venerdì 6 luglio 2007

un fotogramma da Le tentazioni del Dott.Antonio, di Federico Fellini (1962):






Repubblica 6.7.07
Il presidente della Camera avverte: "Sono in gioco le ragioni del nostro essere di sinistra"
"Non vogliamo la crisi, ma il rischio c'è"
Sradicamento. Il manifesto di Montezemolo vuole sradicare la sinistra dal Nord del Paese
Soggetto unitario. Accelerare la costituente della sinistra di alternativa
di Massimo Giannini


Il presidente della Camera avverte gli alleati: il programma di governo deve essere rispettato
"Sulle pensioni non voglio la crisi ma ammetto che il rischio esiste"
Bertinotti: socialmente intollerabile alzare l´età per gli operai
Il caso francese Anche Sarkozy pur con una soluzione sbagliata affronta il tema del lavoro

«Non possumus...». C´è un´indignazione vera, ma anche una sofferenza acuta, nelle parole di Bertinotti. Discutiamo da un´ora, nel suo studio a Montecitorio. Sulla riforma delle pensioni, oggi come nel 1998, il governo di centrosinistra rischia di cadere. E dopo un lungo colloquio con il presidente della Camera, si capisce che il pericolo è reale. Rifondazione comunista (di cui Fausto il Rosso resta il faro, nonostante il riserbo istituzionale che s´è imposto) non può accettare né lo «scalone» di Maroni, né lo «scalino» di Damiano. Non può accettare nessun innalzamento «in corsa» dell´età pensionabile per la categoria degli «ultimi nella moderna gerarchia sociale»: gli operai. Quelli che «hanno lavorato duro per una vita». Quelli ai quali, oggi, non puoi dire «lavora un altro anno». Su questo punto non c´è vincolo di coalizione che tenga. Ogni violazione del patto che lo Stato ha sottoscritto con queste persone «sarebbe socialmente intollerabile». Bertinotti usa la formula di Pio IX ai tempi della Questione Romana: «Non possumus».
Non è un monito a Prodi. Non è una minaccia al governo. Il presidente della Camera non vuole condizionare la trattativa, mettere veti alla maggioranza, imporre la linea al suo partito. Fa un ragionamento politico-culturale. Parte da lontano, e ripete quello che ha scritto nell´editoriale della rivista «Alternative del socialismo», in uscita nei prossimi giorni: «La sinistra si trova oggi di fronte a una sfida drammatica, forse la più difficile della sua storia: quella dell´esistenza politica. Quello che si affaccia è l´orizzonte di un vero e proprio declino». Di fronte alla ventata di «organicismo liberista» che attacca in radice la politica, «l´eredità del movimento operaio del ‘900 rischia di essere cancellata». «Io - aggiunge - resto ancorato al cleavage destra-sinistra, e resto affezionato all´idea di sinistra che ci ha insegnato Norberto Bobbio, con il suo discorso sull´uguaglianza».
«Vede - ragiona il leader - io capisco che la politica è sempre più lontana dalla gente. Ma non posso accettare che lo "straniamento" si spinga fino a questo punto. Non posso accettare che i politici non sappiano più cos´è la vita delle persone in carne ed ossa». Una volta, soprattutto a sinistra, le cose non andavano così. «Ricordo Giorgio Amendola, che veniva alla Quinta Lega di Mirafiori, guardava in faccia quelle persone, ci parlava. Poi il partito decideva a modo suo, ma c´era ascolto, c´era dialogo. Oggi no. Oggi il problema delle pensioni viene declinato in due soli modi. Si dice che l´età pensionabile va innalzata perché le aspettative di vita si sono allungate, e perché il sistema non è in equilibrio dal punto di vista finanziario». Sono risposte «agghiaccianti». «Dove sono le donne e gli uomini, dietro queste risposte?». C´è quasi rabbia, nelle parole del presidente della Camera: «Ci sono 130 mila persone che l´anno prossimo hanno maturato il diritto ad andare in pensione. Molte hanno lavorato 35 anni in fabbrica, 48 ore a settimana. Con salari minimi, con turni massacranti. Per loro andare in pensione è come raggiungere un´oasi. E se tu gli sposti l´oasi, anche solo di un metro, commetti un delitto sociale. Un delitto che noi non possiamo e non vogliamo commettere...».
Questo, dunque, è il paletto invalicabile della trattativa. Qualunque intervento sull´età pensionabile deve «salvare» i diritti acquisiti degli operai. «Sono pochi? Può darsi. Ma io voglio guardare negli occhi ed ascoltare le lavoratrici tessili del biellese, o i lavoratori metalmeccanici che non hanno avuto la fortuna di trovarsi un Marchionne come capo-azienda. Sono persone che hanno maturato un diritto sacrosanto, e noi abbiamo il dovere di garantirglielo. E sa perché? Non per ragioni "di classe", come qualcuno potrebbe pensare. Ma proprio per l´idea di sinistra che ci ha insegnato Bobbio, quella che ruota intorno all´uguaglianza. Nella nostra società questi sono gli "ultimi". Questi sono i "deboli". E io, che rifiuto l´idea di vederli contrapposti ai giovani in un presunto e per me insostenibile "conflitto generazionale", voglio difenderli. È esattamente questa la ragione per cui noi facciamo politica, e la ragione che nel secolo scorso ha consentito alla stessa politica di raggiungere il suo punto più alto, ponendosi l´obiettivo della trasformazione radicale della società».
Questa visione, che i suoi critici definiranno vetero-operaista, non lo spaventa: «Certo, diranno che sono classista, diranno che sono conservatore. Ma in realtà garantire i diritti acquisiti a quelle persone è una risposta doverosa persino nell´ottica del "capitalismo compassionevole"...». Quello che Fausto il Rosso non accetta è che il problema di quelle «persone in carne ed ossa» venga rimosso, come se non esistesse. «L´ho detto a Padoa-Schioppa, quando è stato qui da me: io capisco che il tuo vincolo è l´equilibrio finanziario. Ma tu cosa rispondi al mio vincolo, che invece è la tutela che dobbiamo a quei lavoratori?». Allo stesso modo, non sopporta che il problema venga aggirato, con quella che chiama «la formula ambigua dei lavori usuranti». «Che vuol dire lavori usuranti? C´è chi dice che è usurante fare la maestra d´asilo. E come dovremmo definire allora il lavoro di chi fa il turnista in un´azienda meccanica, o di chi passa la giornata davanti a una pressa? Sono pronto a sostenere il confronto in un´assemblea sindacale, di fronte ai lavoratori del pubblico impiego. Sono pronto a spiegare perché è legittimo chiedere a loro di andare in pensione più tardi. Durante la vita lavorativa, hanno beneficiato di condizioni che un operaio non raggiungerà mai: contratti, orari, disciplina normativa, livelli retributivi, garanzie occupazionali. Non è giusto difendere la disuguaglianza di condizioni mentre si lavora, e poi pretendere l´uguaglianza solo quando si va in pensione».
Come si può trovare l´intesa, al tavolo con le parti sociali, il presidente della Camera non può e non vuole dirlo. «Non sta a me indicare soluzioni. Le trovino loro...». Purchè le trovino. Ignorare il tema non si può: «Capisco un approccio alla Sarkozy, che brutalmente dice ai lavoratori "vi do più soldi, vi detasso gli straordinari, purchè lavoriate di più". Per me è una soluzione impraticabile. Ma è il segnale che si riconosce l´esistenza di un problema, anche se gli si dà una soluzione sbagliata». Qui, secondo Bertinotti, si rischia di dare una soluzione sbagliata proprio perché non si vuole vedere il problema. E la ragione, secondo le parole usate nell´editoriale per la sua rivista, sta anche e soprattutto «nell´insidia neo-borghese», cioè in quella tendenza di una certa classe dirigente, nel mezzo della transizione incompiuta, a voler «precludere alle sinistre critiche ogni possibilità di essere attive nei processi politici». Il «manifesto» di Montezemolo all´assemblea di Confindustria è «la punta dell´iceberg». E´ il paradigma di una strategia che mira innanzitutto a «sradicare la sinistra dal Nord del Paese», dove c´è «la frontiera dell´innovazione capitalistica europea», e dove «se sei a rischio come sinistra di alternativa, sei a rischio per il futuro». E in subordine, mira a «cancellare le categorie di sinistra e di destra», in nome di una presunta «neutralità» delle politiche e di una palese «inutilità» della politica. E punta a creare uno spazio in cui, alla fine, «tutto diventerebbe centro». Nelle sue diverse versioni e nelle sue possibili conformazioni.
Lui non lo dice espressamente. Ma c´è una sponda politica, per questo disegno tecnocratico. E non è solo quella di Casini. È anche quella di Dini. Stretta in questa tenaglia, secondo l´analisi di Bertinotti, la sinistra radicale ha due doveri. Il primo è accelerare al massimo «sulla costituente del soggetto unitario e plurale della sinistra di alternativa», che deve ambire alla «ricerca sul socialismo del XXI secolo». Il secondo è riaffermare con orgoglio il suo «non possumus» sulla previdenza. La domanda cruciale è: fino a che punto? Si può arrivare a una crisi del governo Prodi sulle pensioni, come accadde nel ´98? Il presidente della Camera pesa le parole: «Non si può escludere nulla. Certo oggi le condizioni sono diverse dal ´98. Allora facemmo una scelta politica dolorosa ma necessaria. Prodi scelse una strada che noi non potevamo imboccare, e decidemmo di riprenderci la nostra autonomia. Ma allora c´era solo un patto di desistenza. Oggi c´è invece un´alleanza organica, e c´è un programma comune che, piaccia o no, tutti gli alleati hanno sottoscritto. Oggi tutti, da Rifondazione al Pdci ai Verdi, capiscono che questo governo e questa maggioranza rappresentano l´equilibrio più avanzato possibile, per le forze della sinistra di alternativa. Dunque nessuno vuole la crisi. Ma questo non vuol dire che il rischio non c´è...».
Il quadro politico è così «sfarinato», si sarebbe detto ai tempi di Rino Formica, che Fausto il Rosso vede un pericolo diffuso, e annidato ovunque: «Le pensioni arriveranno al voto qui alla Camera in autunno. Ma prima avremo l´ordinamento giudiziario, con le tensioni tra Mastella e Di Pietro. Poi c´è un altro focolaio, tra conflitto d´interessi e riforma delle tv. Per non parlare della legge elettorale, che resta sullo sfondo, irrisolta...». Insomma, Bertinotti non lo dice, ma applica al governo la metafora del «vestito liso»: si sta logorando, e dunque si può strappare. In ogni momento, e in qualunque sua parte. Per evitarlo c´è un solo modo: una guida politica forte. Molto più forte, molto più incisiva. Che guidi i processi, e non si faccia travolgere. Ma questo è un problema che non si può porre al presidente della Camera, perché riguarda solo il presidente del Consiglio.

Repubblica 6.7.07
L'ipotesi al conclave in Ciociaria. Giordano parla di democrazia del pubblico e ricompatta la maggioranza del partito
"Primarie sull'uscita dal governo" Comunisti o no?
Rifondazione pensa di consultare la base. E non si scioglierà
di Goffredo De Marchis


ROMA - Democrazia del pubblico, partecipazione attiva. Franco Giordano propone il modello del rapporto diretto con gli elettori per le decisioni che attendono Rifondazione comunista. La svolta della Cosa rossa. La domanda fondamentale di Prc: come stare al governo e nella maggioranza. Il responsabile dell´organizzazione Francesco Ferrara lancia la sua proposta: consultazione degli iscritti e degli elettori sulla presenza del partito al governo. Vale a dire primarie sul sì o no all´uscita. Da tenere insieme con gli altri partiti della sinistra radicale (Sd, Pdci e Verdi) a un anno e mezzo dalle elezioni del 2006. Cioè alla fine del 2007, tra pochi mesi.
Così vuole procedere Rifondazione. Guardando in faccia il suo popolo, stringendo il legame con i protagonisti del conflitto sociale, con i no global e con i comitati e le associazioni della sinistra, ossia con i movimenti. E´ la linea indicata dal segretario Giordano al conclave di Segni, in Ciociaria, dove si sono riuniti i dirigenti della maggioranza. A porte chiuse. Oggi la discussione continua, ma già ieri Giordano ha incassato il sostegno dei vertici in vista del comitato politico di metà mese e del prossimo congresso fissato nel 2008. Il capogruppo alla Camera Gennaro Migliore, dopo aver ascoltato l´intervento del leader, ha proposto di assumere la relazione come base del dibattito interno annunciando fin d´ora la conferma di Giordano alle assise del prossimo anno. Con Giovanni Russo Spena, il presidente dei senatori, l´asse intorno a Giordano viene confermato.
E´ il segnale che il segretario aspettava, quello che serve a presentare la maggioranza bertinottiana unita e a interrompere il gioco delle correnti dentro Prc. Giordano non vuole sciogliere Prc, ma invita il partito a proseguire sulla strada della Cosa rossa. Tanto più che nemmeno gli altri soggetti hanno intenzione di ammainare le bandiere. Non lo vuole Fabio Mussi per Sinistra democratica, non è intenzione di Oliviero Diliberto, per non parlare di Alfonso Pecoraro Scanio che il simbolo del Sole che ride lo difende con i denti. Da solo, si dice nei Verdi, vale uno zoccolo duro sufficiente a resistere nel panorama politico italiano. «In cosa l´esistenza di Rifondazione impedisce la costruzione di una sinistra unita?», è la domanda retorica di Giordano. In più Prc non vuole abbandonare l´esperienza di Sinistra europea. La linea piace anche a Fausto Bertinotti, che da una parte in questi giorni ha sollecitato il partito a non fare passi indietro sulla Cosa rossa e dall´altra lo ha pungolato a non perdere di vista il conflitto sociale.
Si è discusso anche di pensioni. Ed è alla trattativa sulla previdenza che Ferrara ha legato il suo discorso. In caso di un accordo adesso, gli elettori comunisti vanno assolutamente ascoltati. Sempre che non si vada verso un rinvio, che non dispiacerebbe a Rifondazione, ma sarebbe un guaio per Prodi. C´era anche il dissenso, a Segni. Il sottosegretario Alfonso Gianni chiede che Prc sia ancora più decisa sulla strada dell´unità a sinistra. «Non parlo di scioglimento, ma dobbiamo capire se la fase di Rifondazione comunista è finita e non è il momento invece di rifondare la sinistra». Contro la Cosa rossa va il documento delle donne. Ricalcando le posizioni di Ramon Mantovani. In quel testo vengono espressi tutti i dubbi sull´alleanza con gli altri partiti della sinistra alternativa. Ma Giordano, per tenere tutti dentro il suo processo, parla di tappe intermedie. E le garanzie sul non scioglimento vanno in questa direzione.

