mercoledì 4 luglio 2007

L'Unità 4.7.07
A Milano con Rifondazione e lo Sdi
Mussi: accelerare la ricerca di unità
di Luigina Venturelli

Da soli non si combina molto.Soprattutto quando la sfida è di considerevoli dimensioni: «Se vogliamo difendere il bipolarismo, una delle poche cose buone acquisite dal nostro sistema politico, dobbiamo costruire una sinistra unitaria, che stringa una forte alleanza con il nascente Partito democratico». Fabio Mussi non ha dubbi: se il processo di innovazione politica avviato da Sinistra democratica, Rifondazione comunista e Sdi non avrà successo, si prospetta una deriva di «ipotesi trasformistiche e alleanze variabili».
Ieri a Milano per un incontro organizzato dalle tre forze della sinistra di governo, in occasione della presentazione del libro di Aldo Garzia, Olaf Palme, vita e assassinio di un socialista europeo (Editori Riuniti), il ministro dell’Università ha delineato la propria agenda dei prossimi mesi. Ovvero l’accelerazione di un processo che il Pd ha reso inevitabile: «Io lavoro per unificare a sinistra una vasta area, che va ben oltre i confini del Novecento.nessuno deve alzare le proprie bandierine identitarie, non stiamo discutendo tra membri della Seconda e della Terza Internazionale.C’è una grande discussione in corso, il movimento cresce, ora bisogna dargli una prospettiva». Quella appunto di «una sinistra forte che si allei con il Partito democratico di Veltroni». Per il leader in pectore del Pd, Mussi ha riservato parole di stima: «Lui può salvare il salvabile. Il Pd era una nave lanciata contro gli scogli e destinata ad affondare. Sono contento, spero che ce la faccia. Se c’è qualcuno che può salvare qualcosa è lui».
L’avvento del sindaco di Roma ha reso comunque urgente la compiuta definizione della sinistra democratica. Non a caso Mussi sta girando l’Italia, spesso per dibattiti e iniziative congiunte con Rifondazione e con lo Sdi: Orvieto, Genova, Viterbo, Napoli e, ovviamente, Milano. Ma senza farne un terreno perduto da riconquistare, perchè «il voto ha dimostrato che per il centrosinistra ci sono una questione settentrionale, una questione meridionale e una questione centrale. L’elezioni sono andate male dappertutto».
Faccenda impegnativa dunque. Ma l’appoggio di Rifondazione comunista è convinto: «Vogliamo costruire un processo unitario a sinistra - ha affermato il capogruppo alla Camera, Gennaro Migliore - per recuperare le idee forza che hanno costruito la sinistra europea: il pacifismo, un nuovo modello di sviluppo e la democrazia fondata sull’uguaglianza».
Molto più prudente invece Ugo Intini dello Sdi: «L’interlocuzione con la sinistra orgogliosa delle sue radici è utile, ma serve chiarezza: chi si riconosce nella sinistra europea è un interlocutore ma appartiene a un’altra famiglia. Si tratta dunque di interlocuzione fra alleati».

l'Unità 4.7.07
I graffi e i volti dei maestri dell’Africa
«Non fu un prodotto tribale ma di veri e propri artisti»
di Itala Vivan

Mendrisio, cittadina ticinese ai bordi del confine lombardo, offre manifestazioni culturali importanti. Oltre a essere sede dell’Accademia di Architettura diretta da Mario Botta, vanta un bel museo situato nel chiostro di un antico convento, dove fino al 22 luglio sono esposte 84 preziose sculture africane provenienti dalla collezione privata dello svizzero Horstmann. L’arte africana sta ormai conquistando la scena internazionale, e viene finalmente presentata con la dignità e il rilievo che le compete, grazie anche alla lunga opera di analisi condotta da critici e specialisti del settore fra i quali brilla l’italiano Ezio Bassani, cui si debbono altre rassegne epocali a Firenze, Torino, Montecarlo e altrove. Bassani, sapiente curatore della mostra di Mendrisio, ha articolato la sua selezione delle opere al fine di sostanziare un ben visibile discorso critico.
Nell’ambiente raccolto del chiostro dell’ex convento di San Giovanni, le sagome del mondo africano colpiscono l’occhio del visitatore per il rigore dello stile, l’uso culturalmente coerente dei volumi, delle forme e delle eleganti decorazioni, la forza suggestiva delle raffigurazioni. All’ingresso si viene accolti dal grande ovale di una maschera fang dai lineamenti severi e quasi malinconici: un volto di spirito-fanciulla sulle cui guance spicca una scarificazione che richiama alla memoria il logo enigmatico che contrassegna le opere dell’artista haitiano-americano contemporaneo Jean Michel Basquiat, costruite come graffiti cifrati, ricchi di rimandi africani. La maschera fang, ingrandita nello stendardo, invita a entrare nello spazio di significazione leggendo le opere africane come vive espressioni di ricerca formale, e non più, come si faceva in passato, come strumentali reperti etnografici.
La prima parte della mostra contiene dei pezzi sicuramente datati con la misurazione del Carbonio 14, oppure per analogia con altri simili; fra essi spicca una monumentale figura seduta, di artista mbembe (Nigeria), che risale alla seconda metà del Settecento e in origine ornava un grande tamburo. Qui il curatore Bassani argomenta la storicità dell’arte africana, solitamente negata in epoca coloniale, ma invece rintracciabile non solo grazie all’analisi formale, ma anche con precise rilevazioni tecniche. Una seconda sequenza offre opere di eccezionale livello formale pur nella varietà di provenienza, fra cui si ricordano una statua rituale songye (Congo) che indossa una maschera e inalbera un minaccioso corno rivolto verso chi guarda. Segue un piccolo gruppo di sculture luba (Congo) in cui è percepibile la differenza di mano dei singoli artisti che si affermano al di là degli schemi culturali comuni, così che il visitatore noti come anche l’arte africana sia figlia di artisti individuali che non erano mai anonimi, anche se i loro nomi - affidati alla tradizione orale - non sono pervenuti sino a noi, o forse sono tuttora celati nel segreto del patrimonio orale africano che è tendenzialmente chiuso all’orecchio esterno. A comprovare ulteriormente questa verità vi sono sette importanti sculture in cui si è ravvisata la mano di artisti ben identificabili, come è il caso del bellissimo poggiatesta attribuito al cosiddetto «Maestro delle capigliature a cascata», scultore luba shankadi presente anche nelle collezioni africane del Louvre.
Lungo i corridoi si allinea quindi una serie di oggetti e statue di dimensioni ridotte e anche ridottissime ma di straordinari pregi formali. Racchiuse in vetrine cubiche, immerse nella penombra conventuale, queste opere rivelano grande bellezza e forte originalità espressiva, sebbene siano spesso oggetti di uso comune oppure destinati a scopi rituali. Le figurine zaramo provenienti dalla Tanzania, i cucchiai bembe del Congo, il vaso zulu del Sudafrica e il gancio di artista punu a cavalcioni del quale è raffigurato un suonatore di tamburo, appaiono di fattura raffinata e insieme vivacemente originale.
L’allestimento, che nell’insieme appare semplice ed elegante, alieno da invadenze esornative, ha collocato le vetrine in modo da consentire al visitatore di girare intorno ai pezzi esposti e ammirarli a tutto tondo.
La maggior parte delle sculture proviene dall’area del Congo, ma molte regioni dell’Africa subsahariana sono rappresentate, sempre però in base a un criterio di eccellenza formale. Udo Horstmann, che ha costruito l’attuale raccolta dopo una serie di tentativi falliti, confessa «Per trovare i pezzi di sicuro valore formale ho dovuto studiare a lungo la produzione africana e guardare le grandi collezioni esistenti. Poi, attraverso l’osservazione, sono entrato in contatto con la bellezza segreta delle opere, e ho comperato quelle di cui mi sono innamorato». È normale che una collezione privata rispecchi le passioni del collezionista e ne riveli la competenza e i gusti. Ma nella mostra di Mendrisio all’eccellenza dei pezzi si sovrappone l’acuta e selettiva analisi di Bassani, che ha saputo fare di questa rassegna un serio ed efficace discorso critico, oltre che regalare ai visitatori un sicuro godimento estetico.
Uscendo da Mendrisio che, dice l’architetto Botta, è periferia di Milano, si osserva come grandi temi di cultura globale possano ridare nuova vita a territori già marginali di realtà metropolitane.


L’ARTE AFRICANA viene finalmente presentata con la dignità e il rilievo che le compete. Così la mostra ospitata dal Museo di Mendrisio che espone ottantaquattro sculture della collezione Horstmann





l'Unità 4.7.07
Tango Connection, nazifascisti protetti da Usa e Vaticano
di Nicola Tranfaglia

SAGGI Le verità del libro di Casarrubea e Cereghino ignorate dalla storiografia: dal ruolo di Evita Peron alle «coperture» su Portella della Ginestra

In Italia esistono ancora due grandi tabù a quasi vent’anni dall’inizio degli anni novanta che segnò ufficialmente la conclusione della guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica.
Il conflitto si estinse per una ragione decisiva, la morte di uno dei duellanti: il comunismo sovietico nel ’91 crollò come Stato e, almeno in parte, come dottrina universale. Ma in Italia, nella società politica, non si può parlare degli Stati Uniti e dei suoi governi con critiche aperte: in questo caso si è subito qualificati come antiamericani (confondendo gli Stati Uniti con i suoi governi e uno stato come l’intero continente) e accussati di apparire come subalterni al governo sovietico che non esiste più da oltre quindici anni.
Il secondo tabù è il trasferimento di questa idea sul piano dei mass-media e addirittura sul piano della ricerca storica. Ricordo che nel 2004, quando pubblicai il libro Come nasce la repubblica che mostrava il forte intervento della Chiesa e dei servizi segreti americani nel passaggio dello Stato italiano dal fascismo alla repubblica, i grandi giornali italiani non vollero discutere il libro neppure per contestarlo perché affrontava quei problemi e così fecero per la maggior parte i miei colleghi storici. La motivazione, mai esplicitata, era chiara: i risultati della ricerca metteva in discussione l’alleanza che allora si stabilì tra gli alleati e i fascisti nel processo di formazione della nuova Italia.
Ora la storia si ripete di fronte a Tango Connection di Giuseppe Casarubbea e Mario J. Cereghino (pp. 200, euro 9, Bompiani) che ricostruiscono con una ricca documentazione tratta da archivi italiani, inglesi, americani e sloveni la storia di quel passaggio e scavano a fondo nelle connivenze e nelle complicità dei fascisti di Salò nella costruzione del quadro politico e repubblicano del ’43-48. Dal libro, pubblicato dall’editore Bompiani, emergono episodi di notevole interesse.
Il primo, del tutto inedito, riguarda il rapporto tra il regime di Peron e l’Italia degli anni quaranta. I documenti inglesi descrivono con precisione di particolari le modalità della fuga in Argentina di Ante Pavelic, leader degli ustascia croati responsabile per lo sterminio di ottocentomila persone durante la seconda guerra mondiale e l’occupazione nazista e fascista della Croazia. Protagonista nel rendere possibile la fuga di Pavelic dall’Italia nel 1947 è il Vaticano con il travestimento in abito talare del criminale di guerra attraverso una nave che parte da Genova. La chiusura degli archivi della curia genovese decisa dagli ultimi vescovi della città rendono più difficile ma non impossibile quella sorta di operazione Odessa che si verifica nell’immediato dopoguerra per criminali nazisti e fascisti che si imbarcano dalla capitale ligure verso l’America centrale e meridionale.
L’altro episodio, ricostruito attraverso quei documenti dagli autori, riguarda la visita in Vaticano nel 1947 di Evita Peron. Grazie alla valigia diplomatica, la prima moglie del presidente-dittatore argentino svolge un’azione di finanziamento dei gruppi fascisti e di spostamento di danaro lasciato in Italia dai criminali nazisti e fascisti e trasportato senza colpo ferire in Argentina. Quel che impressiona è costituito dalle dimensioni dell’operazione e dalla rete di complicità ad alto livello che riguardano il governo italiano e quello vaticano per rendere agevole l’attività sotterranea della moglie di Peron.
Ma il volume non si ferma a queste notevoli acquisizioni giacché si occupa a lungo del progetto di golpe che matura in Italia, prima delle decisive elezioni politiche del 18 aprile, di un golpe sostenuto, dagli Stati dai fascisti e da apparati del regime fascista reintegrati nella nuova Italia (basta pensare al fatto che i primi quattro questori di Roma dell’età repubblicana) furono quattro ispettori dell’Ovra, la polizia polizia fascista.
Il golpe non avvenne solo perché il partito cattolico ebbe la maggioranza parlamentare assoluta in quelle elezioni.
L’ultimo episodio riportato riguarda ancora una volta la situazione siciliana e in particolare Portella della Ginestra. Qui troviamo la conferma della vicenda siciliana e della storia di Salvatore Giuliano e della sua banda che conteneva tra i suoi accoliti uomini che avevano militato nella Decima Mas del principe nero Junio Valerio Borghese o che lavoravano per la polizia italiana.
Si conferma attraverso nuova documentazione inedita i finanziamenti ottenuti dalla banda per la lotta contro socialisti e comunisti e vari retroscena della lotta, condita attraverso sanguinosi attentati contro sindacalisti e segretari delle Camere del Lavoro, in un periodo che dura fino ai primi anni sessanta. Quegli attentati ci ricordano i nomi di Antonino Azoti, Placido Rizzotto, Salvatore Carnevale, Accursio Miraglia e di tanti altri che attendono ancora oggi, nell’Italia del ventunesimo secolo, il riconoscimento concreto per le famiglie dei caduti che qualunque altro Stato avrebbe tributato dopo una vicenda così dolorosa.
Insomma, ci troviamo di fronte a un racconto che dovrebbero leggere le nuove generazioni che non l’anno vissuta ma che ritroverebbero nelle loro famiglie le tracce di un passato ormai remoto ma che parla a tutti di una storia incisa come una pietra nei decenni di un’Italia repubblicana tuttora poco sconosciuta e ancora da scoprire in alcune pagine fondamentali.

