giovedì 12 luglio 2007

Repubblica 12.7.07
Il sindacato, l'uguaglianza e lo scalone
di Eugenio Scalfari

IL MIO ARTICOLO di domenica scorsa intitolato "Quando il sindacato si accordò con Maroni" ha suscitato vivaci reazioni da parte del segretario della Cgil, del segretario di "Rifondazione comunista" Franco Giordano e del presidente della Camera, Fausto Bertinotti. Il giornale ufficiale del Prc, "Liberazione" mi ha dedicato tre pagine accusandomi di essere il capo del partito della nuova destra e sforzandosi di dimostrarlo. Tutte queste vivaci critiche mi imputano d'aver scritto falsità perché i sindacati non hanno mai sottoscritto accordi sullo "scalone" con l'allora ministro del Lavoro, Maroni.

Di solito non reagisco a chi contesta le mie opinioni e le mie interpretazioni dei fatti: contestazioni pienamente legittime delle quali, quando mi convincono d'aver sbagliato, prendo atto. Ma in questo caso penso sia doveroso rispondere: troppo aspre le critiche e molto qualificati gli autori perché io possa chiudermi nel silenzio. Del resto il tema è di grande interesse: si è trasformato il movimento sindacale e in particolare la Cgil in una corporazione che guarda soltanto agli interessi particolari dei suoi associati? Ha subito analoga metamorfosi la classe politica in generale e i partiti della sinistra radicale in particolare?

Questo è il tema vero del dibattito, del quale il problema delle pensioni e dell'età pensionabile rappresentano soltanto un aspetto che però tiene sotto scacco da molti mesi il governo e l'intera vicenda politica italiana. A me pare che su di esso si sia manifestata con clamorosa visibilità la natura corporativa di alcuni settori del sindacalismo e della sinistra politica, per difetto di una visione adeguata dell'evoluzione sociale e culturale della modernità.

Prima di passare all'esame delle questioni voglio qui citare il pensiero di Aldo Schiavone sull'eguaglianza; pensiero che interamente condivido e che rappresenta il nocciolo di questo dibattito.

Scrive dunque Schiavone su "Repubblica": "Oggi l'eguaglianza sembra una parola in difficoltà, che facciamo fatica a pronunciare (mentre tutti sproloquiano di libertà) messa in crisi dai fallimenti del ventesimo secolo non meno che dall'onda del capitalismo totale che sta dominando l'orizzonte del pianeta. Ma sbagliamo ed è un errore grave. Perché di eguaglianza avremo presto un gran bisogno per riuscire a sottrarre il futuro alla destabilizzazione di squilibri paurosi, indotti dalla forza stessa delle potenze in campo: l'intreccio tra scienza e mercato nella forma storica che stiamo sperimentando. Dismisura rispetto alla quale le ingiustizie del vecchio capitalismo industriale sembreranno presto non più d'un pallido ricordo. Le nuove diseguaglianze saranno tutte, molto prima che diseguaglianze proprietarie e distributive, disparità "di accesso"; generate non direttamente dall'economia ma dal rapporto ancora oscuro tra l'avanzamento tecnologico e il suo uso sociale".

Disparità di accesso, le chiama Schiavone ed è un modo analogo e aggiornato di definire quella "eguaglianza delle posizioni di partenza" che è stata fin dagli anni Quaranta del secolo scorso il nucleo di pensiero del liberalismo europeo e di quello italiano di Croce e di Einaudi, di Salvemini e di Ernesto Rossi, dei fratelli Rosselli e di Ugo La Malfa. Con buona pace dei miei attuali contraddittori mi metto anch'io in questo gruppo di persone, delle quali ho condiviso il pensiero e - con alcuni di loro - un percorso di vita e di azione mai smentito.

Mi ha fatto sorridere, ma con molta amarezza, l'accenno di un Croce che si starebbe rivoltando nella tomba se potesse aver letto il mio articolo di domenica scorsa; così l'altro accenno ad uno "Scalfari giovane" e uno "Scalfari vecchio" che avrebbe dirazzato da un liberalismo originario in favore di un liberismo totalizzante.

Io non sono così importante da meritare la distinzione tra una fase giovane e una fase vecchia del mio pensiero, che fu applicata al pensiero di alcuni grandissimi come Hegel e Marx. Ma se si vuole studiare l'evoluzione delle mie idee che certamente è avvenuta come accade a tutti quelli che compiono un lavoro intellettuale, si vedrà che essa ha portato un liberale a considerare la sinistra politica come uno strumento adeguato alla trasformazione di se stessa e dunque anche della democrazia italiana coniugando l'eguaglianza con la libertà. Spero, per dirla tutta e fino in fondo, che il nascituro Partito democratico sia l'approdo di questo percorso e quindi mi preoccupano gli ostacoli che gli vengono frapposti quando si fondano non tanto e non soltanto su differenti divisioni ideali ma su logori ideologismi dietro ai quali è facile avvistare istinti di sopravvivenze corporative, interessi ed egoismi particolari, persistenze di apparati e nomenclature ormai estenuati.

Tutto ciò chiarito per quel che mi riguarda, vengo alle poche questioni che hanno animato questo dibattito.

***

Epifani afferma con forza di non aver mai sottoscritto patti con Maroni sullo "scalone" pensionistico e ricorda i molti scioperi che la Cgil promosse, talvolta da sola e talvolta con le altre organizzazioni sindacali, per impedire che l'età pensionabile fosse aumentata.

In effetti non esiste alcun documento comune, redatto e firmato dalla Cgil insieme col ministro del Lavoro dell'epoca. Esiste invece il famoso "Patto per l'Italia" formalmente stipulato con il governo Berlusconi dalla Cisl (Pezzotta) e dalla Uil (Angeletti) che riguardava l'intera politica sociale su una piattaforma compromissoria di reciproche concessioni. Quel patto scatenò una durissima polemica tra le organizzazioni sindacali (la Cgil era ancora guidata da Sergio Cofferati) e di fatto non fu mai attuato.

Ma per quanto riguarda lo "scalone" previdenziale io non ho affatto affermato l'esistenza di un documento sottoscritto, bensì di un accordo sostanziale: i sindacati e la Cgil in particolare avrebbero di fatto consentito l'attuazione della legge delega e Maroni ne avrebbe posticipato di tre anni e mezzo l'entrata in vigore. Inoltre lo stesso Maroni avrebbe fatto slittare la verifica dei coefficienti applicati alle pensioni d'anzianità come previsto dalla riforma Dini; quest'ultima, giova ricordarlo, fu firmata da tutte e tre le organizzazioni sindacali confederali prima ancora che il governo la presentasse al Parlamento.

La data fissata per la verifica dei coefficienti era prevista dalla legge ma Maroni "se ne dimenticò". I sindacati anche. Padoa-Schioppa l'ha riproposta; i sindacati chiedono che sia rinviata ancora; ovviamente, per non turbare acque già molto agitate, la materia è stata affidata ad una commissione che... riferirà.

I sindacati confederali (Cgil in testa) affermano ora, da non più di quarantott'ore, che lo "scalone" non è né il solo e neppure il più importante delle questioni sociali in discussione con il governo. Più importanti sono l'aumento delle pensioni di anzianità al di sotto di una soglia minima, l'avvio di ammortizzatori sociali adeguati, la lotta al precariato, l'entrata in vigore del contratto del pubblico impiego il cui testo, già firmato dalle parti, è stato però oggetto di lunghe discussioni interpretative. Infine la detassazione dei contributi sul lavoro straordinario.

Gran parte di queste importanti questioni sono state risolte. Il round finale è avvenuto tra lunedì e martedì ed ha generato soddisfazione tra tutti gli interessati (un po' meno negli organismi internazionali). Non entro nel merito di questi accordi ma mi limito a constatare che se esiste un collegamento tra le questioni risolte e quella ancora aperta dello "scalone", dovremmo ora aspettarci che la via dell'accordo anche su quest'ultima parte sia in discesa. Invece non sembra così. Lo scalone, definito un aspetto non essenziale dagli stessi interessati, continua però a pesare e a turbare i sonni del governo e ad eccitare la combattività delle organizzazioni sindacali e della sinistra politica. Il governo cerca la quadratura del circolo ma i sindacati finora hanno risposto "niet".

Giordano e Bertinotti non vogliono scalini e scalette al posto dello "scalone": ne vogliono l'abolizione pura e semplice, che avrebbe un costo complessivo di circa dieci miliardi di euro e metterebbe l'Italia di nuovo sotto scacco di fronte alla Commissione europea; cosa che peraltro non preoccupa affatto né Rifondazione, né Diliberto, né Pecoraro Scanio, né il ministro Ferrero (Prc).

Epifani dal canto suo, in un'intervista al "Corriere della Sera" di lunedì scorso, ha ammonito i partiti a non interferire con i sindacati e con la loro autonomia di scelta. Ha perfettamente ragione. Ne sono seguiti incontri con la segreteria di Rifondazione che - hanno detto i partecipanti - si sono conclusi molto bene. Dopodiché la delegazione di quel partito ha ribadito che lo scalone deve essere abolito, punto e basta. Epifani ha ritirato l'ammonimento? Oppure i destinatari non erano i partiti della sinistra radicale? Lo vedremo tra pochi giorni.

Osservo che l'asprezza dello scontro è infinitamente maggiore di quanto avvenne sullo stesso argomento con il ministro Maroni quattro anni fa. Allora (era il 2004) lo scalone passò senza che la politica sociale e pensionistica fosse messa a ferro e fuoco dai sindacati. Ci fu un solo sciopero generale di quattro ore nel 2004, che i sindacati motivarono con la questione pensionistica. Tutti gli altri scioperi indetti tra il 2002 e il 2005 furono diretti contro l'abolizione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori e contro le leggi finanziarie del governo Berlusconi. Nel frattempo la legge Maroni era stata approvata dal Parlamento ma la sua entrata in vigore come pure la revisione dei coefficienti pensionistici furono rinviati al gennaio 2008.

A questo punto le ipotesi sono due: o c'è stato l'accordo, tacito ma non meno evidente, tra Maroni e i sindacati, oppure i sindacati non davano al tema dell'età pensionabile il peso che adesso gli danno. Una terza spiegazione non c'è.

***

Sulle contumelie delle quali sono stato oggetto da parte dei leader di Rifondazione comunista ho già fatto cenno. Ribadisco che non è affatto vero che il programma elettorale dell'Unione preveda l'abolizione dello scalone "senza sé e senza ma". Lo condiziona invece a provvedimenti di gradualità e di compatibilità di bilancio. Questo aspetto è sottaciuto dai miei rissosi interlocutori contro l'evidenza dei testi.

Giordano ritiene incredibile, arrogante e ricattatorio l'invito da me fatto al presidente della Camera di dimettersi in caso di crisi di governo. Non ho affatto scritto questo. Ho scritto che Bertinotti dovrebbe dimettersi qualora il governo andasse in crisi a causa di un voto contrario di Rifondazione motivato dai contrasti previdenziali sui quali il presidente della Camera ha espresso un'opinione che male si concilia con il suo incarico istituzionale. Non c'è né arroganza né tantomeno ricatto. Onorevole Giordano, ricatto è una parola che riguarda un ricattatore e un ricattabile; né Bertinotti è ricattabile né io sono un ricattatore. Lei mi deve dunque delle pubbliche scuse. Io ho semplicemente constatato che Bertinotti interviene troppo spesso su questioni che riguardano la sua competenza "neutrale" di presidente della Camera e che - ove i suoi suggerimenti inducessero il suo partito a provocare la crisi - una persona perbene come lui dovrebbe dimettersi. Punto e fine.

