martedì 10 luglio 2007

Repubblica 10.7.07
Il ministro della Solidarietà Ferrero: non accettiamo imposizioni
"Il programma vale più dei diktat dell'Europa"
di Luca Iezzi


ROMA - «Quella della Bce è una politica suicida. Francamente sono un pò esterrefatto che il nostro rappresentante nel board della Banca centrale, Bini-Smaghi, proponga queste posizioni. Dovremmo fare anche noi un pò più la voce grossa alla Sarkozy». Il giorno dopo l´intervista di Lorenzo Bini-Smaghi a Repubblica, il ministro della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero, considera l´atteggiamento remissivo verso le istituzioni comunitarie assolutamente controproducente e per dimostrarlo sceglie un esempio politicamente opposto: «Evidentemente con la Bce e con i tecnocrati o gli integralisti come il commissario Joaquin Almunia dobbiamo fare come il presidente francese. Non capisco perché dovremmo farci imporre politiche neoliberiste che nemmeno un governo di destra vuole applicare, senza contare che proprio il commissario ha concesso al vecchio governo di centrodestra un percorso di rientro del deficit più morbido».
Anche non considerando eventuali paletti dall´Europa, rimane il problema tutto interno, l´accordo sulle pensioni è più vicino o più lontano?
«Siamo nel momento del fare, si lavora per trovare una quadra e spero che ci si riesca. Il governo aveva una proposta unica contenuta nel programma, ora dovrà ritrovarne un´altra. Prodi ha detto che lo scalone va abolito e quando avremo ritrovato una visione comune la proporremo».
La trattativa non è semplice: quali strumenti, tra i tanti proposti pensa siano i più adatti al compromesso?
«Proposte tecniche non ne faccio perché so che sono oggetto di discussione e non voglio creare altra confusione. Segnalo quale deve essere la sostanza politica: l´abolizione dello scalone non può essere a costo zero, perché quel tetto è stato messo per far risparmiare l´erario e non distribuire una parte dei contributi che i lavoratori versano. In qualche modo devono tornare indietro, questo è il nostro obiettivo».
E l´ipotesi di alzare l´età di pensionamento di vecchiaia delle donne per compensare questi maggiori costi è una soluzione praticabile?
«Sono assolutamente contrario, le donne già pagano un sistema di welfare che non le tutela perché poco attento alle loro necessità. Inoltre trovo ipocrita l´argomentazione che in questo modo si "permette" alle donne di rimanere al lavoro. In realtà si introduce soltanto l´obbligo a farle rimanere più a lungo a lavoro».
Rifondazione ha già ammesso, ventilando un innalzamento a 58 anni, che si può ragionare in deroga al programma dell´Unione. Ci saranno altri margini per venire incontro agli alleati?
«Non molto, ma vorrei sottolineare che quella è stata una notevole dimostrazione di disponibilità: l´abolizione dello scalone non era scritto sul programma di Rifondazione, ma su quello di tutta l´Unione».
Rimandare la riforma alla Finanziaria aiuterà a trovare un accordo che piaccia a tutti?
«Il nodo deve essere risolto adesso e abbiamo il tempo per farlo prima di settembre, poi lo strumento legislativo lo sceglieremo, può essere anche la Finanziaria, a patto di aver raggiunto l´intesa politica prima».

Repubblica 10.7.07
Il settimanale uscito nonostante lo sciopero distribuisce in allegato il periodico del leader del Prc
Left, i giornalisti criticano Bertinotti


ROMA - In edicola forzando uno sciopero. È l´ultimo episodio della travagliata vita di "Left", settimanale nato dalle ceneri di "Avvenimenti". Un periodico di sinistra il cui editore, denuncia il cdr, «non rispetta le regole sindacali».
La vita di "Left" è segnata dall´ingombrante presenza di una rubrica firmata dallo psichiatra Massimo Fagioli (non la vogliono i primi direttori, Giulietto Chiesa e Adalberto Minucci, che vengono licenziati). Tra i simpatizzanti di Fagioli, Fausto Bertinotti. Il mese scorso il presidente della Camera ha presentato proprio davanti allo psicanalista e a una platea di "fagiolini" un nuovo bimestrale da lui diretto, "Alternative per il socialismo", che esce in allegato a "Left". E adesso che l´editore del settimanale è fortemente contestato per aver pubblicato il periodico nonostante uno sciopero, qualcuno dalla redazione si chiede: «Com´è che il compagno Bertinotti, grande sindacalista, accetta di farsi legare a un giornale che non rispetta le regole sindacali?».
Lo scontro tra proprietà e redazione di "Left" è iniziato il 13 giugno, quando è stata revocata la direzione ad Alberto Ferrigolo. «Non aveva portato una sola copia in più», secondo Luca Bonaccorsi, ad della cooperativa editrice. Seguono due scioperi in un mese. Tra i motivi anche «il ritardo nel pagamento degli stipendi e il licenziamento di due colleghe precarie», che l´amministratore spiega con le «difficoltà economiche, che ci hanno impedito di rinnovare i contratti».
Con le ultime agitazioni Fagioli sembrerebbe non avere a che fare. Ma Andrea Purgatori, ex condirettore di Ferrigolo, sottolinea: «È un dato di fatto che da quando ce ne siamo andati noi, il suo spazio è stato aumentato».

Repubblica 10.7.07
Se la sinistra riparte dall'eguaglianza
di Aldo Schiavone


Un lavoro enorme attende la sinistra italiana – quel che ne rimane in piedi: la ricostituzione di un patrimonio culturale degno di questo nome. Non solo i concetti (che già non è poco), ma i sogni, le emozioni, le speranze, la capacità di discorso e di persuasione. "Beffato il mio amore, congedata la mia fantasia: di tutto il passato non mi resta che il dolore»: i versi dell´"Addio alla corte" di Walter Raleigh sembrano proprio scritti per lei.
E poiché si deve pur cominciare da qualche parte, proveremo a fare un esempio: un piccolo appunto per i nostri cari quarantacinque saggi impegnati a dare un´anima al Partito democratico, ma anche per gli amici che non condividono questo progetto, e che lavorano a costruire la "Cosa rossa". Parleremo dell´idea di eguaglianza (ne abbiamo fatto cenno, qui su "Repubblica", discutendo di socialismo): una bandiera dell´occidente, sin dal pensiero antico ("il nome di tutti più bello": così Erodoto, nel cuore del quinto secolo a. C. – e si stava riferendo all´"isonomia", alla legge eguale per tutti). Una bandiera che la modernità avrebbe consegnato, con diverso successo, al fuoco di due rivoluzioni: prima quella francese, e poi quella russa.
Oggi sembra una parola in difficoltà, che facciamo fatica a pronunciare (mentre tutti sproloquiano di libertà): messa in crisi dai fallimenti del ventesimo secolo, non meno che dall´onda del capitalismo totale che sta dominando l´orizzonte del pianeta. Ma sbagliamo, ed è un errore grave. Perché di eguaglianza avremo presto un gran bisogno, per riuscire a sottrarre il futuro che ci aspetta alla destabilizzazione di squilibri paurosi, indotti dalla forza stessa delle potenze in campo: l´intreccio titanico fra scienza e mercato, nella forma storica che stiamo sperimentando. Dismisure rispetto alle quali le ingiustizie del vecchio capitalismo industriale sembreranno presto non più di un pallido preludio.
Le nuove diseguaglianze non hanno origine – come quelle di una volta – sul terreno della produzione in senso stretto, del conflitto fra capitale e lavoro – insomma dell´economia classicamente intesa – anche se continueranno ad apparire, alla fine, come enormi disparità di ricchezza e di status. Le nuove diseguaglianze saranno tutte, molto prima che diseguaglianze proprietarie o distributive, disparità "di accesso": generate non direttamente dall´economia, ma dal rapporto problematico e ancora oscuro fra l´avanzamento tecnologico e il suo uso sociale (in ultima analisi, fra tecnica e democrazia: sono penetranti a questo riguardo le obiezioni che mi muove Ernesto Galli della Loggia). E riguarderanno per prima cosa il rapporto fra destino individuale e possibilità di disporre in maniera adeguata delle tecnologie da cui dipenderanno sempre di più la costruzione e la conservazione della nostra identità: le tecniche alla guida dei processi conoscitivi in tutti i campi del sapere, della circolazione e della gestione dell´informazione, dello stesso statuto biologico di ciascuno di noi - qualcosa di enormemente più complesso di ciò che oggi chiamiamo "salute", o diritto all´integrità del proprio corpo.
Per fronteggiare l´aggressività di queste asimmetrie abbiamo bisogno di elaborare – da un punto di vista teorico e istituzionale – una nozione radicalmente nuova di eguaglianza: davvero di rifare il lavoro che a suo tempo svilupparono Rousseau e Marx. Di elaborarne un´idea non più statica, chiusa e solo patrimonialistica, come mera redistribuzione della ricchezza prodotta, o peggio ancora (ma quasi nessuno ci pensa più, ormai) come mitico risultato di un´inesistente economia speculare rispetto a quella capitalistica. Un´idea non più intrinsecamente e irriducibilmente anti-competitiva, del tipo di quella che tuttora domina nella cultura sindacale e nel mondo della scuola italiani (per molte, e in parte anche nobili ragioni storiche, che sono ormai però diventate relitti inservibili, dietro i quali si annidano sfacciatamente ottusi privilegi corporativi). Ma in grado di convivere con il mercato e con le sue scelte, per quanto dure, partendo dalla consapevolezza che la forma di merce non è né "naturale" né eterna, e prima o poi sarà sostituita da qualcos´altro; e però è in questo momento, nel suo intreccio con la tecnica, il più importante motore di sviluppo di cui disponga la civiltà umana su questo pianeta: e occorre saper accettare realisticamente questo dato di fatto.
In altri termini, e in positivo: un´idea dinamica e aperta di eguaglianza come potenzialità di accesso e come trasparenza e controllo condiviso sull´allocazione delle tecnologie. Un´eguaglianza che sappia assumere come suo orizzonte politico, per la prima volta nella storia, l´interezza della specie, senza eccezioni, e sappia preservarne – ancora a lungo, quantomeno – la sua unità biologica, ereditata dalla selezione naturale. Un´eguaglianza mai in atto, mai bloccata (come nelle vecchie formule: a ciascuno secondo i suoi bisogni, o i suoi meriti – roba da fine della storia), ma sempre relativa e in divenire, per l´umanità in trasformazione. Un´eguaglianza come parità nella mobilità – spaziale e sociale –, nella fluidità – delle posizioni, delle carriere, delle conoscenze –, nella permanente rimessa in gioco di ogni acquisizione. Un principio in grado di produrre diversità, specificità, differenze: proiettato sull´infinito, immagine mobile di una soglia che tutti possono raggiungere, ma anche tutti superare.
Abbiamo ereditato dai nostri classici una distinzione capitale: quella fra un´eguaglianza formale, politica e giuridica, e un´eguaglianza sostanziale, sociale ed economica. Rousseau ancora la ignorava, ma Marx, sviluppando Hegel, l´ha enfatizzata oltre ogni limite. Nel tentativo di passare dall´una all´altra, la modernità ha sbattuto più volte la testa, provocando orrendi disastri. Credo sia venuto il momento di prendere congedo da lei. Il mondo che ci aspetta integra rischiosamente i piani, non li separa. Eguali di fronte alla legge ed eguali di fronte alla tecnica (e alle sue proiezioni economiche) sono ormai due facce dello stesso problema. Venirne a capo è il compito di un nuovo umanesimo. Ed è qui che siamo arrivati.

Repubblica 10.7.07
L'inconscio svelato
Intervista a Mauro Mancia sul rapporto tra neuroscienze e psicoanalisi
di Luciana Sica


Tra neuroscienziati e analisti il dialogo è stato a lungo difficile ma la "memoria implicita" è una scoperta che cambia l´edificio concettuale di Freud
In un libro gli studi più recenti su come funziona la mente
"Il dialogo è possibile e necessario se si vuole guardare al futuro"

Professore emerito di neurofisiologia alla Statale di Milano, "didatta" della Società psicoanalitica italiana, settantotto anni portati con grazia, Mauro Mancia è un bel nome del mondo freudiano legato a un doppio filone di ricerche: il sogno e le neuroscienze. All´attività onirica della mente e alla ricollocazione del pensiero psicoanalitico su quello che è stato, fin dalle origini, il suo sfondo neurofisiologico Mancia ha dedicato l´intera sua vita di studioso.
È con la sua firma che esce Psicoanalisi e neuroscienze, raccolta di saggi pubblicata da Springer un anno fa in inglese e ora in italiano (pagg. 460, euro 84.95): è un volume collettaneo senz´altro complesso, centrato sulla possibile integrazione tra le più recenti acquisizioni neuroscientifiche nello studio della mente umana e il sapere psicoanalitico, che oggi non s´identifica esclusivamente con il modello freudiano - come dovrebbe essere ovvio, e invece non lo è.
A lungo tra neuroscienziati e psicoanalisti c´è stato un dialogo tra sordi - il primo a scriverlo è lo stesso Mancia. Ora le cose starebbero cambiando di netto, eppure l´impressione è che non pochi analisti, a volte anche illustri, mostrino un totale disinteresse per la scienza, se non proprio un certo sussiegoso disprezzo: innamorati delle loro litanie, invocano la retorica del riduzionismo per dire di una strutturale inadeguatezza delle neuroscienze nel cogliere la complessità della psiche umana.
È una vecchia storia che affonda le radici in un´idea stereotipata e provinciale della cultura umanistica e delle sue anime belle. Il grande Mark Solms - su questo scarso feeling tra analisti e neuroscienziati - ci ha fatto su dell´ironia: quelli che con espressione decisamente trash vengono definiti "i detective dell´anima" sarebbero soggetti a cervello destro dominante, mentre i neuroscienziati sarebbero persone a cervello sinistro dominante: peccato che i due emisferi del cervello dialoghino così malamente tra loro, usando strutture concettuali e forme di comunicazione tanto diverse.
«Ma un buon funzionamento mentale implica l´integrazione dei due emisferi!», scherza a sua volta Mancia, in questa intervista. E poi più serio: «Le osservazioni neuroscientifiche non si sostituiscono ovviamente a quelle psicoanalitiche: diverso è il metodo e diverso è l´approccio, ma sono in grado di offrire dei dati anche sperimentali, di garantire una consistenza anatomofunzionale a determinati aspetti fondanti la teoria psicoanalitica della mente».
Negli ultimi anni, per le neuroscienze è l´emozione al centro della vita psichica, dei meccanismi di funzionamento della mente - il che sembrerebbe di enorme interesse per il discorso psicoanalitico. Emotional Brain è un caposaldo firmato da LeDoux... Eppure resta controversa, molto dubbia, la compatibilità tra il corpus teorico freudiano e le conquiste neuroscientifiche: a lei non sembra, professor Mancia?
«Le ultime ricerche delle neuroscienze sconfinano ampiamente nel campo della psicologia e la psicoanalisi - non dimentichiamolo - è pur sempre una branca della psicologia. L´isolamento è dannoso per tutti, mentre il dialogo - a cui io credo da sempre - può oggi fondarsi non solo sul grande sviluppo delle neuroscienze ma anche su una trasformazione radicale della teoria psicoanalitica della mente che ha avuto inizio già con la Klein, ma che si è via via consolidata negli ultimi anni del Novecento, grazie a contributi molto seri e originali. La psicoanalisi attuale può decisamente giovarsi delle neuroscienze: può estendere, ampliare, approfondire, arricchire le sue concezioni teoriche».
Studiosi come Kandel, Damasio, LeDoux, Edelman sono stati interessati a confermare o a disconoscere l´edificio concettuale di Freud?
«In un certo senso sì, ma non è questo il punto. Non si tratta di affermare - attraverso le neuroscienze - che Freud aveva ragione o torto, per la semplice ragione che quel formidabile "castello" freudiano si è di molto trasformato».
C´è chi non se ne fa una ragione...
«A me impressiona, nei congressi psicoanalitici, l´autoreferenzialità circolare del pensiero, la ossessiva centralità di un sapere che ripete se stesso continuamente, ignorando il grande sviluppo delle teorie che poi comporta un cambiamento delle tecniche terapeutiche e alla fine anche una revisione etica nella relazione con il paziente».
Kandel è stato premiato con il Nobel per i suoi studi sui ricordi. Non è stato il solo, naturalmente. Le neuroscienze hanno accertato l´esistenza di un doppio binario della memoria: quella dichiarativa, esplicita, che può essere freudianamente "rimossa", e un´altra che al contrario non può essere rievocata né verbalizzata e neppure - per così dire - spazzata via. È la memoria implicita che si accumula nei primi due anni di vita, quando non è ancora maturo l´ippocampo, indispensabile per la memoria esplicita... Si direbbero scoperte che stabiliscono un rapporto prepotente con la nozione d´inconscio di Freud, ma è così?
«È senz´altro così. Le esperienze preverbali e presimboliche della memoria implicita s´identificano con un inconscio precoce non rimosso. Non sono perdute, anche se non sono ricordabili: al contrario, sono parti attive della psiche che condizionano l´intera vita affettiva, emozionale, cognitiva... Gli studi neuroscientifici sulla memoria offrono all´analista teorico e clinico degli strumenti preziosi per raggiungere le aree più nascoste e arcaiche della personalità del paziente, aree inconsce dimenticate ma operative in lui che potranno riaffiorare nella relazione analitica».
In che modo?
«C´è un ponte metaforico tra le emozioni vissute nel corso della seduta e quelle della primissima infanzia, la possibilità di cogliere affetti che possono essere comunicati attraverso la musicalità della voce, i tempi e i ritmi del linguaggio, restituendo il senso più profondo alla fiaba personale del paziente. Del resto, l´interesse della psicoanalisi si è spostato dall´edipo al pre-edipo, e cioè alle fasi precocissime della vita, addirittura alla fase prenatale... Non solo le neuroscienze, ma la stessa psicoanalisi ha ampliato di molto l´idea che Freud aveva dell´inconscio».
Lei sembra lontanissimo dalle sofisticate teorizzazioni della "metapsicologia", poco affascinato da quelle grandi narrazioni freudiane che pure attraggono tanti suoi colleghi. Guarda invece con molta fiducia allo sviluppo delle neuroscienze: è questa la strada che va percorsa anche per evitare l´aria da funerale che da anni ormai tira intorno alla psicoanalisi?
«Sì, da freudiano, credo molto nella necessità di percorrere questa strada».