l'Unità 4.7.07
Legge 40: i numeri e le opinioni
di Carlo Flamigni


In questi ultimi due anni ho parlato a molte persone interessate alla terapia della sterilità: coppie che non riescono ad avere bambini, uomini e donne che hanno problemi genetici che possono essere trasmessi alla prole, medici, biologi, persino - tutti abbiamo qualche debolezza - uomini politici. Nessuno - ma proprio nessuno, come nella canzone - ritiene che sia possibile un qualsivoglia miglioramento della legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita per lo meno nei prossimi dieci anni: non esistono, né esisteranno a lungo, le condizioni politiche; viviamo sotto il tallone di ferro della dittatura dell'embrione; l'arroganza della politica del Vaticano - l'autorità direttiva esterna - ha raggiunto vette inesplorate e continua a crescere.
La rassegnazione, la innaturale dipendenza dalla suddetta autorità direttiva che caratterizza le scelte dei nostri ministri sarebbero addirittura ridicole se non avessero le gravi conseguenze che tutti abbiamo sotto gli occhi e che i dati recentemente resi noti dall'Istituto Superiore di Sanità confermano al di là di ogni dubbio. La conclusione è che non c'è niente da fare, dobbiamo tenerci questa brutta legge, oltretutto ispirata a una superstizione ridicola, che ci vuol far credere che l'embrione è uno di noi.
Questo preambolo è necessario per spiegare che non scrivo questo articolo per minare le basi di una legge dello stato né per proporre mediazioni che, lo so bene, nessuno prenderebbe in considerazione. Del resto, almeno per me, il tempo delle mediazioni è finito: le lascio tutte al nuovo partito democratico che mi sembra oltretutto assai ben rappresentato, su questi temi, da insigni parlamentari in fase di accoppiamento celebrativo (cilicio e martello?). Lo scopo di questo scritto è solo quello di far capire ai lettori dell'Unità il significato di questi primi dati del registro che il Ministro Turco ha presentato in Parlamento.
È vero anzitutto che, come qualcuno ha già dichiarato, la credibilità di questi dati è modesta. Abbiamo ragione di credere che alcuni centri non dicano tutta la verità e che altri non rispettino le regole; è certamente discutibile il confronto con i dati del 2003 e andrebbe probabilmente tentata una analoga operazione con quelli del 2000, non ufficiali, ma raccolti dallo stesso Istituto con molta serietà e impegno e oltretutto meno esposti agli effetti di qualche interferenza volontaria. Tutto ciò non toglie che dai dati del registro emergano alcune informazioni interessanti e attendibili che, guarda un po', confermano tutto quello che molti di noi stanno dicendo da molti anni. Ricordo anche ai lettori dell'Unità che su questi temi sono stati interpellati i 20 studiosi di fisiopatologia della riproduzione più noti nel mondo che sono stati concordi nell'affermare che le nuove norme ci avrebbero procurato un mare di guai e che i risultati sarebbero notevolmente peggiorati. Uno studioso australiano, Simon Brown, ha addirittura calcolato, tenendo conto dei risultati ottenuti dalla Monash University di Melbourne, che l'obbligo di fertilizzare solo tre oociti comporta una diminuzione della percentuale di gravidanze superiore al 20%.
Mi sembra comunque molto importante capire le ragioni per cui i dati dell'Istituto Superiore di Sanità sono di difficile lettura. Anzitutto, e per molte delle informazioni contenute, sarebbe stata necessaria una valutazione comparativa tra i risultati ottenuti dai centri «maggiori» e quelli dei centri che non arrivano a trattare più di un centinaio di coppie per anno, che sono purtroppo molto numerosi e che hanno - nella maggior parte dei casi - percentuali di successo piuttosto basse. Mescolare questi dati, in effetti, è motivo di confusione e rende i dati non intelleggibili: ad esempio, in un centro di primo livello, che ha ottime percentuali di impianto degli embrioni, trasferirne tre vuol dire ottenere una elevata percentuale di gravidanze trigemine, il che non è per i centri più piccoli che di gravidanze plurime praticamente non ne hanno, proprio perché le loro percentuali di impianto sono molto basse.
Il secondo problema riguarda la lettura complessiva dei dati.
Ottenere il 15% in meno di gravidanze e contemporaneamente registrare un maggior numero di aborti, di gravidanze extrauterine e di complicazioni ostetriche significa che la riduzione percentuale delle nascite è ancora più marcata e supera il 20%.
Il terzo problema riguarda il fatto che questi cattivi risultati sono stati ottenuti in una casistica selezionata, alla quale mancano un gran numero di casi «difficili» (sterilità maschili particolarmente severe, donne di età superiore ai 40 anni, coppie con problemi genetici) che sono andati a cercare miglior fortuna all'estero.
Leggo sui giornali l'opinione di illustri incompetenti del settore che affermano che a) i dati sono illeggibili e b) in ogni caso va bene così. In realtà, ma certamente questo discorso non può valere per gli incompetenti, i dati mostrano un certo quoziente di veridicità: ad esempio è aumentata la percentuale di casi nei quali è stato trasferito un solo embrione, cosa assolutamente logica visto che molto spesso i tre oociti di partenza non sono sufficienti, da cui dipende una diminuzione dei tassi di gravidanza; nelle donne più giovani sono invece aumentati i casi in cui si trasferiscono tre embrioni, il che consente di capire le ragioni dell'aumento delle gravidanze trigemine e gemellari. Che poi vada bene così è sin troppo chiaramente una sciocchezza e mai come in questo caso è corretto affermare che le sciocchezze degli incompetenti generano mostri.
Ho una ultima osservazione da fare: il dato più negativo che ho letto nel documento dell'Istituto Superiore di Sanità riguarda il fatto che i nostri centri non riescono a tenere sotto controllo i bambini che nascono a seguito dei loro trattamenti, un fatto molto grave che non ci consente di esprimere un giudizio attendibile sul risultato finale delle cure, il cui scopo è quello di far nascere bambini sani e normali. Mi auguro che le riflessioni del Ministro Turco, che ormai riguardano tutto lo scibile medico, riescano a concentrarsi per un attimo anche su questo problema.
Dunque - e lo dico a nome di un grande numero di persone competenti, che considerano questa legge un vero disastro, ma che malgrado ciò continueranno ad applicarla - si può essere certi che in Italia, da quando la legge è stata introdotta:
- sono diminuite le gravidanze e sono diminuiti i parti e ciò soprattutto nelle donne meno giovani, il cui numero è in costante aumento;
- sono particolarmente puniti i casi di sterilità maschile più severa;
- ci sono più aborti e più gravidanze extrauterine;
- le gravidanze da oociti scongelati sono ancora molto poche.
Che le coppie italiane si interroghino sulla opportunità di cercar fortuna nei laboratori stranieri, e non solo alla ricerca di donazioni di gameti e di indagini genetiche preimpiantatorie, è dunque logico.
Siamo ora in attesa delle nuove linee guida che, per quanto mi è dato sapere, verranno pubblicate per ferragosto, nella speranza che passino inosservate. Un trucco per poter introdurre innovazioni coraggiose? Per carità, l'ultimo uomo politico italiano dotato di coraggio è stato Garibaldi e certamente il colore preferito dai nostri ministri è il giallo. Lo scopo vero è quello di non richiamare troppo l'attenzione sulla mancanza di novità, a meno che non si voglia far passare per tale la concessione ai malati di AIDS di essere ammessi ai trattamenti (ostacolo già aggirato da tempo, ma non posso dirvi come, il giornale potrebbe cadere in mani ostili). Mi viene tra l'altro in mente che nessuno mi ha mai saputo dire con precisione chi sono i membri di questa fantomatica commissione che prepara le linee guida: mi è stato fatto il nome dell'ex presidente del Comitato Scienza e Vita, ma francamente questa mi sembra una barzelletta, una cattiveria che neppure il nostro Ministero della Salute merita.
Faccio comunque la mia previsione: non cambierà niente.
In conclusione - ma sto purtroppo ripetendo le stesse cose da alcuni anni - non mi pare che ci siano molti spazi per i laici, né per discutere né per mediare. E non mi pare che esista la minima volontà di occuparsi della sofferenza della gente, per l'etica della compassione dovremo ripassare. Del resto, la formazione di un grande partito di centro che guarda a sinistra (cioè di una nuova Democrazia Cristiana strabica) non lascia alcuno spazio alla discussione e alla mediazione sui temi «eticamente sensibili», e sono molto curioso di capire come Veltroni riuscirà a trangugiare questo rospo.
Per fortuna i fanatismi religiosi, per quanto intolleranti e prepotenti possano dimostrarsi, dovrebbero avere vita relativamente breve. Conto su questo per il giorno in cui i miei pronipoti cercheranno un figlio.



Ansa 3.7.07
EDITORIA: DENUNCIATI LICENZIAMENTI A LEFT, NUOVI SCIOPERI

ROMA, 3 LUG - Crisi profonda a Left-Avvenimenti: arrivano anche i licenziamenti dopo una serie di scelte che ha sconvolto l'assetto del giornale: è la denuncia dell'assemblea dei redattori che ha proclamato due giorni di sciopero, a partire da oggi, come si legge in una nota di stampa romana.
Non c'eè pace per il giornale nato dalle ceneri di Avvenimenti: già all'inizio della sua avventura furono defenestrati i due direttori, Giulietto Chiesa e Adalberto Minucci. A loro successe Pino Di Maula e poi furono scelti Alberto Ferrigolo e Andrea Purgatori per il rilancio della testata. Anche la nuova coppia di vertice ha avuto vita breve ed è stata congedata dall'editore in modo non propriamente soft. Alla guida è tornato Pino Di Maula, affiancato però da Luca Bonaccorsi, condirettore e anche editore. Contemporaneamente è uscito di scena l'altro editore, Ivan Gardini. Un terremoto dietro l'altro: in tanti addebitano questa successione di eventi al ruolo all'interno del giornale attribuito allo psicanalista eretico Massimo Fagioli.
L'assemblea dei lavoratori denuncia, si legge nella nota del sindacato, ''che stamattina a una collega giornalista, con un contratto in via di rinnovo, è stato intimato di non tornare in redazione dopo che la direzione del giornale aveva ricevuto la sua richiesta di praticantato d'ufficio''. ''Negli scorsi giorni a una collega grafica - si legge ancora - è stato proposto, al posto di un contratto annuale in scadenza, il rinnovo per i soli due mesi estivi. Riteniamo trattarsi di due chiari casi di ritorsione nei confronti dei colleghi precari per aver partecipato alle azioni sindacali delle scorse settimane. A questi vanno aggiunti l'illegittima dequalificazione e il demansionamento del direttore Alberto Ferrigolo e del caporedattore Marco Romani''.
''Tutto questo - denuncia l'assemblea - mentre gli stipendi arrivano con un mese di ritardo, a causa di una annunciata crisi economica che però non ha impedito la promozione di alcuni e l'ingresso in redazione di nuovi colleghi senza alcuna comunicazione alla rappresentanza sindacale in violazione del dettato contrattuale. L'assemblea denuncia la mancanza di correttezza nei rapporti di lavoro, le continue violazioni sindacali di un amministrazione che non risponde alle convocazioni dei sindacati ma che in altre sedi pubbliche parla di socialismo e di diritti. Per tutte queste ragioni l'assemblea dei lavoratori, a larga maggioranza, proclama due giorni di sciopero, oggi 3 luglio e domani 4''. (ANSA).

