Repubblica 6.7.07
Il presidente della Camera avverte: "Sono in gioco le ragioni del nostro essere di sinistra"
"Non vogliamo la crisi, ma il rischio c'è"
Sradicamento. Il manifesto di Montezemolo vuole sradicare la sinistra dal Nord del Paese
Soggetto unitario. Accelerare la costituente della sinistra di alternativa
di Massimo Giannini
Il presidente della Camera avverte gli alleati: il programma di governo deve essere rispettato
"Sulle pensioni non voglio la crisi ma ammetto che il rischio esiste"
Bertinotti: socialmente intollerabile alzare l´età per gli operai
Il caso francese Anche Sarkozy pur con una soluzione sbagliata affronta il tema del lavoro
«Non possumus...». C´è un´indignazione vera, ma anche una sofferenza acuta, nelle parole di Bertinotti. Discutiamo da un´ora, nel suo studio a Montecitorio. Sulla riforma delle pensioni, oggi come nel 1998, il governo di centrosinistra rischia di cadere. E dopo un lungo colloquio con il presidente della Camera, si capisce che il pericolo è reale. Rifondazione comunista (di cui Fausto il Rosso resta il faro, nonostante il riserbo istituzionale che s´è imposto) non può accettare né lo «scalone» di Maroni, né lo «scalino» di Damiano. Non può accettare nessun innalzamento «in corsa» dell´età pensionabile per la categoria degli «ultimi nella moderna gerarchia sociale»: gli operai. Quelli che «hanno lavorato duro per una vita». Quelli ai quali, oggi, non puoi dire «lavora un altro anno». Su questo punto non c´è vincolo di coalizione che tenga. Ogni violazione del patto che lo Stato ha sottoscritto con queste persone «sarebbe socialmente intollerabile». Bertinotti usa la formula di Pio IX ai tempi della Questione Romana: «Non possumus».
Non è un monito a Prodi. Non è una minaccia al governo. Il presidente della Camera non vuole condizionare la trattativa, mettere veti alla maggioranza, imporre la linea al suo partito. Fa un ragionamento politico-culturale. Parte da lontano, e ripete quello che ha scritto nell´editoriale della rivista «Alternative del socialismo», in uscita nei prossimi giorni: «La sinistra si trova oggi di fronte a una sfida drammatica, forse la più difficile della sua storia: quella dell´esistenza politica. Quello che si affaccia è l´orizzonte di un vero e proprio declino». Di fronte alla ventata di «organicismo liberista» che attacca in radice la politica, «l´eredità del movimento operaio del ‘900 rischia di essere cancellata». «Io - aggiunge - resto ancorato al cleavage destra-sinistra, e resto affezionato all´idea di sinistra che ci ha insegnato Norberto Bobbio, con il suo discorso sull´uguaglianza».
«Vede - ragiona il leader - io capisco che la politica è sempre più lontana dalla gente. Ma non posso accettare che lo "straniamento" si spinga fino a questo punto. Non posso accettare che i politici non sappiano più cos´è la vita delle persone in carne ed ossa». Una volta, soprattutto a sinistra, le cose non andavano così. «Ricordo Giorgio Amendola, che veniva alla Quinta Lega di Mirafiori, guardava in faccia quelle persone, ci parlava. Poi il partito decideva a modo suo, ma c´era ascolto, c´era dialogo. Oggi no. Oggi il problema delle pensioni viene declinato in due soli modi. Si dice che l´età pensionabile va innalzata perché le aspettative di vita si sono allungate, e perché il sistema non è in equilibrio dal punto di vista finanziario». Sono risposte «agghiaccianti». «Dove sono le donne e gli uomini, dietro queste risposte?». C´è quasi rabbia, nelle parole del presidente della Camera: «Ci sono 130 mila persone che l´anno prossimo hanno maturato il diritto ad andare in pensione. Molte hanno lavorato 35 anni in fabbrica, 48 ore a settimana. Con salari minimi, con turni massacranti. Per loro andare in pensione è come raggiungere un´oasi. E se tu gli sposti l´oasi, anche solo di un metro, commetti un delitto sociale. Un delitto che noi non possiamo e non vogliamo commettere...».
Questo, dunque, è il paletto invalicabile della trattativa. Qualunque intervento sull´età pensionabile deve «salvare» i diritti acquisiti degli operai. «Sono pochi? Può darsi. Ma io voglio guardare negli occhi ed ascoltare le lavoratrici tessili del biellese, o i lavoratori metalmeccanici che non hanno avuto la fortuna di trovarsi un Marchionne come capo-azienda. Sono persone che hanno maturato un diritto sacrosanto, e noi abbiamo il dovere di garantirglielo. E sa perché? Non per ragioni "di classe", come qualcuno potrebbe pensare. Ma proprio per l´idea di sinistra che ci ha insegnato Bobbio, quella che ruota intorno all´uguaglianza. Nella nostra società questi sono gli "ultimi". Questi sono i "deboli". E io, che rifiuto l´idea di vederli contrapposti ai giovani in un presunto e per me insostenibile "conflitto generazionale", voglio difenderli. È esattamente questa la ragione per cui noi facciamo politica, e la ragione che nel secolo scorso ha consentito alla stessa politica di raggiungere il suo punto più alto, ponendosi l´obiettivo della trasformazione radicale della società».
Questa visione, che i suoi critici definiranno vetero-operaista, non lo spaventa: «Certo, diranno che sono classista, diranno che sono conservatore. Ma in realtà garantire i diritti acquisiti a quelle persone è una risposta doverosa persino nell´ottica del "capitalismo compassionevole"...». Quello che Fausto il Rosso non accetta è che il problema di quelle «persone in carne ed ossa» venga rimosso, come se non esistesse. «L´ho detto a Padoa-Schioppa, quando è stato qui da me: io capisco che il tuo vincolo è l´equilibrio finanziario. Ma tu cosa rispondi al mio vincolo, che invece è la tutela che dobbiamo a quei lavoratori?». Allo stesso modo, non sopporta che il problema venga aggirato, con quella che chiama «la formula ambigua dei lavori usuranti». «Che vuol dire lavori usuranti? C´è chi dice che è usurante fare la maestra d´asilo. E come dovremmo definire allora il lavoro di chi fa il turnista in un´azienda meccanica, o di chi passa la giornata davanti a una pressa? Sono pronto a sostenere il confronto in un´assemblea sindacale, di fronte ai lavoratori del pubblico impiego. Sono pronto a spiegare perché è legittimo chiedere a loro di andare in pensione più tardi. Durante la vita lavorativa, hanno beneficiato di condizioni che un operaio non raggiungerà mai: contratti, orari, disciplina normativa, livelli retributivi, garanzie occupazionali. Non è giusto difendere la disuguaglianza di condizioni mentre si lavora, e poi pretendere l´uguaglianza solo quando si va in pensione».