Repubblica 6.7.07
Il secolo dell'amore
La Fondazione Valla ripropone i classici medievali
di Nadia Fusini


Ci sono trattati rivolti ai monaci
il linguaggio si infiora di accese metafore
Tutti ricordano le figure di Tristano e Isotta o i versi di Maria di Francia
Fu un´epoca di grande rinnovamento spirituale e culturale con esperienze molto diverse

Forse bisognerebbe sempre mettere nel suo proprio contesto una lettura. O addirittura, forse il libro dovrebbe scegliere i suoi lettori tra coloro che su un certo tema sono i più avvertiti. D´altra parte, se fossero il contesto storico o concettuale o dottrinario a dirigere il traffico, rimarrebbero assai spopolati i sentieri che portano a certi libri; anzi, certi sentieri di lettura si richiuderebbero come quelli del bosco, che se non mantenuti dal passaggio di camminatori e cacciatori, semplicemente scompaiono.
In una memorabile impresa di ormai vent´anni fa, Robert Alter e Frank Kermode - l´uno biblista, l´altro critico letterario, fornirono una literary guide to the Bible, una «guida letteraria» al libro dei libri, alla Bibbia. L´idea era che a un libro si può arrivare, come a una radura, ognuno per il proprio sentiero interrotto, e nella radura ognuno può sostare a piacimento apprezzandone in modo personale le qualità - profumi, sapori, atmosfere.
Nel caso specifico, era sotto gli occhi di tutti che da secoli la Bibbia non raccoglieva i suoi lettori alla medesima condivisa meditazione. Altrettanto evidente che nelle sue forme moderne, quella stessa tradizione negava alla Bibbia l´importanza che essa aveva avuto nel passato. E tuttavia, nella nostra cultura, che nelle sue espressioni più alte ripudia ogni forma di fondamentalismo e considera anacronistica ogni interpretazione autorizzata e ritiene pericolosa e antiquata ogni accettazione acritica dell´autorità, c´è forse chi mai vorrà smettere di leggere la Bibbia? Ripudiare l´eredità biblica? Claro que no.
La verità è che - i più innocenti di noi senza saperlo, i più colti in piena consapevolezza - con la lingua e con l´immaginazione biblica convivono da secoli. Nei paesi anglosassoni più che in quelli mediterranei. Ma anche da noi è inimmaginabile espungere dalla nostra tradizione letteraria e di pensiero i grandi testi dell´Antico e Nuovo Testamento.
Tanto per fare un esempio: come faremmo a comprendere il discorso amoroso se non avessimo letto il Cantico dei Cantici?
Con relativi commenti? E le lettere di Paolo? O, se per questo, i Trattati d´amore cristiani del XII secolo, appena editi per la Fondazione Valla (pagg. 317, euro 279) per la cura di Federico Zambon, che di quelle letture sono farciti?
«Sotto il segno dell´amore si presenta quel rinnovamento spirituale e culturale» che avviene in Europa nel secolo XII, afferma Zambon, commentando in questo primo volume con impareggiabile eloquenza e sapienza La contemplazione di Dio e Natura e Dignità dell´amore di Guglielmo di Saint-Thierry; e L´Amore di Dio di Bernardo di Clairvaux.
Il secolo dell´amore, dunque. Già, ma quale amore? Conoscevamo quel tipo speciale di amore, la fin´amor, che all´alba del medesimo secolo nasce nelle corti occitane: un amore tra dame e cavalieri, che vagheggia un piacere sempre differito, vuoi perché la dama si nega, vuoi perché l´amante ama di lontano.
Sì che non v´è che godimento del fantasma. Conoscevamo le variazioni dei temi trobadorici quando si espandono nel nord della Francia e in altri paesi europei. Avevamo letto la storia di Tristano e Isotta, perla tra le perle del grande mito medievale dell´amore-passione; e i romanzi di Thomas e Béroul, di Chrétien de Troyes, i Lais di Maria di Francia e la poesia latina dei goliardi - godereccia, sensuale. E avevamo studiato la sintesi teorica che verso la fine del secolo tenterà Andrea Cappellano nel suo trattato De Amore, ispirandosi ai grandi modelli ovidiani dell´Ars Amatoria e dei Remedia amoris. E sapevamo che proprio all´interno di questo quadro sviluppa una riflessione monastica sull´amore; ma quanto ricco e profondo fosse l´intreccio e quanto grande il valore del contributo cristiano è Zambon a insegnarcelo, sottolineando con finezza le sfumature, le somiglianze e le particolarità e varianti tra le diverse esperienze.
Sono trattati rivolti ai monaci. Uomini che per aver fatto una scelta di castità non rinunciano ipso facto all´amore, al suo discorso. Anzi, questi monaci, quasi fossero dei piccoli Schreber, intessono una relazione erotica intensissima con Dio, del quale si fingono figli, spose, amanti, in una girandola strabiliante di immagini e metafore e figure che stravolgono la misera evidenza del corpo, segnato dalla miseria sessuale. A ribadire una legge che regola l´amore cortese; e cioè, che l´assenza evoca il desiderio, e il godimento dell´altro va messo sotto il segno della rinuncia, per essere vero amore.
(Ma un incontro con l´altro che mantenga il segno-meno, il segno-senza e conservi la traccia del nostro esilio qui, su questa terra, nel nostro proprio corpo, non sarà proprio questo il dramma dell´amore per chi secoli più avanti cercherà di analizzarlo dal punto di vista psichico? scientifico? mentale?) Questi trattati, ripeto, si rivolgono a uomini che hanno volontariamente scelto il celibato, eunuchi di Dio, asceti volontari, che si propongono come militi e martiri che custodiranno per i loro fratelli laici o addirittura atei la relazione amorosa con un Dio che ama tutte le sue creature, dalle quali non esige altro che una risposta d´amore. E se la risposta fosse naturale (e cioè, in accordo con la volontà divina) come altrimenti dovrebbe rispondere la creatura al dono d´amore del Padre suo, del suo Creatore? Se non riamandolo?
Il linguaggio s´infiora di accese metafore, fiammeggianti ossimori che dissolvono le comuni percezioni ed evidenze dei sensi e dei sessi, perché chi cerca l´amore di Dio accetta la femminilità come una condizione generosa, ricca, la sola che lega gli amanti nell´amore. Uno strano piacere è evocato, dalle tonalità intime, affettive. E si fantasticano modi di godimento, in cui l´amore passi all´atto senza degradarsi e il corpo si coniughi alla mente e la mente goda senza il corpo e provi piacere in purezza.
(Ora non v´è dubbio che qualora si sia convinti dell´esistenza di Dio, convenga amare più Lui di qualsiasi altro. Lo riconoscerà secoli dopo senza mezzi termini quella straordinaria mistica che fu Emily Dickinson. La quale confessa anche che ci vuole molto coraggio a sopportare la relazione - in sé e per sé intollerabile - con l´Essere Supremo, che a volte le appare come un grande ladro che le ruba l´esistenza. Epperò, ci sono altri amanti - preferiscono chiamarsi philoi - i quali scelgono Lui e ciò facendo si pongono hors-sexe, al di là, o al di qua del sesso. E perché sia vero, si convincono che bisogna che l´amor trapassi in caritatem, che si rivolga non a un uomo, o a una donna, ma a Dio. Di questo gregge, quali eccelsi pedagoghi nella schola caritatis Gregorio e Bernardo guidano l´ascesa).
Anche chi non creda che l´ascetismo medievale sia rifiuto del mondo, né celebrazione del dualismo materia-spirito, rimarrà colpito dal titanico sforzo di sublimazione messo in atto in questi trattati. Rispetto all´economia del piacere si tratta di cambiare oggetto e meta, di mirare non più alla scarica immediata della tensione, ma di rinviare la soddisfazione, di fatto sospendendo l´intero processo all´incertezza. Tutta una dinamica psichica si rinnova, o addirittura si inventa in questi trattati, da cui discenderanno non solo un diverso uso della sessualità, ma nuovi soggetti umani.
Misoginia? Repressione degli istinti? Non è questa la chiave di lettura che suggerisce Zambon; si perderebbe la complessità dell´orizzonte spirituale e filosofico dello sforzo "correttivo": disciplinare l´immaginazione dell´ardente giovane monaco in ordine alle fantasie erotiche non è l´equivalente di reprimere. Lo sanno anche i sassi che c´è differenza tra disciplina e repressione.
D´altra parte, non v´è dubbio che al monaco, e per estensione all´uomo e alla donna cristiani, si impone la mortificazione della carne. Ne rende testimonianza la storia d´amore più chiacchierata del secolo, quella tra Abelardo e Eloisa, dove una donna si dimostra degna di Dio rinunciando alla sua vita sessuale, e un uomo sacrificando il proprio organo.
Ora è chiaro che il diniego dell´umano può essere interpretato come la massima affermazione, l´essenza stessa dell´umano. V´è chi afferma che in ciò consiste il punto di vista cristiano.
V´è chi suggerisce che se Cristo si fa corpo è per nobilitare l´anima.
E torna alla mente l´osservazione di quel sapientissimo filosofo della vita quotidiana, che fu Michel de Montaigne, quando tra sé e sé commenta: «che animale mostruoso quello che ha orrore di se stesso, quello al quale pesano i propri piaceri!». Appunto.
E tuttavia, chi si dichiari contrario a ogni mortificazione della carne, e si disponga ad amare l´altro con la "a" minuscola, se sarà sincero dovrà riconoscere che non è affatto detto che gli basti. Così la domanda resta: perché l´altro - l´altro uomo, l´altra donna - non sono abbastanza per noi?
A mo´ di risposta, rileggete quell´inquietante Terza Meditazione di Cartesio, dove il filosofo confessa che c´è soltanto una ragione per non dubitare dell´esistenza di Dio: l´altro uguale a me non mi basta a non sentirmi solo.

Repubblica 6.7.07
Spinoza. Ripensò Dio e liberò l'uomo
Un meridiano con le opere complete
di Eugenio Scalfari


Un pensiero radicale e per questo molto avversato che cancellava ogni tentazione antropomorfica nella concezione del mondo e della sua creazione
Convivono nei suoi scritti un aspetto distruttivo e uno costruttivo, intrecciati l´uno con l´altro
Nietzsche si imbatté in lui negli anni 80 del suo secolo e ne rimase sconvolto: ecco il mio precursore
L´incontro decisivo che egli ebbe e che lo aiutò a definire il suo pensiero fu quello con Descartes

La pubblicazione avvenuta di recente nei "Meridiani" Mondadori dell´opera completa di Baruch Spinoza è un evento importante nella cultura italiana e non soltanto per la vastità degli apparati, la completezza critica dei testi, la qualità dei commenti e in particolare per le introduzioni alle singole opere e per quella generale, dovuta a Filippo Mignini.
L´evento sta nel fatto stesso della pubblicazione. Qui ed ora, viene in mente di dire. Perché qui ed ora la filosofia di Spinoza attraversa di nuovo una fase attraente, direi in sintonia con i modi di sentire dell´epoca in cui viviamo; ma sintonia però non consapevole e perciò inadeguata, neppure nella società dei colti e dei filosofi, con alcune importanti eccezioni tra le quali va segnalata quella di Emanuele Severino che di Spinoza è stato da sempre attento e acuto cultore.
Il crescere e il tramontare delle filosofie e dei filosofi che le hanno pensate è un attributo permanente è quasi il succedersi di una modalità alla quale sono stati soggetti anche i pensatori più significativi, da Descartes a Hobbes, a Kant, ad Hegel e Schopenhauer a Nietzsche e Heidegger, tanto per restare nel solco della nostra civiltà occidentale. Perfino Platone e Aristotele hanno avuto fasi di luminosità e altre di impallidimento nella memoria collettiva. Ma nessuno ne ha sofferto quanto Spinoza, costretto addirittura a non pubblicare la maggior parte dei suoi scritti che sarebbero comunque incorsi nel sequestro immediato e nell´immediata distruzione, come avvenne per i pochissimi che - lui vivente - videro la luce.
Nonostante questo suo silenzio obbligato, fioccarono su Spinoza scomuniche e dannazioni estreme, a cominciare dalla più terribile che gli fu inflitta dalla Sinagoga di Amsterdam, cui seguì l´ostilità dapprima blanda ma poi sempre più intensa fino a diventare furiosa dei circoli cattolici in Olanda, in Francia, in Germania e a Roma.
Infine, non meno violenta, la "damnatio" delle Chiese riformate, luterane e calviniste che fossero.
Così anche l´opera postuma ebbe scarsa diffusione e possibilità assai limitate di influire sull´evoluzione del pensiero filosofico, anche se fu conosciuta e tenuta in gran conto da alcuni degli illuministi (pochi in verità) la maggior parte di essi accettando semplicisticamente un teismo al cui approfondimento non dedicarono gran tempo.
La scoperta di Spinoza arrivò con l´Ottocento, ad un secolo e mezzo di distanza dall´opera sua. Illuminò quell´arco di anni con intensità ma poi di nuovo rientrò nel silenzio e soltanto di recente ricominciarono segni di attenzione.
Bisognerebbe domandarsi il perché di questo interesse così discontinuo e precario. La scrittura rocciosa e "geometrica" delle sue argomentazioni non è certo fatta per accattivare, ma non può esser quello il vero ostacolo se solo si pensa alle non minori difficoltà di lettura e di comprensione di filosofi che hanno tenuto a lungo la scena dell´opinione colta, a cominciare da Kant e a finire con Heidegger.
Non credo perciò che sia stato quello l´ostacolo, ma piuttosto un altro e cioè la radicalità del pensiero spinoziano nei confronti della salvezza, dell´antropomorfismo e della centralità dell´uomo nel mondo. Non c´è stata finora filosofia più lontana, più indifferente, anzi più impegnata nella dimostrazione che la nostra specie non può vantare alcun privilegio e alcuna posizione dominante nell´universo. Non solo: non può appellarsi né sperare in alcun Dio che possa assicurarci la salvezza e indicarne il percorso. Ma, nello stesso tempo, una filosofia dedicata alla dimostrazione che "Dio c´è" come si direbbe oggi, ed anzi è presente in tutto e dovunque, eterno e assoluto, unica sostanza esistente, della quale tutto l´universo è pervaso fin nelle sue più intime particelle; ma un Dio indifferente, privo di passioni e di affetti, non vendicativo ma neppure misericordioso; un Dio che nulla ha creato, che non conosce se stesso, che nulla vuole perché non ha volontà; un Dio infinito e assoluto, pura potenza che incessantemente si attua nelle infinite forme naturali. Infine un Dio che è "natura naturante" dal quale esplodono senza interruzione le forme della "natura naturata" ciascuna delle quali fondata sulla legge che scaturisce dal suo proprio fondamento.
«Questo tuo Dio è un mostro» gli scrisse uno tra i tanti suoi corrispondenti che cercavano di chiarire a loro stessi il suo pensiero sperando (per loro) che esso potesse almeno esser tollerato dalla Chiesa e dalle Università e quindi pubblicamente discusso e diffuso. «Questo tuo Dio è un mostro». Ma lui, a sua volta, non riusciva a comprendere reazioni così violente e rifiuti così totali. E si accaniva a rispondere, a chiarire il suo pensiero, a definire i soggetti e le idee.
La definizione era per lui una vera e propria legge.
«Questo è vero per definizione» diceva, e si stupiva che gli altri non capissero. La forza della definizione è opera di Spinoza ed assume con lui il valore del "Logos", del "Verbo", della "Parola" celebrati nel Vangelo di Giovanni quale "incipit" della Creazione. Solo che per Spinoza credere nella Creazione era una bestemmia intellettuale: il suo Dio non era creatore ma assoluta potenza necessaria; non manipolava una materia a lui esterna, ma attuava la sua potenza, la sua esplosiva potenza che non poteva che attuarsi. Il suo «tutto è Dio» non era concettualmente lontano dal più radicale ateismo. Anche se la parola ateismo non dovrebbe esser lasciata circolare senza una sua definizione.

* * *
Convivono nell´opera di Spinoza un aspetto distruttivo ed uno costruttivo, intrecciati l´uno con l´altro e necessari entrambi. L´uno non potrebbe darsi senza l´altro; la sua raffigurazione e dimostrazione del Dio come potenza infinita e assoluta, unica e pervasiva sostanza di tutte le cose, non potrebbe infatti procedere senza aver sgombrato il campo dalle raffigurazioni fallaci e «superstiziose» che ingombravano le religioni monoteistiche e in particolare quelle giudaica e cristiana. Secondo il suo pensiero queste raffigurazioni fallaci sono: il Dio incarnato, le attribuzioni a Dio di "affetti" propri della natura umana, i miracoli, la rivelazione nel suo complesso. Insomma le Scritture, a cominciare dal Genesi, i Vangeli e la figura di Gesù-Dio, morto e risorto; Mosè, Abramo e l´Alleanza intesa come percorso verso la salvezza. E comincia dal punto più sensibile, teologicamente e politicamente: quello del Dio fatto uomo.
Scrive ad uno dei suoi corrispondenti cattolici, Hugo Boxel: «Questo io so: che tra infinito e finito non si dà alcuna proporzione» e ad Albert Burgh: «Tu mi compiangi e chiami una chimera la mia filosofia. Oh giovane privo di mente. Chi ti ha incantato fino al punto di portarti a credere che tu possa divorare ed avere negli intestini quel Dio sommo ed eterno?».
Ma poiché i suoi interlocutori fingono di non capire e continuano ad incalzarlo con petulanti richieste di chiarimenti, alla fine spazientito risponde a Boxel:
«Quando dico che ti sfugge quale Dio io abbia se nego che l´atto di vedere, udire, osservare, volere non si danno in Dio, sospetto che tu creda che non esistano perfezioni maggiori di quelle che sono tipici attributi umani. Ma non mi meraviglio di questo perché credo che anche il triangolo, se avesse la facoltà di parlare, direbbe egualmente che Dio è triangolare e il cerchio direbbe che la divina natura è circolare in modo eminente. Così ognuno ascriverebbe a Dio i suoi attributi, si renderebbe simile a Dio e il resto gli sembrerebbe di forma diversa».
Questi pensieri assumeranno forma definitiva nell´Etica, la sua opera più completa dove Dio sarà descritto come «la sostanza eterna, infinita e assoluta che non opera con libera volontà né con intelligenza, non ha alcun rapporto personale e diretto con gli uomini né con alcuna altra specie, non è né misericordioso né vindice o giustiziere, non è affetto da gioia né da tristezza. Non vi è pregiudizio più misero di quello che subordina il presunto amore dell´essere infinito alla venerazione ricevuta da una natura finita. Altrettanto meschina è la convinzione di poter modificare i decreti di Dio per mezzo delle nostre preghiere, come si potrebbe fare con un padre un giudice e un re».
Dio - per dirla in breve - produce a getto continuo forme in sé perfette, una esplosione di forme, ciascuna determinata e quindi soggetta alla natura della propria forma. Forme moriture come tutto ciò che deriva da una nascita, ma non create da un Dio che abbia utilizzato «altro da sé» o che abbia ordinato un caos preesistente. Le forme prodotte da Dio sono un´eruzione continua il cui fondamento è Dio stesso il quale, attraverso quelle forme, è ovunque e tutto pervade con un´immanenza totale. Il mondo così descritto non contiene dunque una scintilla divina inserita dentro ad una materia altrimenti inerte o caotica ma, al contrario, il mondo è interamente divino e per questo stesso è infinito.
Così ragionava l´ebreo Baruch Spinoza, stupefatto di esser definito ateo e dissacratore, lui che descriveva e sentiva la divinità onnipotente, nel filo d´erba e nel serpente, nella stella e nell´uomo, senza colpe, senza peccati, senza necessità di salvezza né di individuale sopravvivenza, salvo sapere che ogni ente esistente e perituro non ha altra pulsione che la sopravvivenza della propria forma e quindi la paura della propria morte per quelle forme capaci di pensare se stesse e la propria mortalità.