Liberazione 4.7.07
L'ha riproposto Mussi, risposta favorevole da Russo Spena. Oggi comincia una serie di incontri bilaterali
Tanti sì alla "cosa rossa", in gara già alle comunali


La "cosa rossa", primi passi. Non solo parole ma ora anche primi passi. Il percorso che porterà alla costruzione di "qualcosa" che unisca la sinistra sembra essersi accelerato. In queste ore, in questi giorni. E' di ieri una lunga intervista al leader della Sinistra democratica, il ministro dell'Università, Fabio Mussi. Che - in poche occasioni così esplicito - dice di "no" alle avance formulate da Veltroni perché ritorni nel partito democratico. Si mostra un po' tranchant nei confronti di Fassino (che in un'altra intervista, sempre su La Stampa imponeva al ministro di chiedergli scusa), ma soprattutto pone un aut aut: "O alle amministrative del prossimo anno ci si presenta insieme o il progetto di unire la sinistra rischia il fallimento.
Un'idea, di cui aveva già parlato anche Franco Giordano, che non sembra entusiasmare i verdi - Pecoraro Scanio ha già detto che gli sembra una strada non percorribile, se non in qualche città - ma piace a tutti gli altri. Ora però si proverà a uscire dal generico. E da stamattina, infatti, la Sinistra democratica comincerà una serie di incontri con le altre forze di sinistra (con tutti quelli che si collocano alla sinistra del piddì, per capire) con l'obiettivo di provare a stringere. Con un tema sopra agli altri: la definizione di un percorso preciso che porti al varo di liste unitarie già dalle comunali del prossimo anno. Dappertutto.
Il ciclo di incontri comincerà oggi alle 11, quando Mussi si vedrà a quattr'occhi con Diliberto. Le altre forze le vedrà entro l'11 luglio.
Tutto ciò mentre arrivano già le prime risposte. Pubbliche. E sono di sostegno all'idea di liste unitarie. Per tutte valgano le parole di Giovanni Russo Spena, capogruppo del Prc a Palazzo Madama. Lui dice di essere "d'accordo con Mussi e che il nuovo soggetto deve essere in grado di presentarsi unito già alle prossime amministrative". Lo impone "il quadro politico e soprattutto le attese della nostra gente". Certo, occorre procedere speditamente, "stando comunque attenti a non bruciare le tappe". Insomma, l'unità non è dietro l'angolo: "Va costruita", rafforzando intanto l'unità d'azione.
Già, ma come costruirla? Su questo da ieri è in campo una proposta formulata da Pietro Folena. L'esponente della Sinistra europea, presidente della commissione Cultura della Camera, parte dall'analisi di quel che è avvenuto dopo l'arrivo di Walter Veltroni. Pe lui, la candidatura del sindaco di Roma in qualche modo "rappresenta una sfida anche per la sinistra", scrive in un editoriale per "Rosse di sera", un'agenzia-rivista telematica. Tradotto significa che per Folena anche il popolo della sinistra, tutti coloro che insomma non si riconoscono nel progetto del piddì, debbano dar vita alle primarie. Magari non il 14 ottobre ma in autunno certamente sì.
Primarie, allora. Dove le persone scelgano "il proprio programma e la leadership". Sarebbe un modo per "accelerare il processo unitario". Folena in più ci mette anche un suggerimento: immaginando alla guida della "cosa rossa" insieme un uomo e una donna. Per rendere tangibile una nuova politica di genere.
Per Folena comunque proprio la Sinistra europea "deve essere la trazione anteriore dell'unità a sinistra", mettendo da parte le polemiche interne. "Non bisogna essere spaventati o incerti - scrive nel suo editoriale - nel mettersi in gioco, perché i risultati positivi dell'innovazione a sinistra si sono già visti. Senza la svolta nonviolenta, senza la messa in discussione del Novecento, oggi sarebbe impossibile qualsiasi dialogo con altri pezzi della Sinistra. Invece, proprio grazie a quel percorso, oggi c'é la prospettiva di un soggetto unitario e plurale capace di parlare alla pari coi moderati dell'Unione".
L'idea delle primarie, comunque non appassiona tutti. Fabio Mussi, ai giornalisti che ieri gli chiedevano un parere, si mostrava scettico. "Non farei un gioco a specchio con i democratici", ha risposto. Di più: "I partiti non nascono dalle primarie. I democratici americani fanno le primarie ma son nati da una rivoluzione e dalla guerra civile. Poi fanno anche le primarie".
Non è una bocciatura, comunque. Spiega Carlo Leoni, anche lui della Sinistra democratica. "Sono d'accordo con Folena che bisogna inviare un segnale per cui la gente deve partecipare attivamente alla costruzione del nuovo soggetto plurale. Senza questa partecipazione non si andrà da nessuna parte, e probabilmente, il soggetto non nascerà mai". Ma anche a lui la logica delle primarie - quasi in concomitanza con quelle che incoroneranno Walter Veltroni - sembrano "una semplice rincorsa" del piddì. Rivelerebbero, forse, una logica subalterna. L'accelerazione sul soggetto unitario, però, va fatta. E subito.
s.b.

La Stampa 4.7.07
Mostra al Quirinale
La scultura emozione segreta di Calatrava
di Lea Mattarella


Sono un fanatico di Roma. Questa città è la prova di quello che penso da sempre: l'architettura serve, è funzionale, ma ciò che conta è l'emozione». Santiago Calatrava, architetto spagnolo (è nato a Benimamet, in provincia di Valencia nel 1951) che vive da tempo a New York, intona in perfetto italiano la sua dichiarazione d'amore nei confronti della città eterna. E qui per presentare la mostra personale che si apre oggi alle Scuderie del Quirinale e si potrà visitare fino al 2 settembre. «Se dovessi indicare a mio figlio una città dove studiare architettura non avrei dubbi, gli direi di venire qui. Picasso sosteneva che la pittura si impara nei musei e non nelle scuole e io credo che l'architettura si apprenda nelle strade. E allora quale posto migliore di Roma? E un luogo universale, appena arrivi te ne senti subito parte, io mi considero un romano "d'altrove" e dico sempre che questa città è "ad alta velocità visuale", l'occhio non si stanca. Se Vienna è la musica, Roma è l'architettura che poi altro non è che la sintesi delle arti, il momento in cui i diversi linguaggi convergono».
Per dimostrare l'armonia tra le diverse espressioni ecco questa mostra, dove non sono raccolti plastici e maquettes, ma disegni e sculture. Un lato inusuale, intimo e segreto del suo immaginario che però suggestiona in maniera totalizzante le architetture, progettate ed eseguite in giro peril mondo. Mettendo insieme scultura e architettura, Calatrava somiglia un po' ad un artista antico, tra Brunelleschi e Bernini.
Nei suoi taccuini ci sono occhi disegnati che, senza troppo sforzo riconosciamo come le fonti del Planetarium della Città delle arti e della scienza di Valencia. A smentire il luogo comune che nessuno è profeta in patria, Calatrava ha costruito proprio qui uno spazio completamente inventato, un insieme di edifici che funziona un po' come la Piazza dei Miracoli a Pisa, con un dialogo silenzioso tra materiali, colori, pesi e leggerezze.
«Realizzando questa mostra ho aperto una stanza segreta che conserva schizzi, pensieri, sogni continua l'artista-architetto-ingegnere (dopo gli studi di architettura in patria si è laureato in ingegneria in Svizzera) ho voluto mostrare una parte di me un po' rara e sconosciuta, che non è il mio "modus vivendi" ma comunque sono io. E il laboratorio dove nascono le mie forme».
Infatti questo scrigno tutto da svelare contiene proprio la chiave di lettura per l'architettura di Calatrava. Dove ogni cosa ha inizio dalla natura: dall'uomo, dagli alberi, da una semplice foglia. Lo suggeriscono chiaramente i disegni e le sculture in mostra. Ci sono corpi acquarellati che sotto il nostro naso si trasformano in colonne scolpite e poi in grattacieli, come quello progettato per Chicago, la «spirale». E se la figura umana si distende e inarca un po' ecco comparire l'immagine di un ponte che illumina anche i suoi, celebri, che ha realizzato da Copenhagen a Lucerna, da Parigi a Barcellona, da Londra a Buenos Aires, da Stoccolma a Dallas, da Berlino a Reggio Emilia.
Dieci anni fa Calatrava ha immaginato anche il quarto ponte sul Canal Grande a Venezia. In Italia sembra proprio che le grandi opere di architettura debbano sempre essere accompagnate da polemiche. Non è sfuggito a questo destino neanche il progetto dell'architetto spagnolo. Costa troppo, è irrealizzabile, i cittadini non lo vogliono, non va bene per i disabili, crollerà. Ma che fine ha fatto questa struttura che nei progetti avrebbe dovuto quasi lanciarsi sulla laguna? «A settembre si camminerà sul ponte. L'avventura straordinaria di costruire qualcosa del genere a Venezia diventerà realtà. Certo non è facile edificare in un posto così eccezionale e siamo in un mondo democratico per cui è giusto anche tener presente le obiezioni della signora casalinga dice, forse un po' ironico ma per niente irritato ma il ponte è pronto, è a Marghera e aspetta solo di essere messo al suo posto».
Intanto, tra le sale delle Scuderie, si incontrano ponti anche tra le zampe di cavalli picassianamente stilizzati, tra
bronzi intitolati alla "Nascita di una foglia", oppure in un ebano senza titolo che svolazza sul mondo, dove si sente l'eco del grande scultore rumeno Costantin Brancusi: «Lo amo molto, mi piace il suo incantarsi infantile di fronte alla natura e il suo fare intimo, che è un po' il senso di questa esposizione». Tra marmi, legni, alabastri, argenti, ceramiche e sculture che si muovono quasi respirassero, c'è un unico plastico ed è ancora un omaggio a Roma: il progetto per la città dello sport a Tor Vergata. Il cantiere è aperto e la gigantesca struttura dovrebbe inaugurarsi nel 2009 in occasione dei mondiali di nuoto. «E una sfida e avviene proprio qui, dove da secoli si dimostra che è possibile conciliare contesto urbano e ambizione artistica».

