' come se Walter guardasse alla «sua» Africa dimenticando l'aggressione a quel continente dell'Occidente capitalistico.
Sarà lui a candidarsi a palazzo Chigi dopo Prodi?
Intanto è il più autorevole candidato a guidare il Pd. Ma se in futuro ci saranno le condizioni per un accordo, per poter essere leader dell'Unione ci sono due passaggi inderogabili: da un lato le primarie, perché non sta scritto da nessuna parte che il candidato del Pd è anche il candidato dell'Unione, dall'altro un confronto sul programma, perché su alcuni temi le differenze ci sono e restano.
La «discesa in campo» di Veltroni non costringe anche la sinistra ad accelerare il suo travagliato percorso unitario?
A prescindere dal Pd dobbiamo comunque accelerare il processo di unità a sinistra. Dobbiamo lavorare a una soggettività unitaria che non neghi le identità di nessuno e non le faccia diventare un freno. Io propongo che entro due settimane ci si riunisca tutti: vertici dei partiti disponibili, sindacati, associazioni e movimenti interessati per organizzare in tutta Italia una grande campagna basata su contenuti precisi. Un'assemblea di massa per ricostruire una sinistra unitaria, pacifista, antiliberista e laica. L'attivazione e la vera partecipazione delle persone è il solo modo per alimentare le speranze e l'entusiasmo di tanti e dare più efficacia all'azione nel governo. Dobbiamo farlo subito, perché se a ottobre il Pd sceglierà il suo leader noi, che abbiamo un'altra idea di partecipazione, dobbiamo rispondere con i contenuti e investire sul programma.
E' un percorso che significa sciogliere Rifondazione?
Chiunque entra in questo processo con l'idea dello scioglimento ha un'idea infondata e rischia di mettere le braghe al mondo. Non si sciolgono le identità. Se l'obiettivo è portare tutti a costruire questa nuova soggettività saranno il processo e i suoi protagonisti reali a deciderne le forme concrete. Non mi interessano precipitazioni politicistiche né voglio dare a nessuno l'alibi di chiamarsi fuori. Rifondazione, si sappia, investirà tutta se stessa e la sua innovazione politica per mettersi a disposizione di questa sinistra unitaria. Come si è visto alla nascita della Sinistra europea che è e sarà decisiva in questo percorso.
Questa accelerazione rende necessario avvicinare anche la data del congresso?
Al comitato politico nazionale di metà luglio proporrò un congresso ordinario da tenere subito, all'inizio dell'anno. Sarà un passaggio molto importante, come richiede la fase politica.
A gennaio del 2008 le amministrative saranno dietro l'angolo. La nuova sinistra si presenterà sotto un unico simbolo già alle elezioni?
E' la mia ambizione. Ma per poter essere efficaci dobbiamo far lievitare un processo reale, di popolo, e far maturare le condizioni nei territori. Perché quando emerge la possibilità concreta di poter far valere questa idea alternativa di comunità, come è successo a Taranto, a Gorizia o all'Aquila, noi non temiamo rivali. Neanche quando abbiamo contro il Pd.

il manifesto 29.6.07
Montezemolo assume Veltroni
di Alessandro Braga


Il «vento nuovo percepito dai cittadini», come lo ha definito lo stesso Walter Veltroni il giorno dopo il suo discorso al Lingotto di Torino, è stato sicuramente percepito e apprezzato dal presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo. Che ieri si è infatti affrettato a incensare il segretario «in pectore» del partito democratico.
«Dopo la nostra assemblea - ha detto Montezemolo - poche personalità politiche erano entrate nel merito delle questioni da noi sollevate. Una di queste è stato Veltroni». Adesso la speranza è che «si possa aprire una nuova stagione con una classe politica moderna e vicina ai problemi veri del paese». E possibilmente anche delle industrie.
Del resto nel suoi cento minuti di discorso torinese Veltroni non ha lesinato parole come «rischio», «concorrenza», «merito», «innovazione». Parole dolci per Montezemolo, che ha chiosato infatti la discesa in campo del sindaco capitolino con un «molto bene».