* * *
L´incontro decisivo che egli ebbe e che contribuì a definire la struttura del suo pensiero fu quello con Descartes che, prima dell´arrivo in campo dell´autore dell´Etica aveva rappresentato la vetta più alta della speculazione filosofica aprendo la strada alla modernità.
Il Discorso sul metodo è stato il punto d´arrivo e insieme il punto di partenza della storia della filosofia che gli va tuttora debitrice per tre aspetti essenziali del suo pensiero: la scoperta dell´io quale punto di riferimento della conoscenza, la necessità di ancorare l´attività conoscitiva a certezze di assoluta evidenza, la distinzione tra la "res cogitans" e la "res extensa" che riassume in due polarità l´intera moltitudine degli enti recuperandone l´oggettività dopo aver affermato l´egemonia conoscitiva ed esistenziale del soggettivismo.
Con questo stipite del pensiero moderno si misurò Spinoza quindici anni dopo la pubblicazione dei Principi di filosofia e la scomparsa del loro autore.
In realtà quell´incontro fu inizialmente una sorta di tributo che Spinoza volle pagare alla grandezza innovativa di Descartes, curandone la traduzione dal latino in lingua olandese ed argomentandone le tesi da par suo. Cartesio in quegli anni era preso di mira dalla tradizionale dottrina della Chiesa. Tradurne i testi in una lingua "volgare" era già di per sé un modo di esporsi all´implacabile giudizio dell´Inquisizione; commentarli positivamente, sia pure con qualche timida riserva, significava addirittura sfidare l´ortodossia della Scolastica e attirare su di sé gli anatemi dei Tribunali ecclesiastici.
Il pur prudentissimo Spinoza corse questi rischi, anche se mise bene in chiaro che la sua era stata soltanto un´operazione editoriale e culturale e non già lo schierarsi e identificarsi con le tesi di Cartesio dalle quali anzi in più punti dissentiva.
Molti contemporanei attribuirono allora quella presa di distanza da Cartesio alla necessità di non approfondire il solco con la Chiesa e con la sua Inquisizione. Ma le cose non stavano così. Il riconoscimento spinoziano della grandezza di Cartesio era senza dubbio genuino, ma altrettanto genuine le sue riserve, in particolare dalla distinzione tra la cosa "estesa" e la cosa "pensante" che Descartes riteneva fossero due sostanze incomunicabili in tutto fuorché nell´essere entrambe una creazione di un Dio trascendente, mentre Spinoza le vedeva come due attributi di Dio riverberati nella nostra specie come "modalità" dell´unica sostanza divina e immanente a tutte le cose.
Quanto al "Cogito ergo sum" Spinoza non si è mai espresso in modo esplicito ma dall´insieme del suo pensiero quell´orgogliosa affermazione dell´autonomia dell´io risulterebbe esser stata fatta propria dall´autore del Tractatus. Per arrivare a questa conclusione occorre però forzare il pensiero di Spinoza su un punto assai delicato: quello dell´autonomia delle forme nelle quali si esplica la sostanza divina.
In verità Spinoza usa assai poco o per niente la parola "forma" e molto di più usa il termine "res" privilegiando l´estensione rispetto al pensiero. Se ne comprende la ragione: la "res extensa" coinvolge nella propria dimensione tutto l´universo inorganico oltre a quello organico. La "cogitans" invece si limita alle facoltà della nostra specie.
Ma questo è un aspetto soltanto quantitativo del problema e quindi non essenziale per le concezioni spinoziane. Per questa ragione io credo che il termine "forma" sia il più appropriato per designare la molteplicità immanente della "natura naturans" nelle sue infinite espressioni.
Ebbene: il fondamento di queste forme dell´immanenza sta appunto nelle "modalità" che le distinguono. La modalità è nata perfetta, senza difetti e senza peccato, come Dio l´ha emessa realizzando la sua potenzialità.
L´autonomia di quella forma nei suoi "modi" fa dunque parte della sua definizione e per Spinoza la definizione altro non è che legge di natura.
Questo ragionamento mi porta a concludere che il "Cogito ergo sum" fu accettato e inserito nel pensiero spinoziano. Semmai, ai suoi occhi, sarebbe bastato scandire il verbo "esse" con la prima persona singolare. L´uomo in quanto individuo era titolato a pronunciare questa affermazione, la sua pulsione di sopravvivenza lo portava a quell´orgoglioso "sum", l´evidenza del vero era interamente presente.
Aggiungo per la chiarezza di noi postumi che la distinzione cartesiana tra l´estensione e il pensiero è stata superata non soltanto per le ragioni esegetiche addotte da Spinoza, ma per altre ancor più decisive. La mente pensante altro non è che un´efflorescenza degli apparati cerebrali. Altre volte ho scritto che la mente sta alle mappe cerebrali come la musica sta al pianoforte e le sue "note" stanno ai tasti di quello strumento. Il funzionamento della mente non è mai lo stesso; come le note vanno rapportate di continuo alla tensione delle corde che le producono.
Ne segue che al funzionamento della mente, cioè del pensiero, cospirano tutti gli organi del corpo e non soltanto il cervello. Il quale riceve dagli altri organi, tramite i flussi sanguigni e i terminali nervosi, sensazioni ed elementi in misura diversa di tempo in tempo.
La quantità di ossigeno non è mai la stessa, le tossine provenienti dal fegato, dall´intestino, dai reni, non sono mai le stesse e mai gli stessi gli ormoni, gli enzimi, i flussi endocrini.
La mente insomma è parte integrata nel corpo, ne è determinata e a sua volta lo determina; sicché nel corpo individuale tutto è al tempo stesso esteso e cogitante, che è poi la stessa tesi spinoziana raggiunta attraverso la fisiologia moderna anziché attraverso le tesi filosofiche dell´immanenza della natura divina.

* * *
Non è certo questa la sede per rivisitare compiutamente la filosofia di Baruch Spinoza, per la quale si può adottare la conclusione di Filippo Mignini a chiusura della sua introduzione generale: «È stato uno dei rari spiriti che nella storia del mondo hanno ideato per qualunque uomo di ogni religione e cultura un percorso di illuminazione e di libertà».
Mi sembra invece interessante mettere in luce i nessi tra lui e il principale tra i pensatori che l´hanno scelto come compagno e maestro. Parlo di Federico Nietzsche, il filosofo che chiude il ciclo della filosofia moderna smantellando il platonismo e le religioni, decostruendo e anzi capovolgendo la scala tradizionale dei valori ed elaborando una visione del mondo, della conoscenza e della civiltà che approda al superamento dell´io e di ogni assoluto.
Nietzsche fu più un artista e una «voce» che un filosofo nel senso tradizionale della parola. Raccontò il suo pensiero. Parlò per enigmi, per aforismi, per frammenti, per simboli. Dopo di lui sarebbe impossibile scrivere un trattato o un manuale di filosofia. I pochi che hanno tentato ancora di farlo hanno solo dimostrato la loro irrilevanza.
Ma Nietzsche non può esser compreso se non si risale a Spinoza. L´autore del Tractatus e dell´Etica può apparire, se si bada alla forma della sua scrittura, esattamente agli antipodi dell´autore di Zarathustra.
Invece basta ascoltare lo stesso Nietzsche per comprendere di quale spessore fosse la consonanza dei loro pensieri.
Nietzsche s´imbatté (è il caso di usare questa parola che contiene un elemento fortuito) in Spinoza negli anni Ottanta del suo secolo, ne rimase sconvolto e così ne scrisse all´amico Overbeck: «Sono pieno di meraviglia e di giubilo: ho un precursore, e che precursore! Io non conoscevo quasi Spinoza. Per "istinto" ho desiderato di leggerlo. Questo pensatore, il più abnorme e solitario che sia mai esistito, è il più vicino a me in queste cinque argomentazioni: egli nega il libero arbitrio, la finalità, l´assetto morale del mondo, il non-egoismo, il male. Anche se tra Spinoza e me restano enormi differenze, queste sono da attribuire soprattutto alla differenza dei tempi, della cultura, della scienza. Insomma la mia solitudine - che come capita in montagna alle grandi altitudini, spesso mi toglieva il fiato e mi faceva trasudare sangue dai pori - è ormai una solitudine in due».
Non ci poteva essere elogio maggiore e più lucida identificazione. Ma resta, al di là delle differenze dovute ai diversi contesti storici dei tempi, della cultura e della scienza, che l´autore di Zarathustra chiaramente individua, un approccio che pone Nietzsche in una prospettiva diversa anche nei confronti di Spinoza, rispetto alla intera storia della filosofia occidentale da Platone in poi, ed è il rapporto con l´assoluto. Con la verità assoluta. Con la divinità assoluta.
Spinoza è infatti il più radicale assertore dell´assolutezza della verità e della divinità dell´immanenza, "sive natura". Dell´essere parmenideo, presente in tutti gli enti che da quell´essere scaturiscono. E della conoscenza che l´intelletto individuale può averne.
Per Nietzsche al contrario il solo approccio valido alla conoscenza ha il suo fondamento nell´interpretazione.
L´interpretazione è il suo Logos, il suo Verbo, la sola ed unica realtà. L´essere nietzscheano non è quello di Parmenide ma quello di Eraclito per quel tanto che sappiamo di lui; non è lo stare, ma il divenire, il flusso, la rappresentazione prismatica dell´universo.
Quando, nella lettera a Overbeck, Nietzsche enumera le cinque argomentazioni di Spinoza nelle quali egli si riconosce interamente, compie a mio avviso un errore auto-interpretativo: afferma, come Spinoza, di negare il valore morale del mondo. Ma sbaglia. Il mondo nietzscheano è un mondo morale proprio perché ogni interpretazione contiene la sua propria moralità. Proprio perché il relativismo nietzscheano nega l´assoluto ma rifiuta il nichilismo.
Diciamo dunque che neppure Spinoza riesce a liberarsi dalla metafisica come - dopo Nietzsche - recuperano una sorta di metafisica tutti quei pensatori che riproposero l´essere alla base della loro concezione.
Nietzsche è stato il vero solitario in questo punto capitale del pensiero, è stato l´unico ad aver descritto la realtà come una polifonia interpretativa il cui fondamento risiede nello sguardo dell´interprete.
Dopo Nietzsche resta in piedi una sola domanda: può l´interprete interpretare anche se stesso?
Domanda fondamentale, cui non si può dare risposta se, prima, non si definisca la parola interpretazione e il soggetto che la pronuncia.
Una definizione. Ecco che ancora torna in scena Spinoza e il valore che egli attribuisce alla definizione.
Vedete? Il Logos, il Verbo, la Parola, la parola-chiave, l´Interpretazione, l´Interprete....
Scrive Giovanni all´inizio del suo Vangelo: «All´inizio ci fu il Logos e il Logos era accanto a Dio, il Logos era Dio». Se non ci fosse il relativismo nietzscheano, saremmo di nuovo in piena metafisica.


Corriere della Sera 6.7.07
Lo scrittore israeliano rilegge un classico
Kafka e il suo doppio
Il segreto della «Metamorfosi»
di Abraham B. Yehoshua