La Stampa 4.7.07
"Se resta lo scalone il governo va a casa"
Intervista a Franco Giordano di Antonella Rampino


Sulle pensioni il governo è stretto in una morsa, e sull'orlo di una crisi. Non solo l'ala liberal dell'Ulivo, ma soprattutto Rifondazione Comunista, minaccia di non votare la riforma se non arriverà ad abbattere il cosiddetto scalone. A costo di mandare a casa Prodi. Lo dice il segretario Franco Giordano, avvertendo che «Rifondazione non ci sta, neanche se la proposta Damiano sugli scalini dovesse essere accettata dalla Cgil».
Davvero siete disposti alla crisi?
«Una parte della coalizione ci accusa di voler spezzare la corda. Dov'erano quando abbiamo trascorso mesi e mesi a discutere sull'abolizione dello scalone, che poi è entrata nel Programma? Tutti hanno condiviso, a cominciare da Damiano. Se il governo cadrà, non saremo noi i responsabili. In questo anno, molti punti del Programma sono stati modificati. Su questo, sulle pensioni, non si può transigere».
È la vostra linea del Piave. È così importante il dettaglio della proposta Damiano, che pure coincide quasi con la vostra?
«Io trovo interessante la proposta Damiano. Ma è singolare che si punti a una ripresa di consensi al Nord, e poi non si voglia mettere in pratica una politica di consensi di massa. In tutte le fabbriche del Nord c'è un sentimento che va dal disincanto alla rabbia distruttiva. Tutti vogliono andare in pensione a 57 anni, con 35 anni di lavoro: come prevede la legge Dini, che non fu ben accetta agli operai, e che le destre hanno modificato assai in peggio: Adesso, bene per l'aumento a 58 anni, ma che siano esclusi tutti, e dico tutti, i turnisti, e chi ha 40 anni di contributi: Ma non si può proporre che poi, automaticamente, tra tre anni si torna allo scalone della Maroni».
Giordano, sta dicendo che gli operai non sono la base del Partito Democratico?
«Tutti sanno che Rifondazione, al contrario del Pd, non è equidistante tra impresa e lavoro, né ci riferiamo, come fa Veltroni, a un astratto cittadinoconsumatore. Io penso che le difficoltà dell'Unione al Nord stiano proprio nella perdita di consenso nel mondo del lavoro».
Ma non è la Cgil che difende il lavoro?
«Per ora questa battaglia la stiamo facendo insieme. Vedo che la Cgil sta sostenendo le ragioni del Programma dell'Unione, e nella polemica con D'Alema Epifani l'ha ribadito. Mi piacerebbe, visto che D'Alema dice che andare in pensione a 57 è un privilegio, portarlo a fare una passeggiata a Mirafiori, magari in assemblea con gli operai».
E se la Cgil firmasse quell'accordo col governo?
«Attualmente non c'è alcun accordo. Se ci fosse, se la Cgil controfirmasse la proposta Damiano, noi non la voteremmo comunque in Parlamento».
Anche a costo di far cadere il governo...
«Abbiamo tempo per discutere. Ma siamo molto determinati. Perché vede non è un problema di conti. I lavoratori si sono pagati l'abbattimento dello scalone con lo 0,3 dell'aumento della contribuzione. Parte di coloro che ne hanno diritto, poi in pensione non ci vanno: un 30 per cento, dicono le statistiche. L'Inps è in salute. No, non è un problema di conti. E' un problema politico. Il futuro Pd, con Veltroni, pensa che bisogna redistribuire tenendo fuori i profitti e la ricchezza. E' per questo che si sottrae agli anziani per dare al giovane precario, è per questo che si mettoni i giovani contro gli anziani».
Repubblica 4.7.07
Il romanzo di Heidegger
Uno scrittore argentino tenta la via della fiction per spiegare il dramma del filosofo
di Antonio Gnoli e Franco Volpi

José Pablo Feinmann ricostruisce il fascino devastante e ipnotico del Maestro
Perché il più grande pensatore del Novecento aderì al nazismo di Hitler?
La storia è raccontata in forma di lettera da un ex allievo in procinto di suicidarsi
Il rovello di fondo è che "Essere e Tempo" contenga già i germi del totalitarismo


C´è un ingombrante fantasma che si aggira in questa lunga lettera-romanzo. E´ piccolo e impettito. Il suo nome è Martin Heidegger. Suscita un certo effetto incrociarne il destino sotto forma di un racconto che parla di seduzione, svela equivoci e delusioni, e lo fa partendo da una certa idea di prossimità. Che cosa vuol dire la vicinanza? Che effetto fa stare accanto a un maestro, a un genio, a un demone che incanta e poi si ritrae furtivo dalla scena?
José Pablo Feinmann - scrittore argentino (Buenos Aires, 1943) che da tempo la critica ha segnalato come personalità letteraria di notevole spessore - descrive una zona oscura del Novecento e racconta di una stella finita nella polvere. Gli astratti pensieri dei filosofi a volte si posano laddove non dovrebbero. Frugano tra le ombre del divenire, convinti di illuminarne il percorso con la forza del linguaggio. Il guaio è che a volte ci riescono. Capita che una luce radente scopra qualcosa. E che questo qualcosa venga scambiato per il tutto. Ma è solo un altro fraintendimento del modo in cui la verità della filosofia ha voluto contendere il primato alla verità del potere.
La storia di Heidegger è indicativa delle complicate nozze mistiche tra la filosofia e la politica. Ma ciò che qui interessa non è solo lo scacco di quell´unione, né l´abbaglio che l´ha prodotta, bensì il fatto che quella storia continui a rappresentare una ferita dell´Occidente e del suo modo di declinare la parola «etica».
Temporaneo o organico che sia stato, l´impegno nazionalsocialista di Heidegger è un fatto storico incontestabile. Nel maggio del 1933 l´astro nascente della filosofia tedesca aderì al Nsdap, fu eletto rettore dell´università di Friburgo e, almeno per un anno, fino alla rassegna delle dimissioni nell´aprile del 1934, si impegnò nell´allineare l´attività accademica alle direttive ideologiche del partito.
Un caso abbastanza chiaro, in fondo non diverso da altri. A paragonarlo poi con quello di un altro grande filosofo del Novecento, Giovanni Gentile, che collaborò in modo ben più organico e durevole con il fascismo, potrebbe essere perfino derubricato nell´ordine della gravità.
Perché allora, dalla fine della seconda guerra in poi, tante polemiche e tanto accanimento? Perché Heidegger nazista ha fatto scandalo, e con periodica insistenza si è tornati a discutere della sua compromissione, episodica o essenziale che fosse?
Naturalmente perché Heidegger è stato il più grande pensatore tedesco contemporaneo, e il nazionalsocialismo il totalitarismo più tragico del Novecento. Fatichiamo a capire come fu possibile il loro incontro. Perché mai una mente così profonda aderì a un´ideologia tanto barbara?
L´imbarazzo è accresciuto dall´ostinato e ingombrante silenzio del maestro teutonico dopo la guerra. Non solo.
C´è anche il fatto che la verità storica sulla sua compromissione è venuta a galla soltanto poco a poco, grazie a sempre nuove scoperte e a nuovi accertamenti, succedutisi nel corso degli anni, che hanno contribuito ogni volta ad attizzare le polemiche.
Ma non è solo questo. E´ in gioco qualcosa di più viscerale. Qualcosa che va al cuore della filosofia di Heidegger e tocca l´essenza stessa del pensiero. Lukács, Adorno, Löwith, il giovane Habermas, Guido Schneeberger, Victor Farías, Hugo Ott e recentemente Emmanuel Faye, con le loro prese di posizione, le loro ricerche, la loro documentazione non hanno solo inteso far luce sull´errore storico contingente di Heidegger, sulla caduta del protofilosofo. Hanno anche sollevato, soprattutto, la questione se nel suo pensiero, nella grande opera che l´ha reso immortale, Essere e Tempo, e nella «svolta» che già lì, nei paragrafi finali, si annuncia, non si annidino le premesse teoriche e dottrinali della sua scelta politica in favore del nazionalsocialismo. Il caso Heidegger rimanda in fondo a uno di quegli eterni problemi della filosofia che non hanno soluzione, ma solo storia: il rapporto della saggezza con la tirannide, del pensiero con la politica, della teoria con la prassi, degli intellettuali con il potere.
Con la sua invenzione filosofico-letteraria Feinmann ha probabilmente imboccato la via migliore, certo non per mettere sul caso Heidegger l´impossibile parola «fine», ma per lasciar parlare, se così si può dire, la forza delle cose e far sì, con la giusta sensibilità e dalla giusta distanza, che chiunque capisca la rilevanza del problema e la posta in gioco. E´ la via della finzione letteraria, che con la sua agilità aggira l´indispensabile ma prolissa letteratura scientifica e, intentio obliqua, arriva con maggiore efficacia al punto. Il caso Heidegger diventa finalmente comprensibile a tutti e tutti possono toccare con mano il dilemma di cui egli è stato protagonista.
Feinmann racconta la tragica storia di Dieter Müller, allievo di Heidegger diventato anch´egli nazista, e alla fine della guerra fuggito in Argentina. E lo fa nella forma di una lunga lettera che Dieter Müller scrive al figlio Martin poco prima di suicidarsi. Dalla prospettiva del protagonista, il racconto si presenta sbilanciato in una celebrazione di Heidegger e dell´ideologia della grande Germania, nella quale sarebbe riposta la salvezza dell´Europa schiacciata a tenaglia, secondo la nota diagnosi metafisica e geopolitica heideggeriana, tra americanismo e bolscevismo. Ma ciò che sembra un´adesione entusiastica è in realtà un artificio letterario voluto per produrre l´effetto opposto, che a un certo punto emerge con chiarezza e si concretizza in un giudizio senza appello: il pensiero dell´Essere non è estraneo alla scelta per il nazionalsocialismo, ma ne è la condizione e la preparazione sistematica. Come dire che la filosofia di Heidegger è per certi versi indipanabile dalle sue scelte politiche. Nelle ultime drammatiche parole scritte al figlio, Dieter Müller evoca l´atmosfera culturale in cui il filosofo, con la sua tenebrosa e ipnotica personalità, era diventato lo sciamano di un´intera generazione, e racconta come lui stesso, incantato dalla chiamata all´autenticità del maestro, aveva profuso le proprie energie al servizio delle verità assolute predicate dal pifferaio magico della filosofia teutonica. Ma dopo avere creduto che gli orrori del nazismo non fossero altro che la versione trionfalistica della storia propagandata dai vincitori, Dieter Müller, di fronte alla foto di un deportato in procinto di entrare in una camera a gas, è vinto dalla compassione e si rende tardivamente conto di essere stato un intellettuale complice: il preteso possesso della Verità può trasformare un individuo, una collettività, l´intero popolo che se ne arma, in un potenziale assassino. Müller espia il suo irredimibile abbaglio e il suo senso di colpa con il suicidio. Il figlio Martin, per elaborare la tragedia del padre, anni più tardi si metterà sulle tracce di Heidegger.
La sua ricerca diventerà il senso e l´ossessione di un´intera vita, finché, raggiunto il pensatore nella sua baita di Todtnauberg, cercherà, senza riuscirvi, di strappargli una risposta degna del suo acume teoretico: perché la grandezza filosofica si accompagna a volte così testardamente all´abiezione politica?
Nessuno prima di Feinmann aveva sperimentato la finzione letteraria per affrontare la compromissione di Heidegger con il nazionalsocialismo, e più in generale il rapporto della sua filosofia con l´etica e la politica. La libertà del racconto, anziché allontanarci dagli eventi e dai fatti, ce li fa rivivere de visu, e suscita quell´imbarazzo etico che la loro gravità richiede. E´ ben diverso sostenere la colpevolezza di Heidegger da storico, o metterla direttamente in bocca a un suo stesso allievo, che per di più confessa di essere stato convinto al nazismo dalla filosofia del maestro. Qui non c´è bisogno di fornire prove, ma si dà la parola all´evidenza. La quale è tanto più convincente in quanto Feinmann non concede nulla alla reazione scandalizzata, nulla al politicamente corretto, nulla al giudizio dell´uomo della strada che condanna o deride le soluzioni del filosofo solo perché non ha capito i suoi problemi. Al contrario, ci fa vedere come la torbida e pericolosa ambiguità del pensiero di Heidegger sia connessa proprio alla sua grandezza di teoreta. Alla fine il suo racconto si lascia preferire a intere biblioteche che sono state scritte sul caso (...).
Com´è possibile che un pensiero così vigile non abbia riconosciuto per quel che era la realtà politica che andava affermandosi? E noi, quali conseguenze dobbiamo trarne nel valutare la sua opera e la sua influenza?
Heidegger non fu peraltro un caso isolato. Oggi naturalmente il suo nome svetta tra gli esempi di ottusità politica associata a profondità filosofica. Ma all´epoca l´analfabetismo politico era alquanto diffuso tra i vari professori tedeschi di filosofia che si precipitarono a servire il nazionalsocialismo (...). Quando in quegli anni orribili egli pretese di illuminare la Germania, illudendosi di portare la filosofia nel cuore stesso del potere, ottenne in un certo modo l´inverso. Il successivo silenzio in cui avvolse la sua vicenda si può anche interpretare come l´inconfutabile afasia della sua voce politica.
Il grande guaio, acutamente individuato da Leo Strauss, e che José Pablo Feinmann fa rivivere nel suo racconto, ci spinge perciò a formulare una domanda: com´è possibile, oggi, riconciliare filosofia e politica dopo che «il solo grande pensatore del nostro tempo» le ha dissociate?