Eppure poco più di un mese fa Montezemolo aveva attaccato duramente il governo e una classe politica «che teme il cambiamento», e non osa «fare scelte coraggiose». Esternazioni che il premier Romano Prodi aveva liquidato con un semplice «si commentano da sole». Un Montezemolo che vira di centottanta gradi insomma rispetto alle sue posizioni di qualche tempo fa nei confronti del centrosinistra e si schiera tra gli estimatori di Veltroni. Che ringrazia per le parole di stima di una persona a cui è «molto affezionato» e che «ammira tantissimo». E poi si affretta a «riabbracciare» Prodi specificando che la sua candidatura non indebolirà l'esecutivo, anzi «piuttosto il contrario», dato che «il paese ha in questo momento un grande bisogno di stabilità» e si augura che «questo governo possa andare avanti tanto quanto deve». Senza specificare «quanto deve» (...).

il manifesto 29.6.07
Reportage dagli Opg L'Ospedale psichiatrico giudiziario in Sicilia. La follia nell'obiettivo
La processione del dolore
Costruito nel 1925, l'opg di Barcelloba Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, è stato il primo manicomio giudiziario del regno d'Italia. Ancora oggi è attivo, ma pur essendo ben organizzato è ormai una struttura al limite della capienza. E delle sue possibilità
di Dario Stefano Dell'Aquila


Barcellona Pozzo di Gotto (Me). Sono circa le 18 quando, come ogni anno, la statua di San Francesco giunge, sulle note scomposte della banda, al limite dell'ingresso dell'Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. La folla di colpo si arresta, ai limiti del piccolo campo d'erba, all'interno del quale una parte dei circa duecento internati attendono. A spalle, barcollante, la statua è portata nel piccolo spazio verde, tra gli internati che gridano «Viva san Francesco». La banda riprende a suonare, partono i fuochi di artificio. Padre Peppe Insana, battagliero, da sempre impegnato dalla parte degli internati, guida le operazioni, mentre la coda del corteo scruta attenta, senza mai varcare il limite del campo.
Nel frastuono che segue, mentre un internato coperto di una vecchissima e consunta giacca di velluto continua il suo pellegrinaggio per le sigarette, un altro si avvicina e racconta. Racconta di un diverbio con un compagno di cella e degli agenti che lo immobilizzano e gli dicono «Adesso ti portiamo in seconda.» «Non l'ha deciso il medico, capisci, l'hanno deciso loro, capisci?» Sorrido, sorride, una sigaretta e se ne va via. Rientriamo nel plesso principale assieme alla fiumana di internati, che a passo incerto, con abiti lisi, ritorna in cortile.
La seconda sezione
L'Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona è composto da sei blocchi. Hanno in comune un cortile interno, stile liberty, dove gli internati effettuano la socialità. E' il primo Manicomio Giudiziario del regno di Italia, costruito nel 1925 e inaugurato dal ministro Alfredo Rocco in persona. E' la sola struttura ad essere nata e pensata come manicomio giudiziario.
Oggi un lungo muro di cemento la circonda, nascondendo il disegno originario. Il direttore, Nunziante Rosania, non è presente al momento della nostra visita. Ci accompagna lo psichiatra Antonio Levita, che snocciola i dati e racconta gli sforzi degli operatori. Su 187 internati, per almeno 77 vi è stata la proroga della misura di sicurezza. Circa un internato su tre è qui da più di cinque anni. Una quarantina sono qui da più di dieci anni. Quasi la metà è dentro per reati contro il patrimonio. Gli psichiatri a contratto sono sei, 1 educatore, una sessantina gli infermieri.
