martedì 3 luglio 2007

I CONTATTI CON "SEGNALAZIONI" NEL MESE DI GIUGNO 2007
IN TOTALE SONO STATI 55.739, ECCO IL DETTAGLIO ORDINATO PER PAESE DI PROVENIENZA:



1. Italy 49.654
2. Other 2.466
3. France 763
4. United States 577
5. Sweden 478
6. Germany 471
7. United Kingdom 198
8. Portugal 181
9. Belgium 175
10. Spain 154
11. Switzerland 141
12. Hong Kong 56
13. Netherlands 38
14. Brazil 29
15. Austria 28
16. Uruguay 27
17. Turkey 22
18. Argentina 22
19. India 20
20. Norway 20
21. Luxembourg 19
22. Canada 19
23. Maldives 18
24. Greece 14
25. Ireland 11
26. Poland 11
27. Romania 9
28. Serbia Montenegro 9
29. Australia 8
30. Hungary 8
31. Mauritius 8
32. Morocco 7
33. Slovenia 5
34. United Arab Emirates 5
35. South Africa 5
36. Mexico 4
37. Peru 3
38. Malta 3
39. Japan 3
40. Tunisia 3
41. Venezuela 3
42. Colombia 3
43. Chile 3 0,01%
44. Croatia (Hrvatska) 3
45. Finland 2
46. Denmark 2
47. Dominican Republic 2
48. Costa Rica 2
49. Czech Republic 2
50. Albania 2
51. Slovak Republic 2
52. Qatar 2
53. Monaco 2
54. Thailand 2 0,00%
55. Kenya
56. Korea (South)
57. Philippines
58. Malaysia
59. Nicaragua
60. Russian Federation
61. Singapore
62. Vatican City State (Holy See)
63. Ukraine
64. Burundi
65. China
66. Cook Islands
67. Algeria
68. Israel
69. Iran
Total 55.739 100,00%
Repubblica 3.7.07
Tra le rovine del regno di Aratta la scrittura più antica del mondo
In Iran riemerge una civiltà sepolta: potrebbe cambiare la storia
di Vanna Vannuccini

Un luogo simbolo di eccellenza, il cui ruolo è paragonabile a quello rappresentato da Troia per l'Asia minore
Gli scavi hanno riportato alla luce delle tavolette incise prima dei sumeri
Un pool di archeologi è convinto di avere scoperto i resti della mitica città


JIROFT (Iran Sud Orientale) «Gilgamesh sii il mio amante! Fammi dono della tua virilità! Quando entrerai nella nostra casa la soglia splendidamente dorata bacerà i tuoi piedi». Così Ishtar, la dea dell´amore, si rivolge al leggendario re di Uruk nel più famoso poema epico lasciatoci dai sumeri. «Splendidamente» è scritto nella traduzione, ma la parola sumera è arattù, ovvero alla maniera di Aratta. Aratta era per i sumeri simbolo di eccellenza, il topos di tutti i miti come Troia lo fu per quelli dell´Asia Minore. I poemi sumerici ne parlano come di una città magica, «distante sette montagne», in cui viveva un sovrano che in alcuni testi è «il Signore di Aratta», in altri è chiamato Ensurgiranna. Gli studiosi si sono affannati a cercare quale luogo geografico potesse corrispondere a questa leggendaria città. Ma finora il mito era rimasto sospeso nel nulla. La singolarità di Aratta infatti è che mentre nelle fonti letterarie vi sono innumerevoli riferimenti alla città e alle sue ricchezze, il nome non compare in nessuna delle 450.000 tavolette di argilla arrivate inalterate fino a noi, nelle quali i sumeri diligentemente registravano scambi commerciali, elenchi dei tributi ricevuti dai sudditi, derrate agricole o editti dei re. Non può essere un caso, sostengono quegli archeologi che ormai si erano convinti che Aratta non fosse mai esistita.
Ma uno scavo recente potrebbe aver riportato alla luce il mitico regno. Se così fosse, sarebbe la scoperta archeologica del secolo. Una nuova Troia.Che sia così, è il convincimento dell´archeologo iraniano Yussef Majidzadegh, che con una squadra internazionale (di cui fa parte anche l´italiano Massimo Vidale, archeologo dell´Isiao) guida gli scavi di Jiroft, nell´Iran sud-orientale. Majidzadeh sostiene che Jiroft è la più antica civiltà orientale, precedente di almeno un paio di secoli quella sumerica. L´archeologo presenterà in questi giorni la sua tesi al convegno internazionale di archeologia a Ravenna. «È venuta alla luce una civiltà complessa, pari o per certi versi superiore a quella sumerica per dimensioni urbanistiche, per l´aspetto monumentale e la raffinatezza delle tecniche artistiche. Questo ci obbliga a gettare uno sguardo nuovo sulla formazione delle civiltà tra il IV e il III millennio», dice Massimo Vidale.
La storia comincia a Sumer, è sempre stato il mantra degli archeologi. Perché a Sumer ha inizio la scrittura. Ma dopo la scoperta di Jiroft questo potrebbe non essere più vero. Nello scavo è stato trovato (finora) un mattone con un testo protoelamico, la cui origine si fa risalire a Susa nel 3000 a. C., e tre tavolette con una scrittura ancora indecifrata. Tuttavia la scrittura non sembra avervi avuto un ruolo predominante come tra i sumeri. Per questo, sostiene l´australiano Daniel Potts, Majidzadeh attribuisce a Jiroft una datazione così antica. Secondo Potts Jiroft corrisponde invece a una città più tarda, di grande ricchezza, Marhashi, la cui esistenza è attestata da diversi testi.
Jiroft è una città nella regione di Kerman nota soprattutto per il suo clima umido, subtropicale. Da Kerman, in macchina, ci si arriva in un paio d´ore. Si abbandona la steppa desertica del Dash-e Lut per salire su una zona montuosa, eccezionalmente fresca e verde, per poi ridiscendere nella valle di Jiroft. Da qui non ci sono più barriere montuose fino allo stretto di Hormuz, e l´aria umida del Golfo Persico arriva senza trovare impedimenti. Agrumeti e palmizi da dattero ne fanno la ricchezza. La fonte d´acqua della regione è il fiume Halil, che scende per oltre 400 chilometri dalle montagne del nord. Quasi un secolo fa un´alluvione cambiò il suo corso, i vecchi ricordano ancora che i loro nonni raccontavano che il Halil Rud voltò le spalle alla città e se ne andò a 800 metri di distanza. Ma nel 2001, dopo un lungo periodo di siccità, il Halil Rud straripò di nuovo, e questa volta sul terreno eroso dalle acque comparvero veri e propri tesori: monili, offerte funenarie, statuette, vasi di clorite (la tipica pietra locale di colore verde scuro). Il giorno dopo, centinaia di contadini impoveriti da anni di siccità accorrono sulle rive del Halil alla ricerca di oggetti antichi 5000 anni.
Si dividono il terreno, con il consenso delle autorità locali, in lotti di sei metri per sei, uno per ogni famiglia, scavano, tirano fuori oggetti di incomparabile bellezza. Diecimila buche, cinque o sei necropoli interamente saccheggiate, e interamente distrutto quel «contesto» che è fondamentale per gli archeologi per studiare e datare gli oggetti. Dove ci sono i tombaroli ci sono naturalmente anche i mercanti. Non appena si sparge la voce, intermediari e mercanti arrivano da tutto l´Iran, da Kabul, dal Pakistan - e poi da Parigi, da Londra, da New York. Comprano direttamente dal contadino che scava. Un vaso di clorite scolpito, 50 dollari; una statuetta intarsiata, 100; un´aquila fatta come una scacchiera con pezzi di turchese 150. Si ritroveranno nelle case d´asta europee e americane venduti per centinaia di migliaia di dollari. La passione per «i Jiroft» fa nascere addirittura una produzione di falsi. Anche il Louvre ha acquistato cinque pezzi (veri), di cui il governo iraniano sta cercando ora di tornare in possesso.
Il saccheggio durò un anno. Almeno 10.000 oggetti vengono portati via. Finché l´archeologo Majidzadeh, che aveva insegnato a Teheran prima di trasferirsi in Francia, ottenne dal governo iraniano di cominciare uno scavo sistematico insieme a un gruppo di colleghi di diversi paesi. Ora, ci dice il tassista che ci accompagna all´aeroporto di Jiroft, uno come lui, che ha due ettari di terreno e coltiva cetrioli in serra, non può nemmeno fare una traccia per seminare senza ritrovarsi addosso la polizia. Ma questo non significa che il saccheggio non continui, più silenzioso e con mezzi più sofisticati. Ai contadini sono subentrati i ben più attrezzati contrabbandieri internazionali, muniti di rilevatori, computer, attrezzature per lavorare di notte. Del resto, come ci fa vedere Ali Daneshi, un giovane archeologo locale lasciato a guardia del sito fino al momento in cui in autunno ricominceranno i lavori, lo scavo guidato da Majidzadeh è solo un inizio: i siti già rilevati sono quasi settecento, in un´area di 400 km quadrati.
Entriamo nello scavo e Daneshi si accorge subito che il vetro blindato messo a protezione di una statua senza testa, alta quasi un metro e mezzo e dipinta di colore ocra giallo e rosso con piccole incisioni nere, è stato rotto. Evidentemente di qui non passa soltanto qualche pasdar solitario di guardia. «Cominciammo a scavare da due collinette, distanti l´una dall´altra 1400 metri» racconta Vidale. «In quella nord è venuta fuori una piattaforma gigantesca a gradoni, uno ziggurat, con una base di 300 metri per 300 e un´altezza di 17 metri. L´intera superficie dell´altra collinetta, 200 metri per 300, si è rivelata una struttura monumentale, costruita su un preesistente accumulo archeologico, circondata da mura larghe 10 metri. Ad est della cittadella trovammo un´altra piattaforma, larga 24 metri, che era il quartiere dei lavoratori del metallo. Insomma siamo di fronte a una città ben strutturata, con la cittadella amministrativa, il tempio, i quartieri residenziali e i luoghi di lavoro».
Nel piccolo museo allestito a Jiroft e catalogato da Majidzadeh, gli oggetti esposti sono stati quasi tutti confiscati ai contrabbandieri, fatta eccezione per una vetrinetta con cinque pezzi ritrovati nello scavo. Vasi di clorite scolpiti con motivi di animali e di piante, soprattutto palmizi, forme umane e creature fantastiche, uomini-scorpioni, uomini-leoni, aquile, serpenti. Gli occhi degli animali carnivori sono tondi, quelli degli erbivori ovali come quelli umani. Ogni oggetto è preziosamente incastonato di turchesi, lapislazzuli, marmo, calcare bianco. In alcuni ci sono straordinarie raffigurazioni stilizzate di edifici, di città, di mura fortificate, che non hanno esempi nel mondo antico. Si può capire come il re sumero Enmerkar, nel poema «Enmerkar e il Signore di Aratta», volesse architetti e decoratori di Aratta per costruire i templi agli dei di Sumer.

Repubblica 3.7.07
Flop fecondazione, gravidanze in calo ma la Cdl insorge: la legge non si tocca
di Mario Reggio


La relazione del ministro Turco sulla procreazione assistita. Coppie italiane costrette ad andare all'estero
Cresce la percentuale dei trattamenti con esito negativo e aumentano gli aborti
Registrati più parti plurimi che possono riservare gravi effetti ai neonati e alle madri

ROMA - Diminuiscono le percentuali di gravidanze, con il conseguente calo di bambini nati. Cresce la percentuale dei trattamenti con esito negativo. Aumentano gli aborti. Crescono i parti plurimi, con effetti spesso gravi per i neonati e le madri. Quadruplicati i viaggi all´estero per le coppie che hanno scelto la fecondazione assistita. È il quadro che emerge dalla relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della legge sulla procreazione medicalmente assistita. Meglio conosciuta come la legge 40 del 2004.
La relazione raccoglie i dati ufficiali del Registro nazionale dell´Istituto Superiore di Sanità. «Complessivamente sono stati censiti 169 centri contro i 120 del 2003 - afferma il ministro della Salute Livia Turco - applicando la percentuale di gravidanze ottenute sui prelievi del 2003 a quelli eseguiti nel 2.005, si registra una perdita ipotetica di 1.041 gravidanze». Un altro dato preoccupante è quello del trasferimento all´estero, «non solo per ottenere trattamenti che utilizzano la donazione di gameti o la diagnosi genetica preimpianto, vietati dalla legge 40 - prosegue la Turco - ma anche per ottenere l´applicazione delle tecniche con la più alta percentuale di successo possibile».
La notizia della pubblicazione della prima relazione sulla legge 40 ha fatto riesplodere le polemiche. Il là è stato dato dal senatore di An Alfredo Mantovano: «Il ministro Turco dà i numeri, la legge 40 ha fatto crescere il numero delle nascite. Faccia un raffronto tra i dati dei 120 centri censiti nel 2003 e gli esiti degli stessi nel 2005. Solo così i termini di confronto saranno omogenei». La risposta del ministero della Salute non si è fatta attendere: «La diminuzione delle gravidanze - si legge nella replica - è confermata anche dal confronto tra il 2003 ed il 2005 nei 96 centri che hanno partecipato ad entrambe le raccolte dati: il numero assoluto di gravidanze ottenute è sceso dalle 4.257 del 2003 alle 3.626 del 2005». Ma il centrodestra insiste e da Alleanza Nazionale a Forza Italia il coro è unanime: la legge 40 non si tocca. E trova due alleate nel centrosinistra: le senatrici teodem dell´Ulivo Emanuela Baio e Paola Binetti. «Il calo delle gravidanze è sottostimato - commenta il professor Carlo Flamigni, componente del Comitato nazionale di Bioetica - mancano infatti le coppie che si rivolgono ai centri all´estero, che di solito rappresentano i casi più difficili». Claudio Giorlandino, presidente della Società italiana di medicina materno-fetale afferma: «Il dato mi stupisce per la sua modestia vista la metodologia restrittiva della legge, ho il sospetto che nei laboratori di embriologia vengano prelevati più dei tre ovociti fissati come tetto massimo». Intanto la commissione incaricata di elaborare le ipotesi di modifica alle linee guida della legge 40 continua a esaminare i quesiti presentati dal ministro Turco. Gli spazi sono angusti, ma tra le ipotesi allo studio c´è quella di considerare le coppie con soggetti portatori di virus hiv come affette da "infertilità funzionale". Quindi la possibilità di scegliere le cellule libere dal virus.

Corriere della Sera 3.7.07
Intervista ad Antonio Damasio, il portoghese che dirige il «Brain and Creativity Institute» dell'Università della California del Sud
«Così il nostro cervello diventa amorale»
Il padre della neuro-etica: nelle scelte le emozioni spingono verso l'utilitarismo
di Massimo Piattelli Palmarini


Antonio Damasio, portoghese di origine, neurobiologo, autore di innumerevoli lavori (spesso co-firmati con la moglie Hanna), e di opere di alta divulgazione, benedette da un grande successo internazionale, dopo anni trascorsi all'Università dello Iowa, è ora «David Dornsife Professor of Neuroscience», creatore e direttore dell'istituto per il cervello e la creatività (Brain and Creativity Institute) all' Università della California del Sud a Los Angeles. Le cronache scientifiche, ma non solo quelle, si sono di nuovo occupate di lui nelle scorse settimane, per via di un dato netto e sorprendente, pubblicato su Nature, che riguarda le basi cerebrali delle scelte morali.
Basato su un dilemma facile da presentare su uno schermo di computer, ideato dallo psicologo di Harvard Marc Hauser, co-autore di questo studio, Damasio e collaboratori mostrano che i pazienti affetti da danno cerebrale all'area ventro-mediana della corteccia prefrontale effettuano senza dilemmi di sorta scelte morali che sarebbero per tutti noi assai lancinanti, in particolare decidono di dirottare un vagone impazzito su un diverso binario, salvando sei persone, ma uccidendo un innocente malcapitato che si trova per caso sul binario sbagliato. Chiedo a Damasio quale significato attribuisce a questo risultato. «L'articolo — risponde — dà sostegno all'idea che le emozioni giocano un ruolo nelle scelte morali. Specificamente, stabilisce che, quando viene compromesso il processo cerebrale che sostiene le emozioni legate a situazioni collettive, i giudizi che noi formuliamo sui dilemmi etici tendono ad essere più utilitaristi, più radicati in calcoli razionali, meno ispirati da considerazioni umanitarie. Per esempio trascuriamo l'inclinazione a non provocare ad altri danni ingiustificati. Questo risultato non suggerisce certo che tali giudizi a freddo siano anormali, ma solo che non collimano con quanto la maggioranza delle persone ordinarie tende ad approvare e a condividere ».
Benchè il termine non sia suo, questo lavoro rientra in un nuovo e ascendente settore chiamato «neuro-etica». Gli chiedo come vede, nel complesso, questo settore. «La neuroetica — dice — è un campo piuttosto strano. Un campo ibrido. Da un lato privilegia la ricerca sul cervello, entro i limiti di ciò che è accettabile in scienza, in medicina e in un normale contesto sociale generale. Dall'altro, intende capire meglio le basi neurali del comportamento morale. Il nostro recente articolo su Nature e altre nostre pubblicazioni scientifiche sono centrate proprio su questo aspetto».
La sua è una lunga e illustre storia di ricerche sul cervello, e in particolare, in anni recenti, sulle basi cerebrali dei processi di presa di decisione.
Cosa lo ha sospinto, in questa carriera? «Sono sempre stato spinto da una curiosità illimitata per la mente umana — racconta —, una curiosità che scaturisce in parti quasi uguali dalla filosofia, la letteratura, il teatro, il cinema e ovviamente la scienza. Ho avuto la fortuna di iniziare la mia carriera scientifica con problemi molto circoscritti, sul linguaggio e la memoria, prima di passare a quelli più vasti e complessi che riguardano le emozioni e le loro basi.
Tra tante scoperte e casi clinici diventati dei classici, quali sono oggi, in retrospettiva, per Damasio, i più importanti? «Mia moglie Hanna ed io siamo particolarmente contenti di aver messo in luce l'importanza delle emozioni nella cognizione sociale. Siamo contenti di essere stati, in questo, persistenti, mentre tutti i nostri colleghi suggerivano di lasciar perdere, sostenendo che le ricerche scientifiche sulle emozioni erano un vicolo cieco e non presentavano alcun interesse scientifico. Il campo era forse moribondo, ma non certo privo di interesse e di utilità. Il lavoro che ha portato al mio libro del 1994, "L'errore di Cartesio", ha identificato delle connessioni chiare tra comportamento morale e comportamento economico. Ha resuscitato la neuroscienza delle emozioni ed è stato una scintilla per settori nuovi, come la neuro- economia e la neuro-etica; termini che non siamo stati noi a coniare».
Quale incontro, quale maestro, quale influenza scientifica ha più segnato la carriera di Damasio? «E' arduo — aggiunge Damasio — render giustizia a tutti gli incontri che rivestono un ruolo importante nella propria carriera. Retrospettivamente, però, credo che non avrei iniziato a fare quello che sto facendo senza l'influsso esercitato su di me dai lavori pionieristici del grande neurologo e neuropsicologo di Harvard, prematuramente scomparso, Norman Geschwind. Quando poi lo incontrai di persona rimasi avvinto dalla sua mente e dalla sua personalità. E' notevole quanto Norman fosse già allora persuaso dell'importanza di imboccare "la via del cervello", molto prima che venissero sviluppate le tecnologie di indagine non invadenti delle quali oggi disponiamo. Allora non solo non erano disponibili, ma non erano state nemmeno inventate».
Cosa c'è dietro l'angolo prossimo delle ricerche? «I nostri prossimi lavori — conclude lo scienziato — sono intimamente legati alle sorti dell'Istituto che ho fondato e che dirigo, l'Istituto del Cervello e della Creatività. Lo scopo è quello di riunire le neuroscienze, le scienze sociali, la filosofia e le scienze umane. Cosa potrebbe essere insieme più semplice e meno ambizioso? Mettendo da parte ogni ironia e ogni falsa modestia, sono convinto che mettere insieme la biologia e l'umanesimo tradizionale offra la sola speranza che abbiamo di definire il nostro posto nell'universo e di offrire a tutti noi un futuro un po' meno desolante».

Il neurobiologo portoghese Antonio Damasio in un disegno di Fabio Sironi Antonio Damasio (Lisbona 1944), è docente all'Università della California del Sud

Corriere della Sera 3.7.07
In «La prima marcia su Roma» Luciano Canfora svela misteri e strategie del futuro imperatore
Augusto: delitti imperfetti
La morte di due consoli gli spiana la via ma le lettere a Cicerone lo incriminano
di Dino Messina


L'uccisione di Cesare (44 a.C.) porta alla guerra civile
Nelle date dei dispacci c'è la conferma ai sospetti di Svetonio Il trionfo
Ottaviano diventa nel 31 a.C. il padrone dell'impero

Dieci anni. Tanto tempo è stato necessario a Luciano Canfora, uno dei nostri maggiori antichisti, per svelare un giallo storico: chi uccise nell'aprile 43 avanti Cristo i due consoli romani Irzio e Pansa, favorendo l'ascesa definitiva di Ottaviano al potere? Lo storico e filologo ci racconta il mistero e la sua soluzione in un saggio di dimensioni contenute, La prima marcia su Roma (pagine 90, € 12), che Laterza manderà in libreria giovedì prossimo. Canfora si è messo sulle tracce dell'assassino, oltre che attraverso i suggerimenti del concreto Tacito e dell'erudito Svetonio, studiando un gruppo di lettere di Cicerone che contenevano l'indizio principe. Ma di mezzo ci sono stati altri impegni editoriali — una vita di Cesare, La democrazia, il mastodontico
Papiro di Dongo, gli studi per sostenere le diatribe sul papiro di Artemidoro, un commento a Tucidide per un'edizione inglese — così la soluzione del giallo ha dovuto attendere.
Siamo in piena guerra civile. Giulio Cesare, ucciso dai congiurati guidati da Marco Bruto alle Idi di marzo del 44, ha indicato nel testamento come suo successore il giovane Gaio Ottavio, che da quel momento prenderà anche il nome del patrigno. Ad appena 19 anni, il futuro primo imperatore di Roma si trova ad arruolare un proprio esercito per contrastare il rivale Antonio, che intanto ha mosso le truppe verso le regioni cisalpine dove darà battaglia a Decimo Bruto, asserragliato nella fortezza di Modena. Nel marzo del 43 i consoli Irzio e Pansa partono con i loro eserciti verso il Nord in soccorso dell'alleato Decimo Bruto, che forse non uccise materialmente Cesare, come l'altro Bruto, Marco, ma certo il 15 di marzo del 44 ebbe la responsabilità di convincere il dittatore ad andare in Senato. Ottaviano non lo perdonerà mai, eppure in queste circostanze mostra una spregiudicatezza e una freddezza degna dei politici e condottieri più cinici e consumati: si allea con i repubblicani.
La scena a questo punto si concentra sul campo di battaglia, Forum Gallorum, oggi Castelfranco Emilia, dove — racconta Canfora — «il 14 aprile, all'alba, il distaccamento inviato da Irzio fu sorpreso dagli antoniani e spezzato in due. Carfuleno morì sul campo, Galba dovette battere in ritirata. Sull'ala sinistra dello schieramento Pansa fu ferito». In modo non grave, come ci racconta nelle sue lettere Cicerone, che di queste vicende viene informato nella maniera più rapida possibile, essendo egli la figura
più rappresentativa del Senato, l'uomo al centro di molte trame nella guerra civile. A parte il ferimento «non grave» di Pansa, le notizie arrivate a Roma sono tutte favorevoli ai consoli, così Cicerone in un lunghissimo intervento in Senato può chiedere che Irzio e Pansa provvedano ad innalzare «un monumento il più grandioso possibile» in ricordo della battaglia. A Ottaviano, che pure era presente sul campo, è riservata soltanto una semplice menzione. Canfora ci spiega che il grande oratore ha ricevuto le sue informazioni da un dispaccio firmato da Irzio, Pansa e Ottaviano e da una dettagliata relazione di Galba. Il racconto si riferisce al 15 aprile, ma in pochi giorni il quadro cambia radicalmente.
«Il 21 aprile — scrive Canfora — mentre Cicerone parlava in Senato si svolgeva una seconda battaglia e questa volta decisiva, sotto le mura di Modena». Teniamo conto che, perché i dispacci arrivassero a destinazione da questa zona della Cisalpina a Roma, occorrevano cinque giorni di cavallo, poco più di quattro se il messaggero ce la metteva davvero tutta.
Che cosa succede quel 21 aprile? Ce lo raccontano Appiano di Alessandria e lo stesso Ottaviano Augusto nella sua autobiografia. A Forum Gallorum erano caduti metà dei combattenti da entrambe le parti: «Perì per intero la coorte di Ottaviano. Solo pochi dei soldati di Irzio». Antonio «non intendeva più attaccare fino a quando Decimo Bruto, logorato dalla fatica, si arrendesse ». Ma Irzio e Ottaviano vogliono affrettare lo scontro e il 21 aprile costringono Antonio alla battaglia. In quella giornata senza esclusioni di colpi, Irzio viene ucciso nei pressi della tenda di Antonio. Ottaviano gli riserva subito esequie solenni. Ma sulla morte del primo console, già Tacito oltre un secolo dopo suggerisce che sia stato lo stesso Ottaviano a farlo liquidare e il più ficcante Svetonio che lo abbia fatto di sua mano. Entro ventiquattr'ore morirà anche Pansa, quantunque ferito leggermente. A questo punto entrano in scena le corrispondenze di Cicerone.
Quando apprende della morte dei due consoli, Cicerone in una lettera a Marco Bruto, contraddicendo il tono adulatorio usato pochi giorni prima, scrive: «Abbiamo perso due consoli, certo due buoni consoli, ma non più che dei buoni consoli ». La data di questa lettera è il 27 aprile. In una lettera di poco successiva, di Decimo Bruto a Cicerone, scritta verso il 10 maggio, si trova l'indizio decisivo. Decimo scrive che il 21 aprile non ha potuto inseguire Antonio perché non aveva né cavalieri né cavalli: «Non sapevo della morte di Irzio, non sapevo di quella di Aquila, non avevo fiducia in Cesare (cioè Ottaviano, ndr) finché non lo incontrai e parlai con lui. Così andò perduto il primo giorno (cioè il 22 aprile). Il successivo (23) mi manda a chiamare Pansa a Bologna. Mentre sono per via mi viene annunziato che egli è morto». Decimo rientra a Metabo. La scena che dobbiamo immaginare, spiega Canfora, «è che un messo di Ottaviano è partito immediatamente per bloccare Decimo e un altro alla volta di Roma per informare Cicerone, e che Cicerone già la sera del 27 è in grado di darne notizia a Marco Bruto». A questo punto un'ipotesi si impone, anche in considerazione dell'arresto del medico personale di Pansa: c'è Ottaviano dietro la morte dei consoli.
Intanto Decimo Bruto viene braccato e ucciso dalle truppe di Antonio e Ottaviano può cominciare la marcia su Roma. Il 9 maggio 43 si fa presentare al popolo da un tribuno della plebe come figlio di Cesare, in luglio oltrepassa il Rubicone, come già aveva fatto il suo padre adottivo, e mette sotto minaccia armata il Senato. Così il 19 agosto ottiene la nomina a console, accanto all'insignificante Quinto Pedio, nonostante abbia vent'anni e la legge romana ne preveda almeno il doppio per ricoprire quella carica.
Augusto, Livia e Ottavia in un quadro di Jean-Auguste-Dominique Ingres. A destra, «La morte di Cesare» di Vincenzo Camuccini La guerra

Corriere della Sera 3.7.07
In un saggio di Sun Shuyun
Lunga Marcia senza censure
di Fabio Cavalera


Alleggerire la storia dalle bugie della propaganda è difficile e pericoloso sotto regimi autoritari, specie quando vi sono di mezzo eventi eroici che sono alle fondamenta di uno Stato che nasce. La Lunga Marcia per la Cina comunista è una pietra miliare: come il nostro Risorgimento o la Resistenza, le rivoluzioni inglese, americana e francese, qualcosa che rovescia il corso della vita di un popolo e che addirittura va a condizionare molti altri popoli nel mondo, con nuovi sogni e nuove avventure. Quell'esodo lungo 12 mila chilometri, dal Sud verso l'Ovest poi al Nord della Cina, che fra il 1934 e il 1936 coinvolse le armate dell'Esercito di liberazione e che, pur decimandolo — dei 200 mila uomini e donne ne rimasero 40 mila — lo sottrasse alle campagne di sterminio del generale Chiang Kai-shek e pose le premesse per l'assalto al potere, quell'esodo ricco di sofferenza e di abnegazione è per la storiografia maoista il germe della Cina moderna. Ancora oggi il messaggio insegnato alle giovani leve è questo: se incontrate difficoltà, pensate alla Lunga Marcia.
Senza quell'impresa la Cina comunista non esisterebbe. Solo che — come ogni passaggio della storia — la fuga- salvezza dalla base rossa, il soviet del Jianxi, fino all'estremo opposto nella provinc ia dello Shanxi, non ha e non può avere una lettura unica, un modello assoluto che nasconde per fini di apostolato le tragedie che avvennero allora, i tradimenti, le defezioni e persino le stragi di comunisti contro comunisti, gli stupri dei rivoluzionari comunisti ai danni delle rivoluzionarie comuniste del reggimento femminile indipendente. Vi fu, al di là del coraggio dei protagonisti, una feroce dinamica interna alla Lunga Marcia, sotterrata sotto una montagna di menzogne. Sun Shuyun, ricercatrice laureata all'Università di Pechino,
producer della Bbc, è andata a scavare nei segreti di questo «mito fondatore», ha ripercorso ogni tappa dei 12 mila chilometri, ha scartabellato negli archivi locali e ha rintracciato 500 sopravvissuti, vecchi eroi contadini e contadine, privati o derubati delle pensioni di veterani, costretti al silenzio, eppure, lealmente e incredibilmente comunisti perché «il partito è la nostra famiglia ». Li ha convinti a parlare, tracciando un racconto lucido, documentato e controcorrente. Ne è uscito un libro che in Inghilterra è stato accolto con grande successo e che ora arriva in Italia: La Lunga Marcia (Mondadori, pagine 304, e 19). Un libro che non è contro la Cina ma per una Cina del terzo millennio che non abbia paura delle revisioni critiche del suo passato.
La Lunga Marcia è e resta un capitolo basilare del maoismo, nel quale si fondono idealismo, fede e capacità di sacrificio di migliaia di uomini e di donne, ma in essa non vi sono solo pagine di esaltanti imprese da incorniciare nella iconografia classica. Vi sono — descritti dai testimoni — debolezze e ammutinamenti, furti e rapine, omicidi e malvagità che provocarono migliaia di morti e sconvolsero le file del movimento. Come le purghe volute da Mao nei mesi precedenti la partenza dal Jianxi, una «selezione » politica dell'Armata rossa, alla ricerca dei fantasmi della cricca antibolscevica, che si risolse in 20 mila morti.
I 200 mila partecipanti sarebbero stati molti di più. E lo sarebbero stati — molti di più — anche i superstiti finali (dopo la biblica traversata), se nei due anni fra il 1934 e il 1936 le rivalità fra le correnti di pensiero del comunismo, pur con le truppe dei nazionalisti che inseguivano, non si fossero risolte in fucilazioni e torture da parte di aguzzini «invasati e drogati». Le rivela Chen, 83 anni, ex infermiere della I Armata rossa. I sospetti venivano eliminati anche con l'assegnazione «a reparti suicidi e mandati a combattere le battaglie più rischiose con tre proiettili a testa». Emerge così l'immagine sconosciuta della Lunga Marcia, depurata dalle distorsioni di una storiografia in grado di trasformare piccole e insignificanti scaramucce in epiche conquiste. Sul fiume Dadu, nel Sichuan, c'è il ponte in legno di Luding. Qui, secondo le antologie, si svolse lo scontro più eroico della Lunga Marcia. Ma non fu così. Zhu «il fabbro» era lì e dice che non vi fu alcuna resistenza da parte dei nazionalisti di Ciang Kai-shek, i quali erano in pochi e male equipaggiati: «Pioveva, i loro fucili erano vecchi e non sparavano più in là di qualche metro. Non potevano tenere testa all'Armata rossa... furono presi dal panico e scapparono». Parole che ricevono conferma da un generale, Li Jukui: «Non fu un'azione come la si è fatta diventare più tardi. Quando si indagano i fatti, occorre rispettare la verità».
I grandi della storia hanno il coraggio della verità. Deng Xiaoping, in un editoriale su Stella Rossa,
rivista comunista, l'11 novembre 1934 dimostrava già la sua tempra. Scriveva: «In questi ultimi giorni la nostra disciplina è stata scarsa... il popolo non ascolta i nostri bei discorsi, guarda come ci comportiamo. Un esercito senza disciplina non ne conquisterà la simpatia e l'appoggio».
Un editoriale che Sun Shuyun ha ripescato dal diario di Tong Xiaopeng, partecipe nel quartiere generale del primo corpo dell'Armata Rossa. Un editoriale che la storia ufficiale ha sempre nascosto. Ma per fortuna non cancellato. Ed è oggi un particolare importante che svela l'altra faccia, quella che non piace alla propaganda, della Lunga Marcia.
Gli orrori dell'epopea maoista raccontati dai reduci

l'Unità 3.7.07
Sxnet.it, la sinistra comincia ad unirsi. Per il momento solo nella realtà virtuale
Un sito lanciato con molta pubblicità e grandi manifesti. Grande spinta da Rifondazione comunista, ma ci sono dietro anche gli altri della «Cosa rossa»
di Wanda Marra


«Sinistra (sx)»: da qualche giorno dei grandi manifesti rossi 6x3 campeggiano per le strade di alcune grandi città. Sotto c’è un richiamo internet: www.sxnet.it. E chi digita questo indirizzo internet si ritrova su una home page dove si alternano le traduzioni della parola sinistra in varie lingue: «Left», «Gauche», «Izquierda», «Linke». “Declinazioni” della parola sinistra che da ieri campeggiano anche sui manifesti 70x100 e 100x140 distribuiti da Rifondazione su tutto il territorio. Sì, perché, il sito al quale rimandano in realtà risponde a un progetto ben preciso: essere l’agorà, la piazza virtuale a disposizione di chi si sente di sinistra. E anche di chi alla costruzione in corso della sinistra-sinistra vuole contribuire. D’altra parte, nel messaggio di «Benvenuti» l’invito è chiaro: «Un sito è più facile navigarci dentro che spiegarlo. Per noi è nata così: immaginare uno spazio aperto ad una comunità di sinistra. Sentimentalmente di sinistra. Ovvero non un sito della politica di sinistra, ma un sito per le persone di sinistra». Promosso dalla Sinistra europea e con i fondi di questa, curato dall’agenzia di Marketing, Sister (la stessa che ha fatto la campagna elettorale di Rifondazione) in realtà il progetto vede coinvolta, oltre che Rc, anche gli altri soggetti che stanno lavorando alla costruzione della cosiddetta «Cosa rossa». E infatti il sito, che da ieri è nella sua versione ufficiale, raccoglie interventi anche di esponenti di Pdci, Verdi, della Fiom. E si rivolge anche a Sd. Sull’«unità a sinistra» scrive la responsabile Cultura del Pdci, Patrizia Pellegrini, nella sezione «Con sorpresa». Dichiara che «la lotta ai cambiamenti climatici deve essere un tema centrale, anche e soprattutto per chi si riconosce in un’ idea della politica a sinistra», Angelo Bonelli nella sezione «Per paura». «Palestina: l’ultimo frutto della guerra permanente di Bush in Medio Oriente» si intitola l’intervento di Roberto Giudici dell’Ufficio internazionale della Fiom di Milano, nella sezione «Con rabbia». «Abbiamo bisogno ancora una volta d’immaginare partendo da lì, in alto a sinistra», dichiara nel suo intervento Michele Palma, della Segreteria nazionale di Rc nella sezione «Per amore».
Questo il lancio. Ma in realtà, volendo essere una piazza virtuale, il sito più che a interventi “dall’alto” è aperto a quelli dal basso. Tra le altre idee, quello di dar vita a un alfabeto di sinistra. Per adesso, la A è legata ad Amore. Ma l’intenzione è quella di costruire un alfabeto che funzioni come una sorta di Wikipedia, l’enciclopedia online in cui chiunque può inserire una voce nuova o aggiungere definizioni a voci già esistenti. La risposta ad ora è stata lusinghiera: la versione ufficiale è online da ieri, ma da lunedì scorso si poteva accedere ad una pilota. Ed a scrivere sono stati circa in 2000. L’obiettivo è arrivare a gennaio e, dopo un momento di verifica dell’iniziativa, offrire il sito a tutti i soggetti della sinistra-sinistra: perché questo diventi uno strumento non “per” la sinistra, ma “della” sinistra.

l'Unità 3.7.07
Bebè nato da ovulo maturato in vitro: è la prima volta


Fiocco blu per il primo bambino concepito da un ovulo maturato in laboratorio, congelato e poi scongelato e quindi fecondato. La tecnica è stata messa a punto dai ricercatori canadesi del McGill Reproductive Center di Montreal e annunciata a Lione durante il convegno della Società europea di riproduzione umana ed embriologia. Con la stessa tecnica, altre tre donne sono rimaste incinte e stanno portando avanti la gravidanza.
Il tumore alle ovaie
Il sistema sperimentato segna un importante traguardo perchè potrebbe permettere alle donne con un tumore alle ovaie di prelevare gli ovuli sani prima di sottoporsi alla chemioterapia, e programmare la gravidanza una volta superata la malattia. Inoltre, si fa avanti la possibilità di dare alla luce un figlio senza subire i massicci cicli ormonali per la fecondazione artificiale, che aumentano il rischio di tumori alle ovaie e possono procurare in alcuni casi (dal 3 all’8%) una condizione molto grave, chiamata sindrome da iperstimolazione ovarica. La donna che ha concepito il bambino soffriva della sindrome da ovaio policistico, una condizione per cui le ovaie sono coperte di cisti che inficiano la capacità riproduttiva.
«Ora è possibile»
Gli scienziati hanno riferito che su 20 donne che hanno donato i propri ovuli senza precedente stimolazione, quattro sono rimaste incinte con la tecnica e una di loro ha già dato alla luce un bambino. «Finora non sapevamo se gli ovuli prelevati senza stimolazione ovarica, maturati in vitro e poi congelati, sarebbero sopravvissuti allo scongelamento, e sarebbero potuti essere fecondati e quindi impiantati in utero» ha detto Hannal Holzer, coordinatore del gruppo di ricerca alla Mc Gill University di Montreal. «Abbiamo dimostrato per la prima volta che questo è possibile». Anche se i risultati sono stati molto incoraggianti, comunque, i tassi di gravidanza sono ancora bassi per cui potrebbe essere necessario prelevare un numero elevato di ovuli. La procedura canadese, comunque, non è stata ancora sperimentata su donne con tumore, ma su donne con ovaio policistico. I ricercatori hanno selezionato 20 pazienti, con età media di circa 30 anni, infertili e hanno prelevato loro un totale di 296 ovociti di cui 290 immaturi (fisiologicamente, infatti, uno degli ovociti immaturi va incontro ogni mese a un processo di maturazione).

l'Unità 3.7.07
La Ue ha deciso di celebrare il cinema europeo in tre corti. Uno è dedicato all’amore senza allusioni. Ma in Polonia...
Questo è sesso! La Polonia chiede le mutande per uno spot europeo
di Alberto Crespi


Per una volta che l’Unione Europea fa una cosa divertente, si arrabbiano tutti. Attenzione, però: i più furibondi sono i polacchi, in particolare il signor Maciej Giertych che è leader della «Associazione delle famiglie polacche», un corrispettivo slavo del Moige. E qualcosa, delle famiglie di Varsavia e dei loro figli gemelli, sappiamo anche qui...
Fuor di metafora: l’Ue ha commissionato 3 spot per promuovere il cinema europeo e li ha messi in rete sul famoso sito You Tube. Fanno parte di un «pacchetto» di 44 spot attraverso i quali la Ue pubblicizza le proprie attività. Sono stati approvati dalla signora Margot Wallstrom, commissaria europea responsabile della comunicazione. Uno dei 3 spot sul cinema ha provocato un’ondata di reazioni indignate. E perché? Perché è «sexy»... Inutile dire che, grazie agli strali dei benpensanti, è diventato subito «cliccatissimo». Anche da noi... che l’abbiamo visto solo per poterlo raccontare a voi, che credete?
Dunque: lo spot si intitola Let’s Come Together (seguirà traduzione) e dura 44 secondi (è il numero ricorrente di questa storia, i mitici gatti in fila per 6 col resto di 2 c’entreranno qualcosa?). In questi 44 secondi si vede un rapidissimo montaggio di scene di sesso, tutte tratte da film europei più o meno recenti (stessa tecnica anche negli altri 2 spot, intitolati It started with a proposal e You’re not alone: ma questi sono sentimentali e poetici, quindi tutto bene). La prima immagine è lo sbottonamento di un paio di jeans; l’ultima è il primo piano di una signora visibilmente soddisfatta per ciò che ha appena fatto. In mezzo, amplessi di ogni tipo, etero e gay, montati velocemente, senza dettagli hard, con contrappunto di immagini «simboliche» (un bicchiere che trema, un toast che si cuoce, un’auto che si schianta contro un muro). Alla fine compare il titolo Let’s Come Together, che cita contemporaneamente Beatles (Come Together) e Rolling Stones (Let’s Spend the Night Together) e significa, ormai possiamo dirvelo, «veniamo insieme», che ci sembra per inciso un bellissimo auspicio. Sul titolo, una voce: «Milioni di amanti del cinema si godono i film europei».
Dov’è lo scandalo? Dove sono i «metodi immorali» che, sempre secondo le famiglie polacche, la Ue utilizzerebbe biecamente per i propri scopi? Sarà bene ricordare, a tutti i polacchi del mondo, alcune cosette.
1) Cinema e sesso sono da sempre legati. Il cinema racconta il sesso e a volte lo stimola, lo incoraggia. È uno dei motivi per cui il cinema, dal 1895 in poi, ha avuto un discreto successo.
2) Il cinema europeo è spesso una palla mortale. Affermare che nello spot non compare «la grande tradizione del cinema europeo», come ha fatto qualcuno, è un complimento. Come sarebbe dovuto essere, lo spot? Una carrellata di crinoline, monumenti e ritratti di Garibaldi?
3) Alternare immagini erotiche con immagini simboliche che alludono al sesso è ciò che fece negli anni ‘20 il teorico del cinema sovietico Lev Kulesov, nel suo famoso «esperimento», in cui il primo piano di un attore (sempre lo stesso) veniva alternato a immagini diverse (un piatto di cibo, un bimbo che piange, una donna nuda). Agli spettatori sembrava che il primo piano fosse, ogni volta, diverso, ed esprimesse ora fame, ora pietà, ora desiderio. L’«esperimento Kulesov» è cinema allo stato puro e la Ue l’ha in qualche modo rifatto. Complimenti. Ma dovevano immaginare che, citando un maestro del cinema sovietico, i polacchi ci sarebbero rimasti male.

La Stampa 3.7.07
"Da Piero idee oniriche Io non entrerò nel Pd"
"Sono io che pretendo delle scusa, c'era una volta il più grande partito della sinistra,
e oggi non c'è più

intervista a Fabio Mussi di Riccardo Barenghi


Nell'intervista pubblicata ieri sulla Stampa Piero Fassino ha accusato Mussi e la sua Sinistra democratica di usare due pesi e due misure: «Non capisco perché quando a Firenze io lavoravo per il Partito democratico, stavo liquidando la sinistra. Mentre oggi va bene Veltroni che sostiene la stessa prospettiva da molti anni. (...) Tornino pure tutti quelli che vogliono tornare ma ammettano di essersi sbagliati sudi me».
Allora Ministro Mussi, torna nel Pd adesso che c'è Veltroni?
«Queste di Fassino mi sembrano opinioni oniriche. Sono assai preoccupato perché vedo con qualche dispiacere che il mio amico Piero non solo non domina gli eventi, ma non capisce esattamente neanche quello che succede».
Quindi non è vero che lei e suoi compagni state pensando di rientrare nel Partito democratico?
«Ma neanche per sogno. Non capisco come a Fassino possa venire in mente una prospettiva del genere: mai come ora sono stato convinto delle mie scelte. Naturalmente ho apprezzato la candidatura di Walter, visto che fino a quel momento il progetto del Pd era una nave che correva verso gli scogli.
Lui forse può evitare il naufragio, che certo io non mi auguro: se fallisse il Pd, perderebbe tutto il centrosinistra. Tanto è vero che all'ultimo Congresso dei Ds ho augurato ai miei ex compagni buona fortuna. Ma questo non cambia la mia opinione su quell'avventura politica: il Partito democratico non è e non sarà il mio Partito. Non aderirò mal e non lo voterò».
Eppure Veltroni le ha rivolto un appello diretto...
«Lo ringrazio ma mi sembra sempre più chiaro, anche grazie a lui, che il profilo che assume il Pd non ha nulla a che fare con la sinistra, non è l'ennesima metamorfosi della sinistra. Non sarà un Partito di sinistra ma un qualcosa che va verso il centro, tanto che persino Walter ventila, sbagliando, alleanze variabili in futuro. E qui vorrei dire a Faasino che semmai sono io che pretendo le sue scuse, visto che c'era una volta il più grande Partito della sinistra italiana e oggi non c'è più».
Ma del discorso di Torino cosa pensa?
«Come si dice, luci e ombre. Mi è piaciuta l'agenda di priorità, dal precariato alla formazione, alla ricerca. Non mi è piaciuta invece la parte sulla democrazia che deve decidere. Non credo che la crisi della politica possa essere affrontata con un assetto iperpresidenzialista. A me interessa sapere soprattutto su cosa deve decidere la democrazia, e Il cosa per me è l'estrema diseguaglianza che esiste nel nostro Paese».
Dal 14 ottobre in poi avrete un premier in carica (Prodi) e un premier in corsa (Veltroni): saranno guai per il governo?
«Io sostengo da tempo che il Partito democratico è un fattore destabilizzante per il quadro politico, e infatti ne abbiamo avute parecchie conferme. Ricordo che D'Alema lo chiamò il Partito di Prodi, invece sarà il Partito di Veltroni. E' evidente che in autunno si aprirà un problema da trattare con molto garbo, bisognerà sforzarsi tutti per mantenere un equilibrio che si preannuncia piuttosto delicato. Ma bisogna fare di tutto per evitare che il governo cada, altrimenti gli eventi precipitano».
Nel frattempo la vostra Cosa rossa, che potrebbe colmare quel vuoto che il Pd apre a sinistra, sembra marciare piuttosto a rilento.
«E' evidente che si tratta di un processo difficile. Non sarebbe giusto limitarsi a sommare le quattro forze in campo, cioè Rifondazione, Pdcl, Verdi e noi della Sinistra democratica, senza ingaggiare una battaglia politica, provocare spostamenti di forze, confrontarsi sui contenuti. Tuttavia la Cosa va e io non penso a tempi biblici, anche perché sono convinto che il bipolarismo potrò sopravvivere solo se dalla nostra parte del campo avremo un Partito democratico dal profilo riformatore ma alleato con una forza di sinistra».
Una forza che si presenterà insieme alle elezioni? E quando?
«Alle amministrative dell'anno prossimo. Altrimenti il progetto fallirebbe».

sabato 30 giugno 2007

Liberazione 30.6.07
Andare "oltre Rifondazione" e non condannarsi a restare sempre minoranza
Lo insegna la storia del Pci ed è il compito storico dei comunisti tutti
A un Pd a vocazione maggioritaria si risponde con una più grande vocazione della sinistra
di Sandro Curzi


Premetto che sono state, in particolare, la "lettera da Genova" e la "lettera a Fausto" di Ramon Mantovani, pubblicate martedì da Liberazione , a spingermi a intervenire nel dibattito che da settimane, anzi da mesi, anima il nostro partito. Il tema centrale ("andare oltre Rifondazione", anzi, come dice Bertinotti, "siamo già oltre Rifondazione", con il conseguente "fare presto e subito un nuovo partito di sinistra") è evidentemente di quelli che mette in discussione alla radice la nostra militanza, qui ed ora. E quindi necessita, insieme, di riflessioni personali, di sincere testimonianze individuali o di gruppo, e di un franco dibattito pubblico. Pensavo di starmene ancora un po' a riflettere e a confrontarmi con i compagni - di Rifondazione e non - con i quali mi capita quotidianamente di discutere. Del resto i segnali di frantumazione, di disorientamento e complessivamente di precarietà che ci arrivano dal sistema politico, dalla coalizione politica di centro-sinistra con la quale abbiamo vinto alle ultime elezioni generali e dalla stessa variegata sinistra (e qui intendo partiti, correnti, movimenti, forze sindacali, giornali d'area, ecc.) sono tali da suscitare insieme confusione e necessità di chiarezza, angoscia e istinto di contrattacco, delusione e nuove speranze.
In questo quadro, dico subito che mi pare stravagante, prima ancora che sbagliato e riduttivo, definire "politicista", come fa Mantovani, la proposta di un compagno (nella fattispecie, Bertinotti) che si interroga sul che fare. Come mi pare difficilmente contestabile che, con la costituzione del Partito Democratico, si "apre un vuoto". E ardito contestare il "profilo riformista" di Veltroni.
Difatti - e introduco così, nel testo che avevo già abbozzato, le prime impressioni suscitate in me dal discorso pronunciato da Walter al Lingotto di Torino accettando la candidatura a segretario del Pd - Veltroni si conferma, ad ogni sua uscita e atto politico (compresa la sua difficile ma felice esperienza di sindaco di Roma), un convinto e convincente riformista. Il suo discorso mi è sembrato provvidenziale acqua sul deserto della politica, così come concretamente praticata negli ultimi tempi in Italia dai partiti dello stesso centro-sinistra. Conteneva, di fatto, un robusto programma di governo. Apriva oggettivamente grandi possibilità al Pd, a condizione che esso sappia tirarsi fuori da una politica flebile e invadente, inadeguata e arrogante, e dalle sabbie mobili dei giochino di potere e dei veti incrociati in cui rischiava (e rischia tuttora) di sprofondare la stessa esperienza del governo Prodi. Il punto che mi è piaciuto di più del discorso è stato ovviamente quello della lotta alla precarietà, dell'aiuto concreto da assicurare ai giovani per affrontare la paura del futuro. In conclusione, ritengo che dal punto di vista della sinistra-sinistra, se essa per prima saprà mettere in campo una presenza politica forte e non massimalista, Veltroni si riconfermi un progressista con il quale si potrebbe fare molto cammino insieme, in favore degli ultimi, dei meno abbienti e di tutto il Paese.
Detto questo, ho molto apprezzato la franchezza e la "sfida" lanciata da Mantovani, con l'onestà intellettuale che tutti gli riconosciamo. E non si può non essere d'accordo sulle sue conclusioni: "la discussione congressuale sia chiara".
Dichiaro qui, con estrema chiarezza, che sono perfettamente d'accordo con quanto chiaramente esposto nella lettera genovese firmata da Haidi Giuliani e decine di altri compagni. In sintesi: 1) in questa fase dello sviluppo capitalistico, della globalizzazione e della vita politica, sempre meno sensibile al contatto diretto con i rappresentati, i loro interessi effettivi e in particolare i bisogni degli ultimi, "la storia e le ragioni della sinistra rischiano di essere messe ai margini" e "il mondo del lavoro rischia di scomparire dalla scena politica"; 2) "bisogna rispondere a queste difficoltà ancora una volta rinnovandosi. Costruendo un'organizzazione adeguata ai tempi"; 3) "noi vogliamo un partito diverso dagli altri… una formazione politica arcobaleno… una grande Sinistra di massa senza steccati e fondamentalismi, capace di coniugare rappresentanza e reale partecipazione". In definitiva, il soggetto dotato di adeguata "massa critica", di cui ha parlato Bertinotti.
Conosco personalmente solo Haidi fra quei firmatari. Eppure non avrei potuto esprimere meglio di quanto non abbiano fatto loro il mio stesso sentire: "Siamo disposti, da ora, a lavorare per questo". E ho la sensazione che sia, questo, un sentire e siano, queste, un'analisi e una volontà molto diffuse fra le nostre compagne e compagni, fra i ragazzi del movimento, fra i militanti (preoccupati quanto noi) del Pdci e dei Verdi, e fra i delusi e sconcertati compagni Ds che si sono rifiutati di seguire D'Alema, Fassino e Veltroni sulla strada che li sta conducendo a fare un partito con Prodi, Rutelli e Marini.
Dunque: andare oltre Rifondazione? E che altro fare, mentre tutto si muove e insidia alla radice la nostra concreta possibilità di opporre, al montante liberismo e alla crisi della politica, un'alternativa credibile e una via d'uscita? Chi non è interessato solo alla manifestazione del proprio pensiero critico o alla mera testimonianza della propria militanza "alternativa", non può far finta di niente se il gruppo dirigente del Pci-Pds-Ds distrugge definitivamente quello che era rimasto di una grande storia, annullando ogni residua organizzazione politica e presenza istituzionale che si rifaccia, in termini quantitativamente rilevanti, alla sinistra. Personalmente credo che quello a cui stiamo assistendo sia un grande, incomprensibile suicidio in progress. Credo che la "carta Veltroni" sia una carta buona ma anche un po' l'ultima carta a disposizione: potrebbe servire a ribaltare la situazione e sopravvivere per un po', potrebbe rivelarsi un'inutile tentativo prima della sconfitta definitiva. E forse in questo senso Veltroni avrebbe potuto cercare e trovare lumi nella lezione di Gramsci sulla formazione dei gruppi dirigenti, anche per citarlo in quel suo seguitissimo intervento nella città di Gramsci e di "Ordine Nuovo".
Una cosa mi pare certa: l'"ex Pci" non esiste più (nemmeno in formato Botteghino) e la sinistra è orfana di una rappresentanza parlamentare anche quantitativamente all'altezza della sua tradizione e delle sfide da affrontare. Allora, non possiamo chiuderci, impauriti o appagati, fra le quattro mura della nostra alterità. Qui mi viene personalmente in soccorso tanti anni di militanza nel Pci. E ricordo a me stesso e a Mantovani: noi ci occupiamo di politica per dare corpo alla rappresentanza degli ultimi, dei sottopagati, dei senzalavoro, dei senza casa, dei disoccupati, dei meno abbienti. Dare corpo a questi interessi significa - oggi più che mai - non solo enunciarli, conclamarli, gridarli, ma cercare di risolverli. La politica serve a risolvere i problemi. E quindi non debbo avere paura di sporcarmi le mani. Mi debbo porre la questione del governo. "La rottura con il governo non è un tabù". Certo, ci mancherebbe altro, ma non può tornare ad essere un tabù nemmeno la partecipazione al governo. "La vocazione del nuovo partito deve essere l'alleanza strategica con il Pd": e chi lo ha mai detto, nelle nostre file? Ma nemmeno si può dire che la nostra vocazione dovrebbe escludere a priori l'alleanza con il Pd. Condividere la "vocazione governista" del Pd? Nessuno di noi mi sembra che l'abbia mai proposto.
"Una sinistra di governo, come dice Mussi" per Mantovani "sarebbe la morte del nostro progetto più che decennale". Mantovani avrebbe ragione se quella "vocazione governista" fosse meccanicamente trasferibile dal Pd alla Sinistra Democratica e se a qualcuno fosse venuto in mente di trasferirlo anche al nuovo soggetto della sinistra. In campo, per ora c'è solo il "partito a vocazione maggioritaria", che è l'illuminante e sconfortante autodefinizione al quale sono affezionati alcuni dirigenti del Pd. Dunque è questo esplicitamente un partito di governo. Ad esso dovremmo forse opporre una forza, uguale e contraria, "a vocazione minoritaria", anti-governativa per definizione?
Io vengo dal Pci, partito di lotta e di governo. Un partito che si sforzò di organizzare le masse e difendere i diritti, e contemporaneamente di muoversi come "partito di governo", nonostante i notori divieti da guerra fredda. Ritengo che, se c'è una cosa che la sinistra non possa fare, a quasi vent'anni dalla caduta del Muro, è quella di regalare a reazionari, conservatori e "riformisti" il monopolio della "cultura di governo", dell'aspirazione e della possibilità di accedere direttamente al governo del Paese.
Come donne e uomini che vogliono, con ostinazione e coerenza, "cambiare il mondo" abbiamo il dovere, direi il compito storico, di resistere alla tentazione di una inequivocabile autocollocazione rigidamente alternativa ma minoritaria, e di operare in concreto nelle piazze, nei luoghi di lavoro, nelle istituzioni, nello stesso sistema mediatico e, se possibile, nel governo, per la redistribuzione del reddito e delle opportunità, e per un'Italia che possa fare la propria parte non a fianco ma contro una politica e un establishment internazionale che produce e si nutre di guerra e di sottosviluppo.

Liberazione 30.6.07
Caro Ramon, non sono d'accordo. Nell'appello di Bertinotti non c'è politicismo. Al contrario, indica la strada necessaria e possibile per una alternativa di società
Il socialismo del XXI secolo, sviluppo logico per Rifondazione
di Nicola Cipolla

Il compagno Ramon Mantovani ha scritto, su Liberazione di martedì 26 giugno, un articolo dal titolo: "Caro Fausto non sono d'accordo". Io non solo non solo d'accordo con i ragionamenti di Mantovani ma ritengo, come altri compagni dentro e fuori Rifondazione Comunista, che il messaggio contenuto nell'intervento di Fausto all'Assemblea della Sinistra Europea sia un grande contributo allo sviluppo logico di un'azione di "rifondazione" del partito sotto la sua guida che è cominciata con la rottura con il governo Prodi, inadempiente agli impegni presi (senza la quale io personalmente non mi sarei mai posto il problema di tesserarmi a Rifondazione pur avendola sostenuta dall'esterno) la scelta dei movimenti No Global, da Genova a Firenze, la scelta della dimensione europea che lo ha portato alla presidenza della Sinistra Europea come socio fondatore ed infine la partecipazione critica e determinante all'attuale fase di governo nel nostro paese.
L'appello rivoltoci si iscrive perfettamente in questo percorso e indica una strada necessaria e possibile per una alternativa all'attuale deriva sociale, politica e culturale dominata dalle forze neoliberiste. Il socialismo del XXI secolo è un obiettivo a cui possono lavorare «forze che vengono da storia comunista, socialista, democratico radicale, di cattolicesimo sociale, nuove culture di movimento avendo già incontrato tutte queste le grandi culture del femminismo e dell'ecologismo critico».
«L'obiettivo di un soggetto plurale ed unitario della sinistra in Europa e in Italia è irrinviabile».
«La sinistra europea può essere l'occasione per cambiare tutto ciò. Un passo cifrato lo state facendo altri più decisi passi vanno fatti». Bisogna considerare la SE «come l'apertura di una porta da spalancare verso la costruzione di una sinistra più ampia, plurale, forte in Europa e in Italia». «Per fare ciò occorre cogliere il momento, l'attesa che si produce. Non tutti i momenti sono uguali, lo sappiamo bene, se si suscita un'attesa come si sta suscitando in questo momento, allora si può organizzare un'emozione collettiva. Una forza nuova non la si fa soltanto con la ragione ma con la passione… ».
Questa è l'essenza del messaggio. Come si fa a parlare di una mossa politicista, oppure come si fa a dire che oltre a Rifondazione non c'è quasi nulla? Alla prima conta delle adesioni il movimento promosso da Mussi si presenta forte di personalità certamente non accusabili di politicismo come Giovanni Berlinguer, Giulietto Chiesa, Pasqualina Napoletano e Claudio Fava del Parlamento Europeo. Mi ha fatto meraviglia che persino Angius abbia rinunciato a partecipare alla formazione del Partito Democratico e abbia aderito a questa nuova formazione della sinistra. Per chi, come me, ha vissuto la lotta politica interna al Pci da posizioni di sinistra ed ambientaliste l'adesione a questa formazione politica di personalità come Fulvia Bandoli, lo stesso Mussi mi ricordano la grande battaglia ambientalista contro il nucleare condotta contro la maggioranza della direzione e con l'appoggio della stragrande maggioranza degli iscritti al Congresso di Firenze. Ma il distacco dall'avventura del Partito Democratico non riguarda soltanto i compagni che provengono dall'esperienza della sinistra del Pci; riguarda anche, come nel caso di Claudio Fava, nuove acquisizioni del Pds di personalità autonome con forti legami di massa cementati in lunghe battaglie contro la mafia e il consociativismo, per la pace (Sigonella), per l'ambiente. Questi legami gli hanno permesso di superare all'interno della lista unitaria DS-Margherita, alle elezioni europee, sia i candidati della destra della Margherita sia quelli della Cisl. Ma è forte anche il radicamento nel sindacato. In Sicilia hanno aderito alla formazione di Mussi anche dirigenti sindacali come la segreteria regionale della Fiom e il segretario regionale della funzione pubblica e tantissimi altri dirigenti della Cgil, il che può consentire alla nuova formazione unitaria della sinistra un rapporto con il mondo sindacale che si era, nella nostra Isola specialmente, quasi vanificato. Del resto dal mondo sindacale in Sicilia viene anche il deputato regionale Cantafia che fino a pochi mesi, prima delle elezioni regionali, dirigeva la Camera del Lavoro di Palermo la più grande struttura sindacale dell'Isola. Ma anche tra i Comunisti Italiani nella mia regione esistono forze decisive per il rinnovamento, a cominciare da Rosario Crocetta, sindaco di Gela (la quinta città della Sicilia, centro industriale dominato nel bene e nel male dall'Eni di cui lo stesso Crocetta è dipendente), che ha vinto nelle ultime elezioni con il 65% dei voti in virtù di una grande lotta di massa contro la mafia che ricorda il coraggio e lo spirito di Li Causi e di Pio La Torre (Crocetta vive una vita blindata per le minacce alla sua vita più volte manifestatesi). Ed anche nel settore dei Verdi si sono avute significative affermazioni nel trapanese e soprattutto ad Agrigento città dove il candidato dei Verdi si è presentato alle elezioni amministrative in contrapposizione sia con il candidato delle destre sia con il sindaco Zambuto fuoriuscito dalla CdL e appoggiato dalla Margherita e dai Ds. L'11% abbondante ottenuto nella prima tornata ha permesso poi nel successivo ballottaggio di sconfiggere in modo determinante il candidato delle destre. In Sicilia Rita Borsellino ha rinunciato all'invito di partecipare alla direzione del Partito Democratico ed anche Orlando ha una posizione fino a questo momento interlocutoria. Invece l'effetto positivo delle prime mosse unitarie a sinistra a livello nazionale: l'Assemblea dei 150 parlamentari lo si avverte in Sicilia anche in alcune manifestazioni recenti di lotta. Un esempio: è stato facile a Legambiente, Wwf e al Cepes di Palermo convocare in tre giorni in questa afosa stagione una grande assemblea per protestare contro il via libera dato da Prodi a Cuffaro per gli inceneritori in Sicilia già oggetto di una lunga resistenza popolare che ha visto uniti cittadini ed anche amministrazioni comunali con risultati positivi che già cominciano a vedersi ad esempio contro l'inceneritore di Casteltermini.
A questa assemblea erano presenti non solo i militanti delle organizzazioni ambientaliste e di sinistra e dei centri sociali di Palermo e rappresentanti del sindacato ma anche parlamentari nazionali di Rifondazione, dei Verdi e della Sinistra di Mussi e Rita Borsellino che hanno deciso di svolgere un'azione comune anche attraverso la Commissione Parlamentare di Inchiesta sui rifiuti. Questa iniziativa si collega con l'altra promossa dai sindacati contro la beffa del sindaco Cammarata che all'indomani delle elezioni ha fatto recapitare ai cittadini di Palermo le bollette della Tarsu aumentate come minimo del 75% con migliaia di errori che superano questa stessa percentuale e che promuoveranno assieme ai movimenti ambientalisti una manifestazione il 2 luglio al momento dell'insediamento del Consiglio Comunale palermitano.
Certo le prime iniziative politiche unitarie che già si svolgono a livello nazionale facilitano enormemente lo sviluppo delle azioni unitarie di base. Ma questo non basta di fronte alla minaccia di un accordo bipartisan per modificare il sistema elettorale italiano secondo i modelli americano e francese estranei alla cultura del nostro continente e soprattutto alle tradizioni proporzionaliste della sinistra socialista da Erfurt in poi e dello stesso movimento popolare cristiano che renderebbe molto difficile se non impossibile la presenza di un arco di forze imponenti (tutti parlano di un 15% dell'elettorato a sinistra del Partito Democratico) dentro le istituzioni parlamentari italiane. Non basta rinviare tutto ad un accordo puramente elettorale, questo sì politicista, che non permetterebbe neanche la sommatoria dei voti delle singole minuscole formazioni.
Anche qui l'esempio della Sicilia è purtroppo illuminante. Tre anni fa, due anni prima della scadenza della legislatura regionale, cominciarono le grandi manovre tra Cdl, destra Ds e Margherita per introdurre in Sicilia vincoli tali da eliminare all'Ars, con lo sbarramento del 5% a livello regionale, le forze di sinistra; Rifondazione, Comunisti Italiani e Verdi. Invece di rispondere subito con un accordo politico forte ci si ridusse all'ultimo momento a costituire liste con contrassegni sconosciuti, assieme a forze politiche chiaramente estranee allo schieramento di sinistra e persino equivoche. Questa improvvisata formazione prese nelle elezioni regionali meno voti di quelli che un mese prima alla Camera ed al Senato la sola Rifondazione aveva ottenuto in Sicilia con il suo simbolo e con il suo collegamento con le scelte politiche nazionali. Alle elezioni nazionali, un mese prima, Rifondazione, Comunisti Italiani e Verdi avevano ottenuto ben più del 7% e quindi avrebbero potuto validamente e da soli unite tempestivamente in un programma ed una formazione comune superare facilmente l'ostacolo del 5%. Ma non c'erano le condizioni politiche perché ancora durava l'ostracismo dei gruppi dirigenti siciliani del Prc nei confronti dei Comunisti Italiani e soprattutto dei Verdi, rei di avere accolto nelle loro file elementi che erano stati per motivi amministrativi allontanati dal partito della Rifondazione Comunista.
Con la formazione della Sinistra Democratica di Mussi, che in Sicilia ha ottenuto percentuali congressuali superiori alla media nazionale, ora la situazione è profondamente cambiata direi in meglio. Anche sulla base di questa esperienza occorre fare presto a costituire una formazione politica unitaria capace di accogliere tutte le componenti della sinistra. Bertinotti dice che «l'obiettivo di un soggetto plurale ed unitario della sinistra in Europa e in Italia è irrinviabile». In Sicilia, per le sue caratteristiche, avrebbe dovuto essere avviato almeno tre anni fa. Del resto il discorso di Veltroni e il suo elogio del sistema francese e le accoglienze positive che questo discorso ha avuto da parte di Luca di Montezemolo spingono non già a confronti congressuali interni ed a nuove divisioni ma ad una azione comune per far sì che di questo necessario processo di unità a sinistra Rifondazione sia con tutti i suoi militanti all'altezza del momento, dei pericoli e delle opportunità che oggi si presentano al nostro movimento ed a tutta la sinistra.

Liberazione 30.6.07
Siamo tutti cittadini uguali, la questione di genere non c'è come ogni conflitto
Walter e la sintesi dei contrari ovvero come il leader tiene a bada le donne
di Lea Melandri

In un articolo pubblicato su L'Unità col titolo "Due o tre cose che vorrei dire al candidato Veltroni", Vittoria Franco scriveva: "L'obiettivo ambizioso, e per noi irrinunciabile, è forgiare un partito di donne e uomini, un partito segnato dalla presenza femminile, presenza numerica e culturale, di contenuti e proposte. Per la prima volta cofondatrici del nuovo Partito". E aggiungeva: "Vogliamo partecipare, avere voce, influenza… portiamo in dote un patrimonio enorme di competenze, di capacità amministrative, di concretezza. Non è rivendicazionismo ma affermazione del principio di cooperazione fra i generi nella costruzione della democrazia".
Le metafore che si usano per esprimere un'idea non sono mai casuali, e le parole "dote", "cooperazione", "competenza" sono inequivocabilmente legate a quel "matrimonio dei contrari" -intelligenza/sensibilità, teoria/pratica, ecc. - o se si preferisce, a quella "alleanza tra i sessi" di cui aveva scritto Ratzinger prima di diventare Papa, indicandola come fondamento "naturale" della famiglia. L'idea di un "patto" tra uomini e donne, capace di conciliare uguaglianza di diritti e "differenze" psicologiche, culturali tra loro complementari, non è certo estranea al femminismo, così come la certezza di poter essere, per una politica in crisi, una "forza di innovazione". Far riconoscere nella loro valenza positiva attitudini ritenute tradizionalmente segno dell'inferiorità femminile, ha costituito, rispetto al conflitto tra i sessi e alla radicalità con cui si è espresso negli anni '70, un'uscita di salvezza, una specie di quadratura del cerchio - quello che, con un ossimoro veltroniano, si potrebbe definire un orientamento "che non nasce dal nulla, ma che è del tutto nuovo", un modo per "conservare innovando".
Non c'è perciò da meravigliarsi se nel discorso con cui ha proposto la sua candidatura alla guida del Pd a Torino, Veltroni ha potuto, con inattesa brillantezza, inaugurare il suo "meraviglioso viaggio collettivo" all'insegna di una compagnia paritaria di uomini e donne, una faticosa conquista femminile, è vero, ma assunta e concessa paternalisticamente da chi sa di poter contare ancora a lungo sul consenso a rappresentazioni del mondo e della politica prodotte storicamente dal sesso dominante. Se questa è la risposta alla richiesta di "democrazia paritaria", che viene oggi da più voci del femminismo, credo sia necessario sgombrare il campo dagli equivoci che una formulazione riduttiva del "50 e 50" può avere indotto, facendola passare come la strada di una possibile pacificazione o ricongiungimento dei due rami divisi dell'umanità, la forza rigeneratrice che le donne non hanno mai mancato di dare al "triste fratello" nei passaggi più difficili della sua storia privata e pubblica.
Un riconoscimento fatto dall'alto e smentito nei fatti dall'assenza di candidature femminili alla guida del Pd - fatta eccezione forse per Rosy Bindi, contraria al 50 e 50, ma non alla valorizzazione delle capacità femminili - conferma quanto si poteva temere: l'indisponibilità di molti uomini a mettere in discussione il fondamento sessista della politica, nel momento in cui si limitano ad "aprirsi" a nuovi soggetti.
E non è un caso che nel discorso di Veltroni le donne vengono associate a "giovani", "cittadini", "movimenti", "federalismo". Se la pòlis , con le sue istituzioni, i suoi saperi, resta quella che si è costruita storicamente sul dominio di un sesso solo, la cittadinanza piena concessa al sesso escluso non è che la conferma dell'esistente e può approdare all'esito opposto: togliere la parola a chi non si riconosce in questo tipo di "integrazione".
La presenza numerica paritaria risponde a un principio elementare di civiltà, è l'applicazione dell'articolo 51 della Costituzione italiana, che, come tale, non avrebbe dovuto comportare umilianti trattative di "quote". Ma la «presenza culturale, di contributi e proposte», di cui parlava Vittoria Franco nel suo articolo, richiede una ridefinizione ben più radicale dell'economia, della politica, del rapporto tra privato e pubblico, tra individuo e società. Ha bisogno, prima di tutto, che si faccia luce sul razzismo inconsapevole che ancora impedisce alla cultura dominante, nel nostro Paese in particolare, di vedere le donne come persone, corpi pensanti, esseri dotati di volontà, responsabilità, capacità intellettuali e morali. Il divario tra uomini e donne passa fondamentalmente attraverso la divisione dei ruoli sessuali, la considerazione del lavoro di cura come "naturale"donatività femminile, l'esercizio acrobatico per conciliare casa, figli e lavoro esterno come problema riguardante le politiche famigliari; passa vistosamente attraverso la violenza di cui le donne sono vittime quotidianamente, sia quando vengono maltrattate o uccise, sia quando sono costrette a subire, vergognandosene, le conseguenze di una sessualità imposta: è il caso dell'aborto.
Ma di tutto questo, nel lungo discorso di Veltroni, pur così "generoso" di elargizioni all'altro sesso, non c'è traccia. La questione "donne" si potrebbe tranquillamente espungere e trattare a parte, collocata com'è nell'incipit e nel finale, due inserti ad effetto a cui non fa seguito nessuna implicazione, come se, accolto l'ospite alla propria tavola, i commensali riprendessero a parlare dal punto in cui ero rimasti. Come si può prendere sul serio l'affermazione di apertura - che l'«irruzione della soggettività femminile» sarebbe «un'esperienza decisiva» per il neonato partito democratico -, quando tutto il corposo panorama della «grande forza riformista» descritto dal suo aspirante leader parla una lingua ineccepibilmente neutra? Dopo la breve apparizione iniziale, e subitanea scomparsa, le donne riemergono in chiusura, trasformate in "esempio" o "parabola" edificante, una forma di riconoscimento a cui non aveva resistito nemmeno il Presidente della Repubblica nel suo saluto di fine anno. Veltroni racconta di una giovane amica che avrebbe espresso la volontà, due mesi prima della morte, avvenuta a soli 15 anni, di adottare un bambino africano, colpita dal sapere che in molti paesi del mondo i bambini muoiono di povertà e di fame, e non solo di malattia.
Solo la sottile misoginia che passa talvolta inavvertita sotto le apparenze di una compassionevole celebrazione, poteva associare la "differenza femminile" - come elogio della sensibilità, dell'abnegazione, delle doti sacrificali della donna - alla morte prematura di una adolescente.
Ma, a guardare bene, non è così vero che il "matrimonio dei contrari", nella visione veltroniana della politica, riguardi solo il rapporto tra i sessi. Nel tentativo di tenere insieme realtà che si contrappongono in modo evidente, la figura retorica che viene ripetutamente in soccorso è la "sintesi". «Non per furbizia» - si affretta a dire Veltroni -, ma per sincero amore del dialogo, dello scambio, del rispetto reciproco. E' così che, per "voltare pagina", mettere a tacere insulti, logiche di guerra, scontri violenti, si finisce per bandire la conflittualità tout court. E quella che si dipana nel lungo affresco del programma riformista è una sequenza fatta di accoppiamenti immaginari - lotta alla povertà senza toccare la ricchezza, "libertà e giustizia sociale", "integrazione e legalità", "multiculturalità e sicurezza", "ambientalismo e conquiste tecnologiche", lavoratori precari e imprese, accoglienza e rigore, giovani e anziani - sintesi di facciata messe a copertura di un pragmatismo fatto di certezze molto meno favolistiche e seduttive: l'impresa, il mercato, la crescita economica, la sviluppo tecnologico, la mobilità sociale verso l'alto lasciata al talento individuale e a qualche benevola "opportunità", la stessa "pari opportunità" che permetterebbe oggi alle donne di entrare nella grande "casa" pubblica degli uomini.

Liberazione 30.6.07
Il problema non è l'"oltre" ma il "come" si lavora all'unità a partire da noi
Prc, che fare? Cambiare l'ordine del discorso e uscire da sé senza perdersi

Stiamo attraversando un momento difficile; lo sta attraversando il nostro paese, le nostre città, la sinistra, i movimenti, noi. Soprattutto la politica.
Siamo di nuovo di fronte a un "che fare" che ci incalza e a cui dobbiamo rispondere con quanta più chiarezza ed efficacia possibili. Lasciamo, per brevità, il campo delle complesse analisi sociali e delle elaborazioni culturali e limitiamoci ad alcune problematiche che sono entrate con forza nel nostro dibattito e che, se non affrontate con chiarezza, possono farci perdere la bussola.

Crisi della politica
E' il tema più accattivante e insidioso, uno schermo che può coprire le cose negative più diverse ma anche offrire alla vista le opportunità del presente: per esempio l'occultamento di responsabilità politiche individuali e collettive di cui non si voglia più dar conto ai soggetti di riferimento oppure la voglia di scorciatoie politicistiche, ricercate per far fronte alle dinamiche che attraversano oggi tutti i ceti politici e spiazzano la scena pubblica. O, ancora, l'autoreferenzialità e l'autotutela dei gruppi e delle lobby di potere e altro ancora. Ma anche l'occasione per guardare al futuro con rinnovata passione politica, con libertà di giudizio e di ricerca, scoprendo e sperimentando nuove pratiche e nuove dimensioni dell'agire politico, nuove relazioni tra i soggetti, i luoghi del conflitto, le idee di cambiamento, stando dentro ai processi di liberazione e libertà umana nell'epoca della globalizzazione.
Niente si inventa dal niente e i vizi tipici dei ceti politici, ma anche dei gruppi dirigenti più responsabili, nell'epoca dell'esposizione mediatica fine a se stessa, non troverebbero soluzione invocando i rischi epocali di una nostra dispersione e/o ininfluenza. Possono, debbono quelle forze - noi per primi - fare tutto il possibile per lavorare e sperimentare insieme, per unire le risorse con pratiche innovative che non ci imprigionino di nuovo nelle trappole dell'appartenenza, nelle filiere dell'autotutela così tipiche dei ceti politici in crisi, condividendo invece con coraggio scelte e responsabilità. Ma, anche, lavorando col senso del limite e il realismo dell'esperienza, che ci fanno dire che oggi bisogna certo aprire percorsi e avviare processi, e compiere anche tutte le forzature possibili ma sottraendoci a ogni retorica dell'unità salvifica del "fare in fretta", e dunque senza disperdere risorse e patrimoni, coinvolgendo tutte e tutti e verificando con attenzione tutte le difficoltà sul cammino prima di compiere un altro passo.

L'oltre, il come e il dentro
Non ci aiuta per esempio la retorica dell'"oltre". "Oltre" tutto - il ‘900, le forme della politica, la rappresentanza democratica - e oggi, si parva licet, per qualcuno oltre Rifondazione. Il problema non è l' "oltre" ma oggi il "come" Rifondazione nei mesi che abbiamo di fronte possa contribuire al meglio delle sue forze e della sua esperienza al processo di unità a sinistra. Proponiamo di contrastare la retorica dell'oltre, sperimentando, nella ricerca e nella sperimentazione dei percorsi unitari, la pratica del "dentro" le cose, fatta con spirito di osservazione, di ascolto, di intelligenza, come ci viene da alcune delle esperienze più vive della nostra vicenda politica, dei movimenti altermondialisti, della storia delle donne.

Cogli l'attimo?
La scelta dei Ds di costituire il Partito Democratico ha liberato alcune importanti energie, donne e uomini che hanno scelto di stare a sinistra. E' importante costruire con loro e con tutti i soggetti che si richiamano alla sinistra (anche senza aggettivi) un confronto molto stretto, un programma di azione unitaria, non solo a livello parlamentare, ma sia a livello nazionale che nelle regioni, con iniziative politiche e programmatiche, un percorso vero, democratico, senza scorciatoie politicistiche. A volte l'ansia di cogliere l'attimo fuggente può essere causa di corta visione, persino di strabismo. Meglio cogliere l'occasione e costruire le condizioni perché non si esaurisca o rimanga inerte.

Un governo così così? Fino a quando?
Abbiamo scelto di far parte di un governo eletto sulla base di un programma condiviso, in maniera più o meno convinta, da una coalizione. Questo governo è condizionato, all'esterno e all'interno, da forze disgregatrici che tirano a destra l'impostazione politica e programmatica.
A fronte di alcuni innegabili risultati concreti, ci sono grossi rischi: inefficacia, confusione, diminuita autorevolezza e credibilità, sia sul terreno delle condizioni materiali dei settori sociali meno abbienti, sia sui diritti e le libertà individuali (con i condizionamenti pesanti del "partito del Vaticano"), sia sul terreno della cosiddetta sicurezza ( a questo riguardo, amministratori eletti col nostro voto vorrebbero città blindate, chiuse a migranti e persone in disagio), sia infine sul terreno della partecipazione alle cosiddette missioni militari e della militarizzazione del territorio.
Non è indifferente, per noi e per gli impegni unitari che dobbiamo sviluppare con il resto della sinistra radicale, chiederci e chiedere: come, perché, con che pratiche di ascolto e verifica "dentro i sentimenti popolari" possiamo continuare a essere parte di questo governo?

E noi?
Il nostro partito è immune, per la grande maggioranza, da intrallazzi; non è immune dalla corsa alle istituzioni e dalla tenace ambizione a restarvi.
La Conferenza di Carrara è stata impostata con un documento che elencava molte manchevolezze e difetti. Si aggiungano la scarsa democrazia interna, la vita di partito dominata dalle cariche istituzionali, anzi gli incarichi dirigenziali nel partito per lo più considerati tappe per raggiungere le istituzioni. Giacché si conta se si appare. E' come se esistesse una lista d'attesa in cui gli uomini del partito - in una visione tutta patriarcale della politica , da cui talvolta non siamo immuni nemmeno come donne - si sostengono a vicenda in attesa dei turni.

Innovare, innovare
Occorre porre mano ad applicare i deliberati di Carrara, innovare e cambiare, incidere sulla forma partito ancora burocratica e gerarchica, tutta maschile nelle pratiche, con investiture dall'alto: spesso luogo di scontri di potere all'ultimo sangue. Rendere trasparente e sottoporre all'attenzione pubblica una scelta di questo genere, l'impegno a tutti i livelli del partito per un passo così importante di rinnovamento, sarebbe un contributo essenziale anche al processo unitario a sinistra che ha bisogno come dell'aria di contenere e sconfiggere le logiche da ceto politico che l'attraversano.
La formazione della Sinistra Europea è una grande occasione: il confronto permanente con associazioni e movimenti, reti nazionali e nodi locali, problemi del territorio e questioni internazionali, ci aiuta nello scambio con pratiche lontane dalle nostre, con soggetti con cui abbiamo in comune la convinzione che un altro mondo è possibile e dipende da tutti e tutte pensarlo, costruirlo, praticarlo a partire dalle nostre vite, dai nostri corpi, dalle nostre relazioni.

Un grande impegno
La Sinistra Europea è un nostro impegno, anche alla luce dell'esito positivo della grande assemblea del 16-17 giugno, un vero e proprio successo ancora più significativo dopo l'amaro esito delle elezioni amministrative e il tragico errore della piazza anti-Bush del 9 giugno. Errore di autosufficienza, di separatezza, di automoderazione. Stare nei movimenti, senza cedere ai calcoli politicistici delle convenienze di governo e dei condizionamenti dell'establishment: questa deve essere la nostra pratica costante, a cominciare dal grande sussulto di laicità e libertà del Gay Pride, ai movimenti che chiedono un pianeta libero da speculazioni, fame, miseria, guerre, ai movimenti delle donne.

Ma andiamo all'oggi
E' in atto un tentativo strisciante di cancellare e liquidare Rifondazione Comunista, la sua storia, la sua ricerca, la sua sperimentazione, con le sue contraddizioni, le sue aperture ad esempio sulla nonviolenza e sulla democrazia di genere. E' in atto un processo, ora dichiarato, ora camuffato, di chiudere questa esperienza nell'archivio delle residualità del '900.
Riteniamo che questi tentativi vadano criticati e, dove necessario, fermamente contrastati a tutti i livelli, dai gruppi dirigenti nazionali e quelli territoriali. Subito, per tempo. Soprattutto ci sembra arbitrario qualsiasi uso proprietario, privatistico, personale di questo luogo politico che è davvero un bene comune e non può dipendere dalle opzioni di questo o quell'esponente politico del partito.
Si aprirà a breve la fase congressuale, che immaginiamo dura e difficile: non intendiamo affrontarla in termini identitari, difensivi, conservativi. Quando parliamo di identità, non parliamo di dogmi o ideologie, parliamo di un punto di vista di analisi e letture dei processi sociali, materiali, simbolici. Insomma di uno sguardo sul mondo diverso, di quell'anomalia che Rifondazione ha rappresentato nel quadro politico italiano ed europeo e che rende oggi possibile mettere in cantiere l'ambizioso progetto dell'unità della sinistra radicale.
Intendiamo mantenere aperta la rifondazione comunista come parte integrante, per tutto il tempo che sarà necessario, della più generale impresa di rifondazione della sinistra, contrastando i tentativi di rottamare la nostra storia e il nostro presente in una sorta di vuoto presentato come "sfida", una sorta di dissoluzione per consunzione, per esaurimento di ruolo, per scarsa utilità, appunto la dismissione. "Uscire da sé senza perdersi" intitolammo un documento del 2006.
Continuiamo a pensare che occorra uscire da sé, e in molte l'abbiamo fatto e lo facciamo, ma che appunto non bisogna perdersi. E, per non perdersi oggi nella morta gora dei calcoli e dei giochi politici che non portano da nessuna parte che interessi veramente la stessa prospettiva di una nuova sinistra, bisogna intanto cambiare l'ordine del discorso: Rifondazione Comunista è utile, anzi è necessaria.
La prospettiva unitaria e il forte impegno che la rifondazione della sinistra richiede hanno assoluto bisogno di Rifondazione Comunista, della sua forza organizzata, dei suoi nuclei territoriali, di quella ricerca teorica e sperimentazione innovativa che sta procedendo ancora troppo faticosamente, anche per incertezze di prospettive, ma a cui dobbiamo dedicarci con sempre maggiore cura se davvero vogliamo contribuire a partire da noi alla nuova impresa.

Prime firmatarie
Imma Barbarossa, Elettra Deiana, Titti De Simone, Rita Corneli, Stefania Brai, Daniela Dioguardi, Linda Santilli, Eleonora Forenza

l’Unità 30.6.07
Per la prima volta nel ’61 divenne pubblico il tema delle responsabilità togliattiane nelle purghe contro gli italiani
Così si chiudono i conti con la storia
di Roberto Roscani


Era il 10 novembre del 1961. A Mosca era finito da poco il XXII congresso del Pcus. No, non il XX, quello famoso del rapporto segreto di Krusciov e dell’emergere in piena luce dei crimini staliniani. Eppure quel successivo e meno ricordato XXII congresso poteva essere ancora più esplosivo almeno per le sorti del Pci. Infatti quel 10 novembre del 1961 il caso esplose dentro all’austero e di solito riservatissimo comitato centrale. La questione esplosiva era proprio la sorte di centinaia di comunisti italiani e i esuli antifascisti finiti nei gulag insieme a milioni di russi. Il tema più controverso era il ruolo del partito e quello di Togliatti. Esplose nelle stanze di Botteghe Oscure il caso di Paolo Robotti, operaio torinese genero e collaboratore strettissimo di Togliatti finito anche lui nelle mani Kgb e ripreso per i capelli prima che finisse in un campo in Siberia. Togliatti non mosse un dito per Robotti, e forse Robotti era stato arrestato per colpire indirettamente Togliatti. Quella storia venne raccontata per la prima volta in quell’assemblea e fu pubblicata sull’Unità stavolta clamorosamente senza i freni e autocensure..
Era una grande occasione: le carte erano in tavola, il partito spaccato, Amendola all’attacco di Togliatti e l’ingraiano Natoli che chiedeva il congresso straordinario. Il comitato centrale fu chiuso da Togliatti. Ma quel discorso (caso unico nella storia del Pci) non venne mai pubblicato, non ve n’è traccia neppure all’Istituto Gramsci tra le carte di allora. Conteneva - per quel che sappiamo dai testimoni - una rivendicazione del suo ruolo negli anni duri. Dentro c’era anche qualche minaccia politica: se volete fare un partito antisovietico allora io ne farò uno mio. Disse più o meno.
Ecco, oggi a Levashovo, Piero Fassino è andato a chiudere quella storia. Il muro non c’è più da 18 anni, l’Urss è un ricordo, il Pci chiuse la sua vicenda nell’inverno del 1991. In questi anni molti conti son stati fatti, tanti giudizi cambiati, tanti errori rivisti. Fassino a San Pietroburgo rende omaggio agli italiani (comunisti e antifascisti, esuli in quella Russia che doveva essere il paradiso dei lavoratori e che divenne la loro prigione e la loro tomba) uccisi e riconosce le colpe e le responsabilità »della delazione dei loro stessi compagni e della colpevole connivenza di quei dirigenti che - pur autorevoli come Togliatti - non ebbero il coraggio di sfidare la macchina oppressiva della dittatura». No, certamente Togliatti quel coraggio non l’ha avuto anche se nella Mosca degli anni Trenta, nel cima avvelenato delle purghe, quel coraggio non lo ebbero in molti. Fassino chiude quel capitolo non senza ricordare chi «non si sottrasse alla propria responsabilità morale e politica. Tra chi non si piegò anche Antonio Gramsci che si battè per sottrarre i suoi compagni ad un destino tragico». È la storia di Gino De Marchi amico di Gramsci ingiustamente accusato di essere una spia e scagionato dallo stesso fondatore del Pci, ma poi ucciso nelle purghe.
Qualcuno si chiederà perché Fassino abbia voluto compiere anche quest’ultimo passo. Mancano cento giorni più o meno alla data di nascita del Partito democratico che sarà - formalmente o meno - anche la data che chiuderà la storia dei Ds. Tra cento giorni non ci sarà più il partito che - con tutte le sue rotture - porta l’eredità nella storia italiana del Pci. Questa era in qualche modo l’ultima occasione per rendere omaggio a quegli italiani uccisi dallo stalinismo e di distinguere tra chi ebbe il coraggio e chi no. Veltroni l’altro giorno al Lingotto ha parlato del Pd come di un partito non ideologico. Nuovo, come spogliato di ogni storia che può permettersi di non esser mai estremista o moderato per legittimarsi. Fassino prima di passare al partito nuovo che fortissimamente ha voluto compie un gesto che chiude, senza lasciare nodi irrisolti alle spalle, la storia dei Ds.

il manifesto 30.6.07
Titti Di Salvo, di Sd: «Accelerare? Non si può puntare solo alla somma di quel che c'è. Partiamo dal territorio e dai fatti concreti»
«No ai recinti. Unire la sinistra compreso lo Sdi»
di Micaela Bongi


L'inizio dell'era Veltroni, il segretario di Rifondazione, Franco Giordano, che preme sull'acceleratore dell'unità a sinistra proponendo un'assemblea a luglio con vertici dei partiti, sindacati, associazioni e movimenti. E la Sinistra democratica di Fabio Mussi come risponde? La capogruppo a Montecitorio di Sd, Titti Di Salvo, rilancia la proposta fatta alla riunione del 23 giugno: una fondazione di tutte le sinistre, compreso lo Sdi.
Giordano, che punta anche a un simbolo comune per le amministrative del 2008, non vi convince?
Noi abbiamo proposto una fondazione per rielaborare la cultura politica della sinistra. L'interpretazione critica del passato è la parte più semplice. Più complicato è interpretare e proporre strategie in un mondo profondamente cambiato. Noi nasciamo per contribuire a cambiare l'Italia. Per essere una sinistra di governo. Di fronte all'accelerazione rispondiamo che siamo nati proprio per unire la sinistra, è nei nostri geni Ma occorre una profonda elaborazione politica, non si può semplicemente puntare alla somma di quel che c'è. La nostra scelta è quella di fare massa critica insieme ad altri su appuntamenti decisivi come il Dpef, la precarietà... Con lo Sdi abbiamo deciso di non partecipare alla conferenza del governo sulla famiglia. Insomma, scelte operative avendo chiaro l'obiettivo. Scegliamo il terreno del fare. La proposta di Giordano è più generale: mettere insieme nel giro di 15 giorni una serie di soggetti.
Ma lancia l'assemblea per avviare una campagna sui contenuti.
Sì, ma noi percorriamo un'altra ipotesi, che punta ai fatti concreti. Quello che dice Giordano ha più significato se parte dal territorio. A livello nazionale ha controindicazioni in più, è una soluzione più fredda. Noi abbiamo scelto concretamente di lavorare all'unità della sinistra, ma anche con lo Sdi sulla laicità per dimostrare che ci interessa una unificazione della sinistra seria.
Al vostro interno si discute se privilegiare il rapporto con lo Sdi o con Prc, Pdci e Verdi. Bertinotti dice che la candidatura di Veltroni alla guida del Pd favorisce la nascita della Cosa rossa e da Sd Angius risponde che la Cosa rossa non esiste...
Io penso che la Cosa rossa sia uno slogan giornalistico utilizzato contro la potenzilità politica e culturale di un soggetto nuovo. La sinistra non ha recinti. Noi pensiamo a un movimento popolare, aperto, largo. Lo Sdi dovrebbe chiarirsi, ma non è questo il punto. Il nostro progetto non può essere tirato come un elastico, non ci sono due poli, lo Sdi da una parte e il Prc dall'altra con la Sinistra democratica che deve decidere se ingrossare una cosa o l'altra. Si dice che dopo la candidatura di Veltroni bisogna accelerare. Io dico fare presto, ma anche bene. Naturalmente il Pd è interlocutore e alleato di questa proposta politica.
Ma allora, l'assemblea di metà luglio non vi interessa?
La proposta è stata letta con interesse, naturalmente. Valuteremo, senza chiusure. Riconosciamo la volontà di mettere sul terreno un altro fatto politico rispetto al Pd, includendo anche altri soggetti, non solo i quattro partiti della sinistra. L'intenzione è positiva, ma appunto credo che il processo sarebbe ancora più positivo a livello territoriale.
Parli dei fatti concreti. Come la lettera dei quattro ministri sulla politica economica. Ma se Prc e Pdci ripetono che lo scalone va abolito, Mussi è apparso più possibilista sull'allungamento dell'età.
In quella lettera c'è scritto che si deve trovare l'accordo con il sindacato. La proposta messa sul tavolo quando si è rotto, quella dei 58 anni con tre anni per sperimentare, è importante. 58 anni è l'età in cui realisticamente si va in pensione.
Hai detto che il Pd è interlocutore e alleato. Veltroni, a Riotta che gli ha chiesto se la sinistra sarà scaricata, ha risposto che le coalizioni si formano in ragione degli assetti istituzionali e se la legge elettorale consentirà di scegliere coalizioni omogenee, si potrà vedere.
Ah. Non corrisponde a quanto ha detto al Lingotto. In ogni caso la sinistra avrà un riconoscimento elettorale molto alto. Non penso si potrà prescidere dalla sinistra.
Veltroni alla guida del Pd vi preoccupa? Potrebbe attirare anche una parte di Sd o dei suoi elettori.
Ha carisma, una capacità di ascolto che lo rende un dirigente politico apprezzato da tutti. Intrepreta nel modo migliore il Pd, è il leader autentico per un progetto moderato. Il Pd non sceglie sulla laicità, e non scegliendo sceglie. Non sceglie sul lavoro e sul socialismo europeo. Veltroni resta un interlocutore importante.
Potrà essere anche il leader dell'Unione?
Il leader non lo sceglie il Pd, lo scelgono le primarie. Naturalmente Veltroni ha un profilo che gli consente di esserlo.

Repubblica 30.6.07
Sinistra e Cgil di fronte al bivio
di Eugenio Scalfari


Il Veltroni-day di mercoledì scorso, il Dpef di giovedì, la trattativa sullo «scalone» e l´età pensionabile ancora in bilico, il livello di gradimento del Partito democratico subito dopo la candidatura del sindaco di Roma, la deposizione di Vincenzo Visco, accusato dal generale Speciale di abuso d´ufficio, dinanzi alla Procura di Roma: tanti fatti politici (anche l´imputazione del viceministro delle Finanze lo è) raccolti in un brevissimo arco di giorni dimostrano che la politica è in pieno movimento e non è affatto andata in ferie. E dimostrano un´altra cosa ancora, di notevole importanza, e cioè che l´agenda dei temi in discussione non è più – come da qualche tempo era – nelle mani dell´opposizione ma è ritornata in quelle del governo e della maggioranza: risultato importante per il centrosinistra che tra l´altro tre giorni fa ha colto un´altra vittoria al Senato nella votazione delle mozioni sulla politica fiscale.
Siamo forse arrivati a quella famosa «svolta» tanto auspicata dopo un anno di caduta del consenso, di inarrestabile impopolarità di Prodi e di Padoa-Schioppa, di secessione politica del Nord e di recupero del berlusconismo tra i ceti produttivi sempre più tentati dalla scelta – eversiva negli effetti se non nelle intenzioni – dello sciopero fiscale?
È ancora presto per dare la svolta come avvenuta. Gli ultimissimi sondaggi, effettuati dopo l´accettazione di Veltroni della candidatura a segretario del costruendo Partito democratico, registrano un robusto segnale positivo nelle intenzioni di voto verso il nuovo partito ma contemporaneamente un crollo ulteriore del consenso nei confronti del governo, disceso ad un livello minimo. È vero che si tratta di sondaggi effettuati prima dell´approvazione del Dpef, ma il giudizio negativo del campione interrogato (i dati compaiono oggi su questo giornale) è di tale severità da render quantomeno impervio il cammino della ripresa e quindi l´efficacia della svolta.
Il percorso sarà dunque ancora per lungo tempo in salita. La tenuta del governo e l´arrivo in campo di Veltroni sono due elementi strettamente interconnessi che non possono fare a meno l´uno dell´alto. Al di là delle intenzioni dei protagonisti questo reciproco condizionamento è un dato oggettivo che dev´esser tenuto ben presente da tutti gli interessati. Ogni errore ed ogni scarto da questo strettissimo sentiero di recupero della fiducia collettiva potrebbe esser fatale; ogni iniziativa che non tenga conto di quel legame rischia di far deragliare il convoglio che si è faticosamente rimesso in moto. Protagonisti e comprimari debbono sapere che non c´è più spazio per improvvisazioni, per retropensieri, per ricerche di visibilità e per fughe in avanti o all´indietro.
Il centrosinistra può recuperare la sua forza iniziale soltanto se sarà compatto; altrimenti cadrà in tutte le sue componenti, nessuna delle quali scamperà dal naufragio.
* * *
Berlusconi ha definito il programma esposto da Veltroni dalla tribuna del Lingotto un "compitino"; Fini, Casini e Bossi un libro dei sogni. Tutti e quattro hanno chiesto comunque che Prodi e il suo governo si tolgano immediatamente di mezzo. Poi si vedrà.
La tattica è quella di colpire l´anello debole del convoglio avversario, la strategia consiste nel bruciare Veltroni ai nastri di partenza prima che il vettore del Partito democratico sia entrato in orbita.
Tutto ciò è molto chiaro ma non nasconde, anzi rivela una forte preoccupazione nelle file del centrodestra. Se il Partito democratico decollerà con le primarie del 14 ottobre, da quel momento in poi sarà molto difficile bloccare il recupero del centrosinistra e si porrà invece con forza il principale problema che affligge da tempo la destra italiana: come disfarsi di Berlusconi. I possibili eredi sperano in un governo interinale che faccia esplodere il centrosinistra e riduca Veltroni ad un crisantemo appassito.
Si dirà che queste marce e contromarce sono puro politichese e non interessano i cittadini alle prese invece con altri e assai più concreti problemi. Verissimo.
Ma è altrettanto vero che tutti quei problemi sono stati individuati ed elencati nel programma di Veltroni e ne è stata indicata anche la soluzione. Non è affatto un libro dei sogni. Le soluzioni sono a portata di mano per quanto riguarda il precariato, la politica fiscale, la sicurezza e la legalità, le infrastrutture, l´ambiente, la riforma del Parlamento, i poteri del "premier".
Resta ancora insoluto il tema della legge elettorale, che non è cosa da poco.
Quanto al tema della laicità, una forza politica forte non ha ragione di temere divisioni su questo punto: la Chiesa, anzi le Chiese, hanno pieno diritto di esprimersi nello spazio pubblico liberamente usufruibile da tutte le associazioni portatrici di valori, fermo restando il principio che nessuno di quei valori può sovrapporsi alla laicità dello Stato democratico, custode delle libertà e del pluralismo delle opinioni.
I cattolici democratici che hanno scelto da tempo il centrosinistra hanno avuto il merito di segnare il confine non valicabile tra il magistero della Chiesa e l´indipendenza delle istituzioni, laiche per definizione. Da questo punto di vista il tandem Veltroni-Franceschini rappresenta plasticamente questo positivo connubio ed è abissalmente lontano dalla sudditanza dimostrata dal centrodestra di fronte alle irruenze d´un magistero troppo spesso tentato da pulsioni fondamentalistiche.
* * *
Commentando il discorso-programma del Lingotto molti analisti hanno richiamato l´esempio di Blair. I più acuti hanno osservato che Blair ha avuto successo dalla sua politica sociale ed economica perché prima di lui era toccato alla Thatcher di fare il "lavoro sporco". Veltroni invece – hanno scritto – il lavoro sporco dovrà farlo lui e non sarà fatica da poco.
In ogni paese e in ogni epoca c´è un lavoro sporco da fare. Nell´Italia dei primi anni Novanta il lavoro sporco lo fecero Giuliano Amato e poi Carlo Azeglio Ciampi, scongiurando una crisi finanziaria di dimensioni inedite, ancorando la lira ad un cambio stabile nel sistema europeo dei pagamenti e avviando la concertazione con le parti sociali. Lo proseguì Lamberto Dini varando una riforma delle pensioni di buona qualità.
Venne poi la volta del governo Prodi-Ciampi e il lavoro sporco (per dire un lavoro impopolare ma indispensabile per aprire la via al futuro) fu quello di portare l´Italia in Eurolandia chiedendo al Paese pesanti sacrifici e aprendo il mercato del lavoro alla flessibilità con le leggi Treu.
Dopo il quinquennio berlusconiano, trascorso in un profluvio di leggi che non hanno innovato nulla nella struttura economica ma hanno, in compenso, dilapidato le risorse della pubblica finanza, il lavoro sporco lo hanno fatto Prodi, Padoa-Schioppa, Bersani, Visco, riportando in un anno la finanza pubblica dentro ai parametri di Maastricht e recuperando un avanzo primario di bilancio da zero al 2.5 per cento del Pil.
Veltroni – se e quando verrà il suo turno – avrà anche lui un lavoro sporco da compiere e sarà quello di indebolire le corporazioni e portare avanti la liberalizzazione dell´economia. Contemporaneamente occorre governare il presente ed è ciò che il governo attuale ha cominciato a fare con il Dpef approvato giovedì: l´aumento del potere d´acquisto delle pensioni più basse, aiuti alle famiglie e ai giovani, finanziamento delle infrastrutture a cominciare dalla Tav, detassazione dell´Irap, detassazione dell´Ici, avvio del federalismo fiscale.
Veltroni ha delineato le tappe successive e innovative: lotta al precariato, diminuzione delle aliquote delle imposte sul reddito di pari passo con la lotta contro l´evasione e il sommerso.
Questo non è un libro dei sogni ma quanto già in parte avvenuto e potrà avvenire per realizzare un Paese unito, non più diviso tra Nord e Sud, tra giovani e anziani, tra lavoratori dipendenti e autonomi, così come indica il programma del Lingotto.
* * *
Nella settimana che viene ci sarà il round, si spera definitivo, tra governo e sindacati sull´età pensionabile, una "soap opera" che va avanti ormai da troppo tempo e che a questo punto si deve chiudere.
A noi sembra che esistano tutti gli elementi per arrivare ad un accordo nel rispetto degli interessi delle parti e della compatibilità con i parametri di bilancio, cioè con le risorse versate allo Stato dai contribuenti.
E´ auspicabile che sulle proposte "ultime" che il governo presenterà ci sia l´accordo dei sindacati, molte rivendicazioni dei quali sono già state accolte.
Al di là delle proposte ultime il governo non può e a nostro avviso non deve andare. Se la Cgil riterrà di proclamare uno sciopero generale, è suo diritto e avrà le sue ragioni. Uno sciopero del genere non comporta la crisi di governo, a meno che non sia provocata dal ritiro di alcune componenti della coalizione.
Si assuma ciascuno le sue responsabilità, dopo avere ben meditato sulle conseguenze politiche, ma vorrei qui dire storiche, alle quali può portare un gesto inconsulto suggerito da esclusivi interessi di partito.
Anche di questo ha parlato Veltroni a Torino incitando i sindacati a non chiudersi nella difesa pur legittima dei loro associati senza tener presenti gli interessi dei giovani e dell´intera comunità nazionale. Il sindacato è stato forte ed essenziale alla stabilità della democrazia quando ha operato nel quadro delle compatibilità nazionali, debole invece e disutile quando ha assunto le forme d´una corporazione. Sarebbe grave se oggi imboccasse questa strada che non ha né sbocco né ritorno.