martedì 3 luglio 2007

I CONTATTI CON "SEGNALAZIONI" NEL MESE DI GIUGNO 2007
IN TOTALE SONO STATI 55.739, ECCO IL DETTAGLIO ORDINATO PER PAESE DI PROVENIENZA:



1. Italy 49.654
2. Other 2.466
3. France 763
4. United States 577
5. Sweden 478
6. Germany 471
7. United Kingdom 198
8. Portugal 181
9. Belgium 175
10. Spain 154
11. Switzerland 141
12. Hong Kong 56
13. Netherlands 38
14. Brazil 29
15. Austria 28
16. Uruguay 27
17. Turkey 22
18. Argentina 22
19. India 20
20. Norway 20
21. Luxembourg 19
22. Canada 19
23. Maldives 18
24. Greece 14
25. Ireland 11
26. Poland 11
27. Romania 9
28. Serbia Montenegro 9
29. Australia 8
30. Hungary 8
31. Mauritius 8
32. Morocco 7
33. Slovenia 5
34. United Arab Emirates 5
35. South Africa 5
36. Mexico 4
37. Peru 3
38. Malta 3
39. Japan 3
40. Tunisia 3
41. Venezuela 3
42. Colombia 3
43. Chile 3 0,01%
44. Croatia (Hrvatska) 3
45. Finland 2
46. Denmark 2
47. Dominican Republic 2
48. Costa Rica 2
49. Czech Republic 2
50. Albania 2
51. Slovak Republic 2
52. Qatar 2
53. Monaco 2
54. Thailand 2 0,00%
55. Kenya
56. Korea (South)
57. Philippines
58. Malaysia
59. Nicaragua
60. Russian Federation
61. Singapore
62. Vatican City State (Holy See)
63. Ukraine
64. Burundi
65. China
66. Cook Islands
67. Algeria
68. Israel
69. Iran
Total 55.739 100,00%
Repubblica 3.7.07
Tra le rovine del regno di Aratta la scrittura più antica del mondo
In Iran riemerge una civiltà sepolta: potrebbe cambiare la storia
di Vanna Vannuccini

Un luogo simbolo di eccellenza, il cui ruolo è paragonabile a quello rappresentato da Troia per l'Asia minore
Gli scavi hanno riportato alla luce delle tavolette incise prima dei sumeri
Un pool di archeologi è convinto di avere scoperto i resti della mitica città


JIROFT (Iran Sud Orientale) «Gilgamesh sii il mio amante! Fammi dono della tua virilità! Quando entrerai nella nostra casa la soglia splendidamente dorata bacerà i tuoi piedi». Così Ishtar, la dea dell´amore, si rivolge al leggendario re di Uruk nel più famoso poema epico lasciatoci dai sumeri. «Splendidamente» è scritto nella traduzione, ma la parola sumera è arattù, ovvero alla maniera di Aratta. Aratta era per i sumeri simbolo di eccellenza, il topos di tutti i miti come Troia lo fu per quelli dell´Asia Minore. I poemi sumerici ne parlano come di una città magica, «distante sette montagne», in cui viveva un sovrano che in alcuni testi è «il Signore di Aratta», in altri è chiamato Ensurgiranna. Gli studiosi si sono affannati a cercare quale luogo geografico potesse corrispondere a questa leggendaria città. Ma finora il mito era rimasto sospeso nel nulla. La singolarità di Aratta infatti è che mentre nelle fonti letterarie vi sono innumerevoli riferimenti alla città e alle sue ricchezze, il nome non compare in nessuna delle 450.000 tavolette di argilla arrivate inalterate fino a noi, nelle quali i sumeri diligentemente registravano scambi commerciali, elenchi dei tributi ricevuti dai sudditi, derrate agricole o editti dei re. Non può essere un caso, sostengono quegli archeologi che ormai si erano convinti che Aratta non fosse mai esistita.
Ma uno scavo recente potrebbe aver riportato alla luce il mitico regno. Se così fosse, sarebbe la scoperta archeologica del secolo. Una nuova Troia.Che sia così, è il convincimento dell´archeologo iraniano Yussef Majidzadegh, che con una squadra internazionale (di cui fa parte anche l´italiano Massimo Vidale, archeologo dell´Isiao) guida gli scavi di Jiroft, nell´Iran sud-orientale. Majidzadeh sostiene che Jiroft è la più antica civiltà orientale, precedente di almeno un paio di secoli quella sumerica. L´archeologo presenterà in questi giorni la sua tesi al convegno internazionale di archeologia a Ravenna. «È venuta alla luce una civiltà complessa, pari o per certi versi superiore a quella sumerica per dimensioni urbanistiche, per l´aspetto monumentale e la raffinatezza delle tecniche artistiche. Questo ci obbliga a gettare uno sguardo nuovo sulla formazione delle civiltà tra il IV e il III millennio», dice Massimo Vidale.
La storia comincia a Sumer, è sempre stato il mantra degli archeologi. Perché a Sumer ha inizio la scrittura. Ma dopo la scoperta di Jiroft questo potrebbe non essere più vero. Nello scavo è stato trovato (finora) un mattone con un testo protoelamico, la cui origine si fa risalire a Susa nel 3000 a. C., e tre tavolette con una scrittura ancora indecifrata. Tuttavia la scrittura non sembra avervi avuto un ruolo predominante come tra i sumeri. Per questo, sostiene l´australiano Daniel Potts, Majidzadeh attribuisce a Jiroft una datazione così antica. Secondo Potts Jiroft corrisponde invece a una città più tarda, di grande ricchezza, Marhashi, la cui esistenza è attestata da diversi testi.
Jiroft è una città nella regione di Kerman nota soprattutto per il suo clima umido, subtropicale. Da Kerman, in macchina, ci si arriva in un paio d´ore. Si abbandona la steppa desertica del Dash-e Lut per salire su una zona montuosa, eccezionalmente fresca e verde, per poi ridiscendere nella valle di Jiroft. Da qui non ci sono più barriere montuose fino allo stretto di Hormuz, e l´aria umida del Golfo Persico arriva senza trovare impedimenti. Agrumeti e palmizi da dattero ne fanno la ricchezza. La fonte d´acqua della regione è il fiume Halil, che scende per oltre 400 chilometri dalle montagne del nord. Quasi un secolo fa un´alluvione cambiò il suo corso, i vecchi ricordano ancora che i loro nonni raccontavano che il Halil Rud voltò le spalle alla città e se ne andò a 800 metri di distanza. Ma nel 2001, dopo un lungo periodo di siccità, il Halil Rud straripò di nuovo, e questa volta sul terreno eroso dalle acque comparvero veri e propri tesori: monili, offerte funenarie, statuette, vasi di clorite (la tipica pietra locale di colore verde scuro). Il giorno dopo, centinaia di contadini impoveriti da anni di siccità accorrono sulle rive del Halil alla ricerca di oggetti antichi 5000 anni.
Si dividono il terreno, con il consenso delle autorità locali, in lotti di sei metri per sei, uno per ogni famiglia, scavano, tirano fuori oggetti di incomparabile bellezza. Diecimila buche, cinque o sei necropoli interamente saccheggiate, e interamente distrutto quel «contesto» che è fondamentale per gli archeologi per studiare e datare gli oggetti. Dove ci sono i tombaroli ci sono naturalmente anche i mercanti. Non appena si sparge la voce, intermediari e mercanti arrivano da tutto l´Iran, da Kabul, dal Pakistan - e poi da Parigi, da Londra, da New York. Comprano direttamente dal contadino che scava. Un vaso di clorite scolpito, 50 dollari; una statuetta intarsiata, 100; un´aquila fatta come una scacchiera con pezzi di turchese 150. Si ritroveranno nelle case d´asta europee e americane venduti per centinaia di migliaia di dollari. La passione per «i Jiroft» fa nascere addirittura una produzione di falsi. Anche il Louvre ha acquistato cinque pezzi (veri), di cui il governo iraniano sta cercando ora di tornare in possesso.
Il saccheggio durò un anno. Almeno 10.000 oggetti vengono portati via. Finché l´archeologo Majidzadeh, che aveva insegnato a Teheran prima di trasferirsi in Francia, ottenne dal governo iraniano di cominciare uno scavo sistematico insieme a un gruppo di colleghi di diversi paesi. Ora, ci dice il tassista che ci accompagna all´aeroporto di Jiroft, uno come lui, che ha due ettari di terreno e coltiva cetrioli in serra, non può nemmeno fare una traccia per seminare senza ritrovarsi addosso la polizia. Ma questo non significa che il saccheggio non continui, più silenzioso e con mezzi più sofisticati. Ai contadini sono subentrati i ben più attrezzati contrabbandieri internazionali, muniti di rilevatori, computer, attrezzature per lavorare di notte. Del resto, come ci fa vedere Ali Daneshi, un giovane archeologo locale lasciato a guardia del sito fino al momento in cui in autunno ricominceranno i lavori, lo scavo guidato da Majidzadeh è solo un inizio: i siti già rilevati sono quasi settecento, in un´area di 400 km quadrati.
Entriamo nello scavo e Daneshi si accorge subito che il vetro blindato messo a protezione di una statua senza testa, alta quasi un metro e mezzo e dipinta di colore ocra giallo e rosso con piccole incisioni nere, è stato rotto. Evidentemente di qui non passa soltanto qualche pasdar solitario di guardia. «Cominciammo a scavare da due collinette, distanti l´una dall´altra 1400 metri» racconta Vidale. «In quella nord è venuta fuori una piattaforma gigantesca a gradoni, uno ziggurat, con una base di 300 metri per 300 e un´altezza di 17 metri. L´intera superficie dell´altra collinetta, 200 metri per 300, si è rivelata una struttura monumentale, costruita su un preesistente accumulo archeologico, circondata da mura larghe 10 metri. Ad est della cittadella trovammo un´altra piattaforma, larga 24 metri, che era il quartiere dei lavoratori del metallo. Insomma siamo di fronte a una città ben strutturata, con la cittadella amministrativa, il tempio, i quartieri residenziali e i luoghi di lavoro».
Nel piccolo museo allestito a Jiroft e catalogato da Majidzadeh, gli oggetti esposti sono stati quasi tutti confiscati ai contrabbandieri, fatta eccezione per una vetrinetta con cinque pezzi ritrovati nello scavo. Vasi di clorite scolpiti con motivi di animali e di piante, soprattutto palmizi, forme umane e creature fantastiche, uomini-scorpioni, uomini-leoni, aquile, serpenti. Gli occhi degli animali carnivori sono tondi, quelli degli erbivori ovali come quelli umani. Ogni oggetto è preziosamente incastonato di turchesi, lapislazzuli, marmo, calcare bianco. In alcuni ci sono straordinarie raffigurazioni stilizzate di edifici, di città, di mura fortificate, che non hanno esempi nel mondo antico. Si può capire come il re sumero Enmerkar, nel poema «Enmerkar e il Signore di Aratta», volesse architetti e decoratori di Aratta per costruire i templi agli dei di Sumer.