La seconda sezione è quella dei letti di coercizione. Quelli di Barcellona sono i primi a essere entrati in funzione nel '900. Un stanza molto grande e spoglia, ne raccoglie tre, uno di fianco all'altro. Un buco al centro per i bisogni e uno in terra, corrispondente, dove le feci vengono raccolte e lavate via. Gli unici dati disponibili ci dicono che vi sono stati 84 episodi di coercizione e che in questa struttura almeno 32 internati sono stati legati al letto di contenzione. La vicedirettrice, Carmen Salpietro, che ci ha raggiunti, spiega che è usata raramente e per poco tempo. Francesco Caruso, che ci accompagna, sfoglia il registro della sezione. Compaiono nomi con accanto l'annotazione della coercizione, ma è difficile individuare il momento della liberazione. Uno di questi nomi, Filippo L.M., si prolunga per pagine. Oltre dieci giorni di coercizione. Lo incontriamo mentre giriamo nei reparti, quasi tutti a custodia attenuata. Le condizioni dei reparti sono decenti, in alcuni casi buone in altri molto meno. Le celle arrivano anche a nove persone, di grandi dimensioni, un solo bagno. Fa eccezione la sezione nuovi giunti, celle singole, spoglie, prive di suppellettili
Filippo ha solo 21 anni, problemi di tossicodipendenza e di forti conflitti familiari. Non ha commesso reati di sangue, è figlio di una famiglia multiproblematica. Sfuggito ai servizi sociali, Filippo ha conosciuto il manicomio nel modo peggiore possibile. E' stato a letto di contenzione subito dopo il suo ingresso. Certe regole è meglio impararle da subito. Finita la fase di sospetto scherza con noi, ci segue nel nostro giro, chiede immediatamente le sigarette.
Arrivano le ragazze
Le storie che incrociamo sono ormai le stesse di questo girone infernale. Povertà, disagio e proroghe che hanno il sapore dell'infinito. Massimo, un ragazzone di circa 25 anni, si aggira come un bambino, con i pantaloni che gli cascano e un sorriso inebetito. Non riesce a tenere in mano la sigaretta che gli offriamo, ma ci segue con la stessa curiosità di un cucciolo. Dalle celle reazioni diverse, qualcuno si alza, qualcuno riconosce la delegazione («compagni, compagni..» grida un internato appena ci vede), qualcuno non alza nemmeno lo sguardo. In una cella di isolamento un internato, a torso nudo, sporge la testa, infilandola abilmente tra le sbarre. «Quando potrò uscire?». Promesse veloci e poi si fugge via. I.M. sembrava avercela fatta. Lui è uscito, è riuscito anche a sposarsi e ad avere un figlio, la cui foto campeggia al capo del letto. Poi una nuova crisi ed è rientrato, con una famiglia in più che questa volta l'aspetta.
Ora l'Opg è destinato a nuovi arrivi. Si stanno effettuando i lavori in un nuovo reparto per accogliere le circa 80 donne attualmente internate nell'Opg di Castiglione delle Stiviere, le cui sorti appaiono incerte. C'è perplessità per le capacità di una struttura che per quanto ben organizzata sembra essere ai limiti della capienza e che ha sofferto dei tagli alla sanità penitenziaria. Un trasferimento di circa 70 donne, effettuato in questi termini sembra più una deportazione che una scelta terapeutica.
Si uccide per non tornare in opg
Ma non tutti desiderano la chiusura di questi luoghi. E' una realtà sociale difficile quella di Barcellona, con povertà, disoccupazione e infiltrazioni criminali. Nella città dove fu ucciso il giornalista Beppe Alfano, dove alcune settimane fa il sindaco Candeloro Nania ha fatto il pieno di voti, regalando ad Alleanza nazionale la maggioranza in consiglio comunale, anche il manicomio è occasione di posti di lavoro.
Quando in passato si ventilò l'ipotesi di chiusura, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria chiese a gran voce che la struttura non fosse chiusa per evitare che gli oltre 140 nuclei familiari degli agenti di polizia «perfettamente inseriti nella realtà sociale, abitative e lavorativa della città» fossero trasferiti.
Nemmeno Giuseppe Contini, 48 anni, di Oristano, voleva essere trasferito. Si è impiccato alle sbarre della cella del carcere di Buoncammino (Cagliari) che lo ospitava da pochi giorni. Aveva trascorso gli ultimi cinque anni della sua vita in Opg a Barcellona. Era stato trasferito a Buoncammino per seguire le udienze del suo processo. Sabato, 9 giugno, ha deciso che non voleva essere riportato indietro e si è ucciso (ne ha dato notizia solo il quotidiano locale l'Unione Sarda).
Non a tutti è concesso di essere perfettamente inseriti.