Repubblica 12.7.07
La scoperta del monaco Mendel
I primi passi della genetica tra piselli e moscerini

Perché i figli assomigliano ai genitori
Thomas Hunt Morgan dimostrò che i caratteri ereditari hanno la loro sede nei cromosomi
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza


Tutti abbiamo modo di osservare le grandi somiglianze, ma anche le differenze, fra genitori e figli. Non solo fra noi uomini, ma anche in ogni altro animale e fra le stesse piante. Riprodurre se stessi è anzi l´unica forma di immortalità virtualmente accessibile a chiunque, benché da questo punto di vista gli organismi più semplici, che si dividono in due e generano figli in tutto identici a se stessi, possano sembrare in vantaggio rispetto a chi, come noi, si riproduce per via sessuale.
Nell´Ottocento, Darwin e Wallace (quest´ultimo con un lavoro non altrettanto imponente) dimostravano che le specie viventi cambiano nel corso del tempo. I figli, insomma, non sono sempre un semplice miscuglio dei caratteri dei genitori: si verifica ciò che Darwin definì "discendenza con modificazioni" e che noi oggi chiamiamo semplicemente "evoluzione". Nessuno, però, aveva capito ancora che cosa passasse da genitori a figli, rendendo questi ultimi così simili a chi li ha generati. Né si sapeva come funzionassero i meccanismi dell´eredità: perché a volte un figlio somiglia di più al padre e a volte di più alla madre, e altre volte a nessuno dei due? I tempi erano maturi perché nascesse una scienza nuova, che rendesse conto della trasmissione dei caratteri attraverso le generazioni.
Le sue basi furono poste da un contemporaneo di Darwin e Wallace: un monaco boemo, Gregor Johann Mendel, appassionato naturalista, che incrociò metodicamente per anni piante di pisello odoroso nell´orto del monastero di Brno, in Moravia, di cui sarebbe in seguito divenuto abate. Fra il 1856 e il 1863, Mendel sperimentò su circa 28.000 piante di pisello, osservando come i caratteri dei genitori si riproponessero nelle generazioni successive. Espose i suoi risultati in una conferenza scientifica nel 1865 e li pubblicò nel 1866 sulla rivista dell´Accademia delle Scienze di Brno, in un bellissimo articolo. Aveva scoperto le leggi che regolano la trasmissione dei caratteri ereditari e con i suoi esperimenti aveva fondato una nuova scienza, che avrebbe avuto enorme sviluppo nel secolo successivo. Ma nessuno, anche fra i maggiori scienziati del tempo, gli prestò attenzione.
Trascorsero alcuni decenni, e nel 1900 il suo lavoro fu riscoperto da tre botanici, in Olanda, Austria, Germania. Lavorando indipendentemente l´uno dall´altro, si resero conto che Mendel aveva ragione. Nel 1905, il biologo inglese William Bateson suggerì di chiamare "genetica" la nuova scienza dell´eredità (dalla radice greca ghen, presente anche in molte parole latine che significano "generare", "dare nascita"). Qualche anno dopo, le strutture responsabili della determinazione dei singoli caratteri ereditari, ancora ignote, furono battezzate "geni".
La genetica era nata come scienza sperimentale, con le scoperte di Mendel. Una volta che queste furono confermate, ne derivò una straordinaria mole di ricerca di laboratorio su piante e animali. L´americano Thomas Hunt Morgan fornì dimostrazioni rigorose che i caratteri ereditari hanno la loro sede fisica nei cromosomi, corpiccioli osservabili al microscopio nelle cellule che si stanno dividendo. Per quanto vagamente, era stato ipotizzato già in precedenza che fosse così, anche perché i cromosomi sono di forma e numero costanti e caratteristici in ogni specie (46 nella specie umana). Morgan riuscì a dimostrarlo concentrando i suoi studi su un minuscolo insetto, il moscerino della frutta o dell´aceto (Drosophila), che si trova sulla frutta in fermentazione e ha parte importante nella produzione del vino, in quanto trasporta sugli acini d´uva e sul mosto le cellule di lievito che causeranno la fermentazione alcolica. La Drosofila si riproduce rapidamente, è facile ed economica da allevare, e i suoi cromosomi sono ben visibili al microscopio ottico.
Insieme con Morgan lavorò per venti e più anni, in una stanza dell´Università di Columbia a New York, un piccolo gruppo di genetisti validissimi. Essi poterono dimostrare che i singoli geni, come quelli che determinano, per esempio, il colore degli occhi, la forma delle ali e migliaia di altri caratteri nella drosofila, hanno ciascuno una posizione precisa sui cromosomi, come perle su una collana.
La scienza spesso procede a salti: magari si scopre, per puro caso, un´eccezione a una legge tenuta per vera, oppure accade che una teoria, sottoposta a controllo, si riveli errata. Pare che il detto "l´eccezione conferma la regola" risalga ad Aristotele, ma sembra una contraddizione, ed è più corretto dire che "l´eccezione saggia la regola". Fu così che uno dei primi esperimenti di Morgan (1910) fornì una delle dimostrazioni più belle della teoria cromosomica dell´eredità. Morgan trovò un maschio di Drosofila con gli occhi bianchi e lo incrociò con moscerini normali per controllare se seguiva le leggi di Mendel. I risultati furono sorprendenti. Nella prima generazione tutti i figli avevano occhi normali, di colore rosso: fin qui nulla di speciale, perché Mendel già aveva visto che nella prima generazione un carattere ereditario, che chiamò "recessivo", può non comparire affatto, ma si ripresenta nella seconda generazione se si fanno riprodurre fra loro gli individui della prima generazione. La parola recessivo ("che si ritira") era stata coniata, usando una parola latina, per indicare i geni che possono rimanere nascosti nei figli del primo incrocio ma che ricompaiono regolarmente in precise proporzioni nelle generazioni successive. Mendel non aveva usato la parola gene, che fu introdotta più avanti, ma aveva parlato di "elementi", sottolineando la natura di "unità elementare" della struttura, allora ignota, che trasmette i caratteri ereditari. È questa una proprietà che oggi riconosciamo ai geni.
Nella seconda generazione dell´esperimento di Morgan, il carattere "occhi bianchi" effettivamente ricomparve, come ci si attendeva per un carattere recessivo, ma con una grossa sorpresa: solo i maschi, e solo il 50% dei maschi, avevano gli occhi bianchi, esattamente come il primo scoperto all´inizio. Poteva essere che il carattere fosse "limitato al sesso", cioè si manifestasse solo negli individui di sesso maschile; ma quando Morgan incrociò un maschio a occhi bianchi con una qualunque delle sorelle della prima generazione (una sua zia), che erano tutte a occhi rossi, metà delle figlie e metà dei figli risultarono con gli occhi bianchi, e l´altra metà con gli occhi rossi. Fece allora l´ipotesi che poi risultò giusta, cioè che il carattere occhi rossi o bianchi è determinato dal cromosoma X, uno dei due cromosomi sessuali X e Y.
Nella Drosofila, come nell´uomo e in molti altri organismi, vi è un paio di cromosomi che spiega questo strano comportamento: sono i cromosomi detti sessuali, X e Y. La femmina ha due cromosomi X, quindi è XX, il maschio un X e un cromosoma più piccino, detto Y, quindi è XY. È la presenza del cromosoma Y a determinare il sesso maschile.
Il comportamento di un carattere portato dal cromosoma X ha proprio le caratteristiche osservate da Morgan per il carattere occhi rossi/bianchi. Possiamo rendercene conto, se abbiamo un po´ di pazienza e di acume, tenendo presente che in qualunque cellula del nostro organismo, tranne quelle che permettono la riproduzione (spermatozoi e cellule-ovo), i cromosomi esistono in coppie: uno dei due membri della coppia è trasmesso dal padre, l´altro dalla madre. Tutte queste coppie sono formate da due cromosomi di forma identica, tranne una: quella dei cromosomi sessuali X e Y. Quando si formano le cellule riproduttive, cioè lo spermatozoo e la cellula-ovo, dalla cui unione avrà origine un nuovo individuo, in ognuna di esse entra un solo cromosoma di ogni paio, o l´uno o l´altro, a caso. Se non avvenisse questa riduzione numerica dei cromosomi all´atto della formazione di spermatozoi e cellule-ovo, non sarebbe possibile mantenere il loro numero costante in tutte le cellule di tutti gli individui.
Le femmine generano le cellule-ovo, e poiché nelle cellule dell´organismo femminile entrambi i cromosomi sessuali sono X, ogni cellula-ovo ha un solo cromosoma X. I maschi generano gli spermatozoi, ma poiché nelle cellule dell´organismo maschile la coppia di cromosomi sessuali è formata da un X e da un Y, gli spermatozoi sono di due tipi: spermatozoi con X e spermatozoi con Y, in numero eguale. Il gene che determina il colore bianco degli occhi deve essere quindi nel cromosoma X, e manca nell´Y.
Per capire a fondo questa scoperta fondamentale basta fare un altro piccolo sforzo. Teniamo presente che, come appena detto, nelle cellule dell´organismo maschile i cromosomi sessuali sono l´uno X e l´altro Y. Chiamiamo X il cromosoma X del primo maschio con gli occhi bianchi trovato da Morgan. Incrociamolo a una femmina con gli occhi normali, i cui due cromosomi X non hanno il gene b, ma un suo equivalente che rende gli occhi rossi, come è normale nelle drosofile, per cui li chiameremo semplicemente X. I cromosomi del primo maschio sono XY, per cui il 50% degli spermatozoi che egli produce hanno un solo cromosoma Y, e l´altro 50% un solo X. La femmina con cui lo si incrocia è normale, XX, e tutte le sue cellule-ovo sono X.
I figli maschi ricevono così dal padre l´Y e dalla madre l´X (normale): sono quindi XY, con i consueti occhi rossi. Le femmine invece ricevono dalla madre un X e dal padre un X, per cui sono XX: hanno anche loro gli occhi rossi, perché il gene per gli occhi bianchi è recessivo, cioè si nasconde dietro il gene normale. Nella prima generazione quindi gli occhi bianchi non ricompaiono. Tutte le femmine di questa generazione sono però XX, per cui producono metà cellule-ovo X e metà X. Incrociandole con maschi a occhi bianchi, come sono i loro padri, nei figli si trova esattamente il risultato che fu osservato da Morgan: metà dei moscerini hanno gli occhi bianchi e metà rossi, sia tra le femmine sia tra i maschi. Perché la metà esatta? perché ogni figlio può ricevere dal padre XY solo un Y o un X, e dalla madre XX solo un X o un X. Ora, YX è un maschio a occhi rossi e YX un maschio a occhi bianchi, mentre XX è una femmina a occhi rossi e XX una femmina a occhi bianchi.
In pratica, si trattava semplicemente di una estensione delle leggi di Mendel, relativa a un cromosoma speciale, che è diverso nei due sessi, a differenza degli altri cromosomi. Si può ben dire che si trattava di un´eccezione che "confermava" le leggi di Mendel, o meglio che ne ampliava l´applicazione.
La successiva scoperta importante del gruppo di Morgan generò una nuova eccezione a una legge di Mendel, che fu nuovamente confermata, ma stavolta limitandola. Mendel aveva lavorato su sette caratteri diversi nei piselli (forma e colore del seme, del baccello e così via) e aveva concluso che caratteri diversi si ereditano indipendentemente l´uno dall´altro. Sperimentando con Drosofila si scoprirono molti altri caratteri portati dal cromosoma X e si vide che non venivano ereditati in modo del tutto indipendente dal colore bianco degli occhi. Uno di questi caratteri è il colore bruno piuttosto che giallo del corpo; altri arricciano o accorciano i peli del corpo, modificano la forma delle ali e così via. Risultò chiaro che caratteri portati dallo stesso cromosoma sono ereditati insieme, tanto più spesso quanto più sono vicini sul cromosoma. La relazione è così precisa che la si può usare per studiare l´ordine e la distanza dei geni sui cromosomi, cioè per costruire "mappe cromosomiche".
Era nata la teoria cromosomica dell´eredità. Oggi, lo studio del DNA conferma in pieno ciò che i genetisti avevano visto mediante i loro incroci, ma per comprenderlo sarebbe stato necessario parecchio altro lavoro.
(2. continua)

Corriere della Sera 12.7.07
Pensioni, da Rifondazione stop sugli «scalini»
Ferrero: offensiva neocentrista sulla riforma, ma la soluzione è lontana
di S.Riz.


ROMA — Parola di Paolo Ferrero: «Sulla vicenda delle pensioni si sta respirando una insistente iniziativa neocentrista che rischia di avere la meglio non solo sul programma dell'Unione ma su ogni tipo di ragionevole proposta di soluzione ». Rifondazione comunista, quindi, non molla. Accreditando ancora di più la tesi del segretario della Cgil Guglielmo Epifani, secondo il quale «sarà una trattativa dura ». Se il ministro della Solidarietà sociale considera infatti l'accordo per l'aumento delle pensioni minime, che insieme al provvedimento sull'Iva per le auto aziendali finirà nel decreto legge che distribuisce i 2,5 miliardi di euro del tesoretto, «un passo avanti», insiste comunque sul fatto che lo scalone Maroni, meccanismo che farebbe passare l'età minima pensionabile da 57 a 60 anni dal primo gennaio prossimo, «va tolto. E su questo siamo ancora lontani».
Ancora più categorico, se possibile, il segretario del partito Franco Giordano, che ha commentato la proposta di un nuovo patto intergenerazionale avanzata in una lettera a Repubblica da Walter Veltroni citando la «statistica» di un famoso poeta romanesco: «Togliere ai lavoratori per dare ai giovani, ma che patto è quello che propone Veltroni, il patto del pollo di Trilussa?» Il fuoco di sbarramento della sinistra radicale contro la proposta di sostituire lo scalone con gli scalini e poi le quote (somma dell'età anagrafica e dell'anzianità contributiva) sta raggiungendo il livello massimo in vista della fase decisiva della trattativa. Ma ha tutto il sapore di una manovra piena di tatticismo. Anche se dai toni un po' accesi. Ieri è toccato al capogruppo di Rifondazione in Senato, Giovanni Russo Spena, definire addirittura «indecente la campagna che cerca di accreditare la tesi bugiarda del conflitto fra giovani e anziani».
Rientrato da Israele, Romano Prodi sta lavorando a una proposta contro la quale i Cub hanno già indetto uno sciopero per domani. Ieri il premier ha benedetto l'intesa sulle pensioni basse. «L'ho voluta io», ha risposto a chi gli chiedeva un commento. Mentre il segretario dei Ds Piero Fassino ha ribadito il giudizio positivo sull'idea di Damiano di ammorbidire lo scalone con scalini e quote.
L'accordo sull'aumento delle pensioni basse continua tuttavia a far discutere. Non piace infatti ai lavoratori autonomi perché nel loro caso sono previsti più anni di contributi rispetto ai dipendenti per accedere ai benefici. Giudizio condiviso anche dall'ex ministro leghista del Lavoro, Roberto Maroni, per il quale, inoltre, l'adeguamento «altro non è che una mancia, quasi un'elemosina. Un caffè al giorno».

