domenica 8 luglio 2007

l'Unità 8.7.07
Paolo Ferrero: «Non voglio la crisi, ma serve un colpo d’ala
E attenzione ai ceti popolari»


«IL GOVERNO ha ancora la possibilità di riprendersi, ma serve una sterzata, che riguarda soprattutto il rapporto con i ceti più deboli. Lo dico anche al Pd: la Dc era assai più lungimirante, sapeva come contendere al Pci l’egemonia delle classi popolari. Oggi invece questo sembra diventato solo un problema dei comunisti o della destra populista». Paolo Ferrero, ministro della Solidarietà sociale, non crede che il governo sia al capolinea. E dice: «Arrivare alla crisi sarebbe una sconfitta, siamo perfettamente consapevoli che, anche sulle pensioni, non ci sarebbe nessuna ipotesi migliore. Nessuno di noi punta in quella direzione, non ci sono alternative auspicabili. E tuttavia non si può accettare che le pressioni centriste abbiano la meglio sul programma. Sarebbe il trasformismo: si prendono i voti con una linea politica e poi se ne fa un’altra. Su questo daremo battaglia fino in fondo».
Una sterzata, diceva. Di scatto, o rilancio, parlate quasi tutti nella maggioranza. Ma poi sulle direzioni di marcia...
«Gli strati popolari, sia quelli che hanno votato per noi sia quelli che hanno scelto la destra, fanno fatica a vedere gli effetti dell’azione di governo sulla vita quotidiana. Eppure potenzialmente potremmo attrarli, a differenza degli imprenditori: con loro non c’è niente da fare, lì c’è una scelta ideologica. Non voglio dire che la politica del governo sia in continuità con Berlusconi: e tuttavia la differenza non è sufficiente».
Veniamo alle pensioni. Cosa sta succedendo tra voi e i riformisti?
«La questione viene descritta come un dare agli anziani per togliere ai giovani. Ma tra i lavoratori questa percezione non c’è: il tema-pensioni viene visto come una questione di rapporto tra le classi sociali, non tra le generazioni. Del resto prima gli anziani vanno in pensione, prima possono entrare i giovani. Oggi in fabbrica si sta peggio di 20 anni fa: si lavora di più per lo stesso stipendio, lo sfruttamento è più pesante. Dunque l’idea che la ”pena” possa finire è molto forte. C’è una miopia in larga parte dell’Unione a percepirlo: si pensa che sia un particulare corporativo che il Prc cavalca per ragioni di bottega».
Ha fiducia nella mediazione che sta cercando il presidente Prodi?
«Lo discuteremo nei prossimi giorni. È un bene che Prodi abbia preso in mano al questione, vista la rilevanza della partita. Per noi l’accordo deve essere il più vicino possibile al programma, cioè i 57 anni, con il maggiore utilizzo possibile degli incentivi. Di certo la mediazione non potrà essere spalmare lo scalone di Maroni in tre anni invece di uno».
L’idea che l’età si possa alzare gradualmente l’età pensionabile, tutelando i lavori usuranti, è una follia? L’allora ministro del Lavoro Salvi aveva stilato un elenco dei lavori usuranti...
«Quella lista prevede 2mila lavoratori l’anno. Si parla di categoria come il minatore, il palombaro: l’operaio di linea non rientra. È ridicolo. Un conto è parlare di aggregati ampi, come operai e turnisti. Altrimenti diventa una lotteria».
Dunque secondo lei il limite dei 57 anni è immodificabile?
«La gran parte delle persone su cui la riforma avrà certamente effetto è andata a lavorare prima dei 20 anni, aumentargli l’età significherebbe obbligarli a fare 40 anni di lavoro. Andare in pensione a 60-62 anni sarà normale per chi entra nel mercato del lavoro dopo i 20 anni».
Dunque per quale generazione alzare l’età?
Già oggi l’età media in cui si va in pensione è sopra i 60 anni. Dunque lavoriamo sugli incentivi, per i prossimi anni sarà sufficiente. Non è corretto fare i conti partendo dall’idea che tutti andrebbero in pensione un minuto dopo averne il diritto. Le persone lo fanno se c’è l’idea del Far West, se si pensa che dopo due anni la legge cambierà. In una condizione chiara si ragiona diversamente. Dopo l’approvazione della Dini, ad esempio, il 60% delle persone non è andata via subito».
Evidentemente solo con gli incentivi i conti non tornano...
«Il problema è che si parte dai risparmi dello scalone e da lì si cerca una soluzione che produca gli stessi risparmi. Bisogna cambiare il punto di partenza. E chiedersi: cosa fare perché i conti dell’Inps restino in equilibrio? Se sommiamo quello che l’Inps incassa ogni anno di contributi alle tasse versate sulle pensioni percepite, e sottraiamo le pensioni erogate, lo Stato ha un guadagno netto di 5 miliardi. La ragioneria dello Stato parte dall’ipotesi Maroni: ma il conteggio non può essere questo. Perché nessuno parla di equilibrio dei conti dell’Inps?».
a. c.

l'Unità 8.7.07
Occhetto e Cossutta, il nuovo abbraccio
«Ci siamo combattuti, ora siamo insieme»
Ma la costituente di sinistra non decolla


LA COSA ROSSA Un programma comune? Una costituente? Un soggetto unico? La sinistra comincerà con una federazione, poi si vedrà. Le idee a sinistra del Pd sono molte e non sempre concordi, almeno all’Assemblea congressuale dell’Associazione per il rinnovamento della sinistra di Aldo Tortorella. A spingersi più avanti di tutti Armando Cossutta e Achille Occhetto che dialogano dal palco e si abbracciano al termine dell’intervento dell’ex presidente di Rifondazione. «Siamo compagni che hanno combattuto uno contro l’altro - dice l'ex segretario del Pds - ora deponiamo le armi perché anche la capacità di uscire dai rancori del passato può essere da esempio alle nuove generazioni». Immediato il sì di Cossutta: «sono d’accordo con Occhetto, ci siamo tolti la pelle ma ora siamo qui a dire le stesse cose». Da entrambi arriva la proposta di fare nel più breve tempo possibile una «grande costituente» della sinistra. Ma i diversi parlamentari di Pdci, Sd e Prc in sala sembrano molto più cauti. Due i problemi principali: le divisioni e le scissioni non si eliminano dall’oggi al domani e all’interno dei partiti di riferimento è difficile far passare l’idea del soggetto unitario. «Sono convinto - spiega ad esempio il sottosegretario di Rifondazione Alfonso Gianni - che dobbiamo porci l’obiettivo di un soggetto unitario sul piano politico e plurale per culture ma questa non è la posizione prevalente nel Prc». Manuela Palermi replica a Cossutta: «Se non arriviamo presto all’unità della sinistra siamo fottuti ma fare appelli o forzature non è utile: la base vuole il miracolo ma ci sono tanti anni di divisioni, di scissioni e le cicatrici le abbiamo ancora». Gloria Buffo, di Sd, propone che «i padri della sinistra prendano una loro iniziativa e propongano un’agenda». Dalla platea un sì unanime a una fondazione della sinistra. «Ma - osserva uno scettico - una fondazione non si nega a nessuno...»

Repubblica 8.7.07
Il leader di Rifondazione, Giordano, apre sulle pensioni
"Uno scalino e incentivi ecco la proposta Prc"
di Luca Iezzi


Spero che prevalga la ragionevolezza, ma la proposta di Damiano non va. Servono scalini certi
Ma per i lavori usuranti e 40 anni di contributi niente riforma: rimangano i 57 anni

ROMA - Rifondazione scende dallo scalone. Il segretario Franco Giordano chiarisce: «Noi siamo difensori del "programma" perché è su quello che abbiamo ricevuto il mandato dagli elettori e lì si parla di abolizione. Però vogliamo anche trovare una soluzione, chiamerò Prodi e gli illustrerò la nostra proposta: alziamo l´età pensionabile a 58 anni e poi prevediamo un meccanismo d´incentivi per rimanere al lavoro. Con due eccezioni: i lavori usuranti e chi ha già versato 40 anni di contributi, per loro devono rimanere i 57 anni».
La soluzione si scontra con le valutazioni della Ragioneria, non è troppo costosa per le casse dello Stato?
«Il tentativo è di far passare una scelta politica per una questione tecnica: non c´è nessuna emergenza economica. I lavoratori si sono pagati l´abolizione dello scalone con l´aumento dei contributi dello 0,3%. Il famoso "sbilancio" da 65 miliardi di euro nei prossimi 30 anni sarebbe recuperato negli anni successivi, solo che guarda caso si ferma l´analisi dalla parte catastrofica della curva».
Ma se la divergenza è politica, il rischio non è ancora maggiore per la tenuta del governo e della maggioranza?
«Se dobbiamo ragionare in deroga al programma allora bisogna rivedersi tutti. Non è il governo che deve decidere visto che non siamo "ospiti" nella maggioranza. Se non dovessimo trovare l´intesa, allora affidiamoci al grande popolo dell´Unione con una consultazione popolare, ma mi faccia dire che trovo alcuni cambi di posizione incredibili».
Tipo?
«Paradossale che si schierino contro personaggi come Tiziano Treu, che ha lavorato in prima persona al programma e Lamberto Dini che con l´abolizione della Maroni vedrebbe ripristinata la sua riforma».
Tra le "sorprese" ci mette anche Fassino quando dice che andare in pensione a 60 anni non è uno scandalo?
«No, Piero è stato onesto in quell´intervista, ma gli rispondo che lo so anche io che già ora il 50% degli italiani a 60 anni decidono di rimanere al lavoro e che l´età media di ritiro è di 60,4. Ragionando sulle medie non si racconta del cambio che c´è stato nell´organizzazione del lavoro: della dilatazione degli orari, dell´aumento delle responsabilità».
Conferma la visione del maggiore usura a cui vanno incontro gli operai, sottolineata da Bertinotti e criticata ancora da Fassino?
«Quello rimasto indietro di trent´anni sulla distinzione operai-impiegati mi sembra proprio Fassino. È chiaro che anche e soprattutto nelle fabbriche il lavoro è più pesante, ma la platea di lavori usuranti nell´organizzazione postfordista è ampia, basta pensare alle turnazioni nell´edilizia o dei lavoratori dell´agricoltura, o andarsi a guardare la lista delle malattie professionali che si "arricchisce"».
Rimane l'accusa di difendere i pensionati a scapito delle giovani generazioni. Sbagliata anche questa?
«Noi siamo gli unici che combattono da sempre contro la precarietà. Vogliamo fare qualcosa per i giovani? Aboliamo la legge 30 che ne è il monumento, inseriamo il salario minimo d´ingresso al lavoro. Riparliamo delle pensioni, ma anche di tutta la politica redistributiva del governo».

Repubblica 8.7.07
La clinica che inventò l'analisi
di Umberto Galimberti


Nel 1821 Esprit Blanche aprì a Parigi una casa di cura per malattie mentali. La frequentarono Alexandre Dumas, Jules Verne, Eugène Delacroix; ci si ricoverarono Gerard de Nerval e Guy de Maupassant. Un avamposto delle tesi freudiane e un laboratorio sulla "luce nera", ovvero l´intreccio delle "sorelle sfortunate: arte e follia"