Il nuovo numero di "Psiche"
Se siamo tutti fuori controllo

Stiamo diventando tutti psicotici: sempre più incapaci di elaborare pensieri, emozioni, esperienze. L´affermazione suonerà estrema, senz´altro drastica, ma non irrealistica e neppure tanto paradossale. È una delle questioni che affronta Psiche nel nuovo numero - "Chi ha paura dell´inconscio?", s´intitola - in uscita a giorni.
«I comportamenti della società attuale sembrano caratterizzati da una tendenza ad "agire l´inconscio", come se questo fosse "rivoltato fuori", si fosse persa la necessaria distinzione tra mondo interno e realtà esterna, e i molteplici elementi soggettivi venissero evacuati e frammentati in cose. Una modalità che il pensiero psicoanalitico attribuisce al funzionamento psicotico...»: si legge in un passaggio dell´editoriale di Lorena Preta, che da anni dirige la rivista pubblicata dal Saggiatore.
Diverse le angolazioni e diversi i punti di vista, ma gli autori - non solo analisti - di Psiche riflettono comunque tutti intorno al concetto-limite di inconscio: da Carla De Toffoli ("Il sapere inconscio inscritto nel corpo") ad Alessandra Ginzburg ("Da Freud a Matte Blanco: lo scandalo dell´indivisibilità"), da Domenico Chianese ("L´inconscio fa ancora paura?") a Giulio Giorello ("Da Freud al coccodrillo"), da Ludovico Pratesi ("Identità consapevoli: tre artiste italiane e l´inconscio") allo stesso Mauro Mancia ("L´inconscio e la sua storia").
Incuriosisce il contributo di Marco Francesconi, professore di Psicologia dinamica a Pavia. È ancora nascosta l´identità inconscia? - si chiede - e l´interrogativo di sapore retorico ha una sua grande attualità. «Ha luogo - scrive - un vero e proprio attacco mortifero contro le funzioni del pensiero per tentare di sopprimere il dolore... Si produce uno stato di paura inconscia, di terrore in un soggetto, tuttavia, che non è in grado di contrapporvi un senso di autentica vitalità...». Non sarà uno scenario esaltante, peccato, ma è quello che sembra accadere quando l´inconscio viene "semplicemente" catapultato all´esterno.
Lu. Si.

il Riformista 10.7.07
Comunisti. Un'amichevole gara ad attrarre nomi della cultura
Oliviero sfida Fausto sul terreno dell'intellighenzia
di Ettore Colombo


La prima notizia è che né la responsabile cultura dei comunisti italiani, Paola Pellegrini (che si auto-definisce «una vetero», una «che ascolta Guccini, De Gregori, Dalla e de André») né il segretario del suo partito, Oliviero Diliberto conoscevano un testo fondamentale della musica (e della cultura) italiana, Tutto il resto è noia di Franco Califano (incisa, peraltro, nell'annus mirabilis 1977). Tanto che, a sentire la Pellegrini - toscanaccia che viene dal Pci, è passata per il Prc e approdata al Pdci, dove guida il dipartimento Cultura e oggi sciorìna a memoria decine di nomi filosofi del pensiero, archeologi esperti di Etruschi e sovra-intendenti alle Belle Arti “vicini” al partito - lei e Diliberto ci sono rimasti davvero male, ieri mattina. Quando si sono ritrovati tra le mani l'intervista al Giornale in cui il Califfo non solo li attaccava («I comunisti mi rubano lo slogan») ma rincarava la dose, contro di loro («Per me è un'offesa essere accostato a falce e martello»), dopo essere arrivato a minacciare di sporgere querela, nei loro confronti, dalle colonne del Tempo, già domenica scorsa.
La seconda notizia sta nel fatto - incontrovertibile - che la «Festa nazionale della cultura» organizzata dal Pdci (sottotitolo incriminato, appunto,«Tutto il resto è noia») e che si è aperta lo scorso fine settimana al parco Schuster di Roma, è già un successo. Di critica, s'intende, se non di pubblico.
Tra presentazioni di eventi d'arte con tanto di serigrafie di Alinari, Cascella e D'Andrea, mostre dai titoli facilmente fruibili dalle masse popolari come «Themenos, il tempio dell'amore multiplo», galleria di ritratti di grandi jazzisti e dipinti dell'«Infinito femminile», la Festa della cultura del Pdci ha però un unico obiettivo, e tutto politico. Dimostrare cioè che il partito di Diliberto non è «solo» un partito di “veterocomunisti” magari pure un po' trucidi, e che, soprattutto, non si occupa solo di «operai e pensionati», ma un'organizzazione che dialoga a 360 gradi col fior fiore della cultura italiana. Cultura e “intellighenzia” che, fino a poco tempo fa, sembravano appannaggio esclusivo di Rifondazione e in particolare di Bertinotti. E anche se fosse vero che «non solo non abbiamo alcuna intenzione di rubare intellettuali al Prc ma che ormai sono mesi che filiamo d'amore e d'accordo», come ci tiene subito a puntualizzare la Pellegrini, resta il punto. Ai vertici del Pdci se ne fanno un vanto, ormai, dei rapporti instaurati con le culture e le arti: «Non viviamo di soli temi del lavoro», è il messaggio-chiave.
In concreto, il presidente della Biennale di Venezia Daniele Croff e l'attrice di cinema e di teatro Paola Cortellesi sono due «simpatizzanti» più o meno dichiarati del partito di Diliberto («due compagni» li chiamano), per non dire della ballerina Carla Fracci, dello psichiatra Luigi Cancrini e dell'attore e scrittore Moni Ovadia, che alle iniziative di partito non mancano mai. O di Milva, cantante di formazione brechtiana e streheleriana che - pare - «di Oliviero» è una vera fan, oltre che un'amica personale mentre la figlia, la critica d'arte Martina Lornati, si è persino iscritta al partito. E se dell'impegno pro-Pdci dell'astrofisica Margherita Hack, più volte candidata dal partito, e dell'astronauta Umberto Guidoni, oggi europarlamentare, si sa tutto, meno noto è il fatto che il Pdci, di questi tempi, va forte anche tra i cineasti (alla Festa della Cultura c'erano Ferrara, Scimeca, Gregoretti), storico terreno di consenso di Rifondazione. La Pellegrini mette le mani avanti: «Con Stefania (Braida, responsabile Cultura del Prc e compagna di Citto Maselli, ndr.) lavoriamo in perfetta e totale sinergia». Eppure, al fine di riformare il cinema italiano (e «contro» la proposta di legge avanzata dai due esponenti diessin-diellini Colasio e Franco), il Pdci ha presentato la sua proposta di legge, il Prc un'altra. Ma gli uomini (e le donne, Pellegrini in testa) di Diliberto ne hanno in preparazione anche un'altra sul teatro. E, soprattutto, hanno preso di mira la gestione «privatistica» dei Beni culturali del ministro Rutelli. Contro le cui politiche il Pdci ha organizzato una due giorni di convegno, a Milano, lo scorso febbraio, con il fior fiore degli archivisti, paesaggisti e beni-culturalisti italiani, simpatizzanti o meno che fossero, del partito. Il titolo, allora, fu «Progetto cultura». Vuoi mettere con «Tutto il resto è noia»?

l'Unità 10.7.07
Anniversari. Il bilancio di un «bicentenario» blando e al silenziatore, tra qualche polemica, disattenzione dei mass-media e alcuni buoni libri di storia
Parlare male di Garibaldi? No, meglio parlarne poco. Era troppo anticlericale
di Bruno Gravagnuolo


Ci ha avete fatto caso? Stringi stringi lo scorso 4 luglio, duecentenario della nascita di Giuseppe Garibaldi, è stato povero di celebrazioni. Una esangue cerimonia al Senato, qualche breve servizio ai Tg, pochi articoli di giornale e null’altro. In fondo si potrebbe persino esser grati alla gazzarra della Lega a Palazzo Madama e alle castronerie uscite sulla Padania il giorno stesso a proposito dell’eroe dei due mondi, come pure all’appello antigaribaldino a Napolitano del movimento «cattocentrista» di Lombardo. Perché almeno hanno fornito spunti di polemica.
E lo stesso vale per la stanca «provocazione» di Ernesto Galli Della Loggia sul Risorgimento «sovversivo» dei democratici, «matrice» delle Br. Querimonia logora, che ha preceduto di qualche settimana la ricorrenza garibaldina e che a modo suo (distorto) l’ha nutrita. Più che «parlar male» di Garibaldi, se ne è parlato poco nel circuito mediatico. Perché questo mezzo silenzio? Forse perché l’Italia è stanca dei suoi eroi monumentali o non ci crede più, anche quando sono autentici, visto l’impiego invalsone. Ma stavolta un motivo più forte c’è stato: Garibaldi era un anticlericale senza se e senza ma. E parlarne davvero avrebbe urtato troppe sensibilità, in epoca di neointegralismi, atei devoti, teodem e laicità dimezzata a sinistra. Ecco spiegato l’arcano. Sicché niente film storici, niente speciali, niente paginate, niente dibattitti. Ad eccezione de l’Unità che offre i Garibaldini di Dumas e articoli vari. E di alcuni libri, tre in particolare, eccellenti. Per chi abbia voglia di affrontare il tema.
Ad esempio Il Garibaldi fu ferito di Mario Isnenghi (Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato, Donzelli, pp. 215, euro 14). Una storia critica del mito garibaldino e degli usi che ne sono stati fatti, in primo luogo dal trasformismo italico e dall’interventismo nazionalista. E poi il volume di Eva Cecchinato, Camicie rosse (I garibaldini dall’Unità alla grande guerra, Laterza, pp. 372, euro 20), che documenta il tratto di massa e niente affatto esiguo dell’élite giovanile, popolare e intellettuale, che circondò e accompagnò il generale. Uno strato internazionalista e romantico, con molte donne in prima fila, che crea un immaginario sociale preciso (democratico-radicale) e poi trasmigra a destra nelle generazioni successive, nel mutare delle egemonie politiche (e ci sono note di Gramsci illuminanti su questo). Infine il Garibaldi di Lucy Riall, storica inglese del Risorgimento, che spiega come il condottiero fosse un eccellente «spin doctor» di se stesso, e proprio in ragione di un’acuta percezione da parte sua delle dinamiche politiche interne e internazionali, rispetto a cui il personaggio si «automodula» di volta in volta (sottotitolo L’invenzione di un eroe, Laterza, pp. 605, euro 28).
Che cosa viene fuori dalla lettura comparata dei tre libri? Intanto, che Garibaldi non era affatto un ingenuo. Un eroe «tonto» e generoso. Ma un vero politico d’azione, che capiva i rapporti di forza nella penisola e che accetta l’egemonia moderata del Piemonte, per mettere in moto la situazione. Entrando anche in un doloroso conflitto con Mazzini, eroe intellettuale del «dover essere». Poi viene fuori che il moto risorgimentale non fu tanto minoritario, e aveva una sua effettiva consistenza, specie nei centri urbani. E ancora: Garibaldi fu davvero un uomo creativo e avventuroso. Per nulla illetterato, con una sua formazione foscoliana e alfieriana, capace di maneggiare l’endecasillabo, oltre a saper capitanare navi e a stendere proclami politici. Da ultimo, la cultura politica di Garibaldi. Filantropico-massonica, socialista, anticlericale, o meglio anti-Vaticana. Come molti democratici era infatti convinto che il cattolicesimo temporale fosse un ostacolo all’incivilimento dell’Italia, e che proprio il ruolo del Papato in Italia avesse impedito la formazione di una coscienza civica e nazionale. E tuttavia Garibaldi non era irreligioso, semmai era «deista» e aveva di buon grado al seguito cappellani militari. E il socialismo? Garibaldi lo intravide, militò per la Comune di Parigi e sognò una democrazia repubblicana innestata su leghe, mutue e cooperative. Insomma, fu un eroe di sinistra, che a conoscerlo bene creerebbe ancora imbarazzi. Meglio «glissare». E così è stato.

Liberazione 10.7.07
L'attacco a Rifondazione comunista e ai sindacati è sempre più battente. Parte dalle pensioni. ll fondatore di "Repubblica" si schiera e lo guida. Chiede di cacciare Bertinotti e una legge elettorale anti- Rifondazione. Ieri i leader del Prc hanno incontrato i leader sindacali di Cgil Cisl e Uil
Il partito "no-sinistra" cresce e ha un nuovo leader: Scalfari


Domenica noi abbiamo aperto il nostro giornale denunciando - a voce abbastanza alta - un fronte politico, che si è creato in questi mesi, guidato dalla Confindustria e dalla destra, e che ormai ha arruolato molti esponenti del ceto politico e intellettuale e giornalistico del centrosinistra. Dicevamo che questo partito - che è una specie di "casta" - nell'immediato, si è posto due obiettivi: sconfiggere pesantemente la sinistra, e in particolare il Prc (che è visto come il nucleo centrale, essenziale della sinistra); e punire in modo forte e simbolico la "vecchia" classe operaia (vista come il nucleo centrale, essenziale, del lavoro dipendente). Tutto ciò in nome di un progetto che immagina il futuro della borghesia italiana (considerata la classe generale, cioè quella i cui interessi coincidono con gli interessi del paese) costruito sull'ipotesi di una ulteriore e robusto ridimensionamento dei diritti, del costo e del ruolo politico del mondo del lavoro (a favore del profitto e della rendita). Non ci eravamo affatto sbagliati. E infatti domenica stessa, Repubblica ha pubblicato un lungo articolo del suo fondatore, cioè di Eugenio Scalfari, che si pone alla testa di questo partito, ne rivendica orgogliosamente gli obiettivi, li esalta, indica -in modo semplice e chiaro - i mezzi per cogliere questi obiettivi. Battere la sinistra sulle pensioni, umiliare i sindacati, e poi incoronare il nuovo partito democratico a guida veltroniana, chiedendogli di assumere la leadership di un patto tra imprenditori, finanzieri, grande borghesia e ceti medi, che permetta una emarginazione della destra berlusconiana e un trionfo - scusate se semplifichiamo appena un po' - della famiglia De Benedetti, della famiglia Agnelli e di tutto ciò che si può aggregare attorno a loro. L'articolo, molto netto dal punto di vista del programma politico del nuovo "centro", era invece un po' grossolano sul piano delle informazioni, e conteneva un discreto numero di errori. Sosteneva, per esempio, che nel 2004 i sindacati diedero il via libera alla riforma-Maroni (cosa assolutamente non vera). Nel suo articolo Scalfari chiede al partito democratico una azione a carrarmato contro Rifondazione. Con rimozione di Bertinotti dalla presidenza della Camera e successiva riforma elettorale che permetta l'esclusione dal governo della sinistra. Ieri Scalfari ha ricevuto molte risposte, da quasi tutti gli esponenti dei partiti della sinistra e dai sindacati. Il suo intervento comunque riaccende il clima di scontro nel quale si apre questa settimana che forse sarà decisiva per le pensioni. Ieri ci sono stati una serie di incontri importanti tra i dirigenti di Rifondazione comunista e i dirigenti di Cgil Cisl e Uil. Risulta che su molti argomenti i punti di vista coincidono. Intanto procede la trattativa sulle pensioni minime.