Corriere della Sera 30.6.07
Il pensatore del Seicento, lontano dalla religione ma tentato di negare il mondo
Spinoza, Dio e il Nulla
Il paradosso del grande filosofo: un legame segreto lo avvicina a Cristo
di Emanuele Severino


La filosofia nasce volendo essere libera: indipendente da miti, fedi, religioni, opinioni, istinti, costumi sociali, oltre che da ogni costrizione e comandamento che provengano dall'esterno di ciò che essa porta alla luce, chiamandolo «verità». Ma lungo la sua storia la filosofia si è posta sempre in rapporto con tutte queste forze, da cui essa non intende farsi guidare, per indagarne il significato e la consistenza: soprattutto con le religioni monoteistiche (e con il potere politico) — e in particolare col cristianesimo. All'interno della grande epoca della tradizione filosofica, cioè del pensiero che pone l'Eterno al di sopra o nel cuore del Tempo, e al suo fondamento, Spinoza è certamente il più lontano dal mondo religioso. Si può dire che quello di Spinoza sia addirittura «il più radicale e alternativo sistema della storia filosofica dell'Occidente dopo la venuta di Cristo»? Lo sostiene Filippo Mignini, che con grande perizia e acume ha curato la prima edizione italiana di tutte le opere del filosofo, con la collaborazione di un'altro specialista, Omero Proietti, per i Meridiani di Arnoldo Mondadori editore: Spinoza Opere; quasi duemila pagine, ottime traduzioni inedite; un evento culturale importante.
Sono note le vicende di questo grande, probo e pacifico pensatore ebreo, cacciato dalla Sinagoga e condannato, oltre che dagli ebrei, dai cristiani, protestanti e cattolici, e dagli Stati. Nonostante l'ammirazione di un ristretto circolo di amici, lo si considera «l'uomo empio e pericoloso di questo secolo», come scrive Arnauld, approvato da Leibniz (che però nel 1671 invia a Spinoza, a cui riconosce «insigne perizia nell'ottica», il proprio scritto Notizia sui progressi dell'ottica, per averne il giudizio). Anche Boyle, il grande precursore della chimica moderna, indirettamente in contatto con Spinoza, contribuisce a denunciare l'empietà. «Ateo, fatalista, materialista, dissacratore della Scrittura e di ogni religione, corruttore della morale e dalla stessa convivenza umana»: queste, ricorda Mignini, le accuse principali rivolte al filosofo.
Ma il giorno di Natale del 1784 Herder dona a Goethe gli Opera Posthuma di Spinoza: «Rechi oggi il santo Cristo in dono di amicizia il santo Spinoza», scrive; «Spinoza sia sempre per voi il santo Cristo». Odiato o dimenticato per un secolo, a partire dagli ultimi lustri del XVIII secolo il pensiero di Spinoza viene riconosciuto in tutta la sua potenza. Jacobi, Fichte, Schelling, Herder, Goethe, Schiller, Lessing, Hegel, Schopenhauer, Nietzsche, Borges, Einstein, tra gli artefici e i testimoni di questa rinascita. Che anche oggi è attuale — soprattutto per le tesi sul rapporto tra Stato e Chiesa, fede e ragione e per la difesa della democrazia. «La libertà di filosofare — si legge sul frontespizio del Tractatus theologico-politicus — si può concedere senza danno per la pietà e la pace dello Stato, ma, anche, essa non si può togliere senza togliere la pietà e la pace dello Stato». Sullo sfondo di queste tematiche, la decisione del filosofo di «ricercare un bene vero e condivisibile »: «qualcosa grazie al quale, una volta scoperto e acquisito, godessi in eterno una gioia continua e suprema».
Tale bene è Dio. Un Dio, certo, molto diverso da quello pensato dalla filosofia dopo l'annuncio cristiano: ad esempio non è persona, non ha volontà né scopi, include la natura, e quindi anche ciò che erroneamente gli uomini credono male e peccato. E tuttavia possiede quei caratteri della potenza e dell'eternità che sono propri di ogni modo in cui la tradizione filosofica ha pensato il divino.
Si tratterebbe di comprendere che anche alle radici di una filosofia come quella di Spinoza, così lontana dalle (sia pur grandi) abitudini concettuali della civiltà occidentale, è presente l'essenza stessa di quelle abitudini, il tratto decisivo rispetto al quale le pur profonde differenze tra Spinoza e i suoi avversari passano in secondo piano. «Alle radici», diciamo: perché si tratterebbe di scendere sul fondo dell'abisso su cui è sospeso il pensiero dell'uomo occidentale, e ormai dell'uomo planetario. Sin dall'inizio dell'Etica, il suo capolavoro, Spinoza distingue ciò che esiste necessariamente, cioè non è mai inesistente, ed è Dio, l'Eterno, da ciò che invece non esiste necessariamente, nel senso che non è sempre esistente ed è l'insieme delle «cose prodotte da Dio», esistenti nel Tempo. Ora, essenzialmente, radicalmente più decisiva del modo in cui Spinoza «dimostra » l'esistenza di Dio — e più decisiva di ogni altra «dimostrazione» di tale esistenza, proposta lungo la storia del pensiero occidentale — e la convinzione che le cose del mondo non esistono necessariamente: nel senso, appunto, che non sono sempre esistenti (anche se accadono necessariamente). Spinoza condivide questa convinzione con ogni altra forma (anche religiosa, dunque) del pensiero dell'Occidente.
Si dirà: è ovvio che la condivida! Infatti è la verità più evidente di tutte! E oggi si aggiunge: ed unica verità evidente!— Questo dire e questa aggiunta sono inevitabili. Infatti, anche se la cosa è tutt'altro che facile a comprendersi, l'onnipresente essenza della civiltà occidentale e appunto la convinzione che le cose del mondo non siano sempre esistenti e che questa loro non necessaria esistenza sia l'evidenza originaria o, addirittura, come oggi si conviene, l'unica evidenza assoluta.
Perché, allora, perdere tempo con ciò che oggi è rimasta l'unica verità fuori discussione, e non impegnarsi invece per diradare un poco le nebbie dell'incertezza che avvolge la vita dell'uomo? Proviamo a rispondere così: perché quanto sembra l'unica verità veramente fuori discussione è invece l'errare più profondo, e anche più nascosto. Ma come possiamo azzardarci a dir questo? Che presunzione! Ancora maggiore, la presunzione, se si tiene presente, che anche per la scienza moderna le cose del mondo non esistono sempre: esse sono, dopo non essere state, e tornano a non essere: sporgono provvisoriamente dal nulla.
Certo, sembra proprio un azzardo e una presunzione. Con i quali, tuttavia, acquista un maggior spicco il motivo per cui affermiamo che anche una filosofia come quella di Spinoza, così lontana dalle abitudini morali e concettuali dell'Occidente cristiano, e, ciò nonostante, profondamente solidale con l'essenza di tali abitudini. Anche a Nietzsche (che vede in Spinoza il pensatore a lui «più vicino») compete questa solidarietà.
Poi, si tratterà di pensare la follia di quell'essenza. Credere che le cose escano e ritornino nel nulla — ad opera di un Dio o da sole — non è forse credere che le cose siano nulla? non è forse credere che ciò che non è nulla sia nulla? e questa fede non è forse la mano più terribile e violenta? non uccide forse uomini e cose nel modo più originario e radicale, quello che sta al fondamento della violenza visibile che tutti sono capaci di scorgere? Sul fondamento di questa fede, ogni santità è la culla dell'omicidio e di ogni altra forma di annientamento.
Certo, è indiscutibile che per Spinoza (sulla scia di Seneca e in generale dello stoicismo) le decisioni umane e tutte le cose avvengono per «fatale necessità» (fatalis necessitas); che nessuna cosa può esistere diversamente da come esiste e che dunque ogni cosa è necessaria. Certamente! Ma nel senso che ogni cosa del mondo si genera e si corrompe necessariamente: non nel senso che non si generi e non si corrompa. Che tali cose escano dal nulla e vi ritornino seguendo o non seguendo un percorso inevitabile indica due prospettive che per quanto fortemente opposte hanno tuttavia in comune la convinzione decisiva e abissale: che le cose del mondo sono nulla. La stessa convinzione che accomuna nell'essenziale le esperienze in cui, lungo la storia dell'Occidente, si pone un Dio alla guida della produzione e distruzione delle cose e le esperienze dove invece si ritiene che tale produzione-distruzione non abbia bisogno di alcun Dio. Questa accomunante convinzione è l'«intima mano», assolutamente più intima e terribile di quanto possa supporre Herder, quando, volgendosi al «santo Cristo» e al «santo Spinoza», si chiede: «Quale intima mano congiunge i due in uno»?

Corriere della sera 30.6.07
Madrid: dipinti e disegni dell'artista olandese al museo Thyssen-Bornemisza
Van Gogh: i colori degli ultimi due mesi
di Julio Neira


Diciannove dipinti e quattro disegni di Vincent van Gogh, tre olii di Cézanne, due di Pizarro e uno di Charles François de Daubigny, compongono la prima mostra dedicata agli ultimi due mesi di vita del geniale artista olandese, trascorsi a Auvers- sur-Oise. Il 20 maggio del 1890, Van Gogh scese dal treno in quel piccolo paese ad un'ora da Parigi. La settimana prima era uscito dal manicomio di Saint-Rémy, dopo avervi trascorso un anno da internato. Due mesi più tardi, il 27 luglio, si sparò un colpo di pistola.
In soli settanta giorni Van Gogh realizzó altrettanti quadri e una trentina di disegni. Fra i dipinti ora esposti, Il giardino di Daubigny, Case di Auvers e Due donne nel bosco.
Auvers era abitata da pastori e contadini, che soffrivano la modernizzazione del paesaggio francese, rappresentata dalla sostituzione delle capanne tradizionali con ville moderne con tegole d'ardesia o i tetti dai colori vivaci.
Questo contrasto, che sará il tema principale dei dipinti che Van Gogh realizzerà fra maggio e giugno, simboleggia anche la sua crescita come pittore, dagli insegnamenti della tradizione pittorica olandese fino al colorismo moderno appreso dagli impressionisti di Parigi.
A luglio saranno i campi spogli, essenziali, sprovvisti di pretesti narrativi, l'oggetto della sua continua ricerca del sublime.
Disegnare con il colore è il tratto dominante di tutta la sua tarda opera. Nel periodo di Auvers, Van Gogh si attiene meno ai particolari naturalistici, il suo tratto si moltiplica e si contorce, producendo arabeschi fra alberi e case, oscillazioni nei campi di grano, movimenti e ritmi sinuosi di enorme vitalità dinamica (Paesaggio al crepuscolo, Campi di grano, Campo con papaveri).
Nella ultime opere, Van Gogh opera una sorta di sintesi fra le due tappe opposte e complementari del suo lavoro. Questa magnifica mostra permette di assistere all'apoteosi emozionale e tragica di una vita dedicata ossessivamente alla pittura.
(Trad. di Patrizia Olgiati)
VAN GOGH: GLI ULTIMI PAESAGGI, Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza, sino al 16 settembre. Tel. 0034/913690151

Cara Unità,
per una volta – tanto per cambiare – facciamo noi un po’ di ingerenza nello Stato vaticano e chiediamo formalmente a Joseph Ratzinger che desista dal suo tentativo di ripristinare la messa in latino. Avevamo già colto nel nuovo papa la propensione a ritornare indietro nel tempo, dalla sua scelta di orpelli come il camauro e la mozzetta... Ma quella di imbrogliare i suoi seguaci ricorrendo a una lingua che essi non conoscono (vieppiù rivolgendo loro la schiena, come previsto dalla messa tridentina), è una mossa troppo scorretta! Se non torna sui suoi passi saremo costretti a evocare lo spirito di Martin Lutero, che ritraduca a beneficio di tutti i fedeli e in tutte le lingue la parola del Signore. Il loro Signore.
Paolo Izzo, Roma