Dell´anima s´era detto tutto: che era buona o cattiva, mortale o immortale, che poteva salvarsi o dannarsi, conoscere la verità o cadere nell´errore. Elevata a dimora di Dio, la si trovava nei discorsi degli amanti, a garanzia che il desiderio non era solo desiderio di corpi. Il suo compito era nobilitare tutto ciò che nell´uomo "senz´anima" sarebbe apparso poco nobile. Fu nel Settecento che si prese a pensare una cosa impensata: che l´anima potesse ammalarsi e richiedere medici dell´anima. Nacque la psichiatria e con essa la medicalizzazione (iatria) dell´anima. L´ipotesi psichiatrica tolse all´anima un po´ della sua aureola e soprattutto ridusse la sua distanza dal corpo. Se l´anima poteva ammalarsi, dov´era più quella differenza tra anima e corpo che dall´antichità al Settecento e oltre aveva prodotto tante visioni gratificanti e compensatorie del destino umano?
Un secolo dopo nacquero la psicologia, studio scientifico dell´anima consegnato alle ipotesi e alle verifiche di laboratorio, e subito dopo la psicoanalisi per "sciogliere (in greco: analyo) con la parola i nodi dell´anima. Tra l´anima e la parola ci fu sempre una profonda parentela. Fu infatti il linguaggio (e non l´amore) ad affascinare l´anima, che da allora si produsse in tutte le parole che, dalle più semplici alle più complesse, compongono quel concerto dell´anima che si chiama arte, poesia, narrazione, letteratura, in una parola cultura.
E uomini ci cultura - come Gerard de Nerval e Guy de Maupassant per farsi curare, Alfred de Vigny, Hector Berlioz, Eugène Delacroix, Alexandre Dumas come visitatori e saltuari frequentatori, Jules Verne e Ernest Renan come padri angosciati per la salute mentale dei loro figli - ritroviamo ne La Maison du docteur Blanche. Una casa di cura privata per malattie mentali aperta a Parigi da Esprit Blanche (1796-1852) e diretta, dopo la sua morte dal figlio Emile (1920-1893), i quali, ai terribili metodi di contenzione in uso all´epoca, sostituirono l´ascolto dei pazienti e quella cura con la parola che, nel secolo successivo, diverranno le forme terapeutiche adottate dalla psicoanalisi e dalla psichiatria fenomenologica.
Ma La casa del dottor Blanche, non era solo un luogo di cura, era anche un luogo di osservazione per studiare da un lato i rapporti tra ragione e follia e dall´altro i legami segreti che legano la follia alla creatività. A promuovere questo tipo di ricerca era la persuasione che la follia è una condizione umana presente in noi come lo è la ragione. E una società, che per dirsi civile dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, in realtà incarica una scienza, la psichiatria, per tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Come diceva Franco Basaglia: «Il manicomio ha qui la sua ragion d´essere che è poi quella di far diventare razionale l´irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in manicomio smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato».
Non era questo l´intento di Philippe Pinel (1745-1826) che nel 1793 inaugurò a Parigi il primo manicomio, liberando i folli dalle prigioni, in base al principio che il folle non può essere equiparato al delinquente. Con questo atto di nascita la psichiatria si presenta come scienza della liberazione dell´uomo. Ma fu un attimo, perché il folle, liberato dalle prigioni, fu subito rinchiuso in un´altra prigione che si chiamerà manicomio. Da quel giorno incomincerà il calvario del folle e la fortuna della psichiatria. Se infatti passiamo in rassegna la storia della psichiatria vediamo emergere i nomi di grandi psichiatri, mentre dei folli esistono solo etichette: isteria, astenia, mania, depressione, schizofrenia.
Ma la depressione, la mania, la schizofrenia sono davvero "malattie" come l´ulcera, l´epatite virale, il cancro? O il modo d´essere schizofrenico è così diverso da individuo a individuo e così dipendente dalla storia personale di ciascuno da non consentire di rubricare storie e sintomi così diversi sotto un´unica denominazione? A partire da queste considerazioni, Esprit ed Emile Blanche, che possiamo considerare discepoli ideali di Pinel, si avvicinano alla sofferenza psichica non come a una malattia, ma come alla storia potenziale di chiunque che, da un giorno all´altro, può trovarsi in una deriva di pensieri, sensazioni e sentimenti, i quali, sconnessi, affogano in quella luce nera e così poco rassicurante che, con un nome che oscilla tra il poetico, il geniale e il patologico, siamo soliti chiamare "follia" che, come vuole la bella immagine di Clemens Brentano, è «la sorella sfortunata della poesia».
C´è infatti una creatività sempre incistata nella follia, c´è un bisogno di esprimere mondi altri da quello che abitualmente abitiamo, c´è un desiderio di espandere orizzonti fino alla vertigine del senza-confine, c´è la perla della conchiglia, come vuole l´immagine di Jaspers là dove scrive che: «Lo spirito creativo dell´artista, pur condizionato dall´evolversi di una malattia, è al di là dell´opposizione tra normale e anormale e può essere metaforicamente rappresentato come la perla che nasce dalla malattia della conchiglia. Come non si pensa alla malattia della conchiglia ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale dell´opera non pensiamo alla schizofrenia che forse era la condizione della sua nascita».
Conosciamo la follia in due accezioni: come il contrario della ragione e come ciò che precede la stessa distinzione tra ragione follia. Nella prima accezione la follia ci è nota: essa nasce dalle procedure d´esclusione che scaturiscono da quel sistema di regole in cui la ragione consiste. Dove c´è regola c´è deroga, e la storia della follia, raccontata dalla psichiatria, è la storia di queste deroghe. Ma c´è una follia che non è deroga, per la semplice ragione che viene prima delle regole e delle deroghe. Di essa non c´è sapere, perché ogni sapere appartiene all´ordine della ragione, che può mettere in scena il suo discorso tranquillo solo quando la violenza è stata cacciata dalla scena, quando la parola è data alla soluzione del conflitto, non alla sua esplosione, alla sua minaccia.
A conoscere questa follia non è la psichiatria ma la creazione artistica che, di fronte al cosmo della ragione, il solo che gli uomini possono abitare, sa da quale fondo esso si è liberato, e perciò non chiude l´abisso del caos, non ignora la terribile apertura verso la fonte opaca e buia che chiama in causa il fondamento stesso della razionalità, perché sa che è da quel mondo che vengono le parole che poi la ragione ordina in maniera non oracolare e non enigmatica. Sono parole dettate da forze terribili perché, come nell´Empedocle di Hölderlin, insorgenti con la potenza incontenibile del vulcano che scaraventa il suo fuoco verso il cielo, affinché non si dimentichi che l´ordine della terra ha la durata di un giorno. Un giorno lucido, che tenta di far dimenticare quella luce nera e così poco naturale, da cui in ogni istante ci difendiamo per non precipitare nelle tenebre dell´insensatezza.
Eppure c´è chi si fa testimone di questa insensatezza per portarla alle sue espressioni più alte. Costui sacrifica la sua mente e mette la sua parola al servizio del non-senso. Precipizio di tutti gli ordini logici, massima vertigine, congedo del buon senso e delle sue ordinate parole. Per questo, scrive Jaspers nel sue considerazioni psicopatologiche sulla follia di Hölderlin: «Nel caso dei poeti la questione della follia si pone altrimenti: ora il pericolo minaccia lo stesso poeta, ne può essere schiacciato, mentre il suo compito è proprio quello di trasmettere agli uomini, con la sua opera, ciò che di mortale vi è nel divino, già da lui assimilato e reso inoffensivo».
Due ancelle giungono soccorrevoli intorno all´abisso che si è appena spalancato: la psichiatria con il suo catalogo di nomi, a proposito dei quali vale sempre il monito di Kant: «C´è un genere di medici, i medici della mente, che ogni volta che trovano un nome, pensano di aver conosciuto una malattia», e la creazione artistica che non dispone di nomi perché, abitando da sempre l´abisso, ne conosce l´insondabilità. Qui la pato-logia raggiunge la sua essenza, che non è da cercare nella malattia, ma in quel patire (pathos) che si fa parola (loghia).
Se non accediamo a questa parola, che è "straniera" perché è "estranea" alla ragione, non sapremo più nulla di Dio e degli dèi e resteremo indecisi nei loro confronti, non sapremo morire perché più non intenderemo la nostra condizione di "mortali", non conosceremo il dolore se non nella forma dell´impedimento e della disperazione, non sapremo parlare se non in modo sempre più tecnico e impersonale, per cui finiremo con l´abitare il "chiuso" di un mondo popolato da uomini che conoscono un solo linguaggio, con cui danno titoli ai loro discorsi e regole alle loro azioni, le quali, oramai sorde al richiamo dell´"Aperto", come vuole l´espressione di Rilke, presiedono solo il recinto chiuso della sicurezza.
Se, come Heidegger ci ricorda, la ragione è l´ambito rac-chiuso nella previsione del pensiero che calcola, allora la follia è la condizione dove è possibile arrischiare nell´Aperto, dis-chiuso del pensiero che dispone le cose in relazioni che oltrepassano il recinto delimitato del calcolo e chiamano in gioco i mortali e i divini, il cielo e la terra? Di questo sono capaci quei folli che già Platone segnalava "abitati dal dio". E allora qui si scorge il nesso tra follia e creazione artistica, naturalmente con il sacrificio dell´artista, il quale, con la sua catastrofe biografica, segnala la condizione che è la vita come assenza di protezione, da cui noi ci difendiamo non oltrepassando il recinto chiuso della nostra ragione, che abbiamo edificato come rimedio all´angoscia.
Qui la psichiatria si ritira rossa di vergogna, mentre accanto alla follia resta l´arte come espressione sintomatologica della condizione umana. "Sin-tomo" è parola greca che vuol dire "co-incidenza". Quello che forse abbiamo ancora il timore di capire è perché, nelle loro espressioni più alte, arte e follia coincidono, perché accadono insieme.

Repubblica 8.7.07
I segreti del dottor Blanche
di Ambra Somaschini


«La vostra casa è un palazzo incantato». Gèrard de Nerval descrive così la casa di cura per malati di mente fondata da Esprit Blanche nel 1821 a Passy, un luogo-mito per la Parigi intellettuale dell´Ottocento. Laure Murat racconta questo posto speciale e i suoi casi di follia celebre ne La casa del dottor Blanche, storia di un luogo di cura e dei suoi ospiti, da Nerval a Maupassant (Il Melangolo, 441 pagine, 25 euro). «Ho avviato una ricerca - spiega l´autrice - e ho trovato i registri dei pazienti in una clinica vicino Parigi. La clinica aveva riscattato gli archivi di Blanche che descrivevano i casi di Maupassant, Van Gogh, Gounod. In quei testi c´era una miniera».
Come le è venuto in mente un libro del genere? Folli celebri ospitati in una clinica «alternativa» che, osserva Mauro Mancia nell´introduzione, «anticipò la psicoanalisi».
«Avevo i documenti. È stato un amico a suggerirmi: "Ma perché non butti giù qualcosa su questa casa di cura di cui non si sa nulla?"».
Gèrard de Nerval ha annotato nei suoi taccuini: «Ho paura di essere in una clinica di savi e che i pazzi siano fuori». Era così la villa del dottor Blanche?
«Si avvicinava più a una pensione famigliare che a un ricovero psichiatrico, il metodo terapeutico era basato sulla parola e sulla comprensione, un «metodo morale» come lo chiamava Esprit Blanche. Era stato proprio Blanche a incoraggiare Nerval a scrivere i suoi sogni prefigurando così il metodo chiave della psicoanalisi».
Blanche studiava il rapporto tra arte e follia?
«Per lui l´arte era diventata un mezzo terapeutico per curare la follia. Maupassant, ad esempio, era interessato al potenziale poetico dell´isteria ma nello stesso tempo temeva il potere distruttivo della follia, l´annullamento del pensiero».
Che cosa l´ha appassionata di più durante la sua ricerca?
«Le mie scoperte. Emile Blanche, il figlio di Esprit, diceva che i dossier medici non esistevano più, che erano stati bruciati su richiesta di suo padre. Non ci credevo, una legge imponeva a tutte le case di cura di conservare i registri con date, ricoveri, dimissioni, diagnosi. Alla fine li ho trovati: i discendenti del dottor Blanche avevano donato la corrispondenza dei loro avi all´Institut de France, centinaia di lettere, Dumas, Verne, Monet, Renoir, Degas».
Un caso unico in Europa all´inizio dell´Ottocento?
«Ci furono altri esperimenti del genere in Inghilterra. Ma soltanto il dottor Blanche riuscì ad accogliere i personaggi dell´epoca. Le sue rette però erano molto care e Charles Baudelaire non fu ricoverato proprio per questo motivo. La madre si rifiutò di sborsare tutti quei soldi per Passy».

Corriere della Sera 8.7.07
DIECI ANNI FA / Il «verbale» del summit. L'attuale ministro degli Esteri: il governo ha sbagliato nel rapporto con Rifondazione, mettendo in difficoltà noi
Quel vertice a Botteghe Oscure e la crisi «gemella» sulle 35 ore
D'Alema, Napolitano e Veltroni alle prese con lo strappo del Prc
di Francesco Verderami


ROMA — 1997-2007. Dieci anni dopo si rinnova lo scontro tra Romano Prodi e Rifondazione comunista. Allora erano le 35 ore, oggi lo scalone: la dinamica politica però è identica. Allora il premier riuscì a trovare un compromesso con Fausto Bertinotti, all'epoca segretario del Prc, ma un anno dopo capitolò.
Nella fase più critica della vertenza, si tenne un vertice della Quercia, allargato alla delegazione dei ministri. La riunione avvenne il 7 ottobre del '97, subito dopo il dibattito alla Camera sulla Finanziaria, in cui il presidente del Consiglio si appellò al Prc: «Siamo al bivio, ma discutiamo ancora». Bertinotti replicò: «Sulla Finanziaria non c'è maggioranza ma si può continuare a trattare».
Massimo D'Alema, leader del maggior partito della coalizione, chiese chiarezza: «Prodi ha dimostrato uno spirito generoso e genuino di autocritica. A questo punto, o avremo la forza di andare avanti o chiederemo la forza agli elettori». Il giorno dopo il premier si dimise, ma la crisi si risolse con il rinvio alle Camere del governo, che ottenne una nuova fiducia il 16 ottobre, grazie al «patto di un anno» con il Prc basato sulla riduzione dell'orario di lavoro e la salvaguardia delle pensioni di anzianità.
Ecco il verbale della riunione che si svolse nella storica sede di Botteghe Oscure. Allora c'era il Pds, presto ci sarà il Pd, ma i temi al centro della discussione politica sono gli stessi di questi giorni.
Botteghe Oscure, 7 ottobre 1997. Walter Veltroni, vice presidente del Consiglio - «Con Rifondazione il governo ci ha provato, ma da quel che ci hanno chiesto è difficile pensare che vogliano un'intesa. La situazione è paradossale. La posizione del Prc nel merito è strumentale. Loro fanno un ragionamento che riguarda la collocazione politica del partito. La sostanza del ragionamento è questa: se in Italia vince la sinistra riformista, non c'è più spazio per la sinistra comunista. Di qui la necessità di "sfilarsi".
Nel merito. Visto che non si può immaginare l'assunzione diretta da parte dell'Iri, il governo ha proposto di costituirne una nuova, che raccolga le diverse agenzie del lavoro, e che si preoccupi non solo di sollecitare le imprese, ma anche, per esempio, di programmare grandi interventi di opere pubbliche, una gestione pubblica del lavoro interinale. La risposta è stata: vogliamo l'assunzione diretta. Sulla riduzione a 35 ore dell'orario di lavoro, siamo disponibili a una legge che preveda incentivi alla riduzione.
Previa contrattazione sindacale, ovviamente. Sulle pensioni di anzianità, la proposta del Prc era l'esenzione di tutto il settore privato. La nostra proposta: lavoro precoce e lavori usuranti. Insomma, se avessimo fatto di più saremmo caduti in una contraddizione insostenibile.
Cosa succede ora? Bertinotti può dire due cose: non voteremo la Finanziaria; il governo ha chiuso. Scenari possibili: il Polo annuncia che voterà la Finanziaria. Si potrebbe andare avanti, facendo finta che non è successo niente. Ma non possiamo chiedere le elezioni. Se Bertinotti dichiara di non votare la Finanziaria, o si vara un documento della maggioranza o Prodi sale al Quirinale».
Fabio Mussi, capogruppo del Pds alla Camera - «Presentiamo il documento e andiamo al voto. Se Bertinotti non apre non bisogna dargli altro tempo».
Giorgio Napolitano, ministro dell'Interno - «Ci sarebbe molto da dire su come si è arrivati a questo, senza nulla togliere alla irresponsabilità del Prc. Mi limito a osservare che la discussione della Finanziaria in Consiglio dei ministri non è stata preparata. Ci sono state discussioni tra noi... Non so nulla dei contatti intercorsi con il Prc nella fase di preparazione della Finanziaria. Mi chiedo però: o abbiamo sottovalutato le minacce di rottura; o abbiamo messo nel conto la sfida e la risposta "elezioni subito"; oppure Prodi aveva considerato la possibilità di andare avanti con la Finanziaria, sfidando alla Camera il Prc e il Polo.
Sulle prospettive. Non penso che si debba trattare con il Polo, anche se sarebbe considerato un pasticcio solo da noi italiani. Sono perplesso sul documento di maggioranza, perché votare insieme al Polo presenta meno inconvenienti rispetto alla presentazione di più documenti. Il governo deve presentare sottoforma di emendamenti le proposte fatte al Prc».
Cesare Salvi, capogruppo del Pds al Senato - «Tenterei di utilizzare spazi di mediazione. Eviterei il voto (del documento, ndr), perché serve soprattutto a cavare di impiccio gli altri e ci creerebbe invece qualche problema».
Fulvia Bandoli, esponente della sinistra ds e membro del comitato politico - «C'è un elemento che mi è poco chiaro. Cosa succede se noi concludiamo con un voto, da qualunque parte proposto, e Prodi va dal presidente della Repubblica? Con la posizione che ha Oscar Luigi Scalfaro (contrario alle elezioni, ndr), con l'atteggiamento del Ppi, e con noi che oggi a sentire Veltroni diciamo di non poter chiedere le elezioni, dopo aver per settimane detto il contrario... Insomma... Saremmo nella palude: un governo tecnico e niente elezioni».
Mauro Zani, esponente della maggioranza dalemiana e membro del comitato politico «Quello che mi sento di escludere è il percorso lungo, partendo dal presupposto che bisogna far finta di niente. Sarebbe una posizione insostenibile. Tuttavia il voto su un documento è oggi di necessità collegato alla prospettiva delle elezioni. Allora, o c'è qualche carta coperta, oppure siamo in panne. Non c'è nell'opinione pubblica una tensione positiva rispetto alle elezioni. Altrimenti ci sarebbe un'altra linea: andare a un Prodi-bis con il Prc dentro il governo. È questo che forse hanno in testa dentro Rifondazione».
Marco Fumagalli, esponente della sinistra pds e membro del comitato politico «Prendiamo tempo e cerchiamo di trovare ancora una mediazione con il Prc. Prodi deve dire chiaramente che è il presidente del Consiglio solo di questa maggioranza».
Massimo D'Alema, segretario del Pds - «Non nasce da noi nè dal governo la situazione nella quale ci troviamo. Al di là della competizione a sinistra, abbiamo tentato di rafforzare il rapporto con il Prc. Nella Bicamerale il punto che stava più a cuore al Prc ci ha però visti isolati. Io penso che il governo abbia sbagliato nel rapporto con il Prc, mettendo in difficoltà il Pds. Siamo noi ad aver subìto la difficoltà del rapporto. Bertinotti ha detto che bisogna restituire all'Italia una sinistra antagonista. Ma quando ad un certo punto li abbiamo stretti, sospinti dalla paura delle elezioni hanno offerto un patto di sei mesi. L'intesa a termine, che ha avuto per noi un prezzo politico incalcolabile, è stata un'operazione tattica che ha lasciato inalterata la loro visione strategica. Questo è il punto vero: la separazione. Tanto che nel corso del mio colloquio con Bertinotti, lui era solo interessato alla sorte degli accordi per le Amministrative, dando per scontata la crisi. Quanto al Polo si ipotizzava la sua deflagrazione, che invece non c'è stata. C'è invece il movimento del centro. Un governo di unità nazionale durerebbe fino al 1999. Escludo l'ipotesi di andare avanti. Se si apre la crisi chiederò una verifica rapida».