Come si può trovare l´intesa, al tavolo con le parti sociali, il presidente della Camera non può e non vuole dirlo. «Non sta a me indicare soluzioni. Le trovino loro...». Purchè le trovino. Ignorare il tema non si può: «Capisco un approccio alla Sarkozy, che brutalmente dice ai lavoratori "vi do più soldi, vi detasso gli straordinari, purchè lavoriate di più". Per me è una soluzione impraticabile. Ma è il segnale che si riconosce l´esistenza di un problema, anche se gli si dà una soluzione sbagliata». Qui, secondo Bertinotti, si rischia di dare una soluzione sbagliata proprio perché non si vuole vedere il problema. E la ragione, secondo le parole usate nell´editoriale per la sua rivista, sta anche e soprattutto «nell´insidia neo-borghese», cioè in quella tendenza di una certa classe dirigente, nel mezzo della transizione incompiuta, a voler «precludere alle sinistre critiche ogni possibilità di essere attive nei processi politici». Il «manifesto» di Montezemolo all´assemblea di Confindustria è «la punta dell´iceberg». E´ il paradigma di una strategia che mira innanzitutto a «sradicare la sinistra dal Nord del Paese», dove c´è «la frontiera dell´innovazione capitalistica europea», e dove «se sei a rischio come sinistra di alternativa, sei a rischio per il futuro». E in subordine, mira a «cancellare le categorie di sinistra e di destra», in nome di una presunta «neutralità» delle politiche e di una palese «inutilità» della politica. E punta a creare uno spazio in cui, alla fine, «tutto diventerebbe centro». Nelle sue diverse versioni e nelle sue possibili conformazioni.
Lui non lo dice espressamente. Ma c´è una sponda politica, per questo disegno tecnocratico. E non è solo quella di Casini. È anche quella di Dini. Stretta in questa tenaglia, secondo l´analisi di Bertinotti, la sinistra radicale ha due doveri. Il primo è accelerare al massimo «sulla costituente del soggetto unitario e plurale della sinistra di alternativa», che deve ambire alla «ricerca sul socialismo del XXI secolo». Il secondo è riaffermare con orgoglio il suo «non possumus» sulla previdenza. La domanda cruciale è: fino a che punto? Si può arrivare a una crisi del governo Prodi sulle pensioni, come accadde nel ´98? Il presidente della Camera pesa le parole: «Non si può escludere nulla. Certo oggi le condizioni sono diverse dal ´98. Allora facemmo una scelta politica dolorosa ma necessaria. Prodi scelse una strada che noi non potevamo imboccare, e decidemmo di riprenderci la nostra autonomia. Ma allora c´era solo un patto di desistenza. Oggi c´è invece un´alleanza organica, e c´è un programma comune che, piaccia o no, tutti gli alleati hanno sottoscritto. Oggi tutti, da Rifondazione al Pdci ai Verdi, capiscono che questo governo e questa maggioranza rappresentano l´equilibrio più avanzato possibile, per le forze della sinistra di alternativa. Dunque nessuno vuole la crisi. Ma questo non vuol dire che il rischio non c´è...».
Il quadro politico è così «sfarinato», si sarebbe detto ai tempi di Rino Formica, che Fausto il Rosso vede un pericolo diffuso, e annidato ovunque: «Le pensioni arriveranno al voto qui alla Camera in autunno. Ma prima avremo l´ordinamento giudiziario, con le tensioni tra Mastella e Di Pietro. Poi c´è un altro focolaio, tra conflitto d´interessi e riforma delle tv. Per non parlare della legge elettorale, che resta sullo sfondo, irrisolta...». Insomma, Bertinotti non lo dice, ma applica al governo la metafora del «vestito liso»: si sta logorando, e dunque si può strappare. In ogni momento, e in qualunque sua parte. Per evitarlo c´è un solo modo: una guida politica forte. Molto più forte, molto più incisiva. Che guidi i processi, e non si faccia travolgere. Ma questo è un problema che non si può porre al presidente della Camera, perché riguarda solo il presidente del Consiglio.
Repubblica 6.7.07
L'ipotesi al conclave in Ciociaria. Giordano parla di democrazia del pubblico e ricompatta la maggioranza del partito
"Primarie sull'uscita dal governo" Comunisti o no?
Rifondazione pensa di consultare la base. E non si scioglierà
di Goffredo De Marchis
ROMA - Democrazia del pubblico, partecipazione attiva. Franco Giordano propone il modello del rapporto diretto con gli elettori per le decisioni che attendono Rifondazione comunista. La svolta della Cosa rossa. La domanda fondamentale di Prc: come stare al governo e nella maggioranza. Il responsabile dell´organizzazione Francesco Ferrara lancia la sua proposta: consultazione degli iscritti e degli elettori sulla presenza del partito al governo. Vale a dire primarie sul sì o no all´uscita. Da tenere insieme con gli altri partiti della sinistra radicale (Sd, Pdci e Verdi) a un anno e mezzo dalle elezioni del 2006. Cioè alla fine del 2007, tra pochi mesi.
Così vuole procedere Rifondazione. Guardando in faccia il suo popolo, stringendo il legame con i protagonisti del conflitto sociale, con i no global e con i comitati e le associazioni della sinistra, ossia con i movimenti. E´ la linea indicata dal segretario Giordano al conclave di Segni, in Ciociaria, dove si sono riuniti i dirigenti della maggioranza. A porte chiuse. Oggi la discussione continua, ma già ieri Giordano ha incassato il sostegno dei vertici in vista del comitato politico di metà mese e del prossimo congresso fissato nel 2008. Il capogruppo alla Camera Gennaro Migliore, dopo aver ascoltato l´intervento del leader, ha proposto di assumere la relazione come base del dibattito interno annunciando fin d´ora la conferma di Giordano alle assise del prossimo anno. Con Giovanni Russo Spena, il presidente dei senatori, l´asse intorno a Giordano viene confermato.
E´ il segnale che il segretario aspettava, quello che serve a presentare la maggioranza bertinottiana unita e a interrompere il gioco delle correnti dentro Prc. Giordano non vuole sciogliere Prc, ma invita il partito a proseguire sulla strada della Cosa rossa. Tanto più che nemmeno gli altri soggetti hanno intenzione di ammainare le bandiere. Non lo vuole Fabio Mussi per Sinistra democratica, non è intenzione di Oliviero Diliberto, per non parlare di Alfonso Pecoraro Scanio che il simbolo del Sole che ride lo difende con i denti. Da solo, si dice nei Verdi, vale uno zoccolo duro sufficiente a resistere nel panorama politico italiano. «In cosa l´esistenza di Rifondazione impedisce la costruzione di una sinistra unita?», è la domanda retorica di Giordano. In più Prc non vuole abbandonare l´esperienza di Sinistra europea. La linea piace anche a Fausto Bertinotti, che da una parte in questi giorni ha sollecitato il partito a non fare passi indietro sulla Cosa rossa e dall´altra lo ha pungolato a non perdere di vista il conflitto sociale.
Si è discusso anche di pensioni. Ed è alla trattativa sulla previdenza che Ferrara ha legato il suo discorso. In caso di un accordo adesso, gli elettori comunisti vanno assolutamente ascoltati. Sempre che non si vada verso un rinvio, che non dispiacerebbe a Rifondazione, ma sarebbe un guaio per Prodi. C´era anche il dissenso, a Segni. Il sottosegretario Alfonso Gianni chiede che Prc sia ancora più decisa sulla strada dell´unità a sinistra. «Non parlo di scioglimento, ma dobbiamo capire se la fase di Rifondazione comunista è finita e non è il momento invece di rifondare la sinistra». Contro la Cosa rossa va il documento delle donne. Ricalcando le posizioni di Ramon Mantovani. In quel testo vengono espressi tutti i dubbi sull´alleanza con gli altri partiti della sinistra alternativa. Ma Giordano, per tenere tutti dentro il suo processo, parla di tappe intermedie. E le garanzie sul non scioglimento vanno in questa direzione.