Liberazione 10.7.07
Breve storia della filosofia politica ed editoriale del direttore di Repubblica
Giornale nato fuori dal coro che s'è trasformato in partito moderato
Si scrive «scalfarismo»si legge governo delle élite
di Stefano Bocconetti


E' un po' come uno di quei quiz psicologici che d'estate pubblicano i settimanali a corto di inchieste. Della serie: «Dimmi chi ami e ti dirò chi sei». Nel suo caso, poi, i risultati del minitest non bisogna neanche andarli a cercare nelle ultime pagine, come accade nei periodici. E' tutto così scontato, lineare. Non c'è bisogno di tante interpretazioni. S'è sempre «innamorato» della stessa parte. Di tutto ciò che è elitario, oligarchico. Ha sempre chiesto che fosse una ristretta cerchia ad occuparsi del governo della cosa pubblica. E ha sempre disprezzato tutto ciò che sa di popolare. Di «operaio». Ha sempre scelto la tecnocrazia. In questo un po' figlio dell' azionismo , o meglio di una variante dell'azionismo, che ha tanti altri illustri rappresentanti. Eugenio Scalfari - perché è di lui che si parla, naturalmente - nel suo ultimo editoriale su «Repubblica» ha scritto l'ennesimo capitolo del suo manifesto editorial-politico. Magari in maniera meno brillante di altre occasioni, addirittura raccontando fatti e aneddoti che non sono veri - e sarebbe la prima volta - ma anche domenica ha provato a tratteggiare il ruolo dello scalfarismo. Già, ma che cos'è questo mix di intuizioni giornalistiche, di scelte imprenditoriali e di filosofia politica? Che cos'è davvero lo scalfarismo? Una prima risposta può arrivare per negazione. Lo scalfarismo , insomma, non coincide con la storia di uno dei più famosi giornalisti italiani. Giornalista e scrittore. Più giornalista che scrittore. La sua «ideologia» ha poco a che fare con quell'Eugenio Scalfari che, nel primo dopoguerra, frequenta il partito liberale, e quella cerchia di professionisti che si coagula attorno al Pli. Ha anche poco a che fare con quel ragazzo, o poco più, che entra in contatto col «Mondo» e con «l'Europeo» ma soprattutto con due nomi di spicco dell'intellettualità laica: Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti. C'entra assai poco anche con la sua adesione, nel '55, al partito radicale, o con la successiva scelta di entrare nel Psi (nelle cui liste sarà anche eletto deputato). Forse - ma è tema di dibattito - lo scalfarismo comincia a manifestarsi quando, nel '63, diventa direttore de «l'Espresso». Anche se all'epoca si dedicava quasi esclusivamente ad inchieste su temi che nessuno prima di allora aveva il coraggio di nominare. Impegno giornalistico che ha anche pagato duramente: nel '68, pubblicò assieme a Lino Jannuzzi un'inchiesta sui servizi segreti e su un tentativo di golpe avvenuto nell'estate del '64. E' da allora che nel nostro paese s'è cominciato a parlare di pulsioni autoritarie. Ma all'epoca, c'era una giustizia che sembrava non voler capire: e così, su denuncia di De Lorenzo, uno dei generali coinvolti nel piano eversivo, Scalfari fu condannato. A 14 mesi di reclusione. Questo è prima. Ma se si vogliono date certe, l'unica è andare al '76, quando Scalfari fonda «Repubblica». E' una scommessa, sostenuta dal gruppo l'Espresso e dalla Mondadori, davvero azzardata quella del direttore. Un giornale diverso da tutti gli altri, che rompe la monotonia di cronache politiche raccontate solo dall'angolo di visuale del Palazzo. Una scommessa vinta subito o quasi subito, quando il quotidiano riesce - per un po' - a diventare il primo giornale. Un giornale che riesce addirittura ad incontrare la protesta giovanile, il movimento del '77. Raccontato su «Repubblica» da straordinari cronisti - uno dei quali, il più bravo, si chiamava Carlo Rivolta, non c'è più - come nessun'altra testata riuscì a fare.Poi, ecco lo scalfarismo . La scelta di «sposare» una, e sempre la stessa, fra le tesi che si fronteggiavano nel dibattito democratico. La scelta di innamorarsi sempre di ciò che era ed è più a destra in quella discussione. La scelta di trasformare il suo quotidiano in un partito. In un partito oligarchico che indica di volta in volta chi e come deve governare. E' il 78, l'Italia è scossa da una crisi sociale devastante, di cui il terrorismo ne è un drammatico riflesso. Luciano Lama, segretario Cgil, decide «la svolta dell'Eur». Decide di congelare il conflitto nelle fabbriche per permettere il risanamento dei conti. Prima delle imprese e poi dello Stato. E' la premessa, forse, di quel che accadrà di lì a due anni, alla Fiat. Quando vinceranno le aziende, il sindacato sarà sconfitto e potranno cominciare gli anni '80. Scalfari però non sente ragioni: e mena fendenti per sostenere la legittimità di quella filosofia secondo la quale «il salario deve diventare una variabile dipendente». Si guadagna, insomma, in base a quanto guadagna l'impresa. Poi, nel pieno del decennale buio, lo scalfarismo s'innamora di De Mita. Certo, in questo c'è un'eco del motto maoista secondo il quale «il nemico del mio nemico è mio amico». E visto che Scalfari ha in odio Craxi e la sua corte, «Repubblica» sposa De Mita anche in funzione antisocialista. Ma appunto «anche». In realtà, a Scalfari piace il De Mita che predica - ante literam - il superamento della differenze destra-sinistra. E che è una strada per imporre il governo saggio dei pochi, la vera essenza dello scalfarismo. Naturalmente, la stessa strada la intravede nella battaglia sulla scala mobile a metà anni '80. E infatti Scalfari si schiera a sostegno del taglio voluto da Craxi. Ma in quel caso, il nemico erano i lavoratori, il sindacato. Sindacato che rischia di diventare un ostacolo al governo delle élite illuminate. Un po' come i partiti. Ed eccolo di nuovo Scalfari - all'inizio degli anni 90 - impegnare il suo «giornale-partito» a sostegno del referendum contro le preferenze nelle schede elettorali. Referendum che ha prodotto seri danni alla democrazia, limitando la rappresentanza di chiunque non avesse esposizione mediatica. Ma allora, quel voto diventò il simbolo di chi voleva imporre una logica ipermaggioritaria. Capace di fare a meno dei partiti. E nella stessa logica, forse, rientra anche il sostegno, il dichiarato sostegno offerto da Scalfari ad Occhetto all'epoca dello scioglimento del Pci. Tanto che una leggenda vuole che la decisione della Bolognina sia maturata, nell'ultimo segretario del Pci, dopo un colloquio col direttore di «Repubblica».Il resto è storia recente. La sua feroce, intransigente opposizione al governo Berlusconi. A quello stesso Berlusconi che con la scalata alla Mondadori aveva provato a scippargli il suo gioiello. Vicenda conclusa - anche se ha avuto lunghissimi strascichi - dall'ormai famoso «lodo Ciarrapico» e che ha consentito al gruppo De Benedetti di restare proprietario del giornale. E del partito, rigorosamente schierato nel centro-sinistra. Un'opposizione intransigente al governo di destra. Accusato comunque non per le sue scelte ma soprattutto per la sua «incapacità». Tremonti, Alemanno, Urbani avrebbero dovuto lasciare il posto a chi sapeva governare meglio di loro. Per ultima, la scelta di puntare su Veltroni. Scalfari lo ha «investito» in un editoriale dove - consapevole o no - lo contrappone a quella parte della maggioranza che difende gli operai e i pensionati. Chissà se gli ha fatto davvero un favore. Ma lo scalfarismo è anche questo: molto arbitrio e anche un po' di arroganza. Come in chiunque difenda le élite.

Liberazione 10.7.07
Leggendo il consueto editoriale di Scalfari. Furori e falsità
L'ossessione liberista mangia i principi liberali
di Franco Giordano


Nella sua storica polemica con Luigi Einaudi, Benedetto Croce sostenne la non riducibilità della nozione di liberalismo a quella di liberismo: «Bene la lingua italiana distingue con due affini ma diversi vocaboli "liberalismo" da "liberismo", perché l'uno non è da confondere con l'altro, l'uno pertinente alla sfera morale e l'altro a quella economica», ebbe a scrivere, anzi a pubblicare nel 1948 in una "breve dilucidazione" lasciata inedita per quasi venticinque anni (e rilanciata, appunto, negli anni ruggenti del dopoguerra perché poteva "avere qualche utilità"). Insomma, mentre per Einaudi il liberismo economico era il contenuto "veritiero" della dottrina liberale, per Croce l'idea di libertà doveva sempre prevalere sugli interessi della concorrenza economica. Questa citazione crociana, a noi che crociani non siamo, veniva in mente l'altro giorno, leggendo il consueto editoriale di Eugenio Scalfari sulla Repubblica, dedicato in gran parte alla vicenda delle pensioni. Scalfari passa per un liberale autentico, anzi per un campione del liberalismo nella sua "gloriosa" torsione azionista. Ma da questo articolo appare purtroppo una eredità immeritata: il fondatore del giornale di De Benedetti si manifesta con l'ultima nota domenicale soprattutto un liberista. Uno che sacrifica (quasi) tutti i principi liberali sull'altare delle convenienze economiche e dell'arroganza del "pensiero unico" liberista. Sepellendo così il pensiero liberale.
La tesi di fondo sostenuta da Scalfari è semplice e chiara: il conflitto sociale è una patologia "corporativa", il nemico vero è il movimento sindacale, anch'esso ridotto a una "corporazione" o a una robusta lobby nazionale, la sinistra radicale, e segnatamente il Prc, è un ferrovecchio ideologico, una zavorra da buttare a mare - ai pesci. Tutto questo in nome di un preteso interesse generale, formulato come una specie di Araba fenice, o come un cielo di vaporosa e indistinta astrattezza, al quale urge sacrificare tutto - tutte le soggettività, tutti i soggetti, tutti gli interessi parziali, tutto ciò, insomma, che non si concilia con esso. Il povero Croce, a oltre cinquant'anni dalla morte, deve aver sussultato di brutto: che c'entrano queste idee con un'ispirazione liberale e aperta? Un vero liberale è tutto fuorchè ultimativo, assolutista, totalizzante, com'è Scalfari in questo suo ultimo articolo. Un liberale autentico è convinto che il sale della democrazia sia proprio il conflitto sociale e politico, la competizione degli interessi e delle idee, la legittimità dei soggetti e delle soggettività che danno vita alla dialettica democratica. Invece, un liberista considera l'idea stessa dell'aggregazione di soggettività alternative a quelle delle classi dominanti un "lacciolo", un impiccio, un vincolo insopportabile al libero dispiegarsi della logica del mercato. Come l'ultimo Scalfari, appunto.
Tanto è il furore ideologico (di classe?) che lo muove, che costruisce gran parte del suo ragionamento su un dato falso, quello secondo cui le confederazioni sindacali avrebbero sottoscritto nel 2004 un accordo con il ministro Maroni, scalone compreso: bugia clamorosa, che Epifani, Bonanni e Angeletti hanno prontamente smentito, il giorno dopo. E accusa il Prc di volere la crisi di governo, di accingersi a ripetere il '98, di essere insomma preda di una sindrome estremista: un'altra falsità, il Prc e la sinistra radicale chiedono con grande forza il rispetto di un punto-chiave del programma sulla base del quale l'Unione ha vinto le elezioni - si battono perchè si vada, finalmente, ad un vero risarcimento sociale, avendo fin qui dato ampia prova di lavorare per la tenuta di Prodi, anche accettando compromessi, mediazioni e anche paradigmi di politica economica certo diversi e lontani dai propri. Ma a Scalfari i fatti interessano poco, anzi nulla: gli interessa - come del resto ha fatto sempre - dare addosso al Prc. Come quando arriva ad attaccare frontalmente il Presidente della Camera, intimandogli le dimissioni in quanto critico della politica previdenziale del governo e in quanto, secondo lui, dedito ad un solo obiettivo, la salvaguardia della sinistra antagonista. Ora, a parte il fatto che Fausto Bertinotti sta incarnando il suo ruolo con uno stile di esemplare correttezza istituzionale ( riconosciuto da antipatizzanti e da avversari), da quando in qua esprimere limpidamente un'opinione politica, su una materia di cui sta discutendo tutta l'Italia, sarebbe un reato di "lesa maestà"? Da quando in qua un presidente della Camera deve allinearsi, rigorosamente e pena la cacciata, alle idee del ministro dell'economia o della "maggioranza della maggioranza" di cui fa parte?
Anche qui, compare la stessa visione totalizzante della politica - e delle istituzioni, ridotte a uno spoil system che, in questa forma, non esiste in nessun paese democratico. L'intolleranza nei confronti di chi non sta dentro il perimetro tracciato da "Io", come dice l'ironico Foglio. E dal Partito Democratico di Walter Veltroni: ipse dixit, e da allora per la Repubblica la storia è pressochè finita. Tutti coloro che pensassero di rendere le primarie del 14 ottobre una competizione autentica, scendendo in campo, sono brutalmente bacchettati dalla diffida scalfariana - perfino loro, perfino questi possibili altri candidati alla leadership del Pd, sono ridotti solo a puri intralci, disturbatori del manovratore, sabotatori. Ancora un preoccupante tono autoritativo e autoritario. Ancora un brivido postumo per Benedetto Croce.
Infine, la falsità politico-economica più macroscopica: l'innalzamento dell'età pensionabile motivato come necessità dell'economia, come compatibilità economica dalla quale sarebbe impensabile o impossibile derogare. Non occorre qui citare le cifre che i sindacati, molti economisti e molti veri esperti hanno ampiamente citato sui conti dell'Inps, per ribadire che, in tutta evidenza, a Scalfari sta a cuore ben altro che non l'ottemperanza agli equilibri di bilancio: l'umiliazione dei sindacati e del mondo del lavoro che essi rappresentano, per un verso, l'esaltazione di un astratto interesse generale che, chissà perché, viene puntualmente invocato solo quando si tratta di chiedere sacrifici agli operai, per l'altro verso. Quando mai il leader storico della Repubblica ha chiesto qualcosa di simile, qualche rinuncia, qualche passo indietro agli imprenditori? Quando mai si è preoccupato davvero della condizione di precarietà a cui sono costretti i giovani, avanzando proposte come un salario minimo o almeno un piano straordinario per l'occupazione? Quando mai si è permesso di proporre il foglio di via per presidenti delle camere (come Luciano Violante) che rimanevano giustamente al loro posto quando cambiavano maggioranza, governo e premier? Vedete che cosa succede quando il liberismo divora quegli ideali liberali che, pure, il giovane Scalfari deve pure aver nutrito. Quando ancora pensava, chissà, che senza una sinistra degna di questo nome, senza organizzazioni sindacali forti, senza diritti e garanzie per chi lavora, la democrazia resta un'Incompiuta.