Corriere della Sera 8.7.07
L'ex first lady confida al New York Times: «Prego tutte le mattine, viaggio con la Bibbia e avverto la presenza dello Spirito Santo»
Hillary: «La fede è il pilastro della mia vita»
Per la prima volta la Clinton parla della sua religiosità. I nemici: «Non convince»
di Ennio Caretto


WASHINGTON — Prega tutte le mattine, viaggia sempre con la Bibbia, spesso avverte la presenza dello Spirito Santo. Considera la fede il pilastro della sua vita, dice che le ha insegnato a perdonare, le ha salvato il matrimonio, l'ha riconciliata con le critiche e aiutata nella lotta politica. Crede nella resurrezione ma non nella interpretazione letterale delle scritture, disquisisce dottamente su Sant'Agostino, San Tommaso e John Wesley, il padre della sua religione metodista. E s'ispira a Dio nel suo impegno sociale. Chi è mai questa missionaria laica? La senatrice ed ex first lady Hillary Clinton, capofila dei candidati democratici alla Casa Bianca, che secondo il leader conservatore Pat Buchanan «oggi ha più possibilità di tutti di venire eletta presidente». Una Hillary pia, che in un'intervista di mezz'ora al New York Times rivela: «La fede mi ha reso ciò che sono».
Questa religiosità non sarebbe frutto di una graduale conversione ma l'avrebbe acquisita da bambina dalla madre, che la domenica teneva un corso per adulti in parrocchia, alla periferia di Chicago. Si sarebbe rafforzata al liceo, da dove il reverendo Donald Jones conduceva gli studenti nei ghetti per assistere i neri, e al college, dove un altro prete, Paul Santmire, predicava la carità. Nell'Arkansas, come moglie del governatore, Hillary seguì le orme materne, e adesso, al Senato, partecipa ogni settimana al breakfast della preghiera. «Siamo sempre stati una famiglia devota — ha spiegato riferendosi al marito Bill e alla figlia Chelsea — e ciò ci ha tenuti uniti». E ha ammesso che la prova del fuoco fu il Sexgate, lo scandalo della relazione di Bill con la Levinsky.
Il presidente e la first lady chiesero assistenza spirituale, pregarono insieme, e «con l'aiuto di Dio» superarono la crisi. Nell'intervista, Hillary ha ammesso che «perdonare e farsi perdonare è la cosa più difficile». Ha aggiunto che in lei c'è un conflitto quotidiano «per aderire ai valori cristiani» su problemi fondamentali dell'età moderna, dall'aborto, che appoggia, al ricorso alla forza. E ha asserito che provvedimenti quali la sanità pubblica e la tutela delle minoranze sono un obbligo morale. Secondo Hillary, un'assertrice del principio della separazione tra Stato e Chiesa, la fede non deforma ma sorregge la politica. Una posizione, ha osservato il New York Times, «che si adatta come un guanto» a quella del Partito democratico, da quando è emerso che la maggioranza dei fedeli americani si identifica nei repubblicani. Una posizione, inoltre, condivisa dal senatore nero Barack Obama suo rivale.
Ai «teocon» (i conservatori religiosi) le dichiarazioni di Hillary sono però sembrate un espediente elettorale. Andrew Ferguson, un loro esponente, ha ribattuto che «la fede della senatrice è quella di una liberal che crede in tutto, tranne che in Dio». Un gruppo evangelico ha definito l'intervista «troppo tempestiva e preparata » per essere credibile, ricordando che «lei e suo marito sono dalla parte dei gay». Newt Gingrich, l'ex speaker neocon della Camera, l'ha accusata di cinismo: «Non è genuina, non convince nessuno». Il Pew Center, un istituto di ricerca indipendente, ha difeso la ex first lady, ma ha rilevato che «i suoi numerosi nemici continueranno a diffidarne». A suo giudizio, comunque, Hillary ha spiazzato i repubblicani, convinti dalle elezioni del 2000 di avere «il monopolio della religione »: «I protestanti e i cattolici moderati si avvicineranno a lei».
Ai democratici, le confessioni della «leonessa», come venne chiamata per la sua combattività durante il Sexgate, sono invece apparse una dimostrazione di umiltà. Hillary aveva sempre rifiutato di svelarsi al pubblico, evitando di discutere questioni personali anche nelle sue memorie. Da first lady andava a messa ogni domenica, ma si ignorava che fosse così credente. Nelle parole dello storico della Presidenza Stephen Hess, «era un enigma». Stando a Hess, la nuova Hillary, più umana e più scoperta, e ora sostenuta nella campagna da Bill, potrebbe crescere in popolarità. Un'ipotesi avallata dall'ultimo sondaggio della rivista Newsweek, inbase al quale da maggio la ex first lady avrebbe più che raddoppiato il vantaggio su Obama, arrivando al 56 contro il 33% dei suffragi. Ma Obama non può essere ancora dato per sconfitto: ha raccolto più fondi dalla sua antagonista, e vi hanno contribuito il doppio di persone, 250 mila in tutto.

Corriere della Sera 8.7.07
FILOSOFIA Un testo eretico che venne accantonato
Quando Lukács si ribellò ai mastini del bolscevismo
di Antonio Carioti


Non si arrese subito György (o Georg, alla tedesca) Lukács. Quando il suo libro Storia e coscienza di classe, uscito nel 1923, fu stroncato dai cani da guardia dell'ortodossia sovietica, che lo accusavano di «soggettivismo», il filosofo marxista ungherese rispose per le rime in un opuscolo dal titolo Codismo e dialettica. Ma quel testo non fu pubblicato e lo stesso autore preferì relegarlo nell'oblio. Solo settant'anni dopo, crollata l'Urss, è stato ritrovato negli archivi sovietici. Ed ora vede la luce in Italia, con il titolo Coscienza di classe e storia (pagine 166, e 22), presso le Edizioni Alegre, a cura di Marco Maurizi, con una postfazione dello studioso sloveno Slavoj Žižek.
Il dato interessante della polemica è che Lukács era convinto di aver fornito nel suo libro l'interpretazione filosofica autentica del leninismo, attraverso la sottolineatura del ruolo del partito comunista nel processo rivoluzionario. Di fronte a un proletariato che di fatto non aveva una coscienza di classe corrispondente al livello reso possibile dallo sviluppo dei mezzi di produzione, spettava all'avanguardia comunista, secondo il filosofo magiaro, fare in modo di elevarla al grado più alto raggiungibile. I suoi fustigatori ribattevano che in questo modo si sostituiva alla coscienza di classe reale degli operai una pura astrazione. Di fatto, notava Lukács, ricalcavano la posizione dei menscevichi, che giudicavano la Russia immatura per la rivoluzione.
La vicenda fu «amara e grottesca », scrive Maurizi, perché senza dubbio la visione di Lukács era più rispondente allo spirito volontaristico che aveva indotto i bolscevichi a prendere il potere. Ma contro di lui e altri comunisti eretici si era pronunciato nel 1924 Grigorij Zinoviev, presidente del Comintern, tuonando contro il «revisionismo teorico» dei pretenziosi «professori». Non c'erano margini di dissenso per chi volesse evitare la rottura con il Cremlino. Così lo studioso ungherese finì per piegarsi, sconfessando Storia e coscienza di classe. Il testo pubblicato da Alegre ha invece il merito di restituirci un Lukács senza abiure, ancora immune dallo stalinismo, simile a quello che nel 1956 si sarebbe schierato con gli insorti ungheresi.

Corriere della Sera 8.7.07
BIOGRAFIE Giovanni Ferrara, liberale, narra il rapporto con Maurizio, comunista
Mio fratello tradito dalla sua utopia
Due vite divise dalla politica, che incarnano la storia del Novecento
di Marzio Breda


Roma, 1940, tribunale speciale del fascismo. Un ragazzo di 19 anni accompagna in aula il padre, che difende alcuni dirigenti del Pci clandestino. È il giorno dell'arringa e l'avvocato la pronuncia con disperata passione, chiudendola con il passo della celebre apologia di Socrate nel quale la morte diventa scelta di verità. Un'inutile sfida e il penalista, un liberaldemocratico di riconosciuta integrità, lo sa bene: la condanna è già decisa. Quando vede gli imputati sfilare in catene, il ragazzo è segnato da «una potente impronta morale», che sarà indelebile in lui. Perché se quei giovani «avevano meritato che il padre osasse tanto», anche a proprio rischio, la causa per la quale si battevano era senza dubbio «la migliore possibile» e dunque «si doveva andare con loro».
È così che Giovanni Ferrara descrive il momento in cui il fratello maggiore, Maurizio, si fece comunista.
Un'iniziazione in qualche modo prepolitica, emotiva, spinta da un'ansia viscerale e quasi religiosa — c'era pur sempre di mezzo una fede — di ribellarsi contro l'ingiustizia. Cinquant'anni più tardi, dopo una vita spesa come corrispondente da Mosca e poi direttore dell'Unità, dirigente del partito, senatore, marito della segretaria di Togliatti e poi redattore capo di Rinascita, quell'uomo piange l'eclissi dell'utopia alla quale aveva affidato entusiasmo e speranze. A raccogliere lo sfogo c'è Giovanni, intellettuale laico, docente di storia antica, collaboratore di diversi giornali (dal Mondo a L'Espresso), parlamentare del Pri. «È tutto finito », si sente dire. «Una vita intera dietro a questo mondo, una fatica inutile. Non è rimasto niente. Abbiamo sempre avuto torto, fin dal 1917».
È la crisi di un vinto che non sa mentire a se stesso, il lutto del comunista mutilato dei vecchi orizzonti e annientato persino nella salute. Versa lacrime di liberatoria disperazione, con un tormento senza pudori, qualcosa di assai diverso dalla bisbetica alterigia dietro la quale si proteggono quanti invece rifiutano le sconfitte. «Questo mio fratello sta qui piegato in due. Su di lui è passata, schiacciandolo, la Storia», riflette tra sé il testimone del dramma, mentre cerca parole compassionevoli e ripercorre dentro di sé la traiettoria di un rapporto controverso che è metafora di quanto è successo a una certa borghesia italiana nel Novecento.
Una saga familiare che è un incrocio di biografie e persino una malinconica maniera per regolare i conti, quella raccontata da Il fratello comunista, libro doppiamente postumo, essendo scomparsi entrambi i protagonisti della vicenda: Maurizio nel 2000, Giovanni nel febbraio scorso. Sono pagine di rispecchiamento continuo, tra il Ferrara seguace di La Malfa e il Ferrara collaboratore di Togliatti, che hanno animato una querelle privata destinata a trascinarsi dalla giovinezza all'età adulta. L'ininterrotto incontro-scontro tra loro va dagli anni di Stalin e Kruscev all'era Craxi, verso il quale negli ultimi tempi l'ormai ex comunista dimostra interesse. Pur cementato dall'antico affetto, quel legame di «aspra fraternità» — stando alla definizione di Giuliano Ferrara, figlio di Maurizio — «per una parte essenziale» delle loro esistenze li rende «stranieri l'uno all'altro». «Un enigma lui per me e io per lui».
All'origine di tutto c'è anche il rapporto con il padre Mario, colto avvocato antifascista, e il mai esplicito (ma decifrabile) duello su chi possa considerarsene l'alter ego. A vicenda chiusa, l'eredità sembra giusto ripartirla come si fa con i torti e le ragioni della storia. Infatti, se è vero che «la vicenda di Maurizio è sempre stata un risvolto decisivo della mia», come scrive Giovanni, non è un caso che al termine della loro parabola politica i due fratelli si siano ancora ritrovati pronti a misurarsi polemicamente. Con un'inversione della parti, stavolta: il primo alla destra del secondo.

