venerdì 13 luglio 2007

Repubblica 13.7.07
Fausto Bertinotti e la riforma previdenziale


la lettera
Caro Direttore, Eugenio Scalfari sostiene che non voglio "scalini e scalette al posto dello scalone" e che dello scalone vorrei l´abolizione pura e semplice, indifferente al conseguente disastro finanziario e alla messa sotto accusa dell´Italia da parte della Commissione Europea. Semplicemente non è vero. Ho sempre sostenuto la necessità di differenziare l´andata in pensione tra chi ha diversi percorsi di lavoro (e dunque ha età reali molto diverse tra loro) e di non obbligare chi è segnato da un lungo periodo di lavoro faticoso e usurante, come i turnisti, coloro che sono sottoposti a lavori vincolati, gli operai, ad un prolungamento della vita lavorativa che sarebbe, secondo me, socialmente intollerabile e per nulla vantaggioso per le imprese. Chi fosse stato interessato alla mia reale opinione avrebbe potuto trovarla, ne La Repubblica del 6 luglio 2007, molto attentamente e fedelmente illustrata, cosa di cui ancora lo ringrazio, dal Suo Massimo Giannini con il quale ho avuto modo di intrattenermi in una lunga e approfondita conversazione.

Fausto Bertinotti
Presidente della Camera dei deputati

L´onorevole Bertinotti in queste ultime settimane ha fatto numerose dichiarazioni sul tema della riforma pensionistica e dello «scalone» della legge Maroni. Del colloquio con Massimo Giannini mi limito a riportare l´inizio: «Dopo un lungo colloquio con il Presidente della Camera, si capisce che il pericolo di crisi di governo è reale. Rifondazione comunista (di cui Fausto il Rosso resta il faro, nonostante il riserbo istituzionale che s´è imposto) non può accettare nè lo "scalone" di Maroni, né lo "scalino" di Damiano. Non può accettare nessun innalzamento "in corsa" dell´età pensionabile per la categoria degli "ultimi nella moderna gerarchia sociale": gli operai. Quelli che "hanno lavorato duro per una vita"».
A rigore di logica e di lessico si dovrebbe concludere che il Presidente della Camera non accetta né lo «scalone» né gli «scalini» e in particolare quelli destinati agli operai sottoposti al lavoro usurante. Sono tuttavia lieto e prendo atto della sua precisazione e cioè che la sua preoccupazione maggiore ed anzi esclusiva è quella che riguarda l´esenzione degli operai dall´innalzamento dell´età pensionabile. E´ una precisazione importante, in contrasto tuttavia con quanto continua a sostenere il segretario di Rifondazione, Franco Giordano.
(e. s.)

Repubblica 13.7.07
Sabato il comitato politico. Il premier alla ricerca di un'intesa preventiva con i sindacati
È resa dei conti dentro il Prc Giordano apre, l'ala dura non ci sta
di Roberto Mania


ROMA - «Tutti gli scenari sono possibili», continua a ripetere il leader della Cgil, Guglielmo Epifani. E, al di là dell´ottimismo che trapelava ieri sera da Palazzo Chigi, sulle pensioni non è esclusa davvero alcuna ipotesi: l´accordo, la rottura, il rinvio a settembre, fino al congelamento per un anno dello scalone di Maroni. Perché la querelle previdenziale si intreccia con la nascita del Pd, la crisi profonda di Rifondazione comunista, l´affanno dei sindacati. Oltreché - ça va sans dire - essere lo specchio dello scontro nella maggioranza tra riformisti e massimalisti e della fragilità del centrosinistra tra i banchi di Palazzo Madama. Tutto ciò è diventata la vertenza-pensioni. In gioco c´è il futuro del governo Prodi.
Al Consiglio dei ministri di questa mattina, il premier illustrerà le linee generali della proposta che sta ancora mettendo a punto. Parlerà di scalini, "quote" e lavori usuranti. Non dovrebbe entrare nei dettagli. Potrebbe farlo subito dopo, però, convocando i leader di Cgil, Cisl e Uil, Epifani, Bonanni e Angeletti. Un passaggio solo apparentemente semplice perché Prodi non può rischiare di ricevere un altro "no" dai sindacati. Dunque dovrà avere un sostanziale via libera da loro prima di convocarli formalmente. Questo perché si dà per molto probabile il ricorso ad un "lodo", prendere o lasciare, da parte del presidente del Consiglio. E per poter andare alla verifica conclusiva con Rifondazione comunista Prodi non può prescindere dall´assenso delle tre confederazioni.
A quel punto il destino dello scalone, ma anche del governo, sarà tutto in mano ai comunisti di Rifondazione. Fa parte della strategia di Palazzo Chigi. Da ieri gli sherpa del Prc hanno cominciato ad essere meno pessimisti. Le aperture ci sono già state da parte di Franco Giordano e dei suoi, a cominciare dalla disponibilità ad accettare lo scalino da 57 a 58 anni per la pensione di anzianità, escludendo coloro che svolgono attività usuranti e anche chi matura 40 anni di contributi. Ma questa è la Rifondazione-dialogante, l´altra, quella "comunista-comunista", è pronta a dare battaglia già al Comitato politico convocato per sabato e domenica. "L´Ernesto", una delle minoranze del partito, ha annunciato che presenterà un ordine del giorno nel quale si chiede «di non cedere sulla cancellazione dello scalone, anche se questo dovesse comportare la crisi di governo». Fosco Giannini è un senatore, il suo sarà uno dei voti decisivi: «O si cancella lo scalone o è crisi. Io sono d´accordo con la Fiom». Che, in questo caso è la Fiom di Giorgio Cremaschi, il dissidente per antonomasia, minoranza nella Cgil e ora anche in Rifondazione, dopo essere stato considerato il delfino di Fausto Bertinotti. Andrà anche lui al Comitato politico e ha deciso di parlare perché - dice - «siamo di fronte al totale fallimento di un gruppo dirigente e della sua linea politica. Al punto in cui siamo Rifondazione non è in grado di rompere perché andrebbe in crisi il governo, né di fare l´accordo perché i militanti non capirebbero. Che farà Rifondazione?». Lo scontro nel partito di Bertinotti è radicale e questo aiuta a capire la crescente insofferenza della Cgil nei confronti dei veti che arrivano da Via del Policlinico, dove sta la sede del Prc. «Rifondazione sta in piedi - dicono a Corso d´Italia - solo perché ha alzato la bandiera dello scalone».
Dunque si devono studiare altre vie di fuga, considerando che un accordo che possa piacere alla minoranza di Prc non avrebbe l´assenso di Lamberto Dini e degli altri senatori moderati. E allora non si può escludere il rinvio a settembre, anche perché lo scalone finirà comunque nella Finanziaria. Nelle discussioni, poi, torna a fare capolino l´ipotesi di un congelamento per un anno (la proposta è del bertinottiano Alfonso Gianni) della contestata norma di Maroni, ma anche l´ultimo drammatico scenario: lo scalone resterà.

Repubblica 13.7.07
Il leader della Cgil a "Repubblica Tv": anche imprese e banche sono contrarie allo scalone, impedisce il ricambio
"Rifondazione si fermi un attimo"
Epifani: con un clima più sereno l'accordo è possibile
Ci sono due strade per un compromesso intelligente: gli incentivi a restare o l'innalzamento graduale, esclusi i lavori usuranti
di Edoardo Buffoni


ROMA - «L´accordo sulle pensioni si può fare, noi della Cgil lo vogliamo fare, ma è tutto nelle mani di Prodi. Aspettiamo da giorni la sua proposta. E sulla trattativa, invito Rifondazione Comunista a fermarsi un attimo, c´è bisogno di un clima più sereno». Il segretario generale Cgil, parla a Repubblica Tv, in uno dei momenti più delicati della vicenda-pensioni.
Epifani, a che punto siamo con la trattativa?
«Di fatto, siamo fermi da giorni e giorni. In attesa che Prodi faccia il suo passo. Il presidente del Consiglio ha detto che si assumeva la responsabilità di fare una proposta, e ora dipende tutto da lui. Se vuol fare davvero l´accordo sulle pensioni, può darsi che lo si riesca a fare prima della pausa estiva».
Cosa impedisce di trovare un accordo?
«Prima di tutto il metodo: questa trattativa viene condotta in modo convulso, viene fatta sui giornali, con un continuo susseguirsi di proposte senza fondamento economico. Io ricordo la vecchia trattativa fatta con Dini: lavorammo per due mesi vedendoci tre volte alla settimana in un luogo riservato. Solo così si arriva a risultati concreti».
La Cgil non sente l´interferenza della sinistra radicale in una trattativa che dovrebbe essere solo tra voi, il governo e la Confindustria?
«Io ho chiesto a tutti i partiti di fare un passo indietro in questa fase delicata. Rifondazione ci ha chiesto un incontro, per una questione di cortesia lo abbiamo fatto. Certo, la loro è un´attività molto intensa in questa fase…»
Ma vi sentite "scavalcati" a sinistra?
«Prima Rifondazione ha detto: per noi va bene ciò che fa il sindacato, poi a un certo punto ha cambiato idea. Adesso spero che sia tornata all´idea originale. Il mio invito a Rifondazione è di fermarsi un attimo, perché se dobbiamo provare a fare l´accordo, ci vuole un quadro più rasserenante».
Nel merito, che soluzione siete disposti ad accettare sull´età pensionabile?
«Ci sono due strade per arrivare a un compromesso intelligente. La prima è quella degli incentivi, ma incentivi veri, senza la tagliola di un altro scalone in futuro, altrimenti nessuno si fermerà a lavorare più anni. La seconda è l´innalzamento graduale dell´età della pensione. Con quali tempi e con quali limiti, è materia di discussione. Noi siamo pronti a trattare, conti alla mano e senza spirito di corporazione. Tanto più che le imprese la pensano come noi».
Ne è sicuro? Le imprese sono contro lo scalone?
«Non faccio che incontrare industriali, banchieri, piccoli e grandi, che mi dicono: tenete duro, avete ragione voi. Perché, come dice anche Walter Veltroni, quando c´è una crisi o il dipendente arriva a 50 anni, le imprese preferiscono mandarlo via e sostituirlo con un giovane magari precario per risparmiare sui costi. Lo scalone in molti casi impedirebbe questo ricambio. Ma Confindustria non può dire una cosa e le imprese fare il contrario. Non è onesto».
Lei ha citato la lettera di Veltroni a "Repubblica". In quella lettera c'è l´idea di un patto tra le generazioni. Che ne pensa?
«Noi condividiamo le proposte di Veltroni, sono già nell´idea di solidarietà che ha il sindacato, di equità tra le generazioni, tra i giovani e i lavoratori che stanno per andare in pensione. C´è però anche il tema dell´equità dentro la stessa generazione. Perché magistrati e diplomatici devono avere un trattamento pensionistico migliore degli altri lavoratori? Perché le pensioni dei dirigenti d´azienda devono gravare sui conti dell´Inps? E chi le paga? Il fondo dei precari e dei parasubordinati».
All´accusa di corporativismo cosa risponde?
«Per noi la lotta alla precarietà dei giovani è una costante degli ultimi anni: legge 30, contratti atipici, coefficienti. E lo dimostra il fatto che tutti i nuovi iscritti alla Cgil sono giovani, altro che pensionati. Il corporativismo può nascere in quelle categorie, penso agli operai, a cui non viene riconosciuto più un valore sociale».
Quello degli operai è un lavoro usurante? Nel loro caso si può alzare l'età della pensione?
«Dipende dai casi. Ci sono operai che possono benissimo continuare dopo i 57 anni. Altri no, come una donna che ho conosciuto alle carrozzerie di Mirafiori, che non ce la fa più. Io fisso due criteri: non va alzata l´età della pensione a chi fa un lavoro vincolato, tipo catena di montaggio, e a chi fa sistematicamente il turno di notte. Quanti siano questi lavoratori lo stiamo calcolando in questi giorni».
E le donne? Rutelli ha proposto l'innalzamento a 65 anni insieme agli uomini.
«Tempo fa ero d´accordo, poi ho cambiato idea. Le donne vanno in pensione con meno anni di contribuzione e stipendi minori degli uomini. Questa è la vera disuguaglianza. Innalzare ora l´età pensionabile mi sembra una cattiveria inutile».
Faccia un pronostico: l'accordo si farà?
«La Cgil ha chiaro in mente cosa vuole. Io voglio fare questo accordo, perché un sindacato che non fa l´accordo è un sindacato che perde».

Repubblica 13.7.07
Il manifesto del leader Dl firmato da personalità come Chiamparino, Follini, Cipolletta, Bobba
Rutelli sfida la sinistra radicale "Alleanze diverse se fermate le riforme"
di Giovanna Casadio


Nuovo conio. Il Partito Democratico dovrà proporre una alleanza di centrosinistra di nuovo conio
Cambiare rotta. Il Pd deve aiutare il governo a cambiare rotta e rivolgere un messaggio chiaro al Paese
Neo umanesimo. L´ambiente, in primo luogo, è il terreno del nuovo umanesimo del XXI secolo
Ritorno alla crescita. La missione di questi anni per l´Italia è il ritorno alla crescita. Ridurre la pressione fiscale

ROMA - Sette punti, tre paginette e mezzo ma dirompenti. Il "Manifesto per il coraggio delle riforme" è stato limato fino a tarda notte da Francesco Rutelli e dagli «amici di sempre». Pensata e ripensata la frase con cui si conclude: «La maggioranza che ha vinto le elezioni deve governare i cambiamenti. Sappiamo che potrà essere confermata solo se soddisferà le attese degli elettori. Altrimenti il Partito democratico dovrà proporre un´alleanza di centrosinistra di nuovo conio».
Dovrà quindi il Pd, «per non riconsegnare l´Italia alle destre e soprattutto per non essere imprigionati dal minoritarismo e dal conservatorismo di sinistra, nè dalla paralisi delle decisioni», avere anche il coraggio di nuove alleanze. Come dire, sarà necessario fare a meno della sinistra massimalista, Rifondazione in testa, se impedirà le riforme, dalle pensioni alle liberalizzazioni. Del resto, il Manifesto di Rutelli - di appoggio a Walter Veltroni alla guida del Pd -disegna profilo e compiti del partito nuovo: primo fra tutti, «aiutare il governo a cambiare rotta». Anche perché il rapporto con l´opinione pubblica è critico; la missione di questa legislatura non si può «esaurire» solo nel risanamento economico; la delusione tra i ceti popolari va combattuta; l´insofferenza dei ceti medi – piccoli imprenditori, commercianti, professionisti, artigiani - cresce e «l´eccesso di adempimenti fiscali e amministrativi rende mal difendibile la sacrosanta azione contro l´evasione fiscale». Un elenco incalzante nel Manifesto di Rutelli, un invito affinché il Partito democratico provochi «un sano shock politico e progettuale» che vira infine verso una semplice considerazione: se la maggioranza delude, occorre una nuova alleanza.
Piace a molti. A Marco Follini, ad esempio. L´ex leader dell´Udc approdato saldamente nel Partito democratico, lo trova «innovativo e non all´acqua di rose». Perciò firma il manifesto dei "coraggiosi" e spiega che «il voto per Veltroni prevede un forte vincolo di mandato, ci impegna e lo impegna a una rotta più innovativa». Lo sottoscrivono nella Margherita, i rutelliani doc Paolo Gentiloni, Linda Lanzillotta, Donato Mosella, Renzo Lusetti, Ermete Realacci, Rino Piscitello però anche i teodem Gigi Bobba, Paola Binetti, Emanuela Baio, Antonio Polito e, nello spirito dello sparigliamento, i ds Enrico Morando e Franco Bassanini, il sindaco di Torino Sergio Chiamparino il presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati. Adesioni da imprenditori (Innocenzo Cipolletta e Gianfranco Imperatori), esponenti delle associazioni cattoliche (Andrea Olivero delle Acli), attori (Michele Placido e Pamela Villoresi).
Il vice premier è dunque ufficialmente in campo e il manifesto, che doveva essere la base di una sua lista per la Costituente del 14 ottobre, è diventato la piattaforma per un´area riformista del nuovo Partito democratico. Dario Franceschini, il vice in pectore di Veltroni (che non l´ha firmato) fa sapere però di apprezzarlo: «Da quello che ho letto mi sembra un manifesto intelligente, molto riformista e innovatore come dice il titolo». Glissa sull´ipotesi "mani libere" per nuove alleanze: «Nel Pd dobbiamo fare una sintesi delle varie idee che vengono messe in campo e per fare sintesi occorre che qualcuno produca idee, posizioni e contenuti». Beppe Fioroni - il ministro della Margherita che sta organizzando l´area cattolica del Pd - è molto tiepido: «Se l´attuale coalizione si sfascia, allora il dovere del Partito democratico è quello di creare una nuova prospettiva. Però il Pd nasce per sostenere e stabilizzare l´azione del governo Prodi. Non credo che Francesco intenda dire qualcosa di diverso».
In concreto. Le riforme coraggiose che invoca Rutelli riguardano «sette programmi prioritari», ovvero l´ambiente che è «terreno del nuovo umanesimo»; la modernizzazione; la coesione sociale che si traduce nella «tutela del potere d´acquisto di stipendi e pensioni e nel migliorare i servizi per le persone»; l´etica pubblica della responsabilità mentre oggi in Italia «chi delinque è premiato»; le imprese, che hanno bisogno di «una burocrazia più snella, subito, di liberalizzazioni in economia con la totale separazione tra la politica e gli affari; potere alla creatività dei giovani; quindi l´Italia nel mondo. Su questi assi si muove la svolta che il vice premier si augura e che fa salire la tensione con la sinistra ma anche con gli ulivisti prodiani. Massimo Cacciari, il sindaco di Venezia si dichiara d´accordo con «la linea di fondo» ma ancora non firma.