il manifesto 29.6.07
Anversa degli Abruzzi
«Fuori di me», e oltre il muro Un viaggio nel disagio psichico
Cronache dalla malattia mentale di un fotografo e uno psichiatra
di Eleonora Martini


«Le cose normali come giocare, mangiare, ridere e piangere avevano un altro sapore, un altro senso. Solo io e l'altro me, sempre insieme e sempre due. La mia ombra e la mia anima; la mia coscienza e il mio istinto. Un solo interesse: capire, dove però forse non vi era nulla da capire. Una domanda, sempre la stessa: che ci sto a fare?». La mano si regge la fronte come a fermare i pensieri, sul viso un'espressione di sconcerto, nulla di più. L'immagine dell'uomo in maglietta gialla e azzurra, come tutte le altre di questo bellissimo viaggio nel disagio psichico compiuto dal fotografo Stefano Schirato, è sfocata, dai contorni poco nitidi. Il suo è uno sguardo obliquo, sghembo, sulla realtà, che non è mai completamente tersa, luminosa. Un punto di vista empatico con quello degli ospiti della struttura riabilitativa psichiatrica Il Castello che sorge nel piccolo centro di Anversa degli Abruzzi, dove Schirato ha trascorso molto tempo superando l'istintiva ritrosia e «resistendo alla naturale prima reazione di fuga nel riconoscere, come tutti, una parte di noi stessi nella malattia della mente». Ne è nato «Fuori di me - Out of my mind», un volume pubblicato per i tipi di Silvana Editoriale con prefazione di Ivano Fossati (p.144, 28 euro) che ci racconta i giovani utenti della comunità attraverso gli scatti del fotografo e la voce narrante dello psichiatra Michele Beatrice, «con due percorsi che si intrecciano senza accordo, né comune intenzione o comune vissuto». E che infine ci regalano la storia di «un paziente immaginario ma molto reale». Un viaggio dentro una comunità di relazioni che si libera dalle mura della struttura residenziale e si allarga a tutto il paese di Anversa che «ha accolto e condiviso la vita con i suoi ospiti, creando il contesto ideale per una rinascita sociale».
E mentre il fotografo fissava forse sulla pellicola «oltre che momenti di persone "diverse", momenti personali, interpretando proprie emozioni attraverso l'immagine di una persona malata», lo psichiatra si è fatto interprete, ha tradotto in parole gli attimi fissati dall'obiettivo, raccontando non la storia clinica dei pazienti, i loro traumi, le violenze subite, ma «il percorso emotivo, umano, sentimentale attraverso la psicosi o - meno gentilmente - attraverso quella che tutti definiscono follia».
«Fissarli negli occhi o vederli di spalle non fa differenza. Basta un particolare taglio di luce o un colore, anche solo avvertire la loro presenza, per sapere di essere stati nella loro stessa condizione innumerevoli volte - "così unici e così soli" - senza accorgercene», scrive Ivano Fossati. «Che enorme debito hanno gli artisti di tutti i tempi - ricorda il cantautore - verso quell'insondabile squilibrio che l'umanità ha bollato e prudentemente archiviato prima come follia, poi più ipocritamente come disagio mentale».
Schirato, che aveva già pubblicato nel 2003 per gli stessi editori «Né in terra né in mare», altro pregevole lavoro sul mondo dei marittimi imprigionati per anni sulle navi sequestrate nei porti e che vivono in una sorta di limbo del diritto, ritorna a guardare il mondo con gli occhi dei «fantasmi», esseri in carne ed ossa nascosti alla nostra percezione, dimenticati. «Vi ricordate quando al mio cospetto, malato e disastrato, cambiavate marciapiedi per non incrociarmi mentre urlavo, senza voce, la mia sofferenza? Non potete ricordarvi di me, ero solo uno dei tanti che ogni giorno sfiorate e che ogni giorno non vedete». «Io non sono nato in quel pozzo, ci sono finito. E in parte mi ci hanno spinto», interpreta, la voce narrante, lo sguardo dell'uomo in stivali da pescatore. Persone come tante, figli di «bella famiglia», di donne e uomini «buoni, onesti, timorati di Dio». E «più Dio era buono, più cattivo dunque ero io che non capivo e mi comportavo male. Mi dissero che così facevo piangere Gesù e io mi sentivo un verme sporco». Persone che a volte hanno saputo risalire il pozzo e uscirne. Non è stato facile ma oggi hanno una marcia in più perché conoscono quel buio profondo e non ne hanno paura. «Oggi vedo i sani benpensanti, modelli di vita per conoscenti e figli, consumatori e produttori di qualcosa, tutti intorno a un telefono per non sentirsi soli... Non mi sento diverso ma, scusatemi, nemmeno uguale».