Repubblica 6.7.07
Il secolo dell'amore
La Fondazione Valla ripropone i classici medievali
di Nadia Fusini
Ci sono trattati rivolti ai monaci
il linguaggio si infiora di accese metafore
Tutti ricordano le figure di Tristano e Isotta o i versi di Maria di Francia
Fu un´epoca di grande rinnovamento spirituale e culturale con esperienze molto diverse
Forse bisognerebbe sempre mettere nel suo proprio contesto una lettura. O addirittura, forse il libro dovrebbe scegliere i suoi lettori tra coloro che su un certo tema sono i più avvertiti. D´altra parte, se fossero il contesto storico o concettuale o dottrinario a dirigere il traffico, rimarrebbero assai spopolati i sentieri che portano a certi libri; anzi, certi sentieri di lettura si richiuderebbero come quelli del bosco, che se non mantenuti dal passaggio di camminatori e cacciatori, semplicemente scompaiono.
In una memorabile impresa di ormai vent´anni fa, Robert Alter e Frank Kermode - l´uno biblista, l´altro critico letterario, fornirono una literary guide to the Bible, una «guida letteraria» al libro dei libri, alla Bibbia. L´idea era che a un libro si può arrivare, come a una radura, ognuno per il proprio sentiero interrotto, e nella radura ognuno può sostare a piacimento apprezzandone in modo personale le qualità - profumi, sapori, atmosfere.
Nel caso specifico, era sotto gli occhi di tutti che da secoli la Bibbia non raccoglieva i suoi lettori alla medesima condivisa meditazione. Altrettanto evidente che nelle sue forme moderne, quella stessa tradizione negava alla Bibbia l´importanza che essa aveva avuto nel passato. E tuttavia, nella nostra cultura, che nelle sue espressioni più alte ripudia ogni forma di fondamentalismo e considera anacronistica ogni interpretazione autorizzata e ritiene pericolosa e antiquata ogni accettazione acritica dell´autorità, c´è forse chi mai vorrà smettere di leggere la Bibbia? Ripudiare l´eredità biblica? Claro que no.
La verità è che - i più innocenti di noi senza saperlo, i più colti in piena consapevolezza - con la lingua e con l´immaginazione biblica convivono da secoli. Nei paesi anglosassoni più che in quelli mediterranei. Ma anche da noi è inimmaginabile espungere dalla nostra tradizione letteraria e di pensiero i grandi testi dell´Antico e Nuovo Testamento.
Tanto per fare un esempio: come faremmo a comprendere il discorso amoroso se non avessimo letto il Cantico dei Cantici?
Con relativi commenti? E le lettere di Paolo? O, se per questo, i Trattati d´amore cristiani del XII secolo, appena editi per la Fondazione Valla (pagg. 317, euro 279) per la cura di Federico Zambon, che di quelle letture sono farciti?
«Sotto il segno dell´amore si presenta quel rinnovamento spirituale e culturale» che avviene in Europa nel secolo XII, afferma Zambon, commentando in questo primo volume con impareggiabile eloquenza e sapienza La contemplazione di Dio e Natura e Dignità dell´amore di Guglielmo di Saint-Thierry; e L´Amore di Dio di Bernardo di Clairvaux.
Il secolo dell´amore, dunque. Già, ma quale amore? Conoscevamo quel tipo speciale di amore, la fin´amor, che all´alba del medesimo secolo nasce nelle corti occitane: un amore tra dame e cavalieri, che vagheggia un piacere sempre differito, vuoi perché la dama si nega, vuoi perché l´amante ama di lontano.
Sì che non v´è che godimento del fantasma. Conoscevamo le variazioni dei temi trobadorici quando si espandono nel nord della Francia e in altri paesi europei. Avevamo letto la storia di Tristano e Isotta, perla tra le perle del grande mito medievale dell´amore-passione; e i romanzi di Thomas e Béroul, di Chrétien de Troyes, i Lais di Maria di Francia e la poesia latina dei goliardi - godereccia, sensuale. E avevamo studiato la sintesi teorica che verso la fine del secolo tenterà Andrea Cappellano nel suo trattato De Amore, ispirandosi ai grandi modelli ovidiani dell´Ars Amatoria e dei Remedia amoris. E sapevamo che proprio all´interno di questo quadro sviluppa una riflessione monastica sull´amore; ma quanto ricco e profondo fosse l´intreccio e quanto grande il valore del contributo cristiano è Zambon a insegnarcelo, sottolineando con finezza le sfumature, le somiglianze e le particolarità e varianti tra le diverse esperienze.
Sono trattati rivolti ai monaci. Uomini che per aver fatto una scelta di castità non rinunciano ipso facto all´amore, al suo discorso. Anzi, questi monaci, quasi fossero dei piccoli Schreber, intessono una relazione erotica intensissima con Dio, del quale si fingono figli, spose, amanti, in una girandola strabiliante di immagini e metafore e figure che stravolgono la misera evidenza del corpo, segnato dalla miseria sessuale. A ribadire una legge che regola l´amore cortese; e cioè, che l´assenza evoca il desiderio, e il godimento dell´altro va messo sotto il segno della rinuncia, per essere vero amore.
(Ma un incontro con l´altro che mantenga il segno-meno, il segno-senza e conservi la traccia del nostro esilio qui, su questa terra, nel nostro proprio corpo, non sarà proprio questo il dramma dell´amore per chi secoli più avanti cercherà di analizzarlo dal punto di vista psichico? scientifico? mentale?) Questi trattati, ripeto, si rivolgono a uomini che hanno volontariamente scelto il celibato, eunuchi di Dio, asceti volontari, che si propongono come militi e martiri che custodiranno per i loro fratelli laici o addirittura atei la relazione amorosa con un Dio che ama tutte le sue creature, dalle quali non esige altro che una risposta d´amore. E se la risposta fosse naturale (e cioè, in accordo con la volontà divina) come altrimenti dovrebbe rispondere la creatura al dono d´amore del Padre suo, del suo Creatore? Se non riamandolo?
Il linguaggio s´infiora di accese metafore, fiammeggianti ossimori che dissolvono le comuni percezioni ed evidenze dei sensi e dei sessi, perché chi cerca l´amore di Dio accetta la femminilità come una condizione generosa, ricca, la sola che lega gli amanti nell´amore. Uno strano piacere è evocato, dalle tonalità intime, affettive. E si fantasticano modi di godimento, in cui l´amore passi all´atto senza degradarsi e il corpo si coniughi alla mente e la mente goda senza il corpo e provi piacere in purezza.
(Ora non v´è dubbio che qualora si sia convinti dell´esistenza di Dio, convenga amare più Lui di qualsiasi altro. Lo riconoscerà secoli dopo senza mezzi termini quella straordinaria mistica che fu Emily Dickinson. La quale confessa anche che ci vuole molto coraggio a sopportare la relazione - in sé e per sé intollerabile - con l´Essere Supremo, che a volte le appare come un grande ladro che le ruba l´esistenza. Epperò, ci sono altri amanti - preferiscono chiamarsi philoi - i quali scelgono Lui e ciò facendo si pongono hors-sexe, al di là, o al di qua del sesso. E perché sia vero, si convincono che bisogna che l´amor trapassi in caritatem, che si rivolga non a un uomo, o a una donna, ma a Dio. Di questo gregge, quali eccelsi pedagoghi nella schola caritatis Gregorio e Bernardo guidano l´ascesa).
