lunedì 16 luglio 2007

La Stampa 16.7.07
Fausto: la Cosa Rossa deve nascere con il Pd
Fausto Bertinotti ex leader di Rifondazione: «Dobbiamo correre»
Il nuovo partito della sinistra secondo Bertinotti di Riccardo Barenghi
qui

l'Unità 16.7.07
«Le risorse ci sono, l’intesa è possibile»
Approvata la linea Giordano, ma il partito farà una «consultazione di massa» sulla presenza al governo
di Wanda Marra


RIFONDAZIONE lo ribadisce e lo ripete a Prodi: «Noi l’accordo lo vogliamo fare, la copertura c’è». Lo dichiara Ferrero nel suo intervento, lo riprende Giordano nelle sue (applauditissime) conclusioni. Il partito di viale del Policlinico ancora una volta non ci sta a farsi mettere all’angolo. E continua a denunciare: contro il governo, c’è un attacco centrista. Rc è largamente schierata sulla posizione del segretario (alla fine la sua relazione viene approvata dal Comitato politico nazionale con la maggioranza “bulgara” del 90,1%). Ma allo stesso tempo si riserva, dopo una grande consultazione popolare, la possibilità di uscire dal governo. «Proponiamo di dare vita a una consultazione vincolante e di massa sulla nostra presenza al governo», si legge a chiare lettere nel documento approvato dall’assemblea. Forme e modi sono ancora tutti da decidere. La proposta che Rc intende avanzare formalmente è che ad essa - che dovrebbe tenersi entro il prossimo autunno - partercipino gli elettori di tutti i partiti della “Cosa Rossa”. Se dagli altri attori della sinistra-sinistra dovesse arrivare un no, Rc le sue consultazioni se le farà comunque. Affiancando a questa decisione la proposta al governo di mettere le pensioni in Finanziaria, dopo la consultazione popolare dei sindacati, anche questa da tenersi in autunno, il puzzle diventa chiaro: prima di dare un sì o un no definitivo, che potrebbe essere determinante per il governo sulla questione del sistema previdenziale, il partito vuole tenersi le mani libere, riservandosi di chiedere ai suoi elettori.
Ma intanto, Rc rimane ferma nel tentativo di arrivare all’accordo. Si dice pronto ad «accettare la sfida» visto che «i soldi ci sono», Giordano, ricordando che «l’Inps fuori dalle previsioni, ha all’attivo più di 3 miliardi». Sì dunque al ritocco e non all’abbattimento secco dello scalone Maroni, con il meccanismo già noto della proposta del Prc. Un solo scalino a 58 anni con vaste aree di esenzione: per i turnisti, i lavoratori a vincolo, i lavoratori definiti usuranti nel decreto Salvi del ‘99 e quelli con 40 anni di contributi (da notare che scompare la richiesta che ad essere esentati siano tutti gli operai). Ma, «non accetteremo - avverte il segretario di Rc - nessuna proposta che ritardi gli effetti dello scalone». Non mancano le stilettate ai moderati: «Dini dice che l’80% è contro di noi? Peccato che il programma ci dia totalmente ragione», polemizza Giordano. Ancora più “duro” e “puro” il Ministro per la Solidarietà sociale, Paolo Ferrero: «Il presidente del Consiglio vada avanti e non si faccia frenare dalle resistenze politiche che verbalmente sono dirette contro di noi ma in realtà sono contro il sindacato, puntano a marginalizzarlo e alla fine a far saltare il Governo». Lontano dal palco e dai microfoni, raccontano che il Ministro sembra decisamente possibilista sull’accordo: perché, come dice anche nel suo intervento, le coperture finanziarie ci sono per abbattere lo scalone, e quindi se Prodi ha deciso di tirare in ballo quest’aspetto della questione, il suo tentativivo è in realtà quello di smarcarsi dalle pressioni politiche, che vengono ad ora soprattutto dall’ala neocentrista della coalizione. Non manca la strigliata da parte del Ministro al suo partito: «Nella discussione interna alla sinistra c’è un effetto di centralità del governo: certi problemi non possono essere risolti per questa via qui, perché il profilo della coalizione è così e non può cambiare. Rc deve tornare ad agire nella società. Dobbiamo tornare a fare quello che facevamo bene quando eravamo all’opposizione».
È dalle minoranze che arrivano non pochi problemi. A scagliarsi contro la linea della segreteria era stato sabato il sindacalista Fiom, Cremaschi. E se la minoranza di Grassi vota con la maggioranza, a dire sì all’ordine del giorno contro ogni innalzamento dell’età pensionabile, insieme a Sinistra critica, ormai da mesi verso l’uscita dal partito, è anche l’Ernesto. In tutto, sono solo 22 voti, ma tra questi ce n’è almeno uno molto pericoloso: quello di Giannini, che è senatore, e che a Palazzo Madama potrebbe votare contro qualsiasi accordo, insieme ai 2 irriducibili, Turigliatto e Rossi, con i “soliti” rischi per la maggioranza. E il partito teme un suo no già al Dpef, che arriva al passaggio di Palazzo Madama la prossima settimana.

l'Unità 16.7.07
Pensioni, l’ultimatum dei sindacati
Giorni decisivi per il negoziato. Epifani: «Non firmo accordi con fabbriche e uffici chiusi»
In caso di rinvio, sciopero generale dopo l’estate. Prodi prepara la proposta finale
di Rinaldo Gianola


«Una cosa è certa: con le fabbriche chiuse io non firmo niente». Da qualche giorno Guglielmo Epifani ripete queste parole ai suoi più stretti collaboratori commentando la lunga, interminabile, faticosa trattativa sulle pensioni.
Non è un mistero che la Cgil, insieme alle altre confederazioni, ritiene la settimana che inizia oggi quella decisiva per arrivare a un accordo. O si firma entro sabato, oppure di scalone, scalini, quote e altre diavolerie se ne parla a settembre. Senza lavoratori nelle fabbriche e negli uffici, non ci sono intese da sottoscrivere.
Ma un rinvio del negoziato, che in questa congiuntura potrebbe essere interpretato come un fallimento politico e sindacale, non sarebbe indolore, né per le confederazioni, né tantomeno per Romano Prodi.
La ripresa della trattativa dopo l’estate sarebbe accompagnata da uno sciopero generale indetto da Cgil, Cisl e Uil contro il governo sulla riforma delle pensioni. Se non è un ultimatum all’esecutivo quello che gira in queste ore sulle bocche di alcuni leader sindacali, poco ci manca.
Sciopero? Scontro? Non c’è nulla di male: uno sciopero rappresenta un segnale di normale conflitto nella dialettica tra parti sociali e governo e potrebbe essere anche propedeutico a un successivo, positivo incontro. Ma per il centrosinistra, che ha vinto le elezioni definendo «iniquo» lo scalone di Maroni, iniziare la stagione della prossima legge Finanziaria con milioni di lavoratori nelle piazze a chiedere il rispetto delle promesse non sarebbe un bel risultato. Anche se non è da escludere che nel centrosinistra ci possa essere qualche tentazione “modernizzatrice” nel forzare la mano contro i sindacati, per segnalare all’opinione pubblica che il costituendo partito democratico non ha certo paura di rompere con il mondo del lavoro.
Dall’altra parte per i sindacati, e soprattutto per la Cgil, non si può nemmeno lontamente ipotizzare di trattare e chiudere un accordo mentre i lavoratori sono in ferie. E man mano che passano i giorni, e la proposta di Prodi ancora non si vede, a qualcuno particolarmente sospettoso è venuto in mente che nel governo ci sono protagonisti di primo piano che puntano al rinvio a dopo l’estate, mantenendo la spada dello scalone sulla testa dei sindacati. Fantasie? Probabile, però non si sa mai. A pensar male, come diceva quel famoso senatore a vita, si fa peccato ma ogni tanto ci si prende.
Di certo mentre si avvicina la fine di luglio, in casa Cgil è cresciuto l’allarme e con l’allarme ha preso corpo la «sindrome del 31 luglio» di cui nessuno, nel sindacato di Epifani, ha nostalgia. La fine di luglio del 1992, con l’accordo tra il governo Amato e le parti sociali, rappresentò un passaggio drammatico per la Cgil, con la firma di un storico documento che sanciva la definitiva cancellazione di ogni indicizzazione dei salari e bloccava la contrattazione, che portò alle dimissioni (successivamente rientrate, non senza traumi però) dell’allora segretario generale Bruno Trentin. Per questo Epifani, che è davvero moderato e dotato di buon senso, starà al tavolo fino all’ultimo minuto utile, ma non oltre la fine di questa settimana. Perchè proprio non si può. Se c’è l’accordo bene, i sindacati allora chiameranno alla consultazione tutti i lavoratori e poi le nuove pensioni andranno in Finanziaria. Se non si fa l’accordo nei prossimi giorni, invece, ci si rivede in autunno con uno sciopero generale.
Quello che sorprende, in casa Cgil ma anche nelle altre confederazioni, è la drammatizzazione che sui giornali e nel governo alcuni fanno della situazione previdenziale e dei conti pubblici. Ma non siamo nel 1992. Pur con tutti gli sforzi d’immaginazione, oggi nessuno al governo, all’opposizione e nemmeno sulla grande stampa d’informazione può paragonare l’emergenza di quindici anni fa, quando per noi si parlava di «sindrome messicana» e il dottor Sottile ci deliziò con una manovra da 90mila miliardi accompagnata dalla svalutazione della gloriosa lira per conquistare Maastricht, con l’Italia del 2007. Oggi i conti sono in ordine, il deficit-pil è sotto il 3%, c’è la ripresina e pure un extra gettito da distribuire.
Ma sulle previdenza, invece, è sempre allarme. Siamo perennemente allo scontro generazionale, ai sindacati conservatori, alla sinistra ostaggio dei suoi estremismi e via discorrendo. La Confindustria strepita, i giornali degli industriali e delle banche si lamentano per i tempi biblici e difendono lo scalone. Valorosi giornalisti ed ex dirigenti della Banca d’Italia, che incassano almeno un paio di pensioni mensili da far impallidire quelle di interi reparti di Cipputi, si ergono a moralizzatori e a difensori della stabilità finanziaria. Poi il professor Giavazzi vorrebbe un Sarkozy, un uomo forte, o almeno un decisionista in salsa tricolore. Forse cercano di influenzare Walter Veltroni, che s’è già preso il rimbrotto di Paolo Mieli per aver appoggiato, ma non firmato, il referendum elettorale.
Eppure, a ben vedere, un accordo potrebbe essere già sul tavolo, se il governo fosse tutt’uno. Le carte sono state voltate. Ai sindacati può andar bene che dal 2008 si vada in pensione a 58 anni, poi si può ragionare su due quote (età anagrafica più contributiva) a 95 e 96. Il piatto sarebbe completato dall’aumento dei contributi per i parasubordinati, dal taglio alle pensioni d’oro e dall’accorpamento degli enti previdenziali per recuperare risorse. Ma se questa ipotesi trova consensi sociali e anche politici, perchè ancora non si formalizza e magari si chiude con una firma e una bella bicchierata? Forse è una ipotesi troppo timida per gli aficionados di Sarkozy, fuori e dentro la maggioranza? Si vedrà.
Il problema vero è che la trattativa inciampa spesso nel ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa. E in queste settimane, per dirla tutta, è emerso con chiarezza che tra la Cgil e il ministro c’è una difficoltà di comunicazione e di comprensione. Tanto che nella confederazione di Corso d’Italia c’è chi rileva che «o Prodi prende in mano la partita oppure con Padoa-Schioppa non si fa nemmeno un passo avanti». E proprio in questo momento delicato per la vertenza delle pensioni, considerate le obiezioni del titolare di via xx settembre, alla Cgil ricordano come non sia la prima volta che con il ministro dell’Economia, un “tecnico” che sente sulle sue spalle la responsabilità del risanamento dei conti e dello sviluppo del Paese, si arriva sulla soglia dello schianto. Il superamento dello scalone costa tanto, almeno un miliardo di euro l’anno. Ma per alcune veline forse scappate dal ministero dell’Economia e arrivate sui giornali confindustriali il costo sarebbe ben più elevato, insostenibile. Ma non ci sono solo le pensioni.
A Padoa-Schioppa la Cgil rimprovera di aver sbagliato i conti e di aver sottostimato le entrate fiscali nella fase preparatoria della Finanziaria 2007 che, alla prova dei fatti, ha poi deluso famiglie, lavoratori e pensionati mentre alle imprese si concedeva il taglio del cuneo fiscale. Altri ricordano ancora l’ostruzionismo del ministro nel rinnovo del contratto degli statali, salvo poi firmarlo senza particolari modifiche il giorno dopo le elezioni amministrative chiuse con risultati certo non brillanti per la coalizione di centrosinistra. Poi c’è stata la diatriba, che poteva sfociare in una rottura, sull’extragettito e l’aumento delle pensioni minime. E adesso lo scontro, si perchè tra Cgil e Padoa-Schioppa di scontro si tratta, sulla riforma delle pensioni. In questo quadro tocca spesso al ministro del Lavoro Damiano predicare prudenza e ricucire pazientemente le posizioni.
Ma miracoli non ne fa nessuno, nemmeno Ronaldinho. Spetta a Prodi dire la parola finale sulle pensioni. Il conto alla rovescia è iniziato.

l'Unità 16.7.07
Luciano Gallino. «Pensioni, la leggenda dell’onere insopportabile»
di Bruno Gravagnuolo