Liberazione 10.7.07
Bertinotti: «Scalfari totalitario
La sinistra ha diritto di parola» Il presidente della Camera replica all'attacco di domenica scorsa su Repubblica
di Angela Mauro


Rifondazione come «palla al piede dei sindacati», che si sono a loro volta macchiati di «collateralismo inquinante» all'epoca del governo Berlusconi nella trattativa sulla riforma Maroni. E ancora Rifondazione «demagogica» sull'abolizione dello "scalone" e sulla richiesta di escludere gli operai dall'innalzamento dell'età pensionabile. Dalle pagine della "sua" Repubblica , con l'editoriale di domenica scorsa, Eugenio Scalfari punta dritto al cuore della sinistra e non fa sconti, nemmeno nei confronti di una carica istituzionale come quella della presidenza della Camera. Il problema di Fausto Bertinotti, scrive il fondatore di Repubblica , è che «non scompaia la sinistra antagonista», in questo «somiglia a Storace che non vuole la scomparsa della destra», e allora, chiede Scalfari, «se il suo partito, da lei incoraggiato, dovesse mettere il governo in crisi, lei lascerebbe contestualmente il suo incarico istituzionale? Sarebbe il minimo che lei possa fare...».
Se sono immediate le repliche, con tanto di smentita, da parte del leader sindacali (Epifani e Angeletti) e persino dello stesso Maroni, non è meno esplicita la presa di posizione del Prc (vedi l'intervento di Giordano su Liberazione oggi) e del presidente della Camera, che riscontra del «nervosismo di troppo» nel confronto in corso sulle pensioni: «un eccesso di fatica a confrontarsi con posizioni totalmente legittime, interne ad un programma concordato». Un modo per dire che non siamo nel '98, che c'è un programma di coalizione che tutti sono tenuti a rispettare e che la sinistra ha il diritto di esprimersi e di esistere, al di là delle evidenti tentazioni di Scalfari e dei riformisti dell'Unione di volerla fuori dalle attuali e future alleanze di governo. Bertinotti comincia con una battuta: «Strano... io sono diventato un po' liberale, ma Scalfari, che liberale era, adesso è totalitario» perchè «uno che pensa che siano valide solo le sue opinioni e che l'interesse nazionale sia determinato solo dal suo pensiero può benissimo definirsi totalitario». Anche Bertinotti non fa sconti: «Siamo di fronte ad un dibattito politico dove tutti hanno diritto di esprimersi, tanto più su una materia come quella delle pensioni. E' giusto ripartire da una rivalutazione del lavoro manuale e riconsegnare al lavoro manuale un ruolo sociale. Quella delle pensioni è una buona materia per questa rivalutazione: Scalfari deve sapersi confrontare con queste argomentazioni, invece che dire questa cosa va bene perchè l'ha detta Almunia o perchè l'ha detta lui stesso». E insiste sulla necessità di escludere operai e turnisti da ogni discorso sull'innalzamento dell'età pensionabile:«Leggi uguali per soggetti diseguali producono grandi diseguaglianze». E sul governo: «Voglio che arrivi a fine legislatura, perchè dal punto di vista delle istituzioni democratiche sarebbe bene che i governi possano durare per l'intera legislatura, ma voglio anche che risponda a quei lavoratori che l'hanno votato».
Scalfari mira in particolare a Rifondazione, protagonista dello scontro in corso sulle pensioni, questione sulla quale - è la tesi del Prc - si gioca il futuro del governo. Ma anche il resto della sinistra si sente chiamata in causa. «L'intenzione vera è di spostare l'asse del governo verso il centro, offrendo una rappresentazione della sinistra come radicale, estremista e incompatibile con qualsiasi alleanza», si infuria Titti Di Salvo, componente della segreteria nazionale della Cgil all'epoca della riforma Maroni e ora capogruppo di Sd alla Camera che spinge per «fare in fretta e bene» nel percorso unitario a sinistra, pur non condividendo i «toni forti» del Prc nelle sue minacce di crisi di governo sulle pensioni. «Si rischia di delegittimare il sindacato», spiega la deputata. Paolo Cento dei Verdi rovescia il ragionamento di Scalfari nel passaggio in cui accusa il Prc di preparare un nuovo '98. «Siamo in un contesto diverso. Oggi la rottura la vogliono i riformisti che non rispettano il programma dell'Unione, che prevede l'abolizione dello "scalone"».

Liberazione 10.7.07
Dopo l'editoriale di Repubblica, parla il segretario confederale Cgil
«Macché corporativi. Vogliamo risposte anche su giovani e anziani»
Nerozzi: «Scalfari dice falsità. C'è chi vuole far cadere Prodi»
di Roberto Farneti


«Scalfari dice delle palesi falsità». Paolo Nerozzi, segretario confederale Cgil, respinge con forza le accuse mosse ai sindacati (e al presidente della Camera Fausto Bertinotti) dal fondatore del quotidiano la Repubblica con l'editoriale di domenica scorsa. «Noi corporativi? Si parla tanto dello scalone, giustamente, ma ricordo - ribatte Nerozzi - che stiamo facendo una trattativa unica. Vogliamo risposte precise anche su pensioni basse e precarietà».

Secondo Scalfari, Cgil Cisl e Uil, chiedendo l'abolizione dello scalone, non starebbero rispettando l'accordo siglato con l'allora ministro Maroni.
Cosa falsa. Contro quella riforma delle pensioni abbiamo fatto molti scioperi, qualcuno da soli, e anche molto duri.

Repubblica però insiste. Ricorda che, in realtà, l'unico sciopero esclusivamente sulle pensioni lo avete fatto nel marzo 2004, dopo l'approvazione della riforma.
Non è vero, ne facemmo uno generale e altri articolati. E' vero che molti scioperi ebbero come bersaglio anche le leggi finanziarie, ma perché dentro le finanziarie c'erano anche le pensioni. Quindi Repubblica continua a mentire sapendo di mentire. Altrettanto falsa è l'affermazione di Scalfari sul presunto accordo tra noi e Maroni per il rinvio della revisione dei coefficienti. Lo stesso Maroni ha smentito, la Cisl e la Uil pure. Perché un giornale si spinge a dire cose talmente false? Aggiungo: perché improvvisamente si scoprono i giovani? Anche qui, un tema viene evocato ma non per risolverlo, bensì per aumentare la confusione sulla trattativa. La mia opinione è che ci sono forze, anche all'interno della maggioranza, che non vogliono fare l'accordo con il sindacato perché non vogliono modificare lo scalone di Maroni. Penso che ci sia qualcuno che lavora per far cadere questo governo e poi addossare la responsabilità ai sindacati "corporativi" o a qualche forza di sinistra.
Prodi ha però già detto chiaramente che lo scalone va superato e che presto farà una sua proposta.
Prodi deve avere il coraggio di fare un accordo con le parti sociali e su questo costringere le forze della maggioranza a esprimersi, anche tramite un voto di fiducia.

Non a caso si parla di inserire l'eventuale intesa sulle pensioni dentro la Finanziaria.
A me questo interessa meno, l'importante è che si faccia l'accordo e si trovi poi il modo per farlo passare, perché lo scopo del sindacato è non avere più lo scalone.

Avete chiesto al governo e a Prodi di presentare una proposta condivisa, ma i sindacati non sembrano compatti. C'è la Cisl che vede con favore il mix di quote e scalini, ipotesi che Uil e Cgil hanno detto di non condividere...
Se c'è l'accordo il sindacato sarà compatto, le proposte che abbiamo finora presentato sono unitarie.

Qual è la linea del Piave della Cgil?
Innanzitutto io penso che i lavori non siano uguali e che ci sono categorie di lavoratori per i quali 57 anni sono anche troppi. Altri possono essere accompagnati da forme di incentivi.

I famosi "lavori usuranti", difficili però da definire...
La nostra proposta è di escludere chi lavora su tre turni, chi lavora alla catena di montaggio, chi fa i lavori cosiddetti "vincolati", cioè ripetitivi. Comunque le strade per arrivare all'accordo sono tante. La base di partenza, che dò per scontata, è che non si parli di alzare l'età pensionabile delle donne e che si possa andare in pensione con 40 anni di contributi. Altrimenti non discutiamo neanche.

Tornando ai giovani. Domani (oggi ndr ) il governo incontrerà una delelegazione del Forum nazionale dei Giovani. Nel frattempo Capezzone sogna una marcia dei 40mila «per dare un futuro ai nostri ragazzi». Il significato propagandistico di queste iniziative è evidente: brandire l'arma del conflitto generazionale per sostenere la necessità dell'innalzamento dell'età pensionabile. Più o meno lo stesso schema utilizzato da Berlusconi quando, per manomettere l'articolo 18, spiegava che se i giovani fanno fatica a trovare lavoro la colpa è delle eccessive tutele sindacali conquistate dai loro padri. In questo caso, l'argomento è che se non si interviene, tra qualche anno l'Inps non avrà più i soldi per pagare le pensioni ai giovani. Cosa rispondi?
La mia prima risposta è una domanda: che cos'è il Forum dei Giovani, chi rappresenta? Mi risulta che tutti i sindacati dei precari, a cominciare dal Nidil, non siano stati invitati. Mi risulta che il sindacato più votato dagli studenti alle recenti elezioni universitari non sia stato invitato. In ogni caso, mi auguro che il governo sottoponga al Forum dei giovani il superamento dei contratti a tempo determinato, norme di sicurezza contro il precariato, misure di sostegno per l'affitto, borse di studio per la formazione e la ricerca. Se non proporrà niente di tutto questo, sarà l'ennesima presa in giro. Quanto alla sostenibilità del sistema previdenziale, dai dati dell'Inps si vede che i soldi ci sono, soprattutto per i lavoratori dipendenti. E ciò grazie anche al contributo dei tanti lavoratori immigrati. L'allarme sui conti e sul futuro dei giovani è perciò strumentale.

domenica 8 luglio 2007

l'Unità 8.7.07
Paolo Ferrero: «Non voglio la crisi, ma serve un colpo d’ala
E attenzione ai ceti popolari»


«IL GOVERNO ha ancora la possibilità di riprendersi, ma serve una sterzata, che riguarda soprattutto il rapporto con i ceti più deboli. Lo dico anche al Pd: la Dc era assai più lungimirante, sapeva come contendere al Pci l’egemonia delle classi popolari. Oggi invece questo sembra diventato solo un problema dei comunisti o della destra populista». Paolo Ferrero, ministro della Solidarietà sociale, non crede che il governo sia al capolinea. E dice: «Arrivare alla crisi sarebbe una sconfitta, siamo perfettamente consapevoli che, anche sulle pensioni, non ci sarebbe nessuna ipotesi migliore. Nessuno di noi punta in quella direzione, non ci sono alternative auspicabili. E tuttavia non si può accettare che le pressioni centriste abbiano la meglio sul programma. Sarebbe il trasformismo: si prendono i voti con una linea politica e poi se ne fa un’altra. Su questo daremo battaglia fino in fondo».
Una sterzata, diceva. Di scatto, o rilancio, parlate quasi tutti nella maggioranza. Ma poi sulle direzioni di marcia...
«Gli strati popolari, sia quelli che hanno votato per noi sia quelli che hanno scelto la destra, fanno fatica a vedere gli effetti dell’azione di governo sulla vita quotidiana. Eppure potenzialmente potremmo attrarli, a differenza degli imprenditori: con loro non c’è niente da fare, lì c’è una scelta ideologica. Non voglio dire che la politica del governo sia in continuità con Berlusconi: e tuttavia la differenza non è sufficiente».
Veniamo alle pensioni. Cosa sta succedendo tra voi e i riformisti?
«La questione viene descritta come un dare agli anziani per togliere ai giovani. Ma tra i lavoratori questa percezione non c’è: il tema-pensioni viene visto come una questione di rapporto tra le classi sociali, non tra le generazioni. Del resto prima gli anziani vanno in pensione, prima possono entrare i giovani. Oggi in fabbrica si sta peggio di 20 anni fa: si lavora di più per lo stesso stipendio, lo sfruttamento è più pesante. Dunque l’idea che la ”pena” possa finire è molto forte. C’è una miopia in larga parte dell’Unione a percepirlo: si pensa che sia un particulare corporativo che il Prc cavalca per ragioni di bottega».
Ha fiducia nella mediazione che sta cercando il presidente Prodi?
«Lo discuteremo nei prossimi giorni. È un bene che Prodi abbia preso in mano al questione, vista la rilevanza della partita. Per noi l’accordo deve essere il più vicino possibile al programma, cioè i 57 anni, con il maggiore utilizzo possibile degli incentivi. Di certo la mediazione non potrà essere spalmare lo scalone di Maroni in tre anni invece di uno».
L’idea che l’età si possa alzare gradualmente l’età pensionabile, tutelando i lavori usuranti, è una follia? L’allora ministro del Lavoro Salvi aveva stilato un elenco dei lavori usuranti...
«Quella lista prevede 2mila lavoratori l’anno. Si parla di categoria come il minatore, il palombaro: l’operaio di linea non rientra. È ridicolo. Un conto è parlare di aggregati ampi, come operai e turnisti. Altrimenti diventa una lotteria».
Dunque secondo lei il limite dei 57 anni è immodificabile?
«La gran parte delle persone su cui la riforma avrà certamente effetto è andata a lavorare prima dei 20 anni, aumentargli l’età significherebbe obbligarli a fare 40 anni di lavoro. Andare in pensione a 60-62 anni sarà normale per chi entra nel mercato del lavoro dopo i 20 anni».
Dunque per quale generazione alzare l’età?
Già oggi l’età media in cui si va in pensione è sopra i 60 anni. Dunque lavoriamo sugli incentivi, per i prossimi anni sarà sufficiente. Non è corretto fare i conti partendo dall’idea che tutti andrebbero in pensione un minuto dopo averne il diritto. Le persone lo fanno se c’è l’idea del Far West, se si pensa che dopo due anni la legge cambierà. In una condizione chiara si ragiona diversamente. Dopo l’approvazione della Dini, ad esempio, il 60% delle persone non è andata via subito».
Evidentemente solo con gli incentivi i conti non tornano...
«Il problema è che si parte dai risparmi dello scalone e da lì si cerca una soluzione che produca gli stessi risparmi. Bisogna cambiare il punto di partenza. E chiedersi: cosa fare perché i conti dell’Inps restino in equilibrio? Se sommiamo quello che l’Inps incassa ogni anno di contributi alle tasse versate sulle pensioni percepite, e sottraiamo le pensioni erogate, lo Stato ha un guadagno netto di 5 miliardi. La ragioneria dello Stato parte dall’ipotesi Maroni: ma il conteggio non può essere questo. Perché nessuno parla di equilibrio dei conti dell’Inps?».
a. c.

l'Unità 8.7.07
Occhetto e Cossutta, il nuovo abbraccio
«Ci siamo combattuti, ora siamo insieme»
Ma la costituente di sinistra non decolla


LA COSA ROSSA Un programma comune? Una costituente? Un soggetto unico? La sinistra comincerà con una federazione, poi si vedrà. Le idee a sinistra del Pd sono molte e non sempre concordi, almeno all’Assemblea congressuale dell’Associazione per il rinnovamento della sinistra di Aldo Tortorella. A spingersi più avanti di tutti Armando Cossutta e Achille Occhetto che dialogano dal palco e si abbracciano al termine dell’intervento dell’ex presidente di Rifondazione. «Siamo compagni che hanno combattuto uno contro l’altro - dice l'ex segretario del Pds - ora deponiamo le armi perché anche la capacità di uscire dai rancori del passato può essere da esempio alle nuove generazioni». Immediato il sì di Cossutta: «sono d’accordo con Occhetto, ci siamo tolti la pelle ma ora siamo qui a dire le stesse cose». Da entrambi arriva la proposta di fare nel più breve tempo possibile una «grande costituente» della sinistra. Ma i diversi parlamentari di Pdci, Sd e Prc in sala sembrano molto più cauti. Due i problemi principali: le divisioni e le scissioni non si eliminano dall’oggi al domani e all’interno dei partiti di riferimento è difficile far passare l’idea del soggetto unitario. «Sono convinto - spiega ad esempio il sottosegretario di Rifondazione Alfonso Gianni - che dobbiamo porci l’obiettivo di un soggetto unitario sul piano politico e plurale per culture ma questa non è la posizione prevalente nel Prc». Manuela Palermi replica a Cossutta: «Se non arriviamo presto all’unità della sinistra siamo fottuti ma fare appelli o forzature non è utile: la base vuole il miracolo ma ci sono tanti anni di divisioni, di scissioni e le cicatrici le abbiamo ancora». Gloria Buffo, di Sd, propone che «i padri della sinistra prendano una loro iniziativa e propongano un’agenda». Dalla platea un sì unanime a una fondazione della sinistra. «Ma - osserva uno scettico - una fondazione non si nega a nessuno...»

