Il ministro della Solidarietà Ferrero: non accettiamo imposizioni
"Il programma vale più dei diktat dell'Europa"
di Luca Iezzi
ROMA - «Quella della Bce è una politica suicida. Francamente sono un pò esterrefatto che il nostro rappresentante nel board della Banca centrale, Bini-Smaghi, proponga queste posizioni. Dovremmo fare anche noi un pò più la voce grossa alla Sarkozy». Il giorno dopo l´intervista di Lorenzo Bini-Smaghi a Repubblica, il ministro della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero, considera l´atteggiamento remissivo verso le istituzioni comunitarie assolutamente controproducente e per dimostrarlo sceglie un esempio politicamente opposto: «Evidentemente con la Bce e con i tecnocrati o gli integralisti come il commissario Joaquin Almunia dobbiamo fare come il presidente francese. Non capisco perché dovremmo farci imporre politiche neoliberiste che nemmeno un governo di destra vuole applicare, senza contare che proprio il commissario ha concesso al vecchio governo di centrodestra un percorso di rientro del deficit più morbido».
Anche non considerando eventuali paletti dall´Europa, rimane il problema tutto interno, l´accordo sulle pensioni è più vicino o più lontano?
«Siamo nel momento del fare, si lavora per trovare una quadra e spero che ci si riesca. Il governo aveva una proposta unica contenuta nel programma, ora dovrà ritrovarne un´altra. Prodi ha detto che lo scalone va abolito e quando avremo ritrovato una visione comune la proporremo».
La trattativa non è semplice: quali strumenti, tra i tanti proposti pensa siano i più adatti al compromesso?
«Proposte tecniche non ne faccio perché so che sono oggetto di discussione e non voglio creare altra confusione. Segnalo quale deve essere la sostanza politica: l´abolizione dello scalone non può essere a costo zero, perché quel tetto è stato messo per far risparmiare l´erario e non distribuire una parte dei contributi che i lavoratori versano. In qualche modo devono tornare indietro, questo è il nostro obiettivo».
E l´ipotesi di alzare l´età di pensionamento di vecchiaia delle donne per compensare questi maggiori costi è una soluzione praticabile?
«Sono assolutamente contrario, le donne già pagano un sistema di welfare che non le tutela perché poco attento alle loro necessità. Inoltre trovo ipocrita l´argomentazione che in questo modo si "permette" alle donne di rimanere al lavoro. In realtà si introduce soltanto l´obbligo a farle rimanere più a lungo a lavoro».
Rifondazione ha già ammesso, ventilando un innalzamento a 58 anni, che si può ragionare in deroga al programma dell´Unione. Ci saranno altri margini per venire incontro agli alleati?
«Non molto, ma vorrei sottolineare che quella è stata una notevole dimostrazione di disponibilità: l´abolizione dello scalone non era scritto sul programma di Rifondazione, ma su quello di tutta l´Unione».
Rimandare la riforma alla Finanziaria aiuterà a trovare un accordo che piaccia a tutti?
«Il nodo deve essere risolto adesso e abbiamo il tempo per farlo prima di settembre, poi lo strumento legislativo lo sceglieremo, può essere anche la Finanziaria, a patto di aver raggiunto l´intesa politica prima».
Repubblica 10.7.07
Il settimanale uscito nonostante lo sciopero distribuisce in allegato il periodico del leader del Prc
Left, i giornalisti criticano Bertinotti
ROMA - In edicola forzando uno sciopero. È l´ultimo episodio della travagliata vita di "Left", settimanale nato dalle ceneri di "Avvenimenti". Un periodico di sinistra il cui editore, denuncia il cdr, «non rispetta le regole sindacali».
La vita di "Left" è segnata dall´ingombrante presenza di una rubrica firmata dallo psichiatra Massimo Fagioli (non la vogliono i primi direttori, Giulietto Chiesa e Adalberto Minucci, che vengono licenziati). Tra i simpatizzanti di Fagioli, Fausto Bertinotti. Il mese scorso il presidente della Camera ha presentato proprio davanti allo psicanalista e a una platea di "fagiolini" un nuovo bimestrale da lui diretto, "Alternative per il socialismo", che esce in allegato a "Left". E adesso che l´editore del settimanale è fortemente contestato per aver pubblicato il periodico nonostante uno sciopero, qualcuno dalla redazione si chiede: «Com´è che il compagno Bertinotti, grande sindacalista, accetta di farsi legare a un giornale che non rispetta le regole sindacali?».
Lo scontro tra proprietà e redazione di "Left" è iniziato il 13 giugno, quando è stata revocata la direzione ad Alberto Ferrigolo. «Non aveva portato una sola copia in più», secondo Luca Bonaccorsi, ad della cooperativa editrice. Seguono due scioperi in un mese. Tra i motivi anche «il ritardo nel pagamento degli stipendi e il licenziamento di due colleghe precarie», che l´amministratore spiega con le «difficoltà economiche, che ci hanno impedito di rinnovare i contratti».
Con le ultime agitazioni Fagioli sembrerebbe non avere a che fare. Ma Andrea Purgatori, ex condirettore di Ferrigolo, sottolinea: «È un dato di fatto che da quando ce ne siamo andati noi, il suo spazio è stato aumentato».
Repubblica 10.7.07
Se la sinistra riparte dall'eguaglianza
di Aldo Schiavone
Un lavoro enorme attende la sinistra italiana – quel che ne rimane in piedi: la ricostituzione di un patrimonio culturale degno di questo nome. Non solo i concetti (che già non è poco), ma i sogni, le emozioni, le speranze, la capacità di discorso e di persuasione. "Beffato il mio amore, congedata la mia fantasia: di tutto il passato non mi resta che il dolore»: i versi dell´"Addio alla corte" di Walter Raleigh sembrano proprio scritti per lei.
E poiché si deve pur cominciare da qualche parte, proveremo a fare un esempio: un piccolo appunto per i nostri cari quarantacinque saggi impegnati a dare un´anima al Partito democratico, ma anche per gli amici che non condividono questo progetto, e che lavorano a costruire la "Cosa rossa". Parleremo dell´idea di eguaglianza (ne abbiamo fatto cenno, qui su "Repubblica", discutendo di socialismo): una bandiera dell´occidente, sin dal pensiero antico ("il nome di tutti più bello": così Erodoto, nel cuore del quinto secolo a. C. – e si stava riferendo all´"isonomia", alla legge eguale per tutti). Una bandiera che la modernità avrebbe consegnato, con diverso successo, al fuoco di due rivoluzioni: prima quella francese, e poi quella russa.
Oggi sembra una parola in difficoltà, che facciamo fatica a pronunciare (mentre tutti sproloquiano di libertà): messa in crisi dai fallimenti del ventesimo secolo, non meno che dall´onda del capitalismo totale che sta dominando l´orizzonte del pianeta. Ma sbagliamo, ed è un errore grave. Perché di eguaglianza avremo presto un gran bisogno, per riuscire a sottrarre il futuro che ci aspetta alla destabilizzazione di squilibri paurosi, indotti dalla forza stessa delle potenze in campo: l´intreccio titanico fra scienza e mercato, nella forma storica che stiamo sperimentando. Dismisure rispetto alle quali le ingiustizie del vecchio capitalismo industriale sembreranno presto non più di un pallido preludio.