Il libro di Giovanni Ferrara, «Il fratello comunista», è edito da Garzanti, pagine 161, e 16


il manifesto 8.7.07
La manifestazione sfila pacifica nel quartiere Trieste-Salario dopo l'aggressione squadrista al concerto dell'Estate romana
Villa Ada, migliaia al corteo antifascista
di Eleonora Martini


Roma Il sole è ancora alto quando il corteo parte da Villa Ada dietro gli striscioni «Roma città aperta rifiuta i fascisti» e «Verità per Renato Biagetti». Ma non è la calura estiva a scaldare gli animi delle migliaia di persone (circa 5-6 mila) che sfilano nelle vie del quartiere Trieste-Salario per la prima volta dopo i fatti del 28 giugno scorso. C'è la rabbia e lo sgomento di chi, in una notte dell'Estate romana mentre si concludeva una serata di musica e di festa, è stato per 25 minuti sotto l'assedio di una cinquantina di fascisti, partiti dalle vicinanze, armati, organizzati e allenati per terrorizzare e uccidere. C'è il dolore di chi ha dovuto soccorrere i molti feriti da armi da taglio e Marco Di Pillo, il geologo finito in ospedale con nove coltellate profonde sulla schiena profonde. C'è la frustrazione perché ancora una volta nessuno è stato fermato per l'episodio - che è solo l'ultimo di una lunga serie di aggressioni ai danni di immigrati, omosessuali, transessuali o frequentatori di centri sociali - mentre due spettatori sono sotto processo con l'accusa di aver aggredito le forze dell'ordine quando il commando si era ormai dileguato. C'è una certa voglia di «resistenza» che spinge più di qualcuno a cercare lo scontro con il gruppo di camerati (qualche centinaio, ma probabilmente sono venuti anche dalla provincia) che tengono il presidio ad una piazza Vescovio blindata peggio del corteo presidenziale di Bush. Ma anche se gli animi ribollono, l'intelligenza e la politica hanno la meglio.
Un corteo tutto sommato pacifico, sonoro, variegato, in ricordo anche di «Renato, Dax, Aldro e Carlo», si è snodato tra le stradine deserte e i negozi chiusi di un quartiere umiliato dalla presenza di sedi neofasciste e ultras. «Ma questa non è una zona nera - urlano dal sound system - queste non sono le strade di quei 50 miserabili, sono le strade di chi lavora, paga le tasse e lotta per un paese democratico». E passando per viale Libia, dove abbondano i negozi gestiti da ebrei, dalle finestre la gente saluta e qualcuno applaude quando una ragazza urla dai microfoni: «Noi non abbiamo dimenticato l'Olocausto, né le svastiche che ancora tornano a imbrattare i vostri negozi».In testa al corteo i rappresentanti dei tanti partiti, sindacati e associazioni che hanno dato vita a questa prima giornata di risposta. A cominciare dall'Arci, che gestisce la rassegna «Roma incontra il mondo» a Villa Ada dove è avvenuto l'agguato, con il suo nuovo striscione «Arci antifascista», e la Ram (Rete antifascista romana). Pochissime le bandiere e gli striscioni (c'è la federazione romana del Prc). Qualche esponente dell'Anpi col fazzoletto al collo e solo qualche volto noto delle istituzioni nazionali e locali, come le parlamentari Elettra Deiana (Prc) e Tana De Zulueta (Ds). L'esponente diessina, una delle poche che ha aderito a livello personale, è qui «per protestare soprattutto contro l'impunità, perché non è possibile che nemmeno uno sia stato fermato». «Anche se non condivido tutti gli slogan di questa manifestazione, è necessario che la politica chiarisca da che parte sta - spiega senza mezzi termini - perché anche l'ordine pubblico è un fatto politico, quindi bisogna smettere di sottovalutare queste frange anticostituzionali». Per il resto è l'area antagonista a caratterizzare il grosso della manifestazione che a tratti sembra più una via crucis tra una piazza e l'altra, una vicina sede di Forza Nuova e un incrocio a cento metri da Piazza Vescovio, con la tensione che sale per il rischio di agguati e l'irruenza di alcuni militanti antifascisti fermati da un efficiente quanto discreto servizio d'ordine interno. Slogan vecchi e (pochi) nuovi a testimoniare che forse ancora una volta non tutti hanno capito che non si tratta di un problema di opposti estremismi come fossimo negli anni '70. Persino Vincenzo Miliucci, uno dei leader dell'autonomia romana, intervenendo in mattinata a Radio Onda Rossa parlava di una «Roma vietata ai fascisti quando il fascismo si esprime nelle forme dello squadrismo, della criminalità e dell'omicidio». E aggiungeva: «Non ci possono essere quartieri neri in cui una persona di sinistra non possa entrare liberamente, come non avviene più il contrario».

il manifesto 8.7.07
Note stonate sul Grande Terrore
Un Gramsci che sfidò Stalin per sottrarre i compagni a un tragico destino: così lo ha descritto Piero Fassino. Ma non poté andare in questo modo
di Marco Clementi


Venerdì 29 giugno nel cimitero di Levashovo, nei pressi di San Pietroburgo, è stata scoperta una lapide in memoria dei mille italiani repressi durante il Grande Terrore (1937-38) e nel corso della seconda guerra mondiale. Alla cerimonia ha voluto prendere parte anche l'onorevole Piero Fassino, segretario dei Democratici di Sinistra eredi di quel Partito comunista d'Italia che negli anni del Grande Terrore vagliò attraverso i suoi rappresentanti a Mosca le schede di centinaia di militanti in sospetto di eterodossia. In tale occasione Fassino ha affermato enfaticamente che, mentre i dirigenti responsabili del partito non osarono sfidare l'oppressione della dittatura, «Antonio Gramsci si batté per sottrarre i suoi compagni a un destino tragico».
Questa affermazione, già fatta da Fassino dieci giorni prima a Roma presentando il libro di Gabriele Nissim Una bambina contro Stalin (Mondadori) appare come una grave manomissione del passato, dettata probabilmente dal tentativo di salvare parte di una storia che, mai rivendicata in tempi opportuni dal Pci prima e dal Pds dopo, risulta ormai ingestibile. Precipitato il mito del «Migliore», quel Togliatti che fu davvero «l'uomo senza qualità» della sinistra italiana, attraversato il mito della Resistenza, che per adesso tiene nonostante «la grande bugia» evocata da Pansa, resta l'ultimo bastione, la vittima di Mussolini, Antonio Gramsci, che Nissim descrive come uomo moralmente e intellettualmente al di sopra del «costume politico in auge nel mondo comunista di quei tempi».
E dal testo di Nissim emerge l'episodio che vede Gramsci protagonista e che, deformato nei suoi contorni, viene ricollocato arbitrariamente in un contesto cui non è mai appartenuto. I fatti si ricavano proprio dalla lettura attenta del libro, e ciò sconcerta ancora di più. La bambina del titolo è Luciana De Marchi, figlia di Gino De Marchi, indicato come il primo prigioniero politico italiano dei bolscevichi, cosa che non tiene conto del destino di quanti, come il console italiano a Pietrogrado Raffaele Pirone, furono deportati subito dopo lo scoppio della rivoluzione d'ottobre. Giovanissimo militante prima della frazione comunista del Partito socialista italiano, quindi del Pcd'I dopo la scissione di Livorno, Gino De Marchi, partecipò all'occupazione delle fabbriche torinesi nel '20, poi al movimento internazionalista. Nell'aprile del '21 fu arrestato dai carabinieri con l'accusa di aver nascosto delle armi insieme ad altri. Dopo alcuni giorni confessò, facendo dei nomi, quindi venne rilasciato. Mai divenuto collaboratore della polizia, anzi condannato a tre anni per la questione delle armi, De Marchi fu fatto espatriare a Mosca dal Pcd'I, nonostante la sua espulsione dal partito, perché fosse sottratto alla detenzione. Si portò però in Russia la triste fama di delatore e dalla capitale russa venne ben presto deportato, prima in carcere, poi nella lontana Tashkent, nell'attuale Uzbekistan.
È in questo contesto (siamo nel 1922), che Gramsci, a Mosca come delegato del Pcd'I alla Terza Internazionale, intercesse per il giovane comunista e a nome del Comitato Centrale del Pcd'I scrisse una serie di missive all'esecutivo dell'Internazionale per far tornare De Marchi a Mosca, cosa che avvenne. Gramsci quindi lasciò la Russia e non ebbe più modo di occuparsi della vicenda. Il fascismo stava diventando regime e dopo l'assassinio di Matteotti e il colpo di Stato del gennaio 1925 molti militanti lasciarono la penisola. Gramsci rimase a Roma e fu arrestato nel novembre del '26. Da quel momento cominciò per lui una nuova, drammatica storia, nella quale la politica si intrecciò con vicende personali di varia natura che lo condussero a un progressivo isolamento, anche dentro al Pcd'I. Un episodio importante in questo contesto fu costituito dalla svolta del 1930 della Terza Internazionale (si pensava che l'Europa fosse alla vigilia di una grande epoca rivoluzionaria) e l'identificazione della socialdemocrazia con il «socialfascismo», che tra l'altro contribuì all'ascesa di Hitler. Non tutti i dirigenti del partito accettarono questa analisi e Alfonso Leonetti, Pietro Tresso e Paolo Ravazzoli vennero espulsi; Umberto Terracini fu molto critico e lo stesso Gramsci non condivise quelle scelte. Intanto De Marchi si era stabilito a Mosca e nel 1932 aveva rinunciato alla cittadinanza italiana per quella sovietica. Dopo aver lavorato in una cooperativa agricola divenne un importante regista-documentarista che filmava i progressi dell'industrializzazione sovietica, ma, afferma Nissim, non era contento del regime stalininano: «Nel nostro studio - scriveva De Marchi in note private - fioriscono affarismo, demagogia, leccapiedi, nepotismo». Più di una volta si rivolse alla direzione della Mosfilm con osservazioni di varia natura, avanzando dubbi sul fenomeno dello stakanovismo. Nel mutato clima seguito all'assassinio di Kirov, De Marchi venne arrestato nel 1937 perché, afferma ancora Nissim, «con tali pensieri era difficile non essere presi di mira nel momento in cui cominciava il grande terrore staliniano».
L'Nkvd, la polizia politica sovietica, si rivolse ai rappresentanti del Pcd'I a Mosca chiedendo notizie sul loro prigioniero e si sentì rispondere che quell'antico militante non era più stato riammesso nel partito. In breve, dopo una confessione estorta con la tortura, venne fucilato. Gramsci insomma non solo non salvò alcun militante comunista dal Gulag ma il suo interessamento per De Marchi fu del tutto casuale e, se preso nel complesso della sua storia politica, assolutamente sporadico, un unicum che non muta nulla nella sua biografia, né più in generale nella storia del Pcd'I-Pci. Dopo il 1928 (quando fu condannato a vent'anni), del resto, lo stesso Gramsci si sentiva vittima di un oblio da parte del suo partito e un recente libro di Angelo Rossi e Giuseppe Vacca (Gramsci tra Mussolini e Stalin - Fazi), sembra sposare la tesi di un progressivo isolamento politico del fondatore dell'Ordine Nuovo, nonostante i contatti con Togliatti fossero mantenuti da Piero Sraffa e dal fratello Gennaro. Si tratta di una storia che nulla ha a che vedere con il Gulag staliniano e il Grande Terrore, sui quali Gramsci, gravemente malato, non aveva sufficienti elementi di conoscenza. La sua riflessione in carcere, com'è noto, si concentrò sulla storia italiana e sui rapporti tra le classi. Ingenuamente ma caparbiamente, studiava il russo nella speranza di poter tornare un giorno nella Russia soviettista, come egli la chiamava allora.

Liberazione 8.7.07
«Una spinta dal basso per far marciare l'unità»
All'assemblea dell'Ars. Aldo Tortorella ribadisce che «è importante e va rispettato il lavoro fatto fino ad ora dai partiti. Ma senza la partecipazione il nuovo soggetto plurale della sinistra non ce la farà a partire»
di s.b.


Potrebbero festeggiare. In fondo, dopo anni e anni di «predicazione nel deserto», l'unità e il rinnovamento della sinistra - i «loro» temi - sembrano a portata di mano. Quantomeno, ora, tutti ne parlano. E, invece, nulla di tutto questo: nè feste, nè celebrazioni. Solo voglia di percorre con intelligenza quest'««ultimo miglio». Forse il più difficile. Ecco - in "pillole" - l'assemblea di ieri dell'Ars, l'associazione per il rinnovamento della sinistra. Perché non dirlo?, quella che tutti conoscono come l'associazione di Aldo Tortorella. Definizione che resta valida, beninteso. Solo che da ieri, l'anziano leader avrà un ruolo diverso: sarà presidente del comitato dei garanti. Altri - quasi sicuramente Piero Di Siena, senatore della Sinistra democratica - prenderà il suo posto di coordinatore.
Ma questi sono dettagli. Di più, in un gruppo che ha costruito la sua "forza" sull'autorevolezza, contano i discorsi, le parole. Le analisi. Quella fatta da Tortorella nell'introduzione lascia pochi spazi all'ottimismo. La coalizione democratica che per il rotto della cuffia ha vinto le elezioni politiche, governa ormai da un anno. Ma il suo bilancio è assai negativo. Tortorella ha usato l'aggettivo: «impopolare». Questo governo non sembra più in sintonia col popolo che l'ha votato. Con l'aggiunta che i diesse hanno deciso di «cancellarsi» dalla scena politica. Tutto questo però ha liberato energie alla loro sinistra: l'uscita dalla Quercia di Mussi e degli altri. E così, è tornata all'ordine del giorno la discussione sulla nascita di un nuovo soggetto della sinistra. «Unitario, plurale».
A che punto si è? Tortorella è stato assai rispettoso del ruolo che hanno svolto fin qui i leader di tutte le formazioni della sinistra. Di più: ha riconosciuto coraggio ai loro gruppi dirigenti. Esattamente come ha valutato «importante» il patto d'unità d'azione, stretto fra i parlamentari a sinistra dei democratici.
Ma non basta. Non può bastare. Perché una sinistra «rifondata» deve cominciare a scrivere una sua carta di valori. Che siano condivisi da tutti. Ma, purtroppo, prima di questo, c'è bisogno di un altro lavoro: sottoporre a verifica critica tutti gli errori del secolo scorso. Tortorella, qui, all'assemblea dell'Ars, cita solo i capitoli di una ricerca che deve essere comune. Un lavoro per provare a ridefinire l'idea stessa di libertà. Che non può più essere subordinata al principio di uguaglianza, come forse è stato nel «secolo breve». Ma che certo non può neanche significare l'accettazione del principio - che fa capolino anche nei primi tentativi di definizione teorica del partito democratico - secondo il quale libertà significa assenza di regole. Dove vince sempre il più forte. Tortorella accenna ad un'espressione, «libertà solidale», che può essere una base di partenza per la ricerca. E ancora, la sinistra deve ripensare anche il significato dell'espressione uguaglianza. Che non può più significare «uniformità». Ma che deve diventare sinonimo di apertura culturale, di dialogo, di accettazione delle differenze. A cominciare da quelle di genere. Ridefinire alcuni punti cardine, dunque. Compresa l'idea di lavoro, di lavoratore. Che continua ad essere «merce», anche in un mondo globalizzato.
Discorsi solo teorici? No, l'analisi ha ricadute immediate. E qui, un po' sul serio, un po' per scherzo, Tortorella ha ripercorso puntigliosamente il discorso di Veltroni al Lingotto. Quello in cui s'è candidato a fare il leader del piddì. L'ha fatto per sostenere che sul welfare, su quelli che il sindaco di Roma ha definito «corporativismi» - mettendo in questa categoria anche gli operai che si battono per superare lo «scalone» -, sulla sicurezza, sulla questione migranti, deve esistere un «altro punto di vista». Che può allearsi assieme a quello moderato di Veltroni, insieme si può stare al governo. Ma la sinistra, da quei suoi «punti di vista» deve partire per disegnare un proprio progetto, una propria idea della società. Che abbia - ecco uno dei passaggi chiave - anche l'ambizione di diventare egemone. Che non si limiti a difendere piccole e grandi conquiste ma ambisca a sfidare i riformisti. Anche elettoralmente.
Un progetto che deve unire la sinistra. Tutta. E si ritorna al punto di partenza: come spingere per percorrere quest'ultimo miglio? Tortorella - e con lui nel dibattito tanti altri, da Occhetto a Cossutta - insiste nell'apprezzare quanto fatto fin qui dalle forze politiche. «Il problema però è creare una doppia spinta», aggiunge. Dall'alto e dal basso. Perché solo dal «basso» potrà venire la spinta a superare le difficoltà che si registrano fra i partiti. E allora? Bene il decalogo proposto da Paul Ginzborg e da decine di semplici militanti. Bene, le mille iniziative in programma in mille città. Bene, ovunque si cominci a discutere. Perché la «nuova sinistra» o sarà partecipata, o semplicemente non sarà.
s.b.

Repubblica 8.7.07
Quando il sindacato si accordò con Maroni
di Eugenio Scalfari


SE fosse soltanto la classe politica ad essersi trasformata in una casta la situazione sarebbe molto più chiara. Non dico più facile da risolvere, ma più chiara certamente sì e si potrebbe metter mano agli strumenti capaci di liquidarla.
Il guaio è che l´intera società si è trasformata in un sistema di caste che si guardano reciprocamente in cagnesco. Nessuna di loro è portatrice d´una visione del bene comune; nessuna del resto tenta di camuffarsi. Si direbbe che ciascuna sia orgogliosa di mostrare la propria natura castale e la propria capacità di tutelare i suoi interessi. Volete qualche esempio?
Comincerò dai sindacati confederali che, fino a pochi anni fa, si facevano un vanto (ampiamente giustificato) di darsi carico dell´interesse nazionale ritenendo che fosse questo il modo migliore per tutelare al tempo stesso gli interessi dei propri associati: lavoratori dipendenti e pensionati.
La concertazione fu lo strumento di quella politica. La moderazione sindacale consentì di battere l´inflazione che era l´imposta più terribile sul potere d´acquisto dei percettori di redditi fissi, la schiacciante maggioranza della popolazione.
Questo metodo è stato di fatto abbandonato. Soltanto una sottilissima carta velina distingue ormai i sindacati nazionali da una corporazione nazionale e da una "lobby" nazionale. In più punti quella carta velina è stata lacerata e la metamorfosi del sindacato in corporazione si è quasi compiuta. Da questo punto di vista Epifani si è assunto una pesantissima responsabilità, essendo lui esponente del sindacato più forte.
Epifani un´attenuante ce l´ha: il comportamento della sinistra radicale e in particolare di Rifondazione comunista che ne costituisce il nucleo portante. Quel partito in parte fa da sponda e in parte è una palla al piede dei sindacati. Comunque funge da alibi. Vuole difendere a tutti i costi l´attuale età pensionabile. Rifiuta lo scalino dei 58 anni, rifiuta le quote, rifiuta in blocco la politica del governo e gli obblighi che lo Stato ha assunto nei confronti dell´Europa. Basta leggere l´intervista data venerdì scorso dal presidente della Camera al nostro giornale per avere la conferma di questa posizione.
Eppure sia Epifani sia Bertinotti dovrebbero ricordare le seguenti circostanze:
1. I sindacati concordarono con l´allora ministro del Lavoro, Maroni, che la legge istitutiva del famoso scalone che portava in un colpo solo l´età pensionabile da 57 a 60 anni, avrebbe avuto il loro accordo alla condizione che la sua entrata in vigore fosse stata posticipata di tre anni.
Epifani ricorda certamente quel patto. Infatti la legge Maroni, approvata dal Parlamento nel 2004, entrerà in vigore soltanto il primo gennaio del 2008.
2. Quanto a Bertinotti e a quelli che si aggrappano al programma elettorale del centrosinistra reclamando l´abolizione dello scalone «senza se e senza ma», la memoria (e il testo di quelle 281 pagine) dovrebbe ricordargli che lo scalone, una volta abolito, «sarà sostituito da provvedimenti che in tempi graduali facciano fronte all´aumento demografico della popolazione, ferma restando la compatibilità con l´equilibrio del bilancio». Il «senza se e senza ma» non figura affatto nel programma elettorale ed è invece circondato da alcune condizioni che Prodi e Padoa-Schioppa stanno cercando ormai da sette mesi senza riuscire ad ottenere il gradimento della "lobby" sindacale e politica che ha perso la memoria di quanto aveva pattuito con Maroni nel 2004 e con tutti i partiti del centrosinistra nella stesura del programma del 2006.
3. Sia i sindacati che la sinistra politica hanno anche perso la memoria di uno dei punti essenziali della legge Dini sulle pensioni, che prevedeva la revisione dei coefficienti salario-pensione, da effettuarsi dopo dieci anni dall´entrata in vigore della legge. Fu approvata nel 1995 e quindi i coefficienti andavano rivisti nel 2005. Ma i sindacati ottennero dal solito Maroni di rinviare la revisione al 2006. Arrivata la scadenza, i sindacati hanno voluto un altro rinvio e comunque la revisione dei criteri di applicazione dei coefficienti. È stata insediata una commissione che deciderà entro l´anno in corso.
Osservo che tra i sindacati e il ministro leghista del Lavoro si era di fatto stabilito un clima di collaborazione molto intensa per spostare sia l´esame dei coefficienti sia l´innalzamento dell´età pensionabile a dopo le elezioni del 2006. Un collateralismo molto inquietante che induce a sospettare sulla buona fede dell´allora ministro, del governo del quale faceva parte e dei sindacati confederali.
* * *
Prodi e Padoa-Schioppa (l´ho già ricordato) hanno finora cercato di contemperare la forza corporativa dei sindacati e della sinistra politica con la necessità di procedere ad una riforma del sistema previdenziale che lo ponga su basi sostenibili. Sette mesi sono passati dal protocollo firmato dalle parti sociali e dal ministro dell´Economia il 31 dicembre del 2006. A noi sembra impossibile che questa "soap opera" possa continuare fino alla fine del prossimo settembre. E sembra impossibile che possa essere risolta solo con gli incentivi per chi decida di restare a lavoro anche dopo aver compiuto 58 anni (o 57?)
Gli incentivi vengono dati a tutti quelli che compiono l´età attualmente vigente per andare in pensione; anche a quelli che avessero già deciso di restare comunque a lavoro. Si tratta in tutto di 130 mila persone. Per di più Bertinotti è deciso a schierare il suo partito contro il governo di cui fa parte se per tutti gli operai non sarà prevista l´esenzione dall´aumento dell´età pensionabile; clausola inutilmente demagogica, visto che chi accetta l´incentivo dimostra con ciò stesso senza possibilità di dubbio di non considerare usurante il proprio lavoro.
Se gli incentivi non dovessero funzionare, nel 2010 l´età pensionabile sarebbe portata a 60 anni. Di fatto, dopo il rinvio di tre anni fa concordato con Maroni si chiedono ora altri tre anni di tempo. È credibile un sindacato che non rispetta le scadenze? Sarebbe credibile un governo già notevolmente usurato che presti fede ad un interlocutore non più affidabile?
Noi crediamo che per il governo sia arrivata l´ora della decisione. Prodi ha fatto sapere ieri che – avendo ormai ascoltato e riascoltato il parere di tutti gli interessati – nei prossimi giorni farà una proposta.
Mi lasci dire, signor presidente del Consiglio, che la parola «proposta» non si addice alla situazione che si è creata. È auspicabile che lei manifesti la sua soluzione e la presenti al Consiglio dei ministri come una decisione sulla quale porre la fiducia al Consiglio stesso dove – pur auspicando l´unanimità – le sarà sufficiente la maggioranza. Se i dissenzienti vorranno provocare la crisi sarà loro la responsabilità. Per la seconda volta toccherebbe dunque a Rifondazione consumare una sorta di «parricidio» politico con la differenza rispetto al 1998 che allora Rifondazione non faceva parte della maggioranza ma aveva solo pattuito un appoggio esterno, mentre ora è parte integrante del governo.
Il presidente della Camera lascia intendere che non ha altra strada, non vuole neppure sentir parlare di diversità di interessi tra giovani e anziani, il suo problema è che non scompaia la sinistra antagonista.
Somiglia a Storace (mi scusi per il paragone) che non vuole la scomparsa della destra. Quanto al conflitto previdenziale tra giovani e anziani, esso è un dato di fatto, le cifre stanno a dimostrarlo e la percezione degli interessati anche. Allora di che cosa parla, onorevole Bertinotti?
Lei di solito è bravissimo a buttare la palla in tribuna parlando di questioni storiche e culturali per dire a nuora perché suocera intenda. Ma questa volta nell´intervista sopra citata lei ha detto pane al pane e vino al vino. Ne dobbiamo dunque dedurre che se il suo partito, da lei incoraggiato, dovesse mettere il governo in crisi, lei lascerebbe contestualmente il suo incarico istituzionale? Sarebbe il minimo che lei possa fare in simili circostanze.
* * *
Questa delle pensioni non è però la sola questione che agita le varie e contrapposte "caste" o "corporazioni" o "lobbies" che dir si voglia. Ce ne sono a dozzine e nell´impossibilità di approfondirle tutte mi limiterò ora ad indicarne alcune.
C´è la questione (gravissima) delle intercettazioni disposte illegalmente dal Sismi di Pollari e di Pio Pompa ai danni di magistrati, uomini politici, giornalisti in odore di centrosinistra. Il Consiglio superiore della magistratura ha approvato all´unanimità un documento che denuncia la "persecuzione" contro i magistrati. Non è una sentenza ma una denuncia a tutela della magistratura e come tale rientra in pieno nelle competenze del Csm. Chi ignora o finge di ignorare questo punto fa opera grave di disinformazione.
Una seconda questione è quella dell´ordine del giorno di sfiducia che il centrodestra preannuncia contro il viceministro Vincenzo Visco. L´ordine del giorno non si riferisce all´avviso di garanzia che Visco ha ricevuto dalla procura di Roma ma, su consiglio dell´onorevole Casini, mette sotto accusa la politica fiscale «ispirata e messa in atto da Visco» come recita il documento redatto dall´onorevole D´Onofrio.
Il presidente del Senato non ha certo bisogno dei nostri consigli in materia ma ricordiamo ai nostri lettori: 1) la sfiducia personale può essere proposta contro i ministri. Nei confronti dei sottosegretari o viceministri non è contemplata dalla legge né dai regolamenti parlamentari. 2) Se poi l´accusa riguarda la politica fiscale il responsabile è il governo nella sua interezza e il presidente del Consiglio che costituzionalmente lo rappresenta. Formulare un ordine del giorno che accusa un viceministro per la politica fiscale del governo è un documento irricevibile e non può esser messo in votazione. È singolare che l´abbia suggerito Casini, che è stato per cinque anni presidente della Camera.
Terza questione: i bastoni tra le ruote di Veltroni. Ce n´è una catasta. C´è chi lo spinge a "entrare nel merito". Ma da due settimane Veltroni non fa altro. Che cosa vogliono in realtà gli autopromossi suggeritori? Che proponga leggi articolate in commi? Che intervenga sui fatti del giorno? Che rubi il mestiere al presidente del Consiglio?
C´è chi spinge affinché si candidino altri esponenti del centrosinistra contro di lui. Anche se i loro programmi non siano alternativi ai suoi. E così un Bersani dia fiducia e faccia la conta dell´orgoglio diessino, un Letta lo faccia per l´orgoglio margheritino, una Bindi per l´orgoglio dei cattolici, un Rutelli per l´orgoglio di Rutelli e un Parisi lo faccia non si sa perché.
Che senso ha tutto questo? Nessuno, salvo quello di tagliare l´erba sotto i piedi di Veltroni.
Gli stessi che sospingono queste candidature alternative si dichiarano invece contrari a liste di sostegno a Veltroni. Vorrebbero che il sindaco di Roma affrontasse la competizione con gli altri alzando la bandiera del Partito democratico che ancora non c´è.
Chi favorisce questo bailamme vuole in realtà lanciare bastoni tra le ruote del convoglio veltroniano ed ecco un altro bell´esempio di lobbismo mediatico per impedire che il Partito democratico nasca.
* * *
C´è infine la questione finale: quella della legge elettorale. Ezio Mauro ha scritto venerdì scorso prendendo posizione in favore del referendum. Speravamo – scrive il nostro direttore – che il Parlamento varasse ed approvasse una nuova e buona legge che abolendo la "porcata" di Calderoli recuperasse governabilità, rappresentatività, diritto degli elettori a indicare i candidati preferiti.
Così non è avvenuto e non si sa se avverrà. Ci sembra dunque opportuno che le firme necessarie per la presentazione dei quesiti referendari siano raccolte (mancano pochi giorni alla scadenza del termine) e lo siano in larga misura. Sarà uno stimolo al Parlamento, almeno così si spera, affinché legiferi nel solco dei quesiti referendari come la legge prescrive.
Alcuni membri del governo, tra i quali soprattutto Mastella, minacciano dimissioni come se il governo possa impedire le procedure referendarie. È strano che il ministro della Giustizia ignori in questo caso leggi e procedure. O meglio: è ancora una volta una visione lobbistica della politica. Non va bene, onorevole Mastella. Non va affatto bene. Forse lei non se accorge, ma lo spettacolo che troppo spesso lei dà di sé è per noi molto avvilente. Lo eviti. Per favore.

sabato 7 luglio 2007

Liberazione 7.7.07
Il Prc: rete della Sinistra e consultazione di massa
di Romina Velchi