Repubblica 13.7.07
Il documento non piace al presidente del Consiglio: così la maggioranza va in fibrillazione
Il "nuovo conio" allarma premier e Prc
di g.c.

ROMA - Pennette al pomodoro e polpette. Nella cena a casa di Francesco Rutelli all´Eur, mercoledì sera, i «fedelissimi» - Paolo Gentiloni, Ermete Realacci, Renzo Lusetti e Luigi Zanda - se lo sono detti: «Questo Manifesto per il Partito democratico creerà casino». Non che sia piovuto come un fulmine a ciel sereno. Ne era stato informato Franco Marini, il presidente del Senato. Una copia è stata inviata a Walter Veltroni, un´altra a Piero Fassino.
Che avrebbe provocato la sollevazione della sinistra radicale, Rifondazione in testa, era scontato. Forse però i "riformisti coraggiosi" non hanno valutato bene l´effetto su Prodi. L´ipotesi di nuove alleanze allarma il presidente del Consiglio. A dirlo a chiare lettere è il ministro della Difesa, Arturo Parisi: «Nuove alleanze? Nuove alleanze, nuove elezioni». Una frase lapidaria, che nasconde un ragionamento: se si invocano maggioranze di «nuovo conio» si manda in fibrillazione l´Unione. È un modo per «destabilizzare» il governo nel momento delicato della trattativa sulle pensioni e in vista del Dpef.
La fila degli scontenti si è andata ingrossando mano a mano che la frase fatidica - a conclusione del Manifesto - emergeva in tutta la sua inequivocabile chiarezza. Franco Giordano, il segretario del Prc bolla tutta la faccenda come «il segno evidente di una svolta moderata». «Il Manifesto è semplicemente pessimo - commenta Giordano - Come sempre si dimostra che la partita interna al Partito democratico si riflette sulla maggioranza e si scarica sulla tenuta del governo. Mi pare che anche questa volta il tentativo sia quello di ipotecare la trattativa in corso con le organizzazioni sindacali sulle pensioni spingendo verso un esito moderato gli assetti di maggioranza e di governo».
Chiaro che Rifondazione non è disposta a cedere. «Si vogliono gettare le basi in questo modo per un diverso quadro politico. Per noi la soluzione è definire le condizioni di una trattativa sulla previdenza nel segno del programma condiviso, in modo unanime, dal centrosinistra e sulla base di un´intesa con i sindacati». La «forzatura moderata» di Rutelli indispone il Pdci e i Verdi. Mira a «tagliare le ali estreme» della coalizione: è il leit-motiv. Però nella sinistra radicale, circola anche un´altra riflessione: finisce che Rutelli ci fa un favore, dopo avere messo in difficoltà Prodi.
Nell´entourage del vice premier si nega che il "Manifesto per le riforme coraggiose" possa essere interpretato come un atto contro l´attuale governo. Casomai, è la richiesta di un cambio di passo, la consapevolezza (condivisa anche da Prodi), che sulle pensioni ad esempio, non si può portarla per le lunghe né essere ostaggio dei massimalismi e del "partito del no". Il "Manifesto" rutelliano vola alto sul profilo del Partito democratico e poi vira nel concreto dei passaggi politici, delle alleanze. Marco Follini l´ex leader Udc, adesso nel centrosinistra, lo trova perfetto: innovatore e «non all´acqua di rose», quel che andava detto in vista di una scommessa moderata.

l'Unità 13.7.07
Via i Dico, ecco i Cus
Niente più anagrafe basta il giudice di pace
Il contratto di unione solidale di Salvi diventa testo base. Pollastrini: buona mediazione
di Eduardo Di Blasi


LA TUTELA DELLE CONVIVENZE ha trovato al Senato una nuova formulazione di legge. Dopo i Pacs (Patto Civile di Solidarietà) e i Dico (Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi), ecco il Cus (Contratto di Unione Solidale). Sarà su questo «testo base», presentato ieri dal Presidente della Commissione Giustizia di Palazzo Madama Cesare Salvi, che quella Commissione inizierà a discutere nelle settimane a venire (l’iter in Commissione dovrebbe terminare per settembre).
Il Cus è una forma di mediazione tra la proposta governativa dei Dico (che a Palazzo Madama non sembrava poter raccogliere la maggioranza dei voti), e la proposta di «unione solidale» del senatore forzista Alfredo Biondi, per la quale il riconoscimento giuridico dell’unione civile andava formalizzato davanti a un notaio. Il Cus prevede infatti una «dichiarazione congiunta davanti al giudice di pace o ad un notaio». E specifica: «Qualora l’atto sia stipulato dal notaio, questi deve trasmetterlo entro dieci giorni all’ufficio del giudice di pace competente per territorio per l’iscrizione nel registro». A differenza dei Dico, quindi, il «registro» non sarà in capo all’anagrafe comunale, ma all’ufficio del giudice di pace. Il Cus non potrà essere stipulato «da persona minore d’età; da persona interdetta per infermità di mente; da persona non libera di stato; tra due persone che abbiano vincoli di parentela in linea retta o collaterale entro il secondo grado, o che siano vincolate da adozione, affiliazione, tutela, curatela o amministrazione di sostegno; da persona condannata per omicidio consumato o tentato sul coniuge dell’altra o sulla persona con la quale l’altra conviveva». I conviventi avranno «gli stessi diritti e doveri spettanti ai parenti di primo grado in relazione all’assistenza e alle informazioni di carattere sanitario e penitenziario». Potranno subentrare nell’affitto in caso di decesso dell’altro. Accedere all’eredità «dopo nove anni dalla registrazione del contratto» e alla pensione in base al futuro riordino del sistema previdenziale. Il Cus potrà essere modificato dai contraenti con una dichiarazione comune davanti al giudice di pace o al notaio. Viene sciolto: «Per comune accordo delle parti; per decisione unilaterale di uno dei due contraenti; per matrimonio di uno dei due contraenti; per morte di uno dei due contraenti». Il ministro delle Pari Opportunità Barbara Pollastrini, dopo aver rilevato che la proposta Salvi prende «punti qualificanti della nostra proposta» è ottimista sull’iter intrapreso: «Ci sono le condizioni per giungere a una mediazione». E rivendica: «Resto convinta che senza i Dico e l’atto del governo, anche solo affrontare la questione nelle aule parlamentari sarebbe stato più difficile». Dal punto di vista parlamentare il lavoro è appena iniziato. Incassato l’ok del senatore Antonio Del Pennino, che milita nel centrodestra e che auspica maggioranze trasversali, di Alfredo Biondi e del Dc Rotondi, il testo raccoglie diversi «no» nel centrodestra, e l’apprezzamento da parte del centrosinistra, che anche nelle sue componenti più radicali ritiene che il testo base sia un buon primo passo. A favore si pronunciano Vittoria Franco, Franco Grillini, Vladimir Luxuria, Titti De Simone, il Verde Bulgarelli (anche se Pecoraro Scanio parla di «piccolo passo avanti»). Contro il Cus si scagliano i promotori del Family Day Eugenia Roccella e Savino Pezzotta. La senatrice Teodem Paola Binetti annuncia: «I Dico erano un testo inemendabile, vedremo se se sarà possibile accettare la struttura dei Cus e poi pensare a proporre emendamenti...».

Non previsto l’obbligo di alimenti
La dichiarazione di convivenza va fatta solo congiuntamente davanti al giudice di pace o al notaio (che deve però trasmettere il contratto all’ufficio del giudice di pace per la trascrizione nell’apposito registro). Non sono permesse dichiarazioni singole (di una sola delle parti). Il vincolo può essere sciolto anche per decisione unilaterale di uno dei due contraenti, senza prevedere, come fa notare il ministro Pollastrini, «l’obbligo alimentare». Rispetto ai Dico manca la riduzione dell’imposta di successione e la possibilità di “ricostruire” ex post la convivenza per i legalmente separati.

L’atto pubblico è in Comune
Due i modi previsti per la dichiarazione: o si va congiuntamente all’anagrafe del Comune di residenza di uno dei due facendo una dichiarazione, o può andare uno solo e dimostrare di aver avvisato l’altro con raccomandata con ricevuta di ritorno (sarà poi l’altro convivente a ricevere la comunicazione dell’avvenuta registrazione dell’atto). L’anagrafe fotografa la realtà, lo Stato civile segnerà invece il passaggio di status. In questo caso siamo davanti ad un rapporto pubblicistico. Il rapporto sottoscritto con il Cus resta invece nell’ambito del diritto privato.

l'Unità 13.7.07
«Ora fondi pubblici per tutte le staminali»
«Manifesto» sulle embrionali: basta no a una ricerca essenziale


L’ETICA è al centro della questione. Ieri, a Roma, si è svolto il 2° Congresso Nazionale per la «Ricerca su cellule staminali embrionali». E la domanda che è maggiormente circolata è stata quella sulla laicità di questo tipo di ricerca, definendo qual è lo status da assegnare alla staminale embrionale: è un «semplice» gruppo di cellule, o è il primo passo verso una futura vita? Secondo un nutrito gruppo tra i maggiori e più qualificati scienziati italiani che collaborano con la «Consulta di Bioetica», «l’Associazione Luca Coscioni», e «l’Associazione Rosa nel Pugno», la ricerca sulle cellule embrionali è «dovere morale», per proseguire nell’ampliamento della nuova frontiera perchè questo tipo di ricerche costituisce un passo necessario per lo sviluppo della conoscenza di come si formano i tessuti umani e di come si ammalano. Con la prospettiva, rosea, di disporre di una medicina «rigenerativa» in grado, in futuro, di permettere la ricostruzione e la sostituzione di un intero organo malato. Il problema, però, è che la maggior parte dei fondi pubblici sono dedicati alle cellule adulte: «L’Unione Europea - si rileva nel Manifesto del Congresso - ha finanziato ben 110 progetti sulle staminali adulte, solo sette che prevedono l’impiego anche delle embrionali, e uno solo interamente dedicato a queste. In Italia, poi, non sono previsti finanziamenti pubblici per le staminali embrionali umane». Una situazione contestata da Demetrio Neri, membro del Comitato Nazionale di Bioetica: «Non ho mai sentito uno scienziato chiedere lo smantellamento e la chiusura di una promettente linea di ricerca. Sarebbe come dire, si fa ricerca sul cuore, però non è lecita e consentita la ricerca sul ventricolo destro».
Un’idea contrastata dalla Chiesa e da altri ricercatori cattolici che ritengono l’embrione «intangibile» in ogni sua fase, anche quando è una cellula embrionale. «Il problema - conferma padre Maurizio Calipari, presente al Congresso - non è la ricerca sull’embrione, ma la distruzione degli stessi. Noi riconosciamo la bontà della ricerca; ma ciò non può legittimare l’atto». Si, perché la Chiesa ritiene doveroso non impedire il naturale sviluppo delle cellule, peccato, che molto spesso, vengono utilizzate cellule già esistenti, destinate altrimenti alla distruzione.
al.fer.

l'Unità 13.7.07
Cinema. Proposte trattabili...
Rifondazione: ecco la riforma. Ora l’accordo
di Gabriella Gallozzi


Una giornata per la cultura tra la nuova legge di riforma per il cinema e un convegno, punto di avvio, per una riflessione sul diritto d’autore. Il tutto in casa di Rifondazione comunista ospite ieri del Goethe Institut di Roma, di fronte ad una platea di addetti ai lavori ormai «ferratissimi» sulle diverse proposte di riforma del sistema cinema presentate dalle varie forze dell’Unione e che dovranno portare ad un unico testo. «La presenza di diversi progetti di legge aiuterà e non danneggerà il lavoro parlamentare», spiega Stefania Brai responsabile cultura per Rifondazione, con riferimento a quello dell’Ulivo depositato dalla senatrice diessina Vittoria Franco e da Colasio della Margherita. «Molti sono i punti in comune - precisa - : con Vittoria Franco abbiamo lavorato insieme al tavolo dell’Unione. Arriveremo ad una mediazione più alta». Soprattutto su alcuni punti cruciali. Come l’autonomia dalla politica del Centro nazionale per il Cinema (Cnc) a cui saranno affidate competenze e funzioni dell'attuale Direzione generale per il cinema del ministero per i Beni Culturali. «Noi pensiamo ad un Cnc - spiega Brai - che sia autonomo, con un direttore generale nominato dal cda e con maggiori rappresentanze del mondo del cinema. Nella proposta dell’Ulivo si parla invece di un direttore generale nominato direttamente dal ministro». Per Rifondazione, al Centro saranno anche affidati i finanziamenti pubblici: un fondo nel quale confluiscono oltre al Fus, Lotto e fiscalità generali, anche i proventi della tassa di scopo, imposta a tutti i «soggetti che usano il cinema». Alla produzione cinematografica andrebbe almeno il 60% del Fondo al sostegno selettivo e non oltre il 40% al sostegno automatico, che sale al 90% per le opere prime e seconde e per quelle con «particolari caratteristiche culturali e di ricerca». Ed è proprio qui l’altra differenza con l’Ulivo: «non condividiamo la percentuale del contributo selettivo pari a un terzo del costo di produzione del film, e quella del contributo automatico pari a due terzi» spiega Brai. Terzo punto di «distacco fondamentale, poi, è l’assenza dell’antitrust», sparito dal disegno Franco-Colasio, a fronte di una denuncia dell’Autority del 2003 (sarà presentata in un libro bianco dall’Anac) in cui si parlava di «cartelli» a proposito di Medusa, Fox, Warner e altri. Per Rifondazione ha posizione dominante chi ha un numero di schermi superiore al 20% del totale nazionale. La percentuale scende al 16% per chi è anche distributore. Le tv non possono controllare imprese di distribuzione e imprese che gestiscono sale cinematografiche, ma hanno l’obbligo di programmare film italiani ed europei. Previsti incentivi per sale che puntano su pellicole, corti e documentari italiani ed europei, come accade in Francia col «minimo garantito», sparito da noi da oltre trent’anni.

il Riformista 13.7.07
Strane idee. Conversazione con Fausto Bertinotti
Caro Emanuele, ma quanto è socialista il Pse
di Emanuele Macaluso


Il tema è classico, e forse eterno: l'identità, il passato, il presente e (se possibile) il futuro della sinistra italiana. Il modo in cui Il Riformista prova oggi ad affrontarlo è - crediamo - molto meno scontato: Emanuele Macaluso “intervista” per noi il presidente della Camera Fausto Bertinotti. Ecco la sintesi del faccia a faccia.

Macaluso: «Come sempre, la sinistra arriva agli appuntamenti decisivi senza un suo progetto. Proviamo a ragionare in termini generali. In Italia, lo Stato sociale non si è formato sulla base di un progetto. La Dc è sempre stata al governo, poi i socialisti hanno portato altre istanze, l'opposizione comunista altre ancora. E c'era un sindacato forte. Senza una strategia complessiva, è venuto fuori un Stato un po' sociale, un po' caratterizzato da forme di assistenza cui non corrispondo diritti. E oggi? Oggi la sinistra gioca di rimessa, perché un suo progetto di riforma non ce l'ha, proprio come quando era all'opposizione. Il suo deficit fondamentale è questo. Sei d'accordo? ».

Bertinotti: «Condivido l'istanza di fondo che tu proponi, la necessità di un progetto della sinistra in Europa per delineare il nuovo compromesso sociale, i guai che derivano dalla sua assenza. Ma non sono molto d'accordo con te sul fatto che la sinistra, nel dopoguerra, in Italia non abbia avuto una sua proposta. Lo Stato sociale ha avuto un elemento di ispirazione comune che si ritrova nel fondamento costituzionale nel primo e nel terzo articolo della Costituzione: la cittadinanza e il welfare dovevano essere costruiti sul lavoro, lungo un processo nel quale il riconoscimento dei diritti dei lavoratori tende a diventare universale. In realtà, ci sono tre compromessi che danno ragione del carattere empirico del nostro welfare che tu indicavi. Il primo: tra la cultura del movimento operaio e la cultura cattolica. Il secondo: tra il Nord e il Sud del Paese, anche sulla base, certo, di quella miscela di diritti e assistenza di cui tu parlavi. Il terzo: tra pubblico e privato. Naturalmente non è tutto così lineare. Un esempio: ancora negli anni Settanta c'era un sistema pensionistico duale tra pubblico e privato, nel pubblico si poteva andare in pensione dopo 15 anni, sei mesi e un giorno. Quindi è evidente che ci sono delle aporie in quella costruzione. Ma, sintetizzando, un lineamento progettuale c'era, aveva il suo perno nel rapporto tra lavoro e cittadinanza, viveva con l'idea dell'espansione dei diritti, cioè di un meccanismo inclusivo che aveva al centro la figura dei lavoratori. E lo dimostrano tanti passaggi, dal Piano del lavoro della Cgil al confronto sulle riforme di struttura allo Statuto dei diritti dei lavoratori. La sinistra era divisa, ma una forte esigenza di proposta la aveva. Questa capacità entra in crisi quando quella lunga stagione muore con una sconfitta: il ciclo economico fordista-taylorista arriva alla fine, finiscono le lotte operaie di massa che avevano contestato quel ciclo acquisendo potere contrattuale, e i rapporti politici del dopoguerra (quelli costituzionali fondati sulla grande forza del Pci, del Psi e della Dc) finiscono anche loro, grosso modo con l'assassinio di Moro. Quello che dici tu succede dopo questo crollo. Da quel momento non c'è più una capacità progettuale. E non c'è più, adesso lo so che tu mi sgridi, perché la progettualità viene sostituita dalle compatibilità. Non dico che il problema delle compatibilità non esiste. Dico che la sinistra comincia a litigare - quando litiga - sul grado di compatibilità da accettare. Questo ti fa apparire come la sinistra del no, quando esisti. E, quando non esisti, sembri un esercito di mandarini di Bruxelles, tanti Almunya, uno che dice: queste sono le mie tabelle e questo è il risultato, poco importa se le persone e le classi scompaiono. L'economia si riduce a compatibilità. E questo farebbe saltare sulla sedia non solo Bertinotti, ma anche un riformista come Federico Caffè. Come diceva Claudio Napoleoni, certo che c'è il vincolo esterno, la concorrenza, le compatibilità, il mercato. Ma ci deve essere anche il vincolo interno che sei tu a dover introdurre, con la politica»

Macaluso: «Non c'è dubbio che il riferimento alla Costituzione sia stato fondamentale, ma anche prima della Costituzione, penso alle grandi lotte per la terra messe in moto dai decreti Gullo del 1944, un'idea di Italia c'era. Bisognava cancellare i rapporti semifeudali nelle campagne certo per dare giustizia ai contadini e ai braccianti, ma anche per aprire la via alla modernizzazione. Io ho sempre rifiutato l'idea che quella stagione si sia conclusa con una sconfitta: quelle lotte diedero un colpo alla vecchia classe dirigente baronale, promossero un mutamento sociale, un avvento di nuove soggettività nella vita sociale e nella vita politica. Lo stesso miracolo economico degli anni Sessanta sarebbe stato impossibile senza la cancellazione di quegli elementi feudali. Ecco perché parlo di modernizzazione. Anche il Piano del lavoro era un progetto, e che progetto! Al congresso della Cgil del '49 Di Vittorio, rivolgendosi ai suoi braccianti pugliesi, diceva: “badate, se nel contratto otteniamo degli investimenti per la trasformazione delle terre possiamo cedere qualcosa sul salario”. Ed erano salari da fame. Ma, questo è il punto, Di Vittorio aveva una idea complessiva del lavoro e della società. Il problema si complica negli anni successivi. E riguarda le riforme di struttura come leva per il socialismo. Uno sviluppo guidato dallo Stato attraverso le nazionalizzazioni, il sostegno alla piccola e media industria in un progetto antimonopolistico: questa era, in sintesi, la via italiana al socialismo. Quindi le riforme erano funzionali a un progetto. Certo, non era tutta farina del sacco italiano: c'era una visione mondiale anticapitalista e antimperialista, l'Urss, per quanto potesse non piacerci, in questa lotta era comunque considerata un baluardo contro il capitalismo. La progettualità di cui tu parli viveva dentro questo schema. Ma, siccome questo mondo è crollato, io voglio porti due questioni. La prima: di fronte a tanti radicali mutamenti nel mondo (quelli che con una parola magica vengono chiamati globalizzazione), la sinistra ha riproposto una sua strategia dopo che è caduta quella di cui abbiamo parlato sin qui, e che pure i suoi risultati li aveva portati? Io, te lo dico molto brutalmente, penso di no, e il problema non riguarda solo te e Rifondazione comunista, ma tutta la sinistra, in primo luogo quella che ha avuto più responsabilità e della quale ho fatto parte. E aggiungo: qual è il ruolo dello Stato? Sparisce e tutto è affidato al mercato? Ma se non c'è lo Stato non c'è la politica, come diceva la buonanima di Gramsci. La seconda questione che voglio porti è questa: la mia generazione, quella che assunse la guida del Pci tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, ha una grande responsabilità. Dopo la Cecoslovacchia, avrebbe dovuto porre con una diversa energia il problema del rapporto con l'Urss. E non l'ha fatto non perché non avesse consapevolezza di cosa fosse l'Unione sovietica, ma perché, come ho detto, continuava a considerarla, con tutti i suoi limiti, un baluardo anticapitalista. Ora, Fausto, ti dico una cosa essenziale. Ho l'impressione che voi state commettendo lo stesso errore: un errore di tempi. Bada che se le svolte non si fanno in tempo si pagano, eccome, le conseguenze. Noi abbiamo pagato le nostre contraddizioni. Oggi, o si fa una sinistra di governo che per la sua forza o, come dici tu, per la sua massa abbia un progetto e sia in grado di imporlo, oppure non c'è speranza, nel senso che le forze liberiste, conservatrici domineranno. Sai che considero un errore il Partito democratico perché è una risposta sbagliata, anzi sbagliatissima, all'esigenza di costruire una autentica forza riformista. Ma mi preoccupa il quadro che si va delineando: da un lato il Pd che esce dal socialismo europeo e non rappresenta un soggetto riformista forte, ma solo una contraddizione forte, dall'altro quella che chiamano la sinistra radicale, anch'essa fuori dal socialismo europeo. Così si riproduce per l'ennesima volta l'anomalia italiana, che non è uno straordinario laboratorio di novità per l'Europa e per il mondo, ma un disastro. Il disastro di un Paese con una sinistra debole, e quindi subordinata, fuori dalla famiglia del socialismo europeo».

Bertinotti: «Anche le parti del mio ragionamento che sono diverse dalle tue convergono su un punto che è, allo stesso tempo, una premessa analitica e un dover essere. Se le cose vanno avanti così, si rischia di non avere più una sinistra in Europa e in Italia. O meglio, si rischia di avere tante versioni che si dicono di sinistra e che però sono ininfluenti nei grandi processi, poiché sono o senza classi o senza voti. Chi ha i voti non ha come riferimento un'idea di società. Chi tenta una ricerca alternativa non ha il consenso. E quindi hai ragione tu: la subalternità è determinata dal fatto che o non ci sei o sei fuori gioco. Il problema della ricostruzione della sinistra in Italia c'è. Ripartiamo dalla scansione che hai usato. Io la forzo così, in tre grandi cicli della storia del dopoguerra italiano. Il primo ciclo è quello dell'uscita dall'arretratezza del capitalismo italiano. Hai ragione tu: le lotte sociali e le lotte di riforma contribuiscono, al di là dell'esito diretto della contesa, al processo di modernizzazione del Paese. Questo è possibile perché il Paese parte da una base di arretratezza del capitalismo e anche perché gli attori che entrano sulla scena - penso anche al protagonismo di una borghesia emergente soprattutto nel Nord che tende già a porsi fuori da questo quadro - hanno un orientamento comune. Le nuove classi dirigenti che escono dalla Resistenza hanno come tratto comune una politica keynesiana. Nel piano del lavoro se ne vedono bene le tracce. Ma io ricordo pure un libro di Fanfani, Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica dello spirito del capitalismo, in cui la critica al capitalismo è radicale fino al punto da configurare una incompatibilità tra il cattolicesimo e il capitalismo e da assumere la chiave di intervento keynesiano come possibilità della costruzione del compromesso. Il quadro cambia quando il capitalismo italiano si trasforma in quello che sarà chiamato neocapitalismo. Non possiamo rifare sul Riformista l'undicesimo congresso del Pci, tuttavia quel congresso illustra bene un simile passaggio. Le riforme di struttura ne costituiscono lo sfondo politico e culturale. C'è un grande ventaglio di posizioni, anche contrapposte. Ma è un grande confronto, che certo non si può comprendere se si guarda solo, o soprattutto, ai legami con l'Urss. Anzi, il tentativo è di tornare a pensare, gramscianamente, alla rivoluzione in Occidente. Bada: questo dibattito, in forme diversissime, si affaccia anche nelle socialdemocrazie. In Svezia il piano Meidner mette in discussione del primato della proprietà privata. In Germania, nonostante il Muro, Brandt dice che la socialdemocrazia non può essere considerata l'officina di riparazione del capitalismo. Quindi, nessun provincialismo. Ma che cosa accade? Quasi per eterogenesi dei fini, le riforme di struttura, impensabili senza il traguardo del socialismo, in Italia danno luogo, sostanzialmente, a un compromesso socialdemocratico. Con la nazionalizzazione dell'industria elettrica, la riforma della scuola media, il potenziamento dell'industria pubblica come laboratorio di innovazione si realizza qualcosa di molto simile a quello che si sta realizzando negli altri Paesi europei. E questa è la seconda fase, quella dell'età dell'oro, che vivrà tensioni anche durissime ma verrà definitivamente sepolta, con il crollo dei paesi dell'Est, da una grande sconfitta: la mondializzazione e la finanziarizzazione dell'economia, la crisi dei partiti e dei sindacati. È qui, secondo me, che si apre il terzo capitolo. Se chiamiamo “capitalismo arretrato” il primo, e “neocapitalismo” il secondo, il terzo lo possiamo chiamare, facendo nostra per comodità una formula ricorrente, “turbocapitalismo”. Il punto che ora ti vorrei proporre è questo. Nella prima fase innovazione e progresso stavano insieme. Perché Di Vittorio poteva dire una frase come quella che tu ricordavi malgrado le retribuzioni fossero così basse? Perché vedeva, nella crescita economica, la possibilità di un elemento redistributivo. Nella seconda fase, questa relazione comincia a entrare in dubbio. Nella terza, invece, è evidente che innovazione e progresso non stanno più insieme. Oggi, se non c'è la politica, l'innovazione produce diseguaglianza e crisi della coesione sociale. Non voglio ingigantire parlando di guerra e di terrorismo, ma l'innovazione è diventata levatrice di cose rischiose. E non voglio nemmeno passare per catastrofista, ma anche la catastrofe è nell'ordine delle cose possibili. Su questo dovrebbe misurarsi la politica. Ed è molto difficile, perché se ieri si poteva tenere la barra sul socialismo per fare il compromesso socialdemocratico (come diceva Vittorio Foa “bisogna essere rivoluzionari per poter fare le riforme”), oggi, se la sinistra non ha un progetto economico e sociale anche le operazioni redistributive diventano impossibili. Per rinascere, la politica deve organizzare un'idea di società. Capisco che la cosa dà i brividi, ma io penso che il tema della fuoriuscita dalla società capitalista nel tempo del “turbocapitalismo” è il tema ineludibile della politica. La seconda questione che tu poni è: sinistra di governo. Ma cosa vuol dire “di governo”? Per una forza politica che non voglia essere minoritaria il governo è una possibilità. Ma l'accesso al governo non può essere la variabile indipendente della sua esistenza. Tu parli del Partito socialista europeo. Io ti dico: Emanuele, guardiamoci attorno. Mentre si insiste sul Partito del socialismo europeo, si rafforzano le caratteristiche nazionali dei partiti socialisti. Anzi, mi verrebbe da dirti: guarda che il socialismo europeo ha avuto come locomotiva, negli ultimi anni, una cosa che è assai difficile chiamare socialista, la Terza via. Prima Blair, poi anche Schroeder, hanno introdotto una discontinuità radicale con la socialdemocrazia, la rottura con i sindacati. Nel momento in cui si esaurisce la Terza via, perché uno esce di scena e l'altro perde, vedo nascere sotto nomi diversi fenomeni non così dissimili. Siamo così sicuri che Ségolène Royal sia così diversa da Walter Veltroni dal punto di vista delle politiche proposte? Tu parli di socialismo europeo. Io vorrei capire di che si tratta, perché io vedo una propensione che qui prende la forma del Partito democratico ma che altrove continua a chiamarsi socialista ma che mette in discussione fortemente l'impianto socialdemocratico. Bada, io penso che i socialisti francesi abbiano perso malgrado Ségolène, non per colpa di Ségolène. Lei dal punto di vista elettorale ha funzionato: donna, immagine, ascolto, populismo dolce. Però la mancanza di una idea di società l'ha fatta perdere».

Macaluso: «Vorrei farti delle osservazioni. La prima è sul rapporto tra partito e movimenti, che riguarda il passaggio dalla seconda e la terza fase, ma anche l'oggi. Il Pci raccoglieva il consenso di quel mondo. Altrimenti non si spiega il 34 per cento del '76. Anche oggi questo tema, che a mio giudizio voi avete affrontato malissimo nel congresso di Venezia, pensando di fare il partito dei movimenti, è importante. È il problema dell'egemonia: ovvero se un partito è in grado o no di raccogliere le istanze dei movimenti e farle diventare interesse generale. Oppure se debba identificarsi con i movimenti. Io penso che in quella fase il Pci ebbe la capacità di tenere conto dei movimenti (né li respinse né si identificò in essi) e questo produsse un'avanzata. Quanto all'inconciliabilità tra innovazione e progresso che caratterizzerebbe il presente, la tua affermazione mi sembra schematica. Per me non è così. Perché qui entra, o dovrebbe entrare in ballo la politica, come hai detto anche tu. Ma se c'è un partito forte della sinistra con un progetto politico questa inconciliabilità può essere contrastata, altrimenti no. Io non penso, caro Fausto che il capitalismo sia l'ultimo capitolo della storia. Io non so quale sarà, l'ultimo capitolo. Penso però che la battaglia per la trasformazione o, per usare un altro termine, per la civilizzazione del capitalismo sia una sfida tuttora aperta. Il problema è la processualità, la gradualità dell'azione politica. D'altronde, non mi pare che siamo alla vigilia di una rivoluzione, e non lo pensi nemmeno tu: dunque, la processualità è la sostanza della politica riformista nel senso vero della parola, perché le riforme non sono una camicia di forza da mettere alla società, ma strumenti per risolvere i problemi. Veniamo al socialismo europeo. I partiti socialdemocratici non sono tutti uguali: una cosa è stato Blair, una cosa diversa è Brown, un'altra ancora sono Schroeder o Zapatero. E poi, questi partiti sono stati in grado di stare all'opposizione. Sono partiti di governo nel senso che governano quando hanno una proposta in grado di ottenere la maggioranza e quindi di coinvolgere anche forze di centro. E sono partiti in grado di governare società complesse e caratterizzate da forti disomogeneità, come quelle attuali. Non sono d'accordo con il nesso che stabilisci tra questi partiti e il Pd. Il Pd non riesce a trovare una posizione chiara su un punto cruciale: non c'è separazione tra i processi di liberalizzazione economica e i processi di liberalizzazione della società. Nei Paesi europei la sinistra si è fatta carico di diritti che la modernizzazione ha posto in termini diversi rispetto al passato. I partiti di Blair e di Zapatero, ma anche i socialisti francesi, o svedesi, hanno fornito delle risposte. Il Pd invece non potrà darle sui temi dei diritti. Ed è chiaro che sto parlando anche della laicità, che non c'entra nulla con il vecchio anticlericalismo ma riguarda istanze legate alla modernità».

Bertinotti: «Diversamente da te, penso che dobbiamo ereditare un elemento critico nel rapporto tra Pci e movimenti. È vero, come dici tu, che i movimenti hanno aiutato il Pci fino a fargli raggiungere il 34 per cento, ma secondo me non è vero che il Pci abbia aiutato i movimenti. Anzi, laddove questi andavano a sbattere direttamente sulle compatibilità sono stati frenati, o impediti, o non capiti. Pensa solo a un'esperienza come quella della Flm, a un grande sindacato operaio costruito su un'unità che ne cambiava la fisionomia organizzativa con i consigli, che è stato guardato con sospetto e frenato, sbarrando così l'unica via possibile per realizzare l'unità sindacale in Italia. E oggi? Si possono discutere le forme e i contenuti del movimento che i francesi chiamano altermondista, ma che questo sia il primo movimento post-novecentesco secondo me non c'è dubbio. Lo dico in modo rozzo: è evidente che la grande costruzione del rapporto tra partiti e movimenti che si inaugura con la crescita di potenti Stati nazionali, nel momento in cui una dimensione sovranazionale della politica diventa così rilevante in qualche modo deve cambiare. E questo movimento propone secondo me una critica non solo della globalizzazione capitalistica, ma anche delle forme della politica della sinistra. Scusa la formula: propone una uscita da sinistra alla crisi della sinistra. Questo è un problema che abbiamo da vent'anni. Si può dire che dalla Bolognina in poi, Bolognina compresa, la questione se da quella crisi bisognasse uscire da destra o da sinistra - anche qui: scusa la semplificazione - è un problema non risolto. E io penso che bisogna proporsi l'uscita da sinistra non per volontarismo, ma per la natura stessa dei processi di oppressione in atto. A questo punto torno a convergere con te. Anch'io, come te, non conosco l'ultimo capitolo della storia che, secondo me, semplicemente non c'è. E per dirti che qui c'è un punto di convergenza, non tiro in ballo Kautsky, il programma massimo e il programma minimo, ma provo a indicare una prospettiva che, secondo me, non può che fondarsi sull'idea di trasformazione della società. Lo dico sempre con rozzezza: l'idea dell'introduzione di elementi di socialismo mi sembra più interessante per l'oggi delle stesse riforme di struttura. Che cosa sono i beni comuni se non un elemento di socialismo? La questione dell'intervento pubblico nell'economia è ancora fondamentale. Allora ti propongo di assumere nella valutazione dei partiti socialdemocratici, invece che una sorta di pregiudiziale favorevole (non abbiamo mai avuto una socialdemocrazia in Italia, è ora di farla) un'analisi di come le diverse forze socialdemocratiche si sono venute evolvendo o involvendo. Mi chiedo se si possa davvero oggi parlare in Europa realmente di forze socialdemocratiche. Certo, tutte le formazioni socialiste e socialdemocratiche hanno un tratto in comune, l'importanza attribuita ai diritti delle persone non solo dal punto di vista della laicità ma prima ancora da quello dell'esistenza sociale dell'uomo moderno. Ma riconoscerai che questo elemento, seppure importante, non basta a definire una formazione politica di sinistra. Per essere di sinistra, come diceva Bobbio, non si può prescindere dall'uguaglianza…».

Macaluso: «Ma io sono d'accordo. Una forza di sinistra che non ha come bussola la tendenza all'uguaglianza non è una forza di sinistra. Anche questi diritti fanno parte di questo. Ripeto “anche”…».

Bertinotti: «Sì, ma il problema dell'uguaglianza si deve coniugare con il tema dell'altro, cioè con quello della condizione sociale. E su questo i partiti socialisti contemporanei sono di fronte a un fallimento evidente. Aggiungo: le società contemporanee oltre al tema della libertà e dell'uguaglianza pongono il tema della violenza, e in particolare di quelle forme estreme di violenza che sono la guerra e il terrorismo. Riconoscerai che Blair ha sì saputo cogliere l'elemento dei diritti della persona, ma è entrato in rotta di collisione con i movimenti pacifisti. Quindi continuo a ritenere, malgrado tutto, che un buon assetto per il futuro in Europa sia quello di pensare non a una ma a due sinistre in grado, allo stesso tempo, di competere e convergere. Due sinistre che siano in grado, anche nella sfida, di esplorare questi terreni nuovi. In questo senso penso che la sinistra di alternativa possa costituire un elemento importante non per puntare al massacro dei riformisti, che non solo non è pensabile ma non costituirebbe nemmeno un bene, ma per introdurre una dialettica diversa da quella che abbiamo conosciuto».

Liberazione 13.7.07
Storia di 2 Scalfari che si odiano
Qual è quello vero?
di Piero Sansonetti


Domenica scorsa Eugenio Scalfari ha scritto un editoriale su Repubblica , intitolato "Quando il sindacato si accordò con Maroni". In questo editoriale Scalfari ha svolto una polemica feroce contro il sindacato e Rifondazione comunista - spingendosi fino a chiedere le dimissioni di Fausto Bertinotti dalla presidenza della Camera - colpevoli di non accettare oggi quello scalone (cioè l'innalzamento improvviso dell'età pensionabile) che tre anni fa avevano concordato con il ministro del Lavoro Roberto Maroni. Nessun dubbio sul senso dell'articolo di Scalfari. Solo qualche stupore per la violenza un po' grossolana della polemica e per la falsità del presupposto.
Immediatamente sono arrivate le smentite. Mai e poi mai i sindacati - e in particolare la Cgil - accettarono lo scalone. L'altro eri, su Liberazione, avevamo consigliato a Scalfari di ammettere l'errore e ritirare l'articolo, tutto qui. In modo da rendere più piana e comprensibile la discussione sulle pensioni, anziché complicarla e intorbidirla con inutili e incomprensibili grida. Ieri, invece, su Repubblica Scalfari ha scritto un articolo nel quale ammette che effettivamente il sì esplicito dei sindacati a Maroni non ci fu, però avanza l'ipotesi che in fondo fu un sì sottinteso, dimenticando completamente che in quei giorni - contro la politica "sindacale" del governo e del ministro Maroni - la Cgil, guidata da Sergio Cofferati, portò in piazza circa 3 milioni di persone, cioè organizzò la più grande manifestazione politico-sindacale di tutti i tempi. Altro che sì sottinteso...
Sempre nel suo articolo di ieri, Scalfari - polemizzando asperrimamente col segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano e con Liberazione - sostiene le seguenti due tesi. Prima tesi: lui non ha mai chiesto, in caso di caduta del governo, le dimissioni di Bertinotti; ha solo chiesto le dimissioni di Bertinotti in caso di caduta del governo dovuta a un voto di Rifondazione comunista. Ha scritto testualmente così. In genere, sul nostro giornale, in questi casi trascriviamo le frasi del dichiarante in prima pagina, senza commenti, e sotto questo titolo: "Infermieraaaa!!!". Evitiamo di farlo, stavolta, per il rispetto che nonostante tutto portiamo al fondatore di Repubblica.
La seconda tesi esposta nell'articolo di ieri è che non esiste uno Scalfari giovane e uno Scalfari vecchio, cioè non esiste una differenza di pensiero tra le varie fasi dello scalfarismo, come Franco Giordano e Liberazione avevano ipotizzato. Scalfari - dice Scalfari - è uno solo e il suo pensiero e le sue opinioni sono lineari e coerenti.
Su questa seconda affermazione ci permettiamo di dissentire, con qualche argomento. Abbiamo raccolto un paio di articoli che Scalfari scrisse quattro anni fa. Il primo è del 13 luglio del 2003 (oggi cade appena il quarto anniversario di quell'articolo) il secondo del 19 luglio. Ebbene, tutti gli argomenti usati in quei due articoli sono gli stessi, identici - probabilmente meglio sviluppati, cioè spiegati in modo più convincente - che oggi usiamo noi di Liberazione e che hanno usato i dirigenti di Rifondazione comunista. Se non ci credete, andateveli a leggere a pagina 2 (qui di seguito ndr:): li ripubblichiamo integralmente, perché sono molto interessanti, meritano. Qui voglio trascrivere solo due o tre frasi, le più eclatanti, quelle contro le quali Scalfari stesso (ma lo Scalfari 2) ha polemizzato in modo così sprezzante nei suoi articoli di domenica e di ieri. Leggete questa, per esempio: «Siamo di fronte a una massiccia disoccupazione giovanile che si stenta a far diminuire. Come si concilia questo fenomeno e la politica che tende combatterlo con la permanenza più lunga al lavoro dei già occupati? Non si danneggiano in questo caso i giovani favorendo i vecchi?...».
E poi leggete quest'altra farse, sempre scalfariana: «Cominciamo innanzitutto da una falsità sulla quale è stata costruita la leggenda metropolitana delle pensioni "rovinatutto": l'insostenibile disavanzo dell'Inps». Perché, forse non esiste un insostenibile disavanzo dell'Inps? - si chiede il lettore. «No», risponde Scalari, già dal titolo dell'articolo, che è di per sé, chiarissimo: «I conti truccati sull'allarme pensioni». Cioé, dice Scalfari, questo allarme pensioni è costruito ad arte e con argomenti falsi, da chi vuole tagliarle. Un po' la tesi di Giorgio Cremaschi...
Ora, che ci volete fare, ognuno ha diritto a cambiare idea tutte le volte che vuole, nella vita. Però sarebbe gentile se avvertisse i suoi lettori, specie quando le idee, anziché modificarle, le rovescia, e specie quando fornisce informazioni del tutto diverse da quelle fornite in precedenza, e su queste informazioni fonda le sue opinioni.
E' troppo antipatico credere che le oscillazioni di Scalfari siano in qualche modo legate alle oscillazioni di quel pezzo di borghesia italiana alla quale ha fatto sempre riferimento? Può darsi che sia antipatico, ma probabilmente non è infondato. Ed è esattamente questo - l'oscillazione dei grandi interessi che provoca oscillazioni delle grandi opinioni - quello che rende difficilissimo il dibattito politico in Italia. Ieri Scalfari suggeriva a Franco Giordano di chiedergli scusa, non si sa bene perché. Noi non suggeriamo a Scafari di chiedere scusa a nessuno, però se avesse voglia di rileggersi un paio di volte i suoi articoli del 2003, non per "punizione", così, per conoscenza...

Articolo apparso su "la Repubblica" del 13 luglio 2003
I conti truccati sull'allarme pensioni
di Eugenio Scalfari

Che il «Welfare» delle pensioni europee debba essere profondamente riformato è convinzione generale: ci obbliga a farlo la demografia, il crescente numero di anziani e di vecchi e l'insufficiente andamento delle nuove nascite. In Germania il cancelliere Schroeder vi ha finalmente messo mano con l'appoggio della Spd, il suo partito socialdemocratico finalmente convinto nella sua interezza a sostenerne la necessità. In Francia, dove la sinistra è all'opposizione, il presidente del Consiglio, Raffarin, ha anch'egli portato avanti la riforma nonostante le imponenti manifestazioni di piazza della «gauche» e dei sindacati.
Da noi la situazione politica è notevolmente diversa: non solo vi si oppongono la Cgil e tutta l'opposizione parlamentare sia pure con diverse sfumature, ma anche i sindacati «trattativisti» (Cisl e Uil), la Lega e settori consistenti di An e perfino dell'Udc di Follini. Il segretario della Cisl, Savino Pezzotta, sostiene che in Italia la riforma è stata già fatta nel '95 e ha dato buona prova rimettendo su basi solide il sistema pensionistico. Alcune (serie) difficoltà si preannunciano tra il 2013 e il 2030, dopodiché l'equilibrio sarebbe nuovamente garantito almeno fino alla metà del corrente secolo. Si tratterebbe quindi di affrontare a tempo debito le contromisure per superare l'ostacolo. Perciò nessuna urgenza attuale e se ne riparli tra nove anni.
Ma la Confidustria incalza giudicando il problema gravissimo e urgentissimo; le autorità economiche internazionali mettono fretta; il governo è incerto e diviso. Per quanto si riesce a capirne la riforma della riforma sarà ancora una volta rinviata di sei mesi, cioè dopo la fine del famoso semestre europeo di Berlusconi. Sono ormai infiniti gli appuntamenti rinviati al gennaio 2004: la vera verifica politica nella Casa delle libertà che andrebbe opportunamente ridefinita come la Casa delle risse; la «devolution» bossiana; i processi di Silvio Berlusconi; la legge Gasparri sul riassetto del sistema televisivo; le misure di finanza pubblica una volta esauriti tutti i condoni possibili e immaginabili; una nuova (?) legge elettorale; la riforma (?) della giustizia; le grandi opere pubbliche tuttora al palo; il «premierato» cioè una qualche forma di presidenzialismo. Tutto ciò a partire dal gennaio prossimo, cioè a due anni e mezzo dall'inizio di una legislatura che finora è stata quasi esclusivamente impegnata a tutelare gli interessi personali del presidente del Consiglio e del gruppo di potere che si è formato attorno a lui. Nessuno crede che un accumulo di problemi di queste dimensioni possa consentire soluzioni rapide ed efficienti, ma il catalogo comunque è questo. Chi vivrà vedrà. E' nostro fondato parere che rinviare di sei mesi (in pratica a tempo indeterminato per le ragioni sopra dette) la riforma della riforma pensionistica effettuata nel '95 sia un errore che dovrebbe essere evitato nell'interesse soprattutto dei giovani che hanno fatto o sperano di poter fare al più presto il loro ingresso nel mercato del lavoro. Ma va detto subito che l'intero tema delle pensioni ha dato vita ad una vera e propria leggenda metropolitana, alias ad una confusione di concetti e ad un polverone mediatico così fitto da nascondere la realtà dei fatti e la vera natura della questione. E' perciò mia intenzione cercar di diradare la nube di polvere e di chiacchiere, a crear la quale hanno in questi anni e in questi mesi contribuito alacremente molti belli ingegni, economisti esperti politici imprenditori in discorde concordia con l'obiettivo di trasformare il tema pensioni in un «marker» del tasso di riformismo presente nella società italiana. Dalla riforma della riforma questi «muezzin» che la invocano a gran voce dai vari minareti mediatici dei quali dispongono dicono infatti di aspettarsi: un nuovo «welfare» modellato sulla modernità, il riassetto economico del sistema secondo le esigenze della demografia italiana, il riassetto della finanza pubblica schiacciata dal disavanzo dell'Inps, il rilancio dell'economia, l'accrescimento della competitività, la nascita (finalmente) dei fondi pensione. Insomma un vero paese di Bengodi a portata di mano purché ci si convinca a mandar la gente in pensione qualche anno più tardi e ad applicare una energica terapia di dimagrimento alle pensioni di anzianità. La leggenda metropolitana consiste appunto in quest'elenco di benefici effetti che ci dovrebbero cadere in bocca come pere mature dall'albero della cuccagna e che invece ci sono preclusi dall'ostinazione incomprensibile di Epifani e Pezzotta, Fassino e Cofferati, Rutelli e Bertinotti, cioè dai comunisti ancora aggrappati alle loro impresentabili ideologie. Ebbene, le cose non stanno affatto così come andiamo a dimostrare.
Cominciamo anzitutto da una falsità sulla quale è stata costruita la leggenda metropolitana delle pensioni «rovinatutto»: l'insostenibile disavanzo dell'Inps che grava come un macigno sui conti dello Stato. Fino al 1999 i conti previdenziali dell'Inps erano in perfetto pareggio: tanto spendeva per pensioni e tanto incassava di contributi, ancorché alcune gestioni di lavoratori autonomi e professionisti, nate in epoche relativamente recenti, presentassero cospicui disavanzi. Ora le cifre aggiornate sono le seguenti: spese pensionistiche contributive 145 miliardi; entrate per contributi 134 miliardi; sbilancio 11 miliardi. Ma ecco l'inghippo: le uscite pensionistiche totali dell'Inps non sono di 145 bensì di 174 miliardi di euro. Lo sbilancio totale sale dunque a 40 miliardi. Di che si tratta? E' colpa dell'età pensionabile e troppo giovanile? E' colpa del sistema retributivo? E' colpa delle pensioni di anzianità? Niente affatto. Si tratta semplicemente del fatto che quei 29 miliardi di sbilancio (più gli 11 dovuti a disavanzo contributivo) sono da imputare non già al sistema della previdenza bensì a quello dell'assistenza sociale. E cioè: pensioni d'invalidità, pensioni sociali o di povertà, integrazioni al minimo. Questo robusto complesso di erogazioni non ha niente a che vedere con la previdenza. Se un lavoratore incorre in un incidente sul lavoro gli viene assegnato un vitalizio proporzionato all'età e alla natura dell'invalidità; l'Inps funge soltanto da sportello pagatore. Se un povero diventa vecchio gli viene assegnata una pensione sociale che lo tenga in vita; se la pensione di un anziano, a causa di scarse sue contribuzioni, è al di sotto del livello minimo di sussistenza, lo Stato integra la somma per portarla a un livello appena decente. Risulta evidente a tutti - e lo capirebbe anche un bambino - che queste spese sono di natura assistenziale e non previdenziale; infatti non hanno a fronte alcun contributo e debbono pertanto essere finanziate dalla fiscalità generale. Però passano attraverso l'Inps e quindi i nostri «muezzin» gracchiano che le pensioni creano un onere di 40 miliardi l'anno a carico del Tesoro, cioè di tutti noi. Falso, assolutamente falso. Il bello è che questa panzana è accreditata dall'autorevole (?) ministro del Tesoro che queste cose le dovrebbe sapere meglio di tutti. Il deficit falsamente attribuito alle pensioni contributive si ripercuote sull'incidenza della spesa pensionistica sul Pil. In effetti questo rapporto risulta essere tra i più alti d'Europa, pari al 13.80 per cento, inferiore soltanto all'Austria (14.50) e prossimo alla Grecia (12.60) alla Francia (12.10) alla Germania (10.80) ai Paesi scandinavi tutti posizionati attorno al 10 per cento. Se le cifre della gestione previdenziale fossero correttamente computate la loro incidenza sul Pil sarebbe non già del 13.8 ma dell' 11.4 per cento. Ancora più basso sarebbe il rapporto se la gestione contributiva non fosse stata aggravata dal passaggio all'Inps di tutto il personale ferroviario (in realtà pubblico impiego) che si è portato appresso un robusto disavanzo scaricato perciò dal Tesoro all'Istituto di previdenza. Si scenderebbe in tal caso sotto all'11 per cento a poca distanza cioè dalla media dell'Unione europea che incide sul Pil per il 10.40 per cento. Tutto ciò in anni di vacche magrissime per il Pil italiano. Se esso riacchiappasse sia pure il modesto tasso di crescita del 2 per cento l'incidenza del disavanzo pensionistico diminuirebbe ancora. In conclusione l'idea fissa che le pensioni schiaccino l'economia del nostro paese è una falsità cifre alla mano.
Ma è vero che i giovani lavorano per mantenere i vecchi. Tra pochi anni due giovani porteranno sulle spalle un vecchio. Fu Ugo La Malfa, se non ricordo male, a lanciare per primo questa plastica immagine per spiegare la nostra anomalia pensionistica e i suoi perversi effetti causati dalla senilità demografica del paese. Ferma restando l'esattezza dell'immagine lamalfiana invito a riflettere su un fenomeno di dimensioni ormai macroscopiche: la prolungata e spesso prolungatissima convivenza dei figli adulti in casa dei genitori, spesso anche da sposati e talvolta perfino con un nonno convivente. Questo fenomeno di massa, specie nel Centrosud, è dovuto a molti elementi tra i quali campeggia il reddito pensionistico del padre o della madre o del nonno o di tutti e tre. E' dunque senz'altro vero che i lavoratori giovani tengono sulle spalle i loro vecchi, ma è del pari vero il reciproco. Un'analisi attenta dovrebbe incrociare questi due fenomeni e vedere da quale parte inclina la bilancia. Ci potrebbero essere molte sorprese.
Mi hanno colpito due osservazioni di Luciano Gallino, che è uno dei massimi esperti su questi argomenti, contenute in un articolo pubblicato di recente su "Repubblica". Scrive Gallino che la produttività intesa come quota di Pil prodotto per ora lavorativa, aumenta mediamente di circa il 2 per cento l'anno. Cumulando questo aumento e proiettandolo al 2050 si registra un raddoppio di produttività. Ciò significa che se oggi quattro lavoratori portano sulle spalle un anziano e nel 2050 questa anomala portantina sarà diventata di due giovani lavoratori per ogni vecchio, la fatica dei due sarà però identica a quella dei quattro di oggi. Altra osservazione: una ricerca dell'università di Pavia ha calcolato inoltre 7 punti percentuali la quota Pil disponibile per i consumi delle famiglie negli anni Novanta. Nello stesso periodo la quota del monte retribuzioni lorde sul Pil è scesa dal 36 al 30 per cento. «Un taglio alle pensioni - scrive Gallino - aggiungerebbe a tali salassi già subiti dai redditi di lavoro un'altra sottrazione di diecine di miliardi di euro l'anno» . Vedete voi se conviene.
Penso, ciò nonostante, che sia utile decidere al più presto il passaggio di tutti i lavoratori dal sistema retributivo a quello contributivo. La stessa Cgil fin dal 1998 si dichiarò favorevole a questo cambiamento e spero che ancora lo sia. Se ne acquisterebbe in certezza del diritto e in solidità del sistema. Si tratta in altri termini di accelerare i tempi della riforma Dini di quattordici anni creando le condizioni per superare la «gobba» sfavorevole del 2013-2030. Ma questa riforma della riforma, che può coesistere con incentivi a restare al lavoro oltre i sessantacinque anni, è accettabile soltanto ad una tassativa condizione: che i risparmi così effettuati siano destinati interamente a creare il sistema di ammortizzatori sociali e tutele attualmente inesistente per gran parte dei lavoratori. A parole tutti sono d'accordo ma nessuno fin qui ha detto ciò che in molti pensiamo: essendo il governo Berlusconi largamente inaffidabile e ben collaudato in promesse non mantenute, il passaggio al sistema contributivo deve avvenire in una legge che provveda contestualmente alla nascita di un completo sistema di ammortizzatori sociali da discutere insieme alle parti sociali. O così o niente. Il lavoro italiano ha già dato molto e non può più regalare niente a nessuno. Soprattutto non può esser preso in giro con promesse da marinaio.