Anche chi non creda che l´ascetismo medievale sia rifiuto del mondo, né celebrazione del dualismo materia-spirito, rimarrà colpito dal titanico sforzo di sublimazione messo in atto in questi trattati. Rispetto all´economia del piacere si tratta di cambiare oggetto e meta, di mirare non più alla scarica immediata della tensione, ma di rinviare la soddisfazione, di fatto sospendendo l´intero processo all´incertezza. Tutta una dinamica psichica si rinnova, o addirittura si inventa in questi trattati, da cui discenderanno non solo un diverso uso della sessualità, ma nuovi soggetti umani.
Misoginia? Repressione degli istinti? Non è questa la chiave di lettura che suggerisce Zambon; si perderebbe la complessità dell´orizzonte spirituale e filosofico dello sforzo "correttivo": disciplinare l´immaginazione dell´ardente giovane monaco in ordine alle fantasie erotiche non è l´equivalente di reprimere. Lo sanno anche i sassi che c´è differenza tra disciplina e repressione.
D´altra parte, non v´è dubbio che al monaco, e per estensione all´uomo e alla donna cristiani, si impone la mortificazione della carne. Ne rende testimonianza la storia d´amore più chiacchierata del secolo, quella tra Abelardo e Eloisa, dove una donna si dimostra degna di Dio rinunciando alla sua vita sessuale, e un uomo sacrificando il proprio organo.
Ora è chiaro che il diniego dell´umano può essere interpretato come la massima affermazione, l´essenza stessa dell´umano. V´è chi afferma che in ciò consiste il punto di vista cristiano.
V´è chi suggerisce che se Cristo si fa corpo è per nobilitare l´anima.
E torna alla mente l´osservazione di quel sapientissimo filosofo della vita quotidiana, che fu Michel de Montaigne, quando tra sé e sé commenta: «che animale mostruoso quello che ha orrore di se stesso, quello al quale pesano i propri piaceri!». Appunto.
E tuttavia, chi si dichiari contrario a ogni mortificazione della carne, e si disponga ad amare l´altro con la "a" minuscola, se sarà sincero dovrà riconoscere che non è affatto detto che gli basti. Così la domanda resta: perché l´altro - l´altro uomo, l´altra donna - non sono abbastanza per noi?
A mo´ di risposta, rileggete quell´inquietante Terza Meditazione di Cartesio, dove il filosofo confessa che c´è soltanto una ragione per non dubitare dell´esistenza di Dio: l´altro uguale a me non mi basta a non sentirmi solo.
Repubblica 6.7.07
Spinoza. Ripensò Dio e liberò l'uomo
Un meridiano con le opere complete
di Eugenio Scalfari
Un pensiero radicale e per questo molto avversato che cancellava ogni tentazione antropomorfica nella concezione del mondo e della sua creazione
Convivono nei suoi scritti un aspetto distruttivo e uno costruttivo, intrecciati l´uno con l´altro
Nietzsche si imbatté in lui negli anni 80 del suo secolo e ne rimase sconvolto: ecco il mio precursore
L´incontro decisivo che egli ebbe e che lo aiutò a definire il suo pensiero fu quello con Descartes
La pubblicazione avvenuta di recente nei "Meridiani" Mondadori dell´opera completa di Baruch Spinoza è un evento importante nella cultura italiana e non soltanto per la vastità degli apparati, la completezza critica dei testi, la qualità dei commenti e in particolare per le introduzioni alle singole opere e per quella generale, dovuta a Filippo Mignini.
L´evento sta nel fatto stesso della pubblicazione. Qui ed ora, viene in mente di dire. Perché qui ed ora la filosofia di Spinoza attraversa di nuovo una fase attraente, direi in sintonia con i modi di sentire dell´epoca in cui viviamo; ma sintonia però non consapevole e perciò inadeguata, neppure nella società dei colti e dei filosofi, con alcune importanti eccezioni tra le quali va segnalata quella di Emanuele Severino che di Spinoza è stato da sempre attento e acuto cultore.
Il crescere e il tramontare delle filosofie e dei filosofi che le hanno pensate è un attributo permanente è quasi il succedersi di una modalità alla quale sono stati soggetti anche i pensatori più significativi, da Descartes a Hobbes, a Kant, ad Hegel e Schopenhauer a Nietzsche e Heidegger, tanto per restare nel solco della nostra civiltà occidentale. Perfino Platone e Aristotele hanno avuto fasi di luminosità e altre di impallidimento nella memoria collettiva. Ma nessuno ne ha sofferto quanto Spinoza, costretto addirittura a non pubblicare la maggior parte dei suoi scritti che sarebbero comunque incorsi nel sequestro immediato e nell´immediata distruzione, come avvenne per i pochissimi che - lui vivente - videro la luce.
Nonostante questo suo silenzio obbligato, fioccarono su Spinoza scomuniche e dannazioni estreme, a cominciare dalla più terribile che gli fu inflitta dalla Sinagoga di Amsterdam, cui seguì l´ostilità dapprima blanda ma poi sempre più intensa fino a diventare furiosa dei circoli cattolici in Olanda, in Francia, in Germania e a Roma.
Infine, non meno violenta, la "damnatio" delle Chiese riformate, luterane e calviniste che fossero.
Così anche l´opera postuma ebbe scarsa diffusione e possibilità assai limitate di influire sull´evoluzione del pensiero filosofico, anche se fu conosciuta e tenuta in gran conto da alcuni degli illuministi (pochi in verità) la maggior parte di essi accettando semplicisticamente un teismo al cui approfondimento non dedicarono gran tempo.
La scoperta di Spinoza arrivò con l´Ottocento, ad un secolo e mezzo di distanza dall´opera sua. Illuminò quell´arco di anni con intensità ma poi di nuovo rientrò nel silenzio e soltanto di recente ricominciarono segni di attenzione.
Bisognerebbe domandarsi il perché di questo interesse così discontinuo e precario. La scrittura rocciosa e "geometrica" delle sue argomentazioni non è certo fatta per accattivare, ma non può esser quello il vero ostacolo se solo si pensa alle non minori difficoltà di lettura e di comprensione di filosofi che hanno tenuto a lungo la scena dell´opinione colta, a cominciare da Kant e a finire con Heidegger.
Non credo perciò che sia stato quello l´ostacolo, ma piuttosto un altro e cioè la radicalità del pensiero spinoziano nei confronti della salvezza, dell´antropomorfismo e della centralità dell´uomo nel mondo. Non c´è stata finora filosofia più lontana, più indifferente, anzi più impegnata nella dimostrazione che la nostra specie non può vantare alcun privilegio e alcuna posizione dominante nell´universo. Non solo: non può appellarsi né sperare in alcun Dio che possa assicurarci la salvezza e indicarne il percorso. Ma, nello stesso tempo, una filosofia dedicata alla dimostrazione che "Dio c´è" come si direbbe oggi, ed anzi è presente in tutto e dovunque, eterno e assoluto, unica sostanza esistente, della quale tutto l´universo è pervaso fin nelle sue più intime particelle; ma un Dio indifferente, privo di passioni e di affetti, non vendicativo ma neppure misericordioso; un Dio che nulla ha creato, che non conosce se stesso, che nulla vuole perché non ha volontà; un Dio infinito e assoluto, pura potenza che incessantemente si attua nelle infinite forme naturali. Infine un Dio che è "natura naturante" dal quale esplodono senza interruzione le forme della "natura naturata" ciascuna delle quali fondata sulla legge che scaturisce dal suo proprio fondamento.
«Questo tuo Dio è un mostro» gli scrisse uno tra i tanti suoi corrispondenti che cercavano di chiarire a loro stessi il suo pensiero sperando (per loro) che esso potesse almeno esser tollerato dalla Chiesa e dalle Università e quindi pubblicamente discusso e diffuso. «Questo tuo Dio è un mostro». Ma lui, a sua volta, non riusciva a comprendere reazioni così violente e rifiuti così totali. E si accaniva a rispondere, a chiarire il suo pensiero, a definire i soggetti e le idee.
La definizione era per lui una vera e propria legge.
«Questo è vero per definizione» diceva, e si stupiva che gli altri non capissero. La forza della definizione è opera di Spinoza ed assume con lui il valore del "Logos", del "Verbo", della "Parola" celebrati nel Vangelo di Giovanni quale "incipit" della Creazione. Solo che per Spinoza credere nella Creazione era una bestemmia intellettuale: il suo Dio non era creatore ma assoluta potenza necessaria; non manipolava una materia a lui esterna, ma attuava la sua potenza, la sua esplosiva potenza che non poteva che attuarsi. Il suo «tutto è Dio» non era concettualmente lontano dal più radicale ateismo. Anche se la parola ateismo non dovrebbe esser lasciata circolare senza una sua definizione.
* * *
Convivono nell´opera di Spinoza un aspetto distruttivo ed uno costruttivo, intrecciati l´uno con l´altro e necessari entrambi. L´uno non potrebbe darsi senza l´altro; la sua raffigurazione e dimostrazione del Dio come potenza infinita e assoluta, unica e pervasiva sostanza di tutte le cose, non potrebbe infatti procedere senza aver sgombrato il campo dalle raffigurazioni fallaci e «superstiziose» che ingombravano le religioni monoteistiche e in particolare quelle giudaica e cristiana. Secondo il suo pensiero queste raffigurazioni fallaci sono: il Dio incarnato, le attribuzioni a Dio di "affetti" propri della natura umana, i miracoli, la rivelazione nel suo complesso. Insomma le Scritture, a cominciare dal Genesi, i Vangeli e la figura di Gesù-Dio, morto e risorto; Mosè, Abramo e l´Alleanza intesa come percorso verso la salvezza. E comincia dal punto più sensibile, teologicamente e politicamente: quello del Dio fatto uomo.Scrive ad uno dei suoi corrispondenti cattolici, Hugo Boxel: «Questo io so: che tra infinito e finito non si dà alcuna proporzione» e ad Albert Burgh: «Tu mi compiangi e chiami una chimera la mia filosofia. Oh giovane privo di mente. Chi ti ha incantato fino al punto di portarti a credere che tu possa divorare ed avere negli intestini quel Dio sommo ed eterno?».
Ma poiché i suoi interlocutori fingono di non capire e continuano ad incalzarlo con petulanti richieste di chiarimenti, alla fine spazientito risponde a Boxel:
«Quando dico che ti sfugge quale Dio io abbia se nego che l´atto di vedere, udire, osservare, volere non si danno in Dio, sospetto che tu creda che non esistano perfezioni maggiori di quelle che sono tipici attributi umani. Ma non mi meraviglio di questo perché credo che anche il triangolo, se avesse la facoltà di parlare, direbbe egualmente che Dio è triangolare e il cerchio direbbe che la divina natura è circolare in modo eminente. Così ognuno ascriverebbe a Dio i suoi attributi, si renderebbe simile a Dio e il resto gli sembrerebbe di forma diversa».
Questi pensieri assumeranno forma definitiva nell´Etica, la sua opera più completa dove Dio sarà descritto come «la sostanza eterna, infinita e assoluta che non opera con libera volontà né con intelligenza, non ha alcun rapporto personale e diretto con gli uomini né con alcuna altra specie, non è né misericordioso né vindice o giustiziere, non è affetto da gioia né da tristezza. Non vi è pregiudizio più misero di quello che subordina il presunto amore dell´essere infinito alla venerazione ricevuta da una natura finita. Altrettanto meschina è la convinzione di poter modificare i decreti di Dio per mezzo delle nostre preghiere, come si potrebbe fare con un padre un giudice e un re».
Dio - per dirla in breve - produce a getto continuo forme in sé perfette, una esplosione di forme, ciascuna determinata e quindi soggetta alla natura della propria forma. Forme moriture come tutto ciò che deriva da una nascita, ma non create da un Dio che abbia utilizzato «altro da sé» o che abbia ordinato un caos preesistente. Le forme prodotte da Dio sono un´eruzione continua il cui fondamento è Dio stesso il quale, attraverso quelle forme, è ovunque e tutto pervade con un´immanenza totale. Il mondo così descritto non contiene dunque una scintilla divina inserita dentro ad una materia altrimenti inerte o caotica ma, al contrario, il mondo è interamente divino e per questo stesso è infinito.
Così ragionava l´ebreo Baruch Spinoza, stupefatto di esser definito ateo e dissacratore, lui che descriveva e sentiva la divinità onnipotente, nel filo d´erba e nel serpente, nella stella e nell´uomo, senza colpe, senza peccati, senza necessità di salvezza né di individuale sopravvivenza, salvo sapere che ogni ente esistente e perituro non ha altra pulsione che la sopravvivenza della propria forma e quindi la paura della propria morte per quelle forme capaci di pensare se stesse e la propria mortalità.
* * *
L´incontro decisivo che egli ebbe e che contribuì a definire la struttura del suo pensiero fu quello con Descartes che, prima dell´arrivo in campo dell´autore dell´Etica aveva rappresentato la vetta più alta della speculazione filosofica aprendo la strada alla modernità.Il Discorso sul metodo è stato il punto d´arrivo e insieme il punto di partenza della storia della filosofia che gli va tuttora debitrice per tre aspetti essenziali del suo pensiero: la scoperta dell´io quale punto di riferimento della conoscenza, la necessità di ancorare l´attività conoscitiva a certezze di assoluta evidenza, la distinzione tra la "res cogitans" e la "res extensa" che riassume in due polarità l´intera moltitudine degli enti recuperandone l´oggettività dopo aver affermato l´egemonia conoscitiva ed esistenziale del soggettivismo.
Con questo stipite del pensiero moderno si misurò Spinoza quindici anni dopo la pubblicazione dei Principi di filosofia e la scomparsa del loro autore.
In realtà quell´incontro fu inizialmente una sorta di tributo che Spinoza volle pagare alla grandezza innovativa di Descartes, curandone la traduzione dal latino in lingua olandese ed argomentandone le tesi da par suo. Cartesio in quegli anni era preso di mira dalla tradizionale dottrina della Chiesa. Tradurne i testi in una lingua "volgare" era già di per sé un modo di esporsi all´implacabile giudizio dell´Inquisizione; commentarli positivamente, sia pure con qualche timida riserva, significava addirittura sfidare l´ortodossia della Scolastica e attirare su di sé gli anatemi dei Tribunali ecclesiastici.
Il pur prudentissimo Spinoza corse questi rischi, anche se mise bene in chiaro che la sua era stata soltanto un´operazione editoriale e culturale e non già lo schierarsi e identificarsi con le tesi di Cartesio dalle quali anzi in più punti dissentiva.
Molti contemporanei attribuirono allora quella presa di distanza da Cartesio alla necessità di non approfondire il solco con la Chiesa e con la sua Inquisizione. Ma le cose non stavano così. Il riconoscimento spinoziano della grandezza di Cartesio era senza dubbio genuino, ma altrettanto genuine le sue riserve, in particolare dalla distinzione tra la cosa "estesa" e la cosa "pensante" che Descartes riteneva fossero due sostanze incomunicabili in tutto fuorché nell´essere entrambe una creazione di un Dio trascendente, mentre Spinoza le vedeva come due attributi di Dio riverberati nella nostra specie come "modalità" dell´unica sostanza divina e immanente a tutte le cose.
Quanto al "Cogito ergo sum" Spinoza non si è mai espresso in modo esplicito ma dall´insieme del suo pensiero quell´orgogliosa affermazione dell´autonomia dell´io risulterebbe esser stata fatta propria dall´autore del Tractatus. Per arrivare a questa conclusione occorre però forzare il pensiero di Spinoza su un punto assai delicato: quello dell´autonomia delle forme nelle quali si esplica la sostanza divina.
In verità Spinoza usa assai poco o per niente la parola "forma" e molto di più usa il termine "res" privilegiando l´estensione rispetto al pensiero. Se ne comprende la ragione: la "res extensa" coinvolge nella propria dimensione tutto l´universo inorganico oltre a quello organico. La "cogitans" invece si limita alle facoltà della nostra specie.
Ma questo è un aspetto soltanto quantitativo del problema e quindi non essenziale per le concezioni spinoziane. Per questa ragione io credo che il termine "forma" sia il più appropriato per designare la molteplicità immanente della "natura naturans" nelle sue infinite espressioni.
Ebbene: il fondamento di queste forme dell´immanenza sta appunto nelle "modalità" che le distinguono. La modalità è nata perfetta, senza difetti e senza peccato, come Dio l´ha emessa realizzando la sua potenzialità.
L´autonomia di quella forma nei suoi "modi" fa dunque parte della sua definizione e per Spinoza la definizione altro non è che legge di natura.
Questo ragionamento mi porta a concludere che il "Cogito ergo sum" fu accettato e inserito nel pensiero spinoziano. Semmai, ai suoi occhi, sarebbe bastato scandire il verbo "esse" con la prima persona singolare. L´uomo in quanto individuo era titolato a pronunciare questa affermazione, la sua pulsione di sopravvivenza lo portava a quell´orgoglioso "sum", l´evidenza del vero era interamente presente.
Aggiungo per la chiarezza di noi postumi che la distinzione cartesiana tra l´estensione e il pensiero è stata superata non soltanto per le ragioni esegetiche addotte da Spinoza, ma per altre ancor più decisive. La mente pensante altro non è che un´efflorescenza degli apparati cerebrali. Altre volte ho scritto che la mente sta alle mappe cerebrali come la musica sta al pianoforte e le sue "note" stanno ai tasti di quello strumento. Il funzionamento della mente non è mai lo stesso; come le note vanno rapportate di continuo alla tensione delle corde che le producono.
Ne segue che al funzionamento della mente, cioè del pensiero, cospirano tutti gli organi del corpo e non soltanto il cervello. Il quale riceve dagli altri organi, tramite i flussi sanguigni e i terminali nervosi, sensazioni ed elementi in misura diversa di tempo in tempo.
La quantità di ossigeno non è mai la stessa, le tossine provenienti dal fegato, dall´intestino, dai reni, non sono mai le stesse e mai gli stessi gli ormoni, gli enzimi, i flussi endocrini.
La mente insomma è parte integrata nel corpo, ne è determinata e a sua volta lo determina; sicché nel corpo individuale tutto è al tempo stesso esteso e cogitante, che è poi la stessa tesi spinoziana raggiunta attraverso la fisiologia moderna anziché attraverso le tesi filosofiche dell´immanenza della natura divina.
* * *
Non è certo questa la sede per rivisitare compiutamente la filosofia di Baruch Spinoza, per la quale si può adottare la conclusione di Filippo Mignini a chiusura della sua introduzione generale: «È stato uno dei rari spiriti che nella storia del mondo hanno ideato per qualunque uomo di ogni religione e cultura un percorso di illuminazione e di libertà».Mi sembra invece interessante mettere in luce i nessi tra lui e il principale tra i pensatori che l´hanno scelto come compagno e maestro. Parlo di Federico Nietzsche, il filosofo che chiude il ciclo della filosofia moderna smantellando il platonismo e le religioni, decostruendo e anzi capovolgendo la scala tradizionale dei valori ed elaborando una visione del mondo, della conoscenza e della civiltà che approda al superamento dell´io e di ogni assoluto.
Nietzsche fu più un artista e una «voce» che un filosofo nel senso tradizionale della parola. Raccontò il suo pensiero. Parlò per enigmi, per aforismi, per frammenti, per simboli. Dopo di lui sarebbe impossibile scrivere un trattato o un manuale di filosofia. I pochi che hanno tentato ancora di farlo hanno solo dimostrato la loro irrilevanza.
Ma Nietzsche non può esser compreso se non si risale a Spinoza. L´autore del Tractatus e dell´Etica può apparire, se si bada alla forma della sua scrittura, esattamente agli antipodi dell´autore di Zarathustra.
Invece basta ascoltare lo stesso Nietzsche per comprendere di quale spessore fosse la consonanza dei loro pensieri.
Nietzsche s´imbatté (è il caso di usare questa parola che contiene un elemento fortuito) in Spinoza negli anni Ottanta del suo secolo, ne rimase sconvolto e così ne scrisse all´amico Overbeck: «Sono pieno di meraviglia e di giubilo: ho un precursore, e che precursore! Io non conoscevo quasi Spinoza. Per "istinto" ho desiderato di leggerlo. Questo pensatore, il più abnorme e solitario che sia mai esistito, è il più vicino a me in queste cinque argomentazioni: egli nega il libero arbitrio, la finalità, l´assetto morale del mondo, il non-egoismo, il male. Anche se tra Spinoza e me restano enormi differenze, queste sono da attribuire soprattutto alla differenza dei tempi, della cultura, della scienza. Insomma la mia solitudine - che come capita in montagna alle grandi altitudini, spesso mi toglieva il fiato e mi faceva trasudare sangue dai pori - è ormai una solitudine in due».
Non ci poteva essere elogio maggiore e più lucida identificazione. Ma resta, al di là delle differenze dovute ai diversi contesti storici dei tempi, della cultura e della scienza, che l´autore di Zarathustra chiaramente individua, un approccio che pone Nietzsche in una prospettiva diversa anche nei confronti di Spinoza, rispetto alla intera storia della filosofia occidentale da Platone in poi, ed è il rapporto con l´assoluto. Con la verità assoluta. Con la divinità assoluta.
Spinoza è infatti il più radicale assertore dell´assolutezza della verità e della divinità dell´immanenza, "sive natura". Dell´essere parmenideo, presente in tutti gli enti che da quell´essere scaturiscono. E della conoscenza che l´intelletto individuale può averne.
Per Nietzsche al contrario il solo approccio valido alla conoscenza ha il suo fondamento nell´interpretazione.
L´interpretazione è il suo Logos, il suo Verbo, la sola ed unica realtà. L´essere nietzscheano non è quello di Parmenide ma quello di Eraclito per quel tanto che sappiamo di lui; non è lo stare, ma il divenire, il flusso, la rappresentazione prismatica dell´universo.
Quando, nella lettera a Overbeck, Nietzsche enumera le cinque argomentazioni di Spinoza nelle quali egli si riconosce interamente, compie a mio avviso un errore auto-interpretativo: afferma, come Spinoza, di negare il valore morale del mondo. Ma sbaglia. Il mondo nietzscheano è un mondo morale proprio perché ogni interpretazione contiene la sua propria moralità. Proprio perché il relativismo nietzscheano nega l´assoluto ma rifiuta il nichilismo.