il manifesto 29.6.07
Tra Darwin e Chomsky
Il linguaggio sulla soglia tra umano e non umano
In un libro di Francesco Ferretti per Laterza, titolato «Perché non siamo speciali», l'ipotesi che il linguaggio si sia evoluto in stretta dipendenza dalla capacità della nostra specie di ancorarsi al mondo fisico e a quello sociale
di Telmo Pievani

Ogni evoluzione vitale nel linguaggio è anche una evoluzione del sentimento
Thomas Stearns Eliot

Nei Taccuini della trasmutazione, i primi appunti di un giovane naturalista da poco rientrato da un viaggio di cinque anni attorno al mondo, Charles Darwin costruisce passo dopo passo l'impianto centrale della sua teoria alternando momenti di esaltazione e di sconforto. Nel luglio del 1838, quando ormai è quasi giunto alla formulazione dell'idea di selezione naturale, lo assale un dubbio pessimistico: «Forse non saremo mai capaci», scrive nel Taccuino C, «di ricostruire gli stadi attraverso i quali l'organizzazione dell'occhio, passando da uno stadio più semplice a uno più perfetto, conserva le proprie relazioni. Questa forse è la difficoltà più grande di tutta la mia teoria».
Il pericolo di cui Darwin si accorse fin dagli esordi consisteva nella possibile contraddizione fra due principi cardine della spiegazione evoluzionistica: se il cambiamento avviene gradualmente, senza soluzioni di continuità, e la selezione naturale ha bisogno di riconoscere, ad ogni stadio, un vantaggio adattativo per quanto infinitesimale, per svolgere quale funzione si sviluppano gli stadi incipienti di organi particolarmente complessi come un occhio o un'ala? Difficile immaginare che un abbozzo di ala possa servire per spiccare il volo...
Due ipotesi per un rompicapo
Il problema è che l'evoluzionista non può rinunciare né all'uno né all'altro dei principi di partenza: non può ipotizzare che l'occhio si sia formato tutto in un colpo, né che all'inizio la natura lo stesse plasmando finalisticamente «in vista» della sua utilità futura. Darwin, per risolvere il rompicapo, nella sesta edizione dell'Origine delle specie del 1872 è costretto ad avanzare due ipotesi ad hoc: o meglio, due predizioni rischiose, e come tali eventualmente falsificabili dai suoi avversari (il che rende giustizia delle antiche pregiudiziali di alcuni epistemologi contro lo statuto di scientificità, vedi falsificabilità, della teoria dell'evoluzione).
La prima ipotesi è la seguente: se la teoria è corretta, nota Darwin, dovremmo trovare nel caso dell'occhio e degli altri «organi di estrema complessità e perfezione» una gradazione di passaggi in cui la funzione originaria viene progressivamente implementata. Ma non è tutto, aggiunge il naturalista inglese. È anche possibile (seconda ipotesi) che la selezione naturale favorisca un organo per una o più funzioni iniziali, oppure che una funzione sia assolta da più organi. In virtù di questa ridondanza, la selezione potrà successivamente «convertire» o «cooptare» una struttura per svolgere una funzione anche completamente diversa. Ne deriva l'intuizione, oggi di grande attualità, che la selezione non agisca soltanto come un ingegnere che ottimizza i suoi modelli, ma più spesso come un artigiano che rimaneggia il materiale a disposizione al variare delle circostanze. La perfezione, conclude Darwin, è sempre relativa a un contesto di pressioni selettive contingenti e non sempre l'utilità attuale di un organo o comportamento corrisponde alla sua origine storica.
Un secolo e mezzo dopo sappiamo che le due predizioni erano azzeccate. La mole schiacciante di prove morfologiche e genetiche a favore dei due processi allora ipotizzati è tale da rendere del tutto anacronistico il richiamo al «problema del 5% di un'ala» - oggi ribattezzato «problema della complessità irriducibile» - da parte dei sostenitori della dottrina teologica del «Disegno Intelligente». Eppure, l'argomento della presunta impermeabilità alla spiegazione evoluzionistica di alcune strutture particolarmente complesse non ha affascinato soltanto i creazionisti.