Articolo apparso su "la Repubblica" del 19 luglio 2003
A che cosa deve servire la riforma delle pensioni
di Eugenio Scalfari

Ho molta stima per le qualità di studioso di Tito Boeri, tanto che, prima di scrivere il mio articolo sul sistema pensionistico di domenica scorsa, mi premurai di cercarlo e parlarci il che avvenne in una lunga conversazione telefonica. Debbo dire che le opinioni e i dati che ci scambiammo mi indussero a ritenere che le nostre posizioni - per una quota marginale differenti - fossero largamente simili. Ma ho appreso leggendo il suo articolo di ieri su Repubblica congiuntamente firmato con Agar Brugiavini, che non era così.
Probabilmente avevo capito male (può succedere) oppure Boeri cambia tono e motivazioni secondo l'interlocutore (può accadere anche questo).
Comunque risponderò alle contestazioni di Boeri-Brugiavini con la stessa ruvida cortesia cui il loro pregevole testo è improntato. Lo farò procedendo per punti affinché la mia risposta risulti il più possibile chiara. Ma anzitutto una premessa: a me non piacciono le guerre tra poveri e tanto meno quelle tra generazioni. Sostenere una qualunque tesi in nome dei giovani contro i vecchi o viceversa mi è sempre parso un brutto esercizio retorico, spesso fondato su una distorta presentazione degli argomenti. Quand'anche vi siano iniquità generazionali, lo sforzo di chi affronta il problema mi sembra debba essere quello di risolverlo tenendo conto degli interessi di tutti contemperandoli nei limiti del possibile. Del resto la grande politica ha sempre obbedito a questo canone. In una democrazia ben funzionante i tecnici prospettano, i politici decidono. Se i tecnici pretendono d'esser loro a decidere vuol dire che in quella democrazia qualche cosa non funziona bene.
Fine della premessa e veniamo ai punti.
1. Il senso politico del mio articolo di domenica scorsa era la necessità di passare dall'attuale sistema ancora largamente retributivo al contributivo generalizzato e di incentivare i lavoratori a prolungare la loro permanenza al lavoro spostando dunque in avanti la loro uscita dal sistema. Mi era parso di capire che questi fossero anche gli obiettivi di Boeri, ma ora non ne sono più così sicuro. Comunque non mi sento affatto in mezzo al guado: contributivo generalizzato e allungamento volontario e incentivato dell'età lavorativa. Se bisognava scegliere una posizione, la mia è questa.
2. Ho soggiunto però che i risparmi nella spesa pensionistica così ottenibili non dovrebbero essere utilizzati al di fuori della spesa sociale complessiva la quale - è opportuno ricordarlo - è tra le più basse dell'Unione europea. Noi manchiamo quasi del tutto di ammortizzatori sociali e abbiamo un sistema di tutele sommamente carente che lascia scoperti alcuni milioni di lavoratori specie quelli regolati dalle normative sulla flessibilità. Il contributivo generalizzato dovrebbe servire secondo me a finanziare almeno in parte il sistema delle nuove tutele. Coloro che saranno penalizzati dall'estensione del contributivo avranno almeno la soddisfazione di poter costruire con il proprio sacrificio e la propria attiva partecipazione il nuovo welfare. Non ho però letto nulla in proposito nel testo Boeri-Brugiavini. Ne debbo dedurre che non sono d'accordo? Ne sarei assai stupito. In tal caso domanderei: perché?
3. Mentre mi dichiaro d'accordo - e l'ho già detto - con il prolungamento volontario e perfino incentivato dell'età di lavoro, pongo tuttavia una domanda a me stesso, ai responsabili politici del welfare e anche ai due insigni studiosi che sono in questa occasione i miei interlocutori: siamo di fronte in Italia, in Europa, in Usa, a una massiccia disoccupazione giovanile che si stenta a far diminuire. Come si concilia questo fenomeno e la politica che tende a combatterlo con la permanenza più lunga al lavoro dei già occupati? I due obiettivi - contenere la disoccupazione giovanile, prolungare la permanenza dei vecchi occupati - non sono palesemente contraddittori? Non si danneggiano in questo caso i giovani favorendo i vecchi? Vedete, cari Boeri-Brugiavini com'è facile rivoltare la frittata e dimostrare l'opposto di quanto era stato sostenuto appena due righe prima? Vedete come le verità che sembrano assiomatiche, specie in materie così opinabili, hanno più la fragilità del vetro che la durezza del diamante?
4. I miei interlocutori sostengono che il sistema pensionistico è già in grave squilibrio senza dovere aspettare la "gobba" del 2013-2030. Per sostenere quest'assunto essi negano che si possa distinguere tra previdenza e assistenza; in particolare per le pensioni d'invalidità, una parte delle quali è finanziata da contributi dei lavoratori e dei datori di lavoro. Sono a dir poco stupefatto da queste affermazioni. La pensione non è, in sostanza, che salario differito, esattamente come la liquidazione. Non a caso infatti siamo stati tutti d'accordo, almeno a parole, di trasferire il trattamento di fine rapporto a un sistema di pensioni integrative. L'assistenza è certamente una spesa sociale ma nient'affatto previdenziale. Considero dunque una delle tante "furbate" del fisco quella di addossare ai lavoratori e ai datori di lavoro una parte del finanziamento delle pensioni d'invalidità: si sgrava il Tesoro e si manda in disavanzo l'Inps. E poi si scarica sui pensionandi l'onere di simili operazioni. Al mio paese questo si chiama il gioco delle tre carte.
Voi come lo chiamereste?
5. Non c'è dubbio che se un lavoratore si rompe una gamba sul lavoro o un cittadino italiano è privo di reddito al di sotto della pura sussistenza, la comunità deve intervenire per aiutarlo. Che cosa c'entra la previdenza? Previdenza significa risparmiare pensando alla propria vecchiaia. In pura teoria si possono abolire sia le pensioni che le liquidazioni (che in molti paesi infatti non ci sono) trattandosi di salari differiti si può renderli interamente attuali e affidarli oggi, non domani, al destinatario cioè al lavoratore. Tremonti ne sarebbe felice: molto meglio che ipotecare la casa per comprarsi il frigorifero. Vogliamo completare lo smantellamento del futuro che è già un pezzo avanti con i contratti di lavoro precari, e concentrare interamente sul presente la ricerca della felicità? È questa la vostra tesi?
6. Dicono i miei interlocutori che le pensioni hanno anche un contenuto redistributivo; se fossero soltanto il puro risultato dei contributi versati tanto varrebbe - essi sostengono - trasformarle in assicurazioni private. Io penso all'opposto che le pensioni non debbano avere alcuna funzione redistributiva; penso anche che la previdenza sia un obbligo, come l'assicurazione contro i sinistri automobilistici. Penso infine che l'obbligatorietà comporti una gestione pubblica e non una gestione privata.
L'obbligo crea infatti un monopolio nell'offerta o la collusione inevitabile tra i titolari dell'offerta; a situazione di questo genere si reagisce con la gestione pubblica dell'offerta del servizio. Si tratta di concetti elementari per chiunque abbia letto non Carlo Marx ma Luigi Einaudi o De Viti De Marco.
7. Il comune amico Vincenzo Visco, della cui scienza ho di solito piena fiducia, su questa materia coltiva una sua bizzarria. Se ho capito bene il suo pensiero, vorrebbe addossare tutto il complesso delle spese di assistenza e di previdenza alla fiscalità generale e abolire ogni contribuzione. L'idea ha una sua genialità. Personalmente se fosse attuata ne sarei atterrito. Mi piacerebbe conoscere in merito l'opinione di Boeri-Brugiavini.
8. Tagliare nel settore dei pubblici dipendenti qualche privilegio di troppo e qualche palese iniquità mi pare un sacrosanto obiettivo. Su questo punto sono del tutto d'accordo con i miei cortesi e dotti interlocutori. Anche qui però mi permetto d'attirare l'attenzione su un punto: centinaia di migliaia di pubblici dipendenti aspettano il rinnovo dei loro contratti da quasi due anni. Lo Stato ha mille ragioni per voler modernizzare le prestazioni e le normative degli statali, purché da parte sua non sia inadempiente. Altrimenti diventa un datore di lavoro inaffidabile.
Post scriptum. Considererei un obbrobrio giuridico ed etico chiudere o diminuire le cosiddette "finestre" di pensionamento nei prossimi dodici mesi come il ministro del Tesoro vagheggia. Spero che Tremonti non ci provi. Se ci provasse spero che sia battuto in Parlamento. Certamente lo sarebbe nel paese.

Liberazione 13.7.07
Per una costituente dal basso: aperta, trasparente, serena
La sinistra del XXI secolo
di Giovanni Berlinguer


Né i modi né i tempi sono indifferenti sull'esito del processo di unità/riaggregazione a sinistra. Ho percepito la rilevanza di questi elementi nelle assemblee cui ho partecipato, da Catanzaro e Pisa a Bruxelles, da Roma a Basilea. Intervengono ex iscritti ai Ds, e altri che affermano il bisogno di una politica nella quale le loro speranze e le loro domande abbiano davvero una possibilità di incidere. Esprimono una forte spinta alla partecipazione dal basso, positiva e non minoritaria, costruttiva e non settaria.
Sento che può crearsi un'area vasta, un arcipelago fatto di singole storie e percorsi individuali, di esperienze e movimenti collettivi, di gruppi spontanei o anche organizzati, pronti a mettersi alle spalle vecchie e nuove casacche. Parlo di persone non attratte dalle liturgie dei gruppi dirigenti nazionali, ma assai impegnate localmente a sviluppare pratiche di unità e nuove relazioni con chi é fuori dai soliti giochi della politica.
Sono accomunati, come i promotori del documento messo a punto a Firenze dal gruppo di lavoro "per la sinistra dell'Unione", dai valori della pace, del lavoro, dell'equità sociale, e dal desiderio che siano finalmente protagonisti della nuova stagione della sinistra i giovani, le donne e i lavoratori.
Lo chiedono quelli che avevano lasciato la militanza politica e quelli che non si arrendono alla scomparsa dei valori e delle idee della sinistra. Si avverte l'esigenza di dar vita a un numero più largo possibile di assemblee diffuse, una vera campagna di ascolto e coinvolgimento, l'individuazione di nuovi canali di partecipazione e consultazione, l'apertura di una fase costituente dal basso: aperta, trasparente, serena. Una pratica che abbatta steccati e stereotipie della politica, inaccettabili nella vita dei grandi partiti e risibili in quella dei partitini.
Una fase da guidare con generosità e lungimiranza, se fosse possibile con allegria, riprendendo il termine usato da Walter Veltroni al quale auguro le migliori fortune: per lui, per il Pd e per tutta l'Unione. L'estate e l'inizio dell'autunno possono essere utilizzati per sperimentare se funziona o meno l'idea che contenuti e contenitore vadano di pari passo e possano stare insieme. Anziché ratificare decisioni già prese, magari un simbolo unico tirato fuori a pochi mesi dalle elezioni, le persone devono essere chiamate a esprimersi non sul risultato finale, ma su tutti i passaggi del processo, non escludendo nessuno a priori, anzi impegnandosi al massimo per coinvolgere tutte le forze politiche interessate a questa decisione.
Alla fusione fredda tra Ds e Margherita non si può rispondere con percorsi e processi di eguale natura. Serve piuttosto intrecciare il dibattito tra i partiti con una chiamata a raccolta delle persone, delle idee e delle proposte che vengono dalle organizzazioni sindacali, dai movimenti e dall'associazionismo, dal mondo delle riviste, della cultura e delle professioni. A tutti si devono richiedere contributi e indicazioni sui temi caldi della sicurezza, dell'istruzione, del nuovo welfare, sulle differenze di genere, sull'ambiente e sulla laicità dello Stato.
I modi di questa partecipazione allargata, che conta, che sposta, che incide sugli esiti del processo in corso, che può e deve scavalcare gli equilibri già consolidati, gli unanimismi al ribasso, le convenienze d'apparato, diventano una sola cosa con la scelta delle priorità del "Programma comune della sinistra del XXI secolo". Diventano tutt'uno con il valore della scelta del governo e dell'Unione come orizzonte politico condiviso. Valori alti e partecipazione larga sono infatti l'unica risposta possibile a quei giovani che hanno tante cose da dire e da dirci, che ci pongono tante domande attraverso canali che molto spesso ignoriamo o non facciamo abbastanza perchè arrivino fino a noi. Troppe volte i nostri calcoli e le nostre sordità non hanno aiutato né loro né noi a costruire un futuro migliore.
*Europarlamentare, Sinistra democratica


il Riformista 13.7.07
INFLUENZE. IL LIBRO DELL’ARGENTINO JOSÈ PABLO FEINMANN 
L'insostenibile complicità col male
L’ombra di Heidegger racconta il suicidio di un intellettuale filonazista ucciso dai sensi di colpa
DI LIVIA PROFETI


Nel 1948, in Francia «tutti leggevano o cercavano di leggere L’être e le néant. Un libro dettato da Heidegger (…) che - dicevano molti - esprimeva lo spirito della resistenza francese. Quale miracolo aveva prodotto Sartre? Come aveva fatto ad esprimere lo spirito della resistenza francese partendo da un libro scritto da un nazista? ».
Così scrive al figlio, poco prima di suicidarsi, Dieter Müller, protagonista del romanzo L’ombra di Heidegger dell’argentino José Pablo Feinmann (Neri Pozza, pp. 181, euro 15). Allievo del filosofo, da questi attirato verso la «scelta autentica» di aderire al nazionalsocialismo, Müller fuggirà in Argentina alla fine della guerra e si toglierà la vita dopo che l’immagine di un deportato sulla soglia della camera a gas gli rivelerà di colpo la propria complicità intellettuale con i crimini inumani del Terzo Reich.
Come si legge nella postfazione di Antonio Gnoli e Franco Volpi, riportata anche su la Repubblica del 4 luglio scorso, da L’ombra di Heidegger emerge un giudizio netto sul filonazismo della filosofia heideggeriana che, lungi dall’essere separata dal coinvolgimento del suo autore nel nazionasocialismo, ne sarebbe al contrario la «condizione e preparazione sistematica». Il romanzo si inserisce quindi nella lunga questione intorno all’adesione del filosofo al regime di Hitler, tornata di recente alla ribalta con il lavoro del francese Emmanuel Faye Heidegger. L’introduction du nazisme dans la philosophie, che ha evidenziato i nessi esistenti anche se sapientemente celati, tra le opere “ufficiali” e gli enunciati nazisti dei corsi universitari e di altri scritti prima inediti.
L’attuale dibattito internazionale è incentrato quindi sul sospetto che l’intera opera heideggeriana sia fondata su presupposti “nazisti”, una questione ancora poco frequentata in Italia salvo che da il Riformista e dalla rivista Left, nonostante o forse proprio a causa del suo elemento perturbante, ovvero la grande influenza di Heidegger sulla cultura di sinistra degli ultimi decenni, riassunta da Feinmann con una sentenza fulminante sugli intellettuali del ’68: «hanno rimpiazzato Marx con Heidegger».
Docente di filosofia e scrittore di successo, l’argentino ha fuso le sue due anime in un romanzo filosofico i cui personaggi usano espressioni come «un SA è un Dasein che accetta il suo essere-per-morte. E questo lo differenzia dagli altri, dagli inautentici, dai mediocri», o anche: «un SS vestito di nero (…) è Mefistofele, lo spirito che tutto nega». Una storia nel cui intreccio sono rappresentati tutti gli enigmi del caso Heidegger, a partire dall’esaltata ambizione di diventare il “Führer filosofico” del regime sino al devastante rapporto con le donne.
La postfazione di Gnoli e Volpi rappresenta in parte una novità per i due studiosi che avevano sempre separato gli scritti del filosofo dalle sue vicende politiche mentre ora ammettono una certa «pericolosa ambiguità» del suo pensiero. In tal senso però il loro lavoro non è privo di contraddizioni che sembrano legate all’impostazione più generale del rapporto tra intellettuali e politica, considerato nei termini di «uno di quegli eterni problemi della filosofia che non hanno soluzione, ma solo storia ». Il duo affronta quindi la questione partendo dal presupposto di una separazione radicale tra pensiero - ritenuto «eterno» e dunque di origine sovraumana - e divenire storico in odore di insignificanza.
Una strada plurimillenaria senza uscita, per la quale la loro stessa domanda - «come è possibile, oggi, riconciliare filosofia e politica? » - rischia di diventare puramente retorica.
Dopo i fallimenti del ’900, il rapporto tra intellettuali e politica è invece da affrontare con un’impostazione concretamente e saldamente laica che si ponga l’obiettivo reale di superare la scissione tra pensiero e azione, perché parte dalla convinzione che siano entrambi umani. Una direzione di ricerca per la quale proprio il caso di José Pablo Feinmann potrebbe essere paradigmatico.
Nato a Buenos Aires nel 1943, il suo interesse per il nazismo si lega anche ai passati anni bui del suo paese, a quel Reich argentino che, «razionale come quello tedesco», era «arrivato ad installare 350 campi di concentramento» e praticava la tortura «come unico mezzo di intelligence »; per questa avevano «stabilito, rigorosi, precise relazioni tra voltaggio e peso corporeo» ed «agli scartati, a quelli che non avevano più niente da farsi strappare, facevano un’iniezione di pentotal, li mettevano su un aereo e li gettavano vivi nel Río de la Plata». Con queste parole terribili l’autore de L’ombra di Heidegger ci dice che, diversamente da ciò che comunemente si pensa, la razionalità non è estranea alla violenza più estrema che annulla l’identità umana. E da filosofo che non ha chiuso le porte alla fantasia, con la sua presa di posizione politica ci suggerisce, al contrario, che la coerenza “etica” tra pensiero e azione passa attraverso quella dimensione irrazionale umana che è anche il fondamento stesso dell’arte.

giovedì 12 luglio 2007

Repubblica 12.7.07
Il sindacato, l'uguaglianza e lo scalone
di Eugenio Scalfari

IL MIO ARTICOLO di domenica scorsa intitolato "Quando il sindacato si accordò con Maroni" ha suscitato vivaci reazioni da parte del segretario della Cgil, del segretario di "Rifondazione comunista" Franco Giordano e del presidente della Camera, Fausto Bertinotti. Il giornale ufficiale del Prc, "Liberazione" mi ha dedicato tre pagine accusandomi di essere il capo del partito della nuova destra e sforzandosi di dimostrarlo. Tutte queste vivaci critiche mi imputano d'aver scritto falsità perché i sindacati non hanno mai sottoscritto accordi sullo "scalone" con l'allora ministro del Lavoro, Maroni.

Di solito non reagisco a chi contesta le mie opinioni e le mie interpretazioni dei fatti: contestazioni pienamente legittime delle quali, quando mi convincono d'aver sbagliato, prendo atto. Ma in questo caso penso sia doveroso rispondere: troppo aspre le critiche e molto qualificati gli autori perché io possa chiudermi nel silenzio. Del resto il tema è di grande interesse: si è trasformato il movimento sindacale e in particolare la Cgil in una corporazione che guarda soltanto agli interessi particolari dei suoi associati? Ha subito analoga metamorfosi la classe politica in generale e i partiti della sinistra radicale in particolare?

Questo è il tema vero del dibattito, del quale il problema delle pensioni e dell'età pensionabile rappresentano soltanto un aspetto che però tiene sotto scacco da molti mesi il governo e l'intera vicenda politica italiana. A me pare che su di esso si sia manifestata con clamorosa visibilità la natura corporativa di alcuni settori del sindacalismo e della sinistra politica, per difetto di una visione adeguata dell'evoluzione sociale e culturale della modernità.

Prima di passare all'esame delle questioni voglio qui citare il pensiero di Aldo Schiavone sull'eguaglianza; pensiero che interamente condivido e che rappresenta il nocciolo di questo dibattito.

Scrive dunque Schiavone su "Repubblica": "Oggi l'eguaglianza sembra una parola in difficoltà, che facciamo fatica a pronunciare (mentre tutti sproloquiano di libertà) messa in crisi dai fallimenti del ventesimo secolo non meno che dall'onda del capitalismo totale che sta dominando l'orizzonte del pianeta. Ma sbagliamo ed è un errore grave. Perché di eguaglianza avremo presto un gran bisogno per riuscire a sottrarre il futuro alla destabilizzazione di squilibri paurosi, indotti dalla forza stessa delle potenze in campo: l'intreccio tra scienza e mercato nella forma storica che stiamo sperimentando. Dismisura rispetto alla quale le ingiustizie del vecchio capitalismo industriale sembreranno presto non più d'un pallido ricordo. Le nuove diseguaglianze saranno tutte, molto prima che diseguaglianze proprietarie e distributive, disparità "di accesso"; generate non direttamente dall'economia ma dal rapporto ancora oscuro tra l'avanzamento tecnologico e il suo uso sociale".

Disparità di accesso, le chiama Schiavone ed è un modo analogo e aggiornato di definire quella "eguaglianza delle posizioni di partenza" che è stata fin dagli anni Quaranta del secolo scorso il nucleo di pensiero del liberalismo europeo e di quello italiano di Croce e di Einaudi, di Salvemini e di Ernesto Rossi, dei fratelli Rosselli e di Ugo La Malfa. Con buona pace dei miei attuali contraddittori mi metto anch'io in questo gruppo di persone, delle quali ho condiviso il pensiero e - con alcuni di loro - un percorso di vita e di azione mai smentito.

Mi ha fatto sorridere, ma con molta amarezza, l'accenno di un Croce che si starebbe rivoltando nella tomba se potesse aver letto il mio articolo di domenica scorsa; così l'altro accenno ad uno "Scalfari giovane" e uno "Scalfari vecchio" che avrebbe dirazzato da un liberalismo originario in favore di un liberismo totalizzante.

Io non sono così importante da meritare la distinzione tra una fase giovane e una fase vecchia del mio pensiero, che fu applicata al pensiero di alcuni grandissimi come Hegel e Marx. Ma se si vuole studiare l'evoluzione delle mie idee che certamente è avvenuta come accade a tutti quelli che compiono un lavoro intellettuale, si vedrà che essa ha portato un liberale a considerare la sinistra politica come uno strumento adeguato alla trasformazione di se stessa e dunque anche della democrazia italiana coniugando l'eguaglianza con la libertà. Spero, per dirla tutta e fino in fondo, che il nascituro Partito democratico sia l'approdo di questo percorso e quindi mi preoccupano gli ostacoli che gli vengono frapposti quando si fondano non tanto e non soltanto su differenti divisioni ideali ma su logori ideologismi dietro ai quali è facile avvistare istinti di sopravvivenze corporative, interessi ed egoismi particolari, persistenze di apparati e nomenclature ormai estenuati.

Tutto ciò chiarito per quel che mi riguarda, vengo alle poche questioni che hanno animato questo dibattito.

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Epifani afferma con forza di non aver mai sottoscritto patti con Maroni sullo "scalone" pensionistico e ricorda i molti scioperi che la Cgil promosse, talvolta da sola e talvolta con le altre organizzazioni sindacali, per impedire che l'età pensionabile fosse aumentata.

In effetti non esiste alcun documento comune, redatto e firmato dalla Cgil insieme col ministro del Lavoro dell'epoca. Esiste invece il famoso "Patto per l'Italia" formalmente stipulato con il governo Berlusconi dalla Cisl (Pezzotta) e dalla Uil (Angeletti) che riguardava l'intera politica sociale su una piattaforma compromissoria di reciproche concessioni. Quel patto scatenò una durissima polemica tra le organizzazioni sindacali (la Cgil era ancora guidata da Sergio Cofferati) e di fatto non fu mai attuato.

Ma per quanto riguarda lo "scalone" previdenziale io non ho affatto affermato l'esistenza di un documento sottoscritto, bensì di un accordo sostanziale: i sindacati e la Cgil in particolare avrebbero di fatto consentito l'attuazione della legge delega e Maroni ne avrebbe posticipato di tre anni e mezzo l'entrata in vigore. Inoltre lo stesso Maroni avrebbe fatto slittare la verifica dei coefficienti applicati alle pensioni d'anzianità come previsto dalla riforma Dini; quest'ultima, giova ricordarlo, fu firmata da tutte e tre le organizzazioni sindacali confederali prima ancora che il governo la presentasse al Parlamento.

La data fissata per la verifica dei coefficienti era prevista dalla legge ma Maroni "se ne dimenticò". I sindacati anche. Padoa-Schioppa l'ha riproposta; i sindacati chiedono che sia rinviata ancora; ovviamente, per non turbare acque già molto agitate, la materia è stata affidata ad una commissione che... riferirà.

I sindacati confederali (Cgil in testa) affermano ora, da non più di quarantott'ore, che lo "scalone" non è né il solo e neppure il più importante delle questioni sociali in discussione con il governo. Più importanti sono l'aumento delle pensioni di anzianità al di sotto di una soglia minima, l'avvio di ammortizzatori sociali adeguati, la lotta al precariato, l'entrata in vigore del contratto del pubblico impiego il cui testo, già firmato dalle parti, è stato però oggetto di lunghe discussioni interpretative. Infine la detassazione dei contributi sul lavoro straordinario.

Gran parte di queste importanti questioni sono state risolte. Il round finale è avvenuto tra lunedì e martedì ed ha generato soddisfazione tra tutti gli interessati (un po' meno negli organismi internazionali). Non entro nel merito di questi accordi ma mi limito a constatare che se esiste un collegamento tra le questioni risolte e quella ancora aperta dello "scalone", dovremmo ora aspettarci che la via dell'accordo anche su quest'ultima parte sia in discesa. Invece non sembra così. Lo scalone, definito un aspetto non essenziale dagli stessi interessati, continua però a pesare e a turbare i sonni del governo e ad eccitare la combattività delle organizzazioni sindacali e della sinistra politica. Il governo cerca la quadratura del circolo ma i sindacati finora hanno risposto "niet".

Giordano e Bertinotti non vogliono scalini e scalette al posto dello "scalone": ne vogliono l'abolizione pura e semplice, che avrebbe un costo complessivo di circa dieci miliardi di euro e metterebbe l'Italia di nuovo sotto scacco di fronte alla Commissione europea; cosa che peraltro non preoccupa affatto né Rifondazione, né Diliberto, né Pecoraro Scanio, né il ministro Ferrero (Prc).

Epifani dal canto suo, in un'intervista al "Corriere della Sera" di lunedì scorso, ha ammonito i partiti a non interferire con i sindacati e con la loro autonomia di scelta. Ha perfettamente ragione. Ne sono seguiti incontri con la segreteria di Rifondazione che - hanno detto i partecipanti - si sono conclusi molto bene. Dopodiché la delegazione di quel partito ha ribadito che lo scalone deve essere abolito, punto e basta. Epifani ha ritirato l'ammonimento? Oppure i destinatari non erano i partiti della sinistra radicale? Lo vedremo tra pochi giorni.

Osservo che l'asprezza dello scontro è infinitamente maggiore di quanto avvenne sullo stesso argomento con il ministro Maroni quattro anni fa. Allora (era il 2004) lo scalone passò senza che la politica sociale e pensionistica fosse messa a ferro e fuoco dai sindacati. Ci fu un solo sciopero generale di quattro ore nel 2004, che i sindacati motivarono con la questione pensionistica. Tutti gli altri scioperi indetti tra il 2002 e il 2005 furono diretti contro l'abolizione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori e contro le leggi finanziarie del governo Berlusconi. Nel frattempo la legge Maroni era stata approvata dal Parlamento ma la sua entrata in vigore come pure la revisione dei coefficienti pensionistici furono rinviati al gennaio 2008.

A questo punto le ipotesi sono due: o c'è stato l'accordo, tacito ma non meno evidente, tra Maroni e i sindacati, oppure i sindacati non davano al tema dell'età pensionabile il peso che adesso gli danno. Una terza spiegazione non c'è.

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Sulle contumelie delle quali sono stato oggetto da parte dei leader di Rifondazione comunista ho già fatto cenno. Ribadisco che non è affatto vero che il programma elettorale dell'Unione preveda l'abolizione dello scalone "senza sé e senza ma". Lo condiziona invece a provvedimenti di gradualità e di compatibilità di bilancio. Questo aspetto è sottaciuto dai miei rissosi interlocutori contro l'evidenza dei testi.

Giordano ritiene incredibile, arrogante e ricattatorio l'invito da me fatto al presidente della Camera di dimettersi in caso di crisi di governo. Non ho affatto scritto questo. Ho scritto che Bertinotti dovrebbe dimettersi qualora il governo andasse in crisi a causa di un voto contrario di Rifondazione motivato dai contrasti previdenziali sui quali il presidente della Camera ha espresso un'opinione che male si concilia con il suo incarico istituzionale. Non c'è né arroganza né tantomeno ricatto. Onorevole Giordano, ricatto è una parola che riguarda un ricattatore e un ricattabile; né Bertinotti è ricattabile né io sono un ricattatore. Lei mi deve dunque delle pubbliche scuse. Io ho semplicemente constatato che Bertinotti interviene troppo spesso su questioni che riguardano la sua competenza "neutrale" di presidente della Camera e che - ove i suoi suggerimenti inducessero il suo partito a provocare la crisi - una persona perbene come lui dovrebbe dimettersi. Punto e fine.