Le nuove diseguaglianze non hanno origine – come quelle di una volta – sul terreno della produzione in senso stretto, del conflitto fra capitale e lavoro – insomma dell´economia classicamente intesa – anche se continueranno ad apparire, alla fine, come enormi disparità di ricchezza e di status. Le nuove diseguaglianze saranno tutte, molto prima che diseguaglianze proprietarie o distributive, disparità "di accesso": generate non direttamente dall´economia, ma dal rapporto problematico e ancora oscuro fra l´avanzamento tecnologico e il suo uso sociale (in ultima analisi, fra tecnica e democrazia: sono penetranti a questo riguardo le obiezioni che mi muove Ernesto Galli della Loggia). E riguarderanno per prima cosa il rapporto fra destino individuale e possibilità di disporre in maniera adeguata delle tecnologie da cui dipenderanno sempre di più la costruzione e la conservazione della nostra identità: le tecniche alla guida dei processi conoscitivi in tutti i campi del sapere, della circolazione e della gestione dell´informazione, dello stesso statuto biologico di ciascuno di noi - qualcosa di enormemente più complesso di ciò che oggi chiamiamo "salute", o diritto all´integrità del proprio corpo.
Per fronteggiare l´aggressività di queste asimmetrie abbiamo bisogno di elaborare – da un punto di vista teorico e istituzionale – una nozione radicalmente nuova di eguaglianza: davvero di rifare il lavoro che a suo tempo svilupparono Rousseau e Marx. Di elaborarne un´idea non più statica, chiusa e solo patrimonialistica, come mera redistribuzione della ricchezza prodotta, o peggio ancora (ma quasi nessuno ci pensa più, ormai) come mitico risultato di un´inesistente economia speculare rispetto a quella capitalistica. Un´idea non più intrinsecamente e irriducibilmente anti-competitiva, del tipo di quella che tuttora domina nella cultura sindacale e nel mondo della scuola italiani (per molte, e in parte anche nobili ragioni storiche, che sono ormai però diventate relitti inservibili, dietro i quali si annidano sfacciatamente ottusi privilegi corporativi). Ma in grado di convivere con il mercato e con le sue scelte, per quanto dure, partendo dalla consapevolezza che la forma di merce non è né "naturale" né eterna, e prima o poi sarà sostituita da qualcos´altro; e però è in questo momento, nel suo intreccio con la tecnica, il più importante motore di sviluppo di cui disponga la civiltà umana su questo pianeta: e occorre saper accettare realisticamente questo dato di fatto.
In altri termini, e in positivo: un´idea dinamica e aperta di eguaglianza come potenzialità di accesso e come trasparenza e controllo condiviso sull´allocazione delle tecnologie. Un´eguaglianza che sappia assumere come suo orizzonte politico, per la prima volta nella storia, l´interezza della specie, senza eccezioni, e sappia preservarne – ancora a lungo, quantomeno – la sua unità biologica, ereditata dalla selezione naturale. Un´eguaglianza mai in atto, mai bloccata (come nelle vecchie formule: a ciascuno secondo i suoi bisogni, o i suoi meriti – roba da fine della storia), ma sempre relativa e in divenire, per l´umanità in trasformazione. Un´eguaglianza come parità nella mobilità – spaziale e sociale –, nella fluidità – delle posizioni, delle carriere, delle conoscenze –, nella permanente rimessa in gioco di ogni acquisizione. Un principio in grado di produrre diversità, specificità, differenze: proiettato sull´infinito, immagine mobile di una soglia che tutti possono raggiungere, ma anche tutti superare.
Abbiamo ereditato dai nostri classici una distinzione capitale: quella fra un´eguaglianza formale, politica e giuridica, e un´eguaglianza sostanziale, sociale ed economica. Rousseau ancora la ignorava, ma Marx, sviluppando Hegel, l´ha enfatizzata oltre ogni limite. Nel tentativo di passare dall´una all´altra, la modernità ha sbattuto più volte la testa, provocando orrendi disastri. Credo sia venuto il momento di prendere congedo da lei. Il mondo che ci aspetta integra rischiosamente i piani, non li separa. Eguali di fronte alla legge ed eguali di fronte alla tecnica (e alle sue proiezioni economiche) sono ormai due facce dello stesso problema. Venirne a capo è il compito di un nuovo umanesimo. Ed è qui che siamo arrivati.
Repubblica 10.7.07
L'inconscio svelato
Intervista a Mauro Mancia sul rapporto tra neuroscienze e psicoanalisi
di Luciana Sica
Tra neuroscienziati e analisti il dialogo è stato a lungo difficile ma la "memoria implicita" è una scoperta che cambia l´edificio concettuale di Freud
In un libro gli studi più recenti su come funziona la mente
"Il dialogo è possibile e necessario se si vuole guardare al futuro"
Professore emerito di neurofisiologia alla Statale di Milano, "didatta" della Società psicoanalitica italiana, settantotto anni portati con grazia, Mauro Mancia è un bel nome del mondo freudiano legato a un doppio filone di ricerche: il sogno e le neuroscienze. All´attività onirica della mente e alla ricollocazione del pensiero psicoanalitico su quello che è stato, fin dalle origini, il suo sfondo neurofisiologico Mancia ha dedicato l´intera sua vita di studioso.
È con la sua firma che esce Psicoanalisi e neuroscienze, raccolta di saggi pubblicata da Springer un anno fa in inglese e ora in italiano (pagg. 460, euro 84.95): è un volume collettaneo senz´altro complesso, centrato sulla possibile integrazione tra le più recenti acquisizioni neuroscientifiche nello studio della mente umana e il sapere psicoanalitico, che oggi non s´identifica esclusivamente con il modello freudiano - come dovrebbe essere ovvio, e invece non lo è.
A lungo tra neuroscienziati e psicoanalisti c´è stato un dialogo tra sordi - il primo a scriverlo è lo stesso Mancia. Ora le cose starebbero cambiando di netto, eppure l´impressione è che non pochi analisti, a volte anche illustri, mostrino un totale disinteresse per la scienza, se non proprio un certo sussiegoso disprezzo: innamorati delle loro litanie, invocano la retorica del riduzionismo per dire di una strutturale inadeguatezza delle neuroscienze nel cogliere la complessità della psiche umana.
È una vecchia storia che affonda le radici in un´idea stereotipata e provinciale della cultura umanistica e delle sue anime belle. Il grande Mark Solms - su questo scarso feeling tra analisti e neuroscienziati - ci ha fatto su dell´ironia: quelli che con espressione decisamente trash vengono definiti "i detective dell´anima" sarebbero soggetti a cervello destro dominante, mentre i neuroscienziati sarebbero persone a cervello sinistro dominante: peccato che i due emisferi del cervello dialoghino così malamente tra loro, usando strutture concettuali e forme di comunicazione tanto diverse.
«Ma un buon funzionamento mentale implica l´integrazione dei due emisferi!», scherza a sua volta Mancia, in questa intervista. E poi più serio: «Le osservazioni neuroscientifiche non si sostituiscono ovviamente a quelle psicoanalitiche: diverso è il metodo e diverso è l´approccio, ma sono in grado di offrire dei dati anche sperimentali, di garantire una consistenza anatomofunzionale a determinati aspetti fondanti la teoria psicoanalitica della mente».
Negli ultimi anni, per le neuroscienze è l´emozione al centro della vita psichica, dei meccanismi di funzionamento della mente - il che sembrerebbe di enorme interesse per il discorso psicoanalitico. Emotional Brain è un caposaldo firmato da LeDoux... Eppure resta controversa, molto dubbia, la compatibilità tra il corpus teorico freudiano e le conquiste neuroscientifiche: a lei non sembra, professor Mancia?