Repubblica 3.7.07
Flop fecondazione, gravidanze in calo ma la Cdl insorge: la legge non si tocca
di Mario Reggio


La relazione del ministro Turco sulla procreazione assistita. Coppie italiane costrette ad andare all'estero
Cresce la percentuale dei trattamenti con esito negativo e aumentano gli aborti
Registrati più parti plurimi che possono riservare gravi effetti ai neonati e alle madri

ROMA - Diminuiscono le percentuali di gravidanze, con il conseguente calo di bambini nati. Cresce la percentuale dei trattamenti con esito negativo. Aumentano gli aborti. Crescono i parti plurimi, con effetti spesso gravi per i neonati e le madri. Quadruplicati i viaggi all´estero per le coppie che hanno scelto la fecondazione assistita. È il quadro che emerge dalla relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della legge sulla procreazione medicalmente assistita. Meglio conosciuta come la legge 40 del 2004.
La relazione raccoglie i dati ufficiali del Registro nazionale dell´Istituto Superiore di Sanità. «Complessivamente sono stati censiti 169 centri contro i 120 del 2003 - afferma il ministro della Salute Livia Turco - applicando la percentuale di gravidanze ottenute sui prelievi del 2003 a quelli eseguiti nel 2.005, si registra una perdita ipotetica di 1.041 gravidanze». Un altro dato preoccupante è quello del trasferimento all´estero, «non solo per ottenere trattamenti che utilizzano la donazione di gameti o la diagnosi genetica preimpianto, vietati dalla legge 40 - prosegue la Turco - ma anche per ottenere l´applicazione delle tecniche con la più alta percentuale di successo possibile».
La notizia della pubblicazione della prima relazione sulla legge 40 ha fatto riesplodere le polemiche. Il là è stato dato dal senatore di An Alfredo Mantovano: «Il ministro Turco dà i numeri, la legge 40 ha fatto crescere il numero delle nascite. Faccia un raffronto tra i dati dei 120 centri censiti nel 2003 e gli esiti degli stessi nel 2005. Solo così i termini di confronto saranno omogenei». La risposta del ministero della Salute non si è fatta attendere: «La diminuzione delle gravidanze - si legge nella replica - è confermata anche dal confronto tra il 2003 ed il 2005 nei 96 centri che hanno partecipato ad entrambe le raccolte dati: il numero assoluto di gravidanze ottenute è sceso dalle 4.257 del 2003 alle 3.626 del 2005». Ma il centrodestra insiste e da Alleanza Nazionale a Forza Italia il coro è unanime: la legge 40 non si tocca. E trova due alleate nel centrosinistra: le senatrici teodem dell´Ulivo Emanuela Baio e Paola Binetti. «Il calo delle gravidanze è sottostimato - commenta il professor Carlo Flamigni, componente del Comitato nazionale di Bioetica - mancano infatti le coppie che si rivolgono ai centri all´estero, che di solito rappresentano i casi più difficili». Claudio Giorlandino, presidente della Società italiana di medicina materno-fetale afferma: «Il dato mi stupisce per la sua modestia vista la metodologia restrittiva della legge, ho il sospetto che nei laboratori di embriologia vengano prelevati più dei tre ovociti fissati come tetto massimo». Intanto la commissione incaricata di elaborare le ipotesi di modifica alle linee guida della legge 40 continua a esaminare i quesiti presentati dal ministro Turco. Gli spazi sono angusti, ma tra le ipotesi allo studio c´è quella di considerare le coppie con soggetti portatori di virus hiv come affette da "infertilità funzionale". Quindi la possibilità di scegliere le cellule libere dal virus.

Corriere della Sera 3.7.07
Intervista ad Antonio Damasio, il portoghese che dirige il «Brain and Creativity Institute» dell'Università della California del Sud
«Così il nostro cervello diventa amorale»
Il padre della neuro-etica: nelle scelte le emozioni spingono verso l'utilitarismo
di Massimo Piattelli Palmarini


Antonio Damasio, portoghese di origine, neurobiologo, autore di innumerevoli lavori (spesso co-firmati con la moglie Hanna), e di opere di alta divulgazione, benedette da un grande successo internazionale, dopo anni trascorsi all'Università dello Iowa, è ora «David Dornsife Professor of Neuroscience», creatore e direttore dell'istituto per il cervello e la creatività (Brain and Creativity Institute) all' Università della California del Sud a Los Angeles. Le cronache scientifiche, ma non solo quelle, si sono di nuovo occupate di lui nelle scorse settimane, per via di un dato netto e sorprendente, pubblicato su Nature, che riguarda le basi cerebrali delle scelte morali.
Basato su un dilemma facile da presentare su uno schermo di computer, ideato dallo psicologo di Harvard Marc Hauser, co-autore di questo studio, Damasio e collaboratori mostrano che i pazienti affetti da danno cerebrale all'area ventro-mediana della corteccia prefrontale effettuano senza dilemmi di sorta scelte morali che sarebbero per tutti noi assai lancinanti, in particolare decidono di dirottare un vagone impazzito su un diverso binario, salvando sei persone, ma uccidendo un innocente malcapitato che si trova per caso sul binario sbagliato. Chiedo a Damasio quale significato attribuisce a questo risultato. «L'articolo — risponde — dà sostegno all'idea che le emozioni giocano un ruolo nelle scelte morali. Specificamente, stabilisce che, quando viene compromesso il processo cerebrale che sostiene le emozioni legate a situazioni collettive, i giudizi che noi formuliamo sui dilemmi etici tendono ad essere più utilitaristi, più radicati in calcoli razionali, meno ispirati da considerazioni umanitarie. Per esempio trascuriamo l'inclinazione a non provocare ad altri danni ingiustificati. Questo risultato non suggerisce certo che tali giudizi a freddo siano anormali, ma solo che non collimano con quanto la maggioranza delle persone ordinarie tende ad approvare e a condividere ».
Benchè il termine non sia suo, questo lavoro rientra in un nuovo e ascendente settore chiamato «neuro-etica». Gli chiedo come vede, nel complesso, questo settore. «La neuroetica — dice — è un campo piuttosto strano. Un campo ibrido. Da un lato privilegia la ricerca sul cervello, entro i limiti di ciò che è accettabile in scienza, in medicina e in un normale contesto sociale generale. Dall'altro, intende capire meglio le basi neurali del comportamento morale. Il nostro recente articolo su Nature e altre nostre pubblicazioni scientifiche sono centrate proprio su questo aspetto».
La sua è una lunga e illustre storia di ricerche sul cervello, e in particolare, in anni recenti, sulle basi cerebrali dei processi di presa di decisione.
Cosa lo ha sospinto, in questa carriera? «Sono sempre stato spinto da una curiosità illimitata per la mente umana — racconta —, una curiosità che scaturisce in parti quasi uguali dalla filosofia, la letteratura, il teatro, il cinema e ovviamente la scienza. Ho avuto la fortuna di iniziare la mia carriera scientifica con problemi molto circoscritti, sul linguaggio e la memoria, prima di passare a quelli più vasti e complessi che riguardano le emozioni e le loro basi.
Tra tante scoperte e casi clinici diventati dei classici, quali sono oggi, in retrospettiva, per Damasio, i più importanti? «Mia moglie Hanna ed io siamo particolarmente contenti di aver messo in luce l'importanza delle emozioni nella cognizione sociale. Siamo contenti di essere stati, in questo, persistenti, mentre tutti i nostri colleghi suggerivano di lasciar perdere, sostenendo che le ricerche scientifiche sulle emozioni erano un vicolo cieco e non presentavano alcun interesse scientifico. Il campo era forse moribondo, ma non certo privo di interesse e di utilità. Il lavoro che ha portato al mio libro del 1994, "L'errore di Cartesio", ha identificato delle connessioni chiare tra comportamento morale e comportamento economico. Ha resuscitato la neuroscienza delle emozioni ed è stato una scintilla per settori nuovi, come la neuro- economia e la neuro-etica; termini che non siamo stati noi a coniare».
Quale incontro, quale maestro, quale influenza scientifica ha più segnato la carriera di Damasio? «E' arduo — aggiunge Damasio — render giustizia a tutti gli incontri che rivestono un ruolo importante nella propria carriera. Retrospettivamente, però, credo che non avrei iniziato a fare quello che sto facendo senza l'influsso esercitato su di me dai lavori pionieristici del grande neurologo e neuropsicologo di Harvard, prematuramente scomparso, Norman Geschwind. Quando poi lo incontrai di persona rimasi avvinto dalla sua mente e dalla sua personalità. E' notevole quanto Norman fosse già allora persuaso dell'importanza di imboccare "la via del cervello", molto prima che venissero sviluppate le tecnologie di indagine non invadenti delle quali oggi disponiamo. Allora non solo non erano disponibili, ma non erano state nemmeno inventate».
Cosa c'è dietro l'angolo prossimo delle ricerche? «I nostri prossimi lavori — conclude lo scienziato — sono intimamente legati alle sorti dell'Istituto che ho fondato e che dirigo, l'Istituto del Cervello e della Creatività. Lo scopo è quello di riunire le neuroscienze, le scienze sociali, la filosofia e le scienze umane. Cosa potrebbe essere insieme più semplice e meno ambizioso? Mettendo da parte ogni ironia e ogni falsa modestia, sono convinto che mettere insieme la biologia e l'umanesimo tradizionale offra la sola speranza che abbiamo di definire il nostro posto nell'universo e di offrire a tutti noi un futuro un po' meno desolante».

Il neurobiologo portoghese Antonio Damasio in un disegno di Fabio Sironi Antonio Damasio (Lisbona 1944), è docente all'Università della California del Sud

Corriere della Sera 3.7.07
In «La prima marcia su Roma» Luciano Canfora svela misteri e strategie del futuro imperatore
Augusto: delitti imperfetti
La morte di due consoli gli spiana la via ma le lettere a Cicerone lo incriminano
di Dino Messina


L'uccisione di Cesare (44 a.C.) porta alla guerra civile
Nelle date dei dispacci c'è la conferma ai sospetti di Svetonio Il trionfo
Ottaviano diventa nel 31 a.C. il padrone dell'impero