Repubblica 12.7.07
La scoperta del monaco Mendel
I primi passi della genetica tra piselli e moscerini

Perché i figli assomigliano ai genitori
Thomas Hunt Morgan dimostrò che i caratteri ereditari hanno la loro sede nei cromosomi
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza


Tutti abbiamo modo di osservare le grandi somiglianze, ma anche le differenze, fra genitori e figli. Non solo fra noi uomini, ma anche in ogni altro animale e fra le stesse piante. Riprodurre se stessi è anzi l´unica forma di immortalità virtualmente accessibile a chiunque, benché da questo punto di vista gli organismi più semplici, che si dividono in due e generano figli in tutto identici a se stessi, possano sembrare in vantaggio rispetto a chi, come noi, si riproduce per via sessuale.
Nell´Ottocento, Darwin e Wallace (quest´ultimo con un lavoro non altrettanto imponente) dimostravano che le specie viventi cambiano nel corso del tempo. I figli, insomma, non sono sempre un semplice miscuglio dei caratteri dei genitori: si verifica ciò che Darwin definì "discendenza con modificazioni" e che noi oggi chiamiamo semplicemente "evoluzione". Nessuno, però, aveva capito ancora che cosa passasse da genitori a figli, rendendo questi ultimi così simili a chi li ha generati. Né si sapeva come funzionassero i meccanismi dell´eredità: perché a volte un figlio somiglia di più al padre e a volte di più alla madre, e altre volte a nessuno dei due? I tempi erano maturi perché nascesse una scienza nuova, che rendesse conto della trasmissione dei caratteri attraverso le generazioni.
Le sue basi furono poste da un contemporaneo di Darwin e Wallace: un monaco boemo, Gregor Johann Mendel, appassionato naturalista, che incrociò metodicamente per anni piante di pisello odoroso nell´orto del monastero di Brno, in Moravia, di cui sarebbe in seguito divenuto abate. Fra il 1856 e il 1863, Mendel sperimentò su circa 28.000 piante di pisello, osservando come i caratteri dei genitori si riproponessero nelle generazioni successive. Espose i suoi risultati in una conferenza scientifica nel 1865 e li pubblicò nel 1866 sulla rivista dell´Accademia delle Scienze di Brno, in un bellissimo articolo. Aveva scoperto le leggi che regolano la trasmissione dei caratteri ereditari e con i suoi esperimenti aveva fondato una nuova scienza, che avrebbe avuto enorme sviluppo nel secolo successivo. Ma nessuno, anche fra i maggiori scienziati del tempo, gli prestò attenzione.
Trascorsero alcuni decenni, e nel 1900 il suo lavoro fu riscoperto da tre botanici, in Olanda, Austria, Germania. Lavorando indipendentemente l´uno dall´altro, si resero conto che Mendel aveva ragione. Nel 1905, il biologo inglese William Bateson suggerì di chiamare "genetica" la nuova scienza dell´eredità (dalla radice greca ghen, presente anche in molte parole latine che significano "generare", "dare nascita"). Qualche anno dopo, le strutture responsabili della determinazione dei singoli caratteri ereditari, ancora ignote, furono battezzate "geni".
La genetica era nata come scienza sperimentale, con le scoperte di Mendel. Una volta che queste furono confermate, ne derivò una straordinaria mole di ricerca di laboratorio su piante e animali. L´americano Thomas Hunt Morgan fornì dimostrazioni rigorose che i caratteri ereditari hanno la loro sede fisica nei cromosomi, corpiccioli osservabili al microscopio nelle cellule che si stanno dividendo. Per quanto vagamente, era stato ipotizzato già in precedenza che fosse così, anche perché i cromosomi sono di forma e numero costanti e caratteristici in ogni specie (46 nella specie umana). Morgan riuscì a dimostrarlo concentrando i suoi studi su un minuscolo insetto, il moscerino della frutta o dell´aceto (Drosophila), che si trova sulla frutta in fermentazione e ha parte importante nella produzione del vino, in quanto trasporta sugli acini d´uva e sul mosto le cellule di lievito che causeranno la fermentazione alcolica. La Drosofila si riproduce rapidamente, è facile ed economica da allevare, e i suoi cromosomi sono ben visibili al microscopio ottico.
Insieme con Morgan lavorò per venti e più anni, in una stanza dell´Università di Columbia a New York, un piccolo gruppo di genetisti validissimi. Essi poterono dimostrare che i singoli geni, come quelli che determinano, per esempio, il colore degli occhi, la forma delle ali e migliaia di altri caratteri nella drosofila, hanno ciascuno una posizione precisa sui cromosomi, come perle su una collana.
La scienza spesso procede a salti: magari si scopre, per puro caso, un´eccezione a una legge tenuta per vera, oppure accade che una teoria, sottoposta a controllo, si riveli errata. Pare che il detto "l´eccezione conferma la regola" risalga ad Aristotele, ma sembra una contraddizione, ed è più corretto dire che "l´eccezione saggia la regola". Fu così che uno dei primi esperimenti di Morgan (1910) fornì una delle dimostrazioni più belle della teoria cromosomica dell´eredità. Morgan trovò un maschio di Drosofila con gli occhi bianchi e lo incrociò con moscerini normali per controllare se seguiva le leggi di Mendel. I risultati furono sorprendenti. Nella prima generazione tutti i figli avevano occhi normali, di colore rosso: fin qui nulla di speciale, perché Mendel già aveva visto che nella prima generazione un carattere ereditario, che chiamò "recessivo", può non comparire affatto, ma si ripresenta nella seconda generazione se si fanno riprodurre fra loro gli individui della prima generazione. La parola recessivo ("che si ritira") era stata coniata, usando una parola latina, per indicare i geni che possono rimanere nascosti nei figli del primo incrocio ma che ricompaiono regolarmente in precise proporzioni nelle generazioni successive. Mendel non aveva usato la parola gene, che fu introdotta più avanti, ma aveva parlato di "elementi", sottolineando la natura di "unità elementare" della struttura, allora ignota, che trasmette i caratteri ereditari. È questa una proprietà che oggi riconosciamo ai geni.
Nella seconda generazione dell´esperimento di Morgan, il carattere "occhi bianchi" effettivamente ricomparve, come ci si attendeva per un carattere recessivo, ma con una grossa sorpresa: solo i maschi, e solo il 50% dei maschi, avevano gli occhi bianchi, esattamente come il primo scoperto all´inizio. Poteva essere che il carattere fosse "limitato al sesso", cioè si manifestasse solo negli individui di sesso maschile; ma quando Morgan incrociò un maschio a occhi bianchi con una qualunque delle sorelle della prima generazione (una sua zia), che erano tutte a occhi rossi, metà delle figlie e metà dei figli risultarono con gli occhi bianchi, e l´altra metà con gli occhi rossi. Fece allora l´ipotesi che poi risultò giusta, cioè che il carattere occhi rossi o bianchi è determinato dal cromosoma X, uno dei due cromosomi sessuali X e Y.
Nella Drosofila, come nell´uomo e in molti altri organismi, vi è un paio di cromosomi che spiega questo strano comportamento: sono i cromosomi detti sessuali, X e Y. La femmina ha due cromosomi X, quindi è XX, il maschio un X e un cromosoma più piccino, detto Y, quindi è XY. È la presenza del cromosoma Y a determinare il sesso maschile.
Il comportamento di un carattere portato dal cromosoma X ha proprio le caratteristiche osservate da Morgan per il carattere occhi rossi/bianchi. Possiamo rendercene conto, se abbiamo un po´ di pazienza e di acume, tenendo presente che in qualunque cellula del nostro organismo, tranne quelle che permettono la riproduzione (spermatozoi e cellule-ovo), i cromosomi esistono in coppie: uno dei due membri della coppia è trasmesso dal padre, l´altro dalla madre. Tutte queste coppie sono formate da due cromosomi di forma identica, tranne una: quella dei cromosomi sessuali X e Y. Quando si formano le cellule riproduttive, cioè lo spermatozoo e la cellula-ovo, dalla cui unione avrà origine un nuovo individuo, in ognuna di esse entra un solo cromosoma di ogni paio, o l´uno o l´altro, a caso. Se non avvenisse questa riduzione numerica dei cromosomi all´atto della formazione di spermatozoi e cellule-ovo, non sarebbe possibile mantenere il loro numero costante in tutte le cellule di tutti gli individui.
Le femmine generano le cellule-ovo, e poiché nelle cellule dell´organismo femminile entrambi i cromosomi sessuali sono X, ogni cellula-ovo ha un solo cromosoma X. I maschi generano gli spermatozoi, ma poiché nelle cellule dell´organismo maschile la coppia di cromosomi sessuali è formata da un X e da un Y, gli spermatozoi sono di due tipi: spermatozoi con X e spermatozoi con Y, in numero eguale. Il gene che determina il colore bianco degli occhi deve essere quindi nel cromosoma X, e manca nell´Y.
Per capire a fondo questa scoperta fondamentale basta fare un altro piccolo sforzo. Teniamo presente che, come appena detto, nelle cellule dell´organismo maschile i cromosomi sessuali sono l´uno X e l´altro Y. Chiamiamo X il cromosoma X del primo maschio con gli occhi bianchi trovato da Morgan. Incrociamolo a una femmina con gli occhi normali, i cui due cromosomi X non hanno il gene b, ma un suo equivalente che rende gli occhi rossi, come è normale nelle drosofile, per cui li chiameremo semplicemente X. I cromosomi del primo maschio sono XY, per cui il 50% degli spermatozoi che egli produce hanno un solo cromosoma Y, e l´altro 50% un solo X. La femmina con cui lo si incrocia è normale, XX, e tutte le sue cellule-ovo sono X.
I figli maschi ricevono così dal padre l´Y e dalla madre l´X (normale): sono quindi XY, con i consueti occhi rossi. Le femmine invece ricevono dalla madre un X e dal padre un X, per cui sono XX: hanno anche loro gli occhi rossi, perché il gene per gli occhi bianchi è recessivo, cioè si nasconde dietro il gene normale. Nella prima generazione quindi gli occhi bianchi non ricompaiono. Tutte le femmine di questa generazione sono però XX, per cui producono metà cellule-ovo X e metà X. Incrociandole con maschi a occhi bianchi, come sono i loro padri, nei figli si trova esattamente il risultato che fu osservato da Morgan: metà dei moscerini hanno gli occhi bianchi e metà rossi, sia tra le femmine sia tra i maschi. Perché la metà esatta? perché ogni figlio può ricevere dal padre XY solo un Y o un X, e dalla madre XX solo un X o un X. Ora, YX è un maschio a occhi rossi e YX un maschio a occhi bianchi, mentre XX è una femmina a occhi rossi e XX una femmina a occhi bianchi.
In pratica, si trattava semplicemente di una estensione delle leggi di Mendel, relativa a un cromosoma speciale, che è diverso nei due sessi, a differenza degli altri cromosomi. Si può ben dire che si trattava di un´eccezione che "confermava" le leggi di Mendel, o meglio che ne ampliava l´applicazione.
La successiva scoperta importante del gruppo di Morgan generò una nuova eccezione a una legge di Mendel, che fu nuovamente confermata, ma stavolta limitandola. Mendel aveva lavorato su sette caratteri diversi nei piselli (forma e colore del seme, del baccello e così via) e aveva concluso che caratteri diversi si ereditano indipendentemente l´uno dall´altro. Sperimentando con Drosofila si scoprirono molti altri caratteri portati dal cromosoma X e si vide che non venivano ereditati in modo del tutto indipendente dal colore bianco degli occhi. Uno di questi caratteri è il colore bruno piuttosto che giallo del corpo; altri arricciano o accorciano i peli del corpo, modificano la forma delle ali e così via. Risultò chiaro che caratteri portati dallo stesso cromosoma sono ereditati insieme, tanto più spesso quanto più sono vicini sul cromosoma. La relazione è così precisa che la si può usare per studiare l´ordine e la distanza dei geni sui cromosomi, cioè per costruire "mappe cromosomiche".
Era nata la teoria cromosomica dell´eredità. Oggi, lo studio del DNA conferma in pieno ciò che i genetisti avevano visto mediante i loro incroci, ma per comprenderlo sarebbe stato necessario parecchio altro lavoro.
(2. continua)

Corriere della Sera 12.7.07
Pensioni, da Rifondazione stop sugli «scalini»
Ferrero: offensiva neocentrista sulla riforma, ma la soluzione è lontana
di S.Riz.


ROMA — Parola di Paolo Ferrero: «Sulla vicenda delle pensioni si sta respirando una insistente iniziativa neocentrista che rischia di avere la meglio non solo sul programma dell'Unione ma su ogni tipo di ragionevole proposta di soluzione ». Rifondazione comunista, quindi, non molla. Accreditando ancora di più la tesi del segretario della Cgil Guglielmo Epifani, secondo il quale «sarà una trattativa dura ». Se il ministro della Solidarietà sociale considera infatti l'accordo per l'aumento delle pensioni minime, che insieme al provvedimento sull'Iva per le auto aziendali finirà nel decreto legge che distribuisce i 2,5 miliardi di euro del tesoretto, «un passo avanti», insiste comunque sul fatto che lo scalone Maroni, meccanismo che farebbe passare l'età minima pensionabile da 57 a 60 anni dal primo gennaio prossimo, «va tolto. E su questo siamo ancora lontani».
Ancora più categorico, se possibile, il segretario del partito Franco Giordano, che ha commentato la proposta di un nuovo patto intergenerazionale avanzata in una lettera a Repubblica da Walter Veltroni citando la «statistica» di un famoso poeta romanesco: «Togliere ai lavoratori per dare ai giovani, ma che patto è quello che propone Veltroni, il patto del pollo di Trilussa?» Il fuoco di sbarramento della sinistra radicale contro la proposta di sostituire lo scalone con gli scalini e poi le quote (somma dell'età anagrafica e dell'anzianità contributiva) sta raggiungendo il livello massimo in vista della fase decisiva della trattativa. Ma ha tutto il sapore di una manovra piena di tatticismo. Anche se dai toni un po' accesi. Ieri è toccato al capogruppo di Rifondazione in Senato, Giovanni Russo Spena, definire addirittura «indecente la campagna che cerca di accreditare la tesi bugiarda del conflitto fra giovani e anziani».
Rientrato da Israele, Romano Prodi sta lavorando a una proposta contro la quale i Cub hanno già indetto uno sciopero per domani. Ieri il premier ha benedetto l'intesa sulle pensioni basse. «L'ho voluta io», ha risposto a chi gli chiedeva un commento. Mentre il segretario dei Ds Piero Fassino ha ribadito il giudizio positivo sull'idea di Damiano di ammorbidire lo scalone con scalini e quote.
L'accordo sull'aumento delle pensioni basse continua tuttavia a far discutere. Non piace infatti ai lavoratori autonomi perché nel loro caso sono previsti più anni di contributi rispetto ai dipendenti per accedere ai benefici. Giudizio condiviso anche dall'ex ministro leghista del Lavoro, Roberto Maroni, per il quale, inoltre, l'adeguamento «altro non è che una mancia, quasi un'elemosina. Un caffè al giorno».

Corriere della Sera 12.7.07
Il presidente della Camera: sono sconcertato. E al Senato lite tra il leghista Castelli e la diessina Finocchiaro
Bertinotti: brogli, il governo chiarisca
La Procura di Roma sequestra il video sulle schede «truccate» in Australia
di R.R.