«Siamo usciti meglio di come siamo entrati. Sicuramente meglio di come veniamo rappresentati». Francesco Ferrara, al termine della due giorni del Prc a Segni, non nasconde la soddisfazione per la buona riuscita dell'appuntamento, giudicato «utile» praticamente all'unanimità. I giornali hanno parlato di «crisi di nervi», liti. Invece, nel tranquillo e appartato albergo della cittadina alle porte di Roma, si è svolta, a detta di tutti i partecipanti, una discussione sì intensa (e anche serrata) ma «unitaria», in cui le posizioni si sono confrontate apertamente cercando una sintesi. Un appunamento di cui, forse, si avvertiva il bisogno (dopo le prese di posizione a colpi di articoli anche su Liberazione ), come testimonia la quarantina di interventi che si sono succeduti e le ore e ore di dibattito quasi stakanovista (ieri si è cominciato alle otto e mezza del mattino).
Al segretario Franco Giordano l'arduo compito di riportare la dialettica interna alla maggioranza del gruppo dirigente su un binario di unità. E Giordano lo fa ribadendo che il processo unitario a sinistra è irreversibile; che va perseguito con modalità confederative che non siano meramente verticistiche, ma sappiano parlare al corpo sociale e che vedano la partecipazione «dei partiti, ma anche delle associazioni, delle esperienze di conflitto sociale, delle organizzazioni sindacali» (non un "tutti dentro", non un'idea statica, ma appunto un processo); e che, infine, Rifondazione non si scioglie, perché la sua esistenza «non è un ostacolo», così come non lo è la Sinistra europea; e perché non è che "gli altri" abbiano intenzione di farlo.
Al fondo c'è l'idea della «democrazia del pubblico», della partecipazione diretta e attiva delle persone, che fa il paio con la proposta (che sarà portata al Cpn di sabato e domenica prossimi) di una «consultazione vera» (non il referendum sulla Cosa rossa proposto da Folena) di tutto il popolo dell'Unione sul tema del programma del governo (si parla anche di questionari alle feste di partito); e che qualifica il sì di Giordano alla proposta di Mussi e Diliberto di una grande manifestazione in autunno: «Siamo senz'altro d'accordo, l'abbiamo proposta anche noi. Ma deve avere un'identità programmatica ben precisa, una piattaforma che tenga ben chiari i temi sociali e i diritti civili»: salari, lavoro, pace, precarietà. E questa piattaforma non potrà non essere frutto di un coinvolgimento-consultazione di altri soggetti: di nuovo «associazioni, sindacati, movimenti». Che poi è anche la via maestra per decidere le prossime mosse del Prc: alla domanda "quale rapporto con il governo?", Rifondazione risponderà serrando il legame con il proprio popolo, con i movimenti. Insomma, attraverso una "rete della sinistra" che rafforzi le sedi unitarie di azione ed elaborazione politica tra i soggetti a sinistra del Pd. Per contrastare il quale serve una innovazione nei contenuti teorici (culturali e politici). Ben sapendo che l'azione del governo va spostata a sinistra: il «mutamento di paradigma», di cui ha parlato il segretario nella relazione.
Con il che, Giordano incassa l'apprezzamento della linea sin qui tenuta dal partito nel rapporto con il governo e nel delicato passaggio della trattativa sulle pensioni. Oltre che una sostanziale riconferma alla segreteria, anche da parte dei possibili altri candidati. Quasi un plebiscito, a Segni, che sgombera il terreno dalle contrapposizioni e prefigura un clima di unità in vista del congresso (che la maggioranza, riunitasi in questi due giorni, proporrà che si svolga a fine gennaio). Valga per tutti l'appello a fare il «congresso presto» di Gennaro Migliore, il quale sottolinea di non avere «velleità di candidarsi. Chi lo pensa sbaglia». Il capogruppo alla Camera ha, anzi, proposto che la relazione di Giordano «diventi la base del documento con cui la maggioranza si presenterà al congresso. Ritengo necessario - precisa Migliore, correggendo l'interpretazione di Liberazione - che si proceda celermente nella costruzione dello spazio pubblico necessario per inventare un soggetto politico plurale, di cui Rifondazione comunista, nel suo complesso, sia parte indispensabile. Si tratta di un processo (magari, perché no, confederale) aperto, il cui esito sarà affidato ai protagonisti dell'impresa. Per questo proporre un nuovo partito sarebbe sbagliato. Noi, come partito, abbiamo l'onere di cominciare, con fiducia».
Questa è una delle due linee che, in tema di unità a sinistra, si sono confrontate a Segni: quella (si potrebbe dire "bertinottiana") che investe di più sul processo unitario, che non ritiene di deciderne gli sbocchi, ma neanche di scartarne a priori e che trova d'accordo, tra gli altri, i "giovani", Caprili, Gagliardi, Russo Spena e lo stesso Migliore. Dall'altra la linea più diffidente, preoccupata dell'identità di Rifondazione; che teme che il cantiere della sinistra finisca con lo spostare a destra l'asse complessivo, in un'operazione verticistica incapace di coinvolgere il corpo del partito; e che condivide l'impostazione di Giordano, secondo cui sarà il processo stesso a decidere che forma prendere, ma ribadendo in modo esplicito il no al partito unico. In questa linea si riconoscono, per esempio, il forum Donne, una parte della segreteria, Paolo Ferrero.
Ai due estremi Alfonso Gianni, che insiste sugli «stati generali della sinistra subito», e Ramon Mantovani, che resta fermo sul no a qualsiasi forma di unione con il resto delle forze a sinistra del Pd. Nel mezzo Giordano, che ha saputo mettere in campo argomenti nei quali le diverse posizioni si possono riconoscere. Applauso finale, ringraziamento ai compagni che hanno reso possibile la due giorni, arrivederci a Segni (dove Rifondazione conta 60 iscritti e da sette anni è al governo) e all'hotel "La pace", dove «si mangia bene». Se ne vanno i protagonisti. Li attendono mesi di fuoco.

Liberazione 7.7.07
Una proposta per uscire dalla stretta e ridar senso alla politica "partecipata"
Sulle pensioni consultiamo i cittadini
di Piero Sansonetti


Sulle pensioni si sta giocando una partita doppia. La prima è una partita strettamente politica. C'è una parte del centrosinistra e del mondo imprenditoriale italiano che vuole, attraverso le pensioni, sconfiggere la sinistra. Come avviene questo attacco? Cercando la demolizione del "blocco sociale" della sinistra. E per questa via minando anche la sua unità interna, e dunque bloccando la possibilità che cresca, che pesi, che condizioni il governo. Sulle pensioni, e sulla difesa dello scalone-Maroni (cioè dell'innalzamento del'età pensionabile) si sta realizzando in forme classiche, e persino molto antiche, un vero e proprio - e feroce - attacco antioperaio. Di stile "vallettiano" (sapete chi era Vittorio Valletta? Era il mitico "padrone" degli anni '50, il presidente della Fiat che inflisse epiche sconfitte ai sindacati e guidò la borghesia a una stagione di schiaccianti vittorie che furono fermate e rovesciate solo nel '68-69). I condottieri di questa offensiva contro la sinistra sono la Confindustria e settori non piccoli sia della destra sia del centrosinistra, in particolare una fetta considerevole del neonato partito democratico. Vedremo se Prodi saprà spezzare questa alleanza e in questo modo riaccreditarsi come leader del centrosinistra. Per Prodi questa è l'unica via possibile per fermare la crisi, ma non è detto che la imbocchi.
La seconda partita è meno politica e più economica. Ed è quasi segreta. I giornali non ne parlano, l'ordine è di tacere e negare. Proviamo a riassumere i termini di questa partita: lo scalone è visto come pietra miliare di una lunga battaglia che punta a devastare il sistema pensionistico italiano, per poi privatizzarlo. I grandi interessi, potentissimi, legati alle rendite finanziarie, sono in attesa famelica. Avviare in tempi medi o brevi la privatizzazione del sistema delle pensioni, può modificare tutta l'economia italiana. E' un affare di miliardi e miliardi, è uno spostamento gigantesco di capitali e di ricchezze e può segnare in modo irreversibile la prevalenza del capitalismo finanziario su quello produttivo. Se ancora non avete capito perché vari partiti politici di centrosinistra non assumono posizioni più avanzate sulle pensioni, questa è la spiegazione: non c'è - dietro le loro scelte - né ideologia, né vere ragioni di economia pubblica, né - tantomeno - buonsenso: c'è una immensa operazione di speculazione.
Perché Rifondazione - viceversa - ha assunto posizioni così rigorose. Perché non sembra disposta a trattare? Non solo perché non è coinvolta nel grande progetto finanziario della gracile borghesia italiana. Ma perché ha ben chiara una idea: che né la sinistra né il centrosinistra possono sacrificare alla realkpolitik gli interessi vitali del proprio blocco sociale. E ha ben chiara l'idea che nessuna coalizione di centrosinistra può cancellare dal proprio blocco sociale la classe operaia. Pena la propria fine, la fine della propria ragione di essere. E gli interessi vitali della classe operaia che vengono messi in discussione dagli stessi dirigenti del centrosinistra - con parole dolci da Veltroni, con grida un po' sguaiate da Rutelli, con arroganza borghese da Dini, con l'abituale freddezza cinica da D'Alema - sono davvero interessi vitali, nel senso che riguardano la sopravvivenza. Oggi gli operai vivono con salari bassissimi, le condizioni di lavoro stanno peggiorando, il tasso di sfruttamento negli ultimi quindici anni si è paurosamente innalzato. E proprio a loro viene detto: non ti do la pensione per il bene del paese. E se non lo capisci sei egoista. C'è solo un velo di moralità politica e intellettuale in questo? No, non c'è.
Che si può fare? Il Parlamento non è chiamato a votare ora sullo sclaone. Potrà votare a ottobre, o a novembre. Nel frattempo - l'idea si sta facendo largo tra i dirigenti di Rifondazione - si potrebbe aprire una consultazione seria tra i lavoratori e i cittadini. L'Unione potrebbe nominare un comitato serio, affidabile - di intettuali, sindacalisti, sociologi, economisti, giuristi - che si incarichi di un vero e proprio referendum su varie opzioni, che decida quale riforma delle pensioni sia la più seria e se l'età pensionabile vada o no innalzata. Non sarebbe una forma di democrazia partecipata più seria e utile persino delle primarie dell'Ulivo?

Repubblica 7.7.07
Croce, lettere su dio
In un epistolario curato da Giovanni Russo il filosofo affronta temi religiosi
di Nello Ajello


Sono gli anni in cui compare il saggio "Perché non possiamo non dirci cristiani"
Un fitto dialogo, durato un decennio con un´aristocratica napoletana

«Lettura di un libretto di versi religiosi della signora Maria Curtopassi», scriveva Benedetto Croce nei suoi Taccuini di lavoro il 2 gennaio 1942, «del quale farò un annunzio per La Critica». È il sostanziale preludio ad una frequentazione epistolare durata oltre dieci anni, fin quasi alla morte del filosofo. Ne dà conto il volume di Benedetto Croce e Maria Curtopassi, Dialogo su Dio. Carteggio 1941-52, che esce a giorni in edizione Archinto, a cura di Giovanni Russo (pagg. 180, euro 18, 50).
La corrispondente del pensatore settantaseienne è un´aristocratica napoletana che sfiora i cinquant´anni. «Una donna cristiana e cattolica», così la definirà Croce, capace di sentire la religione «nella forma di verità che è propria della poesia». Dalle Liriche della Curtopassi il filosofo è vivamente colpito, al punto da scrivere la prefazione al libretto, che ha letto ancora inedito. La Curtopassi, dal suo canto, non esita a professarsi sua allieva. Croce le fa spedire la Storia d´Italia e le preannunzia l´invio della Storia d´Europa. Così, l´epistolario prende i colori dell´amicizia.
Giovanni Russo, che questo carteggio ha trovato e ordinato, riassume con efficacia le intenzioni della poetessa: la vede «impegnata nel cercare le coincidenze tra la dottrina cattolica e la filosofia crociana». Il filosofo non si sottrae al confronto. Ne approfitta, anzi, per esporre i modi molto personali della sua vicinanza al Vangelo e, più in generale, alla religiosità giudaico-cristiana, e insieme i motivi di critica che lo oppongono alla corrente cultura cattolica.
L´inizio di questo «duello a distanza», così lo definisce lo stesso Russo, cade in un momento propizio. Nell´estate del ´42 - lo si rileva sempre dai suoi "taccuini" - Croce sta riflettendo su temi analoghi a quelli toccati nelle lettere, spesso molto lunghe, della sua interlocutrice. «Risvegliatomi dopo la mezzanotte», egli annota il 16 agosto, «sono andato a letto, ma non ho potuto riaddormentarmi presto, e non ho trovato di meglio da fare che venire meditando sul punto: perché non possiamo non chiamarci cristiani?. La mattina ho tracciato il disegno di un piccolo scritto sull´argomento». È il celebre saggio, che uscirà nella Critica il 20 novembre 1942 con il titolo, appunto, Perché non possiamo non dirci cristiani.
Le lettere di Croce che qui pubblichiamo, scegliendole fra le ventuno comprese nel volume, parlano da sole. È facile sciogliere qualche allusione in esse contenuta. Con ogni probabilità, nel «materialista storico» che si dice scandalizzato per la vicinanza politica di Croce a De Gasperi - se ne parla nella lettera del 21 dicembre ´47 - va individuato Palmiro Togliatti. L´articolo di Croce sul Mondo (egli vi accenna il 28 marzo ´49) era uscito dieci giorni prima con il titolo L´uomo vive nella verità. Notizie occasionali. Esse confermano, tuttavia, che il dialogo epistolare fra la poetessa e il filosofo, recuperato grazie a Giovanni Russo, non è una mera "trouvaille", ma si colloca in una zona vitale del pensiero crociano.

GLI INEDITI
"La civiltà moderna figlia di Cristo"
Nella religione delle anime elette c'è qualcosa di poetico
La Chiesa ha perduto la sua plasticità, si è irrigidita e può andare in pezzi

Napoli, 10.6.1941
Pregiatissima Signora, ho letto le sue lettere con la serietà che meritano, perché nascono da uno spirito nobile e severo, profondamente religioso, e da un animo sensibile (...). La ringrazio di avermi data l´occasione di incontrarmi - raro incontro ai nostri giorni - con qualcosa di umanamente gentile.
B.Croce

Napoli, 23.VI.´41
Pregiatissima Signora, (...). Puro filosofo quale sono, e, per sincerità verso me stesso, voglio restare, io stimo che il più profondo rivolgimento spirituale compiuto dall´umanità sia stato il cristianesimo, e il cristianesimo ho ricevuto e serbo, lievito perpetuo, nella mia anima. E godo perciò che il mio pensiero abbia trovato qualche risonanza in un così nobile spirito cristiano come il Suo. B.Croce

Napoli,
3 gennaio 1942
Pregiatissima Signora (...), mi giunge il dono del suo volumetto, che io sono ben lieto che lei si sia risoluta a pubblicare. Ne darò un annuncio e alcuni saggi nella Critica. Le farò avere le bozze di stampa, perché Ella mi dica se desidera che qualcosa sia modificato. C´è un fondo di fede umana in ciò che è superiore e solo ha valore, che io ho ritrovato nelle persone più da me diverse di concetti e di opere, e per il quale mi sono sentito congiunto intimamente con un prete e con un materialista, assai più che con altri che con me consentiva nelle idee e nell´azione pratica. Forse questo intimo e profondo consenso, questo fluido impalpabile, è ciò che Ella chiama, e anche a me piace chiamare, cristianesimo.
B. Croce

Pollone, 30 agosto 1942
Gentilissima Sig.ra e amica, La sua lettera ultima è stata da me letta, e anche riletta, con viva partecipazione, anche perché ho proseguito, e quasi terminato, in questi giorni il Nuovo Testamento. Le dirò che c´è nella religione delle anime elette qualcosa di poetico e amoroso al quale credo che io non potrò giungere, perché sono tutto pensiero ed azione, con la poesia e l´amore che questi placano e sottintendono. Ma, pure rendendomi conto di questo limite, sono profondamente convinto e persuaso che il pensiero e la civiltà moderna sono cristiani, prosecuzione dell´impulso dato da Gesù e da Paolo. Su di ciò ho scritto una breve nota, di carattere storico, che pubblicherò appena ne avrò lo spazio disponibile. Del resto, non sente Ella che in questa terribile guerra mondiale ciò che è in contrasto è una concezione ancora cristiana della vita con un´altra che vorrebbe risalire all´età precristiana, e anzi pre-ellenica e preorientale, e riattaccare quella anteriore alla civiltà, la barbarica violenza dell´orda? Portae inferi non praevalebunt. Spero bene (...).
B. Croce

Napoli, 21 dic. ´47
Stimatissima Signora ed amica (...), le religioni sono piene di filosofia, soprattutto la cristiana. Ma il mio dubbio è che il suo scritto non sarà accolto dalle riviste cattoliche, che non vanno per il sottile, e mentre credono grandi pensatori i meccanici ripetitori di vecchiumi, non tollerano chi parla in nome del pensiero umano e lo tiene umano-divino. Comunque, ho letto nei giornali, a proposito dell´appoggio che io col Partito Liberale ho dato alle postille di De Gasperi (il quale, ora come ora, mira a salvare la libertà italiana contro il bolscevismo russo) che il De Gasperi, cattolico, si è alleato col «capo degli atei internazionali, con B. C.»! Naturalmente questa sollecitudine per l´offesa recata a Dio veniva dalle labbra di un materialista storico per il quale non è altro Dio che materia, o più propriamente l´interesse economico. Io, modestamente, so di vivere in un continuo colloquio con Dio, così serio e intenso che molti cattolici e molti preti non hanno mai sentito nella loro anima.
B. Croce