Dieci anni. Tanto tempo è stato necessario a Luciano Canfora, uno dei nostri maggiori antichisti, per svelare un giallo storico: chi uccise nell'aprile 43 avanti Cristo i due consoli romani Irzio e Pansa, favorendo l'ascesa definitiva di Ottaviano al potere? Lo storico e filologo ci racconta il mistero e la sua soluzione in un saggio di dimensioni contenute, La prima marcia su Roma (pagine 90, € 12), che Laterza manderà in libreria giovedì prossimo. Canfora si è messo sulle tracce dell'assassino, oltre che attraverso i suggerimenti del concreto Tacito e dell'erudito Svetonio, studiando un gruppo di lettere di Cicerone che contenevano l'indizio principe. Ma di mezzo ci sono stati altri impegni editoriali — una vita di Cesare, La democrazia, il mastodontico
Papiro di Dongo, gli studi per sostenere le diatribe sul papiro di Artemidoro, un commento a Tucidide per un'edizione inglese — così la soluzione del giallo ha dovuto attendere.
Siamo in piena guerra civile. Giulio Cesare, ucciso dai congiurati guidati da Marco Bruto alle Idi di marzo del 44, ha indicato nel testamento come suo successore il giovane Gaio Ottavio, che da quel momento prenderà anche il nome del patrigno. Ad appena 19 anni, il futuro primo imperatore di Roma si trova ad arruolare un proprio esercito per contrastare il rivale Antonio, che intanto ha mosso le truppe verso le regioni cisalpine dove darà battaglia a Decimo Bruto, asserragliato nella fortezza di Modena. Nel marzo del 43 i consoli Irzio e Pansa partono con i loro eserciti verso il Nord in soccorso dell'alleato Decimo Bruto, che forse non uccise materialmente Cesare, come l'altro Bruto, Marco, ma certo il 15 di marzo del 44 ebbe la responsabilità di convincere il dittatore ad andare in Senato. Ottaviano non lo perdonerà mai, eppure in queste circostanze mostra una spregiudicatezza e una freddezza degna dei politici e condottieri più cinici e consumati: si allea con i repubblicani.
La scena a questo punto si concentra sul campo di battaglia, Forum Gallorum, oggi Castelfranco Emilia, dove — racconta Canfora — «il 14 aprile, all'alba, il distaccamento inviato da Irzio fu sorpreso dagli antoniani e spezzato in due. Carfuleno morì sul campo, Galba dovette battere in ritirata. Sull'ala sinistra dello schieramento Pansa fu ferito». In modo non grave, come ci racconta nelle sue lettere Cicerone, che di queste vicende viene informato nella maniera più rapida possibile, essendo egli la figura
più rappresentativa del Senato, l'uomo al centro di molte trame nella guerra civile. A parte il ferimento «non grave» di Pansa, le notizie arrivate a Roma sono tutte favorevoli ai consoli, così Cicerone in un lunghissimo intervento in Senato può chiedere che Irzio e Pansa provvedano ad innalzare «un monumento il più grandioso possibile» in ricordo della battaglia. A Ottaviano, che pure era presente sul campo, è riservata soltanto una semplice menzione. Canfora ci spiega che il grande oratore ha ricevuto le sue informazioni da un dispaccio firmato da Irzio, Pansa e Ottaviano e da una dettagliata relazione di Galba. Il racconto si riferisce al 15 aprile, ma in pochi giorni il quadro cambia radicalmente.
«Il 21 aprile — scrive Canfora — mentre Cicerone parlava in Senato si svolgeva una seconda battaglia e questa volta decisiva, sotto le mura di Modena». Teniamo conto che, perché i dispacci arrivassero a destinazione da questa zona della Cisalpina a Roma, occorrevano cinque giorni di cavallo, poco più di quattro se il messaggero ce la metteva davvero tutta.
Che cosa succede quel 21 aprile? Ce lo raccontano Appiano di Alessandria e lo stesso Ottaviano Augusto nella sua autobiografia. A Forum Gallorum erano caduti metà dei combattenti da entrambe le parti: «Perì per intero la coorte di Ottaviano. Solo pochi dei soldati di Irzio». Antonio «non intendeva più attaccare fino a quando Decimo Bruto, logorato dalla fatica, si arrendesse ». Ma Irzio e Ottaviano vogliono affrettare lo scontro e il 21 aprile costringono Antonio alla battaglia. In quella giornata senza esclusioni di colpi, Irzio viene ucciso nei pressi della tenda di Antonio. Ottaviano gli riserva subito esequie solenni. Ma sulla morte del primo console, già Tacito oltre un secolo dopo suggerisce che sia stato lo stesso Ottaviano a farlo liquidare e il più ficcante Svetonio che lo abbia fatto di sua mano. Entro ventiquattr'ore morirà anche Pansa, quantunque ferito leggermente. A questo punto entrano in scena le corrispondenze di Cicerone.
Quando apprende della morte dei due consoli, Cicerone in una lettera a Marco Bruto, contraddicendo il tono adulatorio usato pochi giorni prima, scrive: «Abbiamo perso due consoli, certo due buoni consoli, ma non più che dei buoni consoli ». La data di questa lettera è il 27 aprile. In una lettera di poco successiva, di Decimo Bruto a Cicerone, scritta verso il 10 maggio, si trova l'indizio decisivo. Decimo scrive che il 21 aprile non ha potuto inseguire Antonio perché non aveva né cavalieri né cavalli: «Non sapevo della morte di Irzio, non sapevo di quella di Aquila, non avevo fiducia in Cesare (cioè Ottaviano, ndr) finché non lo incontrai e parlai con lui. Così andò perduto il primo giorno (cioè il 22 aprile). Il successivo (23) mi manda a chiamare Pansa a Bologna. Mentre sono per via mi viene annunziato che egli è morto». Decimo rientra a Metabo. La scena che dobbiamo immaginare, spiega Canfora, «è che un messo di Ottaviano è partito immediatamente per bloccare Decimo e un altro alla volta di Roma per informare Cicerone, e che Cicerone già la sera del 27 è in grado di darne notizia a Marco Bruto». A questo punto un'ipotesi si impone, anche in considerazione dell'arresto del medico personale di Pansa: c'è Ottaviano dietro la morte dei consoli.
Intanto Decimo Bruto viene braccato e ucciso dalle truppe di Antonio e Ottaviano può cominciare la marcia su Roma. Il 9 maggio 43 si fa presentare al popolo da un tribuno della plebe come figlio di Cesare, in luglio oltrepassa il Rubicone, come già aveva fatto il suo padre adottivo, e mette sotto minaccia armata il Senato. Così il 19 agosto ottiene la nomina a console, accanto all'insignificante Quinto Pedio, nonostante abbia vent'anni e la legge romana ne preveda almeno il doppio per ricoprire quella carica.
Augusto, Livia e Ottavia in un quadro di Jean-Auguste-Dominique Ingres. A destra, «La morte di Cesare» di Vincenzo Camuccini La guerra

Corriere della Sera 3.7.07
In un saggio di Sun Shuyun
Lunga Marcia senza censure
di Fabio Cavalera


Alleggerire la storia dalle bugie della propaganda è difficile e pericoloso sotto regimi autoritari, specie quando vi sono di mezzo eventi eroici che sono alle fondamenta di uno Stato che nasce. La Lunga Marcia per la Cina comunista è una pietra miliare: come il nostro Risorgimento o la Resistenza, le rivoluzioni inglese, americana e francese, qualcosa che rovescia il corso della vita di un popolo e che addirittura va a condizionare molti altri popoli nel mondo, con nuovi sogni e nuove avventure. Quell'esodo lungo 12 mila chilometri, dal Sud verso l'Ovest poi al Nord della Cina, che fra il 1934 e il 1936 coinvolse le armate dell'Esercito di liberazione e che, pur decimandolo — dei 200 mila uomini e donne ne rimasero 40 mila — lo sottrasse alle campagne di sterminio del generale Chiang Kai-shek e pose le premesse per l'assalto al potere, quell'esodo ricco di sofferenza e di abnegazione è per la storiografia maoista il germe della Cina moderna. Ancora oggi il messaggio insegnato alle giovani leve è questo: se incontrate difficoltà, pensate alla Lunga Marcia.
Senza quell'impresa la Cina comunista non esisterebbe. Solo che — come ogni passaggio della storia — la fuga- salvezza dalla base rossa, il soviet del Jianxi, fino all'estremo opposto nella provinc ia dello Shanxi, non ha e non può avere una lettura unica, un modello assoluto che nasconde per fini di apostolato le tragedie che avvennero allora, i tradimenti, le defezioni e persino le stragi di comunisti contro comunisti, gli stupri dei rivoluzionari comunisti ai danni delle rivoluzionarie comuniste del reggimento femminile indipendente. Vi fu, al di là del coraggio dei protagonisti, una feroce dinamica interna alla Lunga Marcia, sotterrata sotto una montagna di menzogne. Sun Shuyun, ricercatrice laureata all'Università di Pechino,
producer della Bbc, è andata a scavare nei segreti di questo «mito fondatore», ha ripercorso ogni tappa dei 12 mila chilometri, ha scartabellato negli archivi locali e ha rintracciato 500 sopravvissuti, vecchi eroi contadini e contadine, privati o derubati delle pensioni di veterani, costretti al silenzio, eppure, lealmente e incredibilmente comunisti perché «il partito è la nostra famiglia ». Li ha convinti a parlare, tracciando un racconto lucido, documentato e controcorrente. Ne è uscito un libro che in Inghilterra è stato accolto con grande successo e che ora arriva in Italia: La Lunga Marcia (Mondadori, pagine 304, e 19). Un libro che non è contro la Cina ma per una Cina del terzo millennio che non abbia paura delle revisioni critiche del suo passato.
La Lunga Marcia è e resta un capitolo basilare del maoismo, nel quale si fondono idealismo, fede e capacità di sacrificio di migliaia di uomini e di donne, ma in essa non vi sono solo pagine di esaltanti imprese da incorniciare nella iconografia classica. Vi sono — descritti dai testimoni — debolezze e ammutinamenti, furti e rapine, omicidi e malvagità che provocarono migliaia di morti e sconvolsero le file del movimento. Come le purghe volute da Mao nei mesi precedenti la partenza dal Jianxi, una «selezione » politica dell'Armata rossa, alla ricerca dei fantasmi della cricca antibolscevica, che si risolse in 20 mila morti.
I 200 mila partecipanti sarebbero stati molti di più. E lo sarebbero stati — molti di più — anche i superstiti finali (dopo la biblica traversata), se nei due anni fra il 1934 e il 1936 le rivalità fra le correnti di pensiero del comunismo, pur con le truppe dei nazionalisti che inseguivano, non si fossero risolte in fucilazioni e torture da parte di aguzzini «invasati e drogati». Le rivela Chen, 83 anni, ex infermiere della I Armata rossa. I sospetti venivano eliminati anche con l'assegnazione «a reparti suicidi e mandati a combattere le battaglie più rischiose con tre proiettili a testa». Emerge così l'immagine sconosciuta della Lunga Marcia, depurata dalle distorsioni di una storiografia in grado di trasformare piccole e insignificanti scaramucce in epiche conquiste. Sul fiume Dadu, nel Sichuan, c'è il ponte in legno di Luding. Qui, secondo le antologie, si svolse lo scontro più eroico della Lunga Marcia. Ma non fu così. Zhu «il fabbro» era lì e dice che non vi fu alcuna resistenza da parte dei nazionalisti di Ciang Kai-shek, i quali erano in pochi e male equipaggiati: «Pioveva, i loro fucili erano vecchi e non sparavano più in là di qualche metro. Non potevano tenere testa all'Armata rossa... furono presi dal panico e scapparono». Parole che ricevono conferma da un generale, Li Jukui: «Non fu un'azione come la si è fatta diventare più tardi. Quando si indagano i fatti, occorre rispettare la verità».
I grandi della storia hanno il coraggio della verità. Deng Xiaoping, in un editoriale su Stella Rossa,
rivista comunista, l'11 novembre 1934 dimostrava già la sua tempra. Scriveva: «In questi ultimi giorni la nostra disciplina è stata scarsa... il popolo non ascolta i nostri bei discorsi, guarda come ci comportiamo. Un esercito senza disciplina non ne conquisterà la simpatia e l'appoggio».
Un editoriale che Sun Shuyun ha ripescato dal diario di Tong Xiaopeng, partecipe nel quartiere generale del primo corpo dell'Armata Rossa. Un editoriale che la storia ufficiale ha sempre nascosto. Ma per fortuna non cancellato. Ed è oggi un particolare importante che svela l'altra faccia, quella che non piace alla propaganda, della Lunga Marcia.
Gli orrori dell'epopea maoista raccontati dai reduci

l'Unità 3.7.07
Sxnet.it, la sinistra comincia ad unirsi. Per il momento solo nella realtà virtuale
Un sito lanciato con molta pubblicità e grandi manifesti. Grande spinta da Rifondazione comunista, ma ci sono dietro anche gli altri della «Cosa rossa»
di Wanda Marra


«Sinistra (sx)»: da qualche giorno dei grandi manifesti rossi 6x3 campeggiano per le strade di alcune grandi città. Sotto c’è un richiamo internet: www.sxnet.it. E chi digita questo indirizzo internet si ritrova su una home page dove si alternano le traduzioni della parola sinistra in varie lingue: «Left», «Gauche», «Izquierda», «Linke». “Declinazioni” della parola sinistra che da ieri campeggiano anche sui manifesti 70x100 e 100x140 distribuiti da Rifondazione su tutto il territorio. Sì, perché, il sito al quale rimandano in realtà risponde a un progetto ben preciso: essere l’agorà, la piazza virtuale a disposizione di chi si sente di sinistra. E anche di chi alla costruzione in corso della sinistra-sinistra vuole contribuire. D’altra parte, nel messaggio di «Benvenuti» l’invito è chiaro: «Un sito è più facile navigarci dentro che spiegarlo. Per noi è nata così: immaginare uno spazio aperto ad una comunità di sinistra. Sentimentalmente di sinistra. Ovvero non un sito della politica di sinistra, ma un sito per le persone di sinistra». Promosso dalla Sinistra europea e con i fondi di questa, curato dall’agenzia di Marketing, Sister (la stessa che ha fatto la campagna elettorale di Rifondazione) in realtà il progetto vede coinvolta, oltre che Rc, anche gli altri soggetti che stanno lavorando alla costruzione della cosiddetta «Cosa rossa». E infatti il sito, che da ieri è nella sua versione ufficiale, raccoglie interventi anche di esponenti di Pdci, Verdi, della Fiom. E si rivolge anche a Sd. Sull’«unità a sinistra» scrive la responsabile Cultura del Pdci, Patrizia Pellegrini, nella sezione «Con sorpresa». Dichiara che «la lotta ai cambiamenti climatici deve essere un tema centrale, anche e soprattutto per chi si riconosce in un’ idea della politica a sinistra», Angelo Bonelli nella sezione «Per paura». «Palestina: l’ultimo frutto della guerra permanente di Bush in Medio Oriente» si intitola l’intervento di Roberto Giudici dell’Ufficio internazionale della Fiom di Milano, nella sezione «Con rabbia». «Abbiamo bisogno ancora una volta d’immaginare partendo da lì, in alto a sinistra», dichiara nel suo intervento Michele Palma, della Segreteria nazionale di Rc nella sezione «Per amore».
Questo il lancio. Ma in realtà, volendo essere una piazza virtuale, il sito più che a interventi “dall’alto” è aperto a quelli dal basso. Tra le altre idee, quello di dar vita a un alfabeto di sinistra. Per adesso, la A è legata ad Amore. Ma l’intenzione è quella di costruire un alfabeto che funzioni come una sorta di Wikipedia, l’enciclopedia online in cui chiunque può inserire una voce nuova o aggiungere definizioni a voci già esistenti. La risposta ad ora è stata lusinghiera: la versione ufficiale è online da ieri, ma da lunedì scorso si poteva accedere ad una pilota. Ed a scrivere sono stati circa in 2000. L’obiettivo è arrivare a gennaio e, dopo un momento di verifica dell’iniziativa, offrire il sito a tutti i soggetti della sinistra-sinistra: perché questo diventi uno strumento non “per” la sinistra, ma “della” sinistra.