Repubblica 8.7.07
Il leader di Rifondazione, Giordano, apre sulle pensioni
"Uno scalino e incentivi ecco la proposta Prc"
di Luca Iezzi


Spero che prevalga la ragionevolezza, ma la proposta di Damiano non va. Servono scalini certi
Ma per i lavori usuranti e 40 anni di contributi niente riforma: rimangano i 57 anni

ROMA - Rifondazione scende dallo scalone. Il segretario Franco Giordano chiarisce: «Noi siamo difensori del "programma" perché è su quello che abbiamo ricevuto il mandato dagli elettori e lì si parla di abolizione. Però vogliamo anche trovare una soluzione, chiamerò Prodi e gli illustrerò la nostra proposta: alziamo l´età pensionabile a 58 anni e poi prevediamo un meccanismo d´incentivi per rimanere al lavoro. Con due eccezioni: i lavori usuranti e chi ha già versato 40 anni di contributi, per loro devono rimanere i 57 anni».
La soluzione si scontra con le valutazioni della Ragioneria, non è troppo costosa per le casse dello Stato?
«Il tentativo è di far passare una scelta politica per una questione tecnica: non c´è nessuna emergenza economica. I lavoratori si sono pagati l´abolizione dello scalone con l´aumento dei contributi dello 0,3%. Il famoso "sbilancio" da 65 miliardi di euro nei prossimi 30 anni sarebbe recuperato negli anni successivi, solo che guarda caso si ferma l´analisi dalla parte catastrofica della curva».
Ma se la divergenza è politica, il rischio non è ancora maggiore per la tenuta del governo e della maggioranza?
«Se dobbiamo ragionare in deroga al programma allora bisogna rivedersi tutti. Non è il governo che deve decidere visto che non siamo "ospiti" nella maggioranza. Se non dovessimo trovare l´intesa, allora affidiamoci al grande popolo dell´Unione con una consultazione popolare, ma mi faccia dire che trovo alcuni cambi di posizione incredibili».
Tipo?
«Paradossale che si schierino contro personaggi come Tiziano Treu, che ha lavorato in prima persona al programma e Lamberto Dini che con l´abolizione della Maroni vedrebbe ripristinata la sua riforma».
Tra le "sorprese" ci mette anche Fassino quando dice che andare in pensione a 60 anni non è uno scandalo?
«No, Piero è stato onesto in quell´intervista, ma gli rispondo che lo so anche io che già ora il 50% degli italiani a 60 anni decidono di rimanere al lavoro e che l´età media di ritiro è di 60,4. Ragionando sulle medie non si racconta del cambio che c´è stato nell´organizzazione del lavoro: della dilatazione degli orari, dell´aumento delle responsabilità».
Conferma la visione del maggiore usura a cui vanno incontro gli operai, sottolineata da Bertinotti e criticata ancora da Fassino?
«Quello rimasto indietro di trent´anni sulla distinzione operai-impiegati mi sembra proprio Fassino. È chiaro che anche e soprattutto nelle fabbriche il lavoro è più pesante, ma la platea di lavori usuranti nell´organizzazione postfordista è ampia, basta pensare alle turnazioni nell´edilizia o dei lavoratori dell´agricoltura, o andarsi a guardare la lista delle malattie professionali che si "arricchisce"».
Rimane l'accusa di difendere i pensionati a scapito delle giovani generazioni. Sbagliata anche questa?
«Noi siamo gli unici che combattono da sempre contro la precarietà. Vogliamo fare qualcosa per i giovani? Aboliamo la legge 30 che ne è il monumento, inseriamo il salario minimo d´ingresso al lavoro. Riparliamo delle pensioni, ma anche di tutta la politica redistributiva del governo».

Repubblica 8.7.07
La clinica che inventò l'analisi
di Umberto Galimberti


Nel 1821 Esprit Blanche aprì a Parigi una casa di cura per malattie mentali. La frequentarono Alexandre Dumas, Jules Verne, Eugène Delacroix; ci si ricoverarono Gerard de Nerval e Guy de Maupassant. Un avamposto delle tesi freudiane e un laboratorio sulla "luce nera", ovvero l´intreccio delle "sorelle sfortunate: arte e follia"

Dell´anima s´era detto tutto: che era buona o cattiva, mortale o immortale, che poteva salvarsi o dannarsi, conoscere la verità o cadere nell´errore. Elevata a dimora di Dio, la si trovava nei discorsi degli amanti, a garanzia che il desiderio non era solo desiderio di corpi. Il suo compito era nobilitare tutto ciò che nell´uomo "senz´anima" sarebbe apparso poco nobile. Fu nel Settecento che si prese a pensare una cosa impensata: che l´anima potesse ammalarsi e richiedere medici dell´anima. Nacque la psichiatria e con essa la medicalizzazione (iatria) dell´anima. L´ipotesi psichiatrica tolse all´anima un po´ della sua aureola e soprattutto ridusse la sua distanza dal corpo. Se l´anima poteva ammalarsi, dov´era più quella differenza tra anima e corpo che dall´antichità al Settecento e oltre aveva prodotto tante visioni gratificanti e compensatorie del destino umano?
Un secolo dopo nacquero la psicologia, studio scientifico dell´anima consegnato alle ipotesi e alle verifiche di laboratorio, e subito dopo la psicoanalisi per "sciogliere (in greco: analyo) con la parola i nodi dell´anima. Tra l´anima e la parola ci fu sempre una profonda parentela. Fu infatti il linguaggio (e non l´amore) ad affascinare l´anima, che da allora si produsse in tutte le parole che, dalle più semplici alle più complesse, compongono quel concerto dell´anima che si chiama arte, poesia, narrazione, letteratura, in una parola cultura.
E uomini ci cultura - come Gerard de Nerval e Guy de Maupassant per farsi curare, Alfred de Vigny, Hector Berlioz, Eugène Delacroix, Alexandre Dumas come visitatori e saltuari frequentatori, Jules Verne e Ernest Renan come padri angosciati per la salute mentale dei loro figli - ritroviamo ne La Maison du docteur Blanche. Una casa di cura privata per malattie mentali aperta a Parigi da Esprit Blanche (1796-1852) e diretta, dopo la sua morte dal figlio Emile (1920-1893), i quali, ai terribili metodi di contenzione in uso all´epoca, sostituirono l´ascolto dei pazienti e quella cura con la parola che, nel secolo successivo, diverranno le forme terapeutiche adottate dalla psicoanalisi e dalla psichiatria fenomenologica.
Ma La casa del dottor Blanche, non era solo un luogo di cura, era anche un luogo di osservazione per studiare da un lato i rapporti tra ragione e follia e dall´altro i legami segreti che legano la follia alla creatività. A promuovere questo tipo di ricerca era la persuasione che la follia è una condizione umana presente in noi come lo è la ragione. E una società, che per dirsi civile dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, in realtà incarica una scienza, la psichiatria, per tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Come diceva Franco Basaglia: «Il manicomio ha qui la sua ragion d´essere che è poi quella di far diventare razionale l´irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in manicomio smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato».
Non era questo l´intento di Philippe Pinel (1745-1826) che nel 1793 inaugurò a Parigi il primo manicomio, liberando i folli dalle prigioni, in base al principio che il folle non può essere equiparato al delinquente. Con questo atto di nascita la psichiatria si presenta come scienza della liberazione dell´uomo. Ma fu un attimo, perché il folle, liberato dalle prigioni, fu subito rinchiuso in un´altra prigione che si chiamerà manicomio. Da quel giorno incomincerà il calvario del folle e la fortuna della psichiatria. Se infatti passiamo in rassegna la storia della psichiatria vediamo emergere i nomi di grandi psichiatri, mentre dei folli esistono solo etichette: isteria, astenia, mania, depressione, schizofrenia.
Ma la depressione, la mania, la schizofrenia sono davvero "malattie" come l´ulcera, l´epatite virale, il cancro? O il modo d´essere schizofrenico è così diverso da individuo a individuo e così dipendente dalla storia personale di ciascuno da non consentire di rubricare storie e sintomi così diversi sotto un´unica denominazione? A partire da queste considerazioni, Esprit ed Emile Blanche, che possiamo considerare discepoli ideali di Pinel, si avvicinano alla sofferenza psichica non come a una malattia, ma come alla storia potenziale di chiunque che, da un giorno all´altro, può trovarsi in una deriva di pensieri, sensazioni e sentimenti, i quali, sconnessi, affogano in quella luce nera e così poco rassicurante che, con un nome che oscilla tra il poetico, il geniale e il patologico, siamo soliti chiamare "follia" che, come vuole la bella immagine di Clemens Brentano, è «la sorella sfortunata della poesia».
C´è infatti una creatività sempre incistata nella follia, c´è un bisogno di esprimere mondi altri da quello che abitualmente abitiamo, c´è un desiderio di espandere orizzonti fino alla vertigine del senza-confine, c´è la perla della conchiglia, come vuole l´immagine di Jaspers là dove scrive che: «Lo spirito creativo dell´artista, pur condizionato dall´evolversi di una malattia, è al di là dell´opposizione tra normale e anormale e può essere metaforicamente rappresentato come la perla che nasce dalla malattia della conchiglia. Come non si pensa alla malattia della conchiglia ammirandone la perla, così di fronte alla forza vitale dell´opera non pensiamo alla schizofrenia che forse era la condizione della sua nascita».
Conosciamo la follia in due accezioni: come il contrario della ragione e come ciò che precede la stessa distinzione tra ragione follia. Nella prima accezione la follia ci è nota: essa nasce dalle procedure d´esclusione che scaturiscono da quel sistema di regole in cui la ragione consiste. Dove c´è regola c´è deroga, e la storia della follia, raccontata dalla psichiatria, è la storia di queste deroghe. Ma c´è una follia che non è deroga, per la semplice ragione che viene prima delle regole e delle deroghe. Di essa non c´è sapere, perché ogni sapere appartiene all´ordine della ragione, che può mettere in scena il suo discorso tranquillo solo quando la violenza è stata cacciata dalla scena, quando la parola è data alla soluzione del conflitto, non alla sua esplosione, alla sua minaccia.
A conoscere questa follia non è la psichiatria ma la creazione artistica che, di fronte al cosmo della ragione, il solo che gli uomini possono abitare, sa da quale fondo esso si è liberato, e perciò non chiude l´abisso del caos, non ignora la terribile apertura verso la fonte opaca e buia che chiama in causa il fondamento stesso della razionalità, perché sa che è da quel mondo che vengono le parole che poi la ragione ordina in maniera non oracolare e non enigmatica. Sono parole dettate da forze terribili perché, come nell´Empedocle di Hölderlin, insorgenti con la potenza incontenibile del vulcano che scaraventa il suo fuoco verso il cielo, affinché non si dimentichi che l´ordine della terra ha la durata di un giorno. Un giorno lucido, che tenta di far dimenticare quella luce nera e così poco naturale, da cui in ogni istante ci difendiamo per non precipitare nelle tenebre dell´insensatezza.
Eppure c´è chi si fa testimone di questa insensatezza per portarla alle sue espressioni più alte. Costui sacrifica la sua mente e mette la sua parola al servizio del non-senso. Precipizio di tutti gli ordini logici, massima vertigine, congedo del buon senso e delle sue ordinate parole. Per questo, scrive Jaspers nel sue considerazioni psicopatologiche sulla follia di Hölderlin: «Nel caso dei poeti la questione della follia si pone altrimenti: ora il pericolo minaccia lo stesso poeta, ne può essere schiacciato, mentre il suo compito è proprio quello di trasmettere agli uomini, con la sua opera, ciò che di mortale vi è nel divino, già da lui assimilato e reso inoffensivo».
Due ancelle giungono soccorrevoli intorno all´abisso che si è appena spalancato: la psichiatria con il suo catalogo di nomi, a proposito dei quali vale sempre il monito di Kant: «C´è un genere di medici, i medici della mente, che ogni volta che trovano un nome, pensano di aver conosciuto una malattia», e la creazione artistica che non dispone di nomi perché, abitando da sempre l´abisso, ne conosce l´insondabilità. Qui la pato-logia raggiunge la sua essenza, che non è da cercare nella malattia, ma in quel patire (pathos) che si fa parola (loghia).
Se non accediamo a questa parola, che è "straniera" perché è "estranea" alla ragione, non sapremo più nulla di Dio e degli dèi e resteremo indecisi nei loro confronti, non sapremo morire perché più non intenderemo la nostra condizione di "mortali", non conosceremo il dolore se non nella forma dell´impedimento e della disperazione, non sapremo parlare se non in modo sempre più tecnico e impersonale, per cui finiremo con l´abitare il "chiuso" di un mondo popolato da uomini che conoscono un solo linguaggio, con cui danno titoli ai loro discorsi e regole alle loro azioni, le quali, oramai sorde al richiamo dell´"Aperto", come vuole l´espressione di Rilke, presiedono solo il recinto chiuso della sicurezza.
Se, come Heidegger ci ricorda, la ragione è l´ambito rac-chiuso nella previsione del pensiero che calcola, allora la follia è la condizione dove è possibile arrischiare nell´Aperto, dis-chiuso del pensiero che dispone le cose in relazioni che oltrepassano il recinto delimitato del calcolo e chiamano in gioco i mortali e i divini, il cielo e la terra? Di questo sono capaci quei folli che già Platone segnalava "abitati dal dio". E allora qui si scorge il nesso tra follia e creazione artistica, naturalmente con il sacrificio dell´artista, il quale, con la sua catastrofe biografica, segnala la condizione che è la vita come assenza di protezione, da cui noi ci difendiamo non oltrepassando il recinto chiuso della nostra ragione, che abbiamo edificato come rimedio all´angoscia.
Qui la psichiatria si ritira rossa di vergogna, mentre accanto alla follia resta l´arte come espressione sintomatologica della condizione umana. "Sin-tomo" è parola greca che vuol dire "co-incidenza". Quello che forse abbiamo ancora il timore di capire è perché, nelle loro espressioni più alte, arte e follia coincidono, perché accadono insieme.

Repubblica 8.7.07
I segreti del dottor Blanche
di Ambra Somaschini


«La vostra casa è un palazzo incantato». Gèrard de Nerval descrive così la casa di cura per malati di mente fondata da Esprit Blanche nel 1821 a Passy, un luogo-mito per la Parigi intellettuale dell´Ottocento. Laure Murat racconta questo posto speciale e i suoi casi di follia celebre ne La casa del dottor Blanche, storia di un luogo di cura e dei suoi ospiti, da Nerval a Maupassant (Il Melangolo, 441 pagine, 25 euro). «Ho avviato una ricerca - spiega l´autrice - e ho trovato i registri dei pazienti in una clinica vicino Parigi. La clinica aveva riscattato gli archivi di Blanche che descrivevano i casi di Maupassant, Van Gogh, Gounod. In quei testi c´era una miniera».
Come le è venuto in mente un libro del genere? Folli celebri ospitati in una clinica «alternativa» che, osserva Mauro Mancia nell´introduzione, «anticipò la psicoanalisi».
«Avevo i documenti. È stato un amico a suggerirmi: "Ma perché non butti giù qualcosa su questa casa di cura di cui non si sa nulla?"».
Gèrard de Nerval ha annotato nei suoi taccuini: «Ho paura di essere in una clinica di savi e che i pazzi siano fuori». Era così la villa del dottor Blanche?
«Si avvicinava più a una pensione famigliare che a un ricovero psichiatrico, il metodo terapeutico era basato sulla parola e sulla comprensione, un «metodo morale» come lo chiamava Esprit Blanche. Era stato proprio Blanche a incoraggiare Nerval a scrivere i suoi sogni prefigurando così il metodo chiave della psicoanalisi».
Blanche studiava il rapporto tra arte e follia?
«Per lui l´arte era diventata un mezzo terapeutico per curare la follia. Maupassant, ad esempio, era interessato al potenziale poetico dell´isteria ma nello stesso tempo temeva il potere distruttivo della follia, l´annullamento del pensiero».
Che cosa l´ha appassionata di più durante la sua ricerca?
«Le mie scoperte. Emile Blanche, il figlio di Esprit, diceva che i dossier medici non esistevano più, che erano stati bruciati su richiesta di suo padre. Non ci credevo, una legge imponeva a tutte le case di cura di conservare i registri con date, ricoveri, dimissioni, diagnosi. Alla fine li ho trovati: i discendenti del dottor Blanche avevano donato la corrispondenza dei loro avi all´Institut de France, centinaia di lettere, Dumas, Verne, Monet, Renoir, Degas».
Un caso unico in Europa all´inizio dell´Ottocento?
«Ci furono altri esperimenti del genere in Inghilterra. Ma soltanto il dottor Blanche riuscì ad accogliere i personaggi dell´epoca. Le sue rette però erano molto care e Charles Baudelaire non fu ricoverato proprio per questo motivo. La madre si rifiutò di sborsare tutti quei soldi per Passy».