Corriere della Sera 12.7.07
Il presidente della Camera: sono sconcertato. E al Senato lite tra il leghista Castelli e la diessina Finocchiaro
Bertinotti: brogli, il governo chiarisca
La Procura di Roma sequestra il video sulle schede «truccate» in Australia
di R.R.


ROMA — Se dopo le elezioni tutti i partiti — vincitori e sconfitti — trovano il modo di dire «siamo andati bene», adesso tutti chiedono verifiche e pubblico dibattito sul video girato con un telefonino e che mostra presunti brogli nella circoscrizione Africa-Asia-Oceania-Antartide, con schede elettorali compilate in un garage australiano.
Ieri il presidente della Camera Fausto Bertinotti ha definito la vicenda «effettivamente sconcertante»: «Penso sia ragionevole concorrere nella sollecitazione al governo affinché, nel pieno rispetto dell'autonomia della magistratura, possano essere raccolte informazioni che possano essere fornite alla Camera». La magistratura in effetti già procede. La Procura di Roma, attraverso il pm Salvatore Vitello, ha disposto il sequestro del video pubblicato dal sito Repubblica.it. Vitello, che da tempo indaga su altre presunte violazioni elettorali all'estero denunciate da Forza Italia, ha incaricato la Digos di acquisire il filmato.
Ma è la politica a condurre la partita più rumorosa. Appena scoppiato il caso, martedì, l'opposizione ha cominciato a chiedere un'accelerazione sul controllo delle schede, già sollecitato subito dopo che il centrosinistra ha vinto le Politiche del 2006 per circa ventiquattromila voti. E ieri la richiesta è stata ripetuta da Forza Italia, unita all'invito di An al governo di riferire in Aula e alle accuse lanciate dal capogruppo della Lega al Senato, Roberto Castelli: «Dobbiamo domandarci se Palazzo Madama rappresenta veramente il voto popolare, oppure se è illegittima».
La risposta arriva dalla diessina presidente dei senatori dell'Ulivo, Anna Finocchiaro; la quale, prima ancora di Bertinotti, si esprime «formalmente per un dibattito pubblico su questa mistificazione, su questa macchinazione dei presunti brogli per gli italiani eletti all' estero». A lei si associa Gianclaudio Bressa, esponente Margherita I PRECEDENTI
vicepresidente dell'Ulivo alla Camera: «Ben venga il chiarimento del governo. Sarà utile capire chi sia all'origine di episodi così vergognosi».
Intanto Paolo Rajo, autore del video e candidato trombato nella circoscrizione al centro di questa polemica, insiste: «Il senatore Randazzo e l'onorevole Fedi (entrambi hanno conquistato quel seggio per l'Ulivo, ndr) sapevano da tempo. E anche l'Udeur era informato dell'esistenza del video».
Per l'Udeur, appunto, ironizza il ministro della Giustizia Clemente Mastella: «Tutti si lamentano di questa vicenda. Noi siamo l'unico partito rimasto fregato, e rimaniamo zitti». Mentre molti, nel centrosinistra, continuano a interrogarsi sulla consistenza della "prova- filmato": alcune delle schede riprese sembrerebbero diverse da quelle a norma, e poi, sono arrivate al consolato italiano? Se sì, sono state conteggiate? Certamente, non è Rajo la persona in grado di sciogliere i dubbi: «Io ho ripreso con il mio telefonino. Se poi le schede non erano quelle originali, questo io non lo so».

l'Unità 12.7.07
Staminali, torniamo a parlarne
di Maurizio Mori


La ricerca sulle cellule staminali - embrionali o da adulto che siano - ha aperto una «nuova frontiera» per la scienza. Gli studi fervono, ed anche le polemiche. Alcuni cercano di screditare i progetti di ricerca degli altri, dando luogo ad un’anomalia scientifica. Per contrastare questa tendenza (molto italiana ed ideologica) e per sostenere la loro ricerca, gli scienziati italiani che studiano anche le staminali embrionali hanno costituito un gruppo che, in collaborazione con la Consulta di Bioetica, Politeia, l’Associazione Coscioni e per la Rosa nel Pugno tiene oggi a Roma (Sala delle Colonne, Palazzo Marini) il 2° Convegno nazionale.
Oltre a presentare i risultati ottenuti dalle ricerche fatte, gli scienziati le difendono dalle critiche e passano al contrattacco osservando che la tesi della «sacralità dell’embrione» non può prevaricare il legittimo pluralismo etico diffuso sul tema e giustificare quella che Flamigni ha efficacemente chiamato la «dittatura dell’embrione». Di fatto, i cattolici che sostengono le posizioni vaticane sono nettamente contrari alla ricerca sulle staminali, ma è noto che altri cattolici hanno posizioni diverse, come tesi diverse sono sostenute dai laici e da altre confessioni religiose - ad esempio i protestanti, i musulmani. La ricerca va fatta a tutto campo, con le staminali da adulto ed anche con quelle embrionali, perché tra le due linee di ricerca non c’è contrapposizione ma sinergia.
Questo è lo spirito che anima la ricerca scientifica non appesantita da pregiudizi ideologici. Gli ostacoli o i ritardi frapposti alla ricerca sono causa di positivi danni per lo sviluppo delle conoscenze e - forse - anche per il conseguimento di possibili terapie.
Come passo concreto per superare la imperante «dittatura dell’embrione», gli scienziati chiedono di potere accedere anche ai finanziamenti pubblici italiani, perché l’attuale situazione discrimina e penalizza la ricerca sulle staminali embrionali. L’auspicio è che l’esecutivo di centro-sinistra dia una risposta incoraggiante alla richiesta, mostrando di avere cambiato rotta rispetto al governo precedente. Stiamo a vedere.
*Presidente della Consulta di Bioetica, Milano - Università di Torino

l'Unità 12.7.07
Cocaina boom: +62% tra i giovani
La relazione al Parlamento: i consumi continuano a salire e i prezzi vanno giù, spinelli comprati a scuola
Con la Fini-Giovanardi arresti a raffica, ma nessuna efficacia. Ferrero: presto la nuova legge

di Anna Tarquini


IL MERCATO ITALIANO della droga è secondo in Europa per consumo, dopo la Spagna ed è boom di cocaina, specialmente tra i giovani, visto che i prezzi di quella che un tempo era una droga da ricchi, continuano a scendere vertiginosamente. La relazio-
ne al Parlamento sulle tossicodipendenze presentata ieri dal ministro della Solidarietà Ferrero conferma sostanzialmente le linee di tendenza degli ultimi anni, ma è anche piena di nuovi scenari: dice ad esempio che sette studenti su dieci sanno dove poter trovare uno spinello e uno dei luoghi deputati è la scuola; dice che le comunità terapeutiche stanno fallendo per mancanza di fondi; dice che è un proliferare di test casalinghi comprati dai genitori per verificare se i figli si drogano; dice, anche, che nel 2006 ci sono state oltre 55mila segnalazioni per violazione della legge sulla droga. Che sono state arrestate 25.399 persone (più 219 minori) e che questa cifra è pari a un quarto dei 91mila ingressi annui nelle carceri. Il 27% del totale degli arrestati è solo consumatore.
Più coca, più spinelli, meno alcool. Nel 2006 in Italia ci sono stati 517 decessi per overdose; un dato stabile dopo il picco massimo toccato nel 1996 con 1.556 deceduti e l’età è progressivamente aumentata. Ma la relazione fornisce anche un dato sulle morti per eccesso da alcool: circa 24.000 decessi e riguardano più di 17.000 uomini e circa 7.000 donne. Dice Ferrero: «Il fenomeno droga è un fenomeno ormai radicato che per essere combattuto deve vedere al primo posto la prevenzione ma anche il miglioramento e il potenziamento dei servizi». I Sert sono in difficoltà e non va meglio alle Comunità terapeutiche che, denuncia Ferrero nell’introduzione alla relazione, «hanno subito un vero e proprio salasso economico. Dal 1996, anno in cui si è censito il picco delle strutture residenziali per le dipendenze (1372 con circa 24.000 utenti), ad oggi, la diminuzione delle strutture è stata considerevole: 730 comunità residenziali e 204 semiresidenziali, con un’utenza di non più di 11.000 persone. «La comunità terapeutica - sottolinea il Ministro - permane uno tra gli strumenti fondamentali di cui dispone il sistema dei servizi per la cura e la riabilitazione». Ma c’è anche un problema di legge: i dati della relazione dicono anche che è urgente superare la Fini-Giovanardi e in fretta. «Spero che il disegno di legge - dice Ferrero - possa essere definito entro l’estate, la ricerca di un accordo è importante». «Siamo ancora all’ideologia - dice - . C’è una aumento della cocaina che non è sottoposta, come invece l’eroina, a stigma sociale. Una sostanza considerata un mezzo per star meglio nella società».
Il rapporto è chiaro: il consumo di cocaina, seppure sporadico ed occasionale, è fortemente cresciuto fra i giovani. Nei maschi, ad esempio, fra i 25 e 34 anni in due anni (2003-2005) ha registrato un aumento del 62%. I ricercatori del Cnr hanno poi stimato che gli studenti della scuola superiore che nel 2006 hanno avuto un contatto con la cocaina, una o più volte, sono stati 97 mila. Di questi, 12 mila ne hanno fatto un uso frequente. E i prezzi? Dal 2001 al 2006, la media per la cocaina è passata da 99 a 83 euro; per l’eroina da 68 a 52 euro per quella nera e da 84 a 78 per quella bianca. Dice Ferrero, «oramai è alla portata di tutte le tasche».

il manifesto 12.7.07
Rifondazione teme la crisi e si trincera dietro la Cgil
Perfetta sintonia dal vertice Mussi-Giordano su pensioni e unità a sinistra. Il Prc denuncia una «manovra neocentrista» di Ds e Margherita ma esclude una rottura come nel '98. In piazza a settembre su giovani e precarietà
di Matteo Bartocci


Roma «Prodi si sbrighi, faccia la sua proposta e chiuda una situazione che sembra una pagliacciata», tuona un Raffaele Bonanni furioso per la fiaccolata «rutelliana» contro i sindacati. Ma se la Cisl è costretta a manifestare sotto la sede dell'Ulivo alla vigilia della proposta prodiana sulle pensioni, vuol dire che la «maionese» dell'Unione è definitivamente impazzita. Avvitata in una crisi seria, profonda e tutta politica.
Viste da sinistra ci sono tutte le premesse per una manovra «neocentrista» di Ds e Margherita che mirano all'«autosufficienza» del Pd e a recuperare consenso al Nord in vista del voto anticipato. Sospetti avvalorati, per il Prc, dall' apertura di Fassino all'Udc, l'accelerazione sul referendum «taglia-partiti» e dalla lettera con cui Veltroni si schiera più o meno apertamente con Padoa Schioppa e Rutelli contro i sindacati. «Se il governo prepara una soluzione che dà gli stessi risparmi dello scalone (circa 7,5 miliardi) per noi è inaccettabile», avverte Maurizio Zipponi, responsabile lavoro di Rifondazione: «Temiamo però che Prodi si prepari a presentare una proposta 'prendere o lasciare' scaricando sul Prc la responsabilità di una crisi che invece va tutta cercata nelle dinamiche interne al partito democratico». E' in questo clima decisamente cupo che Giordano e Mussi, con i rispettivi stati maggiori, si sono incontrati ieri alla camera per fare il punto sull'unità a sinistra e la trattativa sulle pensioni.
Sul tavolo grandissima preoccupazione e non poca indignazione per il «delirante patto generazionale» lanciato da Veltroni su Repubblica. Proposta contro la quale Mussi e Giordano hanno convenuto di centrare la manifestazione unitaria di settembre proprio sulla precarietà, reddito minimo per i giovani e il «superamento» della legge 30.
Avanti con i piedi di piombo. Sulle pensioni Rifondazione si è allineata sulla linea Mussi ufficializzando la scelta di «affidarsi alla trattativa sindacale» e di «escludere una rottura con la maggioranza come nel '98». Ufficialmente ci si trincera sulla proposta Epifani di uno «scalino» a 58 anni senza automatismi. Un'ipotesi giudicata «quasi impossibile» nello stesso Prc. Che va alla "guerra" quasi disarmato. «Per la sinistra siamo alla vigilia di un Afghanistan al cubo - attacca Giorgio Cremaschi, Fiom-Rete 28 aprile - introdurre gli scalini e tagliare i coefficienti come ha fatto Padoa Schioppa nel Dpef significa fare una riforma peggiore dello 'scalone' e ribaltare il programma».
La base di partenza nel governo però è nota: «scalini» dai 58 anni nel 2008 con «quote» di anzianità contributiva. Il problema è che per Padoa Schioppa la riforma della legge Maroni deve essere fatta a costo zero per i conti pubblici e anzi portare gli stessi benefici della «stangata» a orologeria votata dalle destre. Una chiara scelta ideologica: da «salario differito» le pensioni diventerebbero una variabile dipendente dei conti pubblici a tutto vantaggio della previdenza privata già spronata con la riforma appena varata del Tfr.
Per tutto il giorno bocche ben cucite da palazzo Chigi. Tornato da Israele, Prodi ha incontrato subito sia il ministro dell'Economia che quello del Lavoro Cesare Damiano per riceve gli aggiornamenti sull'Ecofin e l'aumento delle pensioni basse. Sullo scalone l'intenzione è di chiudere presto un «vicenda che si sta trascinando da troppo tempo». Di fatto l'unico negoziato che resta aperto con i sindacati è quello sulle esenzioni. «La base di partenza per i lavori usuranti è il testo Salvi del '99, da lì si può ampliare ma senza discostarsi di molto», avvertono dal ministero del Lavoro.
Prodi dovrebbe presentare la sua mediazione venerdì in consiglio dei ministri. Se dovesse essere inaccettabile per i sindacati, come suggeriscono le indiscrezioni della vigilia gli scenari si fanno ancora più opachi. Il governo non cadrà subito ma è certo che la questione si affronterà a settembre, con la finanziaria alle porte, il varo del Pd, un governo sempre più logorato e lo «scalone» bene in vista. A quel punto, la sinistra sarebbe in un vicolo cieco. Per uscirne il Prc vagheggia ancora una «consultazione popolare» per decidere se restare o no al governo. Ma è certo che un nuovo '98 terrorizza tutti i partiti. E il Prc non può sfilarsi da solo a meno di rompere anche l'unità a sinistra. Senza contare che caduto il patto con Prodi anche la presidenza della camera finirebbe nel mirino dell'Ulivo. Tutti scenari esiziali ma niente affatto impossibili per un'Unione ai minimi termini.

il Messaggero 12.7.07
Giordano: «C’è rischio di crisi. il Pd vuole cacciarci fuori»
di Carlo Fusi


Segretario Giordano, Veltroni in sostanza accusa la sinistra radicale o parte di essa di voler difendere i vecchi e di non saper tutelare i giovani. Lei cosa risponde?
«Che siamo in presenza di uno schema che rivela una vera miseria culturale. Si riscoprono i bisogni dei giovani solo quando è in atto una lotta per tutelare i diritti dei lavoratori. Veltroni vuole parlare di giovani? Benissimo. Stia con noi, allora, quando proponiamo un reddito di cittadinanza per i ragazzi che non hanno risorse economiche bastevoli. Stia con noi quando proponiamo di superare la legge 30 che è un vero e proprio monumento alla precarietà. Stia con noi, e contro la Confindustria, quando ci battiamo per il superamento dei contratti a termine. Oppure sulle nostre richieste a favore della formazione e della ricerca».
Ma scusi, vuole contestare che innalzare l’età pensionabile è un atto a favore delle giovani generazioni?
«Chiedo a tutti, anche a Veltroni: davvero pensate che il nemico dei giovani sono gli operai e i sindacati? Ma dove siamo finiti...».
Però non c’è mica solo Veltroni. Anche D’Alema dice che non ci sono i soldi per abolire lo scalone, e pure Dini è contrario...
«Io chiedo a D’Alema e a Dini: quando abbiamo sottoscritto il programma dell’Unione, loro dov’erano? Era un programma condiviso se non sbaglio; e adesso invece che succede? Che ci definiscono irriducibili. Assurdo».
Insomma non vi scostate dal vostro impianto: abolizione dello scalone e niente “scalini”...
«Noi siamo pronti a discutere, e investiamo senza riserve sulla trattativa sindacale. Non ci sono problemi di compatibilità economica per lo scalone. Le risorse ci sono, ma la verità è che vedo con preoccupazione che il merito del problema è by-passato. La questione si è spostata su un piano squisitamente ideologico, con l’obiettivo di negare riconoscibilità al conflitto sociale».
Ma non è forse vero che Prc e Cgil giocano allo scavalco reciproco?
«Lo nego. Io ho incontrato Cgil, Cisl e Uil ed è stato un colloquio molto positivo nel quale si sono definite ipotesi di trattativa nel merito. Quanto ad Epifani, è vero o no che ha criticato le posizioni di chi si è allontanato dal programma dell’Unione? Non siamo certo noi. Il vero nodo è che manca una proposta unitaria della coalizione. La mia critica è esplicita: vedo che pesano sul quadro politico le diverse collocazioni e definizioni interne al Pd».
Sta dicendo che sono i leader del Pd a non volere la riforma delle pensioni?
«Sto dicendo che ci sono perturbazioni esterne al merito della questione pensioni. Per essere ancora più chiaro: non vorrei che qualcuno avesse preventivamente deciso di non fare l’accordo e punti a scaricare su di noi la responsabilità. Siamo ad un rovesciamento dello schema del ’98 che portò Prodi alle dimissioni».
Ecco, Prodi. Visto che una posizione unitaria nell’Unione non c’è, sarà lui a fare una proposta finale. Per voi sarà un prendere o lasciare...
«L’unica cosa che posso dire è che mi auguro che quella proposta sia il più vicino possibile al programma, di cui il presidente del Consiglio è garante».
Al dunque: ci sarà o no la crisi sulle pensioni?
«Il rischio è molto concreto. In una situazione del genere, riterrei utile tornare al merito del problema e ad una dimensione collegiale di discussione. Peraltro il fatto che oggi, dopo l’incontro che ho avuto con Mussi, la sinistra dica le stesse cose è un fatto salutare per la vita democratica dell’Italia. Insisto: non è più il ’98, questa volta il problema non siamo noi. Per il resto, sottolineo che difendere il mondo dei lavoratori è una delle ragioni dell’esistenza della coalizione».
Liberazione 12.7.07
Una proposta a Veltroni: smettiamola tutti di dire bugie
di Piero Sansonetti


Qual è la ragione vera della crisi della politica, della sua delegittimazione? Rispondono tutti: i costi, gli sprechi. Giusto. Però io credo che il motivo vero sia un altro: le bugie. Il numero enorme di bugie - nette, chiare, consapevoli - che i leader politici pronunciano, scrivono e considerano la materia di base del loro lavoro. Gli strumenti del mestiere. Non si sentono affatto in colpa a dirle a farne i pilastri delle proprie proposte. Considerano, anzi, il mendacio come una forma moderna di "abilità", di professionalità politica.
Sono convinto che la voragine che si è aperta tra mondo politico e intellettuale - ci metto dentro anche noi giornalisti - e la gente che non fa parte di questa casta, è motivata soprattutto da questo. Ho una proposta, comunque, che permetterebbe una riduzione delle bugie e al tempo stesso un contenimento dei costi della politica. Questa: ogni volta che si accerta che un uomo politico o un editorialista dice o scrive il falso, e poi rifiuta di correggersi, gli si toglie il 10 per cento dello stipendio e dei benefit. In pochi mesi, vedrete, le spese dello Stato per la politica si ridurranno abbastanza. E il dibattito sarà molto più chiaro.
Inizierei a tagliare a Walter Veltroni il 10 per cento del suo stipendio da sindaco e ad Eugenio Scalfari il 10 per cento della pensione.
Perché? Iniziamo da Scalfari, che è più semplice. Ha scritto domenica un articolo molto lungo e argomentato per chiedere la liquidazione di Rifondazione comunista, la rimozione di Bertinotti dalla Presidenza della Camera e un deciso ridimensionamento del sindacato. Tutto l'articolo era basato su una affermazione falsa: che i sindacati nel 2004 accettarono lo scalone-Maroni, cioè il secco innalzamento di tre anni dell'eta pensionabile, purché entrasse in vigore nel 2008. Sicuramente in buona fede, Scalfari ha preso una cantonata. Può succedere. Però il giorno dopo Scalfari avrebbe dovuto scrivere sulla prima pagina di Repubblica : «Ho fatto un errore, la Cgil si è sempre opposta alla scalone, e di conseguenza il mio articolo era infondato: consideratelo ritirato...». Ma Scalfari questo gesto non lo ha compiuto, e oltretutto il suo clamoroso scivolone non è stato rilevato da nessuno, per il semplice motivo che l'intero panorama della stampa italiana - tutti, esclusi noi e il manifesto - è schierato con i finanzieri che vogliono innalzare l'eta pensionabile, e dunque non gliene frega niente dei clamorosi errori di Scalfari.
Veltroni invece meriterebbe questa piccola decurtazione dello stipendio perché - sempre su Repubblica - ieri ci ha spiegato che il taglio delle pensioni è necessario per il bene delle nuove generazioni. Walter - che è una persona seria e dispone di un discreto staff in grado di analizzare i dati dell'economia - sa benissimo che questo non è vero. Lo ha scritto benissimo ieri su "Liberazione" Betta Piccolotti: i giovani precari o disoccupati aspettano con ansia che i dipendenti di 56 o 57 anni - i loro genitori - vadano in pensione in modo da poter prendere il loro posto. Non bisogna essere geni né avere studiato cinque anni alla "Bocconi" per capirlo. L'innalzamento dell'eta pensionabile leva lavoro ai giovani. E non da loro nessunissimo vantaggio. Neppure per quel che riguarda le loro future pensioni, dal momento che "Il Sole 24 Ore" ha calcolato che (per ragioni che ora sarebbe troppo complicato spiegare) lo scalone, dal 2040 (cioè quando inizieranno ad andare in pensione i giovani di oggi), avrà sui conti dell'Inps un effetto negativo. Pesantemente negativo: cioè non solo non farà risparmiare un euro all'ente previdenziale, ma costerà 14 miliardi all'anno.
Così come Walter Veltroni, e tutti i sostenitori dello "scalone" (o comunque di un nuovo sistema di scalini) sanno che quella storia, suggestiva, dell'aumento della speranza di vita (diciamolo più brutalmente: l'aumento dell'età di morte...) non è in nessun modo una ragione per innalzare l'età pensionabile. Nel senso che non esiste alcuna relazione tra durata della vita e gestione delle pensioni. Perché? Perché mentre la speranza di vita aumentava di alcuni anni (diciamo del 10-15 per cento rispetto a 50 anni fa), le nuove tecnologie ( e i nuovi livelli dello sfruttamento capitalistico) incrementavano del 100 o forse anche del 200 per cento la produttività. Che vuol dire? Semplicemente questo: che la quantità di lavoro - da dividere per tutta la popolazione attiva - necessario per produrre lo stesso "pil" è oggi enormemente inferiore rispetto a 15 o 20 anni fa. E dunque, se allora era necessario che ciascun lavoratore restasse attivo, poniamo, per 40 anni, oggi ne bastano 25 o 30 o 35. E' calata, non aumentata la necessità di lavoro. Questo è un dato incontestabile e incontestato. E infatti oggi i giovani sotto i 40 anni che dispongono di un posto del lavoro pieno e non precario sono pochissimi. Perché? perché c'è meno bisogno di lavoro e i più anziani coprono largamente questo bisogno di lavoro. Allora la questione, semplicissima, è quella di scegliere se tenere la gente al lavoro fino a 65 o 70 anni (facendola entrare in organico a 40, e facendogli patire precariato e disoccupazione fino a quell'età) o invece farla entrare in organico a 25 anni e mandarla in pensione prima.
Non sono solo i metalmeccanici della Fiom a preferire il secondo modello, ma persino un "padrone" classico come Sergio Marchionne, leader della Fiat. Il quale la settimana scorsa, in una intervista alla Stampa (raccolta da Massimo Gramellini) ha detto: «...quando un politico si alza a parlare deve farlo con competenza e credibilità. Il carisma non è tutto...Prendiamo le pensioni. In Italia vedo un approccio ideologico. Perché uno dovrebbe lavorare più a lungo? Solo perché la vita si è allungata?...»
Io mi faccio un'altra domanda: «Perché Walter finge di non sapere queste cose così chiare, che persino Marchionne ammette? Per il semplice motivo che un ragionamento - per quanto infondatissimo - sul patto tra generazioni funziona perfettamente per sostenere la linea politica scelta dal partito che lo ha eletto leader, cioè il Pd. Ma nessuno, né nel Pd né altrove, pensa davvero che questa idiozia del patto tra generazioni basato sulla rinuncia alla pensione abbia un senso. E allora perché il Pd vuole lo scalone? E perché è nato questo scontro così feroce con la sinistra? E perché Prodi non sa che pesci pigliare?
Cerchiamo di mettere tutte le carte in tavola. La sinistra - e in particolare Rifondazione - non vuole cedere di un centimetro sullo "scalone" per il semplicissimo motivo che lo "scalone" danneggia in modo pesante non più di 100 o 200 mila lavoratori dipendenti poveri, e quei 100 o 200 mila lavoratori dipendenti poveri, specialmente operai, fanno parte del blocco sociale di Rifondazione. Chiaro? Tutto qui: per gli interessi di 100 o 200 mila straccioni. E' corporativismo? E' corporativismo operaio? Fate voi: comunque la ragione è chiarissima ed è quella.
Perché invece il Pd non cede - sebbene persino Marchionne storca il naso di fronte alla incongruenza della posizione del Pd?- Perché un pezzo consistente della borghesia, quella che ha forti interessi nella finanza, vuole dare un colpo alle pensioni perché pensa al grande affare delle pensioni private. E il Pd non crede di poter costruire il proprio sistema di potere senza l'appoggio della borghesia finanziaria. Chiaro? Tutto qui. Lo scontro è tra gli interessi elettorali e sociali di Rifondazione e gli interessi di potere del Pd. E' possibile una mediazione? Sì, purché ciascuno metta le carte in tavola e la smetta di sparare bugie. Solo questo vorremmo chiedere a Veltroni, a Scalfari e alla stragrande maggioranza del ceto politico e giornalistico: di essere faziosi finché vogliono, di badare al potere o all'interesse dei loro partiti o ai portafogli di qualcuno, ma di non costruire tutta la loro politica sulla menzogna consapevole. Altrimenti la politica muore. Non ha scampo. E io non credo che la morte della politica possa far piacere a Veltroni. Farà piacere a Montezemolo, immagino, ma su questo Walter non può seguirlo.

P.S. L'altra notte si è fatto l'accordo sulle pensioni minime. Benissimo. Quasi 35 euro d'aumento. Dopo aver letto questa notizia sono dovuto andare da un ferramenta per comprare una catena per il motorino. Compreso il lucchetto costava 35 euro. Ho pensato: se ero un pensionato al minimo addio aumento...

mercoledì 11 luglio 2007

Repubblica 11.7.07
Rifondazione, torna la mina dei "dissidenti"
di Claudio Tito


ROMA - «Ma saranno in grado di controllarli tutti?». A febbraio scorso avevano provocato un crisi di governo sulla politica estera. Adesso potrebbero essere determinanti su quella economica. E già, perché il confronto sulla riforma delle pensioni ha riaperto un fronte nell´Unione: quello dei dissidenti della sinistra radicale. Quei quattro o cinque che al Senato hanno sempre dato quel tocco «sexy» alla maggioranza. Romano Prodi è conscio che quello scoglio sta nuovamente affiorando e che rischia di far naufragare il suo esecutivo. Da qualche giorno, da quando ha preso in mano il pallino per buttare giù lo scalone, ripete un po´ a tutti questo interrogativo. Puntando l´indice su una data ben precisa: il 25 luglio, quando approderà nell´aula del Senato il Dpef. Il timore di Palazzo Chigi, infatti, è che lo scontro sullo "scalone" potrebbe provocare la prima battaglia già in occasione del voto sul Documento di programmazione economica e finanziaria.
Il "fantasma" di una seconda crisi, insomma, è tornato ad aleggiare sulle stanze prodiane. La paura del Professore è anche l´incubo di Prc e Pdci. Il dubbio di non riuscire a «controllare» tutti i senatori, ce l´hanno anche Franco Giordano e Oliviero Diliberto. Entrambi hanno fatto sapere sia ai vertici dell´esecutivo che a quelli sindacali di essere pronti a chiudere l´accordo sulla previdenza. Ma li frena il sospetto che anche un «buon patto» non sia sufficiente a blindare la sinistra radicale. È successo pure ieri pomeriggio nel faccia a faccia che il segretario del Prc e il ministro Ferrero hanno avuto con il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Enrico Letta. «Restano significativi problemi - ha poi ammesso il titolare della Solidarietà sociale - ma la discussione va avanti».
Sta di fatto che i cosiddetti "dissidenti" hanno già fatto sapere che non accetteranno soluzioni intermedie. Fosco Giannini, Franco Turigliatto, Ferdinando Rossi e Haidi Giuliani sono pronti al "no". «Se si alza l´età - ripetono da giorni quasi all´unisono - io voto contro».
Il premier, però, vuole comunque accelerare. Non intende lasciare che la questione maceri per tutta l´estate. Il suo obiettivo è formulare il piano di riforma entro la settimana sottoponendola prima al consiglio dei ministri di venerdì e possibilmente a Cgil Cisl e Uil nella stessa giornata. «Io a questo punto - ha avvertito tutti gli alleati - farò una proposta e sarà un prendere o lasciare». Secondo il presidente del consiglio, infatti, - anche sulla base del monito incassato l´altro ieri da Tommaso Padoa-Schioppa dall´Ecofin - la sua ipotesi rappresenterà il massimo della mediazione. L´orientamento è quello di trasformare lo scalone in tre scalini con cadenza biennale (58 anni nel 2008 e 59 nel 2010) e l´ultimo (nel 2012) prevederebbe una soglia non anagrafica ma la quota 96, un mix tra età e anni contributivi. In più ci sarebbe un ampliamento della platea dei cosiddetti lavori usuranti. Ogni passo più in là, dicono a Palazzo Chigi, susciterebbe la reazione di Bruxelles e quella dei riformisti dell´Unione.
La sinistra radicale è pronta a discutere e la Cgil considera una base praticabile questa ipotesi. Ma per Rifondazione comunista resta il nodo dei "dissidenti". Anche perché stavolta non significherebbe solo perdere qualche voto. Il timore è quello di trovarsi davanti un´altra scissione a sinistra. Con la nascita di una sorta di "Cosa rossissima" che vedrebbe nella Fiom di Cremaschi il nocciolo duro. Non è un caso che nel Prc e nel Pdci molti guardano al referendum che i sindacati organizzeranno per ricevere il placet dei lavoratori sul futuro accordo: «Quello - dicono - sarà il momento dello strappo». Se la Fiom, appunto, voterà no - come fece nel ´95 sulla riforma Dini - il primo effetto sarà il "no" dei dissidenti al Senato sul Dpef e quindi sulle pensioni. Non è nemmeno un caso che gli stessi dissidenti abbiano organizzato per il prossimo 20 settembre un seminario che assomiglia ad una prova di scissione. E tra gli invitati spicca proprio Cremaschi.
Senza contare che negli ultimi giorni una certa irritazione nei confronti di Prodi è montata anche tra le file del Prc. Ai piani alti del partito e della Camera non sono piaciute, ad esempio, alcune scelte su talune nomine (in primo luogo le Fs). «Se non ci fosse stato il precedente del ´98 - si è fatto scappare un autorevolissimo leader di Rifondazione - la crisi sarebbe stata già aperta».
Il premier, però, non intende cedere. È sicuro che una soluzione sia possibile. «Anche perché - ricorda ad ogni piè sospinto - se c´è la crisi di governo, resta pure lo scalone».

l'Unità 11.7.07
Quando Togliatti capì il tramonto dell’Urss
di Adriano Guerra


RIVELAZIONI Esce un saggio dello storico Carlo Spagnolo con una tesi avvalorata da nuove fonti d’archivio: il capo del Pci aveva compreso la fine del movimento comunista. E il «Memoriale di Yalta» fu il «referto» di questa intuizione

Ad alcune delle numerose «questioni» legate al nome di Togliatti sono state date in questi ultimi anni, grazie al lavoro di numerosi studiosi e ai documenti d’archivio divenuti accessibili, risposte certamente non definitive, ma indubbiamente corpose e spesso esaurienti. Parliamo ad esempio delle «questioni» legate ai rapporti di Togliatti con Gramsci o a quelle dello «stalinismo» di Togliatti: due temi che sono stati - si vorrebbe sperare - sottratti al campo delle omissioni e dei silenzi nonché a quello delle burocratiche autocritiche e delle critiche personali, talvolta basate sulla non conoscenza dei punti di arrivo non solo della ricerca degli storici ma della stessa elaborazione e della politica concreta del Pci.
Ci sono poi questioni continuamente riaperte. Ultima quella sulle responsabilità di Togliatti per le vittime italiane dello stalinismo. Problema vero. Responsabilità accertate. Ma anche qui parlano, dovrebbero parlare, i dati forniti da coloro che hanno affrontato il tema ricostruendo, ad esempio, le ragioni che hanno portato nel 1941 Dimitrov a trasferire Togliatti, sotto indagine, dal lavoro politico a quello radiofonico. Coabitare con Stalin non significava scegliere semplicemente fra coraggio e viltà. Sugli italiani finiti nei Gulag ci sono poi in primo luogo le ricerche di Elena Dundovich, Francesca Gori e Emanuela Guercetti. E quelle, prima ancora, di Romolo Caccavale, il giornalista de l’Unità eternamente dimenticato che negli anni’80 - scettico sul lavoro delle Commissioni del Pci che, dopo le ammissioni del 1961 avrebbero dovuto fornire risposte agli interrogativi che erano stati posti da più parti - interrogando con santa pazienza famigliari e testimoni, ha raccolto una documentazione di straordinario valore. Il suo libro è poi uscito con una prefazione dell’allora segretario del partito Alessandro Natta. Un documento, anche quest’ultimo, importante perché con esso il Pci ha preso posizione per la prima volta, con un’autocritica esplicita sul tema delle sue «corresponsabilità» - il termine è stato usato da Amendola nel 1961 - nello stalinismo. Ma - si sa - nulla è più inedito dell’edito...
Insieme a quelle prima ricordate c’è anche però una «questione Togliatti» ancora del tutto aperta e destinata a restar tale: quella del «Memoriale di Yalta». Gli interrogativi sono qui più d’uno e sono senza risposta perché quel documento, preparato - come si sa - in previsione di un colloquio con Chruscev, non ha potuto essere discusso per la morte del suo autore. Il «Memorandum» è così diventato il «Testamento di Yalta».
Ma perché in quella torrida estate del 1964 Togliatti era andato nell’Unione sovietica?
L’ipotesi avanzata a suo tempo da Federigo Argentieri secondo cui il segretario del Pci si sarebbe mosso per partecipare al complotto ordito da Breznev per defenestrare Chruscev, è stata di fatto pressoché unanimemente abbandonata o accantonata (perché «non ancora suffragata dalla documentazione», ha detto ad esempio Elena Aga Rossi nell’intervento pronunciato al convegno dell’Istituto Gramsci «Togliatti nel suo tempo», i cui atti sono stati ora pubblicati da Carocci).
Proprio sul «Memoriale» Carlo Spagnolo ha condotto una lunga ricerca i cui risultati sono ora un libro di grande interesse pubblicato da Carocci nel quale l’autore non solo ha messo lucidamente in chiaro i vari aspetti della «questione», ma ha offerto al lettore una visione viva e convincente non solo degli ultimi giorni di Togliatti ma anche del lungo cammino che ha portato ad essi fornendoci così materiali per un nuovo, e per molti aspetti inedito, ritratto dell’uomo e del politico.
Già sappiamo da varie testimonianze che il segretario del Pci non voleva lasciare Roma non solo perché stanco e ammalato, ma anche perché si era venuto a trovare nel partito in una situazione difficile e anche avvilente dopo che alla Conferenza di organizzazione svoltasi a Napoli nel marzo precedente era stato criticato per aver accentuato in modo eccessivo - si disse - i poteri della segreteria, rispolverando così, con le parole di Spagnolo, «uno stile leninista non più adeguato ai tempi». Ad amareggiarlo erano state anche le discussioni sui temi della politica italiana, allora alle prese con la rottura fra Pci e Psi di fronte al centro-sinistra, nonché sul rapporto con l’Urss. (In discussione c’era la proposta sovietica di condannare la Cina attraverso una conferenza internazionale). Si sapeva anche dell’amarezza di Togliatti per il rifiuto opposto da Thorez, quasi certamente ispirato dai sovietici, ad un incontro che avrebbe dovuto aver luogo in occasione del Congresso dei comunisti francesi.
A questo quadro, che già induce a guardare a quella che doveva essere l’ultima battaglia di Togliatti come ad una pagina difficile, Spagnolo aggiunge ora altri elementi ancora che, uniti agli altri, inducono a pensare che fra il Pci e il Pcus si fosse giunti davvero - come del resto era stato ventilato anche in studi precedenti - «sull’orlo della frattura». E non già semplicemente di fronte al rischio di una frattura fra Togliatti e Chruscev giacché le critiche e le proposte del «Memoriale» erano rivolte all’intero gruppo dirigente sovietico (compreso dunque Breznev col quale - come ha rivelato a suo tempo la Jotti - Togliatti era del resto giunto prima di partire per Yalta «quasi alla rissa»).
Non solo: nel «Memoriale» è detto esplicitamente - come fa notare Spagnolo - che il Pci avrebbe esposto le critiche contenute nel documento anche alla riunione preparatoria della Conferenza internazionale già in preparazione.
Tutto sta insomma a dimostrare che si era «sull’orlo della frattura» non solo del Pci col Pcus ma del movimento comunista internazionale (che già aveva perso la Jugoslavia e la Cina). E che così stessero le cose lo si evince inevitabilmente del resto se si legge con attenzione il «Memoriale» nel quale non vi è un solo punto - quando si parla del «modo migliore di combattere le posizioni cinesi» o del «superamento del regime di limitazione e soppressione delle libertà democratiche e personali che era stato instaurato da Stalin» - che avrebbe potuto essere accolto dai sovietici.
Non uno. E Togliatti lo sapeva. La rottura era dunque inevitabile? Di fronte all’interrogativo, Spagnolo sembra ritrarsi un poco. Quel che non abbandona è l’idea che Togliatti non avesse escluso la possibilità di raggiungere con Chruscev un qualche accordo. Anche perché il legame con l’Urss - dice ancora Spagnolo - era ritenuto da Togliatti essenziale perché il Pci potesse portare avanti la sua politica di fronte alle sfide del neocapitalismo e del centro-sinistra.
L’osservazione è seria. È anche vero però che il Togliatti di Yalta non era più quello che nel ’56 aveva identificato la linea del Pci con quella del «campo» sovietico. Né quello del famoso discorso rimasto a lungo segreto sulla difesa «dell’Unione Sovietica che sbaglia» del novembre 1961.
Guardare all’Europa occidentale come faceva Togliatti nel 1964 contrapponendo all’egemonismo sovietico la linea della «unità nella diversità», non significava poi sancire un confine fra il Pci e il Pcus? E ancora quale Urss avrebbe potuto (e voluto) guardare con favore al successo della «via italiana»?
A rendere drammatico il quadro del confronto in programma c’era poi il fatto che - come Spagnolo racconta - quel che Togliatti si apprestava a contestare negli incontri previsti era il mondo stesso al quale aveva dedicato la vita. Contribuendo a costruire - è vero - un partito radicato nella realtà e nella storia italiana e fondato sulla «diversità» rispetto al modello sovietico. Ma che aveva però operato pur sempre, sotto la sua direzione, all’interno del processo storico aperto dalla rivoluzione del 1917. Quel processo storico che lo aveva visto tra i protagonisti ma sul quale in quella ultima notte a Yalta sentiva approssimarsi una crisi senza sbocchi visibili.

l'Unità 11.7.07
Storia di Artemisia, eroina libera e geniale
di Gian Carlo Ferretti


Sessant'anni fa Anna Banti scrisse un romanzo sulla pittrice seicentesca: per la prima volta veniva raccontata la vita di questa artista, una donna in lotta con i pregiudizi del suo tempo

Di Anna Banti c’è una prima Artemisia scritta in piena guerra e perduta nell’estate 1944 sotto le macerie, e ce n’è una seconda pubblicata da Sansoni a Firenze nell’estate di sessant’anni fa. Un’opera costruita sull’intreccio-alternanza di diversi livelli narrativi, e di una prima e terza persona singolare: biografia e romanzo, dialogo della scrittrice con il suo personaggio e ricostruzione inventiva di ambienti e costumi seicenteschi tra Roma, Firenze, Francia, Inghilterra.
«Artemisia Gentileschi, pittrice valentissima fra le poche che la storia ricordi. Nata nel 1598 a Roma, di famiglia pisana. Figlia di Orazio, pittore eccellente. Oltraggiata, appena giovinetta, nell’onore e nell’amore. Vittima svillaneggiata di un pubblico processo di stupro. (…) Una delle prime donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e una parità di spirito fra i due sessi». Così Anna Banti la presenta in un libro dedicato con discrezione «a R. L.», il marito Roberto Longhi, grande critico e studioso principe di Caravaggio e dei caravaggeschi, tra i quali i Gentileschi padre e figlia. Artemisia dunque è una donna ripetutamente offesa: lo stupro, il processo, la vergogna, il matrimonio riparatore con un marito «di ripiego», Antonio Stiattesi. Di qui una incapacità di amare e una maturazione personale precoce e dolorosa.
Ma Artemisia è anche una donna che, a differenza delle altre, sa reagire con orgoglio e determinazione. Eccola perciò mortificare e insieme esaltare la sua femminilità nel lavoro per committenti illustri e nell’autonomia della produzione artistica, trovando la sua rivincita anche nella rappresentazione di antiche eroine, come Giuditta: «tutto quel sangue di Oloferne che stagnava sulla tela».
C’è in lei la consapevolezza di una privilegiata superiorità e libertà, sia rispetto agli uomini schiavi del loro stesso potere, sia rispetto alle altre donne chiuse nelle loro silenziose rivolte: «Poveri uomini (…)travagliati di arroganza e di autorità, costretti da millenni a comandare, (…)queste donne che fingono di dormire al loro fianco e stringono fra le ciglia (…)eecriminazioni, voglie nascoste, segreti progetti. (…)”Ma io dipingo”, scopre Artemisia».
Neppure lei tuttavia può sfuggire a una condizione femminile originaria: è una donna eccezionale che sa dar voce e corpo alle tensioni che fermentano anche dentro la normalità delle sue consorelle, ma al tempo stesso soffre proprio della mancanza di quella loro normalità. Artemisia insomma ha l’inquieta coscienza di una personale incompletezza e vive un difficile processo di integrazione: la necessità di uno status e di una strategia sociale, il recupero del matrimonio in un primo tempo subìto, l’accettazione di un rapporto coniugale istituzionale e insieme paritario, il desiderio e il rinvio di un ritorno alla vera autonomia di pittrice, la ricerca di un equilibrio tra l’appartenere ad altri e l’essere se stessa.
Finché Artemisia fa la scelta di una casa e di una vita tutte sue. Anche se è una scelta che neppure una «donna forte» come lei, può compiere impunemente. Il rapporto con Antonio non sarà più lo stesso, e Artemisia resterà sola con una figlia in grembo, costretta a trasformare la sua pur contrastata completezza di moglie, in una ormai irreversibile e dolorosa autosufficienza di donna-madre. Artemisia si trova così a incarnare uno status del tutto anomalo e indefinibile: «Quale sia, di preciso, la sua condizione, nessun confessore ha saputo spiegarglielo, per quanto abbia insistito: come, del resto, per meditar che faccia, non le è riuscito di riconoscersi e definirsi in una figura esemplare e approvata dal secolo. (…)Questa è donna che in ogni gesto vorrebbe ispirarsi a un modello del suo sesso e del suo tempo (…)e non lo trova».
Nell’affrontare il mondo allora, non le resta che armare di sicurezza e alterigia la sua vulnerabilità e fragilità di donna e donna-madre sola, e di artista sottostimata in quanto donna. Passano gli anni, con una carriera crescente, altri amori e insinuazioni malevole dei vari ambienti, con la figlia maritata e il padre che la chiama in Inghilterra, dove ha una posizione importante ed è un «protetto di Sua Maestà». Qui Artemisia vive il ricongiungimento familiare prima come accettazione di un rapporto protettivo e rassicurante, e poi come regressione filiale, domestica e in definitiva tradizionale: «lavare fazzoletti, lucidare una scatola o un piatto». È il desiderio di normalità sociale e affettiva che torna a farsi sentire.
Il ritorno alla pittura e all’indipendenza le viene quasi imposto da una fama e da un ruolo ineludibili. Di lei si parla alla corte del re, finché la regina siede davanti a lei per un ritratto. Ma il passato di Artemisia torna inesorabile con le sue opposte esperienze, sia nelle offese che deve scontare per la posizione di donna libera e amante, sia nelle ritornanti cure filiali al padre malato. È come un cerchio che si chiude, fino alla morte del padre e di lei.
L’Artemisia di Anna Banti si può interpretare in almeno tre modi. Una prima chiave di lettura sembra scaturire dal bilancio insoddisfatto e autocritico che la scrittrice traccia della sua ricostruzione letteraria, quasi sottolineando la difficoltà-impossibilità oggettiva di liberare Artemisia dalle sue contraddizioni: «L’ho indotta a sottoscrivere i gesti di una madre sola e imperfetta, di una pittrice dal valore dubitoso, di una donna altera ma debole, una donna che vorrebbe esser uomo per sfuggire a se stessa. E da donna a donna l’ho trattata, senza discrezione, senza virile rispetto. Trecento anni di maggiore esperienza non mi hanno insegnato a riscattare una compagna dai suoi errori umani e a ricostruirle una libertà ideale, quella che la affrancava e la esaltava nelle ore di lavoro, che furono tante. E ormai non so che cimentarla, per farla parlare, sui ricordi di una maternità infelice, il solito argomento delle donne».
Ma si può anche sostenere che il personaggio di Artemisia trova una pregnanza di significati proprio nella sua irrisolta contraddittorietà: in quella impossibilità a realizzare un equilibrio tra eccezionalità e normalità, tra l’essere donna in modo tradizionale e trasgressivo, tra il piacere e il peso dell’appartenere ad altri (il padre, il marito, la figlia) e il piacere e peso di appartenere a se stessa (la solitudine, la pittura). Impossibilità perciò a realizzare un modello di esistenza e di comportamento veramente nuovo. E conflitto che attraversa Artemisia in tutte le sue esperienze, da quelle più private a quelle più pubbliche, dal mondo segreto dei sentimenti alla esibita vita di relazione.
La terza interpretazione, che sottintende certamente molte implicazioni delle altre due, è quella più evidente e diretta. Nel presentare all’inizio Artemisia e nel reinventarne poi la storia anche attraverso un ritornante dialogo con lei, Anna Banti valorizza infatti la sua sottile attualità, facendone l’eroina di un audace e vulnerabile protofemminismo.

il manifesto 11.7.07
«Intesa possibile, con il Prc»
Nerozzi (Cgil): la fiaccolata dei «giovani» ricorda fenomeni eversivi. Scalone: «Si lavora con Rifondazione, i veri problemi vengono dalla destra dell'Unione»
di Antonio Sciotto


L'appuntamento è per questa sera alle 19,30: i «giovani», guidati da Roberto Giachetti della Margherita, terranno una serie di fiaccolate davanti a Cgil, Cisl e Uil per protestare contro il «conservatorismo» dei sindacati che difenderebbero chi le tutele le ha già (i dipendenti in età da pensione) contro i diritti dei precari. Intanto Daniele Capezzone, dei Radicali, ha confermato una «marcia dei giovani» in settembre, sulla stessa linea. E' un fiorire di sigle ignote che si candidano a rappresentare i «giovani», e che appaiono più che altro come succursali improvvisate dei partiti dell'Unione interessati a mantenere lo scalone. Di questi nuovi «giovani» abbiamo parlato con Paolo Nerozzi, segretario confederale della Cgil: il sindacato si deve comunque porre, nonostante in questa occasione sia attaccato da destra, il tema di come rispondere al lavoro precario, ancora largamente presente nel paese. Tra l'altro Nerozzi ci ha anticipato che «sullo scalone si è già a un buon punto», e che «le minacce a che l'accordo non si faccia vengono tutte dalla destra della coalizione». Anche con il Prc, la Cgil sarebbe «vicina a chiudere».
Nerozzi, come vi preparate alla fiaccolata dei «giovani»?
Dico innanzitutto che il fatto che si manifesti di fronte alle sedi del sindacato - davanti a Cgil, Cisl e Uil - è un fatto inquietante: in altri casi, in passato, si è trattato di manifestazioni di carattere eversivo. Non vorrei che anche qui fossimo davanti a fenomeni eversivi, spero tanto di sbagliarmi. E' poi altrettanto anomalo che a guidare questi giovani, evidentemente strumentalizzati, sia una persona di 40-50 anni (Giachetti della Margherita, ndr). Ma soprattutto mi chiedo una cosa: chi oggi manifesta contro il sindacato e, presuntamente, per i giovani, ha mai fatto nulla contro la precarietà o per cambiare le leggi attuali? Mi sembra proprio di no.
E' anche vero che la precarietà, con il governo dell'Unione, è diminuita di poco o nulla. Nel lavoro privato, sono stati assunti soltanto i 18 mila dei call center, pari allo 0,5% dei 3,5 milioni di precari del paese. Cosa propone la Cgil contro la precarietà?
Beh, bisogna ricordare anche i 60 mila della scuola, come stanno assumendo varie amministrazioni locali. Anche se realtà come quella di Modena - faccio un esempio - invece si rifiutano. Dopodiché è vero che si può fare ancora tanto e proprio per questo noi ci stiamo battendo. Ritorno sulle cose concrete che la Cgil sta chiedendo: agire non solo sugli ammortizzatori e i contributi figurativi, come in parte si è fatto e come si sta facendo, ma anche sulla casa - offrendo sgravi sugli affitti alle giovani coppie; sugli asili; sulle borse di studio e la formazione. Ma soprattutto, richiesta che sta portando avanti soltanto la Cgil, i contratti a termine.
Voi chiedete di limitarne l'utilizzo, ma il governo è frenato da Confindustria. Ma insomma: se non otteneste questo punto, potreste non firmare?
Diciamo che è un punto importante, che creerebbe seri problemi alla chiusura dell'accordo.
Ma la precarietà è anche i vari nodi della legge 30, i contratti a progetto, che il ministro Damiano non vuole abolire. Su quelli non mettete pregiudiziali? L'anno scorso parte della Cgil era al corteo «Stop precarietà ora». Quest'anno tornerete in piazza?
Io dico una cosa: in questa fase della trattativa ci sono i contratti a termine, ma noi non ci fermiamo qui e da settembre ci concentriamo su tutti gli altri aspetti, di cui fanno parte non solo la legge 30, ma anche la legge Treu, che ha portato degli abusi rispetto a quando fu introdotta. Da settembre possiamo prevedere opportune iniziative di mobilitazione.
La domanda sullo «scalone» è obbligatoria. Avete incontrato i vertici del Prc. Si intravedono punti d'incontro?
Io credo che le posizioni si siano avvicinate, stiamo lavorando. Posso solo dire che si riaffaccia la prima proposta del sindacato, fatta di un mix di scalini e quote, ma esentando una platea di lavori usuranti. Ma chiudo dicendo: il sindacato vuole arrivare a un accordo, mentre dalla destra della coalizione viene una minaccia non solo all'intesa, ma alla stessa sopravvivenza del governo. Queste forze non devono prevalere.