Diciamo dunque che neppure Spinoza riesce a liberarsi dalla metafisica come - dopo Nietzsche - recuperano una sorta di metafisica tutti quei pensatori che riproposero l´essere alla base della loro concezione.
Nietzsche è stato il vero solitario in questo punto capitale del pensiero, è stato l´unico ad aver descritto la realtà come una polifonia interpretativa il cui fondamento risiede nello sguardo dell´interprete.
Dopo Nietzsche resta in piedi una sola domanda: può l´interprete interpretare anche se stesso?
Domanda fondamentale, cui non si può dare risposta se, prima, non si definisca la parola interpretazione e il soggetto che la pronuncia.
Una definizione. Ecco che ancora torna in scena Spinoza e il valore che egli attribuisce alla definizione.
Vedete? Il Logos, il Verbo, la Parola, la parola-chiave, l´Interpretazione, l´Interprete....
Scrive Giovanni all´inizio del suo Vangelo: «All´inizio ci fu il Logos e il Logos era accanto a Dio, il Logos era Dio». Se non ci fosse il relativismo nietzscheano, saremmo di nuovo in piena metafisica.
Corriere della Sera 6.7.07
Lo scrittore israeliano rilegge un classico
Kafka e il suo doppio
Il segreto della «Metamorfosi»
di Abraham B. Yehoshua
Il 25 ottobre del 1915 Kafka scrive al suo editore Kurt Wolff una lettera in merito alla copertina del racconto La metamorfosi,
in corso di pubblicazione. Questo il tenore della lettera: «Egregio signore, ultimamente Lei mi scrisse che Ottomar Starke avrebbe disegnato la copertina de La metamorfosi. Mi sono preso un piccolo, probabilmente inutile spavento. Inutile stando a ciò che conosco di quell'artista in Napoleone. Mi è venuto in mente, siccome Starke è un vero illustratore, che forse potrebbe voler disegnare l'insetto. Questo no, per favore, questo no! Non voglio limitare la sua libertà d'azione, voglio soltanto avanzare una preghiera derivante dalla mia conoscenza, ovviamente migliore, della storia. L'insetto non può essere disegnato. Ma non può neppure essere mostrato da lontano. Se questa intenzione non sussiste, se, dunque, la mia richiesta è ridicola, tanto meglio. A Lei sarei grato se volesse trasmettere il mio desiderio. Se potessi fare una proposta per una illustrazione, sceglierei scene come: i genitori e il procuratore dinanzi alla porta chiusa o, ancor meglio, i genitori e la sorella nella stanza illuminata, mentre la porta che dà nella stanza attigua, totalmente oscura, è aperta…». Allora, io proverò qui a delineare lo scarafaggio e capire di conseguenza come mai Kafka fosse così spaventato dall'idea che qualcuno lo raffigurasse.
Non è neppure il caso di cominciare ad addentrarsi nell'immensa ricchezza di significati attribuiti a questo racconto di Kafka. Qui, infatti, la proverbiale ambivalenza ontologica di Kafka giunge all'apice, e non è sbagliato dire che siamo di fronte a uno fra i racconti più studiati nella letteratura del XX secolo, se non il più studiato di tutti. Nella selva di significati spicca ovviamente quello psicoanalitico, che non di rado suscita opposizione proprio per la sua ambizione ad essere totale, e perché presenta la propria interpretazione come ultima, definitiva. In effetti, un'interpretazione psicoanalitica non ha bisogno di alcun supporto storico, sociologico o filologico, è persino autonoma dai dati biografici dell'autore. I personaggi delle tragedie di Sofocle, Shakespeare o Molière sono, in tale contesto, presi per quello che sono, e sotto questo profilo è lecito analizzare loro e i loro complessi come se vivessero qui, accanto a noi.
Kafka per parte sua è ben noto alla psicoanalisi. In un certo senso l'ha ispirata, perché tutto ciò che scriveva poteva essere interpretato in un senso psicoanalitico. Tenterò qui soltanto una delle possibili interpretazioni psicoanalitiche, che si fonderà esclusivamente sul testo, senza alcun rapporto con i dati biografici di Kafka, osservando solo l'agente di commercio Gregor Samsa e la sua famiglia così come compaiono nel racconto.
La domanda che mi guida è la seguente: che cosa è esattamente l'insetto descritto nella storia? Dobbiamo prenderlo solo come una metafora, come un oggetto allegorico, o è possibile conferirgli una qualche pregnanza, per lo meno nella stessa misura in cui diamo concretezza alle cose nei sogni, che hanno magari un'alta carica simbolica ma anche una nitida concretezza? Se questo insetto viene interpretato esclusivamente come simbolo metaforico o allegorico, un simbolo generale di disumanizzazione, allora perdiamo secondo me qualcosa di importante in questo racconto, che, al di là di tutto ciò che riguarda l'insetto, tiene bene testa a un approccio realistico generale.
Kafka aveva evidentemente in mente qualcosa di molto concreto, non soltanto un simbolo metaforico. Così scrive a Yanok a proposito di questo racconto: «È un sogno terribile, è una concezione terribile. Il sogno svela la realtà, mentre l'idea ne è una risultanza. È la mostruosità della vita, la natura terrifica dell'arte». Torneremo su queste parole di Kafka a proposito del racconto; quanto a me, m'incoraggiano lungo la via che cerco.
Gregor viene da una famiglia borghese, dove troviamo un padre forte (in primo luogo fisicamente, ma la sua forza si rivela assai più sostanziale, generale). Questo padre ha avuto guai finanziari, forse a causa dei suoi istinti prepotenti. Gregor ha deciso di tirare fuori suo padre dalle avversità economiche andando a fare l'agente di commercio nella ditta in cui suo padre aveva fallito. Il fatto che il figlio vada a risollevare le sorti del padre nello stesso luogo in cui questi aveva fallito, e non altrove, ha un significato particolare: con ciò si enfatizza e intensifica il dato della «sostituzione» del padre, e se ne svela ulteriormente il fallimento. Quel posto di lavoro Gregor non lo ama, e in ditta nessuno nutre particolare simpatia per lui. La gente lo tratta con somma diffidenza e in una certa misura lo umilia, memore com'è del fallimento paterno. Il duro lavoro del figlio non serve solo per pagare il debito del padre: se questo fosse l'unico scopo, la durata del lavoro sarebbe stata assai più breve, e anche il padre sarebbe stato in una certa forma mobilitato, per collaborare alla restituzione del debito. Ma il fallimento del padre serve a creare la dipendenza della famiglia da Gregor, a fargli prendere il posto del padre stesso. Prima di tutto il padre smette di lavorare, senza una ragione precisa. Sta di fatto che dopo la metamorfosi di Gregor in scarafaggio il padre torna al lavoro e dimostra che ne sarebbe stato capace, in tutti quegli anni di ozio. Gregor per parte sua mantiene la famiglia non certo al livello di ristrettezze di chi si trova sommerso dai debiti: vivono in una casa grande che richiede molte spese (dopo la morte di Gregor la famiglia decide di trasferirsi in un appartamento più piccolo ed economico). Durante tutti quegli anni di lavoro per restituire il debito, i genitori mettono da parte del denaro. In altre parole, Gregor ha trasformato il fallimento del padre in un pretesto per ereditare il suo posto (un motivo analogo si trova, fra l'altro, nel racconto Il verdetto,
scritto prima de La metamorfosi), e ha impedito al padre di partecipare allo sforzo di risanamento della famiglia, perché egli vuole sostituirsi a lui e con ciò rendere ancora più profondo il suo fallimento. Così il padre si indebolisce (benché questa debolezza si sveli in seguito come fittizia, e temporanea), e la scena classica che si evidenzia è più o meno questa: «Le stoviglie della colazione coprivano il tavolo in gran quantità, perché la colazione era per il padre il pasto più importante della giornata, che egli protraeva per ore leggendo diversi giornali». L'immagine del padre fannullone che prolunga la prima colazione, di fronte a quella del figlio sottotenente con la spada e la divisa, bene esemplifica il tipo di relazioni che vigeva in famiglia. Con la maschera della sollecitudine per i propri cari, con la risoluta decisione che il fallimento del padre non può intaccare il processo di riabilitazione della vita familiare, Gregor finisce (consapevolmente o meno) per asservire a sé la famiglia.