l'Unità 3.7.07
Bebè nato da ovulo maturato in vitro: è la prima volta


Fiocco blu per il primo bambino concepito da un ovulo maturato in laboratorio, congelato e poi scongelato e quindi fecondato. La tecnica è stata messa a punto dai ricercatori canadesi del McGill Reproductive Center di Montreal e annunciata a Lione durante il convegno della Società europea di riproduzione umana ed embriologia. Con la stessa tecnica, altre tre donne sono rimaste incinte e stanno portando avanti la gravidanza.
Il tumore alle ovaie
Il sistema sperimentato segna un importante traguardo perchè potrebbe permettere alle donne con un tumore alle ovaie di prelevare gli ovuli sani prima di sottoporsi alla chemioterapia, e programmare la gravidanza una volta superata la malattia. Inoltre, si fa avanti la possibilità di dare alla luce un figlio senza subire i massicci cicli ormonali per la fecondazione artificiale, che aumentano il rischio di tumori alle ovaie e possono procurare in alcuni casi (dal 3 all’8%) una condizione molto grave, chiamata sindrome da iperstimolazione ovarica. La donna che ha concepito il bambino soffriva della sindrome da ovaio policistico, una condizione per cui le ovaie sono coperte di cisti che inficiano la capacità riproduttiva.
«Ora è possibile»
Gli scienziati hanno riferito che su 20 donne che hanno donato i propri ovuli senza precedente stimolazione, quattro sono rimaste incinte con la tecnica e una di loro ha già dato alla luce un bambino. «Finora non sapevamo se gli ovuli prelevati senza stimolazione ovarica, maturati in vitro e poi congelati, sarebbero sopravvissuti allo scongelamento, e sarebbero potuti essere fecondati e quindi impiantati in utero» ha detto Hannal Holzer, coordinatore del gruppo di ricerca alla Mc Gill University di Montreal. «Abbiamo dimostrato per la prima volta che questo è possibile». Anche se i risultati sono stati molto incoraggianti, comunque, i tassi di gravidanza sono ancora bassi per cui potrebbe essere necessario prelevare un numero elevato di ovuli. La procedura canadese, comunque, non è stata ancora sperimentata su donne con tumore, ma su donne con ovaio policistico. I ricercatori hanno selezionato 20 pazienti, con età media di circa 30 anni, infertili e hanno prelevato loro un totale di 296 ovociti di cui 290 immaturi (fisiologicamente, infatti, uno degli ovociti immaturi va incontro ogni mese a un processo di maturazione).

l'Unità 3.7.07
La Ue ha deciso di celebrare il cinema europeo in tre corti. Uno è dedicato all’amore senza allusioni. Ma in Polonia...
Questo è sesso! La Polonia chiede le mutande per uno spot europeo
di Alberto Crespi


Per una volta che l’Unione Europea fa una cosa divertente, si arrabbiano tutti. Attenzione, però: i più furibondi sono i polacchi, in particolare il signor Maciej Giertych che è leader della «Associazione delle famiglie polacche», un corrispettivo slavo del Moige. E qualcosa, delle famiglie di Varsavia e dei loro figli gemelli, sappiamo anche qui...
Fuor di metafora: l’Ue ha commissionato 3 spot per promuovere il cinema europeo e li ha messi in rete sul famoso sito You Tube. Fanno parte di un «pacchetto» di 44 spot attraverso i quali la Ue pubblicizza le proprie attività. Sono stati approvati dalla signora Margot Wallstrom, commissaria europea responsabile della comunicazione. Uno dei 3 spot sul cinema ha provocato un’ondata di reazioni indignate. E perché? Perché è «sexy»... Inutile dire che, grazie agli strali dei benpensanti, è diventato subito «cliccatissimo». Anche da noi... che l’abbiamo visto solo per poterlo raccontare a voi, che credete?
Dunque: lo spot si intitola Let’s Come Together (seguirà traduzione) e dura 44 secondi (è il numero ricorrente di questa storia, i mitici gatti in fila per 6 col resto di 2 c’entreranno qualcosa?). In questi 44 secondi si vede un rapidissimo montaggio di scene di sesso, tutte tratte da film europei più o meno recenti (stessa tecnica anche negli altri 2 spot, intitolati It started with a proposal e You’re not alone: ma questi sono sentimentali e poetici, quindi tutto bene). La prima immagine è lo sbottonamento di un paio di jeans; l’ultima è il primo piano di una signora visibilmente soddisfatta per ciò che ha appena fatto. In mezzo, amplessi di ogni tipo, etero e gay, montati velocemente, senza dettagli hard, con contrappunto di immagini «simboliche» (un bicchiere che trema, un toast che si cuoce, un’auto che si schianta contro un muro). Alla fine compare il titolo Let’s Come Together, che cita contemporaneamente Beatles (Come Together) e Rolling Stones (Let’s Spend the Night Together) e significa, ormai possiamo dirvelo, «veniamo insieme», che ci sembra per inciso un bellissimo auspicio. Sul titolo, una voce: «Milioni di amanti del cinema si godono i film europei».
Dov’è lo scandalo? Dove sono i «metodi immorali» che, sempre secondo le famiglie polacche, la Ue utilizzerebbe biecamente per i propri scopi? Sarà bene ricordare, a tutti i polacchi del mondo, alcune cosette.
1) Cinema e sesso sono da sempre legati. Il cinema racconta il sesso e a volte lo stimola, lo incoraggia. È uno dei motivi per cui il cinema, dal 1895 in poi, ha avuto un discreto successo.
2) Il cinema europeo è spesso una palla mortale. Affermare che nello spot non compare «la grande tradizione del cinema europeo», come ha fatto qualcuno, è un complimento. Come sarebbe dovuto essere, lo spot? Una carrellata di crinoline, monumenti e ritratti di Garibaldi?
3) Alternare immagini erotiche con immagini simboliche che alludono al sesso è ciò che fece negli anni ‘20 il teorico del cinema sovietico Lev Kulesov, nel suo famoso «esperimento», in cui il primo piano di un attore (sempre lo stesso) veniva alternato a immagini diverse (un piatto di cibo, un bimbo che piange, una donna nuda). Agli spettatori sembrava che il primo piano fosse, ogni volta, diverso, ed esprimesse ora fame, ora pietà, ora desiderio. L’«esperimento Kulesov» è cinema allo stato puro e la Ue l’ha in qualche modo rifatto. Complimenti. Ma dovevano immaginare che, citando un maestro del cinema sovietico, i polacchi ci sarebbero rimasti male.

La Stampa 3.7.07
"Da Piero idee oniriche Io non entrerò nel Pd"
"Sono io che pretendo delle scusa, c'era una volta il più grande partito della sinistra,
e oggi non c'è più

intervista a Fabio Mussi di Riccardo Barenghi


Nell'intervista pubblicata ieri sulla Stampa Piero Fassino ha accusato Mussi e la sua Sinistra democratica di usare due pesi e due misure: «Non capisco perché quando a Firenze io lavoravo per il Partito democratico, stavo liquidando la sinistra. Mentre oggi va bene Veltroni che sostiene la stessa prospettiva da molti anni. (...) Tornino pure tutti quelli che vogliono tornare ma ammettano di essersi sbagliati sudi me».
Allora Ministro Mussi, torna nel Pd adesso che c'è Veltroni?
«Queste di Fassino mi sembrano opinioni oniriche. Sono assai preoccupato perché vedo con qualche dispiacere che il mio amico Piero non solo non domina gli eventi, ma non capisce esattamente neanche quello che succede».
Quindi non è vero che lei e suoi compagni state pensando di rientrare nel Partito democratico?
«Ma neanche per sogno. Non capisco come a Fassino possa venire in mente una prospettiva del genere: mai come ora sono stato convinto delle mie scelte. Naturalmente ho apprezzato la candidatura di Walter, visto che fino a quel momento il progetto del Pd era una nave che correva verso gli scogli.
Lui forse può evitare il naufragio, che certo io non mi auguro: se fallisse il Pd, perderebbe tutto il centrosinistra. Tanto è vero che all'ultimo Congresso dei Ds ho augurato ai miei ex compagni buona fortuna. Ma questo non cambia la mia opinione su quell'avventura politica: il Partito democratico non è e non sarà il mio Partito. Non aderirò mal e non lo voterò».
Eppure Veltroni le ha rivolto un appello diretto...
«Lo ringrazio ma mi sembra sempre più chiaro, anche grazie a lui, che il profilo che assume il Pd non ha nulla a che fare con la sinistra, non è l'ennesima metamorfosi della sinistra. Non sarà un Partito di sinistra ma un qualcosa che va verso il centro, tanto che persino Walter ventila, sbagliando, alleanze variabili in futuro. E qui vorrei dire a Faasino che semmai sono io che pretendo le sue scuse, visto che c'era una volta il più grande Partito della sinistra italiana e oggi non c'è più».
Ma del discorso di Torino cosa pensa?
«Come si dice, luci e ombre. Mi è piaciuta l'agenda di priorità, dal precariato alla formazione, alla ricerca. Non mi è piaciuta invece la parte sulla democrazia che deve decidere. Non credo che la crisi della politica possa essere affrontata con un assetto iperpresidenzialista. A me interessa sapere soprattutto su cosa deve decidere la democrazia, e Il cosa per me è l'estrema diseguaglianza che esiste nel nostro Paese».
Dal 14 ottobre in poi avrete un premier in carica (Prodi) e un premier in corsa (Veltroni): saranno guai per il governo?
«Io sostengo da tempo che il Partito democratico è un fattore destabilizzante per il quadro politico, e infatti ne abbiamo avute parecchie conferme. Ricordo che D'Alema lo chiamò il Partito di Prodi, invece sarà il Partito di Veltroni. E' evidente che in autunno si aprirà un problema da trattare con molto garbo, bisognerà sforzarsi tutti per mantenere un equilibrio che si preannuncia piuttosto delicato. Ma bisogna fare di tutto per evitare che il governo cada, altrimenti gli eventi precipitano».
Nel frattempo la vostra Cosa rossa, che potrebbe colmare quel vuoto che il Pd apre a sinistra, sembra marciare piuttosto a rilento.
«E' evidente che si tratta di un processo difficile. Non sarebbe giusto limitarsi a sommare le quattro forze in campo, cioè Rifondazione, Pdcl, Verdi e noi della Sinistra democratica, senza ingaggiare una battaglia politica, provocare spostamenti di forze, confrontarsi sui contenuti. Tuttavia la Cosa va e io non penso a tempi biblici, anche perché sono convinto che il bipolarismo potrò sopravvivere solo se dalla nostra parte del campo avremo un Partito democratico dal profilo riformatore ma alleato con una forza di sinistra».
Una forza che si presenterà insieme alle elezioni? E quando?
«Alle amministrative dell'anno prossimo. Altrimenti il progetto fallirebbe».