il manifesto 11.7.07
Ma tra governo e sindacati distanze incolmabili
Per Padoa Schioppa una riforma a costo zero. Irrigidimento su quote «scalini» e coefficienti. E il Pd vuole la «stangata» sui lavori usuranti: solo 7mila esenti su 140mila
di Matteo Bartocci


Roma A poche ore dal ritorno di Prodi in Italia il barometro della trattativa sulle pensioni tende decisamente al peggio. Un incontro pomeridiano tra Franco Giordano ed Enrico Letta è servito solo a registrare le reciproche posizioni. «Le distanze con le ipotesi che girano nel governo sono quasi incolmabili. C'è un irrigidimento generale verso qualsiasi richiesta fatta dai sindacati», dicono in serata da via del Policlinico. «Una cosa è certa, il Prc non voterà nulla che non sia coerente con il programma», avverte Maurizio Zipponi, responsabile lavoro del Prc.
Il morale è sotto le scarpe. Uniche note positive di giornata l'esclusione delle donne dalla stangata sulle pensioni e, per il Prc, la fuoriuscita dall'isolamento in cui pareva finito il partito che più di altri aveva fatto dell'abolizione dello «scalone» una questione di vita o di morte. Di abolire lo «scalone», invece, per ora non se ne parla proprio. Anzi. Perfino sulla platea degli esenti le varie ipotesi sono ancora agli antipodi. Da palazzo Chigi avrebbero ventilato una mini esclusione per 7mila persone sulle oltre 140mila bastonate dallo «scalone». Un'ipotesi inaccettabile per il Prc. Mentre si torna a parlare di una nuova offensiva sui coefficienti di calcolo dietro la parola magica «giovani». Sullo scalone invece si fa sempre più concreta l'ipotesi di un mix che non penalizzi i conti pubblici (quindi a costo zero) composto da «scalini» e quote che di fatto ratificherebbero la riforma Maroni solo addolcendola solo un po'.
In ambito sindacale comunque di referendum tra i lavoratori o di mobilitazioni e scioperi nemmeno si parla, al massimo si ipotizza una semplice «consultazione» tra gli iscritti. Dimenticando che, parafrasando Aldo Natoli, si può andare in pensione anche senza avere una tessera in tasca. Dopo le intemerate di Epifani e gli equilibri nel direttivo della Cgil, Rifondazione si è allineata alle mosse sindacali e si è impegnata in un lavoro di tessitura nella maggioranza. Abbastanza coperta, finora, anche la Fiom. Nessuno "scontro" a sinistra nemmeno con Mussi, più vicino ai riformisti che in altre occasioni. Subito prima della stretta finale insomma si intravede di nuovo, almeno per ora, un fronte compatto.
Di tutto ciò la segreteria di ieri di Rifondazione non si è occupata, concentrandosi invece sulla preparazione del prossimo congresso del partito. Sabato e domenica l'assise sarà convocata all'inizio del 2008 dal comitato politico nazionale.. Sarà un appuntamento delicato, soprattutto per la maggioranza «bertinottiana» che voleva focalizzarlo sul «soggetto unitario» a sinistra e invece rischia di iniziare a discuterne all'indomani di una rottura sullo scalone e dopo una finanziaria dai contorni incerti e con un Pd «veltroniano» sempre più «autosufficiente».
Nell'attesa di Prodi, la sensazione dominante è che l'ala riformista del governo si prepari a un braccio di ferro con i sindacati. Oggi il premier inizierà i contatti informali che dovrebbero portarlo a formalizzare un documento definitivo da presentare al consiglio dei ministri di venerdì prossimo. Ma dovrà per forza scontentare qualcuno. «Dovrà scegliere se rilanciare questa coalizione e questo governo recuperando il rapporto con la sua base sociale oppure subire l'offensiva di chi punta tutto sul dopo: un governo istituzionale e una legge elettorale fatta apposta per avvantaggiare il Pd e il futuro partito formato da Fi e An», commenta preoccupato Giovanni Russo Spena. Per la risposta basterà attendere.

il manifesto 11.7.07
La lunga marcia dell'autore italiano più tradotto all'estero
Efficaci strategie In tutto il mondo e in particolare negli Stati Uniti corsi di studio sui testi gramsciani
di Adalberto Minucci


Sono in molti a ritenere che le vicende politiche che hanno segnato la fine del Novecento e i primi anni del nuovo secolo abbiamo coinciso con un abbassamento del livello culturale della società italiana e, in qualche misura, l'abbiano determinato.
Per un periodo assai lungo, delle opere e delle idee di Gramsci si sono occupati essenzialmente (come era giusto, del resto) alcuni studiosi. Più scarso l'interesse del mondo politico e della stessa sinistra - spesso impegnata in ridicole polemiche su chi includere nel «Pantheon» dei suoi padri nobili - proprio in una fase in cui il pensiero di Gramsci era più che mai attuale.
La ripresa di attenzione, oggi, compreso il lancio di nuove edizioni della sua opera, si deve molto, se non soprattutto, alla straordinaria diffusione delle sue idee, delle sue concezioni politiche e filosofiche a livello mondiale. Da qualche decennio, infatti, Gramsci è diventato l'autore italiano più tradotto all'estero. In numerose università americane, australiane (in particolare Sydney), asiatiche e ovviamente europee, vi sono facoltà che dedicano corsi di studio all'opera gramsciana. Per ciò che riguarda gli Stati Uniti in particolare, Joseph A. Buttigieg, riferendosi anche a noti accademici americani in un articolo apparso tempo fa sull'Unità, sottolinea che «l'idea di Gramsci su come fare la rivoluzione in una società occidentale si è rivelata corretta», tanto che negli stessi Usa «la rivoluzione gramsciana continua ad avanzare e a tutt'oggi continua a fare adepti».
Negli ambienti conservatori - scrive ancora Buttigieg - si è fatta strada «la convinzione che il comunista italiano abbia lasciato in eredità alla sinistra una strategia efficace per trasformare radicalmente la società americana dall'interno, corrompendola furtivamente o impadronendosi delle principali istituzioni della società civile. Questa visione della società civile è stata rafforzata dagli intellettuali, dai politici e dai propagandisti di destra che non si stancano mai di lamentare il fatto che la sinistra è impegnata in una «lunga marcia nelle istituzioni», una sorta di guerra culturale di ispirazione gramsciana volta a minare i valori tradizionali» della società statunitense.
Questa attenzione al pensiero di Gramsci è in buona misura riferibile al fatto che il fondatore del Pci viene considerato - in un periodo di grande trasformazione e crisi dei sistemi capitalistici - come il teorico marxista che più di ogni altro ha posto, dopo Marx, la questione della trasformazione sociale nei paesi di capitalismo sviluppato, rimasta irrisolta dopo la vittoria dei bolscevichi. La famosa definizione della Rivoluzione di Ottobre come «una rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx» - titolo di un suo editoriale sull'Avanti! del 24 dicembre 1917 - non è certamente una battuta estemporanea. Pone l'accento sull'arretratezza del capitalismo russo per valutare le grandi e forse insormontabili difficoltà della realizzazione di una nuova formazione sociale.
Non a caso, Gramsci conclude l'articolo augurandosi che l'umanità russa «non cada nello sfacelo più orribile». C'è in Gramsci una concezione del passaggio dall'una all'altra formazione sociale che è in completa sintonia con quella di Marx. Per entrambi, la rivoluzione proletaria e socialista si presenta come una continuità storica della rivoluzione capitalistica e borghese. Marx stesso apre, non a caso, la prima edizione del Capitale con un'affermazione che non lascia spazio a dubbi. «Il mio punto di vista», scrive Marx, «concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come un processo di storia naturale. Anche quando una società è riuscita a intravedere la legge di natura del proprio movimento non può né saltare, né eliminare per decreto le fasi naturali dello svolgimento». Riflettendo sulle vicende del 1848, Marx faceva appello assai significativamente ad una «evoluzione rivoluzionaria». In altri termini, la «classe operaia non ha da realizzare ideali, ma da liberare gli elementi della nuova società dei quali è gravida la vecchia e cadente società borghese». Sono parole che ricordano l'insistenza con cui Enrico Berlinguer esortava a fare emergere con l'iniziativa politica «gli elementi di socialismo» già presenti nella crisi delle moderne società capitalistiche.
La straordinaria attualità di Gramsci è evidenziata oggi non soltanto dal «processo di storia naturale» che muove e mette in crisi il capitalismo attuale, ma anche dal fallimento delle esperienze statali nate dall'Ottobre russo. Già dal carcere egli aveva compreso che un regime politico a partito unico non è in grado di garantire lo sviluppo di una società complessa. Più tardi, un altro comunista italiano, formatosi alla sua scuola, da una tribuna di Mosca avrebbe affermato che la democrazia è un «valore universale» e che non può esservi socialismo senza pluralismo.

il manifesto 11.7.07
Quello che non è scritto nei "Quaderni dal carcere"
di Guido Liguori


Data dagli anni Novanta un interesse reale per la vicenda carceraria di Gramsci, che accompagna l'ormai acquisita coscienza della necessità di leggere i Quaderni in modo diacronico. Essa si nutre di nuovi ritrovamenti negli archivi di Mosca e di un'attenta riconsiderazione degli epistolari di Gramsci e dei suoi interlocutori. Perfetto esempio di questo approccio è il recente libro di Angelo Rossi e Giuseppe Vacca, Gramsci tra Mussolini e Stalin (Fazi, pp. 245, euro 19) che presenta due documenti finora sconosciuti, scritti da Gennaro Gramsci dopo la celebre visita al fratello nel carcere di Turi, inviato da Togliatti per conoscere gli orientamenti del prigioniero in merito alla «svolta» del '29 che inaugurava la politica del socialfascismo.
Nuove ipotesi dai carteggi
Sebbene non contengano rivelazioni eclatanti, questi documenti confermano sia l'interesse con cui Gramsci seguiva gli avvenimenti del «mondo grande e terribile» («sono al corrente di tutto perché le molte riviste che leggo... riportano tutti i fatti salienti della vita mondiale»), sia la netta presa di posizione contro la previsione di repentino crollo del fascismo propria della «svolta» («non credo che la fine sia così vicina. Anzi ti dirò, noi non abbiamo ancora visto niente, il peggio ha da venire»).
Gli autori si spingono avanti nello studio dei carteggi, per formulare nuove ipotesi su alcuni rilevanti passaggi della vicenda. Composto da quattro saggi, firmati dai due autori (ma scritti dichiaratamente dall'uno o dall'altro), il libro offre notevoli materiali e spunti di riflessione, qualche novità di indubbio rilievo, e una serie di ipotesi interessanti pur se discutibili. In particolare, i quattro saggi sono dedicati al rapporto e alla comunicazione tra Gramsci in carcere e il partito, ai documenti inediti stesi da Gennaro dopo la visita del 1930 a Turi, alla ripresa del tema della Costituente (il «cazzotto nell'occhio») con cui Gramsci prospettò nei colloqui con gli altri detenuti comunisti un'alternativa al rozzo ottimismo staliniano affermatosi nel 1928-29 e, infine, all'analisi del 1933, l'ultimo anno trascorso a Turi, e alle ipotesi di liberazione del prigioniero per tramite di una trattativa interstatuale. Ma vengono affrontati nel volume, spesso con acutezza, altri momenti topici della vicenda, quali il ruolo di Sraffa, la lettera di Grieco del '28, l'attenzione con cui Mussolini seguiva le cose di Gramsci, la vigilanza del prigioniero perché mai un suo gesto potesse essere interpretato come capitolazione davanti al fascismo.
Sraffa comunista?
È noto come intorno al capo dei comunisti italiani costretto in carcere vi fosse una rete di persone non solo impegnate nell'aiutare il prigioniero, ma nel garantire una prudente comunicazione con il vertice del partito: il «circolo virtuoso» Gramsci-Tania-Sraffa-Togliatti (e viceversa). Ebbene, gli autori affermano che Sraffa non vi abbia preso parte solo in quanto fidato amico di Gramsci, antifascista e simpatizzante dell'Ordine Nuovo, ma in quanto comunista «sotto copertura», non formalmente iscritto proprio per poter svolgere i compiti particolari affidatigli (lo stesso si afferma di Gennaro Gramsci). Sraffa acquista anzi - attraverso l'analisi della sua corrispondenza con Tania - un forte ruolo dirigente, che ridimensiona implicitamente quello della cognata. La tesi di Sraffa dirigente comunista - almeno nell'ambito dell'affaire Gramsci - è suggestiva, forse non lontana dal vero, ma resta non suffragata da prove documentarie.
Un secondo aspetto da ricordare è quello dei codici di comunicazione che Sraffa e Togliatti avrebbero escogitato per dialogare con Gramsci. Su questo terreno, il libro non è del tutto convincente. È chiaro che il linguaggio gramsciano, a causa della censura, specie nelle Lettere, sia pieno di doppi sensi, di riferimenti impliciti, di messaggi tra le righe. Senza dire del carattere analogico e metaforico del ragionare di Gramsci. Ma che tutto questo si possa definire un codice appare forzato. Si tratta in molti casi di metafore trasparenti, di riferimenti all'attualità appena velati. È chiaro che se Gramsci ragiona sul ruolo di Croce, ha alle spalle un'elaborazione pregressa e condivisa con Togliatti. Per cui parlare di Croce in un certo modo costituisce anche una conferma della «politica di Lione» e dell'analisi della società italiana che essa aveva alle spalle. Che gli interlocutori di Gramsci fossero interessati a decifrarne le opinioni sull'attualità è evidente, come dimostra la lettera di Sraffa a Togliatti in cui si esplicita la volontà di trovare temi di ricerca «il cui contenuto politico possa essere fatto passare sotto veste di letteratura».
L'unico esempio che può essere segnalato come un tentativo di comunicazione codificata è quello relativo allo studio gramsciano sul Canto X dell'Inferno. A tal proposito, viene da osservare che Gramsci non ha scritto in carcere centinaia di pagine su Dante e su temi analoghi al fine di ingannare la censura: sono argomenti che gli interessano in quanto tali. Né è pensabile che egli possa aver piegato la propria interpretazione a motivi esogeni. E, d'altra parte, sembra ben povero il contenuto di tale comunicazione esoterica: come Cavalcante - farebbe intendere il prigioniero - sono preoccupato delle sorti di mio «figlio», il partito; né dovete farmi passare per eroe, voglio combattere anche per uscire vivo di galera... Tutto qui il messaggio «in codice» di Gramsci? Non sembra un granché. Nonostante tali perplessità, va però detto che il lavoro ermeneutico degli autori resta importante per documentare l'attenzione gramsciana all'attualità e la sua opposizione agli indirizzi prevalenti ai vertici dell'Internazionale. Esso fornisce convincenti esempi di interpretazione del carteggio, e indica la ricchezza di una lettura contestuale dell'intero epistolario e dei carteggi paralleli. Che non è merito da poco.
Un terzo punto di rilievo è la sottolineatura dell'attenzione prestata da Gramsci al contesto geopolitico e al riavvicinamento temporaneo verificatosi tra Roma e Mosca dopo l'ascesa al potere di Hitler, anche in relazione alla lotta del prigioniero per ottenere la liberazione e salvarsi la pelle. I forti richiami a Tania (dunque a Togliatti, se non si dimentica il «circolo virtuoso») perché si agisse a livello di Stati, senza coinvolgere il partito, viene spiegato con la consapevolezza gramsciana che il fascismo mai avrebbe concesso la liberazione se essa fosse sembrata un successo delle opposizioni. Questo era stato l'errore già della lettera di Grieco del '28. E molti danni vennero poi compiuti dall'iniziativa delle forze antifasciste fuori d'Italia: esse accusavano il Pcd'I di aver «abbandonato Gramsci», costringendo così anche il partito a incrementare le proteste, che però sortivano effetti opposti a quelli desiderati. In questo quadro, sembra agli autori che sarebbe stata possibile la liberazione del prigioniero in occasione della visita a Roma del ministro degli Esteri sovietico, nel 1933. E viene avanzata l'ipotesi che sia mancata solo, da parte comunista, la volontà di compiere un preciso passo in questo senso. Gramsci vittima di Togliatti? O, come sembra suggerire il libro, di Stalin? Domande ancora una volta senza risposta.
Ma senza supporto di prova resta tutta l'argomentazione. Si tocca qui, mi pare, un punto centrale di metodo: è giusto avanzare ipotesi interpretative non suffragate da alcuna «pezza d'appoggio»? Non si rischia di scrivere così, per certi versi, un romanzo storico? Bisogna ovviamente distinguere da caso a caso. Ma una grande cautela è necessaria quando non si hanno riscontri di fatto.
Esercizi di ermeneutica
Molti altri spunti interessanti offre il libro di Rossi e Vacca. Vorrei ricordarne in conclusione solo un altro, che è anche il più rilevante dal punto di vista teorico-politico: la questione della Costituente di cui ebbe a parlare Gramsci in carcere, il cui problema di fondo è nella valutazione che essa contiene della «fase di transizione» e più in generale del fine della transizione stessa. A tal proposito Vacca scrive: «Sia la teoria dell'egemonia sviluppata nei Quaderni, sia la concezione della "democrazia di nuovo tipo" (le posizioni di Togliatti e Dimitrov, ndr), implicano il superamento della teoria della "rivoluzione proletaria" e della "dittatura del proletariato", e comportano quindi una riformulazione del "fine ultimo", se non il suo abbandono». A me sembra che se con ciò si vuole affermare che Gramsci opera in carcere una ridefinizione profonda dell'idea di rivoluzione, prendendo le distanze definitivamente dal modello bolscevico con una serie di categorie storico-politiche originali (egemonia, guerra di posizione, ecc.) si dice cosa inoppugnabile. Se invece si vuol dire che così viene meno in Gramsci, novello Bernstein, il «fine ultimo» del superamento della società capitalistica, si dice qualcosa che - per quanti esercizi di ermeneutica si facciano - non troviamo scritto nei Quaderni.

Liberazione 11.7.07
Se vincono quelli del referendum l'Italia sarà in mano a un'oligarchia
di Rina Gagliardi


Il disegno dei referendari è chiarissimo: sostituire la "rappresentanza" con un sistema di comando che faccia perno sui poteri forti
approfittando della crisi della politica e dei partiti. Entro sabato devono arrivare a 500mila firme: speriamo che falliscano...

Posso esprimere un (pio) desiderio? Il desiderio è che le cinquecentomila firme necessarie per la partenza del referendum Guzzetta non vengano raggiunte. E che dunque il referendum stesso venga clamorosamente (pre)bocciato dagli elettori. Del resto, è già sufficientemente scandaloso che mezzo milione di firme, che poi notoriamente non verranno mai davvero controllate, possano determinare una consultazione non solo costosa, ma assai pericolosa dal punto di vista democratico. Del resto, quello di cui si sta parlando è tutto fuorché un referendum abrogativo, come la Costituzione prescrive: è un referendum propositivo bello e buono, che ridisegna attraverso una nuova legge elettorale l'assetto futuro del sistema politico e della democrazia rappresentativa. Del resto, infine, esso viene presentato in termini mistificati e manipolatori: come una "lezione" da impartire, indiscriminatamente, alla classe politica, che è, certo anche con fondate ragioni, in uggia alla gran parte della popolazione.
Il referendum - sia chiaro - è uno strumento importante e apprezzabile della dialettica tra "governanti" e "governati" ed è per questo che è stato costituzionalmente regolato: come una chance di cui cittadine e cittadini possono usufruire per abrogare leggi che non condividono, che sono diventate nel tempo ingiuste, che sono invecchiate. Come, insomma, una possibilità che la società civile, le persone normali, i non addetti ai lavori possono sfruttare per correggere i limiti, o gli errori, della rappresentanza. Perciò sulle leggi ordinarie è previsto soltanto il referendum abrogativo: accadde così, per la prima volta, nel mitico 1974, quando i Comitati civici proposero l'abolizione della legge che, all'inizio del 1971, aveva istituito il divorzio. Fu un grande momento di partecipazione e discussione di massa: perché riguardava la vita reale di tutti, e ciascuno, col suo Sì o col suo No, poteva decidere che tipo di famiglia voleva e, indirettamente, che tipo di rapporto tra Chiesa e Stato laico voleva. Ma, man mano che passavano gli anni, il referendum smarrì queste caratteristiche di grande coinvolgimento democratico, diventando per un verso un'arma di lotta politica come un'altra, e un terreno di scontro tra poteri per l'altro verso. Quest'ultima è la faccia reale del referendum Guzzetta: che è sostanzialmente un referendum dei poteri forti, oggi interessati a ridimensionare drasticamente la rappresentanza e a depotenziare la politica di massa. Il bersaglio apparente è la frammentazione del sistema, la proliferazione dei partiti, il potere di veto, o di paralisi, che gli stessi partiti tendono ad esercitare su qualsiasi meccanismo decisionale. Ma l'obiettivo reale è il partito inteso come aggregazione di soggettività, cultura, idee, persone, come luogo di partecipazione alla vita democratica - dunque, come "ingombro". E la strategia che hanno in testa i vari professori, o politici un po' isterici come il ministro Parisi, è quella di un maggioritario fondato su due "partiti" molto simili - due Grandi Centri di opinione, due Non Partiti, che competono tra di loro in una alternanza che non ha, come posta in palio, nessuna delle grandi scelte della politica, la collocazione internazionale, la guerra e la pace, la politica estera. Esse o sono definite via bipartisan, una volta per tutte, o spettano comunque ad altri - a chi governa, ai grandi potentati economici, alle tecnocrazie internazionali. Alle élites, gli "ottimati" capeggiati da Eugenio Scalfari. Guardateli bene, i promotori o i fans di questo referendum: appartengono tutti alle classi alte del Paese, sono professori che credono seriamente di poter spiegare a tutti (magari su "base scientifica") che cos'è il meglio per il Paese, sono un pezzo di governo e di Parlamento, sono torrefattori di un pur ottimo caffè purtroppo "prestati alla politica". Non c'è traccia di società civile, in questa corporazione oligarchica.
Naturalmente, da questi promotori non poteva venire che un'idea, oltre a tutto il resto, astratta e inefficace. L'idea che il premio di maggioranza venga assegnato ad un solo partito, il più forte di una complessa coalizione, non ha in realtà né capo né coda - infatti, non esiste in alcun luogo del mondo. Inoltre, quand'anche questa ipotesi sciagurata venisse votata dagli elettori (stufi della politica castale, stufi di una politica che costa troppo, non in assoluto, ma per quello che riesce a produrre, stufi di veder passare un governo diverso dall'altro, sulla loro strada e scoprire che nella loro vita reale non cambia nulla), sarebbe relativamente facile aggirare il nuovo assetto, e dar vita, alle prossime elezioni, a maxi liste molto composite - al termine del nuovo rito, i partiti e i gruppi parlamentari potrebbero ricostituirsi in parlamento, ridotti sì, ma pur sempre esistenti.
Del resto, solo un tal manipolo di "ottimati" può pensare davvero possibile il ridisegno dall'alto - attraverso la manipolazione del basso - dell'intero sistema politico. La frammentazione dei partiti, come sanno ormai anche i bambini, è un puro frutto maturo del sistema elettorale maggioritario, che ha trasformato in rendita di posizione ogni "pacchetto" elettorale minimamente consistente e ha massimizzato il potere di condizionamento di tutti - non solo dei partiti, ma delle correnti, delle subcorrenti feudali, delle lobbies, e così via. Nella famigerata Prima Repubblica, i partiti veri erano tre e i partiti rappresentati in parlamento non erano più di nove - e tutto questo sulla base di un sistema seriamente proporzionale. E poi? Poi i gruppi sono diventati quarantaquattro, nella scorsa legislatura - oggi sfiorano la trentina, ma soprattutto continuano a nascere. Quando nascerà il Partito Democratico, si scoprirà - il dibattito sulle liste e le candidature in corso è già illuminante - che non i piccoli, ma, appunto, il grande Piddì, che dovrebbe essere l'architrave della terza repubblica, è straframmentato al suo interno: veltroniani puri, veltroniani spuri, parisiani, bersaniani, postdiessini, postmargheritini, rutelliani, mariniani, popolari laici, popolari tiepidamente laici, lettiani, teodem, confindustriali. Quando e se nascesse il Partito unico delle destre, sarebbe all'incirca lo stesso. Insomma, non è la fine della frammentazione (che ha cause molto profonde e complesse, nella crisi della coesione sociale, nella fine delle grandi narrazioni novecentesche, nella corporativizzazione galoppante del tessuto sociale come politico e istituzionale) che sta a cuore ai referendari: è la fine della sinistra, intesa come forza protagonista. Negli Stati Uniti, del resto, c'è forse una sinistra politica al Congresso? No che non c'è. No che non ci può essere, finché è in vigore un sistema elettorale che è stato concepito per impedire alla sinistra di esistere come forza politica, istituzionalmente rappresentata, e per cancellare dall'architettura del sistema ogni possibile rappresentazione degli interessi sociali e di classe, a cominciare dal lavoro. Ma loro, quando parlano di democrazia, è lì che guardano - al paradiso americano. Dove vanno a votare in pochi, dove possono scegliere solo di che presidente morire, dove si può discutere di tante cose, tranne che quale società costruire. Che sogno, vero, ministro Parisi?