Il 25 ottobre del 1915 Kafka scrive al suo editore Kurt Wolff una lettera in merito alla copertina del racconto La metamorfosi,
in corso di pubblicazione. Questo il tenore della lettera: «Egregio signore, ultimamente Lei mi scrisse che Ottomar Starke avrebbe disegnato la copertina de La metamorfosi. Mi sono preso un piccolo, probabilmente inutile spavento. Inutile stando a ciò che conosco di quell'artista in Napoleone. Mi è venuto in mente, siccome Starke è un vero illustratore, che forse potrebbe voler disegnare l'insetto. Questo no, per favore, questo no! Non voglio limitare la sua libertà d'azione, voglio soltanto avanzare una preghiera derivante dalla mia conoscenza, ovviamente migliore, della storia. L'insetto non può essere disegnato. Ma non può neppure essere mostrato da lontano. Se questa intenzione non sussiste, se, dunque, la mia richiesta è ridicola, tanto meglio. A Lei sarei grato se volesse trasmettere il mio desiderio. Se potessi fare una proposta per una illustrazione, sceglierei scene come: i genitori e il procuratore dinanzi alla porta chiusa o, ancor meglio, i genitori e la sorella nella stanza illuminata, mentre la porta che dà nella stanza attigua, totalmente oscura, è aperta…». Allora, io proverò qui a delineare lo scarafaggio e capire di conseguenza come mai Kafka fosse così spaventato dall'idea che qualcuno lo raffigurasse.
Non è neppure il caso di cominciare ad addentrarsi nell'immensa ricchezza di significati attribuiti a questo racconto di Kafka. Qui, infatti, la proverbiale ambivalenza ontologica di Kafka giunge all'apice, e non è sbagliato dire che siamo di fronte a uno fra i racconti più studiati nella letteratura del XX secolo, se non il più studiato di tutti. Nella selva di significati spicca ovviamente quello psicoanalitico, che non di rado suscita opposizione proprio per la sua ambizione ad essere totale, e perché presenta la propria interpretazione come ultima, definitiva. In effetti, un'interpretazione psicoanalitica non ha bisogno di alcun supporto storico, sociologico o filologico, è persino autonoma dai dati biografici dell'autore. I personaggi delle tragedie di Sofocle, Shakespeare o Molière sono, in tale contesto, presi per quello che sono, e sotto questo profilo è lecito analizzare loro e i loro complessi come se vivessero qui, accanto a noi.
Kafka per parte sua è ben noto alla psicoanalisi. In un certo senso l'ha ispirata, perché tutto ciò che scriveva poteva essere interpretato in un senso psicoanalitico. Tenterò qui soltanto una delle possibili interpretazioni psicoanalitiche, che si fonderà esclusivamente sul testo, senza alcun rapporto con i dati biografici di Kafka, osservando solo l'agente di commercio Gregor Samsa e la sua famiglia così come compaiono nel racconto.
La domanda che mi guida è la seguente: che cosa è esattamente l'insetto descritto nella storia? Dobbiamo prenderlo solo come una metafora, come un oggetto allegorico, o è possibile conferirgli una qualche pregnanza, per lo meno nella stessa misura in cui diamo concretezza alle cose nei sogni, che hanno magari un'alta carica simbolica ma anche una nitida concretezza? Se questo insetto viene interpretato esclusivamente come simbolo metaforico o allegorico, un simbolo generale di disumanizzazione, allora perdiamo secondo me qualcosa di importante in questo racconto, che, al di là di tutto ciò che riguarda l'insetto, tiene bene testa a un approccio realistico generale.
Kafka aveva evidentemente in mente qualcosa di molto concreto, non soltanto un simbolo metaforico. Così scrive a Yanok a proposito di questo racconto: «È un sogno terribile, è una concezione terribile. Il sogno svela la realtà, mentre l'idea ne è una risultanza. È la mostruosità della vita, la natura terrifica dell'arte». Torneremo su queste parole di Kafka a proposito del racconto; quanto a me, m'incoraggiano lungo la via che cerco.
Gregor viene da una famiglia borghese, dove troviamo un padre forte (in primo luogo fisicamente, ma la sua forza si rivela assai più sostanziale, generale). Questo padre ha avuto guai finanziari, forse a causa dei suoi istinti prepotenti. Gregor ha deciso di tirare fuori suo padre dalle avversità economiche andando a fare l'agente di commercio nella ditta in cui suo padre aveva fallito. Il fatto che il figlio vada a risollevare le sorti del padre nello stesso luogo in cui questi aveva fallito, e non altrove, ha un significato particolare: con ciò si enfatizza e intensifica il dato della «sostituzione» del padre, e se ne svela ulteriormente il fallimento. Quel posto di lavoro Gregor non lo ama, e in ditta nessuno nutre particolare simpatia per lui. La gente lo tratta con somma diffidenza e in una certa misura lo umilia, memore com'è del fallimento paterno. Il duro lavoro del figlio non serve solo per pagare il debito del padre: se questo fosse l'unico scopo, la durata del lavoro sarebbe stata assai più breve, e anche il padre sarebbe stato in una certa forma mobilitato, per collaborare alla restituzione del debito. Ma il fallimento del padre serve a creare la dipendenza della famiglia da Gregor, a fargli prendere il posto del padre stesso. Prima di tutto il padre smette di lavorare, senza una ragione precisa. Sta di fatto che dopo la metamorfosi di Gregor in scarafaggio il padre torna al lavoro e dimostra che ne sarebbe stato capace, in tutti quegli anni di ozio. Gregor per parte sua mantiene la famiglia non certo al livello di ristrettezze di chi si trova sommerso dai debiti: vivono in una casa grande che richiede molte spese (dopo la morte di Gregor la famiglia decide di trasferirsi in un appartamento più piccolo ed economico). Durante tutti quegli anni di lavoro per restituire il debito, i genitori mettono da parte del denaro. In altre parole, Gregor ha trasformato il fallimento del padre in un pretesto per ereditare il suo posto (un motivo analogo si trova, fra l'altro, nel racconto Il verdetto,
scritto prima de La metamorfosi), e ha impedito al padre di partecipare allo sforzo di risanamento della famiglia, perché egli vuole sostituirsi a lui e con ciò rendere ancora più profondo il suo fallimento. Così il padre si indebolisce (benché questa debolezza si sveli in seguito come fittizia, e temporanea), e la scena classica che si evidenzia è più o meno questa: «Le stoviglie della colazione coprivano il tavolo in gran quantità, perché la colazione era per il padre il pasto più importante della giornata, che egli protraeva per ore leggendo diversi giornali». L'immagine del padre fannullone che prolunga la prima colazione, di fronte a quella del figlio sottotenente con la spada e la divisa, bene esemplifica il tipo di relazioni che vigeva in famiglia. Con la maschera della sollecitudine per i propri cari, con la risoluta decisione che il fallimento del padre non può intaccare il processo di riabilitazione della vita familiare, Gregor finisce (consapevolmente o meno) per asservire a sé la famiglia.
In effetti, malgrado sia un agente di commercio, Gregor non pare minimamente interessato al mondo esterno, e sono proprio i suoi frequenti viaggi a esprimere il profondo legame libidico che intrattiene con la famiglia. Il suo vero interesse emotivo è rivolto esclusivamente verso la casa. Quando in uno dei suoi lunghi viaggi riceve le lettere della sorella, in cui lei parla del padre che legge il giornale a voce alta (che notizia sconvolgente!), Gregor ha la sensazione che la casa sia piena di gioia e allegria. Anche la madre descrive al procuratore l'attrazione di suo figlio per la casa e la sua assoluta fedeltà alla famiglia, in questi termini: «Quel ragazzo non ha in testa altro che la ditta. Io mi arrabbio quasi, perché alla sera non esce mai; ora è stato otto giorni in città, ma è rimasto a casa tutte le sere. Sta seduto con noi al tavolo e legge in silenzio il giornale, oppure studia gli orari ferroviari». Non è la famiglia a pretendere che lui stia lì, piuttosto è lui che è attratto dalla famiglia come una specie di padre privo di interessi libidici al di fuori di essa. In effetti, facendo l'agente di commercio, Gregor avrebbe l'opportunità di una vita eccitante, fuori. Invece è vero il contrario: tutto il mondo esterno in cui passa gran parte del suo tempo si riassume conseguentemente in «due, tre amici di altre ditte, una cameriera di un albergo di provincia, un dolce, fuggevole ricordo, la cassiera di un negozio di cappelli, alla quale — seriamente, ma con troppa lentezza — aveva fatto la corte ». Tutti i suoi impulsi libidici si concentrano infine sull'immagine di una donna impellicciata che egli ha ritagliato da una rivista illustrata, come un timido sbocco della libido: e per serbare questa innocente immagine lotterà anche quando sarà ormai un insetto.

l'Unità 6.7.07
Rc: «Va bene, ma ancora non basta»
Giordano incassa e rilancia: «L’unica proposta possibile sulle pensioni è quella illustrata da me»
di Wanda Marra


QUANDO ARRIVA la dichiarazione di Prodi che «è doveroso» abolire lo scalone, Rifondazione tira un sospiro di sollievo. Che però si affievolisce davanti alle precisazioni di Palazzo Chigi («lo scalone pensionistico potrà essere abolito istituendo un percorso con norme più graduali ed eque«). La trattativa sulle pensioni, d’altra parte, è un passaggio cruciale per il partito. Che ancora una volta prova a dettare al governo le sue condizioni. Con tutte le intenzioni di non recedere dalla posizione che illustra il segretario, Giordano: va bene uno scalino a 58 anni dal 2008, ma lasciando fuori gli operai, i turnisti, e chi ha versato 40 anni di contributi. Non a caso, proprio nel clou della discussione sulle pensioni, Rc ha organizzato un seminario di 2 giorni. La direzione, l’esecutivo, la segreteria, i parlamentari e la delegazione di governo si sono riuniti in una sorta di ritiro di riflessione in un paesino della provincia di Frosinone, Segni. Scegliendo un albergo in mezzo alle montagne della Ciociaria, con un nome significativo, «La Pace».
Un «conclave» rigorosamente chiuso alla stampa, in un posto insolito, volutamente lontano dai circuiti, nel tentativo evidente di ricompattarsi. E dunque da una parte «tenere» la base del partito dentro alle scelte fatte al governo, trovando un punto d’incontro sulle stesse pensioni, dall’altra delineare un percorso il più possibile condiviso verso il soggetto della sinistra-sinistra in fase di costruzione. Per affrontare la fase congressuale ormai imminente, visto che di congresso ormai si parla insistentemente per gennaio-febbraio. Tutto ancora interlocutorio, ma stando ai commenti positivi del primo giorno, anche se le divergenze restano, sembrerebbe ad ora un’operazione riuscita. Effetto della cornice un po’ straniante di Segni (sono in molti a guardarsi intorno, con l’aria di «Che ci facciamo qui?»), ma forse soprattutto del fatto che la vera discussione e le decisioni restano rimandate al Cpn del 14 e del 15, dove la maggioranza si confronterà anche con le minoranze. Giordano, introducendo i lavori, parla per più di un’ora e mezzo. Ci tiene a sottolineare che la sua è stata una relazione politica «densa», nell’intenzione di fornire una cornice teorica di riferimento. «Trovo assai positivo che Prodi ribadisca con forza quel che abbiamo scritto nel programma dell’Unione ­ commenta così l’affermazione del Premier ­ sono fiducioso, ma prudente, perché credo che sulle pensioni debba essere tradotto alla lettera il programma dell’Unione». Poi, quando arriva la nota di Palazzo Chigi, riafferma che l’unica mediazione possibile è la proposta da lui illustrata. Ci tiene a puntualizzare il capogruppo in Senato, Russo Spena: «Non siamo noi che vogliamo far cadere il governo, è il governo che, se segue altre strade, perde consenso nella società». E rimarca anche la minor radicalità del partito rispetto alla Fiom. Una via d’uscita, sempre all’interno dei contorni definiti da Giordano, la offre Alfonso Gianni, Sottosegretario all’Economia: rinviare tutto di un anno al 2009, lasciando andare in pensione nel 2008 chi ne ha diritto secondo le vecchie norme, e lavorare nel frattempo per trovare una via d'uscita alla questione dello scalone. Si limita a mettere sul piatto una problematica il ministro Ferrero (che però, arrivando si lascia scappare la battuta «Se il governo cade? Non ancora») : «Non possiamo produrre risultati se non coinvolgiamo i soggetti sociali».
Toni pacati ma posizioni ancora distanti sul processo che deve condurre all’unità della sinistra. Solo qualche settimana fa c’è stato uno scontro molto duro tra il quotidiano del partito, Liberazione, che, seppure con un punto di domanda, parlava di superamento di Rc e il coordinatore della segreteria del partito, Ciccio Ferrara, che contestava questa linea. Con Bertinotti che alla fine aveva dato ragione al giornale. Giordano ribadisce il no allo scioglimento del partito e ripropone «una aggregazione confederativa in cui ci sono soggetti politici e sociali». Sulla stessa linea Russo Spena, che però spinge per una lista unitaria alle amministrative del 2009. Alfonso Gianni parla di un «soggetto unitario e plurale», e pur dicendosi contrario allo scioglimento di Rc, di fatto ne propone il superamento. Per la confederazione anche Ferrero.

giovedì 5 luglio 2007

Liberazione 5.7.07
Sx.net? E' per chi si sente "sentimentalmente " di sinistra
di Castalda Musacchio


«Vogliamo portare ossigeno a una sinistra un po' in affanno». In definitiva una nuova sfida. E questa volta a lanciarla è la Sinistra europea. Con un progetto "sui generis": una comunicazione tutta orizzontale che mira a rimettere in rete le esperienze ma, soprattutto, le "connessioni sentimentali" di chi si sente di sinistra. Del resto chi, in questi ultimissimi giorni, non ha visto quegli enormi manifesti rossi con su scritto "sinistra" in tutte le lingue che hanno indotto in molti l'inevitabile domanda: «Ma di cosa si tratta?». A rispondere è Daniela Santroni della segreteria nazionale di Rifondazione tra le promotrici dell'iniziativa.
Daniela, è nata dunque "Sxnet.it", una nuova community. Ma di cosa si tratta?
E' un "social network" per la sinistra che nasce da un'idea della Sinistra europea. Quella di promuovere la discussione politica a tutti i livelli, anche in virtù del dibattito che si è sviluppato in questi mesi, per riuscire a dare un po' di ossigeno, e proprio alla sinistra.
Come?
Attraverso il nostro "social network". Attraverso la partecipazione diretta di persone in carne e ossa che possono discutere, dibattere confrontarsi far valere le proprie idee con uno strumento d'eccezione a disposizione: il sito "www.sxnet.it".
Sxnet.it non è dunque solo un qualunque sito web?
No. Innanzitutto perché sviluppa una nuova tecnologia molto in uso negli Stati Uniti che è il "web 2.0". Si tratta di una piattaforma orizzontale dove tutto, per dirla in parole semplici, è a disposizione di tutti e di tutte.
Vuoi dire che ogni utente interagisce nel sito come qualsiasi "webmaster"? Ma non c'è una redazione?
Sì, certamente. La nostra redazione è fatta di giovani della Sinistra europea che controllano però solo la funzionalità del sito. Il resto è lasciato a chi vuole interagire.
E avete già ottenuto dei risultati?
A pochissimi giorni dal lancio, dopo una campagna di promozione che ha coinvolto dieci grandi città e, a poco più di 48 ore dall'avvio ufficiale del sito, abbiamo già oltre 6mila visite giornaliere e 450 blog registrati. Un bel successo direi che indica anche quanta voglia di partecipazione "dal basso" vi sia. Nel sito è possibile trovare anche una grossa mappa dell'Italia per segnalare appuntamenti, inaugurazioni della case della sinistra, per poter segnalare tutto ciò che si muove "a sinistra".
Ma il vero obiettivo qual'è?
La nostra idea è quella di mettere a disposizione della "sinistra tutta" uno strumento: un "social network" appunto e senza bandiera per cercare la massima attrazione possibile delle persone al dibattito politico. Pensiamo che la sinistra la si costruisce se si riesce a rimettere al centro le energie le emozioni di chi si sente di sinistra. E' da qui che pensiamo occorra ripartire: dai bisogni, dai desideri, dalle idee che abbiano le gambe per andare al di là di Sinistra democratica, dei Verdi, o dei Comunisti italiani ma che si mettanno in connessione per costruire "consenso e fare conflitto". E debbo dire che, ad oggi, abbiamo ottenuto degli ottimi risultati. Anzi eccellenti, anche grazie alla collaborazione di Andrea Camorrino (coordinatore dell'area comunicazione di Rifondazione, ndr) che l'ha voluto fortemente, e dei ragazzi di Xister. Ora ci attendono sette mesi di sperimentazione ma vorremmo che da uno strumento per la sinistra diventasse uno strumento "della sinistra". Questa è la nostra sfida.

Liberazione 5.7.07
Prove di Sinistra unita: in piazza ad ottobre
L'idea è stata lanciata dal ministro della Ricerca al termine
del primo degli incontri che avrà con tutti i gruppi. Il sì del Prc
di Stefano Bocconetti


L'idea circolava da tempo, da ieri è diventata una proposta. Rivolta a tutta la sinistra: fare, alla ripresa autunnale, ad ottobre, una grande manifestazione. Che veda assieme tutte le forze alla sinistra del piddì. Ma che soprattutto veda in piazza tutte quelle persone che «sentono l'esigenza di una sinistra politica più unita e più forte». Si usano le virgolette perché sono queste le esatte parole pronunciate da Fabio Mussi, al termine dell'incontro avuto ieri con Diliberto. Il primo di una serie di incontri che la Sinistra democratica avrà con tutte le forze della sinistra (Mussi e Giordano, assieme ai capigruppo delle due formazioni si incontreranno mercoledì pomeriggio).
Di più: nell'idea di cui si è cominciato a discutere ieri, la manifestazione sarà la prima, vera «tappa» di un percorso che ha già un obiettivo fissato. Obiettivo ravvicinato: arrivare alle elezioni amministrative del prossimo anno con liste comuni. Che mettano assieme tutte le forze e i soggetti della sinistra della coalizione oggi al governo.
Naturalmente, avendola annunciata assieme a Mussi, anche Diliberto s'è detto d'accordo su questo percorso. E altri importanti «sì» sono subito arrivati. Primo, fra tutti, quello del segretario di Rifondazione, Franco Giordano. A cui la proposta piace: «Bene così, è l'avvio di un processo unitario». «Mi pare assolutamente condivisibile e positiva l'idea di una mobilitazione per l'autunno. Ed è una proposta che aiuta il processo di costruzione del soggetto unitario a sinistra e lo colloca dentro un percorso di partecipazione e di massa».
Ma a ben vedere qualcosa forse andrebbe fatta anche prima. «A maggior ragione, allora, ritengo sia urgente organizzare entro luglio quel momento di incontro che Rifondazione ha proposto tra forze politiche, realtà sindacali e associative, movimenti». Una sorta di "forum", insomma, aperto alle forze politiche ma anche e soprattutto a quelle sociali.
Forum da organizzare subito. Anche qui, con un obiettivo preciso: lanciare quella che tanti chiamano «la campagna di autunno». Sui temi sociali, sulla laicità, sul sostegno alle vertenze contrattuali. Anche se, va detto, altri esponenti hanno altre idee per l'autunno. A cominciare da Pietro Folna che l'altro giorno ha lanciato il progetto delle primarie a sinistra. Idea che non ha trovato molti sostenitori, idea che il Presidente della Commissione Cultura ed esponente della Sinistra europea rilancia: «Come si fa a coinvolgere il popolo nella formazione del nuovo soggetto politico, attraverso i coordinamenti o attraverso una manifestazione? Intendiamoci, tutto fa brodo, tutto va bene. Ma non basta».
Ma qui, si è già alla discussione sulle formule. Ma intanto c'è l'oggi. Segnato da una discussione dura sulle pensioni, sullo «scalone», sul rispetto del programma dell'Unione. Una discussione, di più uno scontro all'interno della maggioranza. Ecco perché Giordano dice che «la discussione deve fare i conti anche con i passaggi reali. Quelli che abbiamo di fronte oggi». Primo fra tutti, naturalmente, la trattativa - coi sindacati ma anche nell'Unione - per abolire la controriforma Maroni.
Tema spinoso sul quale, si sa, non c'è omogeneità di vedute. Forse neanche all'interno della sinistra dello schieramento. Ma pure qui, qualche piccolo passo in avanti sembra sia stato fatto. Almeno a giudicare dalle parole. E si ritorna a quell'improvvisata conferenza stampa, fatta da Mussi al termine del primo dell'incontro con il Pdci. Ai giornalisti che gli chiedevano un giudizio sulla difficile fase della trattativa, il ministro della Ricerca ha risposto così: «Bisogna girare l'angolo della trattativa governo-parti sociali, che deve arrivare a una conclusione. Si deve arrivare ad un accordo sulla previdenza che parta dal programma dell'Unione». Più nel dettaglio: «Non credo sia sfuggita alla penna degli estensori del programma l'abolizione dello scalone, una norma iniqua che divide il mondo del lavoro e colpise a caso una parte. Superare lo scalone è un punto qualificante dell'Unione, e il programma si rispetta». In ogni caso Mussi ha spiegato che per lui «l'ipotesi Damiano», potrebbe essere una base di partenza per arrivare alla soluzione del problema.

il manifesto 5.7.07
Obiettivo a sinistra
di Valentino Parlato


L'appassionato intervento di Fausto Bertinotti a conclusione dell'assemblea della Sinistra Europea ha già suscitato un dibattito assai interessante sullo stato e i destini della sinistra, non solo in Italia.
In estrema, e schematica, sintesi Bertinotti: 1) afferma che «siamo a un passaggio cruciale»; 2) sottolinea l'urgenza del fare per avviare un processo unitario della sinistra di alternativa; 3) pone come obiettivo «il socialismo del XXI secolo», enfatizzato come «l'oltre» da un titolo di Liberazione. Fortissimo è l'appello a fare, agire, quasi un generoso lanciare il cuore oltre l'ostacolo. O, secondo una massima a me cara, «on s'engage, puis on voit».
Certo senza un fare non si va avanti, ma bisognerebbe precisare che il passaggio cruciale coincide con la crisi della politica e, soprattutto con la crisi più grave, storica direi, della sinistra e non solo in Italia. Insomma sarebbe stato utile qualcosa di più sul dove siamo o sul dove vogliamo arrivare. Insomma questo «socialismo del XXI secolo» in che cosa è eguale o diverso dal socialismo per il quale si è lottato nel XX secolo? Più rozzamente, se l'obiettivo del comunismo è ancora valido o meno. Anche da noi al manifesto, ogni tanto si discute se conservare o meno la scritta «quotidiano comunista». Poi, non scorgendo di meglio, ce la teniamo stretta.
Quel che ancora manca - e non è di poco conto - è una seria analisi dell'attuale crisi: non si esce da una malattia senza una diagnosi, una individuazione delle cause, sociali e storiche. Questa ricerca dovrebbe essere la premessa al che fare. E' c'è da chiedersi se la crisi della politica non sia anche espressione di una crisi del nostro capitalismo stramaturo che non si manifesta come crollo economico (per sopravvivere il capitalismo si inventa guerre e consumi svariati), ma come degenerazione della politica e della società. Insomma, per usare una frase di Marx forse saremmo arrivati al punto in cui lo sfruttamento del lavoro vivo è diventato «una ben misera base per l'ulteriore sviluppo della ricchezza». Se fosse così dovremmo dire che la pera del capitalismo è stramatura, ma non ci sono soggetti in grado di raccoglierla e, forse, ci sta cadendo in testa.
Io ritengo che lo sfruttamento del lavoro vivo ci sia ancora e pesante, ma allora dobbiamo individuare i cambiamenti nella società e le ragioni del ristagno della lotta di classe. E se - come mi dicono i compagni competenti - è enormemente cresciuto il numero dei lavoratori dipendenti proprietari di casa e o di titoli di credito sarebbe un altro mutamento rilevante nella dialettica sociale o nella lotta di classe che per alcuni (vedi il libro di John Holloway Che fine ha fatto la lotta di classe? edito dalla manifestolibri) sarebbe roba del passato.
Data per condivisa la gravità, storica, dell'attuale crisi della sinistra non possono bastare le generose esortazioni e neppure l'innegabile forza delle passioni e delle emozioni. Bisogna capire e fare capire dove stiamo, quali sono le forze in campo e anche dove vogliamo andare e se il comunismo deve essere ancora l'orizzonte di una forza unitaria e plurale della sinistra. Se non ricordo male per Marx il comunismo non era uno sbocco ineluttabile della storia, ma si dica se è venuto il momento di passare oltre («oltre» è diventata una parola fatale nell'attuale dibattito). Perché se così fosse la «difesa» di un comunismo impossibile sarebbe inutile e dannosa, forse solo un trucco elettorale acchiappavoti per vecchi come me.

il manifesto 5.7.07
«Se ci dividiamo ora salta l'unità a sinistra»
di Matteo Bartocci


«Una riforma delle pensioni che appaia come una vittoria di Rifondazione non la posso reggere. La proposta Damiano è il massimo che si può fare». Quando Romano Prodi si è confidato ai suoi interlocutori in questi termini lo scontro dentro al governo e nella maggioranza sull'abolizione dello scalone era solo all'orizzonte e si intuiva appena. Oggi, espropriato del «suo» Ulivo dalla scelta di Ds e Margherita di puntare su Walter Veltroni, il Professore è un uomo sempre più solo. In caduta libera come consensi, privo di un partito e senza punti su cui fare leva nella maggioranza tanto alla sua destra quanto alla sua sinistra. Una solitudine immortalata dal volo a Lisbona mentre la sua maggioranza si divide tra un duro taglio «riformista» alla previdenza e il puro e semplice rispetto del programma elettorale chiesto dalla sinistra. Quel programma scritto nella sua «Fabbrica» a Bologna e siglato al suon della «canzone popolare» da Mastella a Bertinotti.
Come Prodi anche Rifondazione comunista è nell'angolo. E così la Fiom a Corso d'Italia. «Se si escludono gli operai e i turnisti si può discutere di pensione a 58 anni con incentivi e senza automatismi», avvisano da via del Policlinico confermando la «linea dura» mentre il conto alla rovescia per l'implosione della maggioranza è iniziato.
Le due o tre anime del governo (cioè del Pd, il timone «riformista» della coalizione) non hanno trovato l'intesa. La bozza Damiano lo sarebbe di fatto ma non lo è ufficialmente perché per il ministro dell'Economia è addirittura un documento «che non esiste». Con il risultato di lasciare un cerino surreale in mano a sindacati e sinistra che chiedevano il rispetto del programma e il «risarcimento sociale» di una parte importante dei propri elettori.
A complicare il quadro il fatto che l'esito del negoziato sulle pensioni determinerà gioco forza il volto della sinistra unitaria che in molti, da Mussi a Giordano, dicono di volere senza se e senza ma. «Dividerci su un tema fondante come il welfare e il lavoro sarebbe un colpo mortale per l'unità a sinistra», dicono ai piani alti di un po' tutte le segreterie. Senza però che ne consegua altrettanta concordia.
Ieri Fabio Mussi ha avviato le sue consultazioni a sinistra incontrando Oliviero Diliberto. Esito visibile dell'incontro la proposta di una manifestazione unitaria da convocare a ottobre prontamente accolta da Giordano. Ufficiosamente però i segretari di Sd e Pdci avrebbero convenuto che «non si può scavalcare a sinistra la Cgil». Cioè non si può rompere sulle pensioni a prescindere dal sindacato che a torto o a ragione le sta negoziando.
Anche qui il Prc pare in un cul de sac. Oggi la maggioranza «bertinottiana» si riunisce vicino a Roma per un «conclave» di due giorni convocato in origine per preparare il congresso e, soprattutto, per chiarirsi le idee sul soggetto unitario. Minoranze a parte, che pure da sempre pesano molto negli equilibri del partito, è infatti la stessa maggioranza a dividersi sull'unità a sinistra. Semplificando alquanto c'è chi come Alfonso Gianni vuole il partito unico a tutti i costi e chi come Ramon Mantovani e tutta l'ala femminista non vuole sentir parlare di andare «oltre» la Sinistra europea (che per inciso sarebbe infuriata per la non-comunicazione con i vertici del partito in una fase così delicata).
Per uscirne senza traumi serve uno scarto di fantasia su entrambi i fronti. Sul tavolo della segreteria giace ufficialmente una proposta drastica formulata, tra gli altri, da Giovanni Russo Spena e lo stesso Mantovani: se non si «vince» sulle pensioni il partito deve fare un referendum nella sua base per decidere se rimanere o meno al governo.
Scelta che semmai si verificasse sarebbe esiziale in questa nuova fase limitare al solo Prc ma andrebbe allargata, almeno nelle intenzioni di Fausto Bertinotti, a «una grande consultazione di popolo di tutta la sinistra». Gazebo contro il governo tanto immaginifici quanto difficili da realizzare. L'ennesima prova che le due questioni (pensioni e unità a sinistra) sono intrecciate. Su entrambe il Prc per primo si giocherà tutto.

il manifesto 5.7.07
Con Giovanni Jervis fra gli errori della mente
Nel suo saggio più recente, «Pensare dritto, pensare storto», lo psicologo affronta le illusioni sociali che mutano le opinioni in pregiudizi bloccando la possibilità di un dialogo pubblico sulle grandi questioni del nostro tempo. Ma trascura il dibattito filosofico su questi temi
di Felice Cimatti


Con un ottimismo che almeno finora non si è rivelato giustificato, nel 1927 Freud sosteneva nell'Avvenire di un'illusione, che i «dogmi religiosi» ormai si potevano considerare come dei «relitti nevrotici», per cui «è arrivato probabilmente il momento, così come avviene nel trattamento analitico del nevrotico, di sostituire gli esiti della rimozione con i risultati del lavoro razionale della nostra mente». Si inserisce in questo filone critico l'ultimo libro di Giovanni Jervis, Pensare dritto, pensare storto. Introduzione alle illusioni sociali (Bollati Boringhieri, pp. 206, euro 14), dedicato agli «errori della mente» che troppo spesso trasformano le nostre opinioni in pregiudizi, bloccando la possibilità stessa di un dialogo pubblico su grandi problemi del nostro tempo.
L'orizzonte di Jervis, almeno su questo punto molto vicino al pensiero psicoanalitico, coincide con quello con cui lo stesso Freud chiude il suo lavoro: «No, la nostra scienza non è un'illusione. Sarebbe invece un'illusione credere di poter ottenere da altre fonti ciò che essa non è in grado di darci». Jervis presenta in modo chiaro e leggibile (e, almeno per quanto ci riguarda, condivisibile), come è da sempre il suo stile scientifico (ma anche etico), i numerosi «inganni» in cui cade la nostra mente, a partire, appunto, da quella religiosa. In queste note ci concentriamo su quelle parole finali di Freud, su ciò che la scienza «non può darci»; espresso in modo brutale, possiamo fare a meno di ciò che la scienza ci dice essere soltanto una illusione? La visione scientifica del mondo è in grado di dare senso alle nostre esistenze? E non si tratta soltanto del problema religioso, ma anche e soprattutto di quello politico ed esistenziale. È questo un problema che si presenta anche nel libro di Jervis. Già parlare di «illusioni sociali», infatti, presuppone che esista un modo corretto di pensare, e che questo modo sia quello, appunto, della scienza.
In realtà, però, assumere come ovvia proprio la distinzione fra illusione e scienza è anch'esso illusorio. È fuori discussione che c'è una grande differenza fra una affermazione scientifica e una basata su impressioni e associazioni soggettive, ma questo non significa affatto che tale distinzione sia assoluta, e tantomeno che debba applicarsi in tutti i casi della nostra ricca e complicata esistenza. In effetti lo stesso Jervis, nel capitolo dedicato alle religioni critica certa pubblicistica recente (in particolare il filosofo Dennett con Rompere l'incantesimo e il biologo Dawkins con il suo The God Delusion) che con molta superficialità liquida l'esperienza religiosa come se non fosse altro che un cumulo di credenze false e assurde. Ma questa sensibilità per le forme non scientifiche di esperienza sembra occupare comunque un ruolo marginale nell'impostazione del lavoro di Jervis.
In più punti del libro si ha la sensazione che per l'autore la scienza rappresenti non un valore molto importante fra gli altri, ma il valore a cui tutti gli altri dovrebbero essere in qualche modo subordinati. Viene da qui, probabilmente, il tono di critica, neanche tanto velato, per la filosofia; così Jervis dubita che «una speculazione filosofica "pura", separata dalle scienze, abbia ancora una ragion d'essere», come anche che le giuste domande filosofiche «emergano meditando in poltrona».
A parte il fatto che non è chiaro a chi stia pensando Jervis (è noto che tutti i grandi filosofi sono molto addentro alle questioni scientifiche, se non scienziati essi stessi, da Aristotele a Cartesio, per non parlare del Bergson che provava a misurarsi da pari a pari con la teoria della relatività, o del Wittgenstein le cui riflessioni sul linguaggio e la logica sono alla base di alcune fra le più grandi conquiste scientifiche del novecento), ma è evidente che qui c'è un equivoco: il filosofo non è uno scienziato senza laboratorio, e quando parla di res cogitans (Cartesio) o essere-per-la-morte (Heidegger) non sta avanzando una ipotesi sperimentale, che potrà essere verificata o smentita. Il lavoro filosofico si concentra sui concetti che sono alla base di ogni epoca storica e che proprio per questa ragione passano inosservati.
Da questo punto di vista il lavoro del filosofo riguarda anche lo scienziato - e non solo quando, sciaguratamente, si mette a scrivere di filosofia - che come tutti gli altri esseri umani formula i suoi problemi, anche i più astratti, a partire dalle categorie concettuali del suo tempo. Un problema analogo si pone intorno a un tema ultimamente molto dibattuto, quello delle cosiddette basi biologiche (evolutive) della mente umana. Ammettiamo che veramente esista una qualche forma naturale di moralità «che ci determini più di quanto noi potremo mai determinarla». A questo punto, però, abbiamo forse fatto un passo avanti rispetto al modo in cui le nostre società ritengono giusto e buono vivere? Si tratta di un nodo essenziale, in cui il lavoro della scienza, importante ed essenziale, rivela comunque la sua parzialità e, si può dire, insufficienza. Ammesso che un certo comportamento, ad esempio aiutare i propri parenti (kin selection), sia innato nella specie umana, questo non significa che sia anche giusto.
Basta rovesciare il caso per vedere il salto logico che separa il biologico dall'etico: ammettiamo che fosse innato il desiderio di uccidere i propri vicini di casa, evidentemente questo non basterebbe a giustificare un simile comportamento. Lo ammette di fatto anche Jervis, quando osserva che la democrazia «è la sede del giusto». Appunto, ma certo non sarà uno psicologo evoluzionistico a dirci cosa è giusto e ingiusto. Uno scienziato ci può dire che un certo fatto accade a queste condizioni, che un certo comportamento può avere una lunga storia evolutiva, ma non ha gli strumenti per dirci se quel comportamento è appunto giusto, o ingiusto.
Una delle ragioni della crisi in cui si muove la politica nel nostro tempo è, infine, proprio l'aver rinunciato alle grandi «illusioni» (il comunismo, l'ideale di una società giusta, l'aspirazione all'uguaglianza), che sono le uniche a muovere gli animi (e non venite a dirci che l'anima non esiste) degli esseri umani; si tratta di «illusioni», certo, ma non per questo possiamo o vogliamo rinunciarci.
Per tornare al caso dell'esperienza religiosa, ci sembra un grave errore politico, oltre che antropologico, lasciare il campo del sacro alle religioni; «ci occorre comunque qualche bussola», osserva saggiamente Jervis, «un valido punto di partenza potrebbe essere dato da una migliore conoscenza della mente umana». È vero, ma chiediamo a Jervis se non serva anche molto altro, a partire proprio da una riflessione filosofica e magari anche psicoanalitica sulle illusioni, magari per arrivare infine a mettere in discussione questa stessa nozione.