Luciano Gallino è uno studioso insigne e rigoroso. Professore emerito di Sociologia nell’ateneo torinese, da anni smonta con pazienza i luoghi comuni. Esempi. La «fine del lavoro dipendente e degli operai»: da noi 16 milioni i primi, e 5 i secondi solo nell’industria! Poi, il mito progressivo della «flessibilità», sempre precaria in realtà. In ogni caso eccessiva in Italia e «diseconomica» ovunque. Oppure l’altro mito: la «concorrenza cinese». Che invece è in larga parte occidentale, fatta di merci occidentali importate dalla Cina. Di recente Gallino ha liquidato sulla Repubblica un’altra frottola corrente: l’onere pensionistico insopportabile. Laddove al contrario il bilancio Inps è a posto. E - senza l’assistenza e gli oneri non da lavoro dipendente - avrebbe un attivo di 3,5 miliardi di euro. In più, c’è il futuro. Chi ha detto che la platea degli occupati, a favore dei futuri pensionati, non debba crescere, con giuste politiche? Insomma è sbagliato prendere ai poveri per dare ai poveri, con la scusa del «conflitto tra generazioni». E condannarsi alfine a dover gestire così la «naturale» precarietà dei flessibili. L’articolo sull’Inps è stato un po’ oscurato da Repubblica e messo in un angoletto, il 5 luglio scorso. Ma il tema è decisivo, e ci regala uno spunto per fare intervenire Gallino nel nostro dibattito sulla «sinistra smarrita». È vero, lui è un sociologo con «understatement», però di sinistra se ne intende. Addirittura nel suo ultimo libro, Tecnologia e democrazia (Einaudi) rilancia il «socialismo», «pezzi» di cui per Gallino sono: «Il buon uso sociale della scienza come “bene comune”, il governo politico della finanza, la democrazia industriale, forme cooperative...». In altri termini, la democrazia applicata ad ogni ambito sociale. Sì, ma la cultura politica della sinistra di oggi, la «sinistra smarrita»? Sentiamo il professore.
È opinione diffusa tra i moderati del centrosinistra che compito della sinistra sia quello di adeguare il welfare alla flessibilità del lavoro. Gestire l’esercito di riserva in sintonia con l’impresa. È questa la sinistra ritrovata?
«Opinione diffusa non solo in Italia. Ma è un’impostazione di corto raggio. La flessibilità nasce dalla messa in concorrenza di 1 miliardo e mezzo di nuovi lavoratori extraeuropei, con quelli occidentali. E dal riassetto produttivo del sistema globale. Ma la flessibilità non è una legge di natura, e arrendersi ad essa, subirla, è miope. Inoltre chi idealizza la «flexsecurity» scandinava, non fa i conti con i costi immensi che implica: milioni di lavoratori assistiti, in mobilità e formazione. Se si fa sul serio, allora si tratta di elevare massicciamente la pressione fiscale, come in Svezia e Danimarca: più del 50% del Pil. Irrealistico».
Meglio per la sinistra puntare alla piena occupazione perché meno costoso?
«Sì, meno costoso, più equo e anche più di sinistra»
Lei ha dimostrato che l’Inps, detratta l’assistenza, ha i conti in ordine. Che le pensioni del futuro sono assicurate. E che occorre ampliare la platea degli occupati, per garantirle ancor di più...
«Già, e qui torniamo alla piena occupazione. Ma anche all’evasione fiscale e al sommerso - vero serbatoio di flessibilità! - che sono decisivi per impostare seriamente il problema. E sul quale né la destra né la sinistra hanno dato risposte risolutive».
Viceversa la sinistra dà vita a un Partito democratico che sembra far suoi gli allarmi e le politiche di cui sopra sul welfare. C’è un nesso tra il mercatismo delle «opportunità», e la cultura politica «democrat»?
«Certamente sì. Se diciamo che il compito non è quello di regolare con forza il capitalismo, come nel 900, ma quello di lenire la precarietà, e adattare il lavoro a un certo trend, allora ci si adegua a compiti più limitati. Si perdono di vista finalità più generali di emancipazione. E si finisce col pagarne lo scotto anche in termini di bilanci finanziari».
Altro leit-motiv: sono finiti i partiti di massa per certi obiettivi. Ma, destre di massa a parte, è davvero così, in Gran Bretagna o in Germania?
«Molti studiosi, in Germania, Francia e Regno Unito non sarebbero affatto d’accordo con questa tesi. Prenda il caso della Gran Bretagna, dove c’è ancora un Labour radicato. Gordon Brown sta cambiando la politica filo americana di Blair. E ha fatto, all’atto del suo insediamento, un forte discorso, molto di sinistra. Con la ripresa di temi abbandonati dal New Labour da molti anni. Più eguaglianza, più stato sociale, più sanità. Più beni pubblici per tutti i cittadini. Discorso che ha alle spalle l’idea di un partito robusto e combattivo a sostegno. In Germania la Spd resta un partito esteso, mentre si affaccia la realtà della Neue Linke, con uno spessore sociale anni fa inimmaginabile. Certo l’Spd, con il suo stile adattivo e leggero tipo “Neue Mitte” s’è tagliata molta erba sotto i piedi...»
Lei auspica forti politiche pubbliche. E Sarkozy in Europa sembra accontentarla. No agli alti tassi, no al monetarismo, no alla concorrenza come totem. Sfida imbarazzante da destra?
«Sarkozy è molto capace e sveglio, ed è appoggiato dalle grandi famiglie economiche francesi. Valorizza il profilo statale della Francia e il ruolo pubblico in economia. Da noi la sinistra è invece sensibile agli argomenti globali liberisti che vengono dall’esterno. Come la svalutazione delle politiche industriali e dello stato in economia. Mentre, se c’è un paese che investe in colossali politiche industriali pubbliche, sono proprio gli Usa liberisti, peraltro paese protezionista. Il liberismo è sempre un enunciato che vale per gli altri... Quanto alla Bce, la si è presa troppo sul serio e le si è concesso troppo potere. L’Europa non può essere governata in una prospettiva solo finanziaria. E da questo punto di vista Sarkozy ha pienamente ragione. Viceversa ogni volta che un funzionario di Bruxelles, dell’Ocse o del Fmi starnutisce, il governo italiano trema».
La sinistra per essere tale, deve assumere ancora come tratto saliente la critica al capitalismo?
«Senza il minimo dubbio. Significa il tentativo di regolare il caos selvaggio del capitalismo. Introducendo finalità universali. Dall’uso della scienza, ai beni comuni, alla democrazia industriale, alle forme proprietarie. E puntando al governo della finanza. Il capitalismo attuale per il 90% coincide con i mercati finanziari. Esso non è produzione, non è lavoro, non è industria, non è scambio di merci. È finanza da regolare».
È protezionismo esigere che le merci non siano adulterate o prodotte con salari schiavistici? E imporre standard per alzare i salari non è in fondo «esportazione della democrazia»?
«Sì, certi standard sono irrinunciabili. Ma va ricordato anche che la concorrenza cinese, e di altri paesi emergenti, non è fatta solo di merci cinesi. Il 50% infatti è prodotto in deroga a elementari diritti umani - 2 o 3 dollari al giorno di costo del lavoro - e grazie a investimenti occidentali. Le imprese occidentali esportano capitali in cerca di manodopera a buon mercato. E reintroducono nei paesi d’origine quelle merci. Il gigante cinese è costruito per metà dall’occidente, con 40 milioni di schiavi disseminati nelle zone franche. Vuol dire: materie prime e semilavorati, trasformate in Cina. E rivendute in occidente a prezzi occidentali. Quindi diritti minimi, niente vincoli ambientali e grande “ricarico”. Oggi l’85% dei computer portatili del mondo è fabbricato in Cina, a 80 dollari al mese. Da noi costano 1200 dollari l’uno».
C’è un nesso tra tutto questo scenario e la spirale delle guerre?
«C’è un rapporto complesso, ma altresì evidente. A parte la contesa globale e geopolitica sui mercati, assistiamo oggi alla produzione intenzionale di immense ineguaglianze, nel segno del capitalismo globale. Con un abisso tra un 90% di paria e un 20% di privilegiati sul pianeta. Le immense diseguaglianze alimentano a loro volta tensioni terrificanti. E la disponibilità di grandi masse disperate ad ogni avventura. Un fenomeno sociale che si collega ai nazionalismi e ai fondamentalismi».

l'Unità 16.7.07
La «grande stampa» ha nostalgia dell’uomo forte
Dal «Corriere» a «Repubblica» l’elogio del «cesarismo»
Prodi indeciso? Meglio la crisi. «Impari da Sarkozy...»
di Maria Zegarelli


Nostalgie. Il premier Romano Prodi ieri mattina leggendo i maggiori quotidiani italiani ha scoperto che l’ultimo rimprovero che gli si fa è quello di non essere l’«uomo forte» di cui gli italiani sentirebbero in maniera sempre più pressante la mancanza. Non sono ancora guariti dal «berlusconismo» - anzi - ed è già sopraggiunto un nuovo sintomo ad agitare i loro sonni: il «cesarismo». C’è voglia di «cesarismo» («versione italiana del bonapartismo»), scrive infatti Ilvo Diamanti su la Repubblica.
Qui si sente - aggiunge Diamanti - la mancanza di ciò che Oltralpe sta accadendo: «Il rinnovamento». Sul Corriere Francesco Giavazzi, parla de «il ciclone Sarkozy» che si sta felicemente abbattendo sulla Francia. In poche settimane l’uomo di destra che pia-
ce a sinistra, ha fatto vedere subito chi è il più forte. «Lunedì sera Nicolas Sarkozy ha partecipato, fatto senza precedenti, alla riunione dei ministri delle Finanze dell’euro e ha chiesto clemenza: “Per riformare la Francia ho bisogno di spendere qualche soldo in più”». Lasciando di stucco tutti gli scettici, «quattro giorni dopo il Parlamento francese ha approvato i primi articoli della legge che elimina di fatto le 35 ore». Ma non modificando l’orario di lavoro, lui «lo fa con astuzia» e introduce incentivi a lavorare di più. Non come qui.
Di «prodismo», neanche a parlarne. Anzi, l’antidoto viene somministrato con rigorosa attenzione ogni giorno da crisi minacciate, auspicate, invocate, più o meno apertamente appoggiate, non solo in Parlamento. La cosiddetta grande stampa, aiutata certo da una sfiancante litigiosità della maggioranza, sparge sale sulle ferite. Al loro esordio il governo e il suo premier venivano rimproverati - sia dai quotidiani sia dagli elettori - di scarsa capacità di comunicazione. Oggi si scopre che gli italiani, lo dicono gli infallibili sondaggi, sognano l’«uomo forte», una guida autoritaria. I poteri forti invece, la Confindustria per esempio, hanno ben altre ragioni alla base di così poca simpatia: non perdonano il «peccato originale», questa alleanza con la sinistra radicale che si mette di traverso su pensioni, coefficienti e scalone.
È la penna di Eugenio Scalfari a bilanciare la lettura dei giornali del premier : «La cosiddetta fase due del governo Prodi - scrive - è cominciata da una paio di mesi. quella dei provvedimenti per la crescita e l’aumento del potere di acquisto dei ceti deboli: il cuneo fiscale ormai operativo, l’aumento delle pensioni sotto al livello di 650 euro, il sostegno ai giovani, l’avvio degli ammortizzatori sociali, la revisione concordata degli studi di settore, infine la trattativa sull’età pensionabile ancora in bilico...». Il guaio, continua, «per il centrosinistra è che questa linea espansiva», non ha prodotto, dicono i sondaggi, «alcun effetto sul consenso degli elettori». Gli italiani, insistono ancora i sondaggi, sono sempre più attratti da Nicolas Sarkozy, “homo novus” della politica come lo ha definito Barbara Spinelli, su La Stampa. Chissà che non dipenda un po’- sarebbe riduttivo liquidarla così - anche dalla fotografia che ogni giorno viene pubblicata: un governo attaccato al respiratore. La didascalia è più o meno sempre uguale a se stessa: «crisi».
Di governo, della maggioranza, di questo o quel ministro. C’è anche chi rompe la tradizione - almeno di facciata -di imparzialità e come Gianni Riotta, direttore del Tg 1, auspica la crisi se non arrivano le riforme. Tentazione a cui non resiste nemmeno il Sole 24Ore. Il 4 luglio scorso fa outing. Guido Gentili scrive: «Meglio un taglio netto, ma limpido, cioè una crisi di Governo, che una crisi opaca e strisciante. Meglio, insomma, dire chiaro e tondo: a queste condizioni non ci stiamo, né al Governo né nella maggioranza. Punto e stop». Il giorno dopo Dario Di Vico , dalle colonne del Corriere fotografa: «Assomiglia sempre di più a un governo balneare. Nella cronaca politica di questi giorni è difficile, infatti, trovare traccia dell’esistenza di un esecutivo con una sua autorità e un’autonoma capacità di proposta. La presunta trattativa sulle pensioni si prolunga da giorni in una grottesca rappresentazione dell’inutilità della politica. I ministri responsabili vanno a ruota libera e si contraddicono tra di loro. Come conseguenza della latitanza del governo i sindacati hanno preso forza e battono i pugni sul tavolo».
La diagnosi la stila Sergio Romano, l’8 luglio sul Corriere: «Più di cinquant’anni fa, negli albori della Prima Repubblica, un presidente del Consiglio dovette dimettersi perché il segretario del suo partito definì il governo, con glaciale distacco, semplicemente “amico”». Oggi non è più così. Scrive: «L’Italia è cambiata. Romano Prodi e il suo governo vengono trattati con sufficienza, ironia e persino sarcasmo da coloro che dovrebbero sostenerlo. Il presidente del Consiglio, in particolare, è diventato bersaglio di battute taglienti e sorrisi di sufficienza. qualcuno, all’interno del governo, lo contraddice apertamente. Altri lo prendono in giro...». C’erano tempi - non troppo lontani - invece, in cui il Presidente del Consiglio in carica appariva su tutti i quotidiani del mondo mentre faceva le corna ai suoi colleghi. Incassava le leggi «ad personam». Alzava il telefono e chiamava in diretta durante i programmi in onda sulle sue televisioni. Cambiava la legge elettorale sotto elezioni. Uno dei suoi alleati, l’ha scherzosamente chiamata «il porcellum». Una porcata, per rendere impossibile governare a chi veniva dopo.

l'Unità 16.7.07
Il referendum comincia a far paura ai piccoli dell’Unione
Il comitato ormai vicino al traguardo delle firme
La sinistra radicale: attenti ai poteri forti
di Natalia Lombardo


REFERENDUM Cresce la polemica mano a mano che aumenta il numero di firme raccolte in tutta Italia: una polemica trasversale fra i due schieramenti, ma anche interna al centrosinistra, con lo Sdi, i Verdi e i popolari della Margherita che vedono nella legge che
uscirebbe dal referendum il rimedio peggiore del male (la «porcata» di Calderoli, il sistema elettorale attuale).
Nell’ultimo weed end la raccolta di firme si è intensificata (6000 solo a Roma sabato nei banchetti al concerto dei Genesis) ma sui numeri il comitato promotore naviga a vista, oscillando tra le cerificate 421 mila di dieci giorni fa e le 450 mila. Il tetto per l’ammissibilità è di 500mila, ma ne servono almeno 70mila in più per sicurezza. L’incertezza è dovuta al fatto che i moduli con le firme, raccolti dai tanti volontari in tutta Italia, non sono ancora arrivati a Roma. Il comitato promotore infatti lancia un appello a tutti i «raccoglitori»: «Le firme vanno consegnate alla Cassazione il 24 mattina (ripulite da errori), quindi sbrigatevi a mandare i moduli al comitato nazionale a Roma, sennò è lavoro sprecato». Il referendario Guzzetta plaude all’appoggio di Luca di Montezemolo; nel rush finale si attendono novità: gli ulivisti danno per prossima «la firma di Enrico Letta, e di qualche ministro».
Il referendum scuote le acque e riattiva il dibattito sulla modifica della legge elettorale. All’erta i partiti minori e la sinistra radicale: per il segretario di Rifondazione, Giordano, «la sponsorizzazione di Montezemolo non è un caso», dimostrando che l’impianto referendario è vicino a quello «neo-autoritario di Confindustria». Per Rizzo del Pdci «i poteri forti vogliono cancellare le forze critiche della società».
Enrico Boselli, segretario dello Sdi, avverte: «L`unica cosa certa è che il sistema elettorale che uscirebbe dal referendum sarebbe molto peggiore di quella attuale». In realtà anche i parisiani la pensano allo stesso modo, ma con presupposti diversi: il ministro della Difesa, convinto sostenitore della raccolta di firme, ritiene «il referendum uno strumento di pressione perché il Parlamento faccia una nuova legge elettorale» promessa un anno fa agli elettori nel programma dell’Unione. Per Arturo Parisi, quindi, «il referendum è l’unica arma per difendersi dal rischio del collasso e del ritorno all’indietro, l’unico pungolo per andare avanti nel solco del bipolarismo. Altro che nuove alleanze e leggi alla tedesca in salsa italiana!», conclude il ministro che, semmai, preferirebbe a un ritorno al «Mattarellum».
Più ottimista su un’intesa parlamentare è il segretario Ds Piero Fassino, che nell’intervista a l’Unità valuta la possibilità di «una convergenza ampia sul sistema tedesco», anche se per i Ds sarebbe preferibile il sistema maggioritario con doppio turno alla francese.
A sostenere il voto alla tedesca c’è l’Udc in testa, col segretario Lorenzo Cesa disponibile al dialogo» e confortato dalla convergenza di tante forze per «evitare la mannaia referendaria». Per un accordo in Parlamento sul sistema alla tedesca insiste anche il Prc, con Russo Spena che critica lo sprint dato alla raccolta di firme impresso «da An e, in modo non dichiarato, dai Ds di Veltroni. Sta dando frutti avvelenati», avverte, perché «la pessima legge che ne uscirebbe sarebbe una mina contro il governo». Per il verde Bonelli il referendum «pone un falso problema: non semplifica il quadro politico», ma mette «il silenziatore ad alcune forze politiche». Ancora più duro Merlo, parlamentare della Margherita, che parla di «ipocrisia» del centrosinistra. Forza Italia, in parte impegnata nella raccolta di firme, con Schifani si dice dialogante su «uno sbarramento al 5%».
Dall’altra parte c’è il fronte delle firme: dopo Fini anche Gasparri, in An, spinge per il referendum pensando alla nascita del «partito unitario della Libertà». E nell’Unione Di Pietro giura che «il 24, cascasse il mondo, noi, Segni, Alemanno andremo a depositare le firme».

Repubblica 16.7.07
Il comitato politico finisce con il 90% dei consensi alla linea del segretario sulla previdenza
Il Prc schiaccia la minoranza sconfitta la linea anti-riforma
di Goffredo De Marchis


ROMA - Rifondazione compatta, Rifondazione che non lascia varchi a nessuno, né a sinistra né a destra, ora che si avvicina la curva finale della trattativa sulle pensioni. A Prodi risponde che la copertura finanziaria per lo "scalino" esiste. A Rutelli e agli oppositori interni dell´ala più radicale mostra l´immagine più granitica di Prc. Franco Giordano celebra infatti una vittoria schiacciante della sua linea al parlamentino del partito, riunito al centro congressi Frentani, a Roma. È la risposta di Rifondazione alle critiche, la risposta di un partito chiamato in questi giorni a reagire su un doppio fronte. Le accuse da sinistra (che porteranno a una ormai annunciatissima scissione) e l´«offensiva neocentrista», certificata dal "manifesto dei coraggiosi" scritto da Francesco Rutelli. La linea del segretario passa al comitato politico con una maggioranza che con luogo comune si definisce bulgara: 90,1 per cento. «Anche troppo», scherza Giordano.
Agli assetti del congresso di Venezia (dove Fausto Bertinotti vinse con il 59 per cento) si aggiungono oggi i consensi di Claudio Grassi, allora all´opposizione. «Mi convince la proposta della segreteria, mi convince la consultazione dei militanti sul gradimento al governo, mi convince il richiamo al programma», dice Grassi. Morale: Giordano raccoglie 146 voti a favore su un totale di 162. Spiega Gennaro Migliore, capogruppo alla Camera: «Questo risultato è figlio del momento che stiamo vivendo. Di fronte agli attacchi, il partito mostra la sua compattezza. Non poteva essere altrimenti». Dunque al comitato politico di Prc, riunito per l´ultimo giorno nella sala del quartiere San Lorenzo mentre Roma è svuotata dal caldo, le minoranze restano schiacciate. Giorgio Cremaschi, segretario nazionale della Fiom, se n´è andato, dopo l´intervento di sabato. Giordano lo fa notare più volte, durante la replica: «Mi piacerebbe dire a Giorgio, se solo fosse qui...». Un artificio retorico, prima dell´attacco frontale: «Ci sono compagni che vengono qui esclusivamente per attaccare il gruppo dirigente quando ci sono le telecamere e i giornalisti. E che alla fine preferiscono non partecipare al dibattito». In questo parlamentino la forza della maggioranza interna è davvero indiscutibile. L´ordine del giorno firmato da Cremaschi, Salvatore Cannavò e Fosco Giannini per l´abolizione dello scalone e il ritorno ai 57 anni raccoglie 22 voti. La proposta di una sinistra alternativa, fuori dal governo, presentata da Cannavò "incassa" 12 consensi. Il leader della componente oltranzista è sempre più fuori dal partito. Riunito in fondo alla sala con i suoi militanti, non risparmia battute e commenti sarcastici durante la replica di Giordano. «A settembre costruiremo un´altra sinistra - annuncia Cannavò - per uscire dal falso unanimismo di Prc».
Sulla linea dello "scalino", Giordano tiene insieme praticamente tutte le anime di Rifondazione. E non c´è dubbio che il manifesto rutelliano abbia favorito questo risultato. Alfonso Gianni, sottosegretario al Tesoro, vede qualcosa di «peggio dell´attacco centrista. Vogliono scaricare Rifondazione per fare una coalizione con le destre». E il problema non è Prc, la sua possibile rottura sulla previdenza «perché alla fine saranno i lavoratori con il referendum a dire se l´accordo è giusto o meno», spiega Gianni.
L´intesa sulle pensioni serve anche allo sviluppo della Cosa rossa. «È una sfida strategica al Partito democratico», dice Giordano. Ma non passerà dallo scioglimento di Prc. «Anche perché - avverte Migliore - senza Rifondazione non c´è nemmeno il soggetto unitario a sinistra».

Repubblica 16.7.07
Il leader del Pdci: "Rutelli spaccia per riforme un pesante arretramento sul piano dei diritti"
Diliberto: "C'è un disegno centrista per scardinare il governo Prodi"
di Francesco Bei


La sinistra. Vogliono cacciare la sinistra dalla maggioranza, perché blocchiamo le misure più impopolari Montezemolo. Il progetto è quello teorizzato da Montezemolo. Una logica in contrasto con il programma dell'Unione

ROMA - «Nella maggioranza c´è già chi sta facendo i conti del dopo Prodi. È un disastro perché, con tutti i suoi limiti, questo governo per noi rappresenta l´equilibrio più avanzato possibile. E c´è chi è al lavoro per scardinarlo». Per il segretario del Pdci, Oliviero Diliberto, le talpe al lavoro per provocare la crisi hanno nomi e cognomi: Rutelli, Dini, Montezemolo, i moderati dell´Unione.
Esiste davvero un disegno neocentrista per mettervi alla porta?
«C´è un disegno esplicito, che è stato persino teorizzato da Cordero di Montezemolo, cioè dalla Confindustria. È quello di costruire un sistema di alleanze centriste, con dei precisi referenti sociali, che tendano a marginalizzare sinistra e sindacati. E´ una logica che contrasta, prima che con il programma dell´Unione, con il vocabolario».
Che c´entra il vocabolario?
«Rutelli parla di coraggio riformatore, Dini ci definisce conservatori. Ma le riforme sono quelle cose che servono per estendere i diritti, non per restringerli. E conservatore è colui che tende a mantenere dei privilegi, non la sinistra. Rutelli spaccia per riforme un pesante arretramento sul piano dei diritti»
Non è un privilegio consentire di andare in pensione a 57 anni mentre in tutta Europa si percorre la strada opposta?
«Vorrei far fare un esperimento pratico a Dini e Rutelli. Provare a salire su un´impalcatura di un cantiere edile a 58 anni e vedere se si trovano bene. Il punto è questo: la stessa età anagrafica dipende da come gli anni li hai passati. La mia età è diversa da chi ha fatto l´operaio, oppure l´infermiere facendo i turni di notte, oppure l´impiegato in un lavoro ripetitivo».
Così non rende semplice una soluzione di compromesso...
«Dobbiamo rispettare l´impegno di abolire l´innalzamento da 57 a 60 anni e modulare, a seconda del lavoro che si svolge, eventuali modifiche».
È un´apertura?
«No, tutto il contrario. Confido che i sindacati tengano duro».
Torniamo al "manifesto" di Rutelli. Il vicepremier sostiene che il suo non voleva essere un attacco al governo.
«E´ del tutto evidente che quello di Rutelli è un attacco al governo: violento, lucido e determinato. E noi dobbiamo sventarlo, non agevolarlo. Se vuole si assuma lui la responsabilità della crisi».
Ci sono settori della maggioranza che non considerano più un tabù la sostituzione di Prodi con Veltroni?
«Io credo che per i moderati della maggioranza il problema non sia tanto la persona quanto l´assetto politico. Vogliono espungere la sinistra dalla maggioranza perché, finché ci siamo noi, le misure più impopolari non passano».
Continuando a litigare così, sul ciglio del burrone, avvicinate la fine...
«Il rischio, se continuiamo su questa strada, è già scritto. Noi faremo il lavoro sporco, cioè il risanamento, scontentando il nostro elettorato, dopodiché torna Berlusconi, perché la nostra gente ci avrà voltato le spalle. Non mi sembra un risultato brillante. Ma nel manifesto di Rutelli c´è proprio un passaggio, che posso citare a memoria, in cui dice che "bisogna evitare il ritorno delle destre, ma soprattutto, evitare che la sinistra blocchi le riforme". Cioè preferisce la destra alla sinistra. Viene da chiedersi perché nel 2006 abbia siglato un patto con noi».
Come potete evitare questo esito?
«Per provarci, la sinistra deve essere più forte e sarà più forte se sarà unita».
Il cantiere della cosa rossa tuttavia segna un po´ il passo...
«Ora dobbiamo accelerare con grande determinazione, altrimenti i fatti andranno più avanti di noi. A ottobre dobbiamo creare un evento politico di unità, che abbia anche qualche gamba organizzativa. Lasciamoci alle spalle la stagione delle nicchie e degli egoismi: se ci sono riusciti persino i socialisti, i più litigiosi tra tutti...».

Corriere della Sera 16.7.07
Zipponi, il mediatore rosso che «salvò» Romano
L'autore della proposta: al Professore non c'è alternativa. E basta commiserare gli operai


ROMA — «A Prodi non c'è alternativa». Maurizio Zipponi, 52 anni, deputato-metalmeccanico di Brescia, lo sostiene da dieci anni. Da quando nell'ottobre '97, allora segretario della Fiom cittadina, calò a Roma in pullman con 50 compagni per scongiurare la caduta del primo esecutivo del Professore. E, allo scopo, non esitò a prendere d'assedio la segreteria del suo partito: Rifondazione comunista. Combattivo.
A distanza di un decennio Zipponi insiste: «Non c'è che Prodi. Fino al 2011». Questa volta però, diventato onorevole e responsabile Lavoro di Prc, niente picchetti. Ma una proposta sulle pensioni che potrebbe agevolare l'accordo nella maggioranza e scongiurare la crisi. Un passo indietro? «Macchè, è una proposta complessiva che avevamo messo a punto a gennaio ». Anche il «sì» allo scalino dei 58 anni?
Non è che il «manifesto » riformista di Rutelli, che vi spinge ai margini della coalizione, vi ha consigliato una linea più morbida? «Quell'idea è venuta fuori 15 giorni fa, la notte che è saltato l'accordo. Era una delle proposte che circolavano. Si è pensato di metterla giù per non contrastare la trattativa ». Cioè? «Abbiamo deciso un atto di sincerità totale verso il governo: per noi Prodi deve durare fino al 2011 e non intendiamo usare le pensioni per qualsiasi manovra di tipo politico. Sempre che l'accordo sia coerente con il programma ».
Ma l'iniziativa non è piaciuta alla sinistra del partito: Giorgio Cremaschi, leader della corrente «Rete 28 aprile», l'ha definita, durante il comitato politico, un «pastrocchio che metterà i lavoratori gli uni contro gli altri». Zipponi ha accettato la sfida: il suo discorso tranquillo ma appassionato, tutto in salita, ha guadagnato l'ovazione della platea. «Il comitato si è chiuso ieri con un 90% di consensi per la linea del segretario Giordano — osserva —. In quale altro partito c'è questo consenso...» Bulgaro? «Insomma, noi non abbiamo un problema». E la scissione? La corrente che fa capo a Salvatore Cannavò l'ha annunciata. «L'unica scissione che mi preoccupa è quella con i lavoratori. Tutto il resto è roba da ceto politico che strumentalizza le questioni per affermarsi». E per non perdere il contatto con la base, Zipponi, ex operaio della Franchi, torna appena può nella sua Brescia dove ha costituito un personale comitato consultivo: «Sei persone: cinque delegati delle più grandi fabbriche metalmeccaniche e il segretario generale della Fiom di Brescia, Michela Spera». Così Zipponi tasta il polso degli operai del Nord, sottopone loro le ipotesi di accordo, le corregge. «Detesto chi parla dell'operaio con commiserazione, o chi usa le immagini e le parole della tradizione operaia per vendere una macchina ». Ce l'ha con la Fiat? «Quello spot della 500 esprime la massima distanza tra il messaggio e il prodotto: potevano venderci anche lo shampoo». Non esagera un pochino? «Io? In quei cinque minuti si dice solo una cosa: esiste soltanto il punto di vista delle imprese. Ma io sono altro, io sono di quelli che si alzano la mattina per andarle a fare le macchine!». Qualcuno potrebbe dire che lei non è più operaio, e che gli operai sono sempre di meno, una categoria abusata dalla retorica sindacale: «Operaio oggi è chiunque non abbia capacità contrattuale — risponde —: dalla hostess al lavoratore del call center. Sono in tanti e vorrei che continuassero a votare a sinistra. Per questo sulle pensioni chiedo al governo coerenza con il programma dell'Unione».
Una coerenza che, secondo Zipponi, è sostenibile economicamente e non mette il ministro dell'Economia in difficoltà: «Chiedo a Padoa-Schioppa di fare i conti insieme. Non la voglio mettere in politica. A tre anni dalla riforma andiamo a verificare se si è raggiunta la quota dei pensionamenti auspicata, e se così non fosse, applichiamo il sistema delle quote ».
Tanto attivismo da parte di Rifondazione ha profondamente irritato i sindacati. Il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani, ha chiesto un «passo indietro ». «Noi non ci siamo offesi — dice Zipponi — abbiamo bevuto una camomilla. Non vogliamo invadere il campo, anche se i sindacati stanno andando avanti senza sottoporre la piattaforma ai lavoratori. Sono stato sindacalista, è una cosa che non si fa, altrimenti poi nelle assemblee sono problemi ». Ma con il sindacato un punto di contatto c'è: «Entrambi pensiamo di consultare i lavoratori dopo l'accordo. Un referendum vincolante. Se sarà un "no", non se ne farà niente. Costi quel che costi».

Repubblica 16.7.07
Referendum e nuove alleanze nell'Unione riparte lo scontro
Fassino ai rosso-verdi: la maggioranza deve allargarsi
di Gianluca Luzi


Riforma elettorale, l'Udc e Mastella rilanciano il sistema tedesco Il segretario dei Ds: nel centrodestra c'è una frattura, non possiamo ignorarla Parisi sull'altro fronte: i cittadini hanno capito che le urne sono l'arma anti-collasso La sinistra radicale in allarme dopo che le firme hanno raggiunto quota 500 mila

ROMA - Il referendum ha oltrepassato le 500mila firme e la sinistra radicale accusa i Ds e Veltroni per aver dato l´impulso decisivo. Ma nel mirino di Giordano, Diliberto e dei Verdi c´è anche Rutelli, con il suo «Manifesto dei coraggiosi» che prefigura «alleanze di nuovo conio», cioè senza la sinistra radicale. Fassino cerca di calmare le acque: ripropone l´ipotesi di sistema elettorale tedesco - e questo fa piacere alla sinistra estrema - difende «senza enfatizzarlo» il «Manifesto dei coraggiosi», e avverte nello stesso tempo Giordano, Diliberto e i Verdi che il centrosinistra deve cercare alleanze oltre i propri confini se vuole andare avanti. La differenza con Rutelli è che per il segretario della Quercia tutto l´attuale centrosinistra - comunisti compresi - deve allargare i propri confini. «Considero questo documento un contributo al dibattito, anche se credo non lo si debba enfatizzare più di tanto», dice Fassino all´Unità parlando del Manifesto di Rutelli. «E sarà utile per la piattaforma politica e progettuale che dovremo presentare all´Assemblea costituente del 14 ottobre». Ma il problema delle alleanze non si esaurisce con la schermaglia sui documenti. Anche Fassino lo ripropone, che piaccia o no alla sinistra più dura. «Io dico che il centrosinistra, tutto insieme unito, deve porsi l´obiettivo di garantire una governabilità più stabile e per farlo abbiamo bisogno di guardare oltre gli orizzonti dell´Unione». Il messaggio non si presta ad equivoci. «Anche Rifondazione comunista - chiarisce infatti il leader dei Ds - deve fare i conti con il fatto che con un voto o due di maggioranza è difficile governare». Ed è chiaro quale può essere l´interlocutore: «Non possiamo non vedere - nota Fassino - che nel centrodestra si è prodotta una frattura. Tra l´Udc da una parte e Fi e An dall´altra. E anche su molti temi concreti si sta producendo sempre di più una distinzione tra la Lega da una parte e Fi e An dall´altra».
Un dibattito, quello sulle alleanze, che peserà sulla campagna per le primarie di ottobre. Il 30 luglio scade il termine per presentare le candidature alla segreteria del Pd in vista delle primarie del 14 ottobre. Ed è possibile che già questa settimana Letta e Bindi decidano se presentare le loro. Il senatore Furio Colombo, ex direttore dell´Unità, intanto, ha confermato che presenterà la sua candidatura alle primarie. Ad agitare il clima nel centrosinistra c´è anche il referendum elettorale. «I cittadini hanno capito che il referendum è l´unica arma per difendersi dal rischio del collasso e del ritorno all´indietro - commenta soddisfatto il ministro Parisi - . Altro che nuove alleanze e leggi alla tedesca in salsa italiana». E mentre la sinistra radicale attacca il referendum che vuole a tutti i costi evitare, l´Udc rilancia il sistema tedesco su cui è d´accordo anche il ministro Mastella.

Repubblica 16.7.07
Pedofilia, risarcimento record i preti Usa pagano 660 milioni
Si tratta dell'indennizzo più alto nella storia americana, al quale vanno aggiunti 114 milioni promessi dalla diocesi californiana in accordi precedenti. Che spenderà, da sola, 774 milioni di dollari

di Mario Calabresi


L'accordo prevede che vengano diffusi alcuni documenti riservati in cui emergono le responsabilità della gerarchia ecclesiastica Mahony è accusato di aver taciuto la storia di Michael Baker, un sacerdote che nel 1986 gli confessò di aver abusato di tre ragazzini Il cardinale ha già messo in vendita più di 50 proprietà e palazzi della chiesa locale L'accordo è giunto all'ultimo momento possibile, alla vigilia del primo processo A Boston tutto è cominciato mentre a Los Angeles si metterà la parola fine

LOS ANGELES - Un nuovo scandalo pedofilia investe la Chiesa cattolica americana e stabilisce un nuovo record nei risarcimenti che dovrà pagare alle vittime di abusi sessuali da parte di oltre un centinaio di preti. Protagonista di questo nuovo capitolo della storia, cominciata a Boston nel 2002, è la diocesi di Los Angeles che ieri mattina ha annunciato di aver raggiunto un accordo con 508 persone che avevano denunciato di essere state molestate o stuprate dai sacerdoti in un periodo di tempo che va dalla fine degli Anni Trenta ad oggi. L´arcidiocesi, guidata da uno delle personalità più note della Chiesa americana, il cardinale Roger Mahony, pagherà l´astronomica cifra di 660 milioni di dollari, oltre un milione e 200mila dollari per ogni vittima, un milione di euro circa a testa.
L´accordo è giunto all´ultimo momento possibile, alla vigilia del primo dei quindici processi civili che dovevano essere celebrati a Los Angeles a partire proprio da oggi. Il patteggiamento extra - giudiziario, che sarà sottoscritto questa mattina davanti ai giudici tra gli avvocati delle vittime e la diocesi più grande d´America, annulla tutti i dibattimenti previsti.
Le accuse coinvolgono 113 sacerdoti che hanno servito nella diocesi fra il 1930 e il 2003, ma di questi 43 sono morti e 54 non vestono più l´abito talare. Dei sedici rimasti all´interno della Chiesa per 12 non sono stati trovati riscontri sufficienti per sostenere l´accusa di abusi sessuali su minori, mentre quattro erano stati posti sotto processo. L´accordo che verrà firmato oggi prevede che vengano diffusi alcuni documenti riservati, che fino ad oggi l´arcidiocesi aveva rifiutato di rendere pubblici, in cui emergono le colpe di una parte della gerarchia ecclesiastica che per troppo tempo ha cercato di coprire lo scandalo. Il patteggiamento evita però a Mahony di dover comparire sul banco dei testimoni in alcune delle cause. Il cardinale infatti pur avendo dettato severe linee guida a cui devono attenersi tutti gli adulti, sia i religiosi sia gli educatori, che hanno un contatto diretto con i bambini, è stato al centro di severe critiche per i suoi comportamenti negli Anni Ottanta. Dalle carte processuali infatti emerge chiaramente che le gerarchie permisero a decine di sacerdoti di continuare a vestire i paramenti sacri nonostante emergessero accuse nei loro confronti. Mahony rimosse 17 preti indicati come colpevoli di abusi ma è accusato di aver taciuto la storia di Michael Baker, un sacerdote che nel 1986 gli confessò di aver abusato di tre ragazzini parecchi anni prima. Lui lo mandò a curarsi in New Mexico e poi negli anni lo trasferì in nove differenti parrocchie dove Baker però tornò a molestare 23 ragazzini. Oggi il cardinale ammette il grave errore e sottolinea che questo pesa sulla sua coscienza, e nel tentativo di riparare almeno economicamente, già da mesi ha messo in vendita più di cinquanta proprietà della Chiesa e i palazzi dell´amministrazione.
Inoltre altri 114 milioni di dollari erano stati promessi dalla Chiesa di Los Angeles in accordi precedenti portando a un totale di 774 milioni di dollari il totale che la diocesi californiana deve reperire. Nessun aiuto finanziario verrà dal Vaticano e ogni diocesi dovrà fare affidamento sui suoi beni e sulle assicurazioni stipulate negli anni.
Questa storia supera di gran lunga quella famosa della diocesi di Boston che nel 2002 riconobbe 552 casi e pagò 84 milioni di dollari, anche se il record di una singola causa era della Chiesa di Orange sempre in California che nel 2004 pagò 100 milioni a 90 ex ragazzini. Di fronte a questa ondata di cause, negli ultimi anni cinque diocesi americane sono andate in bancarotta tra cui quella di Tucson in Arizona, quella di Portland nell´Oregon e a gennaio quella di San Diego che è fallita.
Da quando il caso degli abusi sessuali sui minori è scoppiato negli Stati Uniti, si sono susseguite a decine le cause delle associazioni delle vittime contro le diverse diocesi. Epicentro dello scandalo fu Boston, il cui arcivescovo, il cardinale Bernard Law, fu costretto alle dimissioni e venne richiamato a Roma dove attualmente è arciprete della basilica di San Giovanni in Laterano.
Ma se a Boston tutto è cominciato a Los Angeles potrebbe essere scritto il capitolo finale. I 660 milioni di dollari metteranno la parola fine a tutte le denunce, ai processi collettivi e alla possibilità di rivalersi contro la Chiesa: nel 2002 infatti lo stato della California approvò una legge che creava una finestra di un anno durante la quale potevano essere presentate denunce senza limiti di tempo, ma con l´accordo di ieri questa finestra si chiuderà per sempre e da domani saranno possibile solo singole denunce per abusi compiuti negli ultimi due anni.

Il Vaticano. La Santa Sede non contribuirà in alcun modo le chiese americane venderanno il patrimonio
di Orazio La Rocca

CITTÀ DEL VATICANO - La Santa Sede non contribuirà in nessun modo al pagamento degli indennizzi per le vittime dei preti pedofili. Come già avvenuto in casi simili, l´arcidiocesi di Los Angeles dovrà pagare i 660 milioni di dollari vendendo parte del suo patrimonio (immobili, titoli, donazioni...) che ammonta a circa 4 miliardi di dollari. Altre strade percorribili, il ricorso a coperture assicurative o alla "protezione" della dichiarazione di bancarotta, seguendo l´esempio delle diocesi di San Diego, Davenport nell´Iowa, Portland in Oregon, Spokane nello stato di Washington e Tucson in Arizona. Ma, nella storia dello scandalo dei preti pedofili scoppiato 5 anni fa a Boston, l´indennizzo di Los Angeles è il più alto, autentico record della vergogna preceduto dai 100 milioni già pagati dalla diocesi di Orange, California, e dagli 85 milioni di Covington, Kentucky. Le azioni legali per gli abusi sessuali sono già costati alla Chiesa cattolica Usa 1,5 miliardi di dollari, che, comunque, non intaccheranno le finanze vaticane e, tantomeno, il contributo dell´8 per mille dell´imponibile Irpef della Chiesa italiana.

Corriere della Sera 16.7.07
Le diocesi americane sotto accusa
Steven, Mary e gli altri 10.665 violentati Mezzo secolo di abusi. Il ruolo del cardinale Mahony: sacerdoti trasferiti hanno commesso ancora reati
di Ennio Caretto


WASHINGTON — Steven Sanchez ha 47 anni, è scapolo, fa il consulente finanziario. Da bambino, fu una delle 508 vittime dei preti pedofili di Los Angeles. Come le altre, riceverà 1 milione e 300 mila dollari di risarcimento danni dall'arcidiocesi. Gli hanno chiesto a che cosa gli serviranno i soldi: «Niente — ha risposto — nessun assegno ti può restituire l'innocenza dell'infanzia ».
Mary Ferrell è più anziana, ha 59 anni, è madre e nonna, fu abusata sessualmente dal parroco quando ne aveva 9. «Ho atteso mezzo secolo perché venisse fatta giustizia», ha dichiarato. «Ho vissuto una vita di tormenti, alcool, droga, e a questo la Chiesa non può porre riparo».
Mary Grant ebbe esperienze analoghe, ma esprime un giudizio diverso sull'accordo con l'arcidiocesi: «È una liberazione amara dalla prigione del passato: ci consente di curare le turbe psichiche di chi ancora ne soffre».
Sono testimonianze che illustrano le tragedie personali di uno scandalo orribile, esploso nel 2000, su cui si incominciò a fare luce solo due anni dopo, alla formazione di una Commissione della Conferenza episcopale. Il caso di Los Angeles è il più clamoroso, l'arcidiocesi aveva già pagato 114 milioni di dollari ad altre vittime: sommati ai 660 milioni concordati l'altro ieri fanno 774 milioni, un triste primato. Ma il caso è uno dei tanti delle diocesi americane, dove in 50 anni centinaia di sacerdoti si sono macchiati di colpe infami nei confronti di migliaia di innocenti. La diocesi di Boston ha risarcito 157 milioni di dollari alle vittime, quella di Portland 129 milioni, quella della contea di Orange in California 100 milioni e quella di Covington nel Kentucky 85 milioni. Nei calcoli del New York Times sono complessivamente oltre 1 miliardo e mezzo di dollari, una cifra enorme, ma destinata ad aumentare: il Vaticano, precisa il giornale, non contribuisce ad alcun risarcimento.
È uno dei capitoli più neri della storia della Chiesa cattolica. A Los Angeles, la svolta avviene nel 2003, quando il Parlamento della California approva una legge che permette ai violentati il ricorso in tribunale sebbene il reato sia prescritto. Dall'altro lato dell'America, Boston è in fiamme: un prete pedofilo condannato all'ergastolo sarà ucciso in carcere da un detenuto; il cardinale Bernard Law, un amico di Papa Giovanni Paolo II, si dovrà dimettere per non avere denunciato né punito i sacerdoti colpevoli, ma averli soltanto spostati da una parrocchia all'altra. In California, si fanno avanti le prime vittime.
Come Law, il cardinale Roger Mahony è costretto al mea culpa, ma si rifiuta di aprire i dossier. Svolge un'inchiesta interna e caccia 17 preti. Al pubblico non basta.
Racconta il Los Angeles Times che emergono retroscena inquietanti. Il più grave riguarda un sacerdote, Michael Baker, che anni prima ha ammesso di avere molestato alcuni bambini. Il cardinale lo ha trasferito nel Nuovo Messico, dove il sacerdote ha commesso altri 23 reati. Anne Burke, un ex membro della Commissione istituita dai vescovi, vi vede un momento decisivo. Mahony, riferisce, ha appena saputo di un fatto analogo, antecedente al suo arrivo a Los Angeles nell'85: per ben due decenni, un altro prete, Clinton Hagenbach, aveva impunemente compiuto abusi. L'atteggiamento del cardinale cambia, e l'arcidiocesi non fa più sconti ai preti pedofili. Quando la Procura di Los Angeles elenca 221 nomi di sacerdoti che hanno violentato 570 ragazzi e ragazze, gli avvocati incominciano a dibattere se evitare i processi non sia nell'interesse di tutti.
Qualche anno fa, la Chiesa cattolica americana ha fatto un penoso esame di coscienza. Ha interrogato le sue 202 diocesi ricevendo risposta da 195. Ne ha tratto il seguente quadro. Dal 1950 al 2002 inclusi, circa 4 mila religiosi, il 4% del totale, vennero accusati di molestie sessuali, in genere a danno dei bambini. Il 75% delle accuse fu presentato dal 1960 al 1984, dopo diminuirono nettamente. Ne furono oggetto i preti più anziani, ordinati prima del 1979, il 68% dei casi: di quelli ordinati più tardi venne accusato l'11%. Stando al rapporto, la quasi totalità delle diocesi ne restò colpita, il 95%, e oltre la metà delle comunità religiose, il 60%. Dei sacerdoti denunciati, il 29% fu sospeso, il 29% punito con altri provvedimenti, uno su dieci scagionato.
A quante ammontarono le vittime vere o presunte? Il rapporto parlò di 10.667 persone tra minori e adulti, ma la cifra venne ritenuta bassa. Da allora, le polemiche non si sono assopite, anzi si sono estese alle altre chiese americane, dove ebbero luogo drammi assai simili, sembra peraltro su scala minore. E hanno finito per investire la società americana, dove la lotta contro la pedofilia si sta facendo spietata.

Repubblica 16.7.07
In quei vasi la storia della tutela in Italia
di Salvatore Settis


Un catalogo di reperti attici racconta come circolavano le opere d´arte. E serve di monito Il quesito non è affatto nuovo. Fu già posto dopo l´Unità. E rimanda a una delle principali ricchezze del nostro paese Il dilemma è: perché una collezione etrusca finisce a Palermo e una di ceramiche provenienti da Ruvo di Puglia va a Milano?

A Siena è tornata in mostra la collezione Casuccini di antichità etrusche (venduta al Museo Nazionale di Palermo nel 1865), a Milano Electa pubblica, a cura di Gemma Sena Chiesa e Fabrizio Slavazzi, tre bellissimi volumi di catalogo delle Ceramiche attiche e magnogreche della Collezione Banca Intesa. Due eventi simultanei e senza apparente relazione tra loro, ma che pongono lo stesso problema: è saggio e giusto che una collezione etrusca finisca a Palermo, che una collezione di ceramiche provenienti da Ruvo di Puglia stia di casa a Vicenza o a Milano? Mentre si discute tanto delle possibili restituzioni di oggetti archeologici dai musei stranieri che li hanno illecitamente acquistati, come si giustificano queste migrazioni, anche se interne al nostro territorio nazionale?
Questa domanda non è nuova. Subito dopo l´unità d´Italia, un vivace dibattito si svolse fra Gian Carlo Conestabile della Staffa (professore di archeologia a Perugia) e Giuseppe Fiorelli (soprintendente agli scavi di Pompei e poi direttore generale alle Antichità e Belle Arti). Conestabile proponeva «lo scambio di originali e il passaggio dei duplicati» da un museo all´altro in tutto il Paese, «allo scopo di fornire alla cultura di popolazioni che ne sono lontane una idea reale degli usi dell´arte e dell´industria» delle città antiche (in particolare Pompei). Fiorelli ribatteva con sdegno che le collezioni archeologiche devono restare integre dove furon trovate: «Sarebbe oggi biasimevole acquistare pel Museo Nazionale di Napoli le iscrizioni del Lazio e pel Museo Nazionale di Palermo gli oggetti etruschi, come con funesto esempio fu fatto non è molto, allorché coi fondi dello Stato fu comperata pel primo museo della Sicilia la raccolta Casuccini di Chiusi». Insomma, come ha scritto Maria Luisa Catoni, si dibatteva allora sulla funzione del museo nella nuova Italia, se dovesse essere «scuola» (e cioè con funzioni pedagogiche) o «custodia», e cioè puntato alla tutela territoriale.
La storia e la sorte delle collezioni oggi di Banca Intesa vanno viste su questo sfondo. Il nucleo essenziale dei più che 500 oggetti che questi volumi inquadrano e catalogano al meglio viene da Ruvo di Puglia, le cui ricchissime necropoli alimentarono nell´Ottocento varie collezioni private. La più celebre è rimasta a Ruvo, nel palazzo appositamente costruito dalla famiglia Jatta, ed è stata acquistata dallo Stato nel 1991, mantenendo l´allestimento ottocentesco. Un´altra collezione ruvese, Lagioia (frutto di eredità della linea femminile degli Jatta), è approdata a Milano per acquisto della regione Lombardia ed è esposta nelle raccolte archeologiche della città di Milano.
La collezione Caputi (ora Banca Intesa) è però la più compatta fra tutte, perché proviene non solo da Ruvo, ma da un´area limitata delle necropoli, in cui prima l´arcidiacono Giuseppe Caputi poi uno dei suoi eredi, Francesco, scavarono fra il 1830 e il 1870 circa: la sua provenienza da un´area sepolcrale delimitata, forse frequentata da pochi gruppi familiari connessi tra loro, ne accresce enormemente l´interesse. Pubblicati 130 anni dopo il rarissimo primo catalogo della collezione, I vasi italo-greci del signor Caputi di Ruvo, descritti, dichiarati e nella miglior parte ancora inediti (Napoli 1877), di cui era autore Giovanni Jatta jr., questi volumi contengono anche le poche ma significative aggiunte dell´ultimo proprietario privato, l´ing. Giovanni Torno: la collezione infatti era già migrata da Ruvo a Roma a Milano, sempre restando in mani private, mentre il programma di esposizioni e iniziative annunciato da Giovanni Bazoli ne fa presagire una conoscenza e circolazione assai vasta: un´anticipazione se ne è vista nella bella mostra "Miti Greci" al Palazzo Reale di Milano (2004).
Per più di mille anni, antichità d´ogni sorta rimasero inerti e inosservate fra le rovine: dai marmi si cavava calce, i bronzi venivano fusi per farne armi, utensili, monete. Solo di rado qualche statua, qualche capitello, qualche sarcofago venne raccolto con cura e riusato in una chiesa, incastrato ed esibito sul suo paramento esterno; e molto più tardi, a partire dal Quattrocento, vennero in uso forme embrionali di collezione, pochi pezzi scelti un po´ a caso ed esposti (secondo le modalità medievali sperimentate nelle chiese) sul muro esterno di case e palazzi.
Quando, più tardi, si venne cercando e definendo uno spazio deputato per le collezioni di antichità, gli oggetti più grandi e prestigiosi (tipicamente, sculture di marmo) furono disposti in giardini, portici, e più tardi gallerie. In nessuno di questi luoghi i vasi di ceramica (il cui collezionismo, come si vede dal bel saggio di Slavazzi nel I volume, è più recente di quello di sculture antiche) potevano trovare collocazione appropriata. Essi appartennero sin dall´inizio a un altro e diverso spazio collezionistico, quello dello «studiolo», dove umanisti e vescovi e principi solevano raccogliersi in lettura e riflessione, circondati da libri, monete, medaglie, bronzetti, qualche gemma e qualche vaso. Ne vediamo un riflesso nel Sant´Agostino del Carpaccio a Venezia, dove pochi vasi antichi si allineano con alcuni bronzetti su una mensola dello studio del Santo (rappresentato come un umanista di rango): proprio come, sappiamo da Ulisse Aldrovandi, erano disposti i vasi antichi della collezione del cardinale Rodolfo Pio da Carpi a metà Cinquecento.
Le collezioni di vasi da Ruvo nel primo Ottocento sono eredi di questa tradizione, ma risentono anche della gran voga per le antichità che percorse come una febbre tutto il Regno di Napoli dopo gli scavi di Ercolano e Pompei principiati da Carlo III nel 1738. Fu dalla messe innumerevole di quelle scoperte che nacque nelle province del Regno un intenso commercio di antichità, subito ricercate per ogni dove; e fu per questo che lo stesso Re, a partire dal 1755, emanò bandi severissimi, che vietavano in particolare «l´estrazione dal Regno», cioè l´esportazione, di qualsiasi antichità. Insomma, proprio come nella Roma pontificia, le norme di tutela nacquero come reazione a un mercato indiscriminato. Le norme borboniche e quelle papali furono, fra Sette e Ottocento, le più avanzate del mondo (e sono all´origine della gloriosa tradizione italiana della tutela), ma farle rispettare alla lettera non era possibile, in mancanza di strutture e di comunicazioni adeguate, e quasi senza musei pubblici dove conservare i reperti. Perciò le collezioni private ebbero spesso una funzione positiva, mantenendo uniti oggetti altrimenti destinati alla dispersione: e la collezione Caputi ora approdata a Banca Intesa è esempio particolarmente chiaro.
Rinascesse oggi, Giuseppe Fiorelli vorrebbe forse riportare a Ruvo l´intera collezione; e senza dubbio il suo argomentare appassionato in favore di una tutela contestuale e territoriale ha più che mai tutto il suo peso. Ma anche le ragioni di Conestabile meritano cittadinanza in un mondo tanto cambiato, in cui la continua circolazione degli oggetti d´archeologia e d´arte ha preso la forma della mostra, con intenti didascalici non poi tanto diversi da quelli che egli aveva in mente. Il principio della priorità del contesto d´origine resta ovviamente inattaccabile: e tuttavia incontrare gli Etruschi a Palermo e gli Apuli a Milano ha assunto oggi un significato particolare, in linea con le preoccupazioni «pedagogiche» di Conestabile. Serve a richiamare una delle maggiori ricchezze d´Italia, le radici multietniche e multiculturali che dai Greci ai Longobardi, dagli Etruschi ai Celti, dai Fenici ai Veneti, fanno la trama della nostra storia. Serve a ricordarci che l´Italia è una, che la «tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione» prescritta dall´art. 9 della Costituzione dev´essere la stessa dalle Alpi a Lampedusa; che, in presenza di sciatti tentativi di svuotare la Costituzione di ogni significato rivendicando alle singole regioni le funzioni di tutela, è imperativo mantenere identico il livello della tutela in ogni angolo del Paese, e non frammentarne le norme in venti sottosistemi regionali. Il canonico Caputi non pensava certo a questo, quando raccoglieva antichi vasi nelle sue proprietà di Ruvo. Ma se, circolando grazie a Banca Intesa, i suoi vasi sapranno trasmettere un forte messaggio di pluralità e di unità della tradizione italiana, dovremo essergliene grati.

l'Unità 16.7.07
Da «Science»: Individuata l’area cerebrale dell’«oblio»
I brutti ricordi cancellabili senza farmaci


I brutti ricordi si possono cancellare senza fare ricorso ai farmaci. Esiste un’area del cervello, la corteccia prefrontale, che è capace di sopprimere i pensieri sgradevoli. Esercitando questa zona, potremmo sgombrare la mente dalle emozioni negative che ci perseguitano. A scoprire l’area e il meccanismo cerebrale alla base di questo processo di inibizione della memoria è stato un gruppo di ricercatori dell’Università di Colorado, a Boulder. La ricerca, pubblicata su Science, ha implicazioni rilevanti per il trattamento di vari disturbi psichiatrici, come la sindrome da stress post traumatico, la sindrome ossessivo-compulsiva, ma anche ansia, depressione e fobie. I ricercatori hanno osservato la soppressione della memoria attraverso una risonanza magnetica funzionale del cervello su alcuni soggetti.

il Riformista 16.7.07
A proposito del pd e di un centrosinistra «di nuovo conio»
Ai Coraggiosi manca una cosa: il coraggio


Ci sono molte cose ragionevoli e sensate, e altre assai meno convincenti, nel cosiddetto Manifesto dei Coraggiosi. Varrà la pena di discuterne a fondo. Ma, prima di entrare nel merito, è il caso di soffermarsi un po’ sul metodo. Che, è il caso di dirlo apertamente, non ci convince proprio. Nemmeno un po’.
Primo firmatario del manifesto - nella sua qualità, leggiamo, di «vicepresidente del Consiglio» - è, come è noto Francesco Rutelli. Niente di male, si dirà. E niente di male diciamo anche noi, ci mancherebbe. Se non fosse che il documento - un documento di pieno appoggio, vogliamo ricordarlo, alla candidatura di Walter Veltroni alla guida del Partito democratico - richiama apertamente la possibilità, di un cambio di maggioranza. Se Rifondazione comunista e la sinistra radicale in genere continueranno a comportarsi male, il Pd, in un futuro imprecisato, ma che dobbiamo ritenere prossimo, «dovrà proporre un’alleanza di centrosinistra di nuovo conio, per non riconsegnare l’Italia alle destre ma soprattutto per non essere imprigionato dal minoritarismo e dal conservatorismo di sinistra né dalla paralisi delle decisioni». Si tratta, ovviamente, di una tesi legittima. Magari anche condivisibile. E però vale la pena di ricordare, proprio noi che mai siamo stati apologeti e guardiani del bipolarismo, che le elezioni politiche sono state (quasi) vinte da una coalizione di cui Rifondazione comunista (non era così nel ’98) fa parte a pienissimo titolo, avendone sottoscritto il programma. Romano Prodi si è presentato agli elettori, e poi ha guidato il governo, come capo di questa coalizione, raffigurata alla stregua di un’inedita sintesi tra moderati, riformisti e (ci perdoni Marco Pannella) radicali. Di questo governo, espressione di questa sintesi, Rutelli non è un compagno di strada, ma uno dei vicepremier. Se, sulla base dell’esperienza, reputa che il governo, e la sintesi, non abbiano funzionato (e sarebbe difficile dargli torto), piuttosto che parlare del «centrosinistra di nuovo conio» a mo’ di avvertimento a Prodi e alla sinistra radicale, dovrebbe dirlo apertamente. Traendone, si capisce, le conseguenze, prima tra tutte l’annuncio delle dimissioni dalla carica. E assumendosi in prima persona la responsabilità politica di una crisi di governo (gliene sarebbero grati in tanti…) per ricercare già oggi, in questo Parlamento, le nuove e diverse alleanze necessarie a far prendere il largo, domani, al nuovo e diverso centrosinistra di cui parla.
Ma Rutelli, si sa, ha preferito prendere un’altra strada. Quella, appunto, di prospettare il suo «centrosinistra di nuovo conio» in un Manifesto, in cui, assieme ad altri Coraggiosi, invece di candidarsi alla guida del Pd, motiva i perché e i percome del suo appoggio a Walter Veltroni, quasi ad ipotecarne i passi successivi. Se e quanto Veltroni, al di là del suo primo commento, la pensi come lui non è dato sapere. Si può solo immaginare che, impegnato com’è a cercare un difficilissimo punto di equilibrio tra la sua candidatura e questo governo in stallo, non abbia apprezzato troppo il momento scelto da Rutelli per piazzare il colpo. Ma, sempre che le cose stiano così, questa è tattica. E a chi si candida prima a guidare il Pd, poi a contendere il governo del Paese al centrodestra, si chiede strategia. Mettiamola in modo un po’ brutale. Nel futuro del suo Partito democratico il candidato Veltroni vede ancora Bertinotti o piuttosto Pier Ferdinando Casini? E se indicasse una scelta netta in una direzione o nell’altra ci sarebbero o no altre candidature? Si capisce che questo non è, per Veltroni, il momento più indicato per sciogliere un enigma dalla cui soluzione derivano, in larga misura, identità e prospettive del partito prossimo venturo e del sistema politico nel suo complesso. Ma è doveroso chiedergli, perché nessuno, neanche lui, ha diritto a deleghe in bianco, e tutti, anche lui, hanno il dovere di misurare il proprio consenso sulla base di indicazioni chiare, che il momento adatto alla bisogna lo trovi al più presto.

domenica 15 luglio 2007

Il Sole 24Ore Domenica 15.7.07
All’attacco con l’anti-libro nero
Polemiche dalla Francia
di Marco Filoni


A prima vista sembrerebbe una battaglia ingaggiata a suon di capitoli. E’ quella che riguarda la psicoanalisi in Francia, della quale l’eco passa le Alpi senza onore né gloria. Non perché il dibattito non meriti attenzione. Al contrario. Ma l’impressione è che si siano persi di vista alcuni punti fondamentali, come dimostra anche L’anti-libro nero della psicoanalisi [a cura di J. A. Miller, introduzione di A. Di Ciaccia, Quodlibet, Macerata, pagg. 386, € 22,00], del quale però, va detto, l’edizione italiana presenta un valore maggiore dell’originale. Vedremo perché. Val la pena prima accennare, seppur brevemente, le tappe fondamentali della querelle . Tutto ha inizio nell’autunno del 2003, quando il buon dottor Accoyer, che siede nel parlamento francese, dà fuoco alla miccia ponendo un emendamento per regolamentare la pratica della psicoterapia. A questo si aggiunge una ricerca dell’Istituto nazionale della salute e della ricerca medica, che passa in rassegna le pratiche psicoterapeutiche decretando l’efficacia delle terapie cognitivo-comportamentali a scapito della psicoanalisi. Seguono altri due emendamenti legislativi sulla formazione e l’attività psicoterapeutica. E’ poi il momento del Libro nero della psicoanalisi (da noi presso Fazi), il quale sferra un attacco tanto violento quanto categorico, con il quale viene messa in discussione la psicoanalisi tutta e i suoi rappresentanti da Freud a oggi, con tanto di accuse denigratorie: dall’aver tessuto una tela di menzogne e di propaganda all’aver esercitato plagi e menzogne attraverso il complotto.
Si arriva così a L’anti-libro nero, pubblicato in Francia nell’aprile dello scorso anno. Un’opera collettiva che non manca certo di onestà. Basti leggere la prefazione: «Giocheremo a carte scoperte. Gli psicoanalisti che qui si divertono molto contro le Tcc (terapie cognitivo comportamentali), non sono affatto degli "esperti". Essi confessano la loro sorpresa di fronte alla nullità di queste teorie e alla nocività delle pratiche. Per questo, anziché piangerne, si divertono». E ancora, con maggior chiarezza: «L'anti-libro contro un'accozzaglia di rimostranze tanto rumorose quanto inoperanti. Attacca molto precisamente quello che l'operazione Libro nero raccomanda: le Tcc».
Insomma una serie di saggi, presentati come “stoccate” e “interpunzioni”, che giocano al massacro contro la pratica opposta. Il risultato è piacevole, a volte divertente. Tanto meglio per la lettura, tanto peggio per la discussione. Perché in realtà si discute poco del Libro nero. Non si tratta di una “replica”, come dovrebbe essere sin dall’eloquente titolo; la quasi totalità dei contributi sono relazioni presentate al “Forum Anti-Tcc”, promosso dalla scuola freudiana ben cinque mesi prima della pubblicazione del Libro nero, che è infatti citato in soli due saggi e nella prefazione. E poi alcune argomentazioni sembrano onestamente limitate: non basta dire che bisogna leggere e far leggere Lacan per dimostrare che è un maestro insuperato circa l’insegnamento clinico. Indubbiamente il Libro nero non è condivisibile per molti versi. Si può e si deve porre la legittimità degli attacchi che contiene, così come del linguaggio accusatorio e della terminologia da caccia alle streghe. Però alcune questioni cruciali circa la crisi della psicoanalisi – reale, e non presunta – emergono dal Libro nero e vanno trattate. Altrimenti l’impressione è quella di un’operazione editoriale furba sulla scia del clamore e della bagarre. (testo inviato da Roberto Altamura)

Repubblica 15.7.07
Un governo in affanno che deve durare
di Eugenio Scalfari


LA cosiddetta fase due del governo Prodi è cominciata da un paio di mesi. Quella dei provvedimenti per la crescita e l'aumento del potere d'acquisto dei ceti deboli: il cuneo fiscale ormai operativo, l'aumento delle pensioni sotto al livello di 650 euro, il sostegno ai giovani, l'avvio degli ammortizzatori sociali, la revisione concordata degli studi di settore, infine la trattativa sull'età pensionabile ancora in bilico, alla quale saranno destinati 4 miliardi mentre il Tesoro cerca di reperire un altro miliardo necessario a spalmare il costo dello "scalone" su un arco di tre anni. Aggiungerei un primo lotto di sostegno alle famiglie, la firma del contratto del pubblico impiego, l'assunzione di 60mila precari nelle scuole.

Forse dimentico qualche altra cosa. Ma il guaio per il centrosinistra è che questa linea espansiva (comprensiva anche del pacchetto Bersani sulle liberalizzazioni) non ha prodotto, stando ai sondaggi, alcun effetto sul consenso degli elettori. Il governo resta ancora su livelli minimi, ma anche l'intera coalizione di centrosinistra registra molti punti di svantaggio rispetto alla coalizione opposta.

La grande maggioranza degli osservatori politici è arrivata alla conclusione che governo e coalizione di centrosinistra non hanno alcuna probabilità di risalire la china della fiducia perduta. I vantaggi d'una crescita economica ancora sostenuta ed un buon andamento delle entrate fiscali non migliorano il rapporto tra gli elettori e il governo. La parola "agonia" ed altre analoghe come "sfarinamento, implosione, caduta libera" sono sulla bocca di tutti. Calderoli parla di "putrefazione". Berlusconi reclama ogni giorno nuove elezioni e scatena i suoi nell'ordalia pressoché quotidiana delle votazioni in Senato.
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Insomma la crisi sotto traccia scuote di continuo la tenuta di Prodi, anche se l'esplosione o implosione che dir si voglia viene regolarmente rinviata. Dopo l'ennesimo tentativo di spallata avvenuto venerdì scorso al Senato sull'ordinamento giudiziario, fallito per un voto, il nuovo appuntamento è fissato per settembre. La crisi non è affatto scongiurata ma rimane per ora sotto traccia. Il malato, nonostante le prognosi sfavorevoli dei medici, continua a dare robusti segni di vitalità.

Siamo dunque alle prese con un moribondo che si ostina a vivere. È positiva questa resistenza? Oppure è d'intralcio ad una ripresa del centrosinistra? E per il paese è utile o dannoso che il moribondo continui testardamente a vivere?

Per dare un giudizio oggettivo e rispondere a queste domande bisogna porsi il problema di ciò che verrebbe dopo l'apertura d'una crisi. A questo punto bisogna necessariamente tirare in ballo il presidente della Repubblica perché le sue decisioni sarebbero, in caso di crisi, le sole veramente determinanti.

Il Presidente applica la Costituzione. Per conseguenza non accetterebbe una crisi extra-parlamentare. Quali che fossero le decisioni di Prodi (salvo il caso di sue irrevocabili dimissioni) rinvierebbe il governo alle Camere per verificare se c'è ancora una maggioranza o se non c'è più.

Dubito molto che le Camere voterebbero sfiducia a Prodi. Ma ammettiamo che la sfiducia sia invece votata. Si può star certi che Napolitano a quel punto nominerebbe un governo istituzionale per alcuni adempimenti necessari: la legge finanziaria e una nuova legge elettorale. Poi elezioni.

Anche un governo istituzionale dovrebbe avere una maggioranza ma quasi sicuramente l'avrebbe. I presumibili candidati sono due: il presidente del Senato, Marini, oppure Giuliano Amato. La data del voto? La più prossima, oggettivamente, si può collocare al maggio-giugno 2008. Inutile dire che un anno con un governo istituzionale non è l'ideale per un paese che ha bisogno come non mai di decisioni rapide ed efficaci su molti versanti.

Proprio mentre il governo Prodi sembra avere ingranato la marcia, una crisi e un governo istituzionale ci riporterebbero alla paralisi indipendentemente dalle capacità dei suoi componenti. Per conseguenza dico che il decesso dell'attuale Ministero non è una buona cosa né per il centrosinistra né, soprattutto, per il paese.

Mettiamo ora a fuoco la situazione del centrosinistra e cominciamo dai riformisti del Partito democratico e da Walter Veltroni, intorno al quale si addensano ora manovre di ogni genere e tipo nei corridoi della politica e nei circuiti mediatici. Molti - direi quasi tutti - sembrano aver dimenticato come e perché è nata l'offerta di candidatura a Veltroni.

È nata perché senza la prospettiva di quella candidatura la coalizione sarebbe già morta e di conseguenza anche il governo. Veltroni ha fatto di tutto per rinviarla ma poi ha dovuto cedere per necessità. Aveva tutto da perdere accettando. Quale che sia l'opinione dei professionisti in dietrologia, l'accettazione di Veltroni è stata un atto di generosità.
Piero Fassino l'ha capito meglio di tutti e da quel momento è stato il più coerente nell'appoggiarlo rinunciando anche alle sue legittime ambizioni. Anche quello di Fassino è stato un atto di generosità. Mi pare giusto dirlo in una situazione in cui la generosità non è un sentimento molto diffuso.

Se si guarda alle cause che determinarono la candidatura del sindaco di Roma per iniziativa di Massimo D'Alema, si vedrà che la questione delle primarie, delle candidature alternative e di quelle convergenti, è stata fin dall'inizio malposta.
Si parla - per quanto riguarda le candidature alternative - delle primarie americane. Ma le primarie americane non hanno niente a che vedere con la situazione del nascituro Partito democratico.
Le primarie americane servono a selezionare il leader che dovrà poi affrontare il leader del partito avversario, anche lui scelto attraverso lo stesso metodo a meno che non si tratti del presidente in carica che compete per il secondo mandato.

La nostra situazione è completamente diversa. Qui si è fatto ricorso, per ragioni di necessità, ad un leader già esistente e già indicato da un vasto coro di elettori potenziali. Qualche cosa cioè di molto simile alle primarie che insediarono Prodi alla guida dell'Unione di centrosinistra. Anche allora infatti non ci furono vere primarie ma una sorta di plebiscito con la sola candidatura di bandiera di Bertinotti.

Perciò tirare in ballo candidature alternative nel caso del Partito democratico è un madornale abbaglio. Spiace che persino Prodi sembri di tanto in tanto caderci. Non parliamo di Parisi. Dispiace che ci cada una persona seria come Rosy Bindi. Bersani, dopo averci seriamente pensato, ha infine compreso. Letta no.

Si tratta di persone che fanno politica da molto tempo e sanno quale sia la sostanza del problema che non è quella (non dovrebbe essere) di precostituire pacchetti di voti di corrente all'interno del futuro partito, ma di dare forza al candidato prescelto. Soprattutto di aprire il Partito democratico ai giovani, ai simpatizzanti, agli elettori, affinché ritrovino il gusto della politica "perbene", della passione del fare, d'una visione condivisa del bene comune.

Le correnti d'opinione ci saranno, nella Costituente e poi nel Partito costituito; è inevitabile ed è bene che ci siano opinioni diverse. Ma non nel momento in cui si deve creare il nuovo soggetto politico. Partendo da una situazione di grave mancanza di fiducia della società civile nei confronti della politica e della sinistra. Diffusa in tutto il Paese. Specialmente nel Nord.

Veltroni è stato evocato - sì, è questo il termine appropriato per descrivere quella candidatura - anche se non soprattutto per una sorta di ecumenismo che circonda la sua figura di sindaco. Opporvi personalità che rivendicano la rappresentanza di specifici settori dei Ds e della Margherita è un nonsenso. I voti che potrebbero raccogliere sarebbero o troppo pochi o troppi. In tutt'e due i casi un errore. Questo almeno, per quel che vale, è il mio parere.

Ci sono tuttavia anche dichiarazioni e "manifesti" convergenti su Veltroni che rivendicano il "coraggio" di posizioni e l'esplicito desiderio di caratterizzare il leader e profilarlo a propria somiglianza. Dichiarazioni e "manifesti" ovviamente legittimi ma, a mio avviso, assai poco appropriati.

Lo sarebbero se il candidato prescelto si fosse presentato in pubblico esibendo soltanto se stesso senza dire "cose", senza fissare paletti, ignorando temi, domande, bisogni, speranze. Ma non è stato questo il caso. Nel discorso del Lingotto, poi in quello di Verona e presumibilmente in tutti gli altri appuntamenti che seguiranno, Veltroni ha reso esplicite le sue posizioni e l'orientamento che ritiene di poter dare al nascituro partito. Ha parlato di precariato, di previdenza, di sicurezza, di infrastrutture, di giovani, di Mezzogiorno e di Nord, di pressione fiscale da allentare, di evasione fiscale da perseguire, di lavoro autonomo e di lavoro dipendente, di Europa e di America.

Queste sue posizioni sono state esplicitamente richiamate e fatte proprie dalle dichiarazioni e dai "manifesti" principalmente da quello di Rutelli diffuso tre giorni fa e supportato da molte firme qualificate.
Perché dunque dico che a me pare un documento non appropriato? Per un punto, una frase, poche parole che peraltro sono le sole ad avere interessato i circuiti mediatici e quelli politici: "Alleanze di nuovo conio che il nuovo partito potrà stipulare". Chi ha orecchio per intendere ha inteso. Alleanze di nuovo conio significa, puramente e semplicemente, l'Udc di Casini.

E poiché Casini ha sempre detto che può essere disponibile a concludere accordi col Partito democratico soltanto a due condizioni: rottura con la sinistra radicale e liquidazione del governo attuale, ecco che - magari al di là delle intenzioni dei promotori di quel "manifesto" - , il senso politico di esso è di far intravedere che, al bisogno, il nuovo partito sarebbe disponibile ad adempiere a quelle due condizioni.
È appropriato un siffatto documento e dà forza a Veltroni spingendolo verso un'ala del riformismo? Indebolendo nel frattempo Prodi?

Direi di no. Le reazioni della sinistra radicale infatti non sono mancate. Rifondazione comunista ha denunciato una manovra per rompere l'Unione di centrosinistra. Ma - ecco l'ultima questione da discutere - la sinistra radicale ha le carte in regola per accusare Rutelli di rottura del patto di alleanza dell'Unione?

La sinistra radicale ha fatto di tutto in questo primo anno del governo di centrosinistra per mettere l'alleanza in difficoltà. Ha rallentato e indebolito ogni provvedimento del governo di cui è parte tutte le volte che esso confliggeva con la visione politica di una sinistra radicale, antagonista, movimentista. Dalla Tav alla base Usa di Vicenza, dall'Afghanistan alle pensioni, dalla politica di Padoa-Schioppa ai moniti delle agenzie finanziarie internazionali. Per di più ha sparato a palle incatenate contro il nascituro Partito democratico.
Ha fatto il suo mestiere, la sinistra radicale? Forse sì.

Ma certo non ha fatto il mestiere d'un partito che partecipa in condizioni minoritarie ad un governo di coalizione. Ha ottenuto molto più di quanto abbia dato. Ha mantenuto un tasso di litigiosità che ha causato un disincanto profondo tra gli elettori del centrosinistra e una vera e propria rabbia tra i ceti produttivi del Nord e del Nordest, senza neppure ottenere maggiori voti per Rifondazione e per gli altri cespugli della sinistra radicale.

Se Rifondazione voleva questo risultato avrebbe dovuto restar fuori dal governo. Avendo deciso di entrarvi doveva accettare la regola che fa del governo una istituzione e non un luogo di occupazione partitocratica. La reazione di Rutelli, lo ripeto, non è appropriata ma la sinistra radicale, per quanto la riguarda, non ha titolo per protestare poiché in gran parte quella reazione è lei che l'ha provocata.

Concludo in questo modo:
1. Prodi deve continuare nella sua fatica, come del resto sta facendo, assicurando al Paese un servizio indispensabile in mancanza di alternative, facendo in modo di operare con efficienza e continuità, mediando fin dove può, decidendo come deve fare quando la mediazione sia impossibile o snaturante.

2. Veltroni ha tutto l'interesse a non creare imbarazzi al governo e a procedere nella costruzione del nascituro partito puntando soprattutto sui bisogni e le speranze dei giovani, degli elettori, dei simpatizzanti.

3. La sinistra radicale si renda conto che l'elastico su cui si regge una coalizione ampia e differenziata non consente ulteriori tensioni senza rompersi. Se vuole tirarlo ancora sarà lei ad essere responsabile per la seconda volta in otto anni di aver riportato la destra berlusconiana al governo di questo Paese.

4. Il quale Paese non dovrebbe dimenticare che la predetta destra berlusconiana ha governato per cinque anni con maggioranze parlamentari schiaccianti senza fare una sola riforma degna del nome, senza aver creato infrastrutture, senza aver adempiuto ad una sola delle promesse elettorali che aveva fatto.

Liberazione 15.7.07
Dini, Rutelli, Veltroni e gli altri che minano il governo...
di Giovanni Russo Spena


Venerdì al Senato il governo ha rischiato di cadere non sulle pensioni, sull'Afghanistan o su qualche altra questione determinante, ma su emendamenti alla riforma dell'ordinamento giudiziario di cui gli stessi proponenti riconoscevano la secondaria importanza. Non c'è immagine più eloquente della precarietà estrema raggiunta dai rapporti all'interno della maggioranza.
A minacciare la crisi non erano i feroci massimalisti di sinistra denunciati quotidianamente dalla stampa. Al contrario, il Prc e l'intera sinistra d'alternativa hanno mantenuto salda la barra, ispirandosi ai soli criteri che in situazioni simili dovrebbero essere validi: attenersi al merito e mostrare il giusto tasso di elasticità e ragionevolezza, nella ricerca pacata di un risultato finale complessivamente soddisfacente.
A minacciare sfracelli erano invece, e non certo per la prima volta, alcuni di quei "moderati" che sin dall'inizio della legislatura non perdono occasione per cercare di sfasciare tutto e poi si nascondono, con la complicità un po' bieca dei commentatori, dietro l'alibi della "sinistra irragionevole, priva di senso di responsabilità". Il capovolgimento della realtà non potrebbe essere più totale.
Sin qui nulla di nuovo. Da mesi denunciamo gli effetti devastanti che le beghe interne al Partito democratico, in termini sia di strategie politiche che di lotte di potere, esercitano sulla tenuta del governo e sulla solidità della coalizione. Ma nelle ultime settimane la situazione appare drasticamente peggiorata. L'obiettivo non è più il modificare in senso moderato gli equilibri interni al centrosinistra. E', senza più mezze misure, far saltare definitivamente quegli equilibri.
Lamberto Dini denuncia il programma dell'Unione e minaccia il governo di morte ove osasse rispettarlo. Francesco Rutelli getta tra i piedi dell'esecutivo un programma che suona come certificato di morte per la coalizione. Walter Veltroni sfrutta l'onda plebiscitaria per disegnare una riforma istituzionale che non dispiacerebbe a Berlusconi ed esprime apprezzamento per il documento dinamitardo di Rutelli. Ogni volta che l'accordo sulle pensioni si avvicina, questo o quel ministro moderato si mette di mezzo riportando tutto in alto mare. Ogni volta che al Senato la maggioranza corre qualche rischio spuntano mazzetti di senatori, solitamente dell'Ulivo, pronti a dare una spintarella verso il precipizio.
La manovra non è stata portata a termine perché mancano ancora alcuni elementi necessari per garantire che non si traduca, per i moderati dell'Unione, in un suicidio collettivo. Ma di questo passo, senza un colpo di reni del governo e del presidente del consiglio, inevitabilmente il colpo di mano riuscirà, e più prima che poi.
Ai troppi che, con freddo cinismo, agitano lo spauracchio del '98 bisognerebbe replicare che forse si profila davvero, di nuovo, l'alternativa tra svolta e rottura, ma sul fronte destro della coalizione, non su quello di sinistra. Senza un colpo d'ala da parte del governo, sarà la destra dell'Unione e del Pd a provocare la rottura. I preparativi sono in corso, alla luce del sole.

La svolta, però, è possibile. Sarebbe anzi a portata di mano. Basterebbe partire dal rispetto del programma dell'Unione, non solo nella sua lettera ma anche e soprattutto nella sua ispirazione di fondo, muovendo cioè in una direzione che renda la vita del popolo italiano più facile e meno dura. Questo è lo spirito del programma dell'Unione. Questo i cittadini capirebbero al volo e apprezzerebbero. Questo, in ultima analisi, il Prc chiede nella vertenza sull'età pensionabile. L'ideologia e il conservatorismo di cui veniamo accusati esistono solo nelle argomentazioni capziose di chi parla di riformismo per non riformare nulla.
Bisognerebbe poi prendere sul serio le parole di Veltroni nel solo passaggio pienamente condivisibile del suo discorso al Lingotto, non a caso il più apprezzato dagli ascoltatori: quello che s'impegnava a fare della lotta al precariato la prima linea del suo programma. Non certo inventando assurde contrapposizioni tra giovani e vecchi o tra operai e precari, ma mettendo mano da subito a leggi concrete: riforma radicale del contratto a termine, salario sociale per i giovani in cerca di prima occupazione o disoccupati, individuazione di piene garanzie anche per il lavoro a tempo determinato.
E' questa la frontiera del welfare moderno. E' la ragion d'essere dell'Unione e l'anima del suo programma, perfettamente omogenea alla richiesta di abolire l'iniquo scalone.
E' anche la sola politica che permetterà al governo, se avrà il coraggio di imboccarla con decisione, di evitare le trappole mortali che gli si stanno tendendo intorno.

Corriere della Sera 15.7.07
Pensioni, il Prc all'attacco «C'è un piano neocentrista»
Il segretario Giordano: se fossi Prodi, sarei preoccupato Accuse di Ferrero. Dini: contro di voi l'80 % degli italiani
di Fabrizio Roncone



ROMA — Franco Giordano, al bar del centro congressi di via dei Frentani, a San Lorenzo, nella rossa San Lorenzo, dove Rifondazione è riunita per il Comitato politico nazionale, ordina un caffè e dice che Paolo Ferrero aveva ragione, prima, quando dal palco, nel suo intervento, è andato giù pesante con i cosiddetti neocentristi, che ha accusato d'essere contro il governo, contro l'Unione.
«Diciamo che per un anno siamo andati avanti accumulando sospetti. Una volta Rutelli si smarcava di là, un'altra volta Dini metteva una parolina di qua. Solo che adesso, con quel manifesto, beh, direi che sono usciti tutti allo scoperto». Quindi, segretario? «Mi spiace per Prodi, ma, fossi in lui, sarei preoccupato. Al centro mi pare siano cominciate ufficialmente le grandi manovre di offensiva alla coalizione e non vorrei che qualcuno stesse pensando già a un altro governo». Lei, segretario, teme addirittura questo? «Io mi chiedo perché a cercare di far rispettare il programma dell'Unione siamo sempre e solo noi di Rifondazione. Poi, certo, dicono che siamo quelli che lo minano, il governo. Ma ormai è un trucchetto dialettico che non funziona più. Ora tutti dovrebbero aver chiaro che noi siamo i più leali a Prodi, e per questo, su una vicenda decisiva come quella delle pensioni, stiamo mediando in tutti i modi. E non solo: aggiungo che con Mussi, tanto per regolarci, stiamo persino pensando a una consultazione democratica per capire, dai militanti, quanto gradiscono i nostri rapporti con il governo...».
Giordano, a questo punto, beve il suo caffè ormai freddo, ma dietro, ad ascoltare, c'era il Maurizio Zipponi, ex segretario generale Fiom di Brescia, poi di Milano, ora deputato, l'uomo del partito che sta trattando, personalmente, la grande questione previdenziale. Ha una voce profonda, Zipponi: «La verità, caro segretario, è che quelli son democristiani dentro, nell'animo... ». Uno di quelli, Lamberto Dini, sta intanto dettando alle agenzie la sua risposta alle accuse di Ferrero: «Pensi pure che siano tutti centristi, Fassino, D'Alema, e anche Rutelli e Franceschini... la verità è che l'80% del Paese è contro le idee che portano avanti quei signori di Rifondazione».
Non tutti, in verità. È vero che Zipponi, a metà mattina, quando ha finito di spiegare i termini di un eventuale accordo sulla previdenza, così come piacciono a Giordano e alla maggioranza del partito, è stato salutato da un applauso lungo, scrosciante, molto di pancia, molto sentito dalla platea (e questo consente alla segreteria di ritenere pacificate le note tensioni interne, anche se per molti osservatori quella in atto tra Giordano e Migliore, capogruppo alla Camera e bertinottiano di ferro, è una pace forzata, forse non momentanea, ma di certo non troppo felice).
Però, ecco, è anche vero che il possibile accordo sulla previdenza è fortemente contestato dal fronte della minoranza — il sindacalista della Fiom Giorgio Cremaschi, l'area dell'Ernesto di Fosco Giannini e Sinistra critica di Salvatore Cannavò — che su questo argomento si salda e fa blocco.
Sapete, a volte Cannavò sa essere molto tagliente e molto trotzkista: «Dovevamo essere il partito contro la concertazione. Ma a giudicare dall'affanno con cui alcuni esponenti di Rifondazione trattano con la Cgil e il governo... Perciò no, non si offenda nessuno se noi stiamo cercando di costruire una sinistra anticapitalista...».

Corriere della Sera 15.7.07
Il libro di Paolo Teobaldi
Tutti i segreti di un manicomio
di Ermanno Paccagnini


La storia di Tilde «nel solco» di Tobino e Affinati

Era partito con un'esperienza autobiografica Paolo Teobaldi: narrando nella Scala di Giocca
(1984) l'eroicomica disavventura sarda d'un neoinsegnante pesarese. C'era tornato nel Padre dei nomi col protagonista copywriter (altra sua esperienza). Nel Mio manicomio (e/o, pagg. 190, € 15.50) il legame è più tenue ma non meno intenso nei risultati, dato che nel vecchio manicomio San Benedetto di Pesaro in cui è ambientato, una cittadella sorta ironicamente sul Parchetto delle Delizie dei Della Rovere e di cui fu direttore Lombroso, per anni sua madre ha lavorato come dipendente.
Lungi da me però ogni sovrapposizione con Tilde Manentini, l'infermiera io narrante, in pensione dopo 40 anni di servizio dal 1978 di quella legge Basaglia che la vede umanamente contraria. Tanto più considerando la ferrea regola osservata in casa dalla protagonista sul segreto professionale, peraltro causa di contrasti con la figlia Floriana: dovuti sì alla caparbietà di Tilde nell'imporre le proprie volontà (a differenza del liberale marito Delfo, inserviente in manicomio e poi lavoratore in proprio); ma soprattutto al suo silenzio di fronte alle insistite curiosità della figlia.
Ed è proprio su tale equilibrio di «dire non dicendo» che si snoda il lineare racconto memoriale di Tilde. Un narrare dall'interno: una visita guidata condotta con estrema delicatezza, ma non senza estrosità ed umorismo (il primo maschio nudo e morto da lavare). Con una mai dismessa pietas, si tratti di malati Tranquilli (bella la figura della professoressa) o degli Agitati che ti procurano occhi neri. Con grande affetto per quelle suore che non conoscono turni, tra cui si segnalano per raffigurazione la bella Esterina, l'impareggiabile cuoca Ignazia dai baffoni da gendarme, la misteriosa superiora. Ma pure con scatti umoristici e toni persino duri (la sindacalista sfaticata) e addirittura sprezzanti (i medici che del malato fanno cavie). E, ancora: una storia di amori (il marito Delfo) ma pure di dolori: Floriana (non mi convince il sogno di Tilde su lei di pag. 133); il fidanzato che fugge scoprendo la povertà di lei; il silenzio sul padre accusato di omicidio e morto in carcere.
Toni che inseriscono a ragione Il mio manicomio nel percorso che da Tobino giunge all'Affinati di Bandiera bianca: cui Teobaldi si accosta anche per quel suo narrare anomalo che lo porta a guardare all'oggi nell'ottica dei rifiuti (La discarica); a narrare del legame affettivo tra paziente e badante (La badante); a sorridere su come esorcizzare la morte dei propri cari (Finte. Tredici modi per sopravvivere ai morti). Narrazioni che s'affidano spesso a una memorialità che nasce a ridosso della perdita d'una persona cara e che, come accade con la sviluppata sensibilità di Tilde, nel ripercorrersi (con qualche lieve ripetizione), rivive dalla prospettiva interna la piccola e grande Storia.
Ed è la povertà della Tilde orfana, con madre «stramba», che ne fa dei reietti per i benpensanti; i suoi svariati lavori e l'incidente in segheria che dalla paura le sbianca per sempre i capelli; il fascismo e l'occupazione nazista con conseguente sfollamento dei seicento ricoverati (densa pagina narrativa); il boom economico. Un ripercorrersi con quel «tanto» poco che può raccontare di quel manicomio, che pure ti fa attraversare nelle componenti umane, ambientali e strutturali. E con quella estrosa lingua prescolare di Tilde, con glossario tutto suo, su cui Teobaldi lavora di cesello, e che costituisce lo strumento più proprio ed efficace per un viaggio soprattutto tra tante sensibilità e altrettante insensibilità.