Corriere della Sera 8.7.07
DIECI ANNI FA / Il «verbale» del summit. L'attuale ministro degli Esteri: il governo ha sbagliato nel rapporto con Rifondazione, mettendo in difficoltà noi
Quel vertice a Botteghe Oscure e la crisi «gemella» sulle 35 ore
D'Alema, Napolitano e Veltroni alle prese con lo strappo del Prc
di Francesco Verderami


ROMA — 1997-2007. Dieci anni dopo si rinnova lo scontro tra Romano Prodi e Rifondazione comunista. Allora erano le 35 ore, oggi lo scalone: la dinamica politica però è identica. Allora il premier riuscì a trovare un compromesso con Fausto Bertinotti, all'epoca segretario del Prc, ma un anno dopo capitolò.
Nella fase più critica della vertenza, si tenne un vertice della Quercia, allargato alla delegazione dei ministri. La riunione avvenne il 7 ottobre del '97, subito dopo il dibattito alla Camera sulla Finanziaria, in cui il presidente del Consiglio si appellò al Prc: «Siamo al bivio, ma discutiamo ancora». Bertinotti replicò: «Sulla Finanziaria non c'è maggioranza ma si può continuare a trattare».
Massimo D'Alema, leader del maggior partito della coalizione, chiese chiarezza: «Prodi ha dimostrato uno spirito generoso e genuino di autocritica. A questo punto, o avremo la forza di andare avanti o chiederemo la forza agli elettori». Il giorno dopo il premier si dimise, ma la crisi si risolse con il rinvio alle Camere del governo, che ottenne una nuova fiducia il 16 ottobre, grazie al «patto di un anno» con il Prc basato sulla riduzione dell'orario di lavoro e la salvaguardia delle pensioni di anzianità.
Ecco il verbale della riunione che si svolse nella storica sede di Botteghe Oscure. Allora c'era il Pds, presto ci sarà il Pd, ma i temi al centro della discussione politica sono gli stessi di questi giorni.
Botteghe Oscure, 7 ottobre 1997. Walter Veltroni, vice presidente del Consiglio - «Con Rifondazione il governo ci ha provato, ma da quel che ci hanno chiesto è difficile pensare che vogliano un'intesa. La situazione è paradossale. La posizione del Prc nel merito è strumentale. Loro fanno un ragionamento che riguarda la collocazione politica del partito. La sostanza del ragionamento è questa: se in Italia vince la sinistra riformista, non c'è più spazio per la sinistra comunista. Di qui la necessità di "sfilarsi".
Nel merito. Visto che non si può immaginare l'assunzione diretta da parte dell'Iri, il governo ha proposto di costituirne una nuova, che raccolga le diverse agenzie del lavoro, e che si preoccupi non solo di sollecitare le imprese, ma anche, per esempio, di programmare grandi interventi di opere pubbliche, una gestione pubblica del lavoro interinale. La risposta è stata: vogliamo l'assunzione diretta. Sulla riduzione a 35 ore dell'orario di lavoro, siamo disponibili a una legge che preveda incentivi alla riduzione.
Previa contrattazione sindacale, ovviamente. Sulle pensioni di anzianità, la proposta del Prc era l'esenzione di tutto il settore privato. La nostra proposta: lavoro precoce e lavori usuranti. Insomma, se avessimo fatto di più saremmo caduti in una contraddizione insostenibile.
Cosa succede ora? Bertinotti può dire due cose: non voteremo la Finanziaria; il governo ha chiuso. Scenari possibili: il Polo annuncia che voterà la Finanziaria. Si potrebbe andare avanti, facendo finta che non è successo niente. Ma non possiamo chiedere le elezioni. Se Bertinotti dichiara di non votare la Finanziaria, o si vara un documento della maggioranza o Prodi sale al Quirinale».
Fabio Mussi, capogruppo del Pds alla Camera - «Presentiamo il documento e andiamo al voto. Se Bertinotti non apre non bisogna dargli altro tempo».
Giorgio Napolitano, ministro dell'Interno - «Ci sarebbe molto da dire su come si è arrivati a questo, senza nulla togliere alla irresponsabilità del Prc. Mi limito a osservare che la discussione della Finanziaria in Consiglio dei ministri non è stata preparata. Ci sono state discussioni tra noi... Non so nulla dei contatti intercorsi con il Prc nella fase di preparazione della Finanziaria. Mi chiedo però: o abbiamo sottovalutato le minacce di rottura; o abbiamo messo nel conto la sfida e la risposta "elezioni subito"; oppure Prodi aveva considerato la possibilità di andare avanti con la Finanziaria, sfidando alla Camera il Prc e il Polo.
Sulle prospettive. Non penso che si debba trattare con il Polo, anche se sarebbe considerato un pasticcio solo da noi italiani. Sono perplesso sul documento di maggioranza, perché votare insieme al Polo presenta meno inconvenienti rispetto alla presentazione di più documenti. Il governo deve presentare sottoforma di emendamenti le proposte fatte al Prc».
Cesare Salvi, capogruppo del Pds al Senato - «Tenterei di utilizzare spazi di mediazione. Eviterei il voto (del documento, ndr), perché serve soprattutto a cavare di impiccio gli altri e ci creerebbe invece qualche problema».
Fulvia Bandoli, esponente della sinistra ds e membro del comitato politico - «C'è un elemento che mi è poco chiaro. Cosa succede se noi concludiamo con un voto, da qualunque parte proposto, e Prodi va dal presidente della Repubblica? Con la posizione che ha Oscar Luigi Scalfaro (contrario alle elezioni, ndr), con l'atteggiamento del Ppi, e con noi che oggi a sentire Veltroni diciamo di non poter chiedere le elezioni, dopo aver per settimane detto il contrario... Insomma... Saremmo nella palude: un governo tecnico e niente elezioni».
Mauro Zani, esponente della maggioranza dalemiana e membro del comitato politico «Quello che mi sento di escludere è il percorso lungo, partendo dal presupposto che bisogna far finta di niente. Sarebbe una posizione insostenibile. Tuttavia il voto su un documento è oggi di necessità collegato alla prospettiva delle elezioni. Allora, o c'è qualche carta coperta, oppure siamo in panne. Non c'è nell'opinione pubblica una tensione positiva rispetto alle elezioni. Altrimenti ci sarebbe un'altra linea: andare a un Prodi-bis con il Prc dentro il governo. È questo che forse hanno in testa dentro Rifondazione».
Marco Fumagalli, esponente della sinistra pds e membro del comitato politico «Prendiamo tempo e cerchiamo di trovare ancora una mediazione con il Prc. Prodi deve dire chiaramente che è il presidente del Consiglio solo di questa maggioranza».
Massimo D'Alema, segretario del Pds - «Non nasce da noi nè dal governo la situazione nella quale ci troviamo. Al di là della competizione a sinistra, abbiamo tentato di rafforzare il rapporto con il Prc. Nella Bicamerale il punto che stava più a cuore al Prc ci ha però visti isolati. Io penso che il governo abbia sbagliato nel rapporto con il Prc, mettendo in difficoltà il Pds. Siamo noi ad aver subìto la difficoltà del rapporto. Bertinotti ha detto che bisogna restituire all'Italia una sinistra antagonista. Ma quando ad un certo punto li abbiamo stretti, sospinti dalla paura delle elezioni hanno offerto un patto di sei mesi. L'intesa a termine, che ha avuto per noi un prezzo politico incalcolabile, è stata un'operazione tattica che ha lasciato inalterata la loro visione strategica. Questo è il punto vero: la separazione. Tanto che nel corso del mio colloquio con Bertinotti, lui era solo interessato alla sorte degli accordi per le Amministrative, dando per scontata la crisi. Quanto al Polo si ipotizzava la sua deflagrazione, che invece non c'è stata. C'è invece il movimento del centro. Un governo di unità nazionale durerebbe fino al 1999. Escludo l'ipotesi di andare avanti. Se si apre la crisi chiederò una verifica rapida».

Corriere della Sera 8.7.07
L'ex first lady confida al New York Times: «Prego tutte le mattine, viaggio con la Bibbia e avverto la presenza dello Spirito Santo»
Hillary: «La fede è il pilastro della mia vita»
Per la prima volta la Clinton parla della sua religiosità. I nemici: «Non convince»
di Ennio Caretto


WASHINGTON — Prega tutte le mattine, viaggia sempre con la Bibbia, spesso avverte la presenza dello Spirito Santo. Considera la fede il pilastro della sua vita, dice che le ha insegnato a perdonare, le ha salvato il matrimonio, l'ha riconciliata con le critiche e aiutata nella lotta politica. Crede nella resurrezione ma non nella interpretazione letterale delle scritture, disquisisce dottamente su Sant'Agostino, San Tommaso e John Wesley, il padre della sua religione metodista. E s'ispira a Dio nel suo impegno sociale. Chi è mai questa missionaria laica? La senatrice ed ex first lady Hillary Clinton, capofila dei candidati democratici alla Casa Bianca, che secondo il leader conservatore Pat Buchanan «oggi ha più possibilità di tutti di venire eletta presidente». Una Hillary pia, che in un'intervista di mezz'ora al New York Times rivela: «La fede mi ha reso ciò che sono».
Questa religiosità non sarebbe frutto di una graduale conversione ma l'avrebbe acquisita da bambina dalla madre, che la domenica teneva un corso per adulti in parrocchia, alla periferia di Chicago. Si sarebbe rafforzata al liceo, da dove il reverendo Donald Jones conduceva gli studenti nei ghetti per assistere i neri, e al college, dove un altro prete, Paul Santmire, predicava la carità. Nell'Arkansas, come moglie del governatore, Hillary seguì le orme materne, e adesso, al Senato, partecipa ogni settimana al breakfast della preghiera. «Siamo sempre stati una famiglia devota — ha spiegato riferendosi al marito Bill e alla figlia Chelsea — e ciò ci ha tenuti uniti». E ha ammesso che la prova del fuoco fu il Sexgate, lo scandalo della relazione di Bill con la Levinsky.
Il presidente e la first lady chiesero assistenza spirituale, pregarono insieme, e «con l'aiuto di Dio» superarono la crisi. Nell'intervista, Hillary ha ammesso che «perdonare e farsi perdonare è la cosa più difficile». Ha aggiunto che in lei c'è un conflitto quotidiano «per aderire ai valori cristiani» su problemi fondamentali dell'età moderna, dall'aborto, che appoggia, al ricorso alla forza. E ha asserito che provvedimenti quali la sanità pubblica e la tutela delle minoranze sono un obbligo morale. Secondo Hillary, un'assertrice del principio della separazione tra Stato e Chiesa, la fede non deforma ma sorregge la politica. Una posizione, ha osservato il New York Times, «che si adatta come un guanto» a quella del Partito democratico, da quando è emerso che la maggioranza dei fedeli americani si identifica nei repubblicani. Una posizione, inoltre, condivisa dal senatore nero Barack Obama suo rivale.
Ai «teocon» (i conservatori religiosi) le dichiarazioni di Hillary sono però sembrate un espediente elettorale. Andrew Ferguson, un loro esponente, ha ribattuto che «la fede della senatrice è quella di una liberal che crede in tutto, tranne che in Dio». Un gruppo evangelico ha definito l'intervista «troppo tempestiva e preparata » per essere credibile, ricordando che «lei e suo marito sono dalla parte dei gay». Newt Gingrich, l'ex speaker neocon della Camera, l'ha accusata di cinismo: «Non è genuina, non convince nessuno». Il Pew Center, un istituto di ricerca indipendente, ha difeso la ex first lady, ma ha rilevato che «i suoi numerosi nemici continueranno a diffidarne». A suo giudizio, comunque, Hillary ha spiazzato i repubblicani, convinti dalle elezioni del 2000 di avere «il monopolio della religione »: «I protestanti e i cattolici moderati si avvicineranno a lei».
Ai democratici, le confessioni della «leonessa», come venne chiamata per la sua combattività durante il Sexgate, sono invece apparse una dimostrazione di umiltà. Hillary aveva sempre rifiutato di svelarsi al pubblico, evitando di discutere questioni personali anche nelle sue memorie. Da first lady andava a messa ogni domenica, ma si ignorava che fosse così credente. Nelle parole dello storico della Presidenza Stephen Hess, «era un enigma». Stando a Hess, la nuova Hillary, più umana e più scoperta, e ora sostenuta nella campagna da Bill, potrebbe crescere in popolarità. Un'ipotesi avallata dall'ultimo sondaggio della rivista Newsweek, inbase al quale da maggio la ex first lady avrebbe più che raddoppiato il vantaggio su Obama, arrivando al 56 contro il 33% dei suffragi. Ma Obama non può essere ancora dato per sconfitto: ha raccolto più fondi dalla sua antagonista, e vi hanno contribuito il doppio di persone, 250 mila in tutto.

Corriere della Sera 8.7.07
FILOSOFIA Un testo eretico che venne accantonato
Quando Lukács si ribellò ai mastini del bolscevismo
di Antonio Carioti


Non si arrese subito György (o Georg, alla tedesca) Lukács. Quando il suo libro Storia e coscienza di classe, uscito nel 1923, fu stroncato dai cani da guardia dell'ortodossia sovietica, che lo accusavano di «soggettivismo», il filosofo marxista ungherese rispose per le rime in un opuscolo dal titolo Codismo e dialettica. Ma quel testo non fu pubblicato e lo stesso autore preferì relegarlo nell'oblio. Solo settant'anni dopo, crollata l'Urss, è stato ritrovato negli archivi sovietici. Ed ora vede la luce in Italia, con il titolo Coscienza di classe e storia (pagine 166, e 22), presso le Edizioni Alegre, a cura di Marco Maurizi, con una postfazione dello studioso sloveno Slavoj Žižek.
Il dato interessante della polemica è che Lukács era convinto di aver fornito nel suo libro l'interpretazione filosofica autentica del leninismo, attraverso la sottolineatura del ruolo del partito comunista nel processo rivoluzionario. Di fronte a un proletariato che di fatto non aveva una coscienza di classe corrispondente al livello reso possibile dallo sviluppo dei mezzi di produzione, spettava all'avanguardia comunista, secondo il filosofo magiaro, fare in modo di elevarla al grado più alto raggiungibile. I suoi fustigatori ribattevano che in questo modo si sostituiva alla coscienza di classe reale degli operai una pura astrazione. Di fatto, notava Lukács, ricalcavano la posizione dei menscevichi, che giudicavano la Russia immatura per la rivoluzione.
La vicenda fu «amara e grottesca », scrive Maurizi, perché senza dubbio la visione di Lukács era più rispondente allo spirito volontaristico che aveva indotto i bolscevichi a prendere il potere. Ma contro di lui e altri comunisti eretici si era pronunciato nel 1924 Grigorij Zinoviev, presidente del Comintern, tuonando contro il «revisionismo teorico» dei pretenziosi «professori». Non c'erano margini di dissenso per chi volesse evitare la rottura con il Cremlino. Così lo studioso ungherese finì per piegarsi, sconfessando Storia e coscienza di classe. Il testo pubblicato da Alegre ha invece il merito di restituirci un Lukács senza abiure, ancora immune dallo stalinismo, simile a quello che nel 1956 si sarebbe schierato con gli insorti ungheresi.