Napoli, 29.X.´48
Stimatissima amica (.), ciò che mi scrive nells sua lettera mi conferma che Lei ha sentito e compreso la mia anima. Quanto alla teologia che ora si vuole di nuovo nelle nostre università, a me pare vietata dal Decalogo che vuole che il nome di Dio non sia pronunciato invano. E invano lo si pronuncia quando lo si prende in astratto e lo si separa dall´uomo. In questi casi persino fa sbadigliare. Mi ricordo l´aneddoto del direttore della Revue des deux mondes. Avendogli Pierre Leroux portato un articolo e domandato il direttore quale ne fosse l´argomento e dettogli dal Leroux: «Dieu», egli esclamò - «Dieu! Quel mauvais sujet!». Tanto per ridere talvolta, ora che così difficilmente si riesce a ridere.
B. Croce

Napoli, 1. febbraio ´49
Carissima amica (...), certo la cultura cattolica è ora inferiore assai a quella del mondo laico, e avrebbe bisogno di rinnovarsi e di autocriticarsi. Ma il male è che la Chiesa ha perduto da quattro secoli la sua plasticità, si è irrigidita e se tentasse di muoversi e progredire, correrebbe il rischio di andare in pezzi. E se affrontasse coraggiosamente questo rischio e andasse innanzi, che cos´altro poi troverebbe? Quel complesso di verità assodate che uomini cristiani ma laici hanno prodotto col loro lavoro: eredità che non si può rifiutare, si deve accrescere e correggerla, anche per accrescerla, ma col metodo stesso col quale è stata trovata, cioè col metodo antidommatico e critico, che non ammette verità che non nascano dal pensiero, il quale è esso stesso verità (...).
B. Croce

18. III. ´49
Gentile amica, grazie della sua lettera affettuosa. Non so se le sia venuto sott´occhio, nel Mondo (n. 4, mi sembra), un mio articolo, nel quale io affronto la fede, o, per meglio dire, la verità dell´esistenza di Dio, con argomenti non teologici. Ma forse non ne prenderà scandalo, perché, se mai, la mia dimostrazione non nega, ma integra la fede.
B. Croce

Repubblica 7.7.07
Sul saggio di Prem Shankar Jha
Capitalismo l'ultima crisi
L'India sarà il fulcro del xxi secolo
di Eric Hobsbawm


Anticipiamo parte dell´introduzione che ha scritto per Il caos prossimo venturo dell´economista indiano Prem Shankar Jha (Neri Pozza, pagg. 688, euro 25, traduzione di Andrea Grechi e Andrea Spilla)

In questi primi anni del XXI secolo si stenta a ricordare l´ottimismo, per non dire il trionfalismo, con cui il crollo del comunismo fu accolto nelle nazioni ricche del Nord del mondo. Dov´è la «fine della storia» teorizzata da Fukuyama? Oggi, anche i politici e gli ideologi di quei paesi sono molto cauti nelle loro previsioni di un futuro di pace e prosperità per un mondo che appare in evidente crisi. Il valore di un libro sull´attuale situazione del pianeta, tuttavia, non si misura nel suo essere speranzoso o disincantato, ma nell´aiutarci a capirla, ovvero nel fornire una comprensione storica della crisi presente. Il libro straordinariamente intelligente, lucido e problematico di Prem Shankar Jha supera questa prova a pieni voti. È una lettura fondamentale per la prima decade di questo terzo millennio.
L´autore considera la crisi attuale come l´ultima in ordine di tempo nello sviluppo secolare di un capitalismo per sua propria natura sempre più globalizzato. A suo giudizio, questa è la quarta volta che il capitalismo infrange il suo «contenitore» economico, politico e istituzionale, nel corso di una storia le cui origini egli fa risalire al Medioevo. Come nel passato, la fine di ciascuno di questi cicli di espansione ha segnato il crollo delle istituzioni e un prolungato conflitto tra gli stati e al loro interno, nonché quello che è stato definito «caos sistemico». (...)
Ciascuna delle precedenti fasi di espansione capitalistica, sostiene Jha, fu contrassegnata dall´egemonia di un centro economico predominante, e collegata sin dal XVII secolo a un´innovazione di portata storica: lo «stato-nazione» su base territoriale all´interno di un sistema di potere internazionale. Dopo quella che considera l´era delle città-stato medievali, dopo l´egemonia economica dei Paesi Bassi seguita da quella della Gran Bretagna, oggi siamo al termine del «secolo americano». Ma nel suo ritmo accelerato, la globalizzazione ha travalicato i limiti della cornice relativamente stabile e flessibile che il capitalismo aveva generato – nello specifico lo stato-nazione con le sue istituzioni e il suo sistema internazionale – e che aveva consentito ad esso di svilupparsi senza esplodere o implodere e di riprendersi dalle crisi della prima metà del XX secolo. Tale sistema non funziona più, e nessuna chiara alternativa è in vista. Bisogna prepararsi a una nuova fase di distruzione e a un caos più profondo, prima che le contraddizioni interne ed esterne della crisi attuale della globalizzazione siano superate.
Diversamente dalla gran parte delle opere sulla globalizzazione, in genere scritte in Europa o nel Nord America, la voce di Prem Shankar Jha ci arriva dall´India, la regione che probabilmente sarà il fulcro del mondo del XXI secolo, ma il cui spettacolare sviluppo coincide con il «caos sistemico» in cui l´economia globale si trova immersa sin dall´avvio dell´attuale epoca di crisi negli anni Settanta. (...)
Gli effetti negativi della globalizzazione sui paesi sviluppati, come anche le conseguenze della loro deindustrializzazione e l´erosione dei loro sistemi di welfare, sono concreti ma lenti, e mitigati dalla ricchezza accumulata in quelle società. I terremoti generati in quei paesi sono piccole scosse al fondo della scala Richter economica, ma nel mondo «in via di sviluppo» sono cataclismi. Quando politici e giornalisti dell´Unione Europea parlano di crisi economica, non si riferiscono a quello che Jha giustamente definisce il «tracollo» del 1997-98, delle cui manifestazioni nel sud-est asiatico fornisce un´acuta analisi; non si riferiscono alle esplosioni sismiche che hanno scosso Brasile, Messico e Argentina a partire dagli anni Ottanta, e che i commentatori occidentali in massima parte giudicarono come la riprova dell´immaturità degli imprenditori e dei governanti del Terzo mondo rispetto a quelli dei paesi Ocse.
Un osservatore appartenente a un paese come l´India, rispetto a quelli dei paesi ricchi, corre meno rischi di confondere gli effetti generalmente benefici dell´industrializzazione e del progresso tecnico-scientifico con le conseguenze assai più problematiche della globalizzazione capitalistica incontrollata, vale a dire il drammatico allargamento della forbice tra i redditi pro-capite dei paesi sviluppati e quelli della maggior parte degli altri paesi – e, all´interno di quasi tutti i paesi, il divario tra ricchi e poveri. Soprattutto, è difficile che non tenga costantemente presente che frasi come «ho fame» o «non ho lavoro» hanno un significato profondamente diverso in paesi con un Pil medio pro capite di 25.000 dollari rispetto a paesi in cui è di soli 500 dollari.

Repubblica 7.7.07
La famiglia che non c'è
"Il modello perfetto", dice lo studioso, "è un'invenzione delle classi conservatrici ed è sempre stato così"


«La famiglia felice è un´invenzione», sorride Salvador Minuchin, lo sguardo sapiente di chi da mezzo secolo studia le famiglie, ne osserva mutamenti profondi o impercettibili, si adopera per curarle, cucire strappi, sradicare relazioni sbagliate. Ottantaquattrenne ebreo russo cresciuto in Argentina, è un padre fondatore della terapia famigliare, l´ha aiutata a crescere con una pratica internazionale tra Israele e Stati Uniti e opere ormai classiche quali Quando la famiglia guarisce, Famiglie e terapie della famiglia, Famiglie psicosomatiche. «Quando incontro una famiglia sono con tutti i sensi all´erta, come un appassionato di enigmistica alle prese con l´edizione domenicale del Times». Ne ha conosciute di ogni genere, nei ghetti di New York, nei kibbutz israeliani o nei loft di Manhattan. «La famiglia ideale non esiste», ripete con convinzione, forte di un´antica dimestichezza con il sogno dell´americano medio, «il modello "marito di successo-moglie casalinga-due figli e mezzo", ancora così caro a molti politici». Per il suo lavoro questo modello non ha mai avuto rilevanza. «È vero che la composizione di una famiglia può dare degli indizi rispetto all´individuazione dei problemi. Se incontro una donna sola con un figlio unico, posso già presupporre un eccesso di investimento emotivo della madre e uno sviluppo precoce nel bambino. Ma gli elementi che cerco sono sempre la flessibilità, la competizione, l´empatia, la gerarchia, il caos».
Minuchin è venuto in Italia - su iniziativa del professor Luigi Onnis per un workshop delle scuole IEFCoS e IEFCoSTRE insieme al Dipartimento di Scienze Psichiatriche dell´Università di Roma - in un momento in cui la famiglia è diventata un tema di discussione politica e culturale, contesa tra chi ne difende la natura eterogenea e multiforme (dalle famiglie monogenitoriali a quelle allargate) e chi ne rivendica l´omologazione a una regola rigida, secondo i principi dell´ortodossia cattolica. «Il modello della famiglia perfetta è un´invenzione delle classi conservatrici», dice Minuchin. «È sempre stato così. Basterebbe il titolo d´un celebre saggio di Stephanie Coontz, The way we never were, American families and nostalgia trap, ovvero il modo in cui non siamo mai stati, un libro che demoliva il rimpianto di quell´eden perduto incarnato dagli anni Cinquanta. Non esiste un unico tipo di famiglia, ne esistono a centinaia, a seconda del contesto geografico, sociale e culturale. In Cina i bambini crescono con i nonni, nei paesi baschi gli uomini hanno due mogli: la propria consorte e gli amici. Quel che dobbiamo chiederci non è "qual è la famiglia ideale", piuttosto come riuscire a essere bravi genitori, indipendentemente dalla forma famigliare».
Ma cosa bisogna fare per essere un "bravo genitore"? «Al primo posto metterei il lavoro fatto insieme. Sia il padre che la madre sono responsabili dello sviluppo dei figli, condividono le responsabilità nel crescerli. In questo senso le famiglie moderne sono assai più progredite rispetto al passato, segnato dall´assenza della figura paterna. Oggi gli uomini sono più attenti dei loro padri e dei loro nonni. Naturalmente bisogna poi intendersi su cosa significhi amare i propri figli, e qui il lavoro dei genitori comincia a complicarsi: perché amare significa innanzitutto comprendere i bisogni, e i bisogni cambiano nel tempo. Il genitore capace sa cogliere questi mutamenti, e sa adattare al cambiamento anche quel suo ruolo inderogabile che consiste nel fissare le regole. Non bisogna mai dimenticarsi che un figlio ha la necessità di avere delle regole. Dall´età infantile all´adolescenza, i ragazzi hanno sempre bisogno di controllo, disciplina e guida. Non è pensabile alcuno sviluppo senza norme: in questo devo smentire Rousseau e il mito del buon selvaggio».
La famiglia è un´organizzazione sociale necessaria, ripete Minuchin. Può cambiare nel tempo, nella storia minima famigliare come nella storia d´una società. E la scommessa consiste proprio nel percepire i cambiamenti all´interno delle relazioni famigliari, cogliere il momento della crisi, adattandovisi di volta in volta. «Una mamma rigida dovrà necessariamente ammorbidire l´indole normativa con la figlia adolescente: il processo di crescita ha bisogno di contenimento, ma anche la regola si deve commisurare all´evoluzione dei rapporti. Un equivoco da evitare è quello del "genitore amico dei figli". I figli devono stare con i loro coetanei: ai genitori spetta un altro ruolo».
Di recente Minuchin ha messo a punto un nuovo metodo di valutazione delle coppie e delle famiglie articolato in quattro fasi (ne è testimonianza il libro ancora inedito in Italia Assessing families and couple: from symptom to system, editore Pearson, New York). Da quasi sessant´anni lo studioso vive negli Stati Uniti. È nato a San Salvador, in una zona rurale dell´Argentina, all´interno di una piccola enclave ebraica molto compatta: lì ha compreso cos´è una famiglia allargata. Padre commerciante di grano e madre casalinga, fin da piccolo percepisce tra i suoi genitori un legame di tipo assai tradizionale - il capofamiglia e la moglie devota - per poi più tardi imparare che nella vita adulta è difficile liberarsi dalla propria storia famigliare. Anticonformista per indole, a vent´anni finisce in galera per una manifestazione contro Perón, a venticinque va a combattere nel neonato esercito israeliano. Medico specializzato in neuropsichiatria infantile, sceglie gli Stati Uniti come terreno sperimentale, impegnandosi inizialmente con le famiglie portoricane dei ghetti newyorkesi. Da sempre gli piace venire in Italia, il «paese con il maggior numero di terapeuti famigliari», dice con un po´ di rimpianto per la stagione della "psichiatria democratica", Basaglia e gli anni Sessanta. «La terapia famigliare è figlia di quella storia, uno dei molti portati di quell´epoca di cambiamento. A pensarci adesso sembra strano che sia stata il prodotto di una cultura dove la famiglia era considerata una struttura di potere repressiva. Il concetto di madre "iperprotettiva" elaborato da David Levy negli anni Quaranta esercitò una notevole influenza per tutti gli anni Cinquanta. Bruno Bettelheim raccomandava la "genitorectomia", cioè l´asportazione dei genitori dalla vita dei figli».
Se c´è un testimonial vivente dei valori famigliari è proprio lui, Minuchin, sposato da cinquantasei anni con Pat, psicologa affermata. «Abbiamo avuto due figli, che mi hanno insegnato molte cose. Grazie a loro ho accettato le debolezze, le incertezze e gli inciampi della vita famigliare. Ancora oggi quando mi incontro con le famiglie, Pat e i miei figli sono parte di me».

l'Unità 7.7.07
Rifondazione soffia sulla crisi
Rilancio continuo: il programma parla chiaro. La rottura apre le porte alle elezioni. E allo scalone
di Wanda Marra