Corriere della Sera 15.7.07
Al 50˚ Spoleto Festival, «Ecce Homo», regista e interprete Walter Malosti
Il suono della follia di Nietzsche
di Franco Cordelli


Salendo le scale che portano al Caio Melisso si sente una musichetta svagata, come in un film di Bernardo Bertolucci. L'impressione è che qualcuno accordi gli strumenti con calma, prendendosi delle pause. Invece, girato l'angolo, si scopre che c'è un'orchestrina, e c'è un pubblico, benché esiguo. Penso che l'atmosfera del festival di Spoleto senza Giancarlo Menotti è questa, distaccata, quasi olimpica. Poi, a proposito di Olimpo, si prende una strada inconsueta — dagli aficionados del festival prima mai esperita: si entra nel Caio Melisso, ma non in platea. Piuttosto si scendono delle strette scale, si va nei sotterranei; e ad aspettarci, in fondo alla saletta, seduto dietro a un tavolo, c'è Valter Malosti. È il regista e l'interprete di Ecce Homo.
Noi siamo in quattordici, siamo invitati ad accomodarci lungo due panche, allo stesso tavolo dell'autore della più mirabolante delle autobiografie. Federico Nietzsche la scrisse nel novembre del 1888. Il 3 gennaio del 1889 ebbe il primo attacco di demenza. Ma, a osservarlo, per chi lo conosca un poco, Malosti pazzo lo sembra già. Tace, ci guarda con un certo, spiritato cipiglio, ha i capelli dritti in testa e, benché disprezzi il vino (lo disprezzava Nietzsche), i suoi pomelli sono rubicondi.
Prima di arrivare a Spoleto, a distanza di tanti anni, ho di nuovo letto Ecce Homo, le cui esclamative frasi, registrate, aleggiano sul nostro capo. A volte la registrazione s'interrompe. A dire ciò che Nietzsche dice è lo stesso Malosti, come un forsennato – un lucido, spietato forsennato. Pochi giorni fa, nelle Dionisiache di Barberio Corsetti, abbiamo visto il dio traversare monti e valli, nel pieno delle sue avventure terrene. Ora siamo di fronte al suo ebbro apostolo. Nelle Dionisiache, il dio prima che diventasse dio. In Ecce Homo, il dio oggetto di culto, d'interpretazione, di identificazione.
La parola chiave è identificazione. Malosti si identifica con Nietzsche. Ma Nietzsche s'identificava con Dioniso, con il dio. Senza identificazione non c'è evento. L'evento è lo scuotimento cui assistiamo; e, prima dello scuotimento fisico, prima del gesto (là dove calmi e distaccati siamo noi, i quattordici), c'è la scrittura, verrebbe da dire la scrittura conclusiva, la scrittura estrema.
Quando lessi Ecce Homo da ragazzo non mi accorsi di questa estremità. Non mi accorsi del tono della voce di Nietzsche, dello scandaloso tono della sua voce. Se il Crocifisso, come lo chiama il filosofo, era scandaloso per la sua carità, per la sua dolcezza e mitezza, il filosofo è scandaloso, o tale appare a noi, non già per l'arroganza, per la superbia (non di questo si tratta, non di psicologia), ma per la sonorità, per la pienezza, per la potenza.
Da ragazzo mi colpiva ciò che Nietzsche affermava. Malosti sintetizza benissimo: l'aria delle cime, il satiro in luogo del santo, il suono alcionio, la gratitudine alla vita che demolisce gli idoli, la volgarità di somigliare ai genitori, l'unica redenzione è l'alimentazione, la castità è contro lo Spirito Santo della vita, Federico è una nuance, Bizet, Wagner...
Ciò che ora mi piace è che questo suono, il suono della sua voce, così ben costruito, Nietzsche se l'è guadagnato. Nietzsche si guadagnò la sua follia. Davanti a noi, stesi sul tavolo, in piedi su di esso, o sotto, sfiorandoci le caviglie, ci sono le figure della sua vita, il Crocifisso, Dioniso, Isotta, Carmen. Esse, le allegorie, danzano.
Sono Michela Lucenti, Massimo D'Amore e Francesco Gabrielli.
Poi, quando ci alziamo, di là, nella stanza vicina, c'è, per chiudere l'identificazione, la gentile madre, la madre che cuce, che riannoda i fili, la signora Margherita De Virgilio Malosti — tra tutte le figure di Spoleto, la più toccante.

ECCE HOMO, di Nietzsche/Malosti Caio Melisso, Festival di Spoleto (Giulio Marcocchi)


Liberazione 15.7.07
Giordano al Cpn di Rifondazione polemizza aspramente con il Pd
Ferrero: vogliono batterci sulle pensioni. E Angeletti (Uil) conferma
Il Prc denuncia: «C'è una azione centrista per destabilizzare»
di Alessandro Antonelli


« Vedo un'offensiva centrista che sembra contro di noi ma è contro il sindacato e i lavoratori che punta a non avere l'accordo o renderlo più difficile, sulle pensioni: le posizioni di Rutelli e Dini sono un attacco verso la coalizione». E' il ministro della Solidarietà, Paolo Ferrero, al comitato politico di Rifondazione comunista a rendere esplicito il pensiero e le sensazioni di questi giorni. «Il problema che abbiamo - ha detto Ferrero - non è un problema di risorse economiche, che ci sono, vedo più un problema politico di offensiva centrista che destabilizza il governo». E sulle presunte ingerenze della politica sulle strategie sindacali, interviene il segretario nazionale del Prc Franco Giordano: «Epifani dice che svolgiamo un ruolo da protagonisti nella trattativa sulle pensioni. In realtà noi siamo titolari non per fare le trattative, ma per fare proposte perchè il mondo della sinistra ha radici nel mondo del lavoro. Di cosa dovremmo parlare noi? Il sindacato - prosegue Giordano - deve contrattare, mentre fare proposte spetta anche a noi, e su questo nel partito c'è larga sintonia». E intanto sul fronte sindacale il leader della Uil Luigi Angeletti promuove la proposta Damiano per gli incentivi: «Noi, ma anche Cgil e Cisl, siamo d'accordo con la proposta Damiano per gli incentivi. In Italia si va in pensione più tardi di quanto la legge consente. Basterebbero gli incentivi per aumentare l'età pensionabile media. Peccato che Damiano non abbia potuto nemmeno spiegare la sua proposta, perchè bocciato dalla sua stessa maggioranza». Prodi spiega la sua strategia: «La copertura finanziaria è il mio punto di partenza».
«Ma che idea della politica è quella per cui un partito della sinistra non può avanzare proposte sul mondo del lavoro?». Al termine della sua relazione di apertura del comitato politico nazionale, Franco Giordano giura che non ha nessuna intenzione di litigare con Epifani. Anzi, ribadisce, l'unico modo per uscire dal pantano è trovare «un accordo col sindacato in sintonia con il programma dell'Unione».
Ma è evidente che il segretario del Prc ha voglia di togliersi qualche sassolino dalla scarpa. E di fare qualche precisazione. Perché trova «infondato» l'attacco del leader della Cgil, che qualche giorno fa aveva chiesto ai partiti - Rifondazione compresa - di fare un passo indietro sulla partita pensioni. Nessun accavallamento: alle organizzazioni confederali va lasciata piena autonomia di manovra nella trattativa, ma, spiega Giordano, non si può chiedere ad un partito di sinistra di essere semplice spettatore quando si parla di lavoro. «Rivendichiamo il diritto di contribuire a definire una proposta unitaria. Senza il nostro intervento dubito che si sarebbe arrivati ad un accordo». Chiarissimo.
Nei suoi cinquanta minuti di relazione al Cpn Giordano parlerà di tutto: dirà che il suo partito terrà dritta la barra del governo sul programma dell'Unione, che su giovani e diritti, lavoro e precarietà, antagonismo e movimenti è aperta la sfida ai riformisti per l'«egemonia» nella coalizione, che sulla "Cosa rossa" (lui insiste: un «soggetto plurale e unitario») bisogna accelerare. Che Rifondazione è il «motore» di questo processo. E che non si scioglierà.
Come facilmente pronosticato, però, è il tema caldo della riforma previdenziale a dominare i lavori del Cpn.
Il gancio è offerto dalla querelle a distanza con Epifani, ma nel mirino del segretario ci sono i maggiorenti dell'Ulivo: un j'accuse pesantissimo nei confronti del blocco "riformista" della maggioranza. Se Rifondazione si è trovata a svolgere un ruolo di supplenza o fare gli straordinari, ragiona Giordano, questo è accaduto perché qualcuno ha lasciato dei «vuoti». O perché qualcuno mira a destabilizzare il patto con gli elettori.
Il segretario non ci gira intorno, dice schiettamente che è in ballo l'identità del governo e che il partito su questa trattativa - che riguarda «sia il terreno del simbolico che quello delle condizioni materiali dei lavoratori» - si gioca relazioni sociali e politiche. Con il proprio blocco sociale, con la propria "massa critica", certo. E con il governo. «Dobbiamo uscire dalla trattativa con la tenuta di entrambi i fronti».
Giordano riassume i contenuti della piattaforma di Rifondazione: lotta a tutte le forme di privilegio,intervento sulle pensioni basse, ammortizzatori sociali per i giovani, incentivi. L'esonero dall'innalzamento a 58 anni dell'età pensionabile di una «platea larga» di lavoratori e per coloro che hanno 40 anni di contributi.
Ma la partita pensioni è solo una declinazione della sfida culturale al neocentrismo del piddì. Giordano rivendica il ruolo di Rifondazione come sentinella del programma dell'Unione contro le tentazioni ormai manifeste da parte dei cosiddetti riformisti di intavolare "alleanze variabili".
E il primo affondo di Giordano è proprio agli ulivisti, a coloro che guidano la resistenza al «processo di rinnovamento della società», sul fronte del risarcimento sociale come su quello dei diritti civili: «La costruzione del partito democratico - spiega Giordano - ha determinato un elemento di costante instabilità per la vita del governo». E' da quel fronte, insomma, che arrivano le vere minacce per la squadra di Prodi. E' quello l'«epicentro» del terremoto che scuote la maggioranza. Lo dimostra la fronda margheritina sul capitolo previdenziale, i «patemi» del voto al Senato sull'ordinamento giudiziario. Lo dimostra ancor di più, riflette il segretario, l'outing di Rutelli con il suo manifesto in cui prospetta un disarcionamento della sinistra, sull'onda di quello "scalfarismo" già denunciato su questo giornale: «un impianto neoliberale - attacca Giordano - che ha come primo obiettivo quello di contrastare, con toni preoccupantemente autoritari, tutte le forme di critica e l'autonomia dei conflitti sociali».
Operazione complementare al tentativo surrettizio di eliminare i soggetti antagonisti a colpi di referendum sulla legge elettorale.
Ecco allora la sfida all'egemonia del piddì: rompere l'accerchiamento, scardinare «la primazia del campo riformista». A partire dal braccio di ferro sulle pensioni e più in generale sulla politica economica, dove la presunta «equidistanza del partito democratico tra impresa e lavoro» rivela in realtà un chiaro sbilanciamento a favore del primo fattore, mentre sul lavoro c'è una costante rincorsa «al prezzo più basso».
Giordano tratteggia allora gli scenari dell'attuale fase della globalizzazione che fanno da sfondo a questa cultura dominante. Spiega come alla flexsecurity si accompagni «l'ipotesi di uno stato sociale minimo che tiene fuori aree significative delle nuove condizioni di precarietà».
Da qui la necessità di rilanciare il progetto di alternativa, di riforma della società. Per il risarcimento sociale, con politiche del reddito a favore dei giovani, oggi chiamati in causa solo come soggetti passivi di un fantomatico scontro generazionale. Per fare dell'ambiente il cardine di uno sviluppo economico basato su «risorse energetiche alternative» e «su produzioni nuove».
E poi la mano tesa ai movimenti e a tutte quelle «comunità solidali» che lungi dal ripiegarsi in logiche neo-identitarie cercano nei territori un risveglio della politica. Cita i comitati No Tav e No dal Molin, ma anche le lotte di Scansano e Melfi.
Tema, quello del dialogo con i movimenti, che interroga necessariamente anche la costruzione dell'identità del nuovo soggetto «plurale e unitario» che Giordano auspica decolli rapidamente. L'unico applauso a scena aperta lo strappa quando garantisce che «non c'è nessuna ipotesi di scioglimento di Rifondazione». Epperò, spiega, serve un'accelerazione nel processo di costruzione della Cosa rossa, di cui il Prc deve continuare ad essere il «motore». Ecco perché il segretario saluta con entusiasmo la manifestazione unitaria della sinistra prevista per settembre, che spera sia preceduta da «assemblee di popolo» nelle grandi città. I temi al centro della mobilitazione: precarietà, giovani, diritti civili.

il manifesto 15.7.07
L'esodo della soggettività alla vigilia del postfordismo
Riproposto da Ombre Corte «Dall'operaio-massa all'operaio sociale» di Toni Negri
di Gigi Roggiero


Sono pochi i libri capaci di descrivere un'epoca, meno ancora quelli che con la loro griglia di interpretazione rovesciano la prospettiva corrente. Uno di questi libri è Dall'operaio massa all'operaio sociale. Intervista sull'operaismo (a cura di Paolo Pozzi e Roberta Tommasini, pp. 155, euro 14) di Toni Negri, apparso nel 1979 per le edizioni Multhipla, riedito in questi giorni da Ombre Corte. Il libro analizza il passaggio e l'esplosione della vecchia composizione di classe, determinata dalle lotte degli anni Sessanta, con la completa socializzazione della produzione e l'emergere di nuove centralità operaie, non più limitate alla struttura di fabbrica. In questa transizione, l'operaismo di cui si ripercorrono nel libroorigine e percorsi, a partire dai Quaderni Rossi e Classe Operaia è morto. Lo sostiene in modo reciso Negri, non diversamente da Tronti, anche se opposte sono le conclusioni rispetto all'autonomia del politico. Lo stesso Negri, infatti, rivendica la continuità del metodo operaista dentro le esperienze di Potere Operaio, cioè la griglia interpretativa del meccanismo «attacco operaio, ristrutturazione capitalistica, riconfigurazione della composizione di classe». Crisi dell'operaismo, dunque, significa fine della centralità politica dell'operaio massa e apertura di una nuova potenza rivoluzionaria. L'operaio sociale è un soggetto di parte e, marxianamente, produttivo di plusvalore, dove il rifiuto del lavoro ha messo in crisi un rapporto salariale che diventa di puro sfruttamento. Qui va ricercata le genealogia del capitalismo cognitivo e del precariato.
La conservazione della «centralità operaia» negli anni '70, da parte del Partito Comunista, non significava semplice difesa dell'operaio massa. Era invece l'affermazione del Pci, in termini repressivi e di controllo, contro i movimenti e l'autonomia operaia. Lo spazio per il riformismo ha iniziato a chiudersi allora, di fronte a un bisogno di comunismo che fosse all'altezza della composizione di classe. Rimaneva il problema dell'organizzazione di ciò che si potrebbe chiamare «esodo», non solo, quindi, della rottura rivoluzionaria. Resta da chiederci se, in questo passaggio, il problema della composizione politica e dell'individuazione della gerarchia dei conflitti non iniziasse a porsi immediatamente dentro le nuove coordinate spazio-temporali della composizione di un lavoro vivo, non riducibile nella sintesi della rappresentanza politica e sindacale. Il che significa interrogare il rapporto tra classe e ciò che Negri definisce moltitudine. Si è tentato spesso in tempi recenti di edulcorare l'esperienza dell'operaismo, liberandola da un eccesso di anticipazione teorica e politica. Ma senza quell'eccesso, del metodo operaista non resterebbe nulla o, peggio, diventerebbe ciò che non è mai stato: un'eresia marxista. Già negli anni '70, la composizione del lavoro vivo, che nel libro Negri chiama operaio sociale, ha cominciato il suo esodo dalla sinistra. Chi legge in quelle esperienze una sconfitta senza appello, per seppellire con esse la lotta di classe e la sua autonomia, forse non ha fatto i conti con la potenza del presente.