«Le ultime ricerche delle neuroscienze sconfinano ampiamente nel campo della psicologia e la psicoanalisi - non dimentichiamolo - è pur sempre una branca della psicologia. L´isolamento è dannoso per tutti, mentre il dialogo - a cui io credo da sempre - può oggi fondarsi non solo sul grande sviluppo delle neuroscienze ma anche su una trasformazione radicale della teoria psicoanalitica della mente che ha avuto inizio già con la Klein, ma che si è via via consolidata negli ultimi anni del Novecento, grazie a contributi molto seri e originali. La psicoanalisi attuale può decisamente giovarsi delle neuroscienze: può estendere, ampliare, approfondire, arricchire le sue concezioni teoriche».
Studiosi come Kandel, Damasio, LeDoux, Edelman sono stati interessati a confermare o a disconoscere l´edificio concettuale di Freud?
«In un certo senso sì, ma non è questo il punto. Non si tratta di affermare - attraverso le neuroscienze - che Freud aveva ragione o torto, per la semplice ragione che quel formidabile "castello" freudiano si è di molto trasformato».
C´è chi non se ne fa una ragione...
«A me impressiona, nei congressi psicoanalitici, l´autoreferenzialità circolare del pensiero, la ossessiva centralità di un sapere che ripete se stesso continuamente, ignorando il grande sviluppo delle teorie che poi comporta un cambiamento delle tecniche terapeutiche e alla fine anche una revisione etica nella relazione con il paziente».
Kandel è stato premiato con il Nobel per i suoi studi sui ricordi. Non è stato il solo, naturalmente. Le neuroscienze hanno accertato l´esistenza di un doppio binario della memoria: quella dichiarativa, esplicita, che può essere freudianamente "rimossa", e un´altra che al contrario non può essere rievocata né verbalizzata e neppure - per così dire - spazzata via. È la memoria implicita che si accumula nei primi due anni di vita, quando non è ancora maturo l´ippocampo, indispensabile per la memoria esplicita... Si direbbero scoperte che stabiliscono un rapporto prepotente con la nozione d´inconscio di Freud, ma è così?
«È senz´altro così. Le esperienze preverbali e presimboliche della memoria implicita s´identificano con un inconscio precoce non rimosso. Non sono perdute, anche se non sono ricordabili: al contrario, sono parti attive della psiche che condizionano l´intera vita affettiva, emozionale, cognitiva... Gli studi neuroscientifici sulla memoria offrono all´analista teorico e clinico degli strumenti preziosi per raggiungere le aree più nascoste e arcaiche della personalità del paziente, aree inconsce dimenticate ma operative in lui che potranno riaffiorare nella relazione analitica».
In che modo?
«C´è un ponte metaforico tra le emozioni vissute nel corso della seduta e quelle della primissima infanzia, la possibilità di cogliere affetti che possono essere comunicati attraverso la musicalità della voce, i tempi e i ritmi del linguaggio, restituendo il senso più profondo alla fiaba personale del paziente. Del resto, l´interesse della psicoanalisi si è spostato dall´edipo al pre-edipo, e cioè alle fasi precocissime della vita, addirittura alla fase prenatale... Non solo le neuroscienze, ma la stessa psicoanalisi ha ampliato di molto l´idea che Freud aveva dell´inconscio».
Lei sembra lontanissimo dalle sofisticate teorizzazioni della "metapsicologia", poco affascinato da quelle grandi narrazioni freudiane che pure attraggono tanti suoi colleghi. Guarda invece con molta fiducia allo sviluppo delle neuroscienze: è questa la strada che va percorsa anche per evitare l´aria da funerale che da anni ormai tira intorno alla psicoanalisi?
«Sì, da freudiano, credo molto nella necessità di percorrere questa strada».
Il nuovo numero di "Psiche"
Se siamo tutti fuori controllo
Stiamo diventando tutti psicotici: sempre più incapaci di elaborare pensieri, emozioni, esperienze. L´affermazione suonerà estrema, senz´altro drastica, ma non irrealistica e neppure tanto paradossale. È una delle questioni che affronta Psiche nel nuovo numero - "Chi ha paura dell´inconscio?", s´intitola - in uscita a giorni.
«I comportamenti della società attuale sembrano caratterizzati da una tendenza ad "agire l´inconscio", come se questo fosse "rivoltato fuori", si fosse persa la necessaria distinzione tra mondo interno e realtà esterna, e i molteplici elementi soggettivi venissero evacuati e frammentati in cose. Una modalità che il pensiero psicoanalitico attribuisce al funzionamento psicotico...»: si legge in un passaggio dell´editoriale di Lorena Preta, che da anni dirige la rivista pubblicata dal Saggiatore.
Diverse le angolazioni e diversi i punti di vista, ma gli autori - non solo analisti - di Psiche riflettono comunque tutti intorno al concetto-limite di inconscio: da Carla De Toffoli ("Il sapere inconscio inscritto nel corpo") ad Alessandra Ginzburg ("Da Freud a Matte Blanco: lo scandalo dell´indivisibilità"), da Domenico Chianese ("L´inconscio fa ancora paura?") a Giulio Giorello ("Da Freud al coccodrillo"), da Ludovico Pratesi ("Identità consapevoli: tre artiste italiane e l´inconscio") allo stesso Mauro Mancia ("L´inconscio e la sua storia").
Incuriosisce il contributo di Marco Francesconi, professore di Psicologia dinamica a Pavia. È ancora nascosta l´identità inconscia? - si chiede - e l´interrogativo di sapore retorico ha una sua grande attualità. «Ha luogo - scrive - un vero e proprio attacco mortifero contro le funzioni del pensiero per tentare di sopprimere il dolore... Si produce uno stato di paura inconscia, di terrore in un soggetto, tuttavia, che non è in grado di contrapporvi un senso di autentica vitalità...». Non sarà uno scenario esaltante, peccato, ma è quello che sembra accadere quando l´inconscio viene "semplicemente" catapultato all´esterno.
Lu. Si.
il Riformista 10.7.07
Comunisti. Un'amichevole gara ad attrarre nomi della cultura
Oliviero sfida Fausto sul terreno dell'intellighenzia
di Ettore Colombo
La prima notizia è che né la responsabile cultura dei comunisti italiani, Paola Pellegrini (che si auto-definisce «una vetero», una «che ascolta Guccini, De Gregori, Dalla e de André») né il segretario del suo partito, Oliviero Diliberto conoscevano un testo fondamentale della musica (e della cultura) italiana, Tutto il resto è noia di Franco Califano (incisa, peraltro, nell'annus mirabilis 1977). Tanto che, a sentire la Pellegrini - toscanaccia che viene dal Pci, è passata per il Prc e approdata al Pdci, dove guida il dipartimento Cultura e oggi sciorìna a memoria decine di nomi filosofi del pensiero, archeologi esperti di Etruschi e sovra-intendenti alle Belle Arti “vicini” al partito - lei e Diliberto ci sono rimasti davvero male, ieri mattina. Quando si sono ritrovati tra le mani l'intervista al Giornale in cui il Califfo non solo li attaccava («I comunisti mi rubano lo slogan») ma rincarava la dose, contro di loro («Per me è un'offesa essere accostato a falce e martello»), dopo essere arrivato a minacciare di sporgere querela, nei loro confronti, dalle colonne del Tempo, già domenica scorsa.
La seconda notizia sta nel fatto - incontrovertibile - che la «Festa nazionale della cultura» organizzata dal Pdci (sottotitolo incriminato, appunto,«Tutto il resto è noia») e che si è aperta lo scorso fine settimana al parco Schuster di Roma, è già un successo. Di critica, s'intende, se non di pubblico.
Tra presentazioni di eventi d'arte con tanto di serigrafie di Alinari, Cascella e D'Andrea, mostre dai titoli facilmente fruibili dalle masse popolari come «Themenos, il tempio dell'amore multiplo», galleria di ritratti di grandi jazzisti e dipinti dell'«Infinito femminile», la Festa della cultura del Pdci ha però un unico obiettivo, e tutto politico. Dimostrare cioè che il partito di Diliberto non è «solo» un partito di “veterocomunisti” magari pure un po' trucidi, e che, soprattutto, non si occupa solo di «operai e pensionati», ma un'organizzazione che dialoga a 360 gradi col fior fiore della cultura italiana. Cultura e “intellighenzia” che, fino a poco tempo fa, sembravano appannaggio esclusivo di Rifondazione e in particolare di Bertinotti. E anche se fosse vero che «non solo non abbiamo alcuna intenzione di rubare intellettuali al Prc ma che ormai sono mesi che filiamo d'amore e d'accordo», come ci tiene subito a puntualizzare la Pellegrini, resta il punto. Ai vertici del Pdci se ne fanno un vanto, ormai, dei rapporti instaurati con le culture e le arti: «Non viviamo di soli temi del lavoro», è il messaggio-chiave.
In concreto, il presidente della Biennale di Venezia Daniele Croff e l'attrice di cinema e di teatro Paola Cortellesi sono due «simpatizzanti» più o meno dichiarati del partito di Diliberto («due compagni» li chiamano), per non dire della ballerina Carla Fracci, dello psichiatra Luigi Cancrini e dell'attore e scrittore Moni Ovadia, che alle iniziative di partito non mancano mai. O di Milva, cantante di formazione brechtiana e streheleriana che - pare - «di Oliviero» è una vera fan, oltre che un'amica personale mentre la figlia, la critica d'arte Martina Lornati, si è persino iscritta al partito. E se dell'impegno pro-Pdci dell'astrofisica Margherita Hack, più volte candidata dal partito, e dell'astronauta Umberto Guidoni, oggi europarlamentare, si sa tutto, meno noto è il fatto che il Pdci, di questi tempi, va forte anche tra i cineasti (alla Festa della Cultura c'erano Ferrara, Scimeca, Gregoretti), storico terreno di consenso di Rifondazione. La Pellegrini mette le mani avanti: «Con Stefania (Braida, responsabile Cultura del Prc e compagna di Citto Maselli, ndr.) lavoriamo in perfetta e totale sinergia». Eppure, al fine di riformare il cinema italiano (e «contro» la proposta di legge avanzata dai due esponenti diessin-diellini Colasio e Franco), il Pdci ha presentato la sua proposta di legge, il Prc un'altra. Ma gli uomini (e le donne, Pellegrini in testa) di Diliberto ne hanno in preparazione anche un'altra sul teatro. E, soprattutto, hanno preso di mira la gestione «privatistica» dei Beni culturali del ministro Rutelli. Contro le cui politiche il Pdci ha organizzato una due giorni di convegno, a Milano, lo scorso febbraio, con il fior fiore degli archivisti, paesaggisti e beni-culturalisti italiani, simpatizzanti o meno che fossero, del partito. Il titolo, allora, fu «Progetto cultura». Vuoi mettere con «Tutto il resto è noia»?
l'Unità 10.7.07
Anniversari. Il bilancio di un «bicentenario» blando e al silenziatore, tra qualche polemica, disattenzione dei mass-media e alcuni buoni libri di storia
Parlare male di Garibaldi? No, meglio parlarne poco. Era troppo anticlericale
di Bruno Gravagnuolo
Ci ha avete fatto caso? Stringi stringi lo scorso 4 luglio, duecentenario della nascita di Giuseppe Garibaldi, è stato povero di celebrazioni. Una esangue cerimonia al Senato, qualche breve servizio ai Tg, pochi articoli di giornale e null’altro. In fondo si potrebbe persino esser grati alla gazzarra della Lega a Palazzo Madama e alle castronerie uscite sulla Padania il giorno stesso a proposito dell’eroe dei due mondi, come pure all’appello antigaribaldino a Napolitano del movimento «cattocentrista» di Lombardo. Perché almeno hanno fornito spunti di polemica.
E lo stesso vale per la stanca «provocazione» di Ernesto Galli Della Loggia sul Risorgimento «sovversivo» dei democratici, «matrice» delle Br. Querimonia logora, che ha preceduto di qualche settimana la ricorrenza garibaldina e che a modo suo (distorto) l’ha nutrita. Più che «parlar male» di Garibaldi, se ne è parlato poco nel circuito mediatico. Perché questo mezzo silenzio? Forse perché l’Italia è stanca dei suoi eroi monumentali o non ci crede più, anche quando sono autentici, visto l’impiego invalsone. Ma stavolta un motivo più forte c’è stato: Garibaldi era un anticlericale senza se e senza ma. E parlarne davvero avrebbe urtato troppe sensibilità, in epoca di neointegralismi, atei devoti, teodem e laicità dimezzata a sinistra. Ecco spiegato l’arcano. Sicché niente film storici, niente speciali, niente paginate, niente dibattitti. Ad eccezione de l’Unità che offre i Garibaldini di Dumas e articoli vari. E di alcuni libri, tre in particolare, eccellenti. Per chi abbia voglia di affrontare il tema.
Ad esempio Il Garibaldi fu ferito di Mario Isnenghi (Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato, Donzelli, pp. 215, euro 14). Una storia critica del mito garibaldino e degli usi che ne sono stati fatti, in primo luogo dal trasformismo italico e dall’interventismo nazionalista. E poi il volume di Eva Cecchinato, Camicie rosse (I garibaldini dall’Unità alla grande guerra, Laterza, pp. 372, euro 20), che documenta il tratto di massa e niente affatto esiguo dell’élite giovanile, popolare e intellettuale, che circondò e accompagnò il generale. Uno strato internazionalista e romantico, con molte donne in prima fila, che crea un immaginario sociale preciso (democratico-radicale) e poi trasmigra a destra nelle generazioni successive, nel mutare delle egemonie politiche (e ci sono note di Gramsci illuminanti su questo). Infine il Garibaldi di Lucy Riall, storica inglese del Risorgimento, che spiega come il condottiero fosse un eccellente «spin doctor» di se stesso, e proprio in ragione di un’acuta percezione da parte sua delle dinamiche politiche interne e internazionali, rispetto a cui il personaggio si «automodula» di volta in volta (sottotitolo L’invenzione di un eroe, Laterza, pp. 605, euro 28).
Che cosa viene fuori dalla lettura comparata dei tre libri? Intanto, che Garibaldi non era affatto un ingenuo. Un eroe «tonto» e generoso. Ma un vero politico d’azione, che capiva i rapporti di forza nella penisola e che accetta l’egemonia moderata del Piemonte, per mettere in moto la situazione. Entrando anche in un doloroso conflitto con Mazzini, eroe intellettuale del «dover essere». Poi viene fuori che il moto risorgimentale non fu tanto minoritario, e aveva una sua effettiva consistenza, specie nei centri urbani. E ancora: Garibaldi fu davvero un uomo creativo e avventuroso. Per nulla illetterato, con una sua formazione foscoliana e alfieriana, capace di maneggiare l’endecasillabo, oltre a saper capitanare navi e a stendere proclami politici. Da ultimo, la cultura politica di Garibaldi. Filantropico-massonica, socialista, anticlericale, o meglio anti-Vaticana. Come molti democratici era infatti convinto che il cattolicesimo temporale fosse un ostacolo all’incivilimento dell’Italia, e che proprio il ruolo del Papato in Italia avesse impedito la formazione di una coscienza civica e nazionale. E tuttavia Garibaldi non era irreligioso, semmai era «deista» e aveva di buon grado al seguito cappellani militari. E il socialismo? Garibaldi lo intravide, militò per la Comune di Parigi e sognò una democrazia repubblicana innestata su leghe, mutue e cooperative. Insomma, fu un eroe di sinistra, che a conoscerlo bene creerebbe ancora imbarazzi. Meglio «glissare». E così è stato.
Liberazione 10.7.07
L'attacco a Rifondazione comunista e ai sindacati è sempre più battente. Parte dalle pensioni. ll fondatore di "Repubblica" si schiera e lo guida. Chiede di cacciare Bertinotti e una legge elettorale anti- Rifondazione. Ieri i leader del Prc hanno incontrato i leader sindacali di Cgil Cisl e Uil
Il partito "no-sinistra" cresce e ha un nuovo leader: Scalfari
Domenica noi abbiamo aperto il nostro giornale denunciando - a voce abbastanza alta - un fronte politico, che si è creato in questi mesi, guidato dalla Confindustria e dalla destra, e che ormai ha arruolato molti esponenti del ceto politico e intellettuale e giornalistico del centrosinistra. Dicevamo che questo partito - che è una specie di "casta" - nell'immediato, si è posto due obiettivi: sconfiggere pesantemente la sinistra, e in particolare il Prc (che è visto come il nucleo centrale, essenziale della sinistra); e punire in modo forte e simbolico la "vecchia" classe operaia (vista come il nucleo centrale, essenziale, del lavoro dipendente). Tutto ciò in nome di un progetto che immagina il futuro della borghesia italiana (considerata la classe generale, cioè quella i cui interessi coincidono con gli interessi del paese) costruito sull'ipotesi di una ulteriore e robusto ridimensionamento dei diritti, del costo e del ruolo politico del mondo del lavoro (a favore del profitto e della rendita). Non ci eravamo affatto sbagliati. E infatti domenica stessa, Repubblica ha pubblicato un lungo articolo del suo fondatore, cioè di Eugenio Scalfari, che si pone alla testa di questo partito, ne rivendica orgogliosamente gli obiettivi, li esalta, indica -in modo semplice e chiaro - i mezzi per cogliere questi obiettivi. Battere la sinistra sulle pensioni, umiliare i sindacati, e poi incoronare il nuovo partito democratico a guida veltroniana, chiedendogli di assumere la leadership di un patto tra imprenditori, finanzieri, grande borghesia e ceti medi, che permetta una emarginazione della destra berlusconiana e un trionfo - scusate se semplifichiamo appena un po' - della famiglia De Benedetti, della famiglia Agnelli e di tutto ciò che si può aggregare attorno a loro. L'articolo, molto netto dal punto di vista del programma politico del nuovo "centro", era invece un po' grossolano sul piano delle informazioni, e conteneva un discreto numero di errori. Sosteneva, per esempio, che nel 2004 i sindacati diedero il via libera alla riforma-Maroni (cosa assolutamente non vera). Nel suo articolo Scalfari chiede al partito democratico una azione a carrarmato contro Rifondazione. Con rimozione di Bertinotti dalla presidenza della Camera e successiva riforma elettorale che permetta l'esclusione dal governo della sinistra. Ieri Scalfari ha ricevuto molte risposte, da quasi tutti gli esponenti dei partiti della sinistra e dai sindacati. Il suo intervento comunque riaccende il clima di scontro nel quale si apre questa settimana che forse sarà decisiva per le pensioni. Ieri ci sono stati una serie di incontri importanti tra i dirigenti di Rifondazione comunista e i dirigenti di Cgil Cisl e Uil. Risulta che su molti argomenti i punti di vista coincidono. Intanto procede la trattativa sulle pensioni minime.
Liberazione 10.7.07
Breve storia della filosofia politica ed editoriale del direttore di Repubblica
Giornale nato fuori dal coro che s'è trasformato in partito moderato
Si scrive «scalfarismo»si legge governo delle élite
di Stefano Bocconetti
E' un po' come uno di quei quiz psicologici che d'estate pubblicano i settimanali a corto di inchieste. Della serie: «Dimmi chi ami e ti dirò chi sei». Nel suo caso, poi, i risultati del minitest non bisogna neanche andarli a cercare nelle ultime pagine, come accade nei periodici. E' tutto così scontato, lineare. Non c'è bisogno di tante interpretazioni. S'è sempre «innamorato» della stessa parte. Di tutto ciò che è elitario, oligarchico. Ha sempre chiesto che fosse una ristretta cerchia ad occuparsi del governo della cosa pubblica. E ha sempre disprezzato tutto ciò che sa di popolare. Di «operaio». Ha sempre scelto la tecnocrazia. In questo un po' figlio dell' azionismo , o meglio di una variante dell'azionismo, che ha tanti altri illustri rappresentanti. Eugenio Scalfari - perché è di lui che si parla, naturalmente - nel suo ultimo editoriale su «Repubblica» ha scritto l'ennesimo capitolo del suo manifesto editorial-politico. Magari in maniera meno brillante di altre occasioni, addirittura raccontando fatti e aneddoti che non sono veri - e sarebbe la prima volta - ma anche domenica ha provato a tratteggiare il ruolo dello scalfarismo. Già, ma che cos'è questo mix di intuizioni giornalistiche, di scelte imprenditoriali e di filosofia politica? Che cos'è davvero lo scalfarismo? Una prima risposta può arrivare per negazione. Lo scalfarismo , insomma, non coincide con la storia di uno dei più famosi giornalisti italiani. Giornalista e scrittore. Più giornalista che scrittore. La sua «ideologia» ha poco a che fare con quell'Eugenio Scalfari che, nel primo dopoguerra, frequenta il partito liberale, e quella cerchia di professionisti che si coagula attorno al Pli. Ha anche poco a che fare con quel ragazzo, o poco più, che entra in contatto col «Mondo» e con «l'Europeo» ma soprattutto con due nomi di spicco dell'intellettualità laica: Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti. C'entra assai poco anche con la sua adesione, nel '55, al partito radicale, o con la successiva scelta di entrare nel Psi (nelle cui liste sarà anche eletto deputato). Forse - ma è tema di dibattito - lo scalfarismo comincia a manifestarsi quando, nel '63, diventa direttore de «l'Espresso». Anche se all'epoca si dedicava quasi esclusivamente ad inchieste su temi che nessuno prima di allora aveva il coraggio di nominare. Impegno giornalistico che ha anche pagato duramente: nel '68, pubblicò assieme a Lino Jannuzzi un'inchiesta sui servizi segreti e su un tentativo di golpe avvenuto nell'estate del '64. E' da allora che nel nostro paese s'è cominciato a parlare di pulsioni autoritarie. Ma all'epoca, c'era una giustizia che sembrava non voler capire: e così, su denuncia di De Lorenzo, uno dei generali coinvolti nel piano eversivo, Scalfari fu condannato. A 14 mesi di reclusione. Questo è prima. Ma se si vogliono date certe, l'unica è andare al '76, quando Scalfari fonda «Repubblica». E' una scommessa, sostenuta dal gruppo l'Espresso e dalla Mondadori, davvero azzardata quella del direttore. Un giornale diverso da tutti gli altri, che rompe la monotonia di cronache politiche raccontate solo dall'angolo di visuale del Palazzo. Una scommessa vinta subito o quasi subito, quando il quotidiano riesce - per un po' - a diventare il primo giornale. Un giornale che riesce addirittura ad incontrare la protesta giovanile, il movimento del '77. Raccontato su «Repubblica» da straordinari cronisti - uno dei quali, il più bravo, si chiamava Carlo Rivolta, non c'è più - come nessun'altra testata riuscì a fare.Poi, ecco lo scalfarismo . La scelta di «sposare» una, e sempre la stessa, fra le tesi che si fronteggiavano nel dibattito democratico. La scelta di innamorarsi sempre di ciò che era ed è più a destra in quella discussione. La scelta di trasformare il suo quotidiano in un partito. In un partito oligarchico che indica di volta in volta chi e come deve governare. E' il 78, l'Italia è scossa da una crisi sociale devastante, di cui il terrorismo ne è un drammatico riflesso. Luciano Lama, segretario Cgil, decide «la svolta dell'Eur». Decide di congelare il conflitto nelle fabbriche per permettere il risanamento dei conti. Prima delle imprese e poi dello Stato. E' la premessa, forse, di quel che accadrà di lì a due anni, alla Fiat. Quando vinceranno le aziende, il sindacato sarà sconfitto e potranno cominciare gli anni '80. Scalfari però non sente ragioni: e mena fendenti per sostenere la legittimità di quella filosofia secondo la quale «il salario deve diventare una variabile dipendente». Si guadagna, insomma, in base a quanto guadagna l'impresa. Poi, nel pieno del decennale buio, lo scalfarismo s'innamora di De Mita. Certo, in questo c'è un'eco del motto maoista secondo il quale «il nemico del mio nemico è mio amico». E visto che Scalfari ha in odio Craxi e la sua corte, «Repubblica» sposa De Mita anche in funzione antisocialista. Ma appunto «anche». In realtà, a Scalfari piace il De Mita che predica - ante literam - il superamento della differenze destra-sinistra. E che è una strada per imporre il governo saggio dei pochi, la vera essenza dello scalfarismo. Naturalmente, la stessa strada la intravede nella battaglia sulla scala mobile a metà anni '80. E infatti Scalfari si schiera a sostegno del taglio voluto da Craxi. Ma in quel caso, il nemico erano i lavoratori, il sindacato. Sindacato che rischia di diventare un ostacolo al governo delle élite illuminate. Un po' come i partiti. Ed eccolo di nuovo Scalfari - all'inizio degli anni 90 - impegnare il suo «giornale-partito» a sostegno del referendum contro le preferenze nelle schede elettorali. Referendum che ha prodotto seri danni alla democrazia, limitando la rappresentanza di chiunque non avesse esposizione mediatica. Ma allora, quel voto diventò il simbolo di chi voleva imporre una logica ipermaggioritaria. Capace di fare a meno dei partiti. E nella stessa logica, forse, rientra anche il sostegno, il dichiarato sostegno offerto da Scalfari ad Occhetto all'epoca dello scioglimento del Pci. Tanto che una leggenda vuole che la decisione della Bolognina sia maturata, nell'ultimo segretario del Pci, dopo un colloquio col direttore di «Repubblica».Il resto è storia recente. La sua feroce, intransigente opposizione al governo Berlusconi. A quello stesso Berlusconi che con la scalata alla Mondadori aveva provato a scippargli il suo gioiello. Vicenda conclusa - anche se ha avuto lunghissimi strascichi - dall'ormai famoso «lodo Ciarrapico» e che ha consentito al gruppo De Benedetti di restare proprietario del giornale. E del partito, rigorosamente schierato nel centro-sinistra. Un'opposizione intransigente al governo di destra. Accusato comunque non per le sue scelte ma soprattutto per la sua «incapacità». Tremonti, Alemanno, Urbani avrebbero dovuto lasciare il posto a chi sapeva governare meglio di loro. Per ultima, la scelta di puntare su Veltroni. Scalfari lo ha «investito» in un editoriale dove - consapevole o no - lo contrappone a quella parte della maggioranza che difende gli operai e i pensionati. Chissà se gli ha fatto davvero un favore. Ma lo scalfarismo è anche questo: molto arbitrio e anche un po' di arroganza. Come in chiunque difenda le élite.
Liberazione 10.7.07
Leggendo il consueto editoriale di Scalfari. Furori e falsità
L'ossessione liberista mangia i principi liberali
di Franco Giordano
Nella sua storica polemica con Luigi Einaudi, Benedetto Croce sostenne la non riducibilità della nozione di liberalismo a quella di liberismo: «Bene la lingua italiana distingue con due affini ma diversi vocaboli "liberalismo" da "liberismo", perché l'uno non è da confondere con l'altro, l'uno pertinente alla sfera morale e l'altro a quella economica», ebbe a scrivere, anzi a pubblicare nel 1948 in una "breve dilucidazione" lasciata inedita per quasi venticinque anni (e rilanciata, appunto, negli anni ruggenti del dopoguerra perché poteva "avere qualche utilità"). Insomma, mentre per Einaudi il liberismo economico era il contenuto "veritiero" della dottrina liberale, per Croce l'idea di libertà doveva sempre prevalere sugli interessi della concorrenza economica. Questa citazione crociana, a noi che crociani non siamo, veniva in mente l'altro giorno, leggendo il consueto editoriale di Eugenio Scalfari sulla Repubblica, dedicato in gran parte alla vicenda delle pensioni. Scalfari passa per un liberale autentico, anzi per un campione del liberalismo nella sua "gloriosa" torsione azionista. Ma da questo articolo appare purtroppo una eredità immeritata: il fondatore del giornale di De Benedetti si manifesta con l'ultima nota domenicale soprattutto un liberista. Uno che sacrifica (quasi) tutti i principi liberali sull'altare delle convenienze economiche e dell'arroganza del "pensiero unico" liberista. Sepellendo così il pensiero liberale.
La tesi di fondo sostenuta da Scalfari è semplice e chiara: il conflitto sociale è una patologia "corporativa", il nemico vero è il movimento sindacale, anch'esso ridotto a una "corporazione" o a una robusta lobby nazionale, la sinistra radicale, e segnatamente il Prc, è un ferrovecchio ideologico, una zavorra da buttare a mare - ai pesci. Tutto questo in nome di un preteso interesse generale, formulato come una specie di Araba fenice, o come un cielo di vaporosa e indistinta astrattezza, al quale urge sacrificare tutto - tutte le soggettività, tutti i soggetti, tutti gli interessi parziali, tutto ciò, insomma, che non si concilia con esso. Il povero Croce, a oltre cinquant'anni dalla morte, deve aver sussultato di brutto: che c'entrano queste idee con un'ispirazione liberale e aperta? Un vero liberale è tutto fuorchè ultimativo, assolutista, totalizzante, com'è Scalfari in questo suo ultimo articolo. Un liberale autentico è convinto che il sale della democrazia sia proprio il conflitto sociale e politico, la competizione degli interessi e delle idee, la legittimità dei soggetti e delle soggettività che danno vita alla dialettica democratica. Invece, un liberista considera l'idea stessa dell'aggregazione di soggettività alternative a quelle delle classi dominanti un "lacciolo", un impiccio, un vincolo insopportabile al libero dispiegarsi della logica del mercato. Come l'ultimo Scalfari, appunto.
Tanto è il furore ideologico (di classe?) che lo muove, che costruisce gran parte del suo ragionamento su un dato falso, quello secondo cui le confederazioni sindacali avrebbero sottoscritto nel 2004 un accordo con il ministro Maroni, scalone compreso: bugia clamorosa, che Epifani, Bonanni e Angeletti hanno prontamente smentito, il giorno dopo. E accusa il Prc di volere la crisi di governo, di accingersi a ripetere il '98, di essere insomma preda di una sindrome estremista: un'altra falsità, il Prc e la sinistra radicale chiedono con grande forza il rispetto di un punto-chiave del programma sulla base del quale l'Unione ha vinto le elezioni - si battono perchè si vada, finalmente, ad un vero risarcimento sociale, avendo fin qui dato ampia prova di lavorare per la tenuta di Prodi, anche accettando compromessi, mediazioni e anche paradigmi di politica economica certo diversi e lontani dai propri. Ma a Scalfari i fatti interessano poco, anzi nulla: gli interessa - come del resto ha fatto sempre - dare addosso al Prc. Come quando arriva ad attaccare frontalmente il Presidente della Camera, intimandogli le dimissioni in quanto critico della politica previdenziale del governo e in quanto, secondo lui, dedito ad un solo obiettivo, la salvaguardia della sinistra antagonista. Ora, a parte il fatto che Fausto Bertinotti sta incarnando il suo ruolo con uno stile di esemplare correttezza istituzionale ( riconosciuto da antipatizzanti e da avversari), da quando in qua esprimere limpidamente un'opinione politica, su una materia di cui sta discutendo tutta l'Italia, sarebbe un reato di "lesa maestà"? Da quando in qua un presidente della Camera deve allinearsi, rigorosamente e pena la cacciata, alle idee del ministro dell'economia o della "maggioranza della maggioranza" di cui fa parte?
Anche qui, compare la stessa visione totalizzante della politica - e delle istituzioni, ridotte a uno spoil system che, in questa forma, non esiste in nessun paese democratico. L'intolleranza nei confronti di chi non sta dentro il perimetro tracciato da "Io", come dice l'ironico Foglio. E dal Partito Democratico di Walter Veltroni: ipse dixit, e da allora per la Repubblica la storia è pressochè finita. Tutti coloro che pensassero di rendere le primarie del 14 ottobre una competizione autentica, scendendo in campo, sono brutalmente bacchettati dalla diffida scalfariana - perfino loro, perfino questi possibili altri candidati alla leadership del Pd, sono ridotti solo a puri intralci, disturbatori del manovratore, sabotatori. Ancora un preoccupante tono autoritativo e autoritario. Ancora un brivido postumo per Benedetto Croce.
Infine, la falsità politico-economica più macroscopica: l'innalzamento dell'età pensionabile motivato come necessità dell'economia, come compatibilità economica dalla quale sarebbe impensabile o impossibile derogare. Non occorre qui citare le cifre che i sindacati, molti economisti e molti veri esperti hanno ampiamente citato sui conti dell'Inps, per ribadire che, in tutta evidenza, a Scalfari sta a cuore ben altro che non l'ottemperanza agli equilibri di bilancio: l'umiliazione dei sindacati e del mondo del lavoro che essi rappresentano, per un verso, l'esaltazione di un astratto interesse generale che, chissà perché, viene puntualmente invocato solo quando si tratta di chiedere sacrifici agli operai, per l'altro verso. Quando mai il leader storico della Repubblica ha chiesto qualcosa di simile, qualche rinuncia, qualche passo indietro agli imprenditori? Quando mai si è preoccupato davvero della condizione di precarietà a cui sono costretti i giovani, avanzando proposte come un salario minimo o almeno un piano straordinario per l'occupazione? Quando mai si è permesso di proporre il foglio di via per presidenti delle camere (come Luciano Violante) che rimanevano giustamente al loro posto quando cambiavano maggioranza, governo e premier? Vedete che cosa succede quando il liberismo divora quegli ideali liberali che, pure, il giovane Scalfari deve pure aver nutrito. Quando ancora pensava, chissà, che senza una sinistra degna di questo nome, senza organizzazioni sindacali forti, senza diritti e garanzie per chi lavora, la democrazia resta un'Incompiuta.
Liberazione 10.7.07
Bertinotti: «Scalfari totalitario
La sinistra ha diritto di parola» Il presidente della Camera replica all'attacco di domenica scorsa su Repubblica
di Angela Mauro
Rifondazione come «palla al piede dei sindacati», che si sono a loro volta macchiati di «collateralismo inquinante» all'epoca del governo Berlusconi nella trattativa sulla riforma Maroni. E ancora Rifondazione «demagogica» sull'abolizione dello "scalone" e sulla richiesta di escludere gli operai dall'innalzamento dell'età pensionabile. Dalle pagine della "sua" Repubblica , con l'editoriale di domenica scorsa, Eugenio Scalfari punta dritto al cuore della sinistra e non fa sconti, nemmeno nei confronti di una carica istituzionale come quella della presidenza della Camera. Il problema di Fausto Bertinotti, scrive il fondatore di Repubblica , è che «non scompaia la sinistra antagonista», in questo «somiglia a Storace che non vuole la scomparsa della destra», e allora, chiede Scalfari, «se il suo partito, da lei incoraggiato, dovesse mettere il governo in crisi, lei lascerebbe contestualmente il suo incarico istituzionale? Sarebbe il minimo che lei possa fare...».
Se sono immediate le repliche, con tanto di smentita, da parte del leader sindacali (Epifani e Angeletti) e persino dello stesso Maroni, non è meno esplicita la presa di posizione del Prc (vedi l'intervento di Giordano su Liberazione oggi) e del presidente della Camera, che riscontra del «nervosismo di troppo» nel confronto in corso sulle pensioni: «un eccesso di fatica a confrontarsi con posizioni totalmente legittime, interne ad un programma concordato». Un modo per dire che non siamo nel '98, che c'è un programma di coalizione che tutti sono tenuti a rispettare e che la sinistra ha il diritto di esprimersi e di esistere, al di là delle evidenti tentazioni di Scalfari e dei riformisti dell'Unione di volerla fuori dalle attuali e future alleanze di governo. Bertinotti comincia con una battuta: «Strano... io sono diventato un po' liberale, ma Scalfari, che liberale era, adesso è totalitario» perchè «uno che pensa che siano valide solo le sue opinioni e che l'interesse nazionale sia determinato solo dal suo pensiero può benissimo definirsi totalitario». Anche Bertinotti non fa sconti: «Siamo di fronte ad un dibattito politico dove tutti hanno diritto di esprimersi, tanto più su una materia come quella delle pensioni. E' giusto ripartire da una rivalutazione del lavoro manuale e riconsegnare al lavoro manuale un ruolo sociale. Quella delle pensioni è una buona materia per questa rivalutazione: Scalfari deve sapersi confrontare con queste argomentazioni, invece che dire questa cosa va bene perchè l'ha detta Almunia o perchè l'ha detta lui stesso». E insiste sulla necessità di escludere operai e turnisti da ogni discorso sull'innalzamento dell'età pensionabile:«Leggi uguali per soggetti diseguali producono grandi diseguaglianze». E sul governo: «Voglio che arrivi a fine legislatura, perchè dal punto di vista delle istituzioni democratiche sarebbe bene che i governi possano durare per l'intera legislatura, ma voglio anche che risponda a quei lavoratori che l'hanno votato».