In effetti, malgrado sia un agente di commercio, Gregor non pare minimamente interessato al mondo esterno, e sono proprio i suoi frequenti viaggi a esprimere il profondo legame libidico che intrattiene con la famiglia. Il suo vero interesse emotivo è rivolto esclusivamente verso la casa. Quando in uno dei suoi lunghi viaggi riceve le lettere della sorella, in cui lei parla del padre che legge il giornale a voce alta (che notizia sconvolgente!), Gregor ha la sensazione che la casa sia piena di gioia e allegria. Anche la madre descrive al procuratore l'attrazione di suo figlio per la casa e la sua assoluta fedeltà alla famiglia, in questi termini: «Quel ragazzo non ha in testa altro che la ditta. Io mi arrabbio quasi, perché alla sera non esce mai; ora è stato otto giorni in città, ma è rimasto a casa tutte le sere. Sta seduto con noi al tavolo e legge in silenzio il giornale, oppure studia gli orari ferroviari». Non è la famiglia a pretendere che lui stia lì, piuttosto è lui che è attratto dalla famiglia come una specie di padre privo di interessi libidici al di fuori di essa. In effetti, facendo l'agente di commercio, Gregor avrebbe l'opportunità di una vita eccitante, fuori. Invece è vero il contrario: tutto il mondo esterno in cui passa gran parte del suo tempo si riassume conseguentemente in «due, tre amici di altre ditte, una cameriera di un albergo di provincia, un dolce, fuggevole ricordo, la cassiera di un negozio di cappelli, alla quale — seriamente, ma con troppa lentezza — aveva fatto la corte ». Tutti i suoi impulsi libidici si concentrano infine sull'immagine di una donna impellicciata che egli ha ritagliato da una rivista illustrata, come un timido sbocco della libido: e per serbare questa innocente immagine lotterà anche quando sarà ormai un insetto.
l'Unità 6.7.07
Rc: «Va bene, ma ancora non basta»
Giordano incassa e rilancia: «L’unica proposta possibile sulle pensioni è quella illustrata da me»
di Wanda Marra
QUANDO ARRIVA la dichiarazione di Prodi che «è doveroso» abolire lo scalone, Rifondazione tira un sospiro di sollievo. Che però si affievolisce davanti alle precisazioni di Palazzo Chigi («lo scalone pensionistico potrà essere abolito istituendo un percorso con norme più graduali ed eque«). La trattativa sulle pensioni, d’altra parte, è un passaggio cruciale per il partito. Che ancora una volta prova a dettare al governo le sue condizioni. Con tutte le intenzioni di non recedere dalla posizione che illustra il segretario, Giordano: va bene uno scalino a 58 anni dal 2008, ma lasciando fuori gli operai, i turnisti, e chi ha versato 40 anni di contributi. Non a caso, proprio nel clou della discussione sulle pensioni, Rc ha organizzato un seminario di 2 giorni. La direzione, l’esecutivo, la segreteria, i parlamentari e la delegazione di governo si sono riuniti in una sorta di ritiro di riflessione in un paesino della provincia di Frosinone, Segni. Scegliendo un albergo in mezzo alle montagne della Ciociaria, con un nome significativo, «La Pace».
Un «conclave» rigorosamente chiuso alla stampa, in un posto insolito, volutamente lontano dai circuiti, nel tentativo evidente di ricompattarsi. E dunque da una parte «tenere» la base del partito dentro alle scelte fatte al governo, trovando un punto d’incontro sulle stesse pensioni, dall’altra delineare un percorso il più possibile condiviso verso il soggetto della sinistra-sinistra in fase di costruzione. Per affrontare la fase congressuale ormai imminente, visto che di congresso ormai si parla insistentemente per gennaio-febbraio. Tutto ancora interlocutorio, ma stando ai commenti positivi del primo giorno, anche se le divergenze restano, sembrerebbe ad ora un’operazione riuscita. Effetto della cornice un po’ straniante di Segni (sono in molti a guardarsi intorno, con l’aria di «Che ci facciamo qui?»), ma forse soprattutto del fatto che la vera discussione e le decisioni restano rimandate al Cpn del 14 e del 15, dove la maggioranza si confronterà anche con le minoranze. Giordano, introducendo i lavori, parla per più di un’ora e mezzo. Ci tiene a sottolineare che la sua è stata una relazione politica «densa», nell’intenzione di fornire una cornice teorica di riferimento. «Trovo assai positivo che Prodi ribadisca con forza quel che abbiamo scritto nel programma dell’Unione commenta così l’affermazione del Premier sono fiducioso, ma prudente, perché credo che sulle pensioni debba essere tradotto alla lettera il programma dell’Unione». Poi, quando arriva la nota di Palazzo Chigi, riafferma che l’unica mediazione possibile è la proposta da lui illustrata. Ci tiene a puntualizzare il capogruppo in Senato, Russo Spena: «Non siamo noi che vogliamo far cadere il governo, è il governo che, se segue altre strade, perde consenso nella società». E rimarca anche la minor radicalità del partito rispetto alla Fiom. Una via d’uscita, sempre all’interno dei contorni definiti da Giordano, la offre Alfonso Gianni, Sottosegretario all’Economia: rinviare tutto di un anno al 2009, lasciando andare in pensione nel 2008 chi ne ha diritto secondo le vecchie norme, e lavorare nel frattempo per trovare una via d'uscita alla questione dello scalone. Si limita a mettere sul piatto una problematica il ministro Ferrero (che però, arrivando si lascia scappare la battuta «Se il governo cade? Non ancora») : «Non possiamo produrre risultati se non coinvolgiamo i soggetti sociali».
Toni pacati ma posizioni ancora distanti sul processo che deve condurre all’unità della sinistra. Solo qualche settimana fa c’è stato uno scontro molto duro tra il quotidiano del partito, Liberazione, che, seppure con un punto di domanda, parlava di superamento di Rc e il coordinatore della segreteria del partito, Ciccio Ferrara, che contestava questa linea. Con Bertinotti che alla fine aveva dato ragione al giornale. Giordano ribadisce il no allo scioglimento del partito e ripropone «una aggregazione confederativa in cui ci sono soggetti politici e sociali». Sulla stessa linea Russo Spena, che però spinge per una lista unitaria alle amministrative del 2009. Alfonso Gianni parla di un «soggetto unitario e plurale», e pur dicendosi contrario allo scioglimento di Rc, di fatto ne propone il superamento. Per la confederazione anche Ferrero.