Corriere della Sera 8.7.07
BIOGRAFIE Giovanni Ferrara, liberale, narra il rapporto con Maurizio, comunista
Mio fratello tradito dalla sua utopia
Due vite divise dalla politica, che incarnano la storia del Novecento
di Marzio Breda


Roma, 1940, tribunale speciale del fascismo. Un ragazzo di 19 anni accompagna in aula il padre, che difende alcuni dirigenti del Pci clandestino. È il giorno dell'arringa e l'avvocato la pronuncia con disperata passione, chiudendola con il passo della celebre apologia di Socrate nel quale la morte diventa scelta di verità. Un'inutile sfida e il penalista, un liberaldemocratico di riconosciuta integrità, lo sa bene: la condanna è già decisa. Quando vede gli imputati sfilare in catene, il ragazzo è segnato da «una potente impronta morale», che sarà indelebile in lui. Perché se quei giovani «avevano meritato che il padre osasse tanto», anche a proprio rischio, la causa per la quale si battevano era senza dubbio «la migliore possibile» e dunque «si doveva andare con loro».
È così che Giovanni Ferrara descrive il momento in cui il fratello maggiore, Maurizio, si fece comunista.
Un'iniziazione in qualche modo prepolitica, emotiva, spinta da un'ansia viscerale e quasi religiosa — c'era pur sempre di mezzo una fede — di ribellarsi contro l'ingiustizia. Cinquant'anni più tardi, dopo una vita spesa come corrispondente da Mosca e poi direttore dell'Unità, dirigente del partito, senatore, marito della segretaria di Togliatti e poi redattore capo di Rinascita, quell'uomo piange l'eclissi dell'utopia alla quale aveva affidato entusiasmo e speranze. A raccogliere lo sfogo c'è Giovanni, intellettuale laico, docente di storia antica, collaboratore di diversi giornali (dal Mondo a L'Espresso), parlamentare del Pri. «È tutto finito », si sente dire. «Una vita intera dietro a questo mondo, una fatica inutile. Non è rimasto niente. Abbiamo sempre avuto torto, fin dal 1917».
È la crisi di un vinto che non sa mentire a se stesso, il lutto del comunista mutilato dei vecchi orizzonti e annientato persino nella salute. Versa lacrime di liberatoria disperazione, con un tormento senza pudori, qualcosa di assai diverso dalla bisbetica alterigia dietro la quale si proteggono quanti invece rifiutano le sconfitte. «Questo mio fratello sta qui piegato in due. Su di lui è passata, schiacciandolo, la Storia», riflette tra sé il testimone del dramma, mentre cerca parole compassionevoli e ripercorre dentro di sé la traiettoria di un rapporto controverso che è metafora di quanto è successo a una certa borghesia italiana nel Novecento.
Una saga familiare che è un incrocio di biografie e persino una malinconica maniera per regolare i conti, quella raccontata da Il fratello comunista, libro doppiamente postumo, essendo scomparsi entrambi i protagonisti della vicenda: Maurizio nel 2000, Giovanni nel febbraio scorso. Sono pagine di rispecchiamento continuo, tra il Ferrara seguace di La Malfa e il Ferrara collaboratore di Togliatti, che hanno animato una querelle privata destinata a trascinarsi dalla giovinezza all'età adulta. L'ininterrotto incontro-scontro tra loro va dagli anni di Stalin e Kruscev all'era Craxi, verso il quale negli ultimi tempi l'ormai ex comunista dimostra interesse. Pur cementato dall'antico affetto, quel legame di «aspra fraternità» — stando alla definizione di Giuliano Ferrara, figlio di Maurizio — «per una parte essenziale» delle loro esistenze li rende «stranieri l'uno all'altro». «Un enigma lui per me e io per lui».
All'origine di tutto c'è anche il rapporto con il padre Mario, colto avvocato antifascista, e il mai esplicito (ma decifrabile) duello su chi possa considerarsene l'alter ego. A vicenda chiusa, l'eredità sembra giusto ripartirla come si fa con i torti e le ragioni della storia. Infatti, se è vero che «la vicenda di Maurizio è sempre stata un risvolto decisivo della mia», come scrive Giovanni, non è un caso che al termine della loro parabola politica i due fratelli si siano ancora ritrovati pronti a misurarsi polemicamente. Con un'inversione della parti, stavolta: il primo alla destra del secondo.

Il libro di Giovanni Ferrara, «Il fratello comunista», è edito da Garzanti, pagine 161, e 16


il manifesto 8.7.07
La manifestazione sfila pacifica nel quartiere Trieste-Salario dopo l'aggressione squadrista al concerto dell'Estate romana
Villa Ada, migliaia al corteo antifascista
di Eleonora Martini


Roma Il sole è ancora alto quando il corteo parte da Villa Ada dietro gli striscioni «Roma città aperta rifiuta i fascisti» e «Verità per Renato Biagetti». Ma non è la calura estiva a scaldare gli animi delle migliaia di persone (circa 5-6 mila) che sfilano nelle vie del quartiere Trieste-Salario per la prima volta dopo i fatti del 28 giugno scorso. C'è la rabbia e lo sgomento di chi, in una notte dell'Estate romana mentre si concludeva una serata di musica e di festa, è stato per 25 minuti sotto l'assedio di una cinquantina di fascisti, partiti dalle vicinanze, armati, organizzati e allenati per terrorizzare e uccidere. C'è il dolore di chi ha dovuto soccorrere i molti feriti da armi da taglio e Marco Di Pillo, il geologo finito in ospedale con nove coltellate profonde sulla schiena profonde. C'è la frustrazione perché ancora una volta nessuno è stato fermato per l'episodio - che è solo l'ultimo di una lunga serie di aggressioni ai danni di immigrati, omosessuali, transessuali o frequentatori di centri sociali - mentre due spettatori sono sotto processo con l'accusa di aver aggredito le forze dell'ordine quando il commando si era ormai dileguato. C'è una certa voglia di «resistenza» che spinge più di qualcuno a cercare lo scontro con il gruppo di camerati (qualche centinaio, ma probabilmente sono venuti anche dalla provincia) che tengono il presidio ad una piazza Vescovio blindata peggio del corteo presidenziale di Bush. Ma anche se gli animi ribollono, l'intelligenza e la politica hanno la meglio.
Un corteo tutto sommato pacifico, sonoro, variegato, in ricordo anche di «Renato, Dax, Aldro e Carlo», si è snodato tra le stradine deserte e i negozi chiusi di un quartiere umiliato dalla presenza di sedi neofasciste e ultras. «Ma questa non è una zona nera - urlano dal sound system - queste non sono le strade di quei 50 miserabili, sono le strade di chi lavora, paga le tasse e lotta per un paese democratico». E passando per viale Libia, dove abbondano i negozi gestiti da ebrei, dalle finestre la gente saluta e qualcuno applaude quando una ragazza urla dai microfoni: «Noi non abbiamo dimenticato l'Olocausto, né le svastiche che ancora tornano a imbrattare i vostri negozi».In testa al corteo i rappresentanti dei tanti partiti, sindacati e associazioni che hanno dato vita a questa prima giornata di risposta. A cominciare dall'Arci, che gestisce la rassegna «Roma incontra il mondo» a Villa Ada dove è avvenuto l'agguato, con il suo nuovo striscione «Arci antifascista», e la Ram (Rete antifascista romana). Pochissime le bandiere e gli striscioni (c'è la federazione romana del Prc). Qualche esponente dell'Anpi col fazzoletto al collo e solo qualche volto noto delle istituzioni nazionali e locali, come le parlamentari Elettra Deiana (Prc) e Tana De Zulueta (Ds). L'esponente diessina, una delle poche che ha aderito a livello personale, è qui «per protestare soprattutto contro l'impunità, perché non è possibile che nemmeno uno sia stato fermato». «Anche se non condivido tutti gli slogan di questa manifestazione, è necessario che la politica chiarisca da che parte sta - spiega senza mezzi termini - perché anche l'ordine pubblico è un fatto politico, quindi bisogna smettere di sottovalutare queste frange anticostituzionali». Per il resto è l'area antagonista a caratterizzare il grosso della manifestazione che a tratti sembra più una via crucis tra una piazza e l'altra, una vicina sede di Forza Nuova e un incrocio a cento metri da Piazza Vescovio, con la tensione che sale per il rischio di agguati e l'irruenza di alcuni militanti antifascisti fermati da un efficiente quanto discreto servizio d'ordine interno. Slogan vecchi e (pochi) nuovi a testimoniare che forse ancora una volta non tutti hanno capito che non si tratta di un problema di opposti estremismi come fossimo negli anni '70. Persino Vincenzo Miliucci, uno dei leader dell'autonomia romana, intervenendo in mattinata a Radio Onda Rossa parlava di una «Roma vietata ai fascisti quando il fascismo si esprime nelle forme dello squadrismo, della criminalità e dell'omicidio». E aggiungeva: «Non ci possono essere quartieri neri in cui una persona di sinistra non possa entrare liberamente, come non avviene più il contrario».

il manifesto 8.7.07
Note stonate sul Grande Terrore
Un Gramsci che sfidò Stalin per sottrarre i compagni a un tragico destino: così lo ha descritto Piero Fassino. Ma non poté andare in questo modo
di Marco Clementi


Venerdì 29 giugno nel cimitero di Levashovo, nei pressi di San Pietroburgo, è stata scoperta una lapide in memoria dei mille italiani repressi durante il Grande Terrore (1937-38) e nel corso della seconda guerra mondiale. Alla cerimonia ha voluto prendere parte anche l'onorevole Piero Fassino, segretario dei Democratici di Sinistra eredi di quel Partito comunista d'Italia che negli anni del Grande Terrore vagliò attraverso i suoi rappresentanti a Mosca le schede di centinaia di militanti in sospetto di eterodossia. In tale occasione Fassino ha affermato enfaticamente che, mentre i dirigenti responsabili del partito non osarono sfidare l'oppressione della dittatura, «Antonio Gramsci si batté per sottrarre i suoi compagni a un destino tragico».
Questa affermazione, già fatta da Fassino dieci giorni prima a Roma presentando il libro di Gabriele Nissim Una bambina contro Stalin (Mondadori) appare come una grave manomissione del passato, dettata probabilmente dal tentativo di salvare parte di una storia che, mai rivendicata in tempi opportuni dal Pci prima e dal Pds dopo, risulta ormai ingestibile. Precipitato il mito del «Migliore», quel Togliatti che fu davvero «l'uomo senza qualità» della sinistra italiana, attraversato il mito della Resistenza, che per adesso tiene nonostante «la grande bugia» evocata da Pansa, resta l'ultimo bastione, la vittima di Mussolini, Antonio Gramsci, che Nissim descrive come uomo moralmente e intellettualmente al di sopra del «costume politico in auge nel mondo comunista di quei tempi».
E dal testo di Nissim emerge l'episodio che vede Gramsci protagonista e che, deformato nei suoi contorni, viene ricollocato arbitrariamente in un contesto cui non è mai appartenuto. I fatti si ricavano proprio dalla lettura attenta del libro, e ciò sconcerta ancora di più. La bambina del titolo è Luciana De Marchi, figlia di Gino De Marchi, indicato come il primo prigioniero politico italiano dei bolscevichi, cosa che non tiene conto del destino di quanti, come il console italiano a Pietrogrado Raffaele Pirone, furono deportati subito dopo lo scoppio della rivoluzione d'ottobre. Giovanissimo militante prima della frazione comunista del Partito socialista italiano, quindi del Pcd'I dopo la scissione di Livorno, Gino De Marchi, partecipò all'occupazione delle fabbriche torinesi nel '20, poi al movimento internazionalista. Nell'aprile del '21 fu arrestato dai carabinieri con l'accusa di aver nascosto delle armi insieme ad altri. Dopo alcuni giorni confessò, facendo dei nomi, quindi venne rilasciato. Mai divenuto collaboratore della polizia, anzi condannato a tre anni per la questione delle armi, De Marchi fu fatto espatriare a Mosca dal Pcd'I, nonostante la sua espulsione dal partito, perché fosse sottratto alla detenzione. Si portò però in Russia la triste fama di delatore e dalla capitale russa venne ben presto deportato, prima in carcere, poi nella lontana Tashkent, nell'attuale Uzbekistan.
È in questo contesto (siamo nel 1922), che Gramsci, a Mosca come delegato del Pcd'I alla Terza Internazionale, intercesse per il giovane comunista e a nome del Comitato Centrale del Pcd'I scrisse una serie di missive all'esecutivo dell'Internazionale per far tornare De Marchi a Mosca, cosa che avvenne. Gramsci quindi lasciò la Russia e non ebbe più modo di occuparsi della vicenda. Il fascismo stava diventando regime e dopo l'assassinio di Matteotti e il colpo di Stato del gennaio 1925 molti militanti lasciarono la penisola. Gramsci rimase a Roma e fu arrestato nel novembre del '26. Da quel momento cominciò per lui una nuova, drammatica storia, nella quale la politica si intrecciò con vicende personali di varia natura che lo condussero a un progressivo isolamento, anche dentro al Pcd'I. Un episodio importante in questo contesto fu costituito dalla svolta del 1930 della Terza Internazionale (si pensava che l'Europa fosse alla vigilia di una grande epoca rivoluzionaria) e l'identificazione della socialdemocrazia con il «socialfascismo», che tra l'altro contribuì all'ascesa di Hitler. Non tutti i dirigenti del partito accettarono questa analisi e Alfonso Leonetti, Pietro Tresso e Paolo Ravazzoli vennero espulsi; Umberto Terracini fu molto critico e lo stesso Gramsci non condivise quelle scelte. Intanto De Marchi si era stabilito a Mosca e nel 1932 aveva rinunciato alla cittadinanza italiana per quella sovietica. Dopo aver lavorato in una cooperativa agricola divenne un importante regista-documentarista che filmava i progressi dell'industrializzazione sovietica, ma, afferma Nissim, non era contento del regime stalininano: «Nel nostro studio - scriveva De Marchi in note private - fioriscono affarismo, demagogia, leccapiedi, nepotismo». Più di una volta si rivolse alla direzione della Mosfilm con osservazioni di varia natura, avanzando dubbi sul fenomeno dello stakanovismo. Nel mutato clima seguito all'assassinio di Kirov, De Marchi venne arrestato nel 1937 perché, afferma ancora Nissim, «con tali pensieri era difficile non essere presi di mira nel momento in cui cominciava il grande terrore staliniano».
L'Nkvd, la polizia politica sovietica, si rivolse ai rappresentanti del Pcd'I a Mosca chiedendo notizie sul loro prigioniero e si sentì rispondere che quell'antico militante non era più stato riammesso nel partito. In breve, dopo una confessione estorta con la tortura, venne fucilato. Gramsci insomma non solo non salvò alcun militante comunista dal Gulag ma il suo interessamento per De Marchi fu del tutto casuale e, se preso nel complesso della sua storia politica, assolutamente sporadico, un unicum che non muta nulla nella sua biografia, né più in generale nella storia del Pcd'I-Pci. Dopo il 1928 (quando fu condannato a vent'anni), del resto, lo stesso Gramsci si sentiva vittima di un oblio da parte del suo partito e un recente libro di Angelo Rossi e Giuseppe Vacca (Gramsci tra Mussolini e Stalin - Fazi), sembra sposare la tesi di un progressivo isolamento politico del fondatore dell'Ordine Nuovo, nonostante i contatti con Togliatti fossero mantenuti da Piero Sraffa e dal fratello Gennaro. Si tratta di una storia che nulla ha a che vedere con il Gulag staliniano e il Grande Terrore, sui quali Gramsci, gravemente malato, non aveva sufficienti elementi di conoscenza. La sua riflessione in carcere, com'è noto, si concentrò sulla storia italiana e sui rapporti tra le classi. Ingenuamente ma caparbiamente, studiava il russo nella speranza di poter tornare un giorno nella Russia soviettista, come egli la chiamava allora.

Liberazione 8.7.07
«Una spinta dal basso per far marciare l'unità»
All'assemblea dell'Ars. Aldo Tortorella ribadisce che «è importante e va rispettato il lavoro fatto fino ad ora dai partiti. Ma senza la partecipazione il nuovo soggetto plurale della sinistra non ce la farà a partire»
di s.b.


Potrebbero festeggiare. In fondo, dopo anni e anni di «predicazione nel deserto», l'unità e il rinnovamento della sinistra - i «loro» temi - sembrano a portata di mano. Quantomeno, ora, tutti ne parlano. E, invece, nulla di tutto questo: nè feste, nè celebrazioni. Solo voglia di percorre con intelligenza quest'««ultimo miglio». Forse il più difficile. Ecco - in "pillole" - l'assemblea di ieri dell'Ars, l'associazione per il rinnovamento della sinistra. Perché non dirlo?, quella che tutti conoscono come l'associazione di Aldo Tortorella. Definizione che resta valida, beninteso. Solo che da ieri, l'anziano leader avrà un ruolo diverso: sarà presidente del comitato dei garanti. Altri - quasi sicuramente Piero Di Siena, senatore della Sinistra democratica - prenderà il suo posto di coordinatore.
Ma questi sono dettagli. Di più, in un gruppo che ha costruito la sua "forza" sull'autorevolezza, contano i discorsi, le parole. Le analisi. Quella fatta da Tortorella nell'introduzione lascia pochi spazi all'ottimismo. La coalizione democratica che per il rotto della cuffia ha vinto le elezioni politiche, governa ormai da un anno. Ma il suo bilancio è assai negativo. Tortorella ha usato l'aggettivo: «impopolare». Questo governo non sembra più in sintonia col popolo che l'ha votato. Con l'aggiunta che i diesse hanno deciso di «cancellarsi» dalla scena politica. Tutto questo però ha liberato energie alla loro sinistra: l'uscita dalla Quercia di Mussi e degli altri. E così, è tornata all'ordine del giorno la discussione sulla nascita di un nuovo soggetto della sinistra. «Unitario, plurale».
A che punto si è? Tortorella è stato assai rispettoso del ruolo che hanno svolto fin qui i leader di tutte le formazioni della sinistra. Di più: ha riconosciuto coraggio ai loro gruppi dirigenti. Esattamente come ha valutato «importante» il patto d'unità d'azione, stretto fra i parlamentari a sinistra dei democratici.
Ma non basta. Non può bastare. Perché una sinistra «rifondata» deve cominciare a scrivere una sua carta di valori. Che siano condivisi da tutti. Ma, purtroppo, prima di questo, c'è bisogno di un altro lavoro: sottoporre a verifica critica tutti gli errori del secolo scorso. Tortorella, qui, all'assemblea dell'Ars, cita solo i capitoli di una ricerca che deve essere comune. Un lavoro per provare a ridefinire l'idea stessa di libertà. Che non può più essere subordinata al principio di uguaglianza, come forse è stato nel «secolo breve». Ma che certo non può neanche significare l'accettazione del principio - che fa capolino anche nei primi tentativi di definizione teorica del partito democratico - secondo il quale libertà significa assenza di regole. Dove vince sempre il più forte. Tortorella accenna ad un'espressione, «libertà solidale», che può essere una base di partenza per la ricerca. E ancora, la sinistra deve ripensare anche il significato dell'espressione uguaglianza. Che non può più significare «uniformità». Ma che deve diventare sinonimo di apertura culturale, di dialogo, di accettazione delle differenze. A cominciare da quelle di genere. Ridefinire alcuni punti cardine, dunque. Compresa l'idea di lavoro, di lavoratore. Che continua ad essere «merce», anche in un mondo globalizzato.
Discorsi solo teorici? No, l'analisi ha ricadute immediate. E qui, un po' sul serio, un po' per scherzo, Tortorella ha ripercorso puntigliosamente il discorso di Veltroni al Lingotto. Quello in cui s'è candidato a fare il leader del piddì. L'ha fatto per sostenere che sul welfare, su quelli che il sindaco di Roma ha definito «corporativismi» - mettendo in questa categoria anche gli operai che si battono per superare lo «scalone» -, sulla sicurezza, sulla questione migranti, deve esistere un «altro punto di vista». Che può allearsi assieme a quello moderato di Veltroni, insieme si può stare al governo. Ma la sinistra, da quei suoi «punti di vista» deve partire per disegnare un proprio progetto, una propria idea della società. Che abbia - ecco uno dei passaggi chiave - anche l'ambizione di diventare egemone. Che non si limiti a difendere piccole e grandi conquiste ma ambisca a sfidare i riformisti. Anche elettoralmente.
Un progetto che deve unire la sinistra. Tutta. E si ritorna al punto di partenza: come spingere per percorrere quest'ultimo miglio? Tortorella - e con lui nel dibattito tanti altri, da Occhetto a Cossutta - insiste nell'apprezzare quanto fatto fin qui dalle forze politiche. «Il problema però è creare una doppia spinta», aggiunge. Dall'alto e dal basso. Perché solo dal «basso» potrà venire la spinta a superare le difficoltà che si registrano fra i partiti. E allora? Bene il decalogo proposto da Paul Ginzborg e da decine di semplici militanti. Bene, le mille iniziative in programma in mille città. Bene, ovunque si cominci a discutere. Perché la «nuova sinistra» o sarà partecipata, o semplicemente non sarà.
s.b.

Repubblica 8.7.07
Quando il sindacato si accordò con Maroni
di Eugenio Scalfari


SE fosse soltanto la classe politica ad essersi trasformata in una casta la situazione sarebbe molto più chiara. Non dico più facile da risolvere, ma più chiara certamente sì e si potrebbe metter mano agli strumenti capaci di liquidarla.
Il guaio è che l´intera società si è trasformata in un sistema di caste che si guardano reciprocamente in cagnesco. Nessuna di loro è portatrice d´una visione del bene comune; nessuna del resto tenta di camuffarsi. Si direbbe che ciascuna sia orgogliosa di mostrare la propria natura castale e la propria capacità di tutelare i suoi interessi. Volete qualche esempio?
Comincerò dai sindacati confederali che, fino a pochi anni fa, si facevano un vanto (ampiamente giustificato) di darsi carico dell´interesse nazionale ritenendo che fosse questo il modo migliore per tutelare al tempo stesso gli interessi dei propri associati: lavoratori dipendenti e pensionati.
La concertazione fu lo strumento di quella politica. La moderazione sindacale consentì di battere l´inflazione che era l´imposta più terribile sul potere d´acquisto dei percettori di redditi fissi, la schiacciante maggioranza della popolazione.
Questo metodo è stato di fatto abbandonato. Soltanto una sottilissima carta velina distingue ormai i sindacati nazionali da una corporazione nazionale e da una "lobby" nazionale. In più punti quella carta velina è stata lacerata e la metamorfosi del sindacato in corporazione si è quasi compiuta. Da questo punto di vista Epifani si è assunto una pesantissima responsabilità, essendo lui esponente del sindacato più forte.
Epifani un´attenuante ce l´ha: il comportamento della sinistra radicale e in particolare di Rifondazione comunista che ne costituisce il nucleo portante. Quel partito in parte fa da sponda e in parte è una palla al piede dei sindacati. Comunque funge da alibi. Vuole difendere a tutti i costi l´attuale età pensionabile. Rifiuta lo scalino dei 58 anni, rifiuta le quote, rifiuta in blocco la politica del governo e gli obblighi che lo Stato ha assunto nei confronti dell´Europa. Basta leggere l´intervista data venerdì scorso dal presidente della Camera al nostro giornale per avere la conferma di questa posizione.
Eppure sia Epifani sia Bertinotti dovrebbero ricordare le seguenti circostanze:
1. I sindacati concordarono con l´allora ministro del Lavoro, Maroni, che la legge istitutiva del famoso scalone che portava in un colpo solo l´età pensionabile da 57 a 60 anni, avrebbe avuto il loro accordo alla condizione che la sua entrata in vigore fosse stata posticipata di tre anni.
Epifani ricorda certamente quel patto. Infatti la legge Maroni, approvata dal Parlamento nel 2004, entrerà in vigore soltanto il primo gennaio del 2008.
2. Quanto a Bertinotti e a quelli che si aggrappano al programma elettorale del centrosinistra reclamando l´abolizione dello scalone «senza se e senza ma», la memoria (e il testo di quelle 281 pagine) dovrebbe ricordargli che lo scalone, una volta abolito, «sarà sostituito da provvedimenti che in tempi graduali facciano fronte all´aumento demografico della popolazione, ferma restando la compatibilità con l´equilibrio del bilancio». Il «senza se e senza ma» non figura affatto nel programma elettorale ed è invece circondato da alcune condizioni che Prodi e Padoa-Schioppa stanno cercando ormai da sette mesi senza riuscire ad ottenere il gradimento della "lobby" sindacale e politica che ha perso la memoria di quanto aveva pattuito con Maroni nel 2004 e con tutti i partiti del centrosinistra nella stesura del programma del 2006.
3. Sia i sindacati che la sinistra politica hanno anche perso la memoria di uno dei punti essenziali della legge Dini sulle pensioni, che prevedeva la revisione dei coefficienti salario-pensione, da effettuarsi dopo dieci anni dall´entrata in vigore della legge. Fu approvata nel 1995 e quindi i coefficienti andavano rivisti nel 2005. Ma i sindacati ottennero dal solito Maroni di rinviare la revisione al 2006. Arrivata la scadenza, i sindacati hanno voluto un altro rinvio e comunque la revisione dei criteri di applicazione dei coefficienti. È stata insediata una commissione che deciderà entro l´anno in corso.
Osservo che tra i sindacati e il ministro leghista del Lavoro si era di fatto stabilito un clima di collaborazione molto intensa per spostare sia l´esame dei coefficienti sia l´innalzamento dell´età pensionabile a dopo le elezioni del 2006. Un collateralismo molto inquietante che induce a sospettare sulla buona fede dell´allora ministro, del governo del quale faceva parte e dei sindacati confederali.
* * *
Prodi e Padoa-Schioppa (l´ho già ricordato) hanno finora cercato di contemperare la forza corporativa dei sindacati e della sinistra politica con la necessità di procedere ad una riforma del sistema previdenziale che lo ponga su basi sostenibili. Sette mesi sono passati dal protocollo firmato dalle parti sociali e dal ministro dell´Economia il 31 dicembre del 2006. A noi sembra impossibile che questa "soap opera" possa continuare fino alla fine del prossimo settembre. E sembra impossibile che possa essere risolta solo con gli incentivi per chi decida di restare a lavoro anche dopo aver compiuto 58 anni (o 57?)
Gli incentivi vengono dati a tutti quelli che compiono l´età attualmente vigente per andare in pensione; anche a quelli che avessero già deciso di restare comunque a lavoro. Si tratta in tutto di 130 mila persone. Per di più Bertinotti è deciso a schierare il suo partito contro il governo di cui fa parte se per tutti gli operai non sarà prevista l´esenzione dall´aumento dell´età pensionabile; clausola inutilmente demagogica, visto che chi accetta l´incentivo dimostra con ciò stesso senza possibilità di dubbio di non considerare usurante il proprio lavoro.
Se gli incentivi non dovessero funzionare, nel 2010 l´età pensionabile sarebbe portata a 60 anni. Di fatto, dopo il rinvio di tre anni fa concordato con Maroni si chiedono ora altri tre anni di tempo. È credibile un sindacato che non rispetta le scadenze? Sarebbe credibile un governo già notevolmente usurato che presti fede ad un interlocutore non più affidabile?
Noi crediamo che per il governo sia arrivata l´ora della decisione. Prodi ha fatto sapere ieri che – avendo ormai ascoltato e riascoltato il parere di tutti gli interessati – nei prossimi giorni farà una proposta.
Mi lasci dire, signor presidente del Consiglio, che la parola «proposta» non si addice alla situazione che si è creata. È auspicabile che lei manifesti la sua soluzione e la presenti al Consiglio dei ministri come una decisione sulla quale porre la fiducia al Consiglio stesso dove – pur auspicando l´unanimità – le sarà sufficiente la maggioranza. Se i dissenzienti vorranno provocare la crisi sarà loro la responsabilità. Per la seconda volta toccherebbe dunque a Rifondazione consumare una sorta di «parricidio» politico con la differenza rispetto al 1998 che allora Rifondazione non faceva parte della maggioranza ma aveva solo pattuito un appoggio esterno, mentre ora è parte integrante del governo.
Il presidente della Camera lascia intendere che non ha altra strada, non vuole neppure sentir parlare di diversità di interessi tra giovani e anziani, il suo problema è che non scompaia la sinistra antagonista.
Somiglia a Storace (mi scusi per il paragone) che non vuole la scomparsa della destra. Quanto al conflitto previdenziale tra giovani e anziani, esso è un dato di fatto, le cifre stanno a dimostrarlo e la percezione degli interessati anche. Allora di che cosa parla, onorevole Bertinotti?
Lei di solito è bravissimo a buttare la palla in tribuna parlando di questioni storiche e culturali per dire a nuora perché suocera intenda. Ma questa volta nell´intervista sopra citata lei ha detto pane al pane e vino al vino. Ne dobbiamo dunque dedurre che se il suo partito, da lei incoraggiato, dovesse mettere il governo in crisi, lei lascerebbe contestualmente il suo incarico istituzionale? Sarebbe il minimo che lei possa fare in simili circostanze.
* * *
Questa delle pensioni non è però la sola questione che agita le varie e contrapposte "caste" o "corporazioni" o "lobbies" che dir si voglia. Ce ne sono a dozzine e nell´impossibilità di approfondirle tutte mi limiterò ora ad indicarne alcune.
C´è la questione (gravissima) delle intercettazioni disposte illegalmente dal Sismi di Pollari e di Pio Pompa ai danni di magistrati, uomini politici, giornalisti in odore di centrosinistra. Il Consiglio superiore della magistratura ha approvato all´unanimità un documento che denuncia la "persecuzione" contro i magistrati. Non è una sentenza ma una denuncia a tutela della magistratura e come tale rientra in pieno nelle competenze del Csm. Chi ignora o finge di ignorare questo punto fa opera grave di disinformazione.
Una seconda questione è quella dell´ordine del giorno di sfiducia che il centrodestra preannuncia contro il viceministro Vincenzo Visco. L´ordine del giorno non si riferisce all´avviso di garanzia che Visco ha ricevuto dalla procura di Roma ma, su consiglio dell´onorevole Casini, mette sotto accusa la politica fiscale «ispirata e messa in atto da Visco» come recita il documento redatto dall´onorevole D´Onofrio.
Il presidente del Senato non ha certo bisogno dei nostri consigli in materia ma ricordiamo ai nostri lettori: 1) la sfiducia personale può essere proposta contro i ministri. Nei confronti dei sottosegretari o viceministri non è contemplata dalla legge né dai regolamenti parlamentari. 2) Se poi l´accusa riguarda la politica fiscale il responsabile è il governo nella sua interezza e il presidente del Consiglio che costituzionalmente lo rappresenta. Formulare un ordine del giorno che accusa un viceministro per la politica fiscale del governo è un documento irricevibile e non può esser messo in votazione. È singolare che l´abbia suggerito Casini, che è stato per cinque anni presidente della Camera.
Terza questione: i bastoni tra le ruote di Veltroni. Ce n´è una catasta. C´è chi lo spinge a "entrare nel merito". Ma da due settimane Veltroni non fa altro. Che cosa vogliono in realtà gli autopromossi suggeritori? Che proponga leggi articolate in commi? Che intervenga sui fatti del giorno? Che rubi il mestiere al presidente del Consiglio?
C´è chi spinge affinché si candidino altri esponenti del centrosinistra contro di lui. Anche se i loro programmi non siano alternativi ai suoi. E così un Bersani dia fiducia e faccia la conta dell´orgoglio diessino, un Letta lo faccia per l´orgoglio margheritino, una Bindi per l´orgoglio dei cattolici, un Rutelli per l´orgoglio di Rutelli e un Parisi lo faccia non si sa perché.
Che senso ha tutto questo? Nessuno, salvo quello di tagliare l´erba sotto i piedi di Veltroni.
Gli stessi che sospingono queste candidature alternative si dichiarano invece contrari a liste di sostegno a Veltroni. Vorrebbero che il sindaco di Roma affrontasse la competizione con gli altri alzando la bandiera del Partito democratico che ancora non c´è.
Chi favorisce questo bailamme vuole in realtà lanciare bastoni tra le ruote del convoglio veltroniano ed ecco un altro bell´esempio di lobbismo mediatico per impedire che il Partito democratico nasca.
* * *
C´è infine la questione finale: quella della legge elettorale. Ezio Mauro ha scritto venerdì scorso prendendo posizione in favore del referendum. Speravamo – scrive il nostro direttore – che il Parlamento varasse ed approvasse una nuova e buona legge che abolendo la "porcata" di Calderoli recuperasse governabilità, rappresentatività, diritto degli elettori a indicare i candidati preferiti.
Così non è avvenuto e non si sa se avverrà. Ci sembra dunque opportuno che le firme necessarie per la presentazione dei quesiti referendari siano raccolte (mancano pochi giorni alla scadenza del termine) e lo siano in larga misura. Sarà uno stimolo al Parlamento, almeno così si spera, affinché legiferi nel solco dei quesiti referendari come la legge prescrive.
Alcuni membri del governo, tra i quali soprattutto Mastella, minacciano dimissioni come se il governo possa impedire le procedure referendarie. È strano che il ministro della Giustizia ignori in questo caso leggi e procedure. O meglio: è ancora una volta una visione lobbistica della politica. Non va bene, onorevole Mastella. Non va affatto bene. Forse lei non se accorge, ma lo spettacolo che troppo spesso lei dà di sé è per noi molto avvilente. Lo eviti. Per favore.