l'Unità 5.7.07
Il capogruppo di Rifondazione conferma: «È un punto di programma da cui non si può prescindere. Le risorse? Vanno trovate e basta»
«Sullo scalone votiamo contro. Anche se casca il governo»
di Wanda Marra


«Noi andiamo avanti per quel che riguarda le pensioni su un punto ben preciso del programma dell’Unione». Il capogruppo di Rifondazione alla Camera, Gennaro Migliore, ribadisce con forza la posizione del suo partito. Che viene portata avanti fino alle estreme conseguenze. Anche a costo di far cadere il governo. Anche a costo di procedere svincolati dal resto della sinistra-sinistra.
Onorevole, ci può riassumere qual è la vostra posizione?
«Il discorso sull’equilibrio del sistema dei conti non può essere utilizzato per svicolare dalle necessità che il programma dell’Unione prevede. La non rimozione dello scalone non può essere determinata dal fatto che si dice che non ci sono i soldi. Ma i soldi vanno cercati nella lotta all’evasione e all’elusione fiscale. Si vuole fare una clamorosa ingiustizia che impone a lavoratori che maturano il loro diritto alla pensione di non poterci andare dopo dopo 35 anni di lavoro e a 57 anni di età. Lo scalone deve essere abolito totalmente dalle categorie di operai , lavoratori che hanno maturato 40 anni di contributi e lavoratori turnisti. Credo che ogni proposta unitaria del governo debba partire da questo principio».
Perché non siete d’accordo con la proposta di Damiano?
«Perché questa parte dall’introduzione di uno scalino a 58 anni e propone 3 anni di sperimentazione, che posticipano l’introduzione dello scalino. Padoa Schioppa sostanzialmente parla del mantenimento, seppure spostato nel tempo, dello scalone. Noi non siamo d’accordo».
Giordano ha dichiarato che se la Cgil controfirmasse la proposta Damiano, voi non la votereste comunque in Parlamento....
«Abbiamo sempre detto che avevamo intenzione di fare un accordo sulla base dell’attuazione del programma dell’Unione. Si tratta di un punto irrinunciabile. Ma non abbiamo mai parlato di un accordo che stava per essere firmato. Dobbiamo contribuire alla soluzione positiva di un accordo del governo con le parti sociali. Accordo che ora non c’è».
Avete intenzione di mantenere la vostra posizione anche a costo di far cadere il governo?
«Noi in questo momento abbiamo intenzione di raggiungere un accordo che non impedisca a un milione di persone di andare in pensione. Per questo siamo determinati. Credo che spostare sempre l’attenzione sugli equilibri politici sia quello che ci fa più danno collettivamente. Penso al destino di questi lavoratori che hanno dei diritti. Siamo vincolati a ciò che ci dice il programma. La fase della trattativa è netta e chiara. Ripeto, il problema non è il governo, quanto questi pensionati».
In questo momento sembrerebbe che la vostra sia una posizione più radicale di quella della stessa Cgil...
«Auspichiamo in ogni modo che ci possa essere una larga convergenza con i sindacati. Mi sembra siamo tutti ancora impegnati alla ricerca di un accordo, Non sta a me definire il grado di radicalità delle proposte».
Nigra a proposito della vostra posizione ha detto che la vicenda sulle pensioni dimostra che la “Cosa Rossa” non esiste. Cosa risponde?
«Io lo contesto fortemente. Non si possono utilizzare singoli problemi di merito, pure importanti, per contestare un progetto politico plurale. Il processo di unificazione della sinistra è assolutamente imprescindibile».
Anche la Di Salvo di Sd proponeva che la proposta-Damiano diventasse quella del governo. Insomma, voi andate avanti anche senza gli altri soggetti della sinistra-sinistra?
«Noi sulle pensioni andiamo avanti su questa proposta e ci sono milioni di persone che se l’aspettano».
I giovani dell’Ulivo vi accusano, contrastando l’innalzamento dell’età pensionabile, di portare avanti un modello di società che in realtà danneggia i giovani. Cosa risponde?
«Si tratta di una linea culturale che credo debba essere sostanziata da qualche numero vero e non da suggestioni. Per esempio, se chi ha maturato il diritto alla pensione ci va, si liberano posti di lavoro. Il patto fra le generazioni si fa mantenendo gli impegni sulla precarietà, contrastando il lavoro nero, regolarizzando i migranti. non facendo pagare il conto a chi ha lavorato tutta la vita».

Repubblica 5.7.07
Oggi a conclave la maggioranza del partito. Mussi e Diliberto lanciano una manifestazione unitaria in autunno
Governo e Cosa Rossa, tensioni nel Prc


ROMA - Un gruppo, capitanato da Alfonso Gianni e Gennaro Migliore, chiede di accelerare sulla Cosa rossa e di impostare il prossimo congresso di Rifondazione tutto sul nuovo soggetto della sinistra. Un altro spicchio, con Ramon Mantovani ed Elettra Deiana, invece non vuole smarrire la ragione sociale di Prc, punta a una battaglia identitaria e mostra dei dubbi sull´alleanza con Mussi, Diliberto e Pecoraro. In mezzo, anche per rispettare il loro ruolo, il segretario Franco Giordano e l´unico ministro di Prc Paolo Ferrero. Sono questi i blocchi di partenza del conclave della maggioranza di Rifondazione che si riunisce oggi e domani a Segni, antico feudo andreottiano in Ciociaria. L´obiettivo dei vertici di Prc è preparare le assise del 2008 senza arrivare a una spaccatura tra correnti come avvenne nel 2005 a Venezia. Gli effetti di quel congresso si sono visti in seguito: la crisi con Marco Ferrando, lo strappo consumato con l´ala trozkista di Malabarba, Cannavò, Turigliatto e Cremaschi, la tensione con i movimenti.
La maggioranza deve quindi trovare una nuova coesione per rispondere agli attacchi che vengono da sinistra e per risolvere la difficile convivenza nel governo, tanto più adesso che si affronta il nodo delle pensioni. Una Rifondazione che spinge per la Cosa rossa naturalmente si costringe a non rompere con l´esecutivo: significherebbe rompere con Sinistra democratica. «Ma nessuno di noi mette in discussione la presenza di Prc al governo - dice Alfonso Gianni - . Il problema sono i tempi della Cosa rossa. Per me l´obiettivo è il 2009, le elezioni europee. E dev´essere un soggetto unitario, non una confederazione». Bisogna fare in fretta, insomma. Fabio Mussi e Oliviero Diliberto hanno proposto una manifestazione unitaria in autunno per tutte le forze a sinistra del Pd. Giordano ha già definito la proposta «positiva». Adesso, nel conclave, Rifondazione deve decidere come e quando muoversi verso quel traguardo.
(g. d. m.)

il Riformista 5.7.07
Ora Pannella vede Veltroni al fianco di Blair e Zapatero
di Fabrizio d’Esposito


«Sì, è vero, sono stato il primo a dare un giudizio positivo su Veltroni ma quasi nessuno ne ha parlato». Domenica scorsa, nella consueta conversazione a tarda notte su Radio Radicale insieme con Massimo Bordin, Marco Pannella ha ricordato che l’assordante silenzio dei media sul suo partito, a meno che non si tratti della questione Capezzone, è continuato anche quando lui ha commentato la scelta del sindaco di Roma di candidarsi a segretario del Pd.
Senza offesa, allora, per il network terzista “Decidere” che il fuoriuscito Daniele Capezzone ha presentato proprio ieri, in pratica una sorta di “Volenterosi 2 - La vendetta”, il colloquio di Pannella con il Riformista parte da Veltroni. Sostiene lo storico leader dei radicali italiani: «Dieci minuti prima che Veltroni finisse di parlare al Lingotto di Torino, ho detto che il suo discorso era assolutamente non male. Il che non vuol dire “benissimo”. Le mie parole, però, volevano marcare un elemento di attenzione e non di critica». Attenzione che riguarda soprattutto la parte «riformatrice» del pronunciamento veltroniano, tenendo ben presente però «testo e contesto». Continua Pannella: «Veltroni ha parlato di patti generazionali e di un maggiore senso di responsabilità verso il futuro della società. Ossia di cose che i radicali, e non solo loro, penso a Mario Monti che scrisse un articolo bellissimo sul Corriere della sera prima che diventasse commissario europeo, oppure a Luigi Spaventa oggi su Repubblica (ieri per chi legge, ndr), sostengono da anni contro la funzione conservatrice di una certa sinistra. Io mi sono sempre ispirato a Gaetano Salvemini che uscì dal Partito socialista perché denunciò il conservatorismo delle aristocrazie operaie molto legate all’industrialismo politico. Io mi auguro che con Veltroni venga fuori una sinistra liberale come quella di Blair e Zapatero per liberarsi dall’ipoteca sindacale».
Ed è a questo punto che Pannella invita però a tenere d’occhio il contesto: «C’è un problema di rapporto tra testi e contesti. Veltroni ha parlato tenendo presente appunto il contesto da cui si muoveva. Questo contesto è tale che in questi giorni ho sentito anche D’Alema esprimersi a favore di un’azione riformatrice sulle pensioni, nella direzione nostra e di Padoa-Schioppa, ma ricordo che fece la stessa cosa anche anni fa contro Cofferati, allora segretario della Cgil, salvo poi cedere alle pressioni del sindacato. Voglio dire che poi se non c’è corrispondenza tra parole e fatti allora si torna a quello che io chiamo il kamasutra delle posizioni politiche. Rimangono solo belle figurine».
In ogni caso l’apertura a Veltroni, meglio «l’attenzione non critica», se da un lato potrebbe consolidare la permanenza dei radicali nel centrosinistra, dall’altro invece non smuove di un millimetro la convinzione pannelliana di andare avanti con la Rosa nel pugno. Nonostante la Costituente socialista che vede tra i suoi promotori l’altra gamba della Rnp, cioè lo Sdi di Enrico Boselli, che tra l’altro, a differenza di Pannella, è stato molto critico nei confronti di Veltroni.(...)

mercoledì 4 luglio 2007

L'Unità 4.7.07
A Milano con Rifondazione e lo Sdi
Mussi: accelerare la ricerca di unità
di Luigina Venturelli

Da soli non si combina molto.Soprattutto quando la sfida è di considerevoli dimensioni: «Se vogliamo difendere il bipolarismo, una delle poche cose buone acquisite dal nostro sistema politico, dobbiamo costruire una sinistra unitaria, che stringa una forte alleanza con il nascente Partito democratico». Fabio Mussi non ha dubbi: se il processo di innovazione politica avviato da Sinistra democratica, Rifondazione comunista e Sdi non avrà successo, si prospetta una deriva di «ipotesi trasformistiche e alleanze variabili».
Ieri a Milano per un incontro organizzato dalle tre forze della sinistra di governo, in occasione della presentazione del libro di Aldo Garzia, Olaf Palme, vita e assassinio di un socialista europeo (Editori Riuniti), il ministro dell’Università ha delineato la propria agenda dei prossimi mesi. Ovvero l’accelerazione di un processo che il Pd ha reso inevitabile: «Io lavoro per unificare a sinistra una vasta area, che va ben oltre i confini del Novecento.nessuno deve alzare le proprie bandierine identitarie, non stiamo discutendo tra membri della Seconda e della Terza Internazionale.C’è una grande discussione in corso, il movimento cresce, ora bisogna dargli una prospettiva». Quella appunto di «una sinistra forte che si allei con il Partito democratico di Veltroni». Per il leader in pectore del Pd, Mussi ha riservato parole di stima: «Lui può salvare il salvabile. Il Pd era una nave lanciata contro gli scogli e destinata ad affondare. Sono contento, spero che ce la faccia. Se c’è qualcuno che può salvare qualcosa è lui».
L’avvento del sindaco di Roma ha reso comunque urgente la compiuta definizione della sinistra democratica. Non a caso Mussi sta girando l’Italia, spesso per dibattiti e iniziative congiunte con Rifondazione e con lo Sdi: Orvieto, Genova, Viterbo, Napoli e, ovviamente, Milano. Ma senza farne un terreno perduto da riconquistare, perchè «il voto ha dimostrato che per il centrosinistra ci sono una questione settentrionale, una questione meridionale e una questione centrale. L’elezioni sono andate male dappertutto».
Faccenda impegnativa dunque. Ma l’appoggio di Rifondazione comunista è convinto: «Vogliamo costruire un processo unitario a sinistra - ha affermato il capogruppo alla Camera, Gennaro Migliore - per recuperare le idee forza che hanno costruito la sinistra europea: il pacifismo, un nuovo modello di sviluppo e la democrazia fondata sull’uguaglianza».
Molto più prudente invece Ugo Intini dello Sdi: «L’interlocuzione con la sinistra orgogliosa delle sue radici è utile, ma serve chiarezza: chi si riconosce nella sinistra europea è un interlocutore ma appartiene a un’altra famiglia. Si tratta dunque di interlocuzione fra alleati».

l'Unità 4.7.07
I graffi e i volti dei maestri dell’Africa
«Non fu un prodotto tribale ma di veri e propri artisti»
di Itala Vivan

Mendrisio, cittadina ticinese ai bordi del confine lombardo, offre manifestazioni culturali importanti. Oltre a essere sede dell’Accademia di Architettura diretta da Mario Botta, vanta un bel museo situato nel chiostro di un antico convento, dove fino al 22 luglio sono esposte 84 preziose sculture africane provenienti dalla collezione privata dello svizzero Horstmann. L’arte africana sta ormai conquistando la scena internazionale, e viene finalmente presentata con la dignità e il rilievo che le compete, grazie anche alla lunga opera di analisi condotta da critici e specialisti del settore fra i quali brilla l’italiano Ezio Bassani, cui si debbono altre rassegne epocali a Firenze, Torino, Montecarlo e altrove. Bassani, sapiente curatore della mostra di Mendrisio, ha articolato la sua selezione delle opere al fine di sostanziare un ben visibile discorso critico.
Nell’ambiente raccolto del chiostro dell’ex convento di San Giovanni, le sagome del mondo africano colpiscono l’occhio del visitatore per il rigore dello stile, l’uso culturalmente coerente dei volumi, delle forme e delle eleganti decorazioni, la forza suggestiva delle raffigurazioni. All’ingresso si viene accolti dal grande ovale di una maschera fang dai lineamenti severi e quasi malinconici: un volto di spirito-fanciulla sulle cui guance spicca una scarificazione che richiama alla memoria il logo enigmatico che contrassegna le opere dell’artista haitiano-americano contemporaneo Jean Michel Basquiat, costruite come graffiti cifrati, ricchi di rimandi africani. La maschera fang, ingrandita nello stendardo, invita a entrare nello spazio di significazione leggendo le opere africane come vive espressioni di ricerca formale, e non più, come si faceva in passato, come strumentali reperti etnografici.
La prima parte della mostra contiene dei pezzi sicuramente datati con la misurazione del Carbonio 14, oppure per analogia con altri simili; fra essi spicca una monumentale figura seduta, di artista mbembe (Nigeria), che risale alla seconda metà del Settecento e in origine ornava un grande tamburo. Qui il curatore Bassani argomenta la storicità dell’arte africana, solitamente negata in epoca coloniale, ma invece rintracciabile non solo grazie all’analisi formale, ma anche con precise rilevazioni tecniche. Una seconda sequenza offre opere di eccezionale livello formale pur nella varietà di provenienza, fra cui si ricordano una statua rituale songye (Congo) che indossa una maschera e inalbera un minaccioso corno rivolto verso chi guarda. Segue un piccolo gruppo di sculture luba (Congo) in cui è percepibile la differenza di mano dei singoli artisti che si affermano al di là degli schemi culturali comuni, così che il visitatore noti come anche l’arte africana sia figlia di artisti individuali che non erano mai anonimi, anche se i loro nomi - affidati alla tradizione orale - non sono pervenuti sino a noi, o forse sono tuttora celati nel segreto del patrimonio orale africano che è tendenzialmente chiuso all’orecchio esterno. A comprovare ulteriormente questa verità vi sono sette importanti sculture in cui si è ravvisata la mano di artisti ben identificabili, come è il caso del bellissimo poggiatesta attribuito al cosiddetto «Maestro delle capigliature a cascata», scultore luba shankadi presente anche nelle collezioni africane del Louvre.
Lungo i corridoi si allinea quindi una serie di oggetti e statue di dimensioni ridotte e anche ridottissime ma di straordinari pregi formali. Racchiuse in vetrine cubiche, immerse nella penombra conventuale, queste opere rivelano grande bellezza e forte originalità espressiva, sebbene siano spesso oggetti di uso comune oppure destinati a scopi rituali. Le figurine zaramo provenienti dalla Tanzania, i cucchiai bembe del Congo, il vaso zulu del Sudafrica e il gancio di artista punu a cavalcioni del quale è raffigurato un suonatore di tamburo, appaiono di fattura raffinata e insieme vivacemente originale.
L’allestimento, che nell’insieme appare semplice ed elegante, alieno da invadenze esornative, ha collocato le vetrine in modo da consentire al visitatore di girare intorno ai pezzi esposti e ammirarli a tutto tondo.
La maggior parte delle sculture proviene dall’area del Congo, ma molte regioni dell’Africa subsahariana sono rappresentate, sempre però in base a un criterio di eccellenza formale. Udo Horstmann, che ha costruito l’attuale raccolta dopo una serie di tentativi falliti, confessa «Per trovare i pezzi di sicuro valore formale ho dovuto studiare a lungo la produzione africana e guardare le grandi collezioni esistenti. Poi, attraverso l’osservazione, sono entrato in contatto con la bellezza segreta delle opere, e ho comperato quelle di cui mi sono innamorato». È normale che una collezione privata rispecchi le passioni del collezionista e ne riveli la competenza e i gusti. Ma nella mostra di Mendrisio all’eccellenza dei pezzi si sovrappone l’acuta e selettiva analisi di Bassani, che ha saputo fare di questa rassegna un serio ed efficace discorso critico, oltre che regalare ai visitatori un sicuro godimento estetico.
Uscendo da Mendrisio che, dice l’architetto Botta, è periferia di Milano, si osserva come grandi temi di cultura globale possano ridare nuova vita a territori già marginali di realtà metropolitane.