Ce lo ricorda, nel suo ottimo volume Perché non siamo speciali, il filosofo del linguaggio Francesco Ferretti: nel 1988, è niente meno che il linguista Noam Chomsky a farvi ricorso. In Language and Problems of Knowledge, nella convinzione che il linguaggio non abbia nessi di continuità con il resto del mondo animale, giunge alla conclusione che «nel caso di sistemi come il linguaggio o le ali non è facile nemmeno immaginare uno sviluppo della selezione che abbia dato loro origine. Un'ala rudimentale, per esempio, non è 'utile' per il movimento, anzi è più un impedimento. Perché mai dunque deve svilupparsi quest'organo negli stati primitivi dell'evoluzione?». È una versione dell'argomento della «complessità irriducibile» del linguaggio, da cui Chomsky trarrà la profezia - non ancora abbandonata da tutti i suoi colleghi - secondo cui «la teoria dell'evoluzione ha poco da dire su questioni di tale natura».
Il linguaggio, troppo complesso per essere spiegato in termini evoluzionistici, è dunque il candidato ideale per rappresentare quella soglia qualitativa radicale che distingue l'umano dal non umano. Il libro di Ferretti illustra efficacemente il paradosso in cui si sono infilate le scienze cognitive negli ormai venti anni che ci separano dalla profezia antievoluzionista di Chomsky, la cui impostazione prevede fin dall'inizio che il linguaggio sia un'abilità specializzata e ampiamente pre-programmata, un «istinto» per dirla con Steven Pinker. L'argomento della povertà dello stimolo ha percorso una lunga strada, illuminando per differenza la ricchezza della mente umana fin dalla nascita. Oggi sappiamo, anche grazie agli studi di etologia cognitiva, quanto le menti umane e di molti altri animali siano equipaggiate con articolati repertori di competenze innate e con sofisticati sistemi di selezione dei dati pertinenti. Queste «dotazioni» vengono solitamente descritte come innate, adattative e specie-specifiche: tre caratteristiche tipiche di ciò che è frutto di una storia naturale. Ma non si era detto che l'evoluzione era incompetente al riguardo?
Il paradosso antievoluzionista
Se il modello standard delle scienze sociali entra in crisi, nota Ferretti, portandosi dietro il suo relativismo linguistico, anche la tradizione chomskiana deve fare i conti con il paradosso del suo peccato originale antievoluzionista. Se ne esce, sostiene l'autore coniando uno slogan efficace, «darwinizzando Chomsky», cioè rinunciando all'idea dell'assoluta eccezionalità umana: abbiamo bisogno di una teoria del linguaggio e della mente che unisca gli elementi di continuità naturale della nostra specie e gli elementi di indiscussa specificità. L'ipotesi che Ferretti esplora al riguardo si basa su due movimenti teorici fondamentali. Il primo è quello di ricollegare la competenza linguistica all'intelligenza generale - intesa come un adattamento biologico della nostra specie condiviso con il resto del mondo naturale - a partire dal riconoscimento dello «sforzo cognitivo» che l'acquisizione del linguaggio richiede. In particolare, Ferretti recupera il ruolo dell'intelligenza generale nella capacità linguistica definendo la prima come un equilibrio adattativo fra due macrosistemi di elaborazione distinti: l'intelligenza ecologica e l'intelligenza sociale. Nel far ciò valorizza due direzioni di ricerca oggi molto feconde in ambito neuroscientifico e aderisce all'idea, alquanto plausibile, che il linguaggio si sia evoluto in stretta dipendenza dalla capacità della nostra specie - come di altre - di ancorarsi al mondo fisico (linguaggio spaziale) e al contempo al mondo sociale (pragmatica del linguaggio).