ROMA — Se dopo le elezioni tutti i partiti — vincitori e sconfitti — trovano il modo di dire «siamo andati bene», adesso tutti chiedono verifiche e pubblico dibattito sul video girato con un telefonino e che mostra presunti brogli nella circoscrizione Africa-Asia-Oceania-Antartide, con schede elettorali compilate in un garage australiano.
Ieri il presidente della Camera Fausto Bertinotti ha definito la vicenda «effettivamente sconcertante»: «Penso sia ragionevole concorrere nella sollecitazione al governo affinché, nel pieno rispetto dell'autonomia della magistratura, possano essere raccolte informazioni che possano essere fornite alla Camera». La magistratura in effetti già procede. La Procura di Roma, attraverso il pm Salvatore Vitello, ha disposto il sequestro del video pubblicato dal sito Repubblica.it. Vitello, che da tempo indaga su altre presunte violazioni elettorali all'estero denunciate da Forza Italia, ha incaricato la Digos di acquisire il filmato.
Ma è la politica a condurre la partita più rumorosa. Appena scoppiato il caso, martedì, l'opposizione ha cominciato a chiedere un'accelerazione sul controllo delle schede, già sollecitato subito dopo che il centrosinistra ha vinto le Politiche del 2006 per circa ventiquattromila voti. E ieri la richiesta è stata ripetuta da Forza Italia, unita all'invito di An al governo di riferire in Aula e alle accuse lanciate dal capogruppo della Lega al Senato, Roberto Castelli: «Dobbiamo domandarci se Palazzo Madama rappresenta veramente il voto popolare, oppure se è illegittima».
La risposta arriva dalla diessina presidente dei senatori dell'Ulivo, Anna Finocchiaro; la quale, prima ancora di Bertinotti, si esprime «formalmente per un dibattito pubblico su questa mistificazione, su questa macchinazione dei presunti brogli per gli italiani eletti all' estero». A lei si associa Gianclaudio Bressa, esponente Margherita I PRECEDENTI
vicepresidente dell'Ulivo alla Camera: «Ben venga il chiarimento del governo. Sarà utile capire chi sia all'origine di episodi così vergognosi».
Intanto Paolo Rajo, autore del video e candidato trombato nella circoscrizione al centro di questa polemica, insiste: «Il senatore Randazzo e l'onorevole Fedi (entrambi hanno conquistato quel seggio per l'Ulivo, ndr) sapevano da tempo. E anche l'Udeur era informato dell'esistenza del video».
Per l'Udeur, appunto, ironizza il ministro della Giustizia Clemente Mastella: «Tutti si lamentano di questa vicenda. Noi siamo l'unico partito rimasto fregato, e rimaniamo zitti». Mentre molti, nel centrosinistra, continuano a interrogarsi sulla consistenza della "prova- filmato": alcune delle schede riprese sembrerebbero diverse da quelle a norma, e poi, sono arrivate al consolato italiano? Se sì, sono state conteggiate? Certamente, non è Rajo la persona in grado di sciogliere i dubbi: «Io ho ripreso con il mio telefonino. Se poi le schede non erano quelle originali, questo io non lo so».

l'Unità 12.7.07
Staminali, torniamo a parlarne
di Maurizio Mori


La ricerca sulle cellule staminali - embrionali o da adulto che siano - ha aperto una «nuova frontiera» per la scienza. Gli studi fervono, ed anche le polemiche. Alcuni cercano di screditare i progetti di ricerca degli altri, dando luogo ad un’anomalia scientifica. Per contrastare questa tendenza (molto italiana ed ideologica) e per sostenere la loro ricerca, gli scienziati italiani che studiano anche le staminali embrionali hanno costituito un gruppo che, in collaborazione con la Consulta di Bioetica, Politeia, l’Associazione Coscioni e per la Rosa nel Pugno tiene oggi a Roma (Sala delle Colonne, Palazzo Marini) il 2° Convegno nazionale.
Oltre a presentare i risultati ottenuti dalle ricerche fatte, gli scienziati le difendono dalle critiche e passano al contrattacco osservando che la tesi della «sacralità dell’embrione» non può prevaricare il legittimo pluralismo etico diffuso sul tema e giustificare quella che Flamigni ha efficacemente chiamato la «dittatura dell’embrione». Di fatto, i cattolici che sostengono le posizioni vaticane sono nettamente contrari alla ricerca sulle staminali, ma è noto che altri cattolici hanno posizioni diverse, come tesi diverse sono sostenute dai laici e da altre confessioni religiose - ad esempio i protestanti, i musulmani. La ricerca va fatta a tutto campo, con le staminali da adulto ed anche con quelle embrionali, perché tra le due linee di ricerca non c’è contrapposizione ma sinergia.
Questo è lo spirito che anima la ricerca scientifica non appesantita da pregiudizi ideologici. Gli ostacoli o i ritardi frapposti alla ricerca sono causa di positivi danni per lo sviluppo delle conoscenze e - forse - anche per il conseguimento di possibili terapie.
Come passo concreto per superare la imperante «dittatura dell’embrione», gli scienziati chiedono di potere accedere anche ai finanziamenti pubblici italiani, perché l’attuale situazione discrimina e penalizza la ricerca sulle staminali embrionali. L’auspicio è che l’esecutivo di centro-sinistra dia una risposta incoraggiante alla richiesta, mostrando di avere cambiato rotta rispetto al governo precedente. Stiamo a vedere.
*Presidente della Consulta di Bioetica, Milano - Università di Torino

l'Unità 12.7.07
Cocaina boom: +62% tra i giovani
La relazione al Parlamento: i consumi continuano a salire e i prezzi vanno giù, spinelli comprati a scuola
Con la Fini-Giovanardi arresti a raffica, ma nessuna efficacia. Ferrero: presto la nuova legge

di Anna Tarquini


IL MERCATO ITALIANO della droga è secondo in Europa per consumo, dopo la Spagna ed è boom di cocaina, specialmente tra i giovani, visto che i prezzi di quella che un tempo era una droga da ricchi, continuano a scendere vertiginosamente. La relazio-
ne al Parlamento sulle tossicodipendenze presentata ieri dal ministro della Solidarietà Ferrero conferma sostanzialmente le linee di tendenza degli ultimi anni, ma è anche piena di nuovi scenari: dice ad esempio che sette studenti su dieci sanno dove poter trovare uno spinello e uno dei luoghi deputati è la scuola; dice che le comunità terapeutiche stanno fallendo per mancanza di fondi; dice che è un proliferare di test casalinghi comprati dai genitori per verificare se i figli si drogano; dice, anche, che nel 2006 ci sono state oltre 55mila segnalazioni per violazione della legge sulla droga. Che sono state arrestate 25.399 persone (più 219 minori) e che questa cifra è pari a un quarto dei 91mila ingressi annui nelle carceri. Il 27% del totale degli arrestati è solo consumatore.
Più coca, più spinelli, meno alcool. Nel 2006 in Italia ci sono stati 517 decessi per overdose; un dato stabile dopo il picco massimo toccato nel 1996 con 1.556 deceduti e l’età è progressivamente aumentata. Ma la relazione fornisce anche un dato sulle morti per eccesso da alcool: circa 24.000 decessi e riguardano più di 17.000 uomini e circa 7.000 donne. Dice Ferrero: «Il fenomeno droga è un fenomeno ormai radicato che per essere combattuto deve vedere al primo posto la prevenzione ma anche il miglioramento e il potenziamento dei servizi». I Sert sono in difficoltà e non va meglio alle Comunità terapeutiche che, denuncia Ferrero nell’introduzione alla relazione, «hanno subito un vero e proprio salasso economico. Dal 1996, anno in cui si è censito il picco delle strutture residenziali per le dipendenze (1372 con circa 24.000 utenti), ad oggi, la diminuzione delle strutture è stata considerevole: 730 comunità residenziali e 204 semiresidenziali, con un’utenza di non più di 11.000 persone. «La comunità terapeutica - sottolinea il Ministro - permane uno tra gli strumenti fondamentali di cui dispone il sistema dei servizi per la cura e la riabilitazione». Ma c’è anche un problema di legge: i dati della relazione dicono anche che è urgente superare la Fini-Giovanardi e in fretta. «Spero che il disegno di legge - dice Ferrero - possa essere definito entro l’estate, la ricerca di un accordo è importante». «Siamo ancora all’ideologia - dice - . C’è una aumento della cocaina che non è sottoposta, come invece l’eroina, a stigma sociale. Una sostanza considerata un mezzo per star meglio nella società».
Il rapporto è chiaro: il consumo di cocaina, seppure sporadico ed occasionale, è fortemente cresciuto fra i giovani. Nei maschi, ad esempio, fra i 25 e 34 anni in due anni (2003-2005) ha registrato un aumento del 62%. I ricercatori del Cnr hanno poi stimato che gli studenti della scuola superiore che nel 2006 hanno avuto un contatto con la cocaina, una o più volte, sono stati 97 mila. Di questi, 12 mila ne hanno fatto un uso frequente. E i prezzi? Dal 2001 al 2006, la media per la cocaina è passata da 99 a 83 euro; per l’eroina da 68 a 52 euro per quella nera e da 84 a 78 per quella bianca. Dice Ferrero, «oramai è alla portata di tutte le tasche».

il manifesto 12.7.07
Rifondazione teme la crisi e si trincera dietro la Cgil
Perfetta sintonia dal vertice Mussi-Giordano su pensioni e unità a sinistra. Il Prc denuncia una «manovra neocentrista» di Ds e Margherita ma esclude una rottura come nel '98. In piazza a settembre su giovani e precarietà
di Matteo Bartocci


Roma «Prodi si sbrighi, faccia la sua proposta e chiuda una situazione che sembra una pagliacciata», tuona un Raffaele Bonanni furioso per la fiaccolata «rutelliana» contro i sindacati. Ma se la Cisl è costretta a manifestare sotto la sede dell'Ulivo alla vigilia della proposta prodiana sulle pensioni, vuol dire che la «maionese» dell'Unione è definitivamente impazzita. Avvitata in una crisi seria, profonda e tutta politica.
Viste da sinistra ci sono tutte le premesse per una manovra «neocentrista» di Ds e Margherita che mirano all'«autosufficienza» del Pd e a recuperare consenso al Nord in vista del voto anticipato. Sospetti avvalorati, per il Prc, dall' apertura di Fassino all'Udc, l'accelerazione sul referendum «taglia-partiti» e dalla lettera con cui Veltroni si schiera più o meno apertamente con Padoa Schioppa e Rutelli contro i sindacati. «Se il governo prepara una soluzione che dà gli stessi risparmi dello scalone (circa 7,5 miliardi) per noi è inaccettabile», avverte Maurizio Zipponi, responsabile lavoro di Rifondazione: «Temiamo però che Prodi si prepari a presentare una proposta 'prendere o lasciare' scaricando sul Prc la responsabilità di una crisi che invece va tutta cercata nelle dinamiche interne al partito democratico». E' in questo clima decisamente cupo che Giordano e Mussi, con i rispettivi stati maggiori, si sono incontrati ieri alla camera per fare il punto sull'unità a sinistra e la trattativa sulle pensioni.
Sul tavolo grandissima preoccupazione e non poca indignazione per il «delirante patto generazionale» lanciato da Veltroni su Repubblica. Proposta contro la quale Mussi e Giordano hanno convenuto di centrare la manifestazione unitaria di settembre proprio sulla precarietà, reddito minimo per i giovani e il «superamento» della legge 30.
Avanti con i piedi di piombo. Sulle pensioni Rifondazione si è allineata sulla linea Mussi ufficializzando la scelta di «affidarsi alla trattativa sindacale» e di «escludere una rottura con la maggioranza come nel '98». Ufficialmente ci si trincera sulla proposta Epifani di uno «scalino» a 58 anni senza automatismi. Un'ipotesi giudicata «quasi impossibile» nello stesso Prc. Che va alla "guerra" quasi disarmato. «Per la sinistra siamo alla vigilia di un Afghanistan al cubo - attacca Giorgio Cremaschi, Fiom-Rete 28 aprile - introdurre gli scalini e tagliare i coefficienti come ha fatto Padoa Schioppa nel Dpef significa fare una riforma peggiore dello 'scalone' e ribaltare il programma».
La base di partenza nel governo però è nota: «scalini» dai 58 anni nel 2008 con «quote» di anzianità contributiva. Il problema è che per Padoa Schioppa la riforma della legge Maroni deve essere fatta a costo zero per i conti pubblici e anzi portare gli stessi benefici della «stangata» a orologeria votata dalle destre. Una chiara scelta ideologica: da «salario differito» le pensioni diventerebbero una variabile dipendente dei conti pubblici a tutto vantaggio della previdenza privata già spronata con la riforma appena varata del Tfr.
Per tutto il giorno bocche ben cucite da palazzo Chigi. Tornato da Israele, Prodi ha incontrato subito sia il ministro dell'Economia che quello del Lavoro Cesare Damiano per riceve gli aggiornamenti sull'Ecofin e l'aumento delle pensioni basse. Sullo scalone l'intenzione è di chiudere presto un «vicenda che si sta trascinando da troppo tempo». Di fatto l'unico negoziato che resta aperto con i sindacati è quello sulle esenzioni. «La base di partenza per i lavori usuranti è il testo Salvi del '99, da lì si può ampliare ma senza discostarsi di molto», avvertono dal ministero del Lavoro.
Prodi dovrebbe presentare la sua mediazione venerdì in consiglio dei ministri. Se dovesse essere inaccettabile per i sindacati, come suggeriscono le indiscrezioni della vigilia gli scenari si fanno ancora più opachi. Il governo non cadrà subito ma è certo che la questione si affronterà a settembre, con la finanziaria alle porte, il varo del Pd, un governo sempre più logorato e lo «scalone» bene in vista. A quel punto, la sinistra sarebbe in un vicolo cieco. Per uscirne il Prc vagheggia ancora una «consultazione popolare» per decidere se restare o no al governo. Ma è certo che un nuovo '98 terrorizza tutti i partiti. E il Prc non può sfilarsi da solo a meno di rompere anche l'unità a sinistra. Senza contare che caduto il patto con Prodi anche la presidenza della camera finirebbe nel mirino dell'Ulivo. Tutti scenari esiziali ma niente affatto impossibili per un'Unione ai minimi termini.

il Messaggero 12.7.07
Giordano: «C’è rischio di crisi. il Pd vuole cacciarci fuori»
di Carlo Fusi


Segretario Giordano, Veltroni in sostanza accusa la sinistra radicale o parte di essa di voler difendere i vecchi e di non saper tutelare i giovani. Lei cosa risponde?
«Che siamo in presenza di uno schema che rivela una vera miseria culturale. Si riscoprono i bisogni dei giovani solo quando è in atto una lotta per tutelare i diritti dei lavoratori. Veltroni vuole parlare di giovani? Benissimo. Stia con noi, allora, quando proponiamo un reddito di cittadinanza per i ragazzi che non hanno risorse economiche bastevoli. Stia con noi quando proponiamo di superare la legge 30 che è un vero e proprio monumento alla precarietà. Stia con noi, e contro la Confindustria, quando ci battiamo per il superamento dei contratti a termine. Oppure sulle nostre richieste a favore della formazione e della ricerca».
Ma scusi, vuole contestare che innalzare l’età pensionabile è un atto a favore delle giovani generazioni?
«Chiedo a tutti, anche a Veltroni: davvero pensate che il nemico dei giovani sono gli operai e i sindacati? Ma dove siamo finiti...».
Però non c’è mica solo Veltroni. Anche D’Alema dice che non ci sono i soldi per abolire lo scalone, e pure Dini è contrario...
«Io chiedo a D’Alema e a Dini: quando abbiamo sottoscritto il programma dell’Unione, loro dov’erano? Era un programma condiviso se non sbaglio; e adesso invece che succede? Che ci definiscono irriducibili. Assurdo».
Insomma non vi scostate dal vostro impianto: abolizione dello scalone e niente “scalini”...
«Noi siamo pronti a discutere, e investiamo senza riserve sulla trattativa sindacale. Non ci sono problemi di compatibilità economica per lo scalone. Le risorse ci sono, ma la verità è che vedo con preoccupazione che il merito del problema è by-passato. La questione si è spostata su un piano squisitamente ideologico, con l’obiettivo di negare riconoscibilità al conflitto sociale».
Ma non è forse vero che Prc e Cgil giocano allo scavalco reciproco?
«Lo nego. Io ho incontrato Cgil, Cisl e Uil ed è stato un colloquio molto positivo nel quale si sono definite ipotesi di trattativa nel merito. Quanto ad Epifani, è vero o no che ha criticato le posizioni di chi si è allontanato dal programma dell’Unione? Non siamo certo noi. Il vero nodo è che manca una proposta unitaria della coalizione. La mia critica è esplicita: vedo che pesano sul quadro politico le diverse collocazioni e definizioni interne al Pd».
Sta dicendo che sono i leader del Pd a non volere la riforma delle pensioni?
«Sto dicendo che ci sono perturbazioni esterne al merito della questione pensioni. Per essere ancora più chiaro: non vorrei che qualcuno avesse preventivamente deciso di non fare l’accordo e punti a scaricare su di noi la responsabilità. Siamo ad un rovesciamento dello schema del ’98 che portò Prodi alle dimissioni».
Ecco, Prodi. Visto che una posizione unitaria nell’Unione non c’è, sarà lui a fare una proposta finale. Per voi sarà un prendere o lasciare...
«L’unica cosa che posso dire è che mi auguro che quella proposta sia il più vicino possibile al programma, di cui il presidente del Consiglio è garante».
Al dunque: ci sarà o no la crisi sulle pensioni?
«Il rischio è molto concreto. In una situazione del genere, riterrei utile tornare al merito del problema e ad una dimensione collegiale di discussione. Peraltro il fatto che oggi, dopo l’incontro che ho avuto con Mussi, la sinistra dica le stesse cose è un fatto salutare per la vita democratica dell’Italia. Insisto: non è più il ’98, questa volta il problema non siamo noi. Per il resto, sottolineo che difendere il mondo dei lavoratori è una delle ragioni dell’esistenza della coalizione».