L’ARTE AFRICANA viene finalmente presentata con la dignità e il rilievo che le compete. Così la mostra ospitata dal Museo di Mendrisio che espone ottantaquattro sculture della collezione Horstmann





l'Unità 4.7.07
Tango Connection, nazifascisti protetti da Usa e Vaticano
di Nicola Tranfaglia

SAGGI Le verità del libro di Casarrubea e Cereghino ignorate dalla storiografia: dal ruolo di Evita Peron alle «coperture» su Portella della Ginestra

In Italia esistono ancora due grandi tabù a quasi vent’anni dall’inizio degli anni novanta che segnò ufficialmente la conclusione della guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica.
Il conflitto si estinse per una ragione decisiva, la morte di uno dei duellanti: il comunismo sovietico nel ’91 crollò come Stato e, almeno in parte, come dottrina universale. Ma in Italia, nella società politica, non si può parlare degli Stati Uniti e dei suoi governi con critiche aperte: in questo caso si è subito qualificati come antiamericani (confondendo gli Stati Uniti con i suoi governi e uno stato come l’intero continente) e accussati di apparire come subalterni al governo sovietico che non esiste più da oltre quindici anni.
Il secondo tabù è il trasferimento di questa idea sul piano dei mass-media e addirittura sul piano della ricerca storica. Ricordo che nel 2004, quando pubblicai il libro Come nasce la repubblica che mostrava il forte intervento della Chiesa e dei servizi segreti americani nel passaggio dello Stato italiano dal fascismo alla repubblica, i grandi giornali italiani non vollero discutere il libro neppure per contestarlo perché affrontava quei problemi e così fecero per la maggior parte i miei colleghi storici. La motivazione, mai esplicitata, era chiara: i risultati della ricerca metteva in discussione l’alleanza che allora si stabilì tra gli alleati e i fascisti nel processo di formazione della nuova Italia.
Ora la storia si ripete di fronte a Tango Connection di Giuseppe Casarubbea e Mario J. Cereghino (pp. 200, euro 9, Bompiani) che ricostruiscono con una ricca documentazione tratta da archivi italiani, inglesi, americani e sloveni la storia di quel passaggio e scavano a fondo nelle connivenze e nelle complicità dei fascisti di Salò nella costruzione del quadro politico e repubblicano del ’43-48. Dal libro, pubblicato dall’editore Bompiani, emergono episodi di notevole interesse.
Il primo, del tutto inedito, riguarda il rapporto tra il regime di Peron e l’Italia degli anni quaranta. I documenti inglesi descrivono con precisione di particolari le modalità della fuga in Argentina di Ante Pavelic, leader degli ustascia croati responsabile per lo sterminio di ottocentomila persone durante la seconda guerra mondiale e l’occupazione nazista e fascista della Croazia. Protagonista nel rendere possibile la fuga di Pavelic dall’Italia nel 1947 è il Vaticano con il travestimento in abito talare del criminale di guerra attraverso una nave che parte da Genova. La chiusura degli archivi della curia genovese decisa dagli ultimi vescovi della città rendono più difficile ma non impossibile quella sorta di operazione Odessa che si verifica nell’immediato dopoguerra per criminali nazisti e fascisti che si imbarcano dalla capitale ligure verso l’America centrale e meridionale.
L’altro episodio, ricostruito attraverso quei documenti dagli autori, riguarda la visita in Vaticano nel 1947 di Evita Peron. Grazie alla valigia diplomatica, la prima moglie del presidente-dittatore argentino svolge un’azione di finanziamento dei gruppi fascisti e di spostamento di danaro lasciato in Italia dai criminali nazisti e fascisti e trasportato senza colpo ferire in Argentina. Quel che impressiona è costituito dalle dimensioni dell’operazione e dalla rete di complicità ad alto livello che riguardano il governo italiano e quello vaticano per rendere agevole l’attività sotterranea della moglie di Peron.
Ma il volume non si ferma a queste notevoli acquisizioni giacché si occupa a lungo del progetto di golpe che matura in Italia, prima delle decisive elezioni politiche del 18 aprile, di un golpe sostenuto, dagli Stati dai fascisti e da apparati del regime fascista reintegrati nella nuova Italia (basta pensare al fatto che i primi quattro questori di Roma dell’età repubblicana) furono quattro ispettori dell’Ovra, la polizia polizia fascista.
Il golpe non avvenne solo perché il partito cattolico ebbe la maggioranza parlamentare assoluta in quelle elezioni.
L’ultimo episodio riportato riguarda ancora una volta la situazione siciliana e in particolare Portella della Ginestra. Qui troviamo la conferma della vicenda siciliana e della storia di Salvatore Giuliano e della sua banda che conteneva tra i suoi accoliti uomini che avevano militato nella Decima Mas del principe nero Junio Valerio Borghese o che lavoravano per la polizia italiana.
Si conferma attraverso nuova documentazione inedita i finanziamenti ottenuti dalla banda per la lotta contro socialisti e comunisti e vari retroscena della lotta, condita attraverso sanguinosi attentati contro sindacalisti e segretari delle Camere del Lavoro, in un periodo che dura fino ai primi anni sessanta. Quegli attentati ci ricordano i nomi di Antonino Azoti, Placido Rizzotto, Salvatore Carnevale, Accursio Miraglia e di tanti altri che attendono ancora oggi, nell’Italia del ventunesimo secolo, il riconoscimento concreto per le famiglie dei caduti che qualunque altro Stato avrebbe tributato dopo una vicenda così dolorosa.
Insomma, ci troviamo di fronte a un racconto che dovrebbero leggere le nuove generazioni che non l’anno vissuta ma che ritroverebbero nelle loro famiglie le tracce di un passato ormai remoto ma che parla a tutti di una storia incisa come una pietra nei decenni di un’Italia repubblicana tuttora poco sconosciuta e ancora da scoprire in alcune pagine fondamentali.

l'Unità 4.7.07
Legge 40: i numeri e le opinioni
di Carlo Flamigni


In questi ultimi due anni ho parlato a molte persone interessate alla terapia della sterilità: coppie che non riescono ad avere bambini, uomini e donne che hanno problemi genetici che possono essere trasmessi alla prole, medici, biologi, persino - tutti abbiamo qualche debolezza - uomini politici. Nessuno - ma proprio nessuno, come nella canzone - ritiene che sia possibile un qualsivoglia miglioramento della legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita per lo meno nei prossimi dieci anni: non esistono, né esisteranno a lungo, le condizioni politiche; viviamo sotto il tallone di ferro della dittatura dell'embrione; l'arroganza della politica del Vaticano - l'autorità direttiva esterna - ha raggiunto vette inesplorate e continua a crescere.
La rassegnazione, la innaturale dipendenza dalla suddetta autorità direttiva che caratterizza le scelte dei nostri ministri sarebbero addirittura ridicole se non avessero le gravi conseguenze che tutti abbiamo sotto gli occhi e che i dati recentemente resi noti dall'Istituto Superiore di Sanità confermano al di là di ogni dubbio. La conclusione è che non c'è niente da fare, dobbiamo tenerci questa brutta legge, oltretutto ispirata a una superstizione ridicola, che ci vuol far credere che l'embrione è uno di noi.
Questo preambolo è necessario per spiegare che non scrivo questo articolo per minare le basi di una legge dello stato né per proporre mediazioni che, lo so bene, nessuno prenderebbe in considerazione. Del resto, almeno per me, il tempo delle mediazioni è finito: le lascio tutte al nuovo partito democratico che mi sembra oltretutto assai ben rappresentato, su questi temi, da insigni parlamentari in fase di accoppiamento celebrativo (cilicio e martello?). Lo scopo di questo scritto è solo quello di far capire ai lettori dell'Unità il significato di questi primi dati del registro che il Ministro Turco ha presentato in Parlamento.
È vero anzitutto che, come qualcuno ha già dichiarato, la credibilità di questi dati è modesta. Abbiamo ragione di credere che alcuni centri non dicano tutta la verità e che altri non rispettino le regole; è certamente discutibile il confronto con i dati del 2003 e andrebbe probabilmente tentata una analoga operazione con quelli del 2000, non ufficiali, ma raccolti dallo stesso Istituto con molta serietà e impegno e oltretutto meno esposti agli effetti di qualche interferenza volontaria. Tutto ciò non toglie che dai dati del registro emergano alcune informazioni interessanti e attendibili che, guarda un po', confermano tutto quello che molti di noi stanno dicendo da molti anni. Ricordo anche ai lettori dell'Unità che su questi temi sono stati interpellati i 20 studiosi di fisiopatologia della riproduzione più noti nel mondo che sono stati concordi nell'affermare che le nuove norme ci avrebbero procurato un mare di guai e che i risultati sarebbero notevolmente peggiorati. Uno studioso australiano, Simon Brown, ha addirittura calcolato, tenendo conto dei risultati ottenuti dalla Monash University di Melbourne, che l'obbligo di fertilizzare solo tre oociti comporta una diminuzione della percentuale di gravidanze superiore al 20%.
Mi sembra comunque molto importante capire le ragioni per cui i dati dell'Istituto Superiore di Sanità sono di difficile lettura. Anzitutto, e per molte delle informazioni contenute, sarebbe stata necessaria una valutazione comparativa tra i risultati ottenuti dai centri «maggiori» e quelli dei centri che non arrivano a trattare più di un centinaio di coppie per anno, che sono purtroppo molto numerosi e che hanno - nella maggior parte dei casi - percentuali di successo piuttosto basse. Mescolare questi dati, in effetti, è motivo di confusione e rende i dati non intelleggibili: ad esempio, in un centro di primo livello, che ha ottime percentuali di impianto degli embrioni, trasferirne tre vuol dire ottenere una elevata percentuale di gravidanze trigemine, il che non è per i centri più piccoli che di gravidanze plurime praticamente non ne hanno, proprio perché le loro percentuali di impianto sono molto basse.
Il secondo problema riguarda la lettura complessiva dei dati.
Ottenere il 15% in meno di gravidanze e contemporaneamente registrare un maggior numero di aborti, di gravidanze extrauterine e di complicazioni ostetriche significa che la riduzione percentuale delle nascite è ancora più marcata e supera il 20%.
Il terzo problema riguarda il fatto che questi cattivi risultati sono stati ottenuti in una casistica selezionata, alla quale mancano un gran numero di casi «difficili» (sterilità maschili particolarmente severe, donne di età superiore ai 40 anni, coppie con problemi genetici) che sono andati a cercare miglior fortuna all'estero.
Leggo sui giornali l'opinione di illustri incompetenti del settore che affermano che a) i dati sono illeggibili e b) in ogni caso va bene così. In realtà, ma certamente questo discorso non può valere per gli incompetenti, i dati mostrano un certo quoziente di veridicità: ad esempio è aumentata la percentuale di casi nei quali è stato trasferito un solo embrione, cosa assolutamente logica visto che molto spesso i tre oociti di partenza non sono sufficienti, da cui dipende una diminuzione dei tassi di gravidanza; nelle donne più giovani sono invece aumentati i casi in cui si trasferiscono tre embrioni, il che consente di capire le ragioni dell'aumento delle gravidanze trigemine e gemellari. Che poi vada bene così è sin troppo chiaramente una sciocchezza e mai come in questo caso è corretto affermare che le sciocchezze degli incompetenti generano mostri.
Ho una ultima osservazione da fare: il dato più negativo che ho letto nel documento dell'Istituto Superiore di Sanità riguarda il fatto che i nostri centri non riescono a tenere sotto controllo i bambini che nascono a seguito dei loro trattamenti, un fatto molto grave che non ci consente di esprimere un giudizio attendibile sul risultato finale delle cure, il cui scopo è quello di far nascere bambini sani e normali. Mi auguro che le riflessioni del Ministro Turco, che ormai riguardano tutto lo scibile medico, riescano a concentrarsi per un attimo anche su questo problema.
Dunque - e lo dico a nome di un grande numero di persone competenti, che considerano questa legge un vero disastro, ma che malgrado ciò continueranno ad applicarla - si può essere certi che in Italia, da quando la legge è stata introdotta:
- sono diminuite le gravidanze e sono diminuiti i parti e ciò soprattutto nelle donne meno giovani, il cui numero è in costante aumento;
- sono particolarmente puniti i casi di sterilità maschile più severa;
- ci sono più aborti e più gravidanze extrauterine;
- le gravidanze da oociti scongelati sono ancora molto poche.
Che le coppie italiane si interroghino sulla opportunità di cercar fortuna nei laboratori stranieri, e non solo alla ricerca di donazioni di gameti e di indagini genetiche preimpiantatorie, è dunque logico.
Siamo ora in attesa delle nuove linee guida che, per quanto mi è dato sapere, verranno pubblicate per ferragosto, nella speranza che passino inosservate. Un trucco per poter introdurre innovazioni coraggiose? Per carità, l'ultimo uomo politico italiano dotato di coraggio è stato Garibaldi e certamente il colore preferito dai nostri ministri è il giallo. Lo scopo vero è quello di non richiamare troppo l'attenzione sulla mancanza di novità, a meno che non si voglia far passare per tale la concessione ai malati di AIDS di essere ammessi ai trattamenti (ostacolo già aggirato da tempo, ma non posso dirvi come, il giornale potrebbe cadere in mani ostili). Mi viene tra l'altro in mente che nessuno mi ha mai saputo dire con precisione chi sono i membri di questa fantomatica commissione che prepara le linee guida: mi è stato fatto il nome dell'ex presidente del Comitato Scienza e Vita, ma francamente questa mi sembra una barzelletta, una cattiveria che neppure il nostro Ministero della Salute merita.
Faccio comunque la mia previsione: non cambierà niente.
In conclusione - ma sto purtroppo ripetendo le stesse cose da alcuni anni - non mi pare che ci siano molti spazi per i laici, né per discutere né per mediare. E non mi pare che esista la minima volontà di occuparsi della sofferenza della gente, per l'etica della compassione dovremo ripassare. Del resto, la formazione di un grande partito di centro che guarda a sinistra (cioè di una nuova Democrazia Cristiana strabica) non lascia alcuno spazio alla discussione e alla mediazione sui temi «eticamente sensibili», e sono molto curioso di capire come Veltroni riuscirà a trangugiare questo rospo.
Per fortuna i fanatismi religiosi, per quanto intolleranti e prepotenti possano dimostrarsi, dovrebbero avere vita relativamente breve. Conto su questo per il giorno in cui i miei pronipoti cercheranno un figlio.



