martedì 17 luglio 2007

Liberazione 17.7.07
Fare presto perché il movimento operaio rischia di essere cancellato
Una costituente e un programma per il nuovo soggetto della sinistra
di Fausto Bertinotti


Anticipazione di ampi stralci del prossimo editoriale del Presidente della Camera per "Alternative per il Socialismo del XXI Secolo"
Bisogna fare presto perché il movimento operaio rischia di essere cancellato e con esso la possibilità che la politica possa cambiare la società

La sinistra in Europa si trova oggi di fronte alla sfida forse più difficile della sua storia: quella dell'esistenza politica. Non è solo, come è successo tante altre volte, il rischio della sconfitta, dello scompaginamento, di un duro ma temporaneo ridimensionarsi della sua forza: quel che si affaccia è l'orizzonte di un vero e proprio declino. E questa volta l'urgenza della risposta è davvero grande: non ci sono dati né tempi lunghi né solide certezze sugli strumenti con i quali attrezzarsi. E' un po' come quando tocca insieme correre e cercare la strada, ed è anche possibile che non si riesca a trovarla. Ma se finisse così l'esito sarebbe drammatico: l'eredità del movimento operaio del '900 ne sarebbe, semplicemente, cancellata. Dalla politica, cioè, sparirebbero il discorso sull'uguaglianza, la critica "strutturale" del capitalismo e del patriarcato che generano alienazione, la concretezza della condizione sociale e sessuale della persona oltre la "cittadinanza", l'idea di libertà come liberazione, preconizzata da Marx nella "Questione ebraica": insomma, tutto ciò che ha consentito alla politica stessa, nel secolo scorso, di raggiungere il suo punto più alto, quello di porsi l'obiettivo della trasformazione radicale della società (la rivoluzione), ma anche la pratica di una democrazia avanzata, innervata dalla "irruzione delle masse" e dal loro concreto protagonismo. La sconfitta del '900 l'ha duramente colpita, ma non ne ha ucciso le ragioni. Ora è davvero a rischio qui (in Europa) e ora (nel XXI secolo). Se muore questa politica, muore la Politica.
Di questo processo è difficile immaginare l'esito, data anche la natura rapida, se non tumultuosa, dei mutamenti in corso e l'accentuata instabilità dei rapporti internazionali (a tutt'oggi dominati dalla spirale guerre terrorismo, ma anche dallo scontro latente tra le diverse "locomotive dello sviluppo" che, per altro, stanno traslocando da una parte all'altra nel mondo, cambiandone la geografia economica). D'altro canto si va affermando in questa turbolenta e caotica transizione è quella di un nuovo organicismo liberista che attacca in radice la politica - ogni politica che non sia proiezione di un capitalismo totalizzante, sempre più onnivoro e pervasivo, e che non preveda la logica dell'impresa e del mercato come paradigma sovraordinatore non solo dell'economia e delle relazioni sociali, ma del governo stesso della "cosa pubblica".
Questa è la novità vera di questa fase: va prendendo corpo un'ipotesi a-democratica di dominio che dissolve i fondamenti stessi della dialettica politica della modernità, come la discriminante tra destra e sinistra, pone l'impresa come centro dell'"interesse generale", lavora sulla passivizzazione di massa - politica, sociale e culturale - come vera e privilegiata leva della stabilità. La crisi di civiltà diventa il più forte alleato di questo progetto. Il disordine, la violenza diffusa nella vita sociale e nella quotidianità, e quindi la paura e l'insicurezza di massa: ecco le "corpose realtà", che diventano contestualmente anche potenti armi ideologiche, sulle quali si fa leva per espellere dalla politica (e dalle istituzioni) il conflitto sociale e di classe, ridurlo a fatto marginale od obsoleto, depotenziarne il senso e l'efficacia concreta. Le crescenti spinte sicuritarie, nello Stato centrale come nell'amministrazione dei territori, costituiscono alla fine l'altra faccia di questo progressivo esaurimento-sfinimento della democrazia: se l'eccezione tende a diventare regola, se lo "stato di emergenza" si fa condizione permanente, se gli spazi di libertà si riducono, il compito peculiare - forte - della res publica diventa anche e soprattutto, se non esclusivamente, l'azione repressiva, d'ordine.
Se questa è la posta in gioco, il compito prioritario, in Italia e in Europa, non può che essere la lotta contro l'omologazione: ovvero la necessità "assoluta" di tentare di tenere aperta la partita, di preservare lo spazio di una politica di trasformazione, di alimentare la vitalità di una proposta di alternativa. La dimensione, cioè, di quella che abbiamo chiamato sinistra alternativa, nella dialettica delle "due sinistre" intese come due grandi tendenze generali e anche come due diverse risposte alle sconfitte del '900 (abbandono delle ragioni storiche che hanno animato le lotte del movimento operaio oppure resistenza e nuova attualità di quelle ragioni).
Non si trattava e non si tratta, nient'affatto, della ennesima riedizione della dialettica "riformisti-rivoluzionari". I confini tra le diverse sinistre sono giocoforza segnati dalla constatazione della fine del '900 e dalla nascita dei movimenti critici della globalizzazione capitalista. Quanto le due sinistre (l'apertura di nuove sfide) sono reali, più larga è la possibilità per la sinistra di alternativa di uscire dalla minorità e di influire sul corso delle formazioni di centrosinistra. Il rischio è, al contrario, nessuna sinistra: cioè una sinistra senza classe ma con i voti, e tante sinistre divise alla ricerca della classe ma senza voti (e senza capacità di rappresentanza).
Oggi in Italia però si affaccia una nuova possibilità-necessità. L'occasione è il distacco di una componente riformista dall'approdo di dissoluzione all'interno di una formazione liberal-democratica. Una novità che riapre una chance per tutte le forze della sinistra alternativa: la chance dell'unità per realizzare la massa critica necessaria a dare efficacia all'azione. E così raccogliere un bisogno diffuso, sebbene scarsamente definito, nei movimenti, nella società, nell'opinione di sinistra. Il problema, certo, non solo non è nuovo, ma si è presentato di continuo, ed anche in anni molto recenti e sempre in termini differenti. Dopo Genova, è stata sperimentata e avviata la strada di una nuova e "virtuosa" relazione tra partito e movimento: un'esperienza da non disperdere e da non archiviare. Una lezione positiva resta viva, non, tuttavia, una soluzione. Il salto, inedito, che era necessario e forse possibile non è riuscito - e bisognerà pure indagarne attentamente le ragioni. In assenza di questo salto, tendono a regredire sia i movimenti sia la rappresentanza politica. Come ci dice la recente vicenda francese. (...)

L'insidia neo-borghese
Le attese che sono venute maturando nelle classi dirigenti in tutti i paesi europei al fine di realizzare una stabile governabilità (obiettivo assai difficile da conseguire in questo quadro di politiche economiche e sociali) sono quella di precludere alle sinistre di classe e/o critiche ogni possibilità di essere attive nei processi politici. L'insidia è reale. L'obiettivo comune agli attori neo-borghesi è l'espulsione della Politica dalla politica. Il carattere totalizzante del nuovo capitalismo pervade la politica. In Italia il discorso del Presidente di Confindustria all'assemblea annuale ne è la punta dell'iceberg. Inutile chiedersi di quanti voti dispone o se si candiderà, conviene leggere su dove fondi la prestesa confindustriale di cancellare dalla politica le categorie di sinistra e destra. Essa si fonda sul preteso carattere paradigmatico dell'impresa, non più solo quale organizzatrice della produzione e agente economico, ma quale modello dell'intera organizzazione dell'economia e della società. E' la presunta neutralità del suo paradigma che vuole sostituire la politica perché così essa sarebbe condannata all'inutilità (dunque al fine dannosa). L'obiettivo sotteso è mettere l'impresa al governo della società. Contemporaneamente negando possibilità di scelta alla politica tra diverse opzioni di società, tra diversi possibili rapporti sociali che la definiscono, tra diverse composizioni sociali delle classi dirigenti si espelle dalla politica il cuore che l'ha ridefinita nella modernità, dunque la si condanna all'inutilità. Così nella politica che resta tutto diventerebbe centro. Solo sarebbero possibili delle " nuances ", delle sue diverse versioni e tante possibili conformazioni, compresa quella di un meta-centro senza neppure la necessità di un partito di centro vero e proprio. Il peso dei sistemi politici maggioritari già inclina al centro e al centro si corre per vincere una contesa che in tanti paesi europei vede spesso i contendenti entrambi vicini al 50%. Tuttavia questa corsa al centro è in realtà asimmetrica. Essa lascia lo spazio alla nascita di potenti operazioni di destra che, messe le vele al vento dei processi materiali di riorganizzazione capitalista dei mercati e delle imprese, si possono guadagnare ambiziosi seppur cattivi progetti di società (Sarkozy, ma anche Berlusconi). La macina dell'ultima modernizzazione scava fossati e voragini più a fondo nella società. I paesaggi conosciuti si fanno ignoti, i protagonisti di grandi vicende collettive sono stati trasformati in resistenti, culture popolari cresciute nel rapporto con progetti politici di liberazione e con le produzioni culturali alte sono state abbandonate, il noi ha lasciato il posto all'io. Lo sradicamento della sinistra nel nord del paese è l'esito drammatico della storia dell'ultimo quarto di secolo. Le vicende politiche recenti vanno collocate dove esse stanno, cioè nelle cause di medio e lungo periodo, nella spoliticizzazione imposta al conflitto sociale, nella formazione dell'opinione pubblica prodotta da agenti modernissimi dentro una rivoluzione passiva. Il nord del Paese è la frontiera dell'innovazione capitalistica europea. Se sei a rischio qui, come sinistra e come sinistra di alternativa, sei a rischio per il futuro.

I limiti del conflitto sociale e sindacale
Al fondo la contesa sarà decisa, come sappiamo, dai rapporti sociali. Ora il problema che ci si pone, con un'immediatezza acutissima, è l'apertura di uno spazio politico, di più, di uno spazio pubblico, in cui i soggetti portatori di criticità, di esperienze e di istanze extra-mercantili possano crescere, entrare in connessione e costruire una prospettiva di cambiamento. Si potrebbe puntare, come è avvenuto in altre fasi, su una intensificazione del conflitto o sulla sindacalizzazione dell'azione politica? Il fatto è che la lotta sociale, specie quella di lavoro, risulta oggi imprigionata nella lunga rivoluzione passiva che ha investito tanta parte delle sue istituzioni. Più in generale, sono evidenti i limiti di ogni iniziativa definibile come un "più uno", magari legato a fondate e concrete ragioni materiali. Insomma, il quadro delle compatibilità, il vincolo esterno, quand'anche fortemente ideologizzato e inaccettabile, pesa molto, perché la dura operazione politica e culturale operata dalle classi dirigenti conferisce a una realtà parziale e modificabile lo statuto di un quadro dall'apparenza immodificabile. Nessuna politica che si racchiudesse in un pur "buon economicismo" potrebbe farcela. Ovvero, mai così drammatica, politicamente e socialmente pregnante, è stata la questione dell'egemonia.
Dunque, la rinascita di un conflitto capace di produrre il cambiamento e la formazione di un senso comune critico (per quanto contraddittoria possa apparire questa definizione) stanno oramai insieme. Nel vuoto di una battaglia su questa frontