mercoledì 11 luglio 2007

Repubblica 11.7.07
Rifondazione, torna la mina dei "dissidenti"
di Claudio Tito


ROMA - «Ma saranno in grado di controllarli tutti?». A febbraio scorso avevano provocato un crisi di governo sulla politica estera. Adesso potrebbero essere determinanti su quella economica. E già, perché il confronto sulla riforma delle pensioni ha riaperto un fronte nell´Unione: quello dei dissidenti della sinistra radicale. Quei quattro o cinque che al Senato hanno sempre dato quel tocco «sexy» alla maggioranza. Romano Prodi è conscio che quello scoglio sta nuovamente affiorando e che rischia di far naufragare il suo esecutivo. Da qualche giorno, da quando ha preso in mano il pallino per buttare giù lo scalone, ripete un po´ a tutti questo interrogativo. Puntando l´indice su una data ben precisa: il 25 luglio, quando approderà nell´aula del Senato il Dpef. Il timore di Palazzo Chigi, infatti, è che lo scontro sullo "scalone" potrebbe provocare la prima battaglia già in occasione del voto sul Documento di programmazione economica e finanziaria.
Il "fantasma" di una seconda crisi, insomma, è tornato ad aleggiare sulle stanze prodiane. La paura del Professore è anche l´incubo di Prc e Pdci. Il dubbio di non riuscire a «controllare» tutti i senatori, ce l´hanno anche Franco Giordano e Oliviero Diliberto. Entrambi hanno fatto sapere sia ai vertici dell´esecutivo che a quelli sindacali di essere pronti a chiudere l´accordo sulla previdenza. Ma li frena il sospetto che anche un «buon patto» non sia sufficiente a blindare la sinistra radicale. È successo pure ieri pomeriggio nel faccia a faccia che il segretario del Prc e il ministro Ferrero hanno avuto con il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Enrico Letta. «Restano significativi problemi - ha poi ammesso il titolare della Solidarietà sociale - ma la discussione va avanti».
Sta di fatto che i cosiddetti "dissidenti" hanno già fatto sapere che non accetteranno soluzioni intermedie. Fosco Giannini, Franco Turigliatto, Ferdinando Rossi e Haidi Giuliani sono pronti al "no". «Se si alza l´età - ripetono da giorni quasi all´unisono - io voto contro».
Il premier, però, vuole comunque accelerare. Non intende lasciare che la questione maceri per tutta l´estate. Il suo obiettivo è formulare il piano di riforma entro la settimana sottoponendola prima al consiglio dei ministri di venerdì e possibilmente a Cgil Cisl e Uil nella stessa giornata. «Io a questo punto - ha avvertito tutti gli alleati - farò una proposta e sarà un prendere o lasciare». Secondo il presidente del consiglio, infatti, - anche sulla base del monito incassato l´altro ieri da Tommaso Padoa-Schioppa dall´Ecofin - la sua ipotesi rappresenterà il massimo della mediazione. L´orientamento è quello di trasformare lo scalone in tre scalini con cadenza biennale (58 anni nel 2008 e 59 nel 2010) e l´ultimo (nel 2012) prevederebbe una soglia non anagrafica ma la quota 96, un mix tra età e anni contributivi. In più ci sarebbe un ampliamento della platea dei cosiddetti lavori usuranti. Ogni passo più in là, dicono a Palazzo Chigi, susciterebbe la reazione di Bruxelles e quella dei riformisti dell´Unione.
La sinistra radicale è pronta a discutere e la Cgil considera una base praticabile questa ipotesi. Ma per Rifondazione comunista resta il nodo dei "dissidenti". Anche perché stavolta non significherebbe solo perdere qualche voto. Il timore è quello di trovarsi davanti un´altra scissione a sinistra. Con la nascita di una sorta di "Cosa rossissima" che vedrebbe nella Fiom di Cremaschi il nocciolo duro. Non è un caso che nel Prc e nel Pdci molti guardano al referendum che i sindacati organizzeranno per ricevere il placet dei lavoratori sul futuro accordo: «Quello - dicono - sarà il momento dello strappo». Se la Fiom, appunto, voterà no - come fece nel ´95 sulla riforma Dini - il primo effetto sarà il "no" dei dissidenti al Senato sul Dpef e quindi sulle pensioni. Non è nemmeno un caso che gli stessi dissidenti abbiano organizzato per il prossimo 20 settembre un seminario che assomiglia ad una prova di scissione. E tra gli invitati spicca proprio Cremaschi.
Senza contare che negli ultimi giorni una certa irritazione nei confronti di Prodi è montata anche tra le file del Prc. Ai piani alti del partito e della Camera non sono piaciute, ad esempio, alcune scelte su talune nomine (in primo luogo le Fs). «Se non ci fosse stato il precedente del ´98 - si è fatto scappare un autorevolissimo leader di Rifondazione - la crisi sarebbe stata già aperta».
Il premier, però, non intende cedere. È sicuro che una soluzione sia possibile. «Anche perché - ricorda ad ogni piè sospinto - se c´è la crisi di governo, resta pure lo scalone».

l'Unità 11.7.07
Quando Togliatti capì il tramonto dell’Urss
di Adriano Guerra


RIVELAZIONI Esce un saggio dello storico Carlo Spagnolo con una tesi avvalorata da nuove fonti d’archivio: il capo del Pci aveva compreso la fine del movimento comunista. E il «Memoriale di Yalta» fu il «referto» di questa intuizione

Ad alcune delle numerose «questioni» legate al nome di Togliatti sono state date in questi ultimi anni, grazie al lavoro di numerosi studiosi e ai documenti d’archivio divenuti accessibili, risposte certamente non definitive, ma indubbiamente corpose e spesso esaurienti. Parliamo ad esempio delle «questioni» legate ai rapporti di Togliatti con Gramsci o a quelle dello «stalinismo» di Togliatti: due temi che sono stati - si vorrebbe sperare - sottratti al campo delle omissioni e dei silenzi nonché a quello delle burocratiche autocritiche e delle critiche personali, talvolta basate sulla non conoscenza dei punti di arrivo non solo della ricerca degli storici ma della stessa elaborazione e della politica concreta del Pci.
Ci sono poi questioni continuamente riaperte. Ultima quella sulle responsabilità di Togliatti per le vittime italiane dello stalinismo. Problema vero. Responsabilità accertate. Ma anche qui parlano, dovrebbero parlare, i dati forniti da coloro che hanno affrontato il tema ricostruendo, ad esempio, le ragioni che hanno portato nel 1941 Dimitrov a trasferire Togliatti, sotto indagine, dal lavoro politico a quello radiofonico. Coabitare con Stalin non significava scegliere semplicemente fra coraggio e viltà. Sugli italiani finiti nei Gulag ci sono poi in primo luogo le ricerche di Elena Dundovich, Francesca Gori e Emanuela Guercetti. E quelle, prima ancora, di Romolo Caccavale, il giornalista de l’Unità eternamente dimenticato che negli anni’80 - scettico sul lavoro delle Commissioni del Pci che, dopo le ammissioni del 1961 avrebbero dovuto fornire risposte agli interrogativi che erano stati posti da più parti - interrogando con santa pazienza famigliari e testimoni, ha raccolto una documentazione di straordinario valore. Il suo libro è poi uscito con una prefazione dell’allora segretario del partito Alessandro Natta. Un documento, anche quest’ultimo, importante perché con esso il Pci ha preso posizione per la prima volta, con un’autocritica esplicita sul tema delle sue «corresponsabilità» - il termine è stato usato da Amendola nel 1961 - nello stalinismo. Ma - si sa - nulla è più inedito dell’edito...
Insieme a quelle prima ricordate c’è anche però una «questione Togliatti» ancora del tutto aperta e destinata a restar tale: quella del «Memoriale di Yalta». Gli interrogativi sono qui più d’uno e sono senza risposta perché quel documento, preparato - come si sa - in previsione di un colloquio con Chruscev, non ha potuto essere discusso per la morte del suo autore. Il «Memorandum» è così diventato il «Testamento di Yalta».
Ma perché in quella torrida estate del 1964 Togliatti era andato nell’Unione sovietica?
L’ipotesi avanzata a suo tempo da Federigo Argentieri secondo cui il segretario del Pci si sarebbe mosso per partecipare al complotto ordito da Breznev per defenestrare Chruscev, è stata di fatto pressoché unanimemente abbandonata o accantonata (perché «non ancora suffragata dalla documentazione», ha detto ad esempio Elena Aga Rossi nell’intervento pronunciato al convegno dell’Istituto Gramsci «Togliatti nel suo tempo», i cui atti sono stati ora pubblicati da Carocci).
Proprio sul «Memoriale» Carlo Spagnolo ha condotto una lunga ricerca i cui risultati sono ora un libro di grande interesse pubblicato da Carocci nel quale l’autore non solo ha messo lucidamente in chiaro i vari aspetti della «questione», ma ha offerto al lettore una visione viva e convincente non solo degli ultimi giorni di Togliatti ma anche del lungo cammino che ha portato ad essi fornendoci così materiali per un nuovo, e per molti aspetti inedito, ritratto dell’uomo e del politico.
Già sappiamo da varie testimonianze che il segretario del Pci non voleva lasciare Roma non solo perché stanco e ammalato, ma anche perché si era venuto a trovare nel partito in una situazione difficile e anche avvilente dopo che alla Conferenza di organizzazione svoltasi a Napoli nel marzo precedente era stato criticato per aver accentuato in modo eccessivo - si disse - i poteri della segreteria, rispolverando così, con le parole di Spagnolo, «uno stile leninista non più adeguato ai tempi». Ad amareggiarlo erano state anche le discussioni sui temi della politica italiana, allora alle prese con la rottura fra Pci e Psi di fronte al centro-sinistra, nonché sul rapporto con l’Urss. (In discussione c’era la proposta sovietica di condannare la Cina attraverso una conferenza internazionale). Si sapeva anche dell’amarezza di Togliatti per il rifiuto opposto da Thorez, quasi certamente ispirato dai sovietici, ad un incontro che avrebbe dovuto aver luogo in occasione del Congresso dei comunisti francesi.
A questo quadro, che già induce a guardare a quella che doveva essere l’ultima battaglia di Togliatti come ad una pagina difficile, Spagnolo aggiunge ora altri elementi ancora che, uniti agli altri, inducono a pensare che fra il Pci e il Pcus si fosse giunti davvero - come del resto era stato ventilato anche in studi precedenti - «sull’orlo della frattura». E non già semplicemente di fronte al rischio di una frattura fra Togliatti e Chruscev giacché le critiche e le proposte del «Memoriale» erano rivolte all’intero gruppo dirigente sovietico (compreso dunque Breznev col quale - come ha rivelato a suo tempo la Jotti - Togliatti era del resto giunto prima di partire per Yalta «quasi alla rissa»).
Non solo: nel «Memoriale» è detto esplicitamente - come fa notare Spagnolo - che il Pci avrebbe esposto le critiche contenute nel documento anche alla riunione preparatoria della Conferenza internazionale già in preparazione.
Tutto sta insomma a dimostrare che si era «sull’orlo della frattura» non solo del Pci col Pcus ma del movimento comunista internazionale (che già aveva perso la Jugoslavia e la Cina). E che così stessero le cose lo si evince inevitabilmente del resto se si legge con attenzione il «Memoriale» nel quale non vi è un solo punto - quando si parla del «modo migliore di combattere le posizioni cinesi» o del «superamento del regime di limitazione e soppressione delle libertà democratiche e personali che era stato instaurato da Stalin» - che avrebbe potuto essere accolto dai sovietici.
Non uno. E Togliatti lo sapeva. La rottura era dunque inevitabile? Di fronte all’interrogativo, Spagnolo sembra ritrarsi un poco. Quel che non abbandona è l’idea che Togliatti non avesse escluso la possibilità di raggiungere con Chruscev un qualche accordo. Anche perché il legame con l’Urss - dice ancora Spagnolo - era ritenuto da Togliatti essenziale perché il Pci potesse portare avanti la sua politica di fronte alle sfide del neocapitalismo e del centro-sinistra.
L’osservazione è seria. È anche vero però che il Togliatti di Yalta non era più quello che nel ’56 aveva identificato la linea del Pci con quella del «campo» sovietico. Né quello del famoso discorso rimasto a lungo segreto sulla difesa «dell’Unione Sovietica che sbaglia» del novembre 1961.
Guardare all’Europa occidentale come faceva Togliatti nel 1964 contrapponendo all’egemonismo sovietico la linea della «unità nella diversità», non significava poi sancire un confine fra il Pci e il Pcus? E ancora quale Urss avrebbe potuto (e voluto) guardare con favore al successo della «via italiana»?
A rendere drammatico il quadro del confronto in programma c’era poi il fatto che - come Spagnolo racconta - quel che Togliatti si apprestava a contestare negli incontri previsti era il mondo stesso al quale aveva dedicato la vita. Contribuendo a costruire - è vero - un partito radicato nella realtà e nella storia italiana e fondato sulla «diversità» rispetto al modello sovietico. Ma che aveva però operato pur sempre, sotto la sua direzione, all’interno del processo storico aperto dalla rivoluzione del 1917. Quel processo storico che lo aveva visto tra i protagonisti ma sul quale in quella ultima notte a Yalta sentiva approssimarsi una crisi senza sbocchi visibili.

l'Unità 11.7.07
Storia di Artemisia, eroina libera e geniale
di Gian Carlo Ferretti


Sessant'anni fa Anna Banti scrisse un romanzo sulla pittrice seicentesca: per la prima volta veniva raccontata la vita di questa artista, una donna in lotta con i pregiudizi del suo tempo

Di Anna Banti c’è una prima Artemisia scritta in piena guerra e perduta nell’estate 1944 sotto le macerie, e ce n’è una seconda pubblicata da Sansoni a Firenze nell’estate di sessant’anni fa. Un’opera costruita sull’intreccio-alternanza di diversi livelli narrativi, e di una prima e terza persona singolare: biografia e romanzo, dialogo della scrittrice con il suo personaggio e ricostruzione inventiva di ambienti e costumi seicenteschi tra Roma, Firenze, Francia, Inghilterra.
«Artemisia Gentileschi, pittrice valentissima fra le poche che la storia ricordi. Nata nel 1598 a Roma, di famiglia pisana. Figlia di Orazio, pittore eccellente. Oltraggiata, appena giovinetta, nell’onore e nell’amore. Vittima svillaneggiata di un pubblico processo di stupro. (…) Una delle prime donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e una parità di spirito fra i due sessi». Così Anna Banti la presenta in un libro dedicato con discrezione «a R. L.», il marito Roberto Longhi, grande critico e studioso principe di Caravaggio e dei caravaggeschi, tra i quali i Gentileschi padre e figlia. Artemisia dunque è una donna ripetutamente offesa: lo stupro, il processo, la vergogna, il matrimonio riparatore con un marito «di ripiego», Antonio Stiattesi. Di qui una incapacità di amare e una maturazione personale precoce e dolorosa.
Ma Artemisia è anche una donna che, a differenza delle altre, sa reagire con orgoglio e determinazione. Eccola perciò mortificare e insieme esaltare la sua femminilità nel lavoro per committenti illustri e nell’autonomia della produzione artistica, trovando la sua rivincita anche nella rappresentazione di antiche eroine, come Giuditta: «tutto quel sangue di Oloferne che stagnava sulla tela».
C’è in lei la consapevolezza di una privilegiata superiorità e libertà, sia rispetto agli uomini schiavi del loro stesso potere, sia rispetto alle altre donne chiuse nelle loro silenziose rivolte: «Poveri uomini (…)travagliati di arroganza e di autorità, costretti da millenni a comandare, (…)queste donne che fingono di dormire al loro fianco e stringono fra le ciglia (…)eecriminazioni, voglie nascoste, segreti progetti. (…)”Ma io dipingo”, scopre Artemisia».
Neppure lei tuttavia può sfuggire a una condizione femminile originaria: è una donna eccezionale che sa dar voce e corpo alle tensioni che fermentano anche dentro la normalità delle sue consorelle, ma al tempo stesso soffre proprio della mancanza di quella loro normalità. Artemisia insomma ha l’inquieta coscienza di una personale incompletezza e vive un difficile processo di integrazione: la necessità di uno status e di una strategia sociale, il recupero del matrimonio in un primo tempo subìto, l’accettazione di un rapporto coniugale istituzionale e insieme paritario, il desiderio e il rinvio di un ritorno alla vera autonomia di pittrice, la ricerca di un equilibrio tra l’appartenere ad altri e l’essere se stessa.
Finché Artemisia fa la scelta di una casa e di una vita tutte sue. Anche se è una scelta che neppure una «donna forte» come lei, può compiere impunemente. Il rapporto con Antonio non sarà più lo stesso, e Artemisia resterà sola con una figlia in grembo, costretta a trasformare la sua pur contrastata completezza di moglie, in una ormai irreversibile e dolorosa autosufficienza di donna-madre. Artemisia si trova così a incarnare uno status del tutto anomalo e indefinibile: «Quale sia, di preciso, la sua condizione, nessun confessore ha saputo spiegarglielo, per quanto abbia insistito: come, del resto, per meditar che faccia, non le è riuscito di riconoscersi e definirsi in una figura esemplare e approvata dal secolo. (…)Questa è donna che in ogni gesto vorrebbe ispirarsi a un modello del suo sesso e del suo tempo (…)e non lo trova».
Nell’affrontare il mondo allora, non le resta che armare di sicurezza e alterigia la sua vulnerabilità e fragilità di donna e donna-madre sola, e di artista sottostimata in quanto donna. Passano gli anni, con una carriera crescente, altri amori e insinuazioni malevole dei vari ambienti, con la figlia maritata e il padre che la chiama in Inghilterra, dove ha una posizione importante ed è un «protetto di Sua Maestà». Qui Artemisia vive il ricongiungimento familiare prima come accettazione di un rapporto protettivo e rassicurante, e poi come regressione filiale, domestica e in definitiva tradizionale: «lavare fazzoletti, lucidare una scatola o un piatto». È il desiderio di normalità sociale e affettiva che torna a farsi sentire.
Il ritorno alla pittura e all’indipendenza le viene quasi imposto da una fama e da un ruolo ineludibili. Di lei si parla alla corte del re, finché la regina siede davanti a lei per un ritratto. Ma il passato di Artemisia torna inesorabile con le sue opposte esperienze, sia nelle offese che deve scontare per la posizione di donna libera e amante, sia nelle ritornanti cure filiali al padre malato. È come un cerchio che si chiude, fino alla morte del padre e di lei.
L’Artemisia di Anna Banti si può interpretare in almeno tre modi. Una prima chiave di lettura sembra scaturire dal bilancio insoddisfatto e autocritico che la scrittrice traccia della sua ricostruzione letteraria, quasi sottolineando la difficoltà-impossibilità oggettiva di liberare Artemisia dalle sue contraddizioni: «L’ho indotta a sottoscrivere i gesti di una madre sola e imperfetta, di una pittrice dal valore dubitoso, di una donna altera ma debole, una donna che vorrebbe esser uomo per sfuggire a se stessa. E da donna a donna l’ho trattata, senza discrezione, senza virile rispetto. Trecento anni di maggiore esperienza non mi hanno insegnato a riscattare una compagna dai suoi errori umani e a ricostruirle una libertà ideale, quella che la affrancava e la esaltava nelle ore di lavoro, che furono tante. E ormai non so che cimentarla, per farla parlare, sui ricordi di una maternità infelice, il solito argomento delle donne».
Ma si può anche sostenere che il personaggio di Artemisia trova una pregnanza di significati proprio nella sua irrisolta contraddittorietà: in quella impossibilità a realizzare un equilibrio tra eccezionalità e normalità, tra l’essere donna in modo tradizionale e trasgressivo, tra il piacere e il peso dell’appartenere ad altri (il padre, il marito, la figlia) e il piacere e peso di appartenere a se stessa (la solitudine, la pittura). Impossibilità perciò a realizzare un modello di esistenza e di comportamento veramente nuovo. E conflitto che attraversa Artemisia in tutte le sue esperienze, da quelle più private a quelle più pubbliche, dal mondo segreto dei sentimenti alla esibita vita di relazione.
La terza interpretazione, che sottintende certamente molte implicazioni delle altre due, è quella più evidente e diretta. Nel presentare all’inizio Artemisia e nel reinventarne poi la storia anche attraverso un ritornante dialogo con lei, Anna Banti valorizza infatti la sua sottile attualità, facendone l’eroina di un audace e vulnerabile protofemminismo.

il manifesto 11.7.07
«Intesa possibile, con il Prc»
Nerozzi (Cgil): la fiaccolata dei «giovani» ricorda fenomeni eversivi. Scalone: «Si lavora con Rifondazione, i veri problemi vengono dalla destra dell'Unione»
di Antonio Sciotto


L'appuntamento è per questa sera alle 19,30: i «giovani», guidati da Roberto Giachetti della Margherita, terranno una serie di fiaccolate davanti a Cgil, Cisl e Uil per protestare contro il «conservatorismo» dei sindacati che difenderebbero chi le tutele le ha già (i dipendenti in età da pensione) contro i diritti dei precari. Intanto Daniele Capezzone, dei Radicali, ha confermato una «marcia dei giovani» in settembre, sulla stessa linea. E' un fiorire di sigle ignote che si candidano a rappresentare i «giovani», e che appaiono più che altro come succursali improvvisate dei partiti dell'Unione interessati a mantenere lo scalone. Di questi nuovi «giovani» abbiamo parlato con Paolo Nerozzi, segretario confederale della Cgil: il sindacato si deve comunque porre, nonostante in questa occasione sia attaccato da destra, il tema di come rispondere al lavoro precario, ancora largamente presente nel paese. Tra l'altro Nerozzi ci ha anticipato che «sullo scalone si è già a un buon punto», e che «le minacce a che l'accordo non si faccia vengono tutte dalla destra della coalizione». Anche con il Prc, la Cgil sarebbe «vicina a chiudere».
Nerozzi, come vi preparate alla fiaccolata dei «giovani»?
Dico innanzitutto che il fatto che si manifesti di fronte alle sedi del sindacato - davanti a Cgil, Cisl e Uil - è un fatto inquietante: in altri casi, in passato, si è trattato di manifestazioni di carattere eversivo. Non vorrei che anche qui fossimo davanti a fenomeni eversivi, spero tanto di sbagliarmi. E' poi altrettanto anomalo che a guidare questi giovani, evidentemente strumentalizzati, sia una persona di 40-50 anni (Giachetti della Margherita, ndr). Ma soprattutto mi chiedo una cosa: chi oggi manifesta contro il sindacato e, presuntamente, per i giovani, ha mai fatto nulla contro la precarietà o per cambiare le leggi attuali? Mi sembra proprio di no.
E' anche vero che la precarietà, con il governo dell'Unione, è diminuita di poco o nulla. Nel lavoro privato, sono stati assunti soltanto i 18 mila dei call center, pari allo 0,5% dei 3,5 milioni di precari del paese. Cosa propone la Cgil contro la precarietà?
Beh, bisogna ricordare anche i 60 mila della scuola, come stanno assumendo varie amministrazioni locali. Anche se realtà come quella di Modena - faccio un esempio - invece si rifiutano. Dopodiché è vero che si può fare ancora tanto e proprio per questo noi ci stiamo battendo. Ritorno sulle cose concrete che la Cgil sta chiedendo: agire non solo sugli ammortizzatori e i contributi figurativi, come in parte si è fatto e come si sta facendo, ma anche sulla casa - offrendo sgravi sugli affitti alle giovani coppie; sugli asili; sulle borse di studio e la formazione. Ma soprattutto, richiesta che sta portando avanti soltanto la Cgil, i contratti a termine.
Voi chiedete di limitarne l'utilizzo, ma il governo è frenato da Confindustria. Ma insomma: se non otteneste questo punto, potreste non firmare?
Diciamo che è un punto importante, che creerebbe seri problemi alla chiusura dell'accordo.
Ma la precarietà è anche i vari nodi della legge 30, i contratti a progetto, che il ministro Damiano non vuole abolire. Su quelli non mettete pregiudiziali? L'anno scorso parte della Cgil era al corteo «Stop precarietà ora». Quest'anno tornerete in piazza?
Io dico una cosa: in questa fase della trattativa ci sono i contratti a termine, ma noi non ci fermiamo qui e da settembre ci concentriamo su tutti gli altri aspetti, di cui fanno parte non solo la legge 30, ma anche la legge Treu, che ha portato degli abusi rispetto a quando fu introdotta. Da settembre possiamo prevedere opportune iniziative di mobilitazione.
La domanda sullo «scalone» è obbligatoria. Avete incontrato i vertici del Prc. Si intravedono punti d'incontro?
Io credo che le posizioni si siano avvicinate, stiamo lavorando. Posso solo dire che si riaffaccia la prima proposta del sindacato, fatta di un mix di scalini e quote, ma esentando una platea di lavori usuranti. Ma chiudo dicendo: il sindacato vuole arrivare a un accordo, mentre dalla destra della coalizione viene una minaccia non solo all'intesa, ma alla stessa sopravvivenza del governo. Queste forze non devono prevalere.

il manifesto 11.7.07
Ma tra governo e sindacati distanze incolmabili
Per Padoa Schioppa una riforma a costo zero. Irrigidimento su quote «scalini» e coefficienti. E il Pd vuole la «stangata» sui lavori usuranti: solo 7mila esenti su 140mila
di Matteo Bartocci


Roma A poche ore dal ritorno di Prodi in Italia il barometro della trattativa sulle pensioni tende decisamente al peggio. Un incontro pomeridiano tra Franco Giordano ed Enrico Letta è servito solo a registrare le reciproche posizioni. «Le distanze con le ipotesi che girano nel governo sono quasi incolmabili. C'è un irrigidimento generale verso qualsiasi richiesta fatta dai sindacati», dicono in serata da via del Policlinico. «Una cosa è certa, il Prc non voterà nulla che non sia coerente con il programma», avverte Maurizio Zipponi, responsabile lavoro del Prc.
Il morale è sotto le scarpe. Uniche note positive di giornata l'esclusione delle donne dalla stangata sulle pensioni e, per il Prc, la fuoriuscita dall'isolamento in cui pareva finito il partito che più di altri aveva fatto dell'abolizione dello «scalone» una questione di vita o di morte. Di abolire lo «scalone», invece, per ora non se ne parla proprio. Anzi. Perfino sulla platea degli esenti le varie ipotesi sono ancora agli antipodi. Da palazzo Chigi avrebbero ventilato una mini esclusione per 7mila persone sulle oltre 140mila bastonate dallo «scalone». Un'ipotesi inaccettabile per il Prc. Mentre si torna a parlare di una nuova offensiva sui coefficienti di calcolo dietro la parola magica «giovani». Sullo scalone invece si fa sempre più concreta l'ipotesi di un mix che non penalizzi i conti pubblici (quindi a costo zero) composto da «scalini» e quote che di fatto ratificherebbero la riforma Maroni solo addolcendola solo un po'.
In ambito sindacale comunque di referendum tra i lavoratori o di mobilitazioni e scioperi nemmeno si parla, al massimo si ipotizza una semplice «consultazione» tra gli iscritti. Dimenticando che, parafrasando Aldo Natoli, si può andare in pensione anche senza avere una tessera in tasca. Dopo le intemerate di Epifani e gli equilibri nel direttivo della Cgil, Rifondazione si è allineata alle mosse sindacali e si è impegnata in un lavoro di tessitura nella maggioranza. Abbastanza coperta, finora, anche la Fiom. Nessuno "scontro" a sinistra nemmeno con Mussi, più vicino ai riformisti che in altre occasioni. Subito prima della stretta finale insomma si intravede di nuovo, almeno per ora, un fronte compatto.
Di tutto ciò la segreteria di ieri di Rifondazione non si è occupata, concentrandosi invece sulla preparazione del prossimo congresso del partito. Sabato e domenica l'assise sarà convocata all'inizio del 2008 dal comitato politico nazionale.. Sarà un appuntamento delicato, soprattutto per la maggioranza «bertinottiana» che voleva focalizzarlo sul «soggetto unitario» a sinistra e invece rischia di iniziare a discuterne all'indomani di una rottura sullo scalone e dopo una finanziaria dai contorni incerti e con un Pd «veltroniano» sempre più «autosufficiente».
Nell'attesa di Prodi, la sensazione dominante è che l'ala riformista del governo si prepari a un braccio di ferro con i sindacati. Oggi il premier inizierà i contatti informali che dovrebbero portarlo a formalizzare un documento definitivo da presentare al consiglio dei ministri di venerdì prossimo. Ma dovrà per forza scontentare qualcuno. «Dovrà scegliere se rilanciare questa coalizione e questo governo recuperando il rapporto con la sua base sociale oppure subire l'offensiva di chi punta tutto sul dopo: un governo istituzionale e una legge elettorale fatta apposta per avvantaggiare il Pd e il futuro partito formato da Fi e An», commenta preoccupato Giovanni Russo Spena. Per la risposta basterà attendere.

il manifesto 11.7.07
La lunga marcia dell'autore italiano più tradotto all'estero
Efficaci strategie In tutto il mondo e in particolare negli Stati Uniti corsi di studio sui testi gramsciani
di Adalberto Minucci


Sono in molti a ritenere che le vicende politiche che hanno segnato la fine del Novecento e i primi anni del nuovo secolo abbiamo coinciso con un abbassamento del livello culturale della società italiana e, in qualche misura, l'abbiano determinato.
Per un periodo assai lungo, delle opere e delle idee di Gramsci si sono occupati essenzialmente (come era giusto, del resto) alcuni studiosi. Più scarso l'interesse del mondo politico e della stessa sinistra - spesso impegnata in ridicole polemiche su chi includere nel «Pantheon» dei suoi padri nobili - proprio in una fase in cui il pensiero di Gramsci era più che mai attuale.
La ripresa di attenzione, oggi, compreso il lancio di nuove edizioni della sua opera, si deve molto, se non soprattutto, alla straordinaria diffusione delle sue idee, delle sue concezioni politiche e filosofiche a livello mondiale. Da qualche decennio, infatti, Gramsci è diventato l'autore italiano più tradotto all'estero. In numerose università americane, australiane (in particolare Sydney), asiatiche e ovviamente europee, vi sono facoltà che dedicano corsi di studio all'opera gramsciana. Per ciò che riguarda gli Stati Uniti in particolare, Joseph A. Buttigieg, riferendosi anche a noti accademici americani in un articolo apparso tempo fa sull'Unità, sottolinea che «l'idea di Gramsci su come fare la rivoluzione in una società occidentale si è rivelata corretta», tanto che negli stessi Usa «la rivoluzione gramsciana continua ad avanzare e a tutt'oggi continua a fare adepti».
Negli ambienti conservatori - scrive ancora Buttigieg - si è fatta strada «la convinzione che il comunista italiano abbia lasciato in eredità alla sinistra una strategia efficace per trasformare radicalmente la società americana dall'interno, corrompendola furtivamente o impadronendosi delle principali istituzioni della società civile. Questa visione della società civile è stata rafforzata dagli intellettuali, dai politici e dai propagandisti di destra che non si stancano mai di lamentare il fatto che la sinistra è impegnata in una «lunga marcia nelle istituzioni», una sorta di guerra culturale di ispirazione gramsciana volta a minare i valori tradizionali» della società statunitense.
Questa attenzione al pensiero di Gramsci è in buona misura riferibile al fatto che il fondatore del Pci viene considerato - in un periodo di grande trasformazione e crisi dei sistemi capitalistici - come il teorico marxista che più di ogni altro ha posto, dopo Marx, la questione della trasformazione sociale nei paesi di capitalismo sviluppato, rimasta irrisolta dopo la vittoria dei bolscevichi. La famosa definizione della Rivoluzione di Ottobre come «una rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx» - titolo di un suo editoriale sull'Avanti! del 24 dicembre 1917 - non è certamente una battuta estemporanea. Pone l'accento sull'arretratezza del capitalismo russo per valutare le grandi e forse insormontabili difficoltà della realizzazione di una nuova formazione sociale.
Non a caso, Gramsci conclude l'articolo augurandosi che l'umanità russa «non cada nello sfacelo più orribile». C'è in Gramsci una concezione del passaggio dall'una all'altra formazione sociale che è in completa sintonia con quella di Marx. Per entrambi, la rivoluzione proletaria e socialista si presenta come una continuità storica della rivoluzione capitalistica e borghese. Marx stesso apre, non a caso, la prima edizione del Capitale con un'affermazione che non lascia spazio a dubbi. «Il mio punto di vista», scrive Marx, «concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come un processo di storia naturale. Anche quando una società è riuscita a intravedere la legge di natura del proprio movimento non può né saltare, né eliminare per decreto le fasi naturali dello svolgimento». Riflettendo sulle vicende del 1848, Marx faceva appello assai significativamente ad una «evoluzione rivoluzionaria». In altri termini, la «classe operaia non ha da realizzare ideali, ma da liberare gli elementi della nuova società dei quali è gravida la vecchia e cadente società borghese». Sono parole che ricordano l'insistenza con cui Enrico Berlinguer esortava a fare emergere con l'iniziativa politica «gli elementi di socialismo» già presenti nella crisi delle moderne società capitalistiche.
La straordinaria attualità di Gramsci è evidenziata oggi non soltanto dal «processo di storia naturale» che muove e mette in crisi il capitalismo attuale, ma anche dal fallimento delle esperienze statali nate dall'Ottobre russo. Già dal carcere egli aveva compreso che un regime politico a partito unico non è in grado di garantire lo sviluppo di una società complessa. Più tardi, un altro comunista italiano, formatosi alla sua scuola, da una tribuna di Mosca avrebbe affermato che la democrazia è un «valore universale» e che non può esservi socialismo senza pluralismo.

il manifesto 11.7.07
Quello che non è scritto nei "Quaderni dal carcere"
di Guido Liguori


Data dagli anni Novanta un interesse reale per la vicenda carceraria di Gramsci, che accompagna l'ormai acquisita coscienza della necessità di leggere i Quaderni in modo diacronico. Essa si nutre di nuovi ritrovamenti negli archivi di Mosca e di un'attenta riconsiderazione degli epistolari di Gramsci e dei suoi interlocutori. Perfetto esempio di questo approccio è il recente libro di Angelo Rossi e Giuseppe Vacca, Gramsci tra Mussolini e Stalin (Fazi, pp. 245, euro 19) che presenta due documenti finora sconosciuti, scritti da Gennaro Gramsci dopo la celebre visita al fratello nel carcere di Turi, inviato da Togliatti per conoscere gli orientamenti del prigioniero in merito alla «svolta» del '29 che inaugurava la politica del socialfascismo.
Nuove ipotesi dai carteggi
Sebbene non contengano rivelazioni eclatanti, questi documenti confermano sia l'interesse con cui Gramsci seguiva gli avvenimenti del «mondo grande e terribile» («sono al corrente di tutto perché le molte riviste che leggo... riportano tutti i fatti salienti della vita mondiale»), sia la netta presa di posizione contro la previsione di repentino crollo del fascismo propria della «svolta» («non credo che la fine sia così vicina. Anzi ti dirò, noi non abbiamo ancora visto niente, il peggio ha da venire»).
Gli autori si spingono avanti nello studio dei carteggi, per formulare nuove ipotesi su alcuni rilevanti passaggi della vicenda. Composto da quattro saggi, firmati dai due autori (ma scritti dichiaratamente dall'uno o dall'altro), il libro offre notevoli materiali e spunti di riflessione, qualche novità di indubbio rilievo, e una serie di ipotesi interessanti pur se discutibili. In particolare, i quattro saggi sono dedicati al rapporto e alla comunicazione tra Gramsci in carcere e il partito, ai documenti inediti stesi da Gennaro dopo la visita del 1930 a Turi, alla ripresa del tema della Costituente (il «cazzotto nell'occhio») con cui Gramsci prospettò nei colloqui con gli altri detenuti comunisti un'alternativa al rozzo ottimismo staliniano affermatosi nel 1928-29 e, infine, all'analisi del 1933, l'ultimo anno trascorso a Turi, e alle ipotesi di liberazione del prigioniero per tramite di una trattativa interstatuale. Ma vengono affrontati nel volume, spesso con acutezza, altri momenti topici della vicenda, quali il ruolo di Sraffa, la lettera di Grieco del '28, l'attenzione con cui Mussolini seguiva le cose di Gramsci, la vigilanza del prigioniero perché mai un suo gesto potesse essere interpretato come capitolazione davanti al fascismo.
Sraffa comunista?
È noto come intorno al capo dei comunisti italiani costretto in carcere vi fosse una rete di persone non solo impegnate nell'aiutare il prigioniero, ma nel garantire una prudente comunicazione con il vertice del partito: il «circolo virtuoso» Gramsci-Tania-Sraffa-Togliatti (e viceversa). Ebbene, gli autori affermano che Sraffa non vi abbia preso parte solo in quanto fidato amico di Gramsci, antifascista e simpatizzante dell'Ordine Nuovo, ma in quanto comunista «sotto copertura», non formalmente iscritto proprio per poter svolgere i compiti particolari affidatigli (lo stesso si afferma di Gennaro Gramsci). Sraffa acquista anzi - attraverso l'analisi della sua corrispondenza con Tania - un forte ruolo dirigente, che ridimensiona implicitamente quello della cognata. La tesi di Sraffa dirigente comunista - almeno nell'ambito dell'affaire Gramsci - è suggestiva, forse non lontana dal vero, ma resta non suffragata da prove documentarie.
Un secondo aspetto da ricordare è quello dei codici di comunicazione che Sraffa e Togliatti avrebbero escogitato per dialogare con Gramsci. Su questo terreno, il libro non è del tutto convincente. È chiaro che il linguaggio gramsciano, a causa della censura, specie nelle Lettere, sia pieno di doppi sensi, di riferimenti impliciti, di messaggi tra le righe. Senza dire del carattere analogico e metaforico del ragionare di Gramsci. Ma che tutto questo si possa definire un codice appare forzato. Si tratta in molti casi di metafore trasparenti, di riferimenti all'attualità appena velati. È chiaro che se Gramsci ragiona sul ruolo di Croce, ha alle spalle un'elaborazione pregressa e condivisa con Togliatti. Per cui parlare di Croce in un certo modo costituisce anche una conferma della «politica di Lione» e dell'analisi della società italiana che essa aveva alle spalle. Che gli interlocutori di Gramsci fossero interessati a decifrarne le opinioni sull'attualità è evidente, come dimostra la lettera di Sraffa a Togliatti in cui si esplicita la volontà di trovare temi di ricerca «il cui contenuto politico possa essere fatto passare sotto veste di letteratura».
L'unico esempio che può essere segnalato come un tentativo di comunicazione codificata è quello relativo allo studio gramsciano sul Canto X dell'Inferno. A tal proposito, viene da osservare che Gramsci non ha scritto in carcere centinaia di pagine su Dante e su temi analoghi al fine di ingannare la censura: sono argomenti che gli interessano in quanto tali. Né è pensabile che egli possa aver piegato la propria interpretazione a motivi esogeni. E, d'altra parte, sembra ben povero il contenuto di tale comunicazione esoterica: come Cavalcante - farebbe intendere il prigioniero - sono preoccupato delle sorti di mio «figlio», il partito; né dovete farmi passare per eroe, voglio combattere anche per uscire vivo di galera... Tutto qui il messaggio «in codice» di Gramsci? Non sembra un granché. Nonostante tali perplessità, va però detto che il lavoro ermeneutico degli autori resta importante per documentare l'attenzione gramsciana all'attualità e la sua opposizione agli indirizzi prevalenti ai vertici dell'Internazionale. Esso fornisce convincenti esempi di interpretazione del carteggio, e indica la ricchezza di una lettura contestuale dell'intero epistolario e dei carteggi paralleli. Che non è merito da poco.
Un terzo punto di rilievo è la sottolineatura dell'attenzione prestata da Gramsci al contesto geopolitico e al riavvicinamento temporaneo verificatosi tra Roma e Mosca dopo l'ascesa al potere di Hitler, anche in relazione alla lotta del prigioniero per ottenere la liberazione e salvarsi la pelle. I forti richiami a Tania (dunque a Togliatti, se non si dimentica il «circolo virtuoso») perché si agisse a livello di Stati, senza coinvolgere il partito, viene spiegato con la consapevolezza gramsciana che il fascismo mai avrebbe concesso la liberazione se essa fosse sembrata un successo delle opposizioni. Questo era stato l'errore già della lettera di Grieco del '28. E molti danni vennero poi compiuti dall'iniziativa delle forze antifasciste fuori d'Italia: esse accusavano il Pcd'I di aver «abbandonato Gramsci», costringendo così anche il partito a incrementare le proteste, che però sortivano effetti opposti a quelli desiderati. In questo quadro, sembra agli autori che sarebbe stata possibile la liberazione del prigioniero in occasione della visita a Roma del ministro degli Esteri sovietico, nel 1933. E viene avanzata l'ipotesi che sia mancata solo, da parte comunista, la volontà di compiere un preciso passo in questo senso. Gramsci vittima di Togliatti? O, come sembra suggerire il libro, di Stalin? Domande ancora una volta senza risposta.
Ma senza supporto di prova resta tutta l'argomentazione. Si tocca qui, mi pare, un punto centrale di metodo: è giusto avanzare ipotesi interpretative non suffragate da alcuna «pezza d'appoggio»? Non si rischia di scrivere così, per certi versi, un romanzo storico? Bisogna ovviamente distinguere da caso a caso. Ma una grande cautela è necessaria quando non si hanno riscontri di fatto.
Esercizi di ermeneutica
Molti altri spunti interessanti offre il libro di Rossi e Vacca. Vorrei ricordarne in conclusione solo un altro, che è anche il più rilevante dal punto di vista teorico-politico: la questione della Costituente di cui ebbe a parlare Gramsci in carcere, il cui problema di fondo è nella valutazione che essa contiene della «fase di transizione» e più in generale del fine della transizione stessa. A tal proposito Vacca scrive: «Sia la teoria dell'egemonia sviluppata nei Quaderni, sia la concezione della "democrazia di nuovo tipo" (le posizioni di Togliatti e Dimitrov, ndr), implicano il superamento della teoria della "rivoluzione proletaria" e della "dittatura del proletariato", e comportano quindi una riformulazione del "fine ultimo", se non il suo abbandono». A me sembra che se con ciò si vuole affermare che Gramsci opera in carcere una ridefinizione profonda dell'idea di rivoluzione, prendendo le distanze definitivamente dal modello bolscevico con una serie di categorie storico-politiche originali (egemonia, guerra di posizione, ecc.) si dice cosa inoppugnabile. Se invece si vuol dire che così viene meno in Gramsci, novello Bernstein, il «fine ultimo» del superamento della società capitalistica, si dice qualcosa che - per quanti esercizi di ermeneutica si facciano - non troviamo scritto nei Quaderni.

Liberazione 11.7.07
Se vincono quelli del referendum l'Italia sarà in mano a un'oligarchia
di Rina Gagliardi


Il disegno dei referendari è chiarissimo: sostituire la "rappresentanza" con un sistema di comando che faccia perno sui poteri forti
approfittando della crisi della politica e dei partiti. Entro sabato devono arrivare a 500mila firme: speriamo che falliscano...

Posso esprimere un (pio) desiderio? Il desiderio è che le cinquecentomila firme necessarie per la partenza del referendum Guzzetta non vengano raggiunte. E che dunque il referendum stesso venga clamorosamente (pre)bocciato dagli elettori. Del resto, è già sufficientemente scandaloso che mezzo milione di firme, che poi notoriamente non verranno mai davvero controllate, possano determinare una consultazione non solo costosa, ma assai pericolosa dal punto di vista democratico. Del resto, quello di cui si sta parlando è tutto fuorché un referendum abrogativo, come la Costituzione prescrive: è un referendum propositivo bello e buono, che ridisegna attraverso una nuova legge elettorale l'assetto futuro del sistema politico e della democrazia rappresentativa. Del resto, infine, esso viene presentato in termini mistificati e manipolatori: come una "lezione" da impartire, indiscriminatamente, alla classe politica, che è, certo anche con fondate ragioni, in uggia alla gran parte della popolazione.
Il referendum - sia chiaro - è uno strumento importante e apprezzabile della dialettica tra "governanti" e "governati" ed è per questo che è stato costituzionalmente regolato: come una chance di cui cittadine e cittadini possono usufruire per abrogare leggi che non condividono, che sono diventate nel tempo ingiuste, che sono invecchiate. Come, insomma, una possibilità che la società civile, le persone normali, i non addetti ai lavori possono sfruttare per correggere i limiti, o gli errori, della rappresentanza. Perciò sulle leggi ordinarie è previsto soltanto il referendum abrogativo: accadde così, per la prima volta, nel mitico 1974, quando i Comitati civici proposero l'abolizione della legge che, all'inizio del 1971, aveva istituito il divorzio. Fu un grande momento di partecipazione e discussione di massa: perché riguardava la vita reale di tutti, e ciascuno, col suo Sì o col suo No, poteva decidere che tipo di famiglia voleva e, indirettamente, che tipo di rapporto tra Chiesa e Stato laico voleva. Ma, man mano che passavano gli anni, il referendum smarrì queste caratteristiche di grande coinvolgimento democratico, diventando per un verso un'arma di lotta politica come un'altra, e un terreno di scontro tra poteri per l'altro verso. Quest'ultima è la faccia reale del referendum Guzzetta: che è sostanzialmente un referendum dei poteri forti, oggi interessati a ridimensionare drasticamente la rappresentanza e a depotenziare la politica di massa. Il bersaglio apparente è la frammentazione del sistema, la proliferazione dei partiti, il potere di veto, o di paralisi, che gli stessi partiti tendono ad esercitare su qualsiasi meccanismo decisionale. Ma l'obiettivo reale è il partito inteso come aggregazione di soggettività, cultura, idee, persone, come luogo di partecipazione alla vita democratica - dunque, come "ingombro". E la strategia che hanno in testa i vari professori, o politici un po' isterici come il ministro Parisi, è quella di un maggioritario fondato su due "partiti" molto simili - due Grandi Centri di opinione, due Non Partiti, che competono tra di loro in una alternanza che non ha, come posta in palio, nessuna delle grandi scelte della politica, la collocazione internazionale, la guerra e la pace, la politica estera. Esse o sono definite via bipartisan, una volta per tutte, o spettano comunque ad altri - a chi governa, ai grandi potentati economici, alle tecnocrazie internazionali. Alle élites, gli "ottimati" capeggiati da Eugenio Scalfari. Guardateli bene, i promotori o i fans di questo referendum: appartengono tutti alle classi alte del Paese, sono professori che credono seriamente di poter spiegare a tutti (magari su "base scientifica") che cos'è il meglio per il Paese, sono un pezzo di governo e di Parlamento, sono torrefattori di un pur ottimo caffè purtroppo "prestati alla politica". Non c'è traccia di società civile, in questa corporazione oligarchica.
Naturalmente, da questi promotori non poteva venire che un'idea, oltre a tutto il resto, astratta e inefficace. L'idea che il premio di maggioranza venga assegnato ad un solo partito, il più forte di una complessa coalizione, non ha in realtà né capo né coda - infatti, non esiste in alcun luogo del mondo. Inoltre, quand'anche questa ipotesi sciagurata venisse votata dagli elettori (stufi della politica castale, stufi di una politica che costa troppo, non in assoluto, ma per quello che riesce a produrre, stufi di veder passare un governo diverso dall'altro, sulla loro strada e scoprire che nella loro vita reale non cambia nulla), sarebbe relativamente facile aggirare il nuovo assetto, e dar vita, alle prossime elezioni, a maxi liste molto composite - al termine del nuovo rito, i partiti e i gruppi parlamentari potrebbero ricostituirsi in parlamento, ridotti sì, ma pur sempre esistenti.
Del resto, solo un tal manipolo di "ottimati" può pensare davvero possibile il ridisegno dall'alto - attraverso la manipolazione del basso - dell'intero sistema politico. La frammentazione dei partiti, come sanno ormai anche i bambini, è un puro frutto maturo del sistema elettorale maggioritario, che ha trasformato in rendita di posizione ogni "pacchetto" elettorale minimamente consistente e ha massimizzato il potere di condizionamento di tutti - non solo dei partiti, ma delle correnti, delle subcorrenti feudali, delle lobbies, e così via. Nella famigerata Prima Repubblica, i partiti veri erano tre e i partiti rappresentati in parlamento non erano più di nove - e tutto questo sulla base di un sistema seriamente proporzionale. E poi? Poi i gruppi sono diventati quarantaquattro, nella scorsa legislatura - oggi sfiorano la trentina, ma soprattutto continuano a nascere. Quando nascerà il Partito Democratico, si scoprirà - il dibattito sulle liste e le candidature in corso è già illuminante - che non i piccoli, ma, appunto, il grande Piddì, che dovrebbe essere l'architrave della terza repubblica, è straframmentato al suo interno: veltroniani puri, veltroniani spuri, parisiani, bersaniani, postdiessini, postmargheritini, rutelliani, mariniani, popolari laici, popolari tiepidamente laici, lettiani, teodem, confindustriali. Quando e se nascesse il Partito unico delle destre, sarebbe all'incirca lo stesso. Insomma, non è la fine della frammentazione (che ha cause molto profonde e complesse, nella crisi della coesione sociale, nella fine delle grandi narrazioni novecentesche, nella corporativizzazione galoppante del tessuto sociale come politico e istituzionale) che sta a cuore ai referendari: è la fine della sinistra, intesa come forza protagonista. Negli Stati Uniti, del resto, c'è forse una sinistra politica al Congresso? No che non c'è. No che non ci può essere, finché è in vigore un sistema elettorale che è stato concepito per impedire alla sinistra di esistere come forza politica, istituzionalmente rappresentata, e per cancellare dall'architettura del sistema ogni possibile rappresentazione degli interessi sociali e di classe, a cominciare dal lavoro. Ma loro, quando parlano di democrazia, è lì che guardano - al paradiso americano. Dove vanno a votare in pochi, dove possono scegliere solo di che presidente morire, dove si può discutere di tante cose, tranne che quale società costruire. Che sogno, vero, ministro Parisi?

martedì 10 luglio 2007

Repubblica 10.7.07
Il ministro della Solidarietà Ferrero: non accettiamo imposizioni
"Il programma vale più dei diktat dell'Europa"
di Luca Iezzi


ROMA - «Quella della Bce è una politica suicida. Francamente sono un pò esterrefatto che il nostro rappresentante nel board della Banca centrale, Bini-Smaghi, proponga queste posizioni. Dovremmo fare anche noi un pò più la voce grossa alla Sarkozy». Il giorno dopo l´intervista di Lorenzo Bini-Smaghi a Repubblica, il ministro della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero, considera l´atteggiamento remissivo verso le istituzioni comunitarie assolutamente controproducente e per dimostrarlo sceglie un esempio politicamente opposto: «Evidentemente con la Bce e con i tecnocrati o gli integralisti come il commissario Joaquin Almunia dobbiamo fare come il presidente francese. Non capisco perché dovremmo farci imporre politiche neoliberiste che nemmeno un governo di destra vuole applicare, senza contare che proprio il commissario ha concesso al vecchio governo di centrodestra un percorso di rientro del deficit più morbido».
Anche non considerando eventuali paletti dall´Europa, rimane il problema tutto interno, l´accordo sulle pensioni è più vicino o più lontano?
«Siamo nel momento del fare, si lavora per trovare una quadra e spero che ci si riesca. Il governo aveva una proposta unica contenuta nel programma, ora dovrà ritrovarne un´altra. Prodi ha detto che lo scalone va abolito e quando avremo ritrovato una visione comune la proporremo».
La trattativa non è semplice: quali strumenti, tra i tanti proposti pensa siano i più adatti al compromesso?
«Proposte tecniche non ne faccio perché so che sono oggetto di discussione e non voglio creare altra confusione. Segnalo quale deve essere la sostanza politica: l´abolizione dello scalone non può essere a costo zero, perché quel tetto è stato messo per far risparmiare l´erario e non distribuire una parte dei contributi che i lavoratori versano. In qualche modo devono tornare indietro, questo è il nostro obiettivo».
E l´ipotesi di alzare l´età di pensionamento di vecchiaia delle donne per compensare questi maggiori costi è una soluzione praticabile?
«Sono assolutamente contrario, le donne già pagano un sistema di welfare che non le tutela perché poco attento alle loro necessità. Inoltre trovo ipocrita l´argomentazione che in questo modo si "permette" alle donne di rimanere al lavoro. In realtà si introduce soltanto l´obbligo a farle rimanere più a lungo a lavoro».
Rifondazione ha già ammesso, ventilando un innalzamento a 58 anni, che si può ragionare in deroga al programma dell´Unione. Ci saranno altri margini per venire incontro agli alleati?
«Non molto, ma vorrei sottolineare che quella è stata una notevole dimostrazione di disponibilità: l´abolizione dello scalone non era scritto sul programma di Rifondazione, ma su quello di tutta l´Unione».
Rimandare la riforma alla Finanziaria aiuterà a trovare un accordo che piaccia a tutti?
«Il nodo deve essere risolto adesso e abbiamo il tempo per farlo prima di settembre, poi lo strumento legislativo lo sceglieremo, può essere anche la Finanziaria, a patto di aver raggiunto l´intesa politica prima».

Repubblica 10.7.07
Il settimanale uscito nonostante lo sciopero distribuisce in allegato il periodico del leader del Prc
Left, i giornalisti criticano Bertinotti


ROMA - In edicola forzando uno sciopero. È l´ultimo episodio della travagliata vita di "Left", settimanale nato dalle ceneri di "Avvenimenti". Un periodico di sinistra il cui editore, denuncia il cdr, «non rispetta le regole sindacali».
La vita di "Left" è segnata dall´ingombrante presenza di una rubrica firmata dallo psichiatra Massimo Fagioli (non la vogliono i primi direttori, Giulietto Chiesa e Adalberto Minucci, che vengono licenziati). Tra i simpatizzanti di Fagioli, Fausto Bertinotti. Il mese scorso il presidente della Camera ha presentato proprio davanti allo psicanalista e a una platea di "fagiolini" un nuovo bimestrale da lui diretto, "Alternative per il socialismo", che esce in allegato a "Left". E adesso che l´editore del settimanale è fortemente contestato per aver pubblicato il periodico nonostante uno sciopero, qualcuno dalla redazione si chiede: «Com´è che il compagno Bertinotti, grande sindacalista, accetta di farsi legare a un giornale che non rispetta le regole sindacali?».
Lo scontro tra proprietà e redazione di "Left" è iniziato il 13 giugno, quando è stata revocata la direzione ad Alberto Ferrigolo. «Non aveva portato una sola copia in più», secondo Luca Bonaccorsi, ad della cooperativa editrice. Seguono due scioperi in un mese. Tra i motivi anche «il ritardo nel pagamento degli stipendi e il licenziamento di due colleghe precarie», che l´amministratore spiega con le «difficoltà economiche, che ci hanno impedito di rinnovare i contratti».
Con le ultime agitazioni Fagioli sembrerebbe non avere a che fare. Ma Andrea Purgatori, ex condirettore di Ferrigolo, sottolinea: «È un dato di fatto che da quando ce ne siamo andati noi, il suo spazio è stato aumentato».

Repubblica 10.7.07
Se la sinistra riparte dall'eguaglianza
di Aldo Schiavone


Un lavoro enorme attende la sinistra italiana – quel che ne rimane in piedi: la ricostituzione di un patrimonio culturale degno di questo nome. Non solo i concetti (che già non è poco), ma i sogni, le emozioni, le speranze, la capacità di discorso e di persuasione. "Beffato il mio amore, congedata la mia fantasia: di tutto il passato non mi resta che il dolore»: i versi dell´"Addio alla corte" di Walter Raleigh sembrano proprio scritti per lei.
E poiché si deve pur cominciare da qualche parte, proveremo a fare un esempio: un piccolo appunto per i nostri cari quarantacinque saggi impegnati a dare un´anima al Partito democratico, ma anche per gli amici che non condividono questo progetto, e che lavorano a costruire la "Cosa rossa". Parleremo dell´idea di eguaglianza (ne abbiamo fatto cenno, qui su "Repubblica", discutendo di socialismo): una bandiera dell´occidente, sin dal pensiero antico ("il nome di tutti più bello": così Erodoto, nel cuore del quinto secolo a. C. – e si stava riferendo all´"isonomia", alla legge eguale per tutti). Una bandiera che la modernità avrebbe consegnato, con diverso successo, al fuoco di due rivoluzioni: prima quella francese, e poi quella russa.
Oggi sembra una parola in difficoltà, che facciamo fatica a pronunciare (mentre tutti sproloquiano di libertà): messa in crisi dai fallimenti del ventesimo secolo, non meno che dall´onda del capitalismo totale che sta dominando l´orizzonte del pianeta. Ma sbagliamo, ed è un errore grave. Perché di eguaglianza avremo presto un gran bisogno, per riuscire a sottrarre il futuro che ci aspetta alla destabilizzazione di squilibri paurosi, indotti dalla forza stessa delle potenze in campo: l´intreccio titanico fra scienza e mercato, nella forma storica che stiamo sperimentando. Dismisure rispetto alle quali le ingiustizie del vecchio capitalismo industriale sembreranno presto non più di un pallido preludio.
Le nuove diseguaglianze non hanno origine – come quelle di una volta – sul terreno della produzione in senso stretto, del conflitto fra capitale e lavoro – insomma dell´economia classicamente intesa – anche se continueranno ad apparire, alla fine, come enormi disparità di ricchezza e di status. Le nuove diseguaglianze saranno tutte, molto prima che diseguaglianze proprietarie o distributive, disparità "di accesso": generate non direttamente dall´economia, ma dal rapporto problematico e ancora oscuro fra l´avanzamento tecnologico e il suo uso sociale (in ultima analisi, fra tecnica e democrazia: sono penetranti a questo riguardo le obiezioni che mi muove Ernesto Galli della Loggia). E riguarderanno per prima cosa il rapporto fra destino individuale e possibilità di disporre in maniera adeguata delle tecnologie da cui dipenderanno sempre di più la costruzione e la conservazione della nostra identità: le tecniche alla guida dei processi conoscitivi in tutti i campi del sapere, della circolazione e della gestione dell´informazione, dello stesso statuto biologico di ciascuno di noi - qualcosa di enormemente più complesso di ciò che oggi chiamiamo "salute", o diritto all´integrità del proprio corpo.
Per fronteggiare l´aggressività di queste asimmetrie abbiamo bisogno di elaborare – da un punto di vista teorico e istituzionale – una nozione radicalmente nuova di eguaglianza: davvero di rifare il lavoro che a suo tempo svilupparono Rousseau e Marx. Di elaborarne un´idea non più statica, chiusa e solo patrimonialistica, come mera redistribuzione della ricchezza prodotta, o peggio ancora (ma quasi nessuno ci pensa più, ormai) come mitico risultato di un´inesistente economia speculare rispetto a quella capitalistica. Un´idea non più intrinsecamente e irriducibilmente anti-competitiva, del tipo di quella che tuttora domina nella cultura sindacale e nel mondo della scuola italiani (per molte, e in parte anche nobili ragioni storiche, che sono ormai però diventate relitti inservibili, dietro i quali si annidano sfacciatamente ottusi privilegi corporativi). Ma in grado di convivere con il mercato e con le sue scelte, per quanto dure, partendo dalla consapevolezza che la forma di merce non è né "naturale" né eterna, e prima o poi sarà sostituita da qualcos´altro; e però è in questo momento, nel suo intreccio con la tecnica, il più importante motore di sviluppo di cui disponga la civiltà umana su questo pianeta: e occorre saper accettare realisticamente questo dato di fatto.
In altri termini, e in positivo: un´idea dinamica e aperta di eguaglianza come potenzialità di accesso e come trasparenza e controllo condiviso sull´allocazione delle tecnologie. Un´eguaglianza che sappia assumere come suo orizzonte politico, per la prima volta nella storia, l´interezza della specie, senza eccezioni, e sappia preservarne – ancora a lungo, quantomeno – la sua unità biologica, ereditata dalla selezione naturale. Un´eguaglianza mai in atto, mai bloccata (come nelle vecchie formule: a ciascuno secondo i suoi bisogni, o i suoi meriti – roba da fine della storia), ma sempre relativa e in divenire, per l´umanità in trasformazione. Un´eguaglianza come parità nella mobilità – spaziale e sociale –, nella fluidità – delle posizioni, delle carriere, delle conoscenze –, nella permanente rimessa in gioco di ogni acquisizione. Un principio in grado di produrre diversità, specificità, differenze: proiettato sull´infinito, immagine mobile di una soglia che tutti possono raggiungere, ma anche tutti superare.
Abbiamo ereditato dai nostri classici una distinzione capitale: quella fra un´eguaglianza formale, politica e giuridica, e un´eguaglianza sostanziale, sociale ed economica. Rousseau ancora la ignorava, ma Marx, sviluppando Hegel, l´ha enfatizzata oltre ogni limite. Nel tentativo di passare dall´una all´altra, la modernità ha sbattuto più volte la testa, provocando orrendi disastri. Credo sia venuto il momento di prendere congedo da lei. Il mondo che ci aspetta integra rischiosamente i piani, non li separa. Eguali di fronte alla legge ed eguali di fronte alla tecnica (e alle sue proiezioni economiche) sono ormai due facce dello stesso problema. Venirne a capo è il compito di un nuovo umanesimo. Ed è qui che siamo arrivati.

Repubblica 10.7.07
L'inconscio svelato
Intervista a Mauro Mancia sul rapporto tra neuroscienze e psicoanalisi
di Luciana Sica


Tra neuroscienziati e analisti il dialogo è stato a lungo difficile ma la "memoria implicita" è una scoperta che cambia l´edificio concettuale di Freud
In un libro gli studi più recenti su come funziona la mente
"Il dialogo è possibile e necessario se si vuole guardare al futuro"

Professore emerito di neurofisiologia alla Statale di Milano, "didatta" della Società psicoanalitica italiana, settantotto anni portati con grazia, Mauro Mancia è un bel nome del mondo freudiano legato a un doppio filone di ricerche: il sogno e le neuroscienze. All´attività onirica della mente e alla ricollocazione del pensiero psicoanalitico su quello che è stato, fin dalle origini, il suo sfondo neurofisiologico Mancia ha dedicato l´intera sua vita di studioso.
È con la sua firma che esce Psicoanalisi e neuroscienze, raccolta di saggi pubblicata da Springer un anno fa in inglese e ora in italiano (pagg. 460, euro 84.95): è un volume collettaneo senz´altro complesso, centrato sulla possibile integrazione tra le più recenti acquisizioni neuroscientifiche nello studio della mente umana e il sapere psicoanalitico, che oggi non s´identifica esclusivamente con il modello freudiano - come dovrebbe essere ovvio, e invece non lo è.
A lungo tra neuroscienziati e psicoanalisti c´è stato un dialogo tra sordi - il primo a scriverlo è lo stesso Mancia. Ora le cose starebbero cambiando di netto, eppure l´impressione è che non pochi analisti, a volte anche illustri, mostrino un totale disinteresse per la scienza, se non proprio un certo sussiegoso disprezzo: innamorati delle loro litanie, invocano la retorica del riduzionismo per dire di una strutturale inadeguatezza delle neuroscienze nel cogliere la complessità della psiche umana.
È una vecchia storia che affonda le radici in un´idea stereotipata e provinciale della cultura umanistica e delle sue anime belle. Il grande Mark Solms - su questo scarso feeling tra analisti e neuroscienziati - ci ha fatto su dell´ironia: quelli che con espressione decisamente trash vengono definiti "i detective dell´anima" sarebbero soggetti a cervello destro dominante, mentre i neuroscienziati sarebbero persone a cervello sinistro dominante: peccato che i due emisferi del cervello dialoghino così malamente tra loro, usando strutture concettuali e forme di comunicazione tanto diverse.
«Ma un buon funzionamento mentale implica l´integrazione dei due emisferi!», scherza a sua volta Mancia, in questa intervista. E poi più serio: «Le osservazioni neuroscientifiche non si sostituiscono ovviamente a quelle psicoanalitiche: diverso è il metodo e diverso è l´approccio, ma sono in grado di offrire dei dati anche sperimentali, di garantire una consistenza anatomofunzionale a determinati aspetti fondanti la teoria psicoanalitica della mente».
Negli ultimi anni, per le neuroscienze è l´emozione al centro della vita psichica, dei meccanismi di funzionamento della mente - il che sembrerebbe di enorme interesse per il discorso psicoanalitico. Emotional Brain è un caposaldo firmato da LeDoux... Eppure resta controversa, molto dubbia, la compatibilità tra il corpus teorico freudiano e le conquiste neuroscientifiche: a lei non sembra, professor Mancia?
«Le ultime ricerche delle neuroscienze sconfinano ampiamente nel campo della psicologia e la psicoanalisi - non dimentichiamolo - è pur sempre una branca della psicologia. L´isolamento è dannoso per tutti, mentre il dialogo - a cui io credo da sempre - può oggi fondarsi non solo sul grande sviluppo delle neuroscienze ma anche su una trasformazione radicale della teoria psicoanalitica della mente che ha avuto inizio già con la Klein, ma che si è via via consolidata negli ultimi anni del Novecento, grazie a contributi molto seri e originali. La psicoanalisi attuale può decisamente giovarsi delle neuroscienze: può estendere, ampliare, approfondire, arricchire le sue concezioni teoriche».
Studiosi come Kandel, Damasio, LeDoux, Edelman sono stati interessati a confermare o a disconoscere l´edificio concettuale di Freud?
«In un certo senso sì, ma non è questo il punto. Non si tratta di affermare - attraverso le neuroscienze - che Freud aveva ragione o torto, per la semplice ragione che quel formidabile "castello" freudiano si è di molto trasformato».
C´è chi non se ne fa una ragione...
«A me impressiona, nei congressi psicoanalitici, l´autoreferenzialità circolare del pensiero, la ossessiva centralità di un sapere che ripete se stesso continuamente, ignorando il grande sviluppo delle teorie che poi comporta un cambiamento delle tecniche terapeutiche e alla fine anche una revisione etica nella relazione con il paziente».
Kandel è stato premiato con il Nobel per i suoi studi sui ricordi. Non è stato il solo, naturalmente. Le neuroscienze hanno accertato l´esistenza di un doppio binario della memoria: quella dichiarativa, esplicita, che può essere freudianamente "rimossa", e un´altra che al contrario non può essere rievocata né verbalizzata e neppure - per così dire - spazzata via. È la memoria implicita che si accumula nei primi due anni di vita, quando non è ancora maturo l´ippocampo, indispensabile per la memoria esplicita... Si direbbero scoperte che stabiliscono un rapporto prepotente con la nozione d´inconscio di Freud, ma è così?
«È senz´altro così. Le esperienze preverbali e presimboliche della memoria implicita s´identificano con un inconscio precoce non rimosso. Non sono perdute, anche se non sono ricordabili: al contrario, sono parti attive della psiche che condizionano l´intera vita affettiva, emozionale, cognitiva... Gli studi neuroscientifici sulla memoria offrono all´analista teorico e clinico degli strumenti preziosi per raggiungere le aree più nascoste e arcaiche della personalità del paziente, aree inconsce dimenticate ma operative in lui che potranno riaffiorare nella relazione analitica».
In che modo?
«C´è un ponte metaforico tra le emozioni vissute nel corso della seduta e quelle della primissima infanzia, la possibilità di cogliere affetti che possono essere comunicati attraverso la musicalità della voce, i tempi e i ritmi del linguaggio, restituendo il senso più profondo alla fiaba personale del paziente. Del resto, l´interesse della psicoanalisi si è spostato dall´edipo al pre-edipo, e cioè alle fasi precocissime della vita, addirittura alla fase prenatale... Non solo le neuroscienze, ma la stessa psicoanalisi ha ampliato di molto l´idea che Freud aveva dell´inconscio».
Lei sembra lontanissimo dalle sofisticate teorizzazioni della "metapsicologia", poco affascinato da quelle grandi narrazioni freudiane che pure attraggono tanti suoi colleghi. Guarda invece con molta fiducia allo sviluppo delle neuroscienze: è questa la strada che va percorsa anche per evitare l´aria da funerale che da anni ormai tira intorno alla psicoanalisi?
«Sì, da freudiano, credo molto nella necessità di percorrere questa strada».

Il nuovo numero di "Psiche"
Se siamo tutti fuori controllo

Stiamo diventando tutti psicotici: sempre più incapaci di elaborare pensieri, emozioni, esperienze. L´affermazione suonerà estrema, senz´altro drastica, ma non irrealistica e neppure tanto paradossale. È una delle questioni che affronta Psiche nel nuovo numero - "Chi ha paura dell´inconscio?", s´intitola - in uscita a giorni.
«I comportamenti della società attuale sembrano caratterizzati da una tendenza ad "agire l´inconscio", come se questo fosse "rivoltato fuori", si fosse persa la necessaria distinzione tra mondo interno e realtà esterna, e i molteplici elementi soggettivi venissero evacuati e frammentati in cose. Una modalità che il pensiero psicoanalitico attribuisce al funzionamento psicotico...»: si legge in un passaggio dell´editoriale di Lorena Preta, che da anni dirige la rivista pubblicata dal Saggiatore.
Diverse le angolazioni e diversi i punti di vista, ma gli autori - non solo analisti - di Psiche riflettono comunque tutti intorno al concetto-limite di inconscio: da Carla De Toffoli ("Il sapere inconscio inscritto nel corpo") ad Alessandra Ginzburg ("Da Freud a Matte Blanco: lo scandalo dell´indivisibilità"), da Domenico Chianese ("L´inconscio fa ancora paura?") a Giulio Giorello ("Da Freud al coccodrillo"), da Ludovico Pratesi ("Identità consapevoli: tre artiste italiane e l´inconscio") allo stesso Mauro Mancia ("L´inconscio e la sua storia").
Incuriosisce il contributo di Marco Francesconi, professore di Psicologia dinamica a Pavia. È ancora nascosta l´identità inconscia? - si chiede - e l´interrogativo di sapore retorico ha una sua grande attualità. «Ha luogo - scrive - un vero e proprio attacco mortifero contro le funzioni del pensiero per tentare di sopprimere il dolore... Si produce uno stato di paura inconscia, di terrore in un soggetto, tuttavia, che non è in grado di contrapporvi un senso di autentica vitalità...». Non sarà uno scenario esaltante, peccato, ma è quello che sembra accadere quando l´inconscio viene "semplicemente" catapultato all´esterno.
Lu. Si.

il Riformista 10.7.07
Comunisti. Un'amichevole gara ad attrarre nomi della cultura
Oliviero sfida Fausto sul terreno dell'intellighenzia
di Ettore Colombo


La prima notizia è che né la responsabile cultura dei comunisti italiani, Paola Pellegrini (che si auto-definisce «una vetero», una «che ascolta Guccini, De Gregori, Dalla e de André») né il segretario del suo partito, Oliviero Diliberto conoscevano un testo fondamentale della musica (e della cultura) italiana, Tutto il resto è noia di Franco Califano (incisa, peraltro, nell'annus mirabilis 1977). Tanto che, a sentire la Pellegrini - toscanaccia che viene dal Pci, è passata per il Prc e approdata al Pdci, dove guida il dipartimento Cultura e oggi sciorìna a memoria decine di nomi filosofi del pensiero, archeologi esperti di Etruschi e sovra-intendenti alle Belle Arti “vicini” al partito - lei e Diliberto ci sono rimasti davvero male, ieri mattina. Quando si sono ritrovati tra le mani l'intervista al Giornale in cui il Califfo non solo li attaccava («I comunisti mi rubano lo slogan») ma rincarava la dose, contro di loro («Per me è un'offesa essere accostato a falce e martello»), dopo essere arrivato a minacciare di sporgere querela, nei loro confronti, dalle colonne del Tempo, già domenica scorsa.
La seconda notizia sta nel fatto - incontrovertibile - che la «Festa nazionale della cultura» organizzata dal Pdci (sottotitolo incriminato, appunto,«Tutto il resto è noia») e che si è aperta lo scorso fine settimana al parco Schuster di Roma, è già un successo. Di critica, s'intende, se non di pubblico.
Tra presentazioni di eventi d'arte con tanto di serigrafie di Alinari, Cascella e D'Andrea, mostre dai titoli facilmente fruibili dalle masse popolari come «Themenos, il tempio dell'amore multiplo», galleria di ritratti di grandi jazzisti e dipinti dell'«Infinito femminile», la Festa della cultura del Pdci ha però un unico obiettivo, e tutto politico. Dimostrare cioè che il partito di Diliberto non è «solo» un partito di “veterocomunisti” magari pure un po' trucidi, e che, soprattutto, non si occupa solo di «operai e pensionati», ma un'organizzazione che dialoga a 360 gradi col fior fiore della cultura italiana. Cultura e “intellighenzia” che, fino a poco tempo fa, sembravano appannaggio esclusivo di Rifondazione e in particolare di Bertinotti. E anche se fosse vero che «non solo non abbiamo alcuna intenzione di rubare intellettuali al Prc ma che ormai sono mesi che filiamo d'amore e d'accordo», come ci tiene subito a puntualizzare la Pellegrini, resta il punto. Ai vertici del Pdci se ne fanno un vanto, ormai, dei rapporti instaurati con le culture e le arti: «Non viviamo di soli temi del lavoro», è il messaggio-chiave.
In concreto, il presidente della Biennale di Venezia Daniele Croff e l'attrice di cinema e di teatro Paola Cortellesi sono due «simpatizzanti» più o meno dichiarati del partito di Diliberto («due compagni» li chiamano), per non dire della ballerina Carla Fracci, dello psichiatra Luigi Cancrini e dell'attore e scrittore Moni Ovadia, che alle iniziative di partito non mancano mai. O di Milva, cantante di formazione brechtiana e streheleriana che - pare - «di Oliviero» è una vera fan, oltre che un'amica personale mentre la figlia, la critica d'arte Martina Lornati, si è persino iscritta al partito. E se dell'impegno pro-Pdci dell'astrofisica Margherita Hack, più volte candidata dal partito, e dell'astronauta Umberto Guidoni, oggi europarlamentare, si sa tutto, meno noto è il fatto che il Pdci, di questi tempi, va forte anche tra i cineasti (alla Festa della Cultura c'erano Ferrara, Scimeca, Gregoretti), storico terreno di consenso di Rifondazione. La Pellegrini mette le mani avanti: «Con Stefania (Braida, responsabile Cultura del Prc e compagna di Citto Maselli, ndr.) lavoriamo in perfetta e totale sinergia». Eppure, al fine di riformare il cinema italiano (e «contro» la proposta di legge avanzata dai due esponenti diessin-diellini Colasio e Franco), il Pdci ha presentato la sua proposta di legge, il Prc un'altra. Ma gli uomini (e le donne, Pellegrini in testa) di Diliberto ne hanno in preparazione anche un'altra sul teatro. E, soprattutto, hanno preso di mira la gestione «privatistica» dei Beni culturali del ministro Rutelli. Contro le cui politiche il Pdci ha organizzato una due giorni di convegno, a Milano, lo scorso febbraio, con il fior fiore degli archivisti, paesaggisti e beni-culturalisti italiani, simpatizzanti o meno che fossero, del partito. Il titolo, allora, fu «Progetto cultura». Vuoi mettere con «Tutto il resto è noia»?

l'Unità 10.7.07
Anniversari. Il bilancio di un «bicentenario» blando e al silenziatore, tra qualche polemica, disattenzione dei mass-media e alcuni buoni libri di storia
Parlare male di Garibaldi? No, meglio parlarne poco. Era troppo anticlericale
di Bruno Gravagnuolo


Ci ha avete fatto caso? Stringi stringi lo scorso 4 luglio, duecentenario della nascita di Giuseppe Garibaldi, è stato povero di celebrazioni. Una esangue cerimonia al Senato, qualche breve servizio ai Tg, pochi articoli di giornale e null’altro. In fondo si potrebbe persino esser grati alla gazzarra della Lega a Palazzo Madama e alle castronerie uscite sulla Padania il giorno stesso a proposito dell’eroe dei due mondi, come pure all’appello antigaribaldino a Napolitano del movimento «cattocentrista» di Lombardo. Perché almeno hanno fornito spunti di polemica.
E lo stesso vale per la stanca «provocazione» di Ernesto Galli Della Loggia sul Risorgimento «sovversivo» dei democratici, «matrice» delle Br. Querimonia logora, che ha preceduto di qualche settimana la ricorrenza garibaldina e che a modo suo (distorto) l’ha nutrita. Più che «parlar male» di Garibaldi, se ne è parlato poco nel circuito mediatico. Perché questo mezzo silenzio? Forse perché l’Italia è stanca dei suoi eroi monumentali o non ci crede più, anche quando sono autentici, visto l’impiego invalsone. Ma stavolta un motivo più forte c’è stato: Garibaldi era un anticlericale senza se e senza ma. E parlarne davvero avrebbe urtato troppe sensibilità, in epoca di neointegralismi, atei devoti, teodem e laicità dimezzata a sinistra. Ecco spiegato l’arcano. Sicché niente film storici, niente speciali, niente paginate, niente dibattitti. Ad eccezione de l’Unità che offre i Garibaldini di Dumas e articoli vari. E di alcuni libri, tre in particolare, eccellenti. Per chi abbia voglia di affrontare il tema.
Ad esempio Il Garibaldi fu ferito di Mario Isnenghi (Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato, Donzelli, pp. 215, euro 14). Una storia critica del mito garibaldino e degli usi che ne sono stati fatti, in primo luogo dal trasformismo italico e dall’interventismo nazionalista. E poi il volume di Eva Cecchinato, Camicie rosse (I garibaldini dall’Unità alla grande guerra, Laterza, pp. 372, euro 20), che documenta il tratto di massa e niente affatto esiguo dell’élite giovanile, popolare e intellettuale, che circondò e accompagnò il generale. Uno strato internazionalista e romantico, con molte donne in prima fila, che crea un immaginario sociale preciso (democratico-radicale) e poi trasmigra a destra nelle generazioni successive, nel mutare delle egemonie politiche (e ci sono note di Gramsci illuminanti su questo). Infine il Garibaldi di Lucy Riall, storica inglese del Risorgimento, che spiega come il condottiero fosse un eccellente «spin doctor» di se stesso, e proprio in ragione di un’acuta percezione da parte sua delle dinamiche politiche interne e internazionali, rispetto a cui il personaggio si «automodula» di volta in volta (sottotitolo L’invenzione di un eroe, Laterza, pp. 605, euro 28).
Che cosa viene fuori dalla lettura comparata dei tre libri? Intanto, che Garibaldi non era affatto un ingenuo. Un eroe «tonto» e generoso. Ma un vero politico d’azione, che capiva i rapporti di forza nella penisola e che accetta l’egemonia moderata del Piemonte, per mettere in moto la situazione. Entrando anche in un doloroso conflitto con Mazzini, eroe intellettuale del «dover essere». Poi viene fuori che il moto risorgimentale non fu tanto minoritario, e aveva una sua effettiva consistenza, specie nei centri urbani. E ancora: Garibaldi fu davvero un uomo creativo e avventuroso. Per nulla illetterato, con una sua formazione foscoliana e alfieriana, capace di maneggiare l’endecasillabo, oltre a saper capitanare navi e a stendere proclami politici. Da ultimo, la cultura politica di Garibaldi. Filantropico-massonica, socialista, anticlericale, o meglio anti-Vaticana. Come molti democratici era infatti convinto che il cattolicesimo temporale fosse un ostacolo all’incivilimento dell’Italia, e che proprio il ruolo del Papato in Italia avesse impedito la formazione di una coscienza civica e nazionale. E tuttavia Garibaldi non era irreligioso, semmai era «deista» e aveva di buon grado al seguito cappellani militari. E il socialismo? Garibaldi lo intravide, militò per la Comune di Parigi e sognò una democrazia repubblicana innestata su leghe, mutue e cooperative. Insomma, fu un eroe di sinistra, che a conoscerlo bene creerebbe ancora imbarazzi. Meglio «glissare». E così è stato.

Liberazione 10.7.07
L'attacco a Rifondazione comunista e ai sindacati è sempre più battente. Parte dalle pensioni. ll fondatore di "Repubblica" si schiera e lo guida. Chiede di cacciare Bertinotti e una legge elettorale anti- Rifondazione. Ieri i leader del Prc hanno incontrato i leader sindacali di Cgil Cisl e Uil
Il partito "no-sinistra" cresce e ha un nuovo leader: Scalfari


Domenica noi abbiamo aperto il nostro giornale denunciando - a voce abbastanza alta - un fronte politico, che si è creato in questi mesi, guidato dalla Confindustria e dalla destra, e che ormai ha arruolato molti esponenti del ceto politico e intellettuale e giornalistico del centrosinistra. Dicevamo che questo partito - che è una specie di "casta" - nell'immediato, si è posto due obiettivi: sconfiggere pesantemente la sinistra, e in particolare il Prc (che è visto come il nucleo centrale, essenziale della sinistra); e punire in modo forte e simbolico la "vecchia" classe operaia (vista come il nucleo centrale, essenziale, del lavoro dipendente). Tutto ciò in nome di un progetto che immagina il futuro della borghesia italiana (considerata la classe generale, cioè quella i cui interessi coincidono con gli interessi del paese) costruito sull'ipotesi di una ulteriore e robusto ridimensionamento dei diritti, del costo e del ruolo politico del mondo del lavoro (a favore del profitto e della rendita). Non ci eravamo affatto sbagliati. E infatti domenica stessa, Repubblica ha pubblicato un lungo articolo del suo fondatore, cioè di Eugenio Scalfari, che si pone alla testa di questo partito, ne rivendica orgogliosamente gli obiettivi, li esalta, indica -in modo semplice e chiaro - i mezzi per cogliere questi obiettivi. Battere la sinistra sulle pensioni, umiliare i sindacati, e poi incoronare il nuovo partito democratico a guida veltroniana, chiedendogli di assumere la leadership di un patto tra imprenditori, finanzieri, grande borghesia e ceti medi, che permetta una emarginazione della destra berlusconiana e un trionfo - scusate se semplifichiamo appena un po' - della famiglia De Benedetti, della famiglia Agnelli e di tutto ciò che si può aggregare attorno a loro. L'articolo, molto netto dal punto di vista del programma politico del nuovo "centro", era invece un po' grossolano sul piano delle informazioni, e conteneva un discreto numero di errori. Sosteneva, per esempio, che nel 2004 i sindacati diedero il via libera alla riforma-Maroni (cosa assolutamente non vera). Nel suo articolo Scalfari chiede al partito democratico una azione a carrarmato contro Rifondazione. Con rimozione di Bertinotti dalla presidenza della Camera e successiva riforma elettorale che permetta l'esclusione dal governo della sinistra. Ieri Scalfari ha ricevuto molte risposte, da quasi tutti gli esponenti dei partiti della sinistra e dai sindacati. Il suo intervento comunque riaccende il clima di scontro nel quale si apre questa settimana che forse sarà decisiva per le pensioni. Ieri ci sono stati una serie di incontri importanti tra i dirigenti di Rifondazione comunista e i dirigenti di Cgil Cisl e Uil. Risulta che su molti argomenti i punti di vista coincidono. Intanto procede la trattativa sulle pensioni minime.

Liberazione 10.7.07
Breve storia della filosofia politica ed editoriale del direttore di Repubblica
Giornale nato fuori dal coro che s'è trasformato in partito moderato
Si scrive «scalfarismo»si legge governo delle élite
di Stefano Bocconetti


E' un po' come uno di quei quiz psicologici che d'estate pubblicano i settimanali a corto di inchieste. Della serie: «Dimmi chi ami e ti dirò chi sei». Nel suo caso, poi, i risultati del minitest non bisogna neanche andarli a cercare nelle ultime pagine, come accade nei periodici. E' tutto così scontato, lineare. Non c'è bisogno di tante interpretazioni. S'è sempre «innamorato» della stessa parte. Di tutto ciò che è elitario, oligarchico. Ha sempre chiesto che fosse una ristretta cerchia ad occuparsi del governo della cosa pubblica. E ha sempre disprezzato tutto ciò che sa di popolare. Di «operaio». Ha sempre scelto la tecnocrazia. In questo un po' figlio dell' azionismo , o meglio di una variante dell'azionismo, che ha tanti altri illustri rappresentanti. Eugenio Scalfari - perché è di lui che si parla, naturalmente - nel suo ultimo editoriale su «Repubblica» ha scritto l'ennesimo capitolo del suo manifesto editorial-politico. Magari in maniera meno brillante di altre occasioni, addirittura raccontando fatti e aneddoti che non sono veri - e sarebbe la prima volta - ma anche domenica ha provato a tratteggiare il ruolo dello scalfarismo. Già, ma che cos'è questo mix di intuizioni giornalistiche, di scelte imprenditoriali e di filosofia politica? Che cos'è davvero lo scalfarismo? Una prima risposta può arrivare per negazione. Lo scalfarismo , insomma, non coincide con la storia di uno dei più famosi giornalisti italiani. Giornalista e scrittore. Più giornalista che scrittore. La sua «ideologia» ha poco a che fare con quell'Eugenio Scalfari che, nel primo dopoguerra, frequenta il partito liberale, e quella cerchia di professionisti che si coagula attorno al Pli. Ha anche poco a che fare con quel ragazzo, o poco più, che entra in contatto col «Mondo» e con «l'Europeo» ma soprattutto con due nomi di spicco dell'intellettualità laica: Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti. C'entra assai poco anche con la sua adesione, nel '55, al partito radicale, o con la successiva scelta di entrare nel Psi (nelle cui liste sarà anche eletto deputato). Forse - ma è tema di dibattito - lo scalfarismo comincia a manifestarsi quando, nel '63, diventa direttore de «l'Espresso». Anche se all'epoca si dedicava quasi esclusivamente ad inchieste su temi che nessuno prima di allora aveva il coraggio di nominare. Impegno giornalistico che ha anche pagato duramente: nel '68, pubblicò assieme a Lino Jannuzzi un'inchiesta sui servizi segreti e su un tentativo di golpe avvenuto nell'estate del '64. E' da allora che nel nostro paese s'è cominciato a parlare di pulsioni autoritarie. Ma all'epoca, c'era una giustizia che sembrava non voler capire: e così, su denuncia di De Lorenzo, uno dei generali coinvolti nel piano eversivo, Scalfari fu condannato. A 14 mesi di reclusione. Questo è prima. Ma se si vogliono date certe, l'unica è andare al '76, quando Scalfari fonda «Repubblica». E' una scommessa, sostenuta dal gruppo l'Espresso e dalla Mondadori, davvero azzardata quella del direttore. Un giornale diverso da tutti gli altri, che rompe la monotonia di cronache politiche raccontate solo dall'angolo di visuale del Palazzo. Una scommessa vinta subito o quasi subito, quando il quotidiano riesce - per un po' - a diventare il primo giornale. Un giornale che riesce addirittura ad incontrare la protesta giovanile, il movimento del '77. Raccontato su «Repubblica» da straordinari cronisti - uno dei quali, il più bravo, si chiamava Carlo Rivolta, non c'è più - come nessun'altra testata riuscì a fare.Poi, ecco lo scalfarismo . La scelta di «sposare» una, e sempre la stessa, fra le tesi che si fronteggiavano nel dibattito democratico. La scelta di innamorarsi sempre di ciò che era ed è più a destra in quella discussione. La scelta di trasformare il suo quotidiano in un partito. In un partito oligarchico che indica di volta in volta chi e come deve governare. E' il 78, l'Italia è scossa da una crisi sociale devastante, di cui il terrorismo ne è un drammatico riflesso. Luciano Lama, segretario Cgil, decide «la svolta dell'Eur». Decide di congelare il conflitto nelle fabbriche per permettere il risanamento dei conti. Prima delle imprese e poi dello Stato. E' la premessa, forse, di quel che accadrà di lì a due anni, alla Fiat. Quando vinceranno le aziende, il sindacato sarà sconfitto e potranno cominciare gli anni '80. Scalfari però non sente ragioni: e mena fendenti per sostenere la legittimità di quella filosofia secondo la quale «il salario deve diventare una variabile dipendente». Si guadagna, insomma, in base a quanto guadagna l'impresa. Poi, nel pieno del decennale buio, lo scalfarismo s'innamora di De Mita. Certo, in questo c'è un'eco del motto maoista secondo il quale «il nemico del mio nemico è mio amico». E visto che Scalfari ha in odio Craxi e la sua corte, «Repubblica» sposa De Mita anche in funzione antisocialista. Ma appunto «anche». In realtà, a Scalfari piace il De Mita che predica - ante literam - il superamento della differenze destra-sinistra. E che è una strada per imporre il governo saggio dei pochi, la vera essenza dello scalfarismo. Naturalmente, la stessa strada la intravede nella battaglia sulla scala mobile a metà anni '80. E infatti Scalfari si schiera a sostegno del taglio voluto da Craxi. Ma in quel caso, il nemico erano i lavoratori, il sindacato. Sindacato che rischia di diventare un ostacolo al governo delle élite illuminate. Un po' come i partiti. Ed eccolo di nuovo Scalfari - all'inizio degli anni 90 - impegnare il suo «giornale-partito» a sostegno del referendum contro le preferenze nelle schede elettorali. Referendum che ha prodotto seri danni alla democrazia, limitando la rappresentanza di chiunque non avesse esposizione mediatica. Ma allora, quel voto diventò il simbolo di chi voleva imporre una logica ipermaggioritaria. Capace di fare a meno dei partiti. E nella stessa logica, forse, rientra anche il sostegno, il dichiarato sostegno offerto da Scalfari ad Occhetto all'epoca dello scioglimento del Pci. Tanto che una leggenda vuole che la decisione della Bolognina sia maturata, nell'ultimo segretario del Pci, dopo un colloquio col direttore di «Repubblica».Il resto è storia recente. La sua feroce, intransigente opposizione al governo Berlusconi. A quello stesso Berlusconi che con la scalata alla Mondadori aveva provato a scippargli il suo gioiello. Vicenda conclusa - anche se ha avuto lunghissimi strascichi - dall'ormai famoso «lodo Ciarrapico» e che ha consentito al gruppo De Benedetti di restare proprietario del giornale. E del partito, rigorosamente schierato nel centro-sinistra. Un'opposizione intransigente al governo di destra. Accusato comunque non per le sue scelte ma soprattutto per la sua «incapacità». Tremonti, Alemanno, Urbani avrebbero dovuto lasciare il posto a chi sapeva governare meglio di loro. Per ultima, la scelta di puntare su Veltroni. Scalfari lo ha «investito» in un editoriale dove - consapevole o no - lo contrappone a quella parte della maggioranza che difende gli operai e i pensionati. Chissà se gli ha fatto davvero un favore. Ma lo scalfarismo è anche questo: molto arbitrio e anche un po' di arroganza. Come in chiunque difenda le élite.

Liberazione 10.7.07
Leggendo il consueto editoriale di Scalfari. Furori e falsità
L'ossessione liberista mangia i principi liberali
di Franco Giordano


Nella sua storica polemica con Luigi Einaudi, Benedetto Croce sostenne la non riducibilità della nozione di liberalismo a quella di liberismo: «Bene la lingua italiana distingue con due affini ma diversi vocaboli "liberalismo" da "liberismo", perché l'uno non è da confondere con l'altro, l'uno pertinente alla sfera morale e l'altro a quella economica», ebbe a scrivere, anzi a pubblicare nel 1948 in una "breve dilucidazione" lasciata inedita per quasi venticinque anni (e rilanciata, appunto, negli anni ruggenti del dopoguerra perché poteva "avere qualche utilità"). Insomma, mentre per Einaudi il liberismo economico era il contenuto "veritiero" della dottrina liberale, per Croce l'idea di libertà doveva sempre prevalere sugli interessi della concorrenza economica. Questa citazione crociana, a noi che crociani non siamo, veniva in mente l'altro giorno, leggendo il consueto editoriale di Eugenio Scalfari sulla Repubblica, dedicato in gran parte alla vicenda delle pensioni. Scalfari passa per un liberale autentico, anzi per un campione del liberalismo nella sua "gloriosa" torsione azionista. Ma da questo articolo appare purtroppo una eredità immeritata: il fondatore del giornale di De Benedetti si manifesta con l'ultima nota domenicale soprattutto un liberista. Uno che sacrifica (quasi) tutti i principi liberali sull'altare delle convenienze economiche e dell'arroganza del "pensiero unico" liberista. Sepellendo così il pensiero liberale.
La tesi di fondo sostenuta da Scalfari è semplice e chiara: il conflitto sociale è una patologia "corporativa", il nemico vero è il movimento sindacale, anch'esso ridotto a una "corporazione" o a una robusta lobby nazionale, la sinistra radicale, e segnatamente il Prc, è un ferrovecchio ideologico, una zavorra da buttare a mare - ai pesci. Tutto questo in nome di un preteso interesse generale, formulato come una specie di Araba fenice, o come un cielo di vaporosa e indistinta astrattezza, al quale urge sacrificare tutto - tutte le soggettività, tutti i soggetti, tutti gli interessi parziali, tutto ciò, insomma, che non si concilia con esso. Il povero Croce, a oltre cinquant'anni dalla morte, deve aver sussultato di brutto: che c'entrano queste idee con un'ispirazione liberale e aperta? Un vero liberale è tutto fuorchè ultimativo, assolutista, totalizzante, com'è Scalfari in questo suo ultimo articolo. Un liberale autentico è convinto che il sale della democrazia sia proprio il conflitto sociale e politico, la competizione degli interessi e delle idee, la legittimità dei soggetti e delle soggettività che danno vita alla dialettica democratica. Invece, un liberista considera l'idea stessa dell'aggregazione di soggettività alternative a quelle delle classi dominanti un "lacciolo", un impiccio, un vincolo insopportabile al libero dispiegarsi della logica del mercato. Come l'ultimo Scalfari, appunto.
Tanto è il furore ideologico (di classe?) che lo muove, che costruisce gran parte del suo ragionamento su un dato falso, quello secondo cui le confederazioni sindacali avrebbero sottoscritto nel 2004 un accordo con il ministro Maroni, scalone compreso: bugia clamorosa, che Epifani, Bonanni e Angeletti hanno prontamente smentito, il giorno dopo. E accusa il Prc di volere la crisi di governo, di accingersi a ripetere il '98, di essere insomma preda di una sindrome estremista: un'altra falsità, il Prc e la sinistra radicale chiedono con grande forza il rispetto di un punto-chiave del programma sulla base del quale l'Unione ha vinto le elezioni - si battono perchè si vada, finalmente, ad un vero risarcimento sociale, avendo fin qui dato ampia prova di lavorare per la tenuta di Prodi, anche accettando compromessi, mediazioni e anche paradigmi di politica economica certo diversi e lontani dai propri. Ma a Scalfari i fatti interessano poco, anzi nulla: gli interessa - come del resto ha fatto sempre - dare addosso al Prc. Come quando arriva ad attaccare frontalmente il Presidente della Camera, intimandogli le dimissioni in quanto critico della politica previdenziale del governo e in quanto, secondo lui, dedito ad un solo obiettivo, la salvaguardia della sinistra antagonista. Ora, a parte il fatto che Fausto Bertinotti sta incarnando il suo ruolo con uno stile di esemplare correttezza istituzionale ( riconosciuto da antipatizzanti e da avversari), da quando in qua esprimere limpidamente un'opinione politica, su una materia di cui sta discutendo tutta l'Italia, sarebbe un reato di "lesa maestà"? Da quando in qua un presidente della Camera deve allinearsi, rigorosamente e pena la cacciata, alle idee del ministro dell'economia o della "maggioranza della maggioranza" di cui fa parte?
Anche qui, compare la stessa visione totalizzante della politica - e delle istituzioni, ridotte a uno spoil system che, in questa forma, non esiste in nessun paese democratico. L'intolleranza nei confronti di chi non sta dentro il perimetro tracciato da "Io", come dice l'ironico Foglio. E dal Partito Democratico di Walter Veltroni: ipse dixit, e da allora per la Repubblica la storia è pressochè finita. Tutti coloro che pensassero di rendere le primarie del 14 ottobre una competizione autentica, scendendo in campo, sono brutalmente bacchettati dalla diffida scalfariana - perfino loro, perfino questi possibili altri candidati alla leadership del Pd, sono ridotti solo a puri intralci, disturbatori del manovratore, sabotatori. Ancora un preoccupante tono autoritativo e autoritario. Ancora un brivido postumo per Benedetto Croce.
Infine, la falsità politico-economica più macroscopica: l'innalzamento dell'età pensionabile motivato come necessità dell'economia, come compatibilità economica dalla quale sarebbe impensabile o impossibile derogare. Non occorre qui citare le cifre che i sindacati, molti economisti e molti veri esperti hanno ampiamente citato sui conti dell'Inps, per ribadire che, in tutta evidenza, a Scalfari sta a cuore ben altro che non l'ottemperanza agli equilibri di bilancio: l'umiliazione dei sindacati e del mondo del lavoro che essi rappresentano, per un verso, l'esaltazione di un astratto interesse generale che, chissà perché, viene puntualmente invocato solo quando si tratta di chiedere sacrifici agli operai, per l'altro verso. Quando mai il leader storico della Repubblica ha chiesto qualcosa di simile, qualche rinuncia, qualche passo indietro agli imprenditori? Quando mai si è preoccupato davvero della condizione di precarietà a cui sono costretti i giovani, avanzando proposte come un salario minimo o almeno un piano straordinario per l'occupazione? Quando mai si è permesso di proporre il foglio di via per presidenti delle camere (come Luciano Violante) che rimanevano giustamente al loro posto quando cambiavano maggioranza, governo e premier? Vedete che cosa succede quando il liberismo divora quegli ideali liberali che, pure, il giovane Scalfari deve pure aver nutrito. Quando ancora pensava, chissà, che senza una sinistra degna di questo nome, senza organizzazioni sindacali forti, senza diritti e garanzie per chi lavora, la democrazia resta un'Incompiuta.

Liberazione 10.7.07
Bertinotti: «Scalfari totalitario
La sinistra ha diritto di parola» Il presidente della Camera replica all'attacco di domenica scorsa su Repubblica
di Angela Mauro


Rifondazione come «palla al piede dei sindacati», che si sono a loro volta macchiati di «collateralismo inquinante» all'epoca del governo Berlusconi nella trattativa sulla riforma Maroni. E ancora Rifondazione «demagogica» sull'abolizione dello "scalone" e sulla richiesta di escludere gli operai dall'innalzamento dell'età pensionabile. Dalle pagine della "sua" Repubblica , con l'editoriale di domenica scorsa, Eugenio Scalfari punta dritto al cuore della sinistra e non fa sconti, nemmeno nei confronti di una carica istituzionale come quella della presidenza della Camera. Il problema di Fausto Bertinotti, scrive il fondatore di Repubblica , è che «non scompaia la sinistra antagonista», in questo «somiglia a Storace che non vuole la scomparsa della destra», e allora, chiede Scalfari, «se il suo partito, da lei incoraggiato, dovesse mettere il governo in crisi, lei lascerebbe contestualmente il suo incarico istituzionale? Sarebbe il minimo che lei possa fare...».
Se sono immediate le repliche, con tanto di smentita, da parte del leader sindacali (Epifani e Angeletti) e persino dello stesso Maroni, non è meno esplicita la presa di posizione del Prc (vedi l'intervento di Giordano su Liberazione oggi) e del presidente della Camera, che riscontra del «nervosismo di troppo» nel confronto in corso sulle pensioni: «un eccesso di fatica a confrontarsi con posizioni totalmente legittime, interne ad un programma concordato». Un modo per dire che non siamo nel '98, che c'è un programma di coalizione che tutti sono tenuti a rispettare e che la sinistra ha il diritto di esprimersi e di esistere, al di là delle evidenti tentazioni di Scalfari e dei riformisti dell'Unione di volerla fuori dalle attuali e future alleanze di governo. Bertinotti comincia con una battuta: «Strano... io sono diventato un po' liberale, ma Scalfari, che liberale era, adesso è totalitario» perchè «uno che pensa che siano valide solo le sue opinioni e che l'interesse nazionale sia determinato solo dal suo pensiero può benissimo definirsi totalitario». Anche Bertinotti non fa sconti: «Siamo di fronte ad un dibattito politico dove tutti hanno diritto di esprimersi, tanto più su una materia come quella delle pensioni. E' giusto ripartire da una rivalutazione del lavoro manuale e riconsegnare al lavoro manuale un ruolo sociale. Quella delle pensioni è una buona materia per questa rivalutazione: Scalfari deve sapersi confrontare con queste argomentazioni, invece che dire questa cosa va bene perchè l'ha detta Almunia o perchè l'ha detta lui stesso». E insiste sulla necessità di escludere operai e turnisti da ogni discorso sull'innalzamento dell'età pensionabile:«Leggi uguali per soggetti diseguali producono grandi diseguaglianze». E sul governo: «Voglio che arrivi a fine legislatura, perchè dal punto di vista delle istituzioni democratiche sarebbe bene che i governi possano durare per l'intera legislatura, ma voglio anche che risponda a quei lavoratori che l'hanno votato».
Scalfari mira in particolare a Rifondazione, protagonista dello scontro in corso sulle pensioni, questione sulla quale - è la tesi del Prc - si gioca il futuro del governo. Ma anche il resto della sinistra si sente chiamata in causa. «L'intenzione vera è di spostare l'asse del governo verso il centro, offrendo una rappresentazione della sinistra come radicale, estremista e incompatibile con qualsiasi alleanza», si infuria Titti Di Salvo, componente della segreteria nazionale della Cgil all'epoca della riforma Maroni e ora capogruppo di Sd alla Camera che spinge per «fare in fretta e bene» nel percorso unitario a sinistra, pur non condividendo i «toni forti» del Prc nelle sue minacce di crisi di governo sulle pensioni. «Si rischia di delegittimare il sindacato», spiega la deputata. Paolo Cento dei Verdi rovescia il ragionamento di Scalfari nel passaggio in cui accusa il Prc di preparare un nuovo '98. «Siamo in un contesto diverso. Oggi la rottura la vogliono i riformisti che non rispettano il programma dell'Unione, che prevede l'abolizione dello "scalone"».

Liberazione 10.7.07
Dopo l'editoriale di Repubblica, parla il segretario confederale Cgil
«Macché corporativi. Vogliamo risposte anche su giovani e anziani»
Nerozzi: «Scalfari dice falsità. C'è chi vuole far cadere Prodi»
di Roberto Farneti


«Scalfari dice delle palesi falsità». Paolo Nerozzi, segretario confederale Cgil, respinge con forza le accuse mosse ai sindacati (e al presidente della Camera Fausto Bertinotti) dal fondatore del quotidiano la Repubblica con l'editoriale di domenica scorsa. «Noi corporativi? Si parla tanto dello scalone, giustamente, ma ricordo - ribatte Nerozzi - che stiamo facendo una trattativa unica. Vogliamo risposte precise anche su pensioni basse e precarietà».

Secondo Scalfari, Cgil Cisl e Uil, chiedendo l'abolizione dello scalone, non starebbero rispettando l'accordo siglato con l'allora ministro Maroni.
Cosa falsa. Contro quella riforma delle pensioni abbiamo fatto molti scioperi, qualcuno da soli, e anche molto duri.

Repubblica però insiste. Ricorda che, in realtà, l'unico sciopero esclusivamente sulle pensioni lo avete fatto nel marzo 2004, dopo l'approvazione della riforma.
Non è vero, ne facemmo uno generale e altri articolati. E' vero che molti scioperi ebbero come bersaglio anche le leggi finanziarie, ma perché dentro le finanziarie c'erano anche le pensioni. Quindi Repubblica continua a mentire sapendo di mentire. Altrettanto falsa è l'affermazione di Scalfari sul presunto accordo tra noi e Maroni per il rinvio della revisione dei coefficienti. Lo stesso Maroni ha smentito, la Cisl e la Uil pure. Perché un giornale si spinge a dire cose talmente false? Aggiungo: perché improvvisamente si scoprono i giovani? Anche qui, un tema viene evocato ma non per risolverlo, bensì per aumentare la confusione sulla trattativa. La mia opinione è che ci sono forze, anche all'interno della maggioranza, che non vogliono fare l'accordo con il sindacato perché non vogliono modificare lo scalone di Maroni. Penso che ci sia qualcuno che lavora per far cadere questo governo e poi addossare la responsabilità ai sindacati "corporativi" o a qualche forza di sinistra.
Prodi ha però già detto chiaramente che lo scalone va superato e che presto farà una sua proposta.
Prodi deve avere il coraggio di fare un accordo con le parti sociali e su questo costringere le forze della maggioranza a esprimersi, anche tramite un voto di fiducia.

Non a caso si parla di inserire l'eventuale intesa sulle pensioni dentro la Finanziaria.
A me questo interessa meno, l'importante è che si faccia l'accordo e si trovi poi il modo per farlo passare, perché lo scopo del sindacato è non avere più lo scalone.

Avete chiesto al governo e a Prodi di presentare una proposta condivisa, ma i sindacati non sembrano compatti. C'è la Cisl che vede con favore il mix di quote e scalini, ipotesi che Uil e Cgil hanno detto di non condividere...
Se c'è l'accordo il sindacato sarà compatto, le proposte che abbiamo finora presentato sono unitarie.

Qual è la linea del Piave della Cgil?
Innanzitutto io penso che i lavori non siano uguali e che ci sono categorie di lavoratori per i quali 57 anni sono anche troppi. Altri possono essere accompagnati da forme di incentivi.

I famosi "lavori usuranti", difficili però da definire...
La nostra proposta è di escludere chi lavora su tre turni, chi lavora alla catena di montaggio, chi fa i lavori cosiddetti "vincolati", cioè ripetitivi. Comunque le strade per arrivare all'accordo sono tante. La base di partenza, che dò per scontata, è che non si parli di alzare l'età pensionabile delle donne e che si possa andare in pensione con 40 anni di contributi. Altrimenti non discutiamo neanche.

Tornando ai giovani. Domani (oggi ndr ) il governo incontrerà una delelegazione del Forum nazionale dei Giovani. Nel frattempo Capezzone sogna una marcia dei 40mila «per dare un futuro ai nostri ragazzi». Il significato propagandistico di queste iniziative è evidente: brandire l'arma del conflitto generazionale per sostenere la necessità dell'innalzamento dell'età pensionabile. Più o meno lo stesso schema utilizzato da Berlusconi quando, per manomettere l'articolo 18, spiegava che se i giovani fanno fatica a trovare lavoro la colpa è delle eccessive tutele sindacali conquistate dai loro padri. In questo caso, l'argomento è che se non si interviene, tra qualche anno l'Inps non avrà più i soldi per pagare le pensioni ai giovani. Cosa rispondi?
La mia prima risposta è una domanda: che cos'è il Forum dei Giovani, chi rappresenta? Mi risulta che tutti i sindacati dei precari, a cominciare dal Nidil, non siano stati invitati. Mi risulta che il sindacato più votato dagli studenti alle recenti elezioni universitari non sia stato invitato. In ogni caso, mi auguro che il governo sottoponga al Forum dei giovani il superamento dei contratti a tempo determinato, norme di sicurezza contro il precariato, misure di sostegno per l'affitto, borse di studio per la formazione e la ricerca. Se non proporrà niente di tutto questo, sarà l'ennesima presa in giro. Quanto alla sostenibilità del sistema previdenziale, dai dati dell'Inps si vede che i soldi ci sono, soprattutto per i lavoratori dipendenti. E ciò grazie anche al contributo dei tanti lavoratori immigrati. L'allarme sui conti e sul futuro dei giovani è perciò strumentale.