Ansa 3.7.07
EDITORIA: DENUNCIATI LICENZIAMENTI A LEFT, NUOVI SCIOPERI

ROMA, 3 LUG - Crisi profonda a Left-Avvenimenti: arrivano anche i licenziamenti dopo una serie di scelte che ha sconvolto l'assetto del giornale: è la denuncia dell'assemblea dei redattori che ha proclamato due giorni di sciopero, a partire da oggi, come si legge in una nota di stampa romana.
Non c'eè pace per il giornale nato dalle ceneri di Avvenimenti: già all'inizio della sua avventura furono defenestrati i due direttori, Giulietto Chiesa e Adalberto Minucci. A loro successe Pino Di Maula e poi furono scelti Alberto Ferrigolo e Andrea Purgatori per il rilancio della testata. Anche la nuova coppia di vertice ha avuto vita breve ed è stata congedata dall'editore in modo non propriamente soft. Alla guida è tornato Pino Di Maula, affiancato però da Luca Bonaccorsi, condirettore e anche editore. Contemporaneamente è uscito di scena l'altro editore, Ivan Gardini. Un terremoto dietro l'altro: in tanti addebitano questa successione di eventi al ruolo all'interno del giornale attribuito allo psicanalista eretico Massimo Fagioli.
L'assemblea dei lavoratori denuncia, si legge nella nota del sindacato, ''che stamattina a una collega giornalista, con un contratto in via di rinnovo, è stato intimato di non tornare in redazione dopo che la direzione del giornale aveva ricevuto la sua richiesta di praticantato d'ufficio''. ''Negli scorsi giorni a una collega grafica - si legge ancora - è stato proposto, al posto di un contratto annuale in scadenza, il rinnovo per i soli due mesi estivi. Riteniamo trattarsi di due chiari casi di ritorsione nei confronti dei colleghi precari per aver partecipato alle azioni sindacali delle scorse settimane. A questi vanno aggiunti l'illegittima dequalificazione e il demansionamento del direttore Alberto Ferrigolo e del caporedattore Marco Romani''.
''Tutto questo - denuncia l'assemblea - mentre gli stipendi arrivano con un mese di ritardo, a causa di una annunciata crisi economica che però non ha impedito la promozione di alcuni e l'ingresso in redazione di nuovi colleghi senza alcuna comunicazione alla rappresentanza sindacale in violazione del dettato contrattuale. L'assemblea denuncia la mancanza di correttezza nei rapporti di lavoro, le continue violazioni sindacali di un amministrazione che non risponde alle convocazioni dei sindacati ma che in altre sedi pubbliche parla di socialismo e di diritti. Per tutte queste ragioni l'assemblea dei lavoratori, a larga maggioranza, proclama due giorni di sciopero, oggi 3 luglio e domani 4''. (ANSA).

Liberazione 4.7.07
L'ha riproposto Mussi, risposta favorevole da Russo Spena. Oggi comincia una serie di incontri bilaterali
Tanti sì alla "cosa rossa", in gara già alle comunali


La "cosa rossa", primi passi. Non solo parole ma ora anche primi passi. Il percorso che porterà alla costruzione di "qualcosa" che unisca la sinistra sembra essersi accelerato. In queste ore, in questi giorni. E' di ieri una lunga intervista al leader della Sinistra democratica, il ministro dell'Università, Fabio Mussi. Che - in poche occasioni così esplicito - dice di "no" alle avance formulate da Veltroni perché ritorni nel partito democratico. Si mostra un po' tranchant nei confronti di Fassino (che in un'altra intervista, sempre su La Stampa imponeva al ministro di chiedergli scusa), ma soprattutto pone un aut aut: "O alle amministrative del prossimo anno ci si presenta insieme o il progetto di unire la sinistra rischia il fallimento.
Un'idea, di cui aveva già parlato anche Franco Giordano, che non sembra entusiasmare i verdi - Pecoraro Scanio ha già detto che gli sembra una strada non percorribile, se non in qualche città - ma piace a tutti gli altri. Ora però si proverà a uscire dal generico. E da stamattina, infatti, la Sinistra democratica comincerà una serie di incontri con le altre forze di sinistra (con tutti quelli che si collocano alla sinistra del piddì, per capire) con l'obiettivo di provare a stringere. Con un tema sopra agli altri: la definizione di un percorso preciso che porti al varo di liste unitarie già dalle comunali del prossimo anno. Dappertutto.
Il ciclo di incontri comincerà oggi alle 11, quando Mussi si vedrà a quattr'occhi con Diliberto. Le altre forze le vedrà entro l'11 luglio.
Tutto ciò mentre arrivano già le prime risposte. Pubbliche. E sono di sostegno all'idea di liste unitarie. Per tutte valgano le parole di Giovanni Russo Spena, capogruppo del Prc a Palazzo Madama. Lui dice di essere "d'accordo con Mussi e che il nuovo soggetto deve essere in grado di presentarsi unito già alle prossime amministrative". Lo impone "il quadro politico e soprattutto le attese della nostra gente". Certo, occorre procedere speditamente, "stando comunque attenti a non bruciare le tappe". Insomma, l'unità non è dietro l'angolo: "Va costruita", rafforzando intanto l'unità d'azione.
Già, ma come costruirla? Su questo da ieri è in campo una proposta formulata da Pietro Folena. L'esponente della Sinistra europea, presidente della commissione Cultura della Camera, parte dall'analisi di quel che è avvenuto dopo l'arrivo di Walter Veltroni. Pe lui, la candidatura del sindaco di Roma in qualche modo "rappresenta una sfida anche per la sinistra", scrive in un editoriale per "Rosse di sera", un'agenzia-rivista telematica. Tradotto significa che per Folena anche il popolo della sinistra, tutti coloro che insomma non si riconoscono nel progetto del piddì, debbano dar vita alle primarie. Magari non il 14 ottobre ma in autunno certamente sì.
Primarie, allora. Dove le persone scelgano "il proprio programma e la leadership". Sarebbe un modo per "accelerare il processo unitario". Folena in più ci mette anche un suggerimento: immaginando alla guida della "cosa rossa" insieme un uomo e una donna. Per rendere tangibile una nuova politica di genere.
Per Folena comunque proprio la Sinistra europea "deve essere la trazione anteriore dell'unità a sinistra", mettendo da parte le polemiche interne. "Non bisogna essere spaventati o incerti - scrive nel suo editoriale - nel mettersi in gioco, perché i risultati positivi dell'innovazione a sinistra si sono già visti. Senza la svolta nonviolenta, senza la messa in discussione del Novecento, oggi sarebbe impossibile qualsiasi dialogo con altri pezzi della Sinistra. Invece, proprio grazie a quel percorso, oggi c'é la prospettiva di un soggetto unitario e plurale capace di parlare alla pari coi moderati dell'Unione".
L'idea delle primarie, comunque non appassiona tutti. Fabio Mussi, ai giornalisti che ieri gli chiedevano un parere, si mostrava scettico. "Non farei un gioco a specchio con i democratici", ha risposto. Di più: "I partiti non nascono dalle primarie. I democratici americani fanno le primarie ma son nati da una rivoluzione e dalla guerra civile. Poi fanno anche le primarie".
Non è una bocciatura, comunque. Spiega Carlo Leoni, anche lui della Sinistra democratica. "Sono d'accordo con Folena che bisogna inviare un segnale per cui la gente deve partecipare attivamente alla costruzione del nuovo soggetto plurale. Senza questa partecipazione non si andrà da nessuna parte, e probabilmente, il soggetto non nascerà mai". Ma anche a lui la logica delle primarie - quasi in concomitanza con quelle che incoroneranno Walter Veltroni - sembrano "una semplice rincorsa" del piddì. Rivelerebbero, forse, una logica subalterna. L'accelerazione sul soggetto unitario, però, va fatta. E subito.
s.b.

La Stampa 4.7.07
Mostra al Quirinale
La scultura emozione segreta di Calatrava
di Lea Mattarella


Sono un fanatico di Roma. Questa città è la prova di quello che penso da sempre: l'architettura serve, è funzionale, ma ciò che conta è l'emozione». Santiago Calatrava, architetto spagnolo (è nato a Benimamet, in provincia di Valencia nel 1951) che vive da tempo a New York, intona in perfetto italiano la sua dichiarazione d'amore nei confronti della città eterna. E qui per presentare la mostra personale che si apre oggi alle Scuderie del Quirinale e si potrà visitare fino al 2 settembre. «Se dovessi indicare a mio figlio una città dove studiare architettura non avrei dubbi, gli direi di venire qui. Picasso sosteneva che la pittura si impara nei musei e non nelle scuole e io credo che l'architettura si apprenda nelle strade. E allora quale posto migliore di Roma? E un luogo universale, appena arrivi te ne senti subito parte, io mi considero un romano "d'altrove" e dico sempre che questa città è "ad alta velocità visuale", l'occhio non si stanca. Se Vienna è la musica, Roma è l'architettura che poi altro non è che la sintesi delle arti, il momento in cui i diversi linguaggi convergono».
Per dimostrare l'armonia tra le diverse espressioni ecco questa mostra, dove non sono raccolti plastici e maquettes, ma disegni e sculture. Un lato inusuale, intimo e segreto del suo immaginario che però suggestiona in maniera totalizzante le architetture, progettate ed eseguite in giro peril mondo. Mettendo insieme scultura e architettura, Calatrava somiglia un po' ad un artista antico, tra Brunelleschi e Bernini.
Nei suoi taccuini ci sono occhi disegnati che, senza troppo sforzo riconosciamo come le fonti del Planetarium della Città delle arti e della scienza di Valencia. A smentire il luogo comune che nessuno è profeta in patria, Calatrava ha costruito proprio qui uno spazio completamente inventato, un insieme di edifici che funziona un po' come la Piazza dei Miracoli a Pisa, con un dialogo silenzioso tra materiali, colori, pesi e leggerezze.
«Realizzando questa mostra ho aperto una stanza segreta che conserva schizzi, pensieri, sogni continua l'artista-architetto-ingegnere (dopo gli studi di architettura in patria si è laureato in ingegneria in Svizzera) ho voluto mostrare una parte di me un po' rara e sconosciuta, che non è il mio "modus vivendi" ma comunque sono io. E il laboratorio dove nascono le mie forme».
Infatti questo scrigno tutto da svelare contiene proprio la chiave di lettura per l'architettura di Calatrava. Dove ogni cosa ha inizio dalla natura: dall'uomo, dagli alberi, da una semplice foglia. Lo suggeriscono chiaramente i disegni e le sculture in mostra. Ci sono corpi acquarellati che sotto il nostro naso si trasformano in colonne scolpite e poi in grattacieli, come quello progettato per Chicago, la «spirale». E se la figura umana si distende e inarca un po' ecco comparire l'immagine di un ponte che illumina anche i suoi, celebri, che ha realizzato da Copenhagen a Lucerna, da Parigi a Barcellona, da Londra a Buenos Aires, da Stoccolma a Dallas, da Berlino a Reggio Emilia.
Dieci anni fa Calatrava ha immaginato anche il quarto ponte sul Canal Grande a Venezia. In Italia sembra proprio che le grandi opere di architettura debbano sempre essere accompagnate da polemiche. Non è sfuggito a questo destino neanche il progetto dell'architetto spagnolo. Costa troppo, è irrealizzabile, i cittadini non lo vogliono, non va bene per i disabili, crollerà. Ma che fine ha fatto questa struttura che nei progetti avrebbe dovuto quasi lanciarsi sulla laguna? «A settembre si camminerà sul ponte. L'avventura straordinaria di costruire qualcosa del genere a Venezia diventerà realtà. Certo non è facile edificare in un posto così eccezionale e siamo in un mondo democratico per cui è giusto anche tener presente le obiezioni della signora casalinga dice, forse un po' ironico ma per niente irritato ma il ponte è pronto, è a Marghera e aspetta solo di essere messo al suo posto».
Intanto, tra le sale delle Scuderie, si incontrano ponti anche tra le zampe di cavalli picassianamente stilizzati, tra
bronzi intitolati alla "Nascita di una foglia", oppure in un ebano senza titolo che svolazza sul mondo, dove si sente l'eco del grande scultore rumeno Costantin Brancusi: «Lo amo molto, mi piace il suo incantarsi infantile di fronte alla natura e il suo fare intimo, che è un po' il senso di questa esposizione». Tra marmi, legni, alabastri, argenti, ceramiche e sculture che si muovono quasi respirassero, c'è un unico plastico ed è ancora un omaggio a Roma: il progetto per la città dello sport a Tor Vergata. Il cantiere è aperto e la gigantesca struttura dovrebbe inaugurarsi nel 2009 in occasione dei mondiali di nuoto. «E una sfida e avviene proprio qui, dove da secoli si dimostra che è possibile conciliare contesto urbano e ambizione artistica».

La Stampa 4.7.07
"Se resta lo scalone il governo va a casa"
Intervista a Franco Giordano di Antonella Rampino


Sulle pensioni il governo è stretto in una morsa, e sull'orlo di una crisi. Non solo l'ala liberal dell'Ulivo, ma soprattutto Rifondazione Comunista, minaccia di non votare la riforma se non arriverà ad abbattere il cosiddetto scalone. A costo di mandare a casa Prodi. Lo dice il segretario Franco Giordano, avvertendo che «Rifondazione non ci sta, neanche se la proposta Damiano sugli scalini dovesse essere accettata dalla Cgil».
Davvero siete disposti alla crisi?
«Una parte della coalizione ci accusa di voler spezzare la corda. Dov'erano quando abbiamo trascorso mesi e mesi a discutere sull'abolizione dello scalone, che poi è entrata nel Programma? Tutti hanno condiviso, a cominciare da Damiano. Se il governo cadrà, non saremo noi i responsabili. In questo anno, molti punti del Programma sono stati modificati. Su questo, sulle pensioni, non si può transigere».
È la vostra linea del Piave. È così importante il dettaglio della proposta Damiano, che pure coincide quasi con la vostra?
«Io trovo interessante la proposta Damiano. Ma è singolare che si punti a una ripresa di consensi al Nord, e poi non si voglia mettere in pratica una politica di consensi di massa. In tutte le fabbriche del Nord c'è un sentimento che va dal disincanto alla rabbia distruttiva. Tutti vogliono andare in pensione a 57 anni, con 35 anni di lavoro: come prevede la legge Dini, che non fu ben accetta agli operai, e che le destre hanno modificato assai in peggio: Adesso, bene per l'aumento a 58 anni, ma che siano esclusi tutti, e dico tutti, i turnisti, e chi ha 40 anni di contributi: Ma non si può proporre che poi, automaticamente, tra tre anni si torna allo scalone della Maroni».
Giordano, sta dicendo che gli operai non sono la base del Partito Democratico?
«Tutti sanno che Rifondazione, al contrario del Pd, non è equidistante tra impresa e lavoro, né ci riferiamo, come fa Veltroni, a un astratto cittadinoconsumatore. Io penso che le difficoltà dell'Unione al Nord stiano proprio nella perdita di consenso nel mondo del lavoro».
Ma non è la Cgil che difende il lavoro?
«Per ora questa battaglia la stiamo facendo insieme. Vedo che la Cgil sta sostenendo le ragioni del Programma dell'Unione, e nella polemica con D'Alema Epifani l'ha ribadito. Mi piacerebbe, visto che D'Alema dice che andare in pensione a 57 è un privilegio, portarlo a fare una passeggiata a Mirafiori, magari in assemblea con gli operai».
E se la Cgil firmasse quell'accordo col governo?
«Attualmente non c'è alcun accordo. Se ci fosse, se la Cgil controfirmasse la proposta Damiano, noi non la voteremmo comunque in Parlamento».
Anche a costo di far cadere il governo...
«Abbiamo tempo per discutere. Ma siamo molto determinati. Perché vede non è un problema di conti. I lavoratori si sono pagati l'abbattimento dello scalone con lo 0,3 dell'aumento della contribuzione. Parte di coloro che ne hanno diritto, poi in pensione non ci vanno: un 30 per cento, dicono le statistiche. L'Inps è in salute. No, non è un problema di conti. E' un problema politico. Il futuro Pd, con Veltroni, pensa che bisogna redistribuire tenendo fuori i profitti e la ricchezza. E' per questo che si sottrae agli anziani per dare al giovane precario, è per questo che si mettoni i giovani contro gli anziani».