Scalfari mira in particolare a Rifondazione, protagonista dello scontro in corso sulle pensioni, questione sulla quale - è la tesi del Prc - si gioca il futuro del governo. Ma anche il resto della sinistra si sente chiamata in causa. «L'intenzione vera è di spostare l'asse del governo verso il centro, offrendo una rappresentazione della sinistra come radicale, estremista e incompatibile con qualsiasi alleanza», si infuria Titti Di Salvo, componente della segreteria nazionale della Cgil all'epoca della riforma Maroni e ora capogruppo di Sd alla Camera che spinge per «fare in fretta e bene» nel percorso unitario a sinistra, pur non condividendo i «toni forti» del Prc nelle sue minacce di crisi di governo sulle pensioni. «Si rischia di delegittimare il sindacato», spiega la deputata. Paolo Cento dei Verdi rovescia il ragionamento di Scalfari nel passaggio in cui accusa il Prc di preparare un nuovo '98. «Siamo in un contesto diverso. Oggi la rottura la vogliono i riformisti che non rispettano il programma dell'Unione, che prevede l'abolizione dello "scalone"».
Liberazione 10.7.07
Dopo l'editoriale di Repubblica, parla il segretario confederale Cgil
«Macché corporativi. Vogliamo risposte anche su giovani e anziani»
Nerozzi: «Scalfari dice falsità. C'è chi vuole far cadere Prodi»
di Roberto Farneti
«Scalfari dice delle palesi falsità». Paolo Nerozzi, segretario confederale Cgil, respinge con forza le accuse mosse ai sindacati (e al presidente della Camera Fausto Bertinotti) dal fondatore del quotidiano la Repubblica con l'editoriale di domenica scorsa. «Noi corporativi? Si parla tanto dello scalone, giustamente, ma ricordo - ribatte Nerozzi - che stiamo facendo una trattativa unica. Vogliamo risposte precise anche su pensioni basse e precarietà».
Secondo Scalfari, Cgil Cisl e Uil, chiedendo l'abolizione dello scalone, non starebbero rispettando l'accordo siglato con l'allora ministro Maroni.
Cosa falsa. Contro quella riforma delle pensioni abbiamo fatto molti scioperi, qualcuno da soli, e anche molto duri.
Repubblica però insiste. Ricorda che, in realtà, l'unico sciopero esclusivamente sulle pensioni lo avete fatto nel marzo 2004, dopo l'approvazione della riforma.
Non è vero, ne facemmo uno generale e altri articolati. E' vero che molti scioperi ebbero come bersaglio anche le leggi finanziarie, ma perché dentro le finanziarie c'erano anche le pensioni. Quindi Repubblica continua a mentire sapendo di mentire. Altrettanto falsa è l'affermazione di Scalfari sul presunto accordo tra noi e Maroni per il rinvio della revisione dei coefficienti. Lo stesso Maroni ha smentito, la Cisl e la Uil pure. Perché un giornale si spinge a dire cose talmente false? Aggiungo: perché improvvisamente si scoprono i giovani? Anche qui, un tema viene evocato ma non per risolverlo, bensì per aumentare la confusione sulla trattativa. La mia opinione è che ci sono forze, anche all'interno della maggioranza, che non vogliono fare l'accordo con il sindacato perché non vogliono modificare lo scalone di Maroni. Penso che ci sia qualcuno che lavora per far cadere questo governo e poi addossare la responsabilità ai sindacati "corporativi" o a qualche forza di sinistra.
Prodi ha però già detto chiaramente che lo scalone va superato e che presto farà una sua proposta.
Prodi deve avere il coraggio di fare un accordo con le parti sociali e su questo costringere le forze della maggioranza a esprimersi, anche tramite un voto di fiducia.
Non a caso si parla di inserire l'eventuale intesa sulle pensioni dentro la Finanziaria.
A me questo interessa meno, l'importante è che si faccia l'accordo e si trovi poi il modo per farlo passare, perché lo scopo del sindacato è non avere più lo scalone.
Avete chiesto al governo e a Prodi di presentare una proposta condivisa, ma i sindacati non sembrano compatti. C'è la Cisl che vede con favore il mix di quote e scalini, ipotesi che Uil e Cgil hanno detto di non condividere...
Se c'è l'accordo il sindacato sarà compatto, le proposte che abbiamo finora presentato sono unitarie.
Qual è la linea del Piave della Cgil?
Innanzitutto io penso che i lavori non siano uguali e che ci sono categorie di lavoratori per i quali 57 anni sono anche troppi. Altri possono essere accompagnati da forme di incentivi.
I famosi "lavori usuranti", difficili però da definire...
La nostra proposta è di escludere chi lavora su tre turni, chi lavora alla catena di montaggio, chi fa i lavori cosiddetti "vincolati", cioè ripetitivi. Comunque le strade per arrivare all'accordo sono tante. La base di partenza, che dò per scontata, è che non si parli di alzare l'età pensionabile delle donne e che si possa andare in pensione con 40 anni di contributi. Altrimenti non discutiamo neanche.
Tornando ai giovani. Domani (oggi ndr ) il governo incontrerà una delelegazione del Forum nazionale dei Giovani. Nel frattempo Capezzone sogna una marcia dei 40mila «per dare un futuro ai nostri ragazzi». Il significato propagandistico di queste iniziative è evidente: brandire l'arma del conflitto generazionale per sostenere la necessità dell'innalzamento dell'età pensionabile. Più o meno lo stesso schema utilizzato da Berlusconi quando, per manomettere l'articolo 18, spiegava che se i giovani fanno fatica a trovare lavoro la colpa è delle eccessive tutele sindacali conquistate dai loro padri. In questo caso, l'argomento è che se non si interviene, tra qualche anno l'Inps non avrà più i soldi per pagare le pensioni ai giovani. Cosa rispondi?
La mia prima risposta è una domanda: che cos'è il Forum dei Giovani, chi rappresenta? Mi risulta che tutti i sindacati dei precari, a cominciare dal Nidil, non siano stati invitati. Mi risulta che il sindacato più votato dagli studenti alle recenti elezioni universitari non sia stato invitato. In ogni caso, mi auguro che il governo sottoponga al Forum dei giovani il superamento dei contratti a tempo determinato, norme di sicurezza contro il precariato, misure di sostegno per l'affitto, borse di studio per la formazione e la ricerca. Se non proporrà niente di tutto questo, sarà l'ennesima presa in giro. Quanto alla sostenibilità del sistema previdenziale, dai dati dell'Inps si vede che i soldi ci sono, soprattutto per i lavoratori dipendenti. E ciò grazie anche al contributo dei tanti lavoratori immigrati. L'allarme sui conti e sul futuro dei giovani è perciò strumentale.