IRREMOVIBILE Così si definisce Rifondazione comunista sulle pensioni. E mentre da Palazzo Chigi si cominciano a delineare le linee generali di una proposta che dovrebbe arrivare al superamento dello scalone, attraverso una serie di scalini, da cui vengono esclusi i lavori usuranti, Rc continua a dire che non basta, portando avanti l’unica proposta di mediazione che ritiene possibile (va bene uno scalino a 58 anni, se vengono esclusi operai, turnisti e coloro che hanno pagato 40 anni di contributi). A questo punto è chiaro che la partita si gioca sulla definizione di lavori usuranti. E qui si apre un solco, tra il Prc e la Cgil. Sì perché se Rc non vuole assolutamente mediare sugli operai, il sindacato porta avanti l’idea che gli operai non sono tutti uguali. Anche se dallo staff di Bertinotti dichiarano che si tratta solo di un caso, sono di ieri due interviste, una al Presidente della Camera, Bertinotti su Repubblica, l’altra al Segretario della Cgil, Epifani sulla Stampa. «Nessuno vuole la crisi, ma questo non vuol dire che il rischio non ci sia...», dice Bertinotti. E poi rimarca: qualunque intervento sull'età pensionabile deve salvare i diritti acquisiti degli operai. Quindi si può ripetere una crisi del governo Prodi come nel '98? «Non si può escludere nulla», risponde. Poi ribadisce il punto della necessità di rispettare il programma dell’Unione, come Rifondazione ripete quasi ossessivamente: «Allora c'era solo un patto di desistenza. Oggi c'è invece un'alleanza organica e c'è un programma comune». Ribadendo l’appoggio della Cgil al “lodo Damiano” manda a dire a Rc Epifani: «Stai attenta è in gioco il governo. E se cade, una delle conseguenze è che i lavoratori si tengono lo scalone». Ma Rifondazione va avanti senza cedere di un millimetro sulle sue posizioni. Le interviste irrompono nel “ritiro” del partito a Segni, ai confini della Ciociaria. Con due effetti immediati: il rafforzamento della posizione assunta sulle pensioni e un certo spiazzamento di fronte alle parole di Epifani. Lapidario il capogruppo del partito alla Camera, Migliore: «Siamo sconcertati da quanto dice Epifani». E poi ci va giù duro: «I lavoratori usuranti sono pochi. Gli operai sono ben altra cosa». Ribadisce Russo Spena, capogruppo del Prc a Palazzo Madama: «La nostra posizione è irremovibile». La definizione di lavoratori usuranti «non basta» rimarca Alfonso Gianni, che sottolinea come la posizione espressa da Bertinotti sia l'unica «su cui vale la pena costruire un compromesso». In attesa di conoscere nel dettaglio la proposta del Premier, però, tutti si affrettano a dire che l’accordo «è possibile». Alla fine, a tirare le fila è il segretario del partito, Giordano che una volta fatte le conclusioni al “conclave” di Segni “si attacca” al telefono. «Sta facendo la trattativa sulle pensioni», dice qualcuno del partito rimasto ad aspettarlo. «Sono in attesa di conoscere la proposta del governo», dichiara E sulla Cgil: «Non voglio discutere con Epifani. Noi non facciamo concorrenza alla Cgil. ma facciamo parte di questa maggioranza. Se dunque il governo avanza una proposta sulle pensioni, vorremmo che fosse condivisa. Poi il sindacato fa il suo mestiere». E ancora ci tiene a sottolineare che la posizione di Rc rispecchia dettagliatamente il programma. L’intransigenza, dunque, viene ribadita. Pesa decisamente sul piatto della bilancia il fatto che le pensioni sono una bandiera alla quale il partito crede di non poter rinunciare. Non a caso dal “conclave” di Segni esce anche la proposta da presentare al Comitato nazionale di una consultazione di iscritti e elettori, aperta anche a chi è vicino agli altri soggetti della “costituenda” Cosa Rossa, sulla presenza di Rc nel governo, con domande precise su alcuni temi chiave, come le stesse pensioni. Nel tentativo di far legittimare le proprie scelte direttamente dalla “base”. A tali primarie si dovrebbe arrivare ad ottobre, con questionari però già distribuiti alle feste di partiti. Ma la trattativa sulle pensioni dovrebbe chiudersi prima. Non c’è il rischio che siano inutili? «Certo, se la realtà supera questo progetto....», si limita a una frase Giordano. Come dire, che il governo potrebbe non esserci più. Intanto, giudica «decisiva» per l’esecutivo la riforma della previdenziale anche il Ministro Ferrero. Avvertendo: «La posizione per noi è una sola - dice - quella del programma. Va bene quello che ha detto Prodi sull'abolizione dello scalone. La discussione di merito è ancora tutta in piedi».

il manifesto 7.7.07
Ragioni e dubbi sulla sinistra del terzo millennio
di Sandro Curzi


Caro Valentino, se praticassi ancora quotidianamente il giornalismo, come hai la fortuna di fare tu, se potessi scrivere l'editoriale di un giornale libero e riflessivo, come il manifesto, e se, naturalmente, fossi bravo a scrivere come te, avrei scritto esattamente le cose che hai scritto tu, con la tua solita, tenace onestà intellettuale, nell'editoriale di giovedì («Obiettivo a sinistra»). Dall'apertura, giustamente dedicata all'«appassionato intervento» di Bertinotti all'assemblea della Sinistra europea, alla disarmante e disarmata conclusione: o «il comunismo deve essere ancora l'orizzonte di una forza unitaria e plurale della sinistra» oppure «la difesa di un comunismo impossibile sarebbe inutile e dannosa, forse solo un trucco elettorale acchiappavoti per vecchi come me». Per vecchi, appunto, come me.
Anch'io ritengo che il dibattito in corso all'interno della stessa sinistra - fra i leader e i militanti interessati a opporre al nascente Partito democratico una forza autenticamente «comunista» o comunque «socialista» capace di mettere in campo un'adeguata «massa critica» - è troppo schiacciato sulla forma-partito, sul contenitore, quando non sui rapporti di forza tra i suoi confezionatori o, peggio, sulle collocazioni personali. Quello che manca è proprio, come efficacemente fai tu, un ragionamento sul contenuto. E trattandosi nientemeno che del «socialismo del XXI secolo», dell'«oltre» rispetto al comunismo di noi vecchi del XX secolo, non si può dire che sia una mancanza irrilevante.
Anch'io, con te, voglio invitare tutti quanti a interrogarsi pubblicamente e a confrontarsi proprio su questo, non accontentandosi delle ottime intenzioni di Bertinotti, dei tuoi editoriali e di interviste come quella rilasciata l'altro giorno a Liberazione dalla «ragazza del secolo scorso» Rossana Rossanda. Certo, premono le urgenze del governo del paese, della resistenza a una destra liberista e anti-politica sempre più arrogante e pericolosa, e della doppia crisi di fondo che tu individui: la crisi della politica e la crisi del nostro capitalismo. Nessuno può ragionevolmente sottovalutare l'articolazione e la complessità dei problemi che incombono in conseguenza di ciò sull'attuale generazione di dirigenti della sinistra, peraltro appena uscita dalla ingombrante autorevolezza della generazione che si oppose al fascismo, che partecipò alla costruzione della Repubblica e della democrazia italiana, che lottò nelle piazze e nelle fabbriche per guadagnare dignità e salari ai lavoratori e che fronteggiò il terrorismo. Si aggiunga poi che, a 20 anni dalla caduta del Muro, la sinistra deve registrare la deriva moderata, ai limiti del liberismo, del suo pezzo storicamente più importante. Detto tutto questo, si deve chiedere alla generazione dei Giordano, dei Mussi, dei Diliberto, dei Pecoraio Scanio e, se possibile, sino all'ultimo, anche dei Borselli di non perdere la consapevolezza dei forti legami fra le urgenze e le emergenze da un canto e, dall'altro, le ragioni profonde e i problemi strategici che solo qualificano l'essere di sinistra, il fare politica a sinistra, il lavorare per una uscita a sinistra della crisi del sistema politico, economico e sociale. Da vecchio, sono lacerato dagli stessi dubbi che fanno capolino fra le righe del tuo editoriale. Pur non avendo avuto noi, in qualche importante passaggio della nostra vita, un'identica risposta militante alle incertezze e alle tragedie che hanno accompagnato nel secolo scorso la storia del comunismo e in genere le ricadute delle ideologie, credo di condividere ormai da parecchio con te la stessissima posizione rispetto ai guai combinati da certi nostri ex-compagni e alle incognite che ci stanno davanti.
Sono d'accordo con te: partiamo dalla sintesi di Bertinotti (il «passaggio cruciale», l'«urgenza del fare», l'obiettivo del «socialismo del XXI secolo») e intanto discutiamo e, se possibile, precisiamo il «dove siamo» e il «dove vogliamo arrivare». Nessuno lo sa meglio di noi poveri vecchi: «Non si esce da una malattia senza una diagnosi». E' questo il lavoro che ci deve vedere tutti ugualmente impegnati noi vecchi e loro giovani. Bisogna resistere alla tentazione - nostra e loro - di una specie di divisione del lavoro, riservando la riflessione e la strategia alla generazione che ha la generosità di fare un passo indietro, e il fare e la tattica alla generazione che sta prendendo o ha già preso il nostro posto. Credo che anche sulla tattica (e sulla terapia) i Bertinotti e i Parlato hanno il dovere di dire la propria, e che soprattutto anche sulla strategia (e sulla diagnosi) si ha bisogno dell'apporto dei meno anziani, dei giovani e dei giovanissimi dirigenti e militanti destinati comunque a traghettare la sinistra reduce dal naufragio del XX secolo alla traversata del XXI secolo. Intanto, così come non abbiamo mai avuto problemi, da socialisti, a dichiararci comunisti, non avremmo oggi alcun problema, da comunisti, a dichiararci socialisti. Non abbiamo bisogno di scomodare Lenin o Gramsci per ribadire che il problema non è nominalistico. Del resto probabilmente anch'io, se fossi al manifesto, ogni tanto mi chiederei se conservare o meno la scritta «quotidiano comunista» e poi, «non scorgendo di meglio», me la terrei stretta.
Il problema è di sostanza e grosso assai. E niente si potrà costruire di solido e credibile se non si rispondesse prima alla domanda: il comunismo o socialismo che dir si voglia, deve essere ancora l'orizzonte di una forza unitaria e plurale della sinistra o siamo convinti che ci sia qualcosa «di meglio»? Io, detto chiaramente e sinceramente, credo che di questo qualcosa non si vede traccia.
Sandro Curzi consigliere Rai

il manifesto 7.7.07
Bertinotti minaccia la crisi: «Ma non è il '98»
Rifondazione nell'angolo sulla previdenza punta a «salvare» gli operai. Al conclave di Segni la maggioranza del partito si ricompatta su Giordano
di Alessandro Braga


«Speriamo che la crisi di governo non ci sia. Speriamo...». Ma chi non vede i rischi «fa male». Fausto Bertinotti torna, dopo l'intervista rilasciata a Repubblica, sulle tensioni nella maggioranza sulla riforma delle pensioni. E ribadisce il suo «non possumus». Ci sono 130mila persone che «hanno maturato il diritto di andare in pensione il prossimo anno - dice il presidente della camera - Negare questo diritto sarebbe un delitto sociale. Che non possiamo e non vogliamo commettere». Quindi, anche se è chiaro che «nessuno vuole la crisi, il rischio c'è».
Uno spauracchio sbandierato a piene mani che lascia però indifferente il ministro della giustizia Clemente Mastella: «Ho 30 anni di vita parlamentare alle spalle. Ne ho viste tante e le crisi non mi spaventano». Anche se, pure lui, si augura che non avvenga, «per il bene del paese». Dichiarazioni che lo stesso presidente della camera si è affrettato a definire «sagge e condivisibili pienamente», hanno fatto sapere da ambienti vicini a Montecitorio.
L'uscita pubblica di Bertinotti ha però rinvigorito Rifondazione comunista, o almeno la sua maggioranza, che all'ultimo congresso si era stretta attorno alla mozione dell'ex segretario. E che ieri, da Segni, dove era riunita per la seconda e ultima giornata del «conclave» che serviva a chiarirsi meglio in vista del prossimo congresso, previsto per i primi mesi del 2008, ha fatto quadrato intorno al presidente della camera.
«Le parole di Bertinotti lanciano al paese e alla sinistra un chiaro messaggio: l'idea dello scalone è una persecuzione», afferma il sottosegretario Alfonso Gianni. E il capogruppo al senato Giovanni Russo Spena ribadisce la «piena sintonia» con Bertinotti. «La nostra posizione è irremovibile - aggiunge - ora aspettiamo la proposta di Prodi». Che non dovrebbe tardare, dato che ieri mattina il premier ha affermato di essere «molto avanti nella trattativa, e presto ci sarà la proposta». Quale possa essere, e soprattutto come possa andare bene a Rifondazione, non è chiaro. Il presidente del consiglio potrebbe decidere di inserire la riforma delle pensioni nella finanziaria, in quel caso la discussione si protrarrebbe fino a fine anno, con la possibilità di porre la fiducia sul documento. Oppure presentare in tempi brevi la sua proposta al consiglio dei ministri, cercando unanimità fin da subito. Senza però la certezza di un voto favorevole del ministro del Prc Paolo Ferrero, che ha ribadito che la posizione del suo partito è «una sola: quella del programma». Con i punti fermi spiegati dal capogruppo alla camera Gennaro Migliore: esclusione dall'innalzamento dell'età pensionabile di alcune categorie, il lavoro operaio e i turnisti; abolizione dello scalone e non sostituzione con «scalini»; il non automatismo dell'introduzione dello scalone tra tre anni. Una soluzione, insomma, che «realizzi il programma dell'Unione». Ma che, con i malumori da sopire anche dei centristi della maggioranza, difficilmente potrà essere portata avanti, anche se Migliore si dice «fiducioso» in una risoluzione entro fine luglio.
Fermo restando che la caduta del governo Prodi non converrebbe a nessuno, tanto più che in quel modo si andrebbe a salvare l'odiato scalone, e che la proposta di consultazione della base del partito sull'opportunità o meno di restare legati all'esecutivo sembra difficilmente realizzabile, perlomeno prima di settembre, resta da capire quali possono essere «i punti di caduta» accettabili per il partito di Franco Giordano. Punti intoccabili sembrano essere l'esclusione del lavoro operaio dall'innalzamento dell'età pensionabile e l'automatismo sull'introduzione dello scalone nel 2010. Meno certa l'irriducibilità sui turnisti e la possibilità di verifica tra tre anni. Ma i turnisti sono un punto fermo della Cisl, dove ha la sua base più forte, e la verifica permetterebbe a chi avrà il compito di verificare di certificare la necessità di un innalzamento dell'età pensionabile.

il Riformista 7.7.07
Revisione della legge 40. La norma assurda

Caro direttore, «lo Stato si deve togliere di mezzo nei rapporti privati, addirittura intimi; in particolare nel rapporto uomo donna… La legge 40 è una legge assurda, razzista, di una violenza mostruosa, non solo sulle donne, ma sul rapporto uomo donna».
In questo periodo di crescente oscurantismo religioso, filosofico e politico, ripeterei come un mantra le parole di Massimo Fagioli, intervistato da Nuova Agenzia Radicale (26/05/05) in occasione del referendum sulla legge 40.
«Uno Stato non può operare in condizioni di sudditanza alla Chiesa, perché viene alterata persino la personalità giuridica.
Lo Stato si deve basare sul reato e soltanto in quel caso intervenire. Non può a priori dire come devi mangiare, come ti devi vestire, come devi far l’amore, come e quanti figli devi procreare».
Spero che le brave senatrici Cossutta e Franco, impegnate per conto del ministro Turco nella “revisione delle linee guida della legge 40”, tengano conto di questa chiave di lettura ampiamente condivisa.
Paolo Izzo