A Milano con Rifondazione e lo Sdi
Mussi: accelerare la ricerca di unità
di Luigina Venturelli
Da soli non si combina molto.Soprattutto quando la sfida è di considerevoli dimensioni: «Se vogliamo difendere il bipolarismo, una delle poche cose buone acquisite dal nostro sistema politico, dobbiamo costruire una sinistra unitaria, che stringa una forte alleanza con il nascente Partito democratico». Fabio Mussi non ha dubbi: se il processo di innovazione politica avviato da Sinistra democratica, Rifondazione comunista e Sdi non avrà successo, si prospetta una deriva di «ipotesi trasformistiche e alleanze variabili».
Ieri a Milano per un incontro organizzato dalle tre forze della sinistra di governo, in occasione della presentazione del libro di Aldo Garzia, Olaf Palme, vita e assassinio di un socialista europeo (Editori Riuniti), il ministro dell’Università ha delineato la propria agenda dei prossimi mesi. Ovvero l’accelerazione di un processo che il Pd ha reso inevitabile: «Io lavoro per unificare a sinistra una vasta area, che va ben oltre i confini del Novecento.nessuno deve alzare le proprie bandierine identitarie, non stiamo discutendo tra membri della Seconda e della Terza Internazionale.C’è una grande discussione in corso, il movimento cresce, ora bisogna dargli una prospettiva». Quella appunto di «una sinistra forte che si allei con il Partito democratico di Veltroni». Per il leader in pectore del Pd, Mussi ha riservato parole di stima: «Lui può salvare il salvabile. Il Pd era una nave lanciata contro gli scogli e destinata ad affondare. Sono contento, spero che ce la faccia. Se c’è qualcuno che può salvare qualcosa è lui».
L’avvento del sindaco di Roma ha reso comunque urgente la compiuta definizione della sinistra democratica. Non a caso Mussi sta girando l’Italia, spesso per dibattiti e iniziative congiunte con Rifondazione e con lo Sdi: Orvieto, Genova, Viterbo, Napoli e, ovviamente, Milano. Ma senza farne un terreno perduto da riconquistare, perchè «il voto ha dimostrato che per il centrosinistra ci sono una questione settentrionale, una questione meridionale e una questione centrale. L’elezioni sono andate male dappertutto».
Faccenda impegnativa dunque. Ma l’appoggio di Rifondazione comunista è convinto: «Vogliamo costruire un processo unitario a sinistra - ha affermato il capogruppo alla Camera, Gennaro Migliore - per recuperare le idee forza che hanno costruito la sinistra europea: il pacifismo, un nuovo modello di sviluppo e la democrazia fondata sull’uguaglianza».
Molto più prudente invece Ugo Intini dello Sdi: «L’interlocuzione con la sinistra orgogliosa delle sue radici è utile, ma serve chiarezza: chi si riconosce nella sinistra europea è un interlocutore ma appartiene a un’altra famiglia. Si tratta dunque di interlocuzione fra alleati».
l'Unità 4.7.07
I graffi e i volti dei maestri dell’Africa
«Non fu un prodotto tribale ma di veri e propri artisti»
di Itala Vivan
Mendrisio, cittadina ticinese ai bordi del confine lombardo, offre manifestazioni culturali importanti. Oltre a essere sede dell’Accademia di Architettura diretta da Mario Botta, vanta un bel museo situato nel chiostro di un antico convento, dove fino al 22 luglio sono esposte 84 preziose sculture africane provenienti dalla collezione privata dello svizzero Horstmann. L’arte africana sta ormai conquistando la scena internazionale, e viene finalmente presentata con la dignità e il rilievo che le compete, grazie anche alla lunga opera di analisi condotta da critici e specialisti del settore fra i quali brilla l’italiano Ezio Bassani, cui si debbono altre rassegne epocali a Firenze, Torino, Montecarlo e altrove. Bassani, sapiente curatore della mostra di Mendrisio, ha articolato la sua selezione delle opere al fine di sostanziare un ben visibile discorso critico.
Nell’ambiente raccolto del chiostro dell’ex convento di San Giovanni, le sagome del mondo africano colpiscono l’occhio del visitatore per il rigore dello stile, l’uso culturalmente coerente dei volumi, delle forme e delle eleganti decorazioni, la forza suggestiva delle raffigurazioni. All’ingresso si viene accolti dal grande ovale di una maschera fang dai lineamenti severi e quasi malinconici: un volto di spirito-fanciulla sulle cui guance spicca una scarificazione che richiama alla memoria il logo enigmatico che contrassegna le opere dell’artista haitiano-americano contemporaneo Jean Michel Basquiat, costruite come graffiti cifrati, ricchi di rimandi africani. La maschera fang, ingrandita nello stendardo, invita a entrare nello spazio di significazione leggendo le opere africane come vive espressioni di ricerca formale, e non più, come si faceva in passato, come strumentali reperti etnografici.
La prima parte della mostra contiene dei pezzi sicuramente datati con la misurazione del Carbonio 14, oppure per analogia con altri simili; fra essi spicca una monumentale figura seduta, di artista mbembe (Nigeria), che risale alla seconda metà del Settecento e in origine ornava un grande tamburo. Qui il curatore Bassani argomenta la storicità dell’arte africana, solitamente negata in epoca coloniale, ma invece rintracciabile non solo grazie all’analisi formale, ma anche con precise rilevazioni tecniche. Una seconda sequenza offre opere di eccezionale livello formale pur nella varietà di provenienza, fra cui si ricordano una statua rituale songye (Congo) che indossa una maschera e inalbera un minaccioso corno rivolto verso chi guarda. Segue un piccolo gruppo di sculture luba (Congo) in cui è percepibile la differenza di mano dei singoli artisti che si affermano al di là degli schemi culturali comuni, così che il visitatore noti come anche l’arte africana sia figlia di artisti individuali che non erano mai anonimi, anche se i loro nomi - affidati alla tradizione orale - non sono pervenuti sino a noi, o forse sono tuttora celati nel segreto del patrimonio orale africano che è tendenzialmente chiuso all’orecchio esterno. A comprovare ulteriormente questa verità vi sono sette importanti sculture in cui si è ravvisata la mano di artisti ben identificabili, come è il caso del bellissimo poggiatesta attribuito al cosiddetto «Maestro delle capigliature a cascata», scultore luba shankadi presente anche nelle collezioni africane del Louvre.
Lungo i corridoi si allinea quindi una serie di oggetti e statue di dimensioni ridotte e anche ridottissime ma di straordinari pregi formali. Racchiuse in vetrine cubiche, immerse nella penombra conventuale, queste opere rivelano grande bellezza e forte originalità espressiva, sebbene siano spesso oggetti di uso comune oppure destinati a scopi rituali. Le figurine zaramo provenienti dalla Tanzania, i cucchiai bembe del Congo, il vaso zulu del Sudafrica e il gancio di artista punu a cavalcioni del quale è raffigurato un suonatore di tamburo, appaiono di fattura raffinata e insieme vivacemente originale.
L’allestimento, che nell’insieme appare semplice ed elegante, alieno da invadenze esornative, ha collocato le vetrine in modo da consentire al visitatore di girare intorno ai pezzi esposti e ammirarli a tutto tondo.