Il secondo movimento, che dovrebbe dar conto della specificità umana ed è ispirato ai lavori di Dan Sperber, consiste nell'effetto di ritorno che il linguaggio, una volta acquisito, avrebbe avuto sull'intelligenza umana, innescando la comparsa di facoltà inedite come l'autoriflessione. Il linguaggio avrebbe quindi riorganizzato e ristrutturato a sua volta l'intelligenza umana, in un processo di coevoluzione. Il problema di compatibilità fra questa definizione di intelligenza (con tutta la sua flessibilità, la creatività, l'improvvisazione) e la teoria modulare della mente attualmente dominante - dove i moduli sono intesi come sistemi di elaborazione automatici e dominio specifici - viene provvisoriamente aggirato considerando l'intelligenza generale come la capacità di stabilire un equilibrio adattativo tra sistemi di elaborazione in cooperazione o competizione fra loro.
Qui si nota allora un'altra torsione del ragionamento di Ferretti, che apre lo sguardo su un orizzonte teorico oggi alquanto movimentato e interessante. Nella comunità degli studiosi della mente che hanno accettato di considerare la «continuità nella specificità» dell'evoluzione umana stanno emergendo in questi anni due sensibilità differenti, che in qualche modo, sorprendentemente, attingono proprio alle due ipotesi ad hoc con le quali Darwin aveva risposto in anticipo alla profezia pessimistica di Chomsky.
Autori come Steven Pinker, Paul Bloom e Daniel Dennett sembrano prediligere la prima risposta darwiniana, centrata sull'azione ottimizzante e permeante della selezione naturale. I loro modelli evoluzionistici, per quanto diversi, si basano su categorie funzionaliste forti: specializzazione e divisione in tratti adattativi discreti. L'adattazionismo duro dell'«ingegneria inversa» di Dennett, e di gran parte della psicologia evoluzionista contemporanea, compendia perfettamente questo approccio alla spiegazione dell'architettura evoluta della mente umana: il metodo consiste nell'immaginare i problemi adattativi che i nostri antenati paleolitici avrebbero incontrato nel loro ambiente ancestrale e nel dedurre gli adattamenti psicologici che si sarebbero evoluti per risolverli. L'architetto celeste dell'intelligent design viene sostituito dal «progettista della natura: la selezione naturale», scrive Pinker. Qui Chomsky viene non soltanto «darwinizzato», ma «ultradarwinizzato».
La reazione a questo programma di ricerca assume talvolta toni esacerbati. Jerry Fodor, nel criticare l'adattazionismo dell'«ingegneria inversa», clamorosamente si spinge fino a dubitare che l'adattamento stesso sia il meccanismo attraverso cui avviene l'evoluzione, cadendo così nuovamente in un'opzione antievoluzionista. Altri, come i filosofi della biologia David Buller e John Dupré, pur evitando questi eccessi, non mancano di far notare le debolezze teoriche ed empiriche delle narrazioni selezioniste spesso infalsificabili della psicologia evoluzionista, prediligendo un darwinismo «esteso» che fa invece tesoro della seconda ipotesi proposta da Darwin, quella relativa alla sub-ottimalità dei tratti adattativi, ai vincoli strutturali e agli effetti di ridondanza che rendono le strategie evolutive più diversificate.
Verso la soluzione di un mistero
Si viene così organizzando una sensibilità darwiniana alternativa. Non è un caso che proprio Chomsky abbia co-firmato nel 2002 un celebre articolo con Marc Hauser e Tecumseh Fitch in cui l'evoluzione del linguaggio viene spiegata come una cooptazione di funzioni adattative precedenti, se non addirittura come uno «spandrel», cioè un pennacchio architettonico: la metafora che Stephen J. Gould aveva utilizzato per rappresentare i caratteri degli organismi che si sviluppano senza alcuna funzione adattativa originaria - in quanto effetti di struttura o dismissioni - e che poi vengono ingaggiati opportunisticamente dalla selezione naturale. Il nuovo quadro evoluzionistico in cui è immerso il programma minimalista dell'ultimo Chomsky si fonda sull'idea, cara a Gould, di una selezione naturale che agisce come un bricoleur in un contesto di vincoli strutturali interni, come spiega bene il giovane biolinguista di Harvard Cedric Boeckx nel suo Linguistic Minimalism del 2006.
L'ipotesi funzionalista e l'ipotesi strutturalista, avanzate congiuntamente da Darwin nel 1872 per rispondere al problema della complessità adattativa, sembrano dunque rincorrersi ancora l'un l'altra. Dal loro riverbero nascerà probabilmente una «psicologia evoluzionista di seconda generazione» che, emancipandosi dalle rigidità teoriche della prima, saprà forse avvicinarsi di un altro passo ancora al mistero delle origini delle nostre più elusive facoltà.

Per andare alle fonti: Titoli per un sentiero di lettura
Il libro di Francesco Ferretti è titolato «Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio e natura umana» (Laterza, 2007). La profezia di Noam Chomsky è in «Linguaggio e problemi della conoscenza» (Il Mulino, 1991). L'esistenza di grammatiche di complessità intermedia è argomentata da Steven Pinker in «L'istinto del linguaggio» (Mondadori, 1997) e in «Come funziona la mente» (Mondadori, 2000). Il metodo dell'ingegneria inversa è esposto da Daniel Dennett in «L'idea pericolosa di Darwin» (Bollati Boringhieri, 1997). Una raccolta italiana recente sulla psicologia evoluzionista è M. Adenzato, C. Meini (a cura di), «Psicologia evoluzionistica» (Bollati Boringhieri, 2007). Due buoni esempi di argomentazione critica sulla psicologia evoluzionistica: John Dupré, «Human Nature and the Limits of Science» (Oxford University Press, 2001); David J. Buller, «Adapting Minds» (The MIT Press, 2005). Gli articoli di Hauser, Chomsky e Fitch sull'evoluzione della facoltà del linguaggio: «The Faculty of Language: What Is It, Who Has It, and How Did It Evolve?», in «Science», 298, pp. 1569-79; «The Evolution of Language Faculty: Clarifications and Implications», in Cognition, 97, pp. 179-210. Spunti brillanti per una darwinizzazione soft del minimalismo chomskiano si ritrovano in Cedric Boeckx, «Linguistic Minimalism» (Oxford University Press, 2006). Il darwinismo esteso è ampiamente descritto e argomentato da Stephen J. Gould in «La struttura della teoria dell'evoluzione» (Codice edizioni, 2003).




Repubblica 29.6.07
Violenta e appassionante la grande orchestra popolare
Questa sera nella cavea dell'Auditorium l'ensemble diretto da Ambrogio Sparagna
di Felice Liperi


Una grande orchestra popolare, potente come un´incontenibile performance sonora, violenta e appassionante insieme, apre questa sera come ormai tradizione l´estate musicale di "Luglio Suona Bene" nella Cavea dell´Auditorium Parco della Musica. In programma La Notte della Taranta il concerto/evento che prende ispirazione dallo spettacolo che ogni anno ad agosto nel paese di Melpignano celebra la passione del Salento per la «pizzica», il ritmo popolare che scandiva l´antico rituale di cura dal morso immaginario della tarantola. Sul palco l´Orchestra Popolare La Notte della Taranta, nella formazione che nell´edizione 2006 chiuse trionfalmente il festival salentino.
Trenta musicisti diretti dal maestro concertatore Ambrogio Sparagna, musicista ed etnomusicologo allievo del grande studioso Diego Carpitella, eseguiranno un repertorio di brani della tradizione popolare salentina con tamburelli, organetti, fiati, percussioni voci soliste e coro. Sarà questo l´ultimo concerto in cui Ambrogio Sparagna dirigerà l´ensemble perché com´è noto il musicista si dedica alla direzione dell´Orchestra Popolare Italiana fondata recentemente presso l´Auditorium. Il concerto di questa sera è una vera e propria celebrazione de La Notte della Taranta il più grande festival musicale dedicato al recupero della pizzica salentina - la musica che scandiva l´antico rituale di cura dal morso del pericoloso ragno velenoso - e alla sua fusione con altri linguaggi musicali, dalla world music al rock, dal jazz al pop.
Nato nel ‘98 su iniziativa dell´Unione dei Comuni della Grecia Salentina e dell´Istituto Diego Carpitella, ed oggi sostenuto dalla Regione Puglia e dalla Provincia di Lecce, il festival ha ospitato artisti come Stewart Copeland, Joe Zawinul, Raiz, Teresa De Sio, Daniele Sepe, i Radiodervish, Franco Battiato, Francesco De Gregori, Giovanni Lindo Ferretti e Piero Pelù.
Auditorium Parco della Musica, Cavea, ore 21, biglietto unico 20 euro, tel. 0680241281 Biglietteria 199109783.