La maggior parte delle sculture proviene dall’area del Congo, ma molte regioni dell’Africa subsahariana sono rappresentate, sempre però in base a un criterio di eccellenza formale. Udo Horstmann, che ha costruito l’attuale raccolta dopo una serie di tentativi falliti, confessa «Per trovare i pezzi di sicuro valore formale ho dovuto studiare a lungo la produzione africana e guardare le grandi collezioni esistenti. Poi, attraverso l’osservazione, sono entrato in contatto con la bellezza segreta delle opere, e ho comperato quelle di cui mi sono innamorato». È normale che una collezione privata rispecchi le passioni del collezionista e ne riveli la competenza e i gusti. Ma nella mostra di Mendrisio all’eccellenza dei pezzi si sovrappone l’acuta e selettiva analisi di Bassani, che ha saputo fare di questa rassegna un serio ed efficace discorso critico, oltre che regalare ai visitatori un sicuro godimento estetico.
Uscendo da Mendrisio che, dice l’architetto Botta, è periferia di Milano, si osserva come grandi temi di cultura globale possano ridare nuova vita a territori già marginali di realtà metropolitane.
Nell’ambiente raccolto del chiostro dell’ex convento di San Giovanni, le sagome del mondo africano colpiscono l’occhio del visitatore per il rigore dello stile, l’uso culturalmente coerente dei volumi, delle forme e delle eleganti decorazioni, la forza suggestiva delle raffigurazioni. All’ingresso si viene accolti dal grande ovale di una maschera fang dai lineamenti severi e quasi malinconici: un volto di spirito-fanciulla sulle cui guance spicca una scarificazione che richiama alla memoria il logo enigmatico che contrassegna le opere dell’artista haitiano-americano contemporaneo Jean Michel Basquiat, costruite come graffiti cifrati, ricchi di rimandi africani. La maschera fang, ingrandita nello stendardo, invita a entrare nello spazio di significazione leggendo le opere africane come vive espressioni di ricerca formale, e non più, come si faceva in passato, come strumentali reperti etnografici.
La prima parte della mostra contiene dei pezzi sicuramente datati con la misurazione del Carbonio 14, oppure per analogia con altri simili; fra essi spicca una monumentale figura seduta, di artista mbembe (Nigeria), che risale alla seconda metà del Settecento e in origine ornava un grande tamburo. Qui il curatore Bassani argomenta la storicità dell’arte africana, solitamente negata in epoca coloniale, ma invece rintracciabile non solo grazie all’analisi formale, ma anche con precise rilevazioni tecniche. Una seconda sequenza offre opere di eccezionale livello formale pur nella varietà di provenienza, fra cui si ricordano una statua rituale songye (Congo) che indossa una maschera e inalbera un minaccioso corno rivolto verso chi guarda. Segue un piccolo gruppo di sculture luba (Congo) in cui è percepibile la differenza di mano dei singoli artisti che si affermano al di là degli schemi culturali comuni, così che il visitatore noti come anche l’arte africana sia figlia di artisti individuali che non erano mai anonimi, anche se i loro nomi - affidati alla tradizione orale - non sono pervenuti sino a noi, o forse sono tuttora celati nel segreto del patrimonio orale africano che è tendenzialmente chiuso all’orecchio esterno. A comprovare ulteriormente questa verità vi sono sette importanti sculture in cui si è ravvisata la mano di artisti ben identificabili, come è il caso del bellissimo poggiatesta attribuito al cosiddetto «Maestro delle capigliature a cascata», scultore luba shankadi presente anche nelle collezioni africane del Louvre.
Lungo i corridoi si allinea quindi una serie di oggetti e statue di dimensioni ridotte e anche ridottissime ma di straordinari pregi formali. Racchiuse in vetrine cubiche, immerse nella penombra conventuale, queste opere rivelano grande bellezza e forte originalità espressiva, sebbene siano spesso oggetti di uso comune oppure destinati a scopi rituali. Le figurine zaramo provenienti dalla Tanzania, i cucchiai bembe del Congo, il vaso zulu del Sudafrica e il gancio di artista punu a cavalcioni del quale è raffigurato un suonatore di tamburo, appaiono di fattura raffinata e insieme vivacemente originale.
L’allestimento, che nell’insieme appare semplice ed elegante, alieno da invadenze esornative, ha collocato le vetrine in modo da consentire al visitatore di girare intorno ai pezzi esposti e ammirarli a tutto tondo.
La maggior parte delle sculture proviene dall’area del Congo, ma molte regioni dell’Africa subsahariana sono rappresentate, sempre però in base a un criterio di eccellenza formale. Udo Horstmann, che ha costruito l’attuale raccolta dopo una serie di tentativi falliti, confessa «Per trovare i pezzi di sicuro valore formale ho dovuto studiare a lungo la produzione africana e guardare le grandi collezioni esistenti. Poi, attraverso l’osservazione, sono entrato in contatto con la bellezza segreta delle opere, e ho comperato quelle di cui mi sono innamorato». È normale che una collezione privata rispecchi le passioni del collezionista e ne riveli la competenza e i gusti. Ma nella mostra di Mendrisio all’eccellenza dei pezzi si sovrappone l’acuta e selettiva analisi di Bassani, che ha saputo fare di questa rassegna un serio ed efficace discorso critico, oltre che regalare ai visitatori un sicuro godimento estetico.
Uscendo da Mendrisio che, dice l’architetto Botta, è periferia di Milano, si osserva come grandi temi di cultura globale possano ridare nuova vita a territori già marginali di realtà metropolitane.
L’ARTE AFRICANA viene finalmente presentata con la dignità e il rilievo che le compete. Così la mostra ospitata dal Museo di Mendrisio che espone ottantaquattro sculture della collezione Horstmann
l'Unità 4.7.07
Tango Connection, nazifascisti protetti da Usa e Vaticano
di Nicola Tranfaglia
SAGGI Le verità del libro di Casarrubea e Cereghino ignorate dalla storiografia: dal ruolo di Evita Peron alle «coperture» su Portella della Ginestra
In Italia esistono ancora due grandi tabù a quasi vent’anni dall’inizio degli anni novanta che segnò ufficialmente la conclusione della guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica.
Il conflitto si estinse per una ragione decisiva, la morte di uno dei duellanti: il comunismo sovietico nel ’91 crollò come Stato e, almeno in parte, come dottrina universale. Ma in Italia, nella società politica, non si può parlare degli Stati Uniti e dei suoi governi con critiche aperte: in questo caso si è subito qualificati come antiamericani (confondendo gli Stati Uniti con i suoi governi e uno stato come l’intero continente) e accussati di apparire come subalterni al governo sovietico che non esiste più da oltre quindici anni.
Il secondo tabù è il trasferimento di questa idea sul piano dei mass-media e addirittura sul piano della ricerca storica. Ricordo che nel 2004, quando pubblicai il libro Come nasce la repubblica che mostrava il forte intervento della Chiesa e dei servizi segreti americani nel passaggio dello Stato italiano dal fascismo alla repubblica, i grandi giornali italiani non vollero discutere il libro neppure per contestarlo perché affrontava quei problemi e così fecero per la maggior parte i miei colleghi storici. La motivazione, mai esplicitata, era chiara: i risultati della ricerca metteva in discussione l’alleanza che allora si stabilì tra gli alleati e i fascisti nel processo di formazione della nuova Italia.
Ora la storia si ripete di fronte a Tango Connection di Giuseppe Casarubbea e Mario J. Cereghino (pp. 200, euro 9, Bompiani) che ricostruiscono con una ricca documentazione tratta da archivi italiani, inglesi, americani e sloveni la storia di quel passaggio e scavano a fondo nelle connivenze e nelle complicità dei fascisti di Salò nella costruzione del quadro politico e repubblicano del ’43-48. Dal libro, pubblicato dall’editore Bompiani, emergono episodi di notevole interesse.
Il primo, del tutto inedito, riguarda il rapporto tra il regime di Peron e l’Italia degli anni quaranta. I documenti inglesi descrivono con precisione di particolari le modalità della fuga in Argentina di Ante Pavelic, leader degli ustascia croati responsabile per lo sterminio di ottocentomila persone durante la seconda guerra mondiale e l’occupazione nazista e fascista della Croazia. Protagonista nel rendere possibile la fuga di Pavelic dall’Italia nel 1947 è il Vaticano con il travestimento in abito talare del criminale di guerra attraverso una nave che parte da Genova. La chiusura degli archivi della curia genovese decisa dagli ultimi vescovi della città rendono più difficile ma non impossibile quella sorta di operazione Odessa che si verifica nell’immediato dopoguerra per criminali nazisti e fascisti che si imbarcano dalla capitale ligure verso l’America centrale e meridionale.
L’altro episodio, ricostruito attraverso quei documenti dagli autori, riguarda la visita in Vaticano nel 1947 di Evita Peron. Grazie alla valigia diplomatica, la prima moglie del presidente-dittatore argentino svolge un’azione di finanziamento dei gruppi fascisti e di spostamento di danaro lasciato in Italia dai criminali nazisti e fascisti e trasportato senza colpo ferire in Argentina. Quel che impressiona è costituito dalle dimensioni dell’operazione e dalla rete di complicità ad alto livello che riguardano il governo italiano e quello vaticano per rendere agevole l’attività sotterranea della moglie di Peron.
Ma il volume non si ferma a queste notevoli acquisizioni giacché si occupa a lungo del progetto di golpe che matura in Italia, prima delle decisive elezioni politiche del 18 aprile, di un golpe sostenuto, dagli Stati dai fascisti e da apparati del regime fascista reintegrati nella nuova Italia (basta pensare al fatto che i primi quattro questori di Roma dell’età repubblicana) furono quattro ispettori dell’Ovra, la polizia polizia fascista.
Il golpe non avvenne solo perché il partito cattolico ebbe la maggioranza parlamentare assoluta in quelle elezioni.
L’ultimo episodio riportato riguarda ancora una volta la situazione siciliana e in particolare Portella della Ginestra. Qui troviamo la conferma della vicenda siciliana e della storia di Salvatore Giuliano e della sua banda che conteneva tra i suoi accoliti uomini che avevano militato nella Decima Mas del principe nero Junio Valerio Borghese o che lavoravano per la polizia italiana.
Si conferma attraverso nuova documentazione inedita i finanziamenti ottenuti dalla banda per la lotta contro socialisti e comunisti e vari retroscena della lotta, condita attraverso sanguinosi attentati contro sindacalisti e segretari delle Camere del Lavoro, in un periodo che dura fino ai primi anni sessanta. Quegli attentati ci ricordano i nomi di Antonino Azoti, Placido Rizzotto, Salvatore Carnevale, Accursio Miraglia e di tanti altri che attendono ancora oggi, nell’Italia del ventunesimo secolo, il riconoscimento concreto per le famiglie dei caduti che qualunque altro Stato avrebbe tributato dopo una vicenda così dolorosa.
Insomma, ci troviamo di fronte a un racconto che dovrebbero leggere le nuove generazioni che non l’anno vissuta ma che ritroverebbero nelle loro famiglie le tracce di un passato ormai remoto ma che parla a tutti di una storia incisa come una pietra nei decenni di un’Italia repubblicana tuttora poco sconosciuta e ancora da scoprire in alcune pagine fondamentali.
l'Unità 4.7.07
Legge 40: i numeri e le opinioni
di Carlo Flamigni
Il conflitto si estinse per una ragione decisiva, la morte di uno dei duellanti: il comunismo sovietico nel ’91 crollò come Stato e, almeno in parte, come dottrina universale. Ma in Italia, nella società politica, non si può parlare degli Stati Uniti e dei suoi governi con critiche aperte: in questo caso si è subito qualificati come antiamericani (confondendo gli Stati Uniti con i suoi governi e uno stato come l’intero continente) e accussati di apparire come subalterni al governo sovietico che non esiste più da oltre quindici anni.
Il secondo tabù è il trasferimento di questa idea sul piano dei mass-media e addirittura sul piano della ricerca storica. Ricordo che nel 2004, quando pubblicai il libro Come nasce la repubblica che mostrava il forte intervento della Chiesa e dei servizi segreti americani nel passaggio dello Stato italiano dal fascismo alla repubblica, i grandi giornali italiani non vollero discutere il libro neppure per contestarlo perché affrontava quei problemi e così fecero per la maggior parte i miei colleghi storici. La motivazione, mai esplicitata, era chiara: i risultati della ricerca metteva in discussione l’alleanza che allora si stabilì tra gli alleati e i fascisti nel processo di formazione della nuova Italia.
Ora la storia si ripete di fronte a Tango Connection di Giuseppe Casarubbea e Mario J. Cereghino (pp. 200, euro 9, Bompiani) che ricostruiscono con una ricca documentazione tratta da archivi italiani, inglesi, americani e sloveni la storia di quel passaggio e scavano a fondo nelle connivenze e nelle complicità dei fascisti di Salò nella costruzione del quadro politico e repubblicano del ’43-48. Dal libro, pubblicato dall’editore Bompiani, emergono episodi di notevole interesse.
Il primo, del tutto inedito, riguarda il rapporto tra il regime di Peron e l’Italia degli anni quaranta. I documenti inglesi descrivono con precisione di particolari le modalità della fuga in Argentina di Ante Pavelic, leader degli ustascia croati responsabile per lo sterminio di ottocentomila persone durante la seconda guerra mondiale e l’occupazione nazista e fascista della Croazia. Protagonista nel rendere possibile la fuga di Pavelic dall’Italia nel 1947 è il Vaticano con il travestimento in abito talare del criminale di guerra attraverso una nave che parte da Genova. La chiusura degli archivi della curia genovese decisa dagli ultimi vescovi della città rendono più difficile ma non impossibile quella sorta di operazione Odessa che si verifica nell’immediato dopoguerra per criminali nazisti e fascisti che si imbarcano dalla capitale ligure verso l’America centrale e meridionale.
L’altro episodio, ricostruito attraverso quei documenti dagli autori, riguarda la visita in Vaticano nel 1947 di Evita Peron. Grazie alla valigia diplomatica, la prima moglie del presidente-dittatore argentino svolge un’azione di finanziamento dei gruppi fascisti e di spostamento di danaro lasciato in Italia dai criminali nazisti e fascisti e trasportato senza colpo ferire in Argentina. Quel che impressiona è costituito dalle dimensioni dell’operazione e dalla rete di complicità ad alto livello che riguardano il governo italiano e quello vaticano per rendere agevole l’attività sotterranea della moglie di Peron.
Ma il volume non si ferma a queste notevoli acquisizioni giacché si occupa a lungo del progetto di golpe che matura in Italia, prima delle decisive elezioni politiche del 18 aprile, di un golpe sostenuto, dagli Stati dai fascisti e da apparati del regime fascista reintegrati nella nuova Italia (basta pensare al fatto che i primi quattro questori di Roma dell’età repubblicana) furono quattro ispettori dell’Ovra, la polizia polizia fascista.
Il golpe non avvenne solo perché il partito cattolico ebbe la maggioranza parlamentare assoluta in quelle elezioni.
L’ultimo episodio riportato riguarda ancora una volta la situazione siciliana e in particolare Portella della Ginestra. Qui troviamo la conferma della vicenda siciliana e della storia di Salvatore Giuliano e della sua banda che conteneva tra i suoi accoliti uomini che avevano militato nella Decima Mas del principe nero Junio Valerio Borghese o che lavoravano per la polizia italiana.
Si conferma attraverso nuova documentazione inedita i finanziamenti ottenuti dalla banda per la lotta contro socialisti e comunisti e vari retroscena della lotta, condita attraverso sanguinosi attentati contro sindacalisti e segretari delle Camere del Lavoro, in un periodo che dura fino ai primi anni sessanta. Quegli attentati ci ricordano i nomi di Antonino Azoti, Placido Rizzotto, Salvatore Carnevale, Accursio Miraglia e di tanti altri che attendono ancora oggi, nell’Italia del ventunesimo secolo, il riconoscimento concreto per le famiglie dei caduti che qualunque altro Stato avrebbe tributato dopo una vicenda così dolorosa.
Insomma, ci troviamo di fronte a un racconto che dovrebbero leggere le nuove generazioni che non l’anno vissuta ma che ritroverebbero nelle loro famiglie le tracce di un passato ormai remoto ma che parla a tutti di una storia incisa come una pietra nei decenni di un’Italia repubblicana tuttora poco sconosciuta e ancora da scoprire in alcune pagine fondamentali.
l'Unità 4.7.07
Legge 40: i numeri e le opinioni
di Carlo Flamigni
In questi ultimi due anni ho parlato a molte persone interessate alla terapia della sterilità: coppie che non riescono ad avere bambini, uomini e donne che hanno problemi genetici che possono essere trasmessi alla prole, medici, biologi, persino - tutti abbiamo qualche debolezza - uomini politici. Nessuno - ma proprio nessuno, come nella canzone - ritiene che sia possibile un qualsivoglia miglioramento della legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita per lo meno nei prossimi dieci anni: non esistono, né esisteranno a lungo, le condizioni politiche; viviamo sotto il tallone di ferro della dittatura dell'embrione; l'arroganza della politica del Vaticano - l'autorità direttiva esterna - ha raggiunto vette inesplorate e continua a crescere.
La rassegnazione, la innaturale dipendenza dalla suddetta autorità direttiva che caratterizza le scelte dei nostri ministri sarebbero addirittura ridicole se non avessero le gravi conseguenze che tutti abbiamo sotto gli occhi e che i dati recentemente resi noti dall'Istituto Superiore di Sanità confermano al di là di ogni dubbio. La conclusione è che non c'è niente da fare, dobbiamo tenerci questa brutta legge, oltretutto ispirata a una superstizione ridicola, che ci vuol far credere che l'embrione è uno di noi.
Questo preambolo è necessario per spiegare che non scrivo questo articolo per minare le basi di una legge dello stato né per proporre mediazioni che, lo so bene, nessuno prenderebbe in considerazione. Del resto, almeno per me, il tempo delle mediazioni è finito: le lascio tutte al nuovo partito democratico che mi sembra oltretutto assai ben rappresentato, su questi temi, da insigni parlamentari in fase di accoppiamento celebrativo (cilicio e martello?). Lo scopo di questo scritto è solo quello di far capire ai lettori dell'Unità il significato di questi primi dati del registro che il Ministro Turco ha presentato in Parlamento.
È vero anzitutto che, come qualcuno ha già dichiarato, la credibilità di questi dati è modesta. Abbiamo ragione di credere che alcuni centri non dicano tutta la verità e che altri non rispettino le regole; è certamente discutibile il confronto con i dati del 2003 e andrebbe probabilmente tentata una analoga operazione con quelli del 2000, non ufficiali, ma raccolti dallo stesso Istituto con molta serietà e impegno e oltretutto meno esposti agli effetti di qualche interferenza volontaria. Tutto ciò non toglie che dai dati del registro emergano alcune informazioni interessanti e attendibili che, guarda un po', confermano tutto quello che molti di noi stanno dicendo da molti anni. Ricordo anche ai lettori dell'Unità che su questi temi sono stati interpellati i 20 studiosi di fisiopatologia della riproduzione più noti nel mondo che sono stati concordi nell'affermare che le nuove norme ci avrebbero procurato un mare di guai e che i risultati sarebbero notevolmente peggiorati. Uno studioso australiano, Simon Brown, ha addirittura calcolato, tenendo conto dei risultati ottenuti dalla Monash University di Melbourne, che l'obbligo di fertilizzare solo tre oociti comporta una diminuzione della percentuale di gravidanze superiore al 20%.
Mi sembra comunque molto importante capire le ragioni per cui i dati dell'Istituto Superiore di Sanità sono di difficile lettura. Anzitutto, e per molte delle informazioni contenute, sarebbe stata necessaria una valutazione comparativa tra i risultati ottenuti dai centri «maggiori» e quelli dei centri che non arrivano a trattare più di un centinaio di coppie per anno, che sono purtroppo molto numerosi e che hanno - nella maggior parte dei casi - percentuali di successo piuttosto basse. Mescolare questi dati, in effetti, è motivo di confusione e rende i dati non intelleggibili: ad esempio, in un centro di primo livello, che ha ottime percentuali di impianto degli embrioni, trasferirne tre vuol dire ottenere una elevata percentuale di gravidanze trigemine, il che non è per i centri più piccoli che di gravidanze plurime praticamente non ne hanno, proprio perché le loro percentuali di impianto sono molto basse.
Il secondo problema riguarda la lettura complessiva dei dati.
Ottenere il 15% in meno di gravidanze e contemporaneamente registrare un maggior numero di aborti, di gravidanze extrauterine e di complicazioni ostetriche significa che la riduzione percentuale delle nascite è ancora più marcata e supera il 20%.
Il terzo problema riguarda il fatto che questi cattivi risultati sono stati ottenuti in una casistica selezionata, alla quale mancano un gran numero di casi «difficili» (sterilità maschili particolarmente severe, donne di età superiore ai 40 anni, coppie con problemi genetici) che sono andati a cercare miglior fortuna all'estero.
Leggo sui giornali l'opinione di illustri incompetenti del settore che affermano che a) i dati sono illeggibili e b) in ogni caso va bene così. In realtà, ma certamente questo discorso non può valere per gli incompetenti, i dati mostrano un certo quoziente di veridicità: ad esempio è aumentata la percentuale di casi nei quali è stato trasferito un solo embrione, cosa assolutamente logica visto che molto spesso i tre oociti di partenza non sono sufficienti, da cui dipende una diminuzione dei tassi di gravidanza; nelle donne più giovani sono invece aumentati i casi in cui si trasferiscono tre embrioni, il che consente di capire le ragioni dell'aumento delle gravidanze trigemine e gemellari. Che poi vada bene così è sin troppo chiaramente una sciocchezza e mai come in questo caso è corretto affermare che le sciocchezze degli incompetenti generano mostri.
Ho una ultima osservazione da fare: il dato più negativo che ho letto nel documento dell'Istituto Superiore di Sanità riguarda il fatto che i nostri centri non riescono a tenere sotto controllo i bambini che nascono a seguito dei loro trattamenti, un fatto molto grave che non ci consente di esprimere un giudizio attendibile sul risultato finale delle cure, il cui scopo è quello di far nascere bambini sani e normali. Mi auguro che le riflessioni del Ministro Turco, che ormai riguardano tutto lo scibile medico, riescano a concentrarsi per un attimo anche su questo problema.
Dunque - e lo dico a nome di un grande numero di persone competenti, che considerano questa legge un vero disastro, ma che malgrado ciò continueranno ad applicarla - si può essere certi che in Italia, da quando la legge è stata introdotta:
- sono diminuite le gravidanze e sono diminuiti i parti e ciò soprattutto nelle donne meno giovani, il cui numero è in costante aumento;
- sono particolarmente puniti i casi di sterilità maschile più severa;
- ci sono più aborti e più gravidanze extrauterine;
- le gravidanze da oociti scongelati sono ancora molto poche.
Che le coppie italiane si interroghino sulla opportunità di cercar fortuna nei laboratori stranieri, e non solo alla ricerca di donazioni di gameti e di indagini genetiche preimpiantatorie, è dunque logico.
Siamo ora in attesa delle nuove linee guida che, per quanto mi è dato sapere, verranno pubblicate per ferragosto, nella speranza che passino inosservate. Un trucco per poter introdurre innovazioni coraggiose? Per carità, l'ultimo uomo politico italiano dotato di coraggio è stato Garibaldi e certamente il colore preferito dai nostri ministri è il giallo. Lo scopo vero è quello di non richiamare troppo l'attenzione sulla mancanza di novità, a meno che non si voglia far passare per tale la concessione ai malati di AIDS di essere ammessi ai trattamenti (ostacolo già aggirato da tempo, ma non posso dirvi come, il giornale potrebbe cadere in mani ostili). Mi viene tra l'altro in mente che nessuno mi ha mai saputo dire con precisione chi sono i membri di questa fantomatica commissione che prepara le linee guida: mi è stato fatto il nome dell'ex presidente del Comitato Scienza e Vita, ma francamente questa mi sembra una barzelletta, una cattiveria che neppure il nostro Ministero della Salute merita.
Faccio comunque la mia previsione: non cambierà niente.
In conclusione - ma sto purtroppo ripetendo le stesse cose da alcuni anni - non mi pare che ci siano molti spazi per i laici, né per discutere né per mediare. E non mi pare che esista la minima volontà di occuparsi della sofferenza della gente, per l'etica della compassione dovremo ripassare. Del resto, la formazione di un grande partito di centro che guarda a sinistra (cioè di una nuova Democrazia Cristiana strabica) non lascia alcuno spazio alla discussione e alla mediazione sui temi «eticamente sensibili», e sono molto curioso di capire come Veltroni riuscirà a trangugiare questo rospo.
Per fortuna i fanatismi religiosi, per quanto intolleranti e prepotenti possano dimostrarsi, dovrebbero avere vita relativamente breve. Conto su questo per il giorno in cui i miei pronipoti cercheranno un figlio.
La rassegnazione, la innaturale dipendenza dalla suddetta autorità direttiva che caratterizza le scelte dei nostri ministri sarebbero addirittura ridicole se non avessero le gravi conseguenze che tutti abbiamo sotto gli occhi e che i dati recentemente resi noti dall'Istituto Superiore di Sanità confermano al di là di ogni dubbio. La conclusione è che non c'è niente da fare, dobbiamo tenerci questa brutta legge, oltretutto ispirata a una superstizione ridicola, che ci vuol far credere che l'embrione è uno di noi.
Questo preambolo è necessario per spiegare che non scrivo questo articolo per minare le basi di una legge dello stato né per proporre mediazioni che, lo so bene, nessuno prenderebbe in considerazione. Del resto, almeno per me, il tempo delle mediazioni è finito: le lascio tutte al nuovo partito democratico che mi sembra oltretutto assai ben rappresentato, su questi temi, da insigni parlamentari in fase di accoppiamento celebrativo (cilicio e martello?). Lo scopo di questo scritto è solo quello di far capire ai lettori dell'Unità il significato di questi primi dati del registro che il Ministro Turco ha presentato in Parlamento.
È vero anzitutto che, come qualcuno ha già dichiarato, la credibilità di questi dati è modesta. Abbiamo ragione di credere che alcuni centri non dicano tutta la verità e che altri non rispettino le regole; è certamente discutibile il confronto con i dati del 2003 e andrebbe probabilmente tentata una analoga operazione con quelli del 2000, non ufficiali, ma raccolti dallo stesso Istituto con molta serietà e impegno e oltretutto meno esposti agli effetti di qualche interferenza volontaria. Tutto ciò non toglie che dai dati del registro emergano alcune informazioni interessanti e attendibili che, guarda un po', confermano tutto quello che molti di noi stanno dicendo da molti anni. Ricordo anche ai lettori dell'Unità che su questi temi sono stati interpellati i 20 studiosi di fisiopatologia della riproduzione più noti nel mondo che sono stati concordi nell'affermare che le nuove norme ci avrebbero procurato un mare di guai e che i risultati sarebbero notevolmente peggiorati. Uno studioso australiano, Simon Brown, ha addirittura calcolato, tenendo conto dei risultati ottenuti dalla Monash University di Melbourne, che l'obbligo di fertilizzare solo tre oociti comporta una diminuzione della percentuale di gravidanze superiore al 20%.
Mi sembra comunque molto importante capire le ragioni per cui i dati dell'Istituto Superiore di Sanità sono di difficile lettura. Anzitutto, e per molte delle informazioni contenute, sarebbe stata necessaria una valutazione comparativa tra i risultati ottenuti dai centri «maggiori» e quelli dei centri che non arrivano a trattare più di un centinaio di coppie per anno, che sono purtroppo molto numerosi e che hanno - nella maggior parte dei casi - percentuali di successo piuttosto basse. Mescolare questi dati, in effetti, è motivo di confusione e rende i dati non intelleggibili: ad esempio, in un centro di primo livello, che ha ottime percentuali di impianto degli embrioni, trasferirne tre vuol dire ottenere una elevata percentuale di gravidanze trigemine, il che non è per i centri più piccoli che di gravidanze plurime praticamente non ne hanno, proprio perché le loro percentuali di impianto sono molto basse.
Il secondo problema riguarda la lettura complessiva dei dati.
Ottenere il 15% in meno di gravidanze e contemporaneamente registrare un maggior numero di aborti, di gravidanze extrauterine e di complicazioni ostetriche significa che la riduzione percentuale delle nascite è ancora più marcata e supera il 20%.
Il terzo problema riguarda il fatto che questi cattivi risultati sono stati ottenuti in una casistica selezionata, alla quale mancano un gran numero di casi «difficili» (sterilità maschili particolarmente severe, donne di età superiore ai 40 anni, coppie con problemi genetici) che sono andati a cercare miglior fortuna all'estero.
Leggo sui giornali l'opinione di illustri incompetenti del settore che affermano che a) i dati sono illeggibili e b) in ogni caso va bene così. In realtà, ma certamente questo discorso non può valere per gli incompetenti, i dati mostrano un certo quoziente di veridicità: ad esempio è aumentata la percentuale di casi nei quali è stato trasferito un solo embrione, cosa assolutamente logica visto che molto spesso i tre oociti di partenza non sono sufficienti, da cui dipende una diminuzione dei tassi di gravidanza; nelle donne più giovani sono invece aumentati i casi in cui si trasferiscono tre embrioni, il che consente di capire le ragioni dell'aumento delle gravidanze trigemine e gemellari. Che poi vada bene così è sin troppo chiaramente una sciocchezza e mai come in questo caso è corretto affermare che le sciocchezze degli incompetenti generano mostri.
Ho una ultima osservazione da fare: il dato più negativo che ho letto nel documento dell'Istituto Superiore di Sanità riguarda il fatto che i nostri centri non riescono a tenere sotto controllo i bambini che nascono a seguito dei loro trattamenti, un fatto molto grave che non ci consente di esprimere un giudizio attendibile sul risultato finale delle cure, il cui scopo è quello di far nascere bambini sani e normali. Mi auguro che le riflessioni del Ministro Turco, che ormai riguardano tutto lo scibile medico, riescano a concentrarsi per un attimo anche su questo problema.
Dunque - e lo dico a nome di un grande numero di persone competenti, che considerano questa legge un vero disastro, ma che malgrado ciò continueranno ad applicarla - si può essere certi che in Italia, da quando la legge è stata introdotta:
- sono diminuite le gravidanze e sono diminuiti i parti e ciò soprattutto nelle donne meno giovani, il cui numero è in costante aumento;
- sono particolarmente puniti i casi di sterilità maschile più severa;
- ci sono più aborti e più gravidanze extrauterine;
- le gravidanze da oociti scongelati sono ancora molto poche.
Che le coppie italiane si interroghino sulla opportunità di cercar fortuna nei laboratori stranieri, e non solo alla ricerca di donazioni di gameti e di indagini genetiche preimpiantatorie, è dunque logico.
Siamo ora in attesa delle nuove linee guida che, per quanto mi è dato sapere, verranno pubblicate per ferragosto, nella speranza che passino inosservate. Un trucco per poter introdurre innovazioni coraggiose? Per carità, l'ultimo uomo politico italiano dotato di coraggio è stato Garibaldi e certamente il colore preferito dai nostri ministri è il giallo. Lo scopo vero è quello di non richiamare troppo l'attenzione sulla mancanza di novità, a meno che non si voglia far passare per tale la concessione ai malati di AIDS di essere ammessi ai trattamenti (ostacolo già aggirato da tempo, ma non posso dirvi come, il giornale potrebbe cadere in mani ostili). Mi viene tra l'altro in mente che nessuno mi ha mai saputo dire con precisione chi sono i membri di questa fantomatica commissione che prepara le linee guida: mi è stato fatto il nome dell'ex presidente del Comitato Scienza e Vita, ma francamente questa mi sembra una barzelletta, una cattiveria che neppure il nostro Ministero della Salute merita.
Faccio comunque la mia previsione: non cambierà niente.
In conclusione - ma sto purtroppo ripetendo le stesse cose da alcuni anni - non mi pare che ci siano molti spazi per i laici, né per discutere né per mediare. E non mi pare che esista la minima volontà di occuparsi della sofferenza della gente, per l'etica della compassione dovremo ripassare. Del resto, la formazione di un grande partito di centro che guarda a sinistra (cioè di una nuova Democrazia Cristiana strabica) non lascia alcuno spazio alla discussione e alla mediazione sui temi «eticamente sensibili», e sono molto curioso di capire come Veltroni riuscirà a trangugiare questo rospo.
Per fortuna i fanatismi religiosi, per quanto intolleranti e prepotenti possano dimostrarsi, dovrebbero avere vita relativamente breve. Conto su questo per il giorno in cui i miei pronipoti cercheranno un figlio.
Ansa 3.7.07
EDITORIA: DENUNCIATI LICENZIAMENTI A LEFT, NUOVI SCIOPERI
ROMA, 3 LUG - Crisi profonda a Left-Avvenimenti: arrivano anche i licenziamenti dopo una serie di scelte che ha sconvolto l'assetto del giornale: è la denuncia dell'assemblea dei redattori che ha proclamato due giorni di sciopero, a partire da oggi, come si legge in una nota di stampa romana.
Non c'eè pace per il giornale nato dalle ceneri di Avvenimenti: già all'inizio della sua avventura furono defenestrati i due direttori, Giulietto Chiesa e Adalberto Minucci. A loro successe Pino Di Maula e poi furono scelti Alberto Ferrigolo e Andrea Purgatori per il rilancio della testata. Anche la nuova coppia di vertice ha avuto vita breve ed è stata congedata dall'editore in modo non propriamente soft. Alla guida è tornato Pino Di Maula, affiancato però da Luca Bonaccorsi, condirettore e anche editore. Contemporaneamente è uscito di scena l'altro editore, Ivan Gardini. Un terremoto dietro l'altro: in tanti addebitano questa successione di eventi al ruolo all'interno del giornale attribuito allo psicanalista eretico Massimo Fagioli.
L'assemblea dei lavoratori denuncia, si legge nella nota del sindacato, ''che stamattina a una collega giornalista, con un contratto in via di rinnovo, è stato intimato di non tornare in redazione dopo che la direzione del giornale aveva ricevuto la sua richiesta di praticantato d'ufficio''. ''Negli scorsi giorni a una collega grafica - si legge ancora - è stato proposto, al posto di un contratto annuale in scadenza, il rinnovo per i soli due mesi estivi. Riteniamo trattarsi di due chiari casi di ritorsione nei confronti dei colleghi precari per aver partecipato alle azioni sindacali delle scorse settimane. A questi vanno aggiunti l'illegittima dequalificazione e il demansionamento del direttore Alberto Ferrigolo e del caporedattore Marco Romani''.
''Tutto questo - denuncia l'assemblea - mentre gli stipendi arrivano con un mese di ritardo, a causa di una annunciata crisi economica che però non ha impedito la promozione di alcuni e l'ingresso in redazione di nuovi colleghi senza alcuna comunicazione alla rappresentanza sindacale in violazione del dettato contrattuale. L'assemblea denuncia la mancanza di correttezza nei rapporti di lavoro, le continue violazioni sindacali di un amministrazione che non risponde alle convocazioni dei sindacati ma che in altre sedi pubbliche parla di socialismo e di diritti. Per tutte queste ragioni l'assemblea dei lavoratori, a larga maggioranza, proclama due giorni di sciopero, oggi 3 luglio e domani 4''. (ANSA).
Liberazione 4.7.07
L'ha riproposto Mussi, risposta favorevole da Russo Spena. Oggi comincia una serie di incontri bilaterali
Tanti sì alla "cosa rossa", in gara già alle comunali
La "cosa rossa", primi passi. Non solo parole ma ora anche primi passi. Il percorso che porterà alla costruzione di "qualcosa" che unisca la sinistra sembra essersi accelerato. In queste ore, in questi giorni. E' di ieri una lunga intervista al leader della Sinistra democratica, il ministro dell'Università, Fabio Mussi. Che - in poche occasioni così esplicito - dice di "no" alle avance formulate da Veltroni perché ritorni nel partito democratico. Si mostra un po' tranchant nei confronti di Fassino (che in un'altra intervista, sempre su La Stampa imponeva al ministro di chiedergli scusa), ma soprattutto pone un aut aut: "O alle amministrative del prossimo anno ci si presenta insieme o il progetto di unire la sinistra rischia il fallimento.
Un'idea, di cui aveva già parlato anche Franco Giordano, che non sembra entusiasmare i verdi - Pecoraro Scanio ha già detto che gli sembra una strada non percorribile, se non in qualche città - ma piace a tutti gli altri. Ora però si proverà a uscire dal generico. E da stamattina, infatti, la Sinistra democratica comincerà una serie di incontri con le altre forze di sinistra (con tutti quelli che si collocano alla sinistra del piddì, per capire) con l'obiettivo di provare a stringere. Con un tema sopra agli altri: la definizione di un percorso preciso che porti al varo di liste unitarie già dalle comunali del prossimo anno. Dappertutto.
Il ciclo di incontri comincerà oggi alle 11, quando Mussi si vedrà a quattr'occhi con Diliberto. Le altre forze le vedrà entro l'11 luglio.
Tutto ciò mentre arrivano già le prime risposte. Pubbliche. E sono di sostegno all'idea di liste unitarie. Per tutte valgano le parole di Giovanni Russo Spena, capogruppo del Prc a Palazzo Madama. Lui dice di essere "d'accordo con Mussi e che il nuovo soggetto deve essere in grado di presentarsi unito già alle prossime amministrative". Lo impone "il quadro politico e soprattutto le attese della nostra gente". Certo, occorre procedere speditamente, "stando comunque attenti a non bruciare le tappe". Insomma, l'unità non è dietro l'angolo: "Va costruita", rafforzando intanto l'unità d'azione.
Già, ma come costruirla? Su questo da ieri è in campo una proposta formulata da Pietro Folena. L'esponente della Sinistra europea, presidente della commissione Cultura della Camera, parte dall'analisi di quel che è avvenuto dopo l'arrivo di Walter Veltroni. Pe lui, la candidatura del sindaco di Roma in qualche modo "rappresenta una sfida anche per la sinistra", scrive in un editoriale per "Rosse di sera", un'agenzia-rivista telematica. Tradotto significa che per Folena anche il popolo della sinistra, tutti coloro che insomma non si riconoscono nel progetto del piddì, debbano dar vita alle primarie. Magari non il 14 ottobre ma in autunno certamente sì.
Primarie, allora. Dove le persone scelgano "il proprio programma e la leadership". Sarebbe un modo per "accelerare il processo unitario". Folena in più ci mette anche un suggerimento: immaginando alla guida della "cosa rossa" insieme un uomo e una donna. Per rendere tangibile una nuova politica di genere.
Per Folena comunque proprio la Sinistra europea "deve essere la trazione anteriore dell'unità a sinistra", mettendo da parte le polemiche interne. "Non bisogna essere spaventati o incerti - scrive nel suo editoriale - nel mettersi in gioco, perché i risultati positivi dell'innovazione a sinistra si sono già visti. Senza la svolta nonviolenta, senza la messa in discussione del Novecento, oggi sarebbe impossibile qualsiasi dialogo con altri pezzi della Sinistra. Invece, proprio grazie a quel percorso, oggi c'é la prospettiva di un soggetto unitario e plurale capace di parlare alla pari coi moderati dell'Unione".
L'idea delle primarie, comunque non appassiona tutti. Fabio Mussi, ai giornalisti che ieri gli chiedevano un parere, si mostrava scettico. "Non farei un gioco a specchio con i democratici", ha risposto. Di più: "I partiti non nascono dalle primarie. I democratici americani fanno le primarie ma son nati da una rivoluzione e dalla guerra civile. Poi fanno anche le primarie".
Non è una bocciatura, comunque. Spiega Carlo Leoni, anche lui della Sinistra democratica. "Sono d'accordo con Folena che bisogna inviare un segnale per cui la gente deve partecipare attivamente alla costruzione del nuovo soggetto plurale. Senza questa partecipazione non si andrà da nessuna parte, e probabilmente, il soggetto non nascerà mai". Ma anche a lui la logica delle primarie - quasi in concomitanza con quelle che incoroneranno Walter Veltroni - sembrano "una semplice rincorsa" del piddì. Rivelerebbero, forse, una logica subalterna. L'accelerazione sul soggetto unitario, però, va fatta. E subito.
s.b.
La Stampa 4.7.07
Mostra al Quirinale
La scultura emozione segreta di Calatrava
di Lea Mattarella
Sono un fanatico di Roma. Questa città è la prova di quello che penso da sempre: l'architettura serve, è funzionale, ma ciò che conta è l'emozione». Santiago Calatrava, architetto spagnolo (è nato a Benimamet, in provincia di Valencia nel 1951) che vive da tempo a New York, intona in perfetto italiano la sua dichiarazione d'amore nei confronti della città eterna. E qui per presentare la mostra personale che si apre oggi alle Scuderie del Quirinale e si potrà visitare fino al 2 settembre. «Se dovessi indicare a mio figlio una città dove studiare architettura non avrei dubbi, gli direi di venire qui. Picasso sosteneva che la pittura si impara nei musei e non nelle scuole e io credo che l'architettura si apprenda nelle strade. E allora quale posto migliore di Roma? E un luogo universale, appena arrivi te ne senti subito parte, io mi considero un romano "d'altrove" e dico sempre che questa città è "ad alta velocità visuale", l'occhio non si stanca. Se Vienna è la musica, Roma è l'architettura che poi altro non è che la sintesi delle arti, il momento in cui i diversi linguaggi convergono».
Per dimostrare l'armonia tra le diverse espressioni ecco questa mostra, dove non sono raccolti plastici e maquettes, ma disegni e sculture. Un lato inusuale, intimo e segreto del suo immaginario che però suggestiona in maniera totalizzante le architetture, progettate ed eseguite in giro peril mondo. Mettendo insieme scultura e architettura, Calatrava somiglia un po' ad un artista antico, tra Brunelleschi e Bernini.
Nei suoi taccuini ci sono occhi disegnati che, senza troppo sforzo riconosciamo come le fonti del Planetarium della Città delle arti e della scienza di Valencia. A smentire il luogo comune che nessuno è profeta in patria, Calatrava ha costruito proprio qui uno spazio completamente inventato, un insieme di edifici che funziona un po' come la Piazza dei Miracoli a Pisa, con un dialogo silenzioso tra materiali, colori, pesi e leggerezze.
«Realizzando questa mostra ho aperto una stanza segreta che conserva schizzi, pensieri, sogni continua l'artista-architetto-ingegnere (dopo gli studi di architettura in patria si è laureato in ingegneria in Svizzera) ho voluto mostrare una parte di me un po' rara e sconosciuta, che non è il mio "modus vivendi" ma comunque sono io. E il laboratorio dove nascono le mie forme».
Infatti questo scrigno tutto da svelare contiene proprio la chiave di lettura per l'architettura di Calatrava. Dove ogni cosa ha inizio dalla natura: dall'uomo, dagli alberi, da una semplice foglia. Lo suggeriscono chiaramente i disegni e le sculture in mostra. Ci sono corpi acquarellati che sotto il nostro naso si trasformano in colonne scolpite e poi in grattacieli, come quello progettato per Chicago, la «spirale». E se la figura umana si distende e inarca un po' ecco comparire l'immagine di un ponte che illumina anche i suoi, celebri, che ha realizzato da Copenhagen a Lucerna, da Parigi a Barcellona, da Londra a Buenos Aires, da Stoccolma a Dallas, da Berlino a Reggio Emilia.
Dieci anni fa Calatrava ha immaginato anche il quarto ponte sul Canal Grande a Venezia. In Italia sembra proprio che le grandi opere di architettura debbano sempre essere accompagnate da polemiche. Non è sfuggito a questo destino neanche il progetto dell'architetto spagnolo. Costa troppo, è irrealizzabile, i cittadini non lo vogliono, non va bene per i disabili, crollerà. Ma che fine ha fatto questa struttura che nei progetti avrebbe dovuto quasi lanciarsi sulla laguna? «A settembre si camminerà sul ponte. L'avventura straordinaria di costruire qualcosa del genere a Venezia diventerà realtà. Certo non è facile edificare in un posto così eccezionale e siamo in un mondo democratico per cui è giusto anche tener presente le obiezioni della signora casalinga dice, forse un po' ironico ma per niente irritato ma il ponte è pronto, è a Marghera e aspetta solo di essere messo al suo posto».
Intanto, tra le sale delle Scuderie, si incontrano ponti anche tra le zampe di cavalli picassianamente stilizzati, tra
bronzi intitolati alla "Nascita di una foglia", oppure in un ebano senza titolo che svolazza sul mondo, dove si sente l'eco del grande scultore rumeno Costantin Brancusi: «Lo amo molto, mi piace il suo incantarsi infantile di fronte alla natura e il suo fare intimo, che è un po' il senso di questa esposizione». Tra marmi, legni, alabastri, argenti, ceramiche e sculture che si muovono quasi respirassero, c'è un unico plastico ed è ancora un omaggio a Roma: il progetto per la città dello sport a Tor Vergata. Il cantiere è aperto e la gigantesca struttura dovrebbe inaugurarsi nel 2009 in occasione dei mondiali di nuoto. «E una sfida e avviene proprio qui, dove da secoli si dimostra che è possibile conciliare contesto urbano e ambizione artistica».
La Stampa 4.7.07
"Se resta lo scalone il governo va a casa"
Intervista a Franco Giordano di Antonella Rampino
Sulle pensioni il governo è stretto in una morsa, e sull'orlo di una crisi. Non solo l'ala liberal dell'Ulivo, ma soprattutto Rifondazione Comunista, minaccia di non votare la riforma se non arriverà ad abbattere il cosiddetto scalone. A costo di mandare a casa Prodi. Lo dice il segretario Franco Giordano, avvertendo che «Rifondazione non ci sta, neanche se la proposta Damiano sugli scalini dovesse essere accettata dalla Cgil».
Davvero siete disposti alla crisi?
«Una parte della coalizione ci accusa di voler spezzare la corda. Dov'erano quando abbiamo trascorso mesi e mesi a discutere sull'abolizione dello scalone, che poi è entrata nel Programma? Tutti hanno condiviso, a cominciare da Damiano. Se il governo cadrà, non saremo noi i responsabili. In questo anno, molti punti del Programma sono stati modificati. Su questo, sulle pensioni, non si può transigere».
È la vostra linea del Piave. È così importante il dettaglio della proposta Damiano, che pure coincide quasi con la vostra?
«Io trovo interessante la proposta Damiano. Ma è singolare che si punti a una ripresa di consensi al Nord, e poi non si voglia mettere in pratica una politica di consensi di massa. In tutte le fabbriche del Nord c'è un sentimento che va dal disincanto alla rabbia distruttiva. Tutti vogliono andare in pensione a 57 anni, con 35 anni di lavoro: come prevede la legge Dini, che non fu ben accetta agli operai, e che le destre hanno modificato assai in peggio: Adesso, bene per l'aumento a 58 anni, ma che siano esclusi tutti, e dico tutti, i turnisti, e chi ha 40 anni di contributi: Ma non si può proporre che poi, automaticamente, tra tre anni si torna allo scalone della Maroni».
Giordano, sta dicendo che gli operai non sono la base del Partito Democratico?
«Tutti sanno che Rifondazione, al contrario del Pd, non è equidistante tra impresa e lavoro, né ci riferiamo, come fa Veltroni, a un astratto cittadinoconsumatore. Io penso che le difficoltà dell'Unione al Nord stiano proprio nella perdita di consenso nel mondo del lavoro».
Ma non è la Cgil che difende il lavoro?
«Per ora questa battaglia la stiamo facendo insieme. Vedo che la Cgil sta sostenendo le ragioni del Programma dell'Unione, e nella polemica con D'Alema Epifani l'ha ribadito. Mi piacerebbe, visto che D'Alema dice che andare in pensione a 57 è un privilegio, portarlo a fare una passeggiata a Mirafiori, magari in assemblea con gli operai».
E se la Cgil firmasse quell'accordo col governo?
«Attualmente non c'è alcun accordo. Se ci fosse, se la Cgil controfirmasse la proposta Damiano, noi non la voteremmo comunque in Parlamento».
Anche a costo di far cadere il governo...
«Abbiamo tempo per discutere. Ma siamo molto determinati. Perché vede non è un problema di conti. I lavoratori si sono pagati l'abbattimento dello scalone con lo 0,3 dell'aumento della contribuzione. Parte di coloro che ne hanno diritto, poi in pensione non ci vanno: un 30 per cento, dicono le statistiche. L'Inps è in salute. No, non è un problema di conti. E' un problema politico. Il futuro Pd, con Veltroni, pensa che bisogna redistribuire tenendo fuori i profitti e la ricchezza. E' per questo che si sottrae agli anziani per dare al giovane precario, è per questo che si mettoni i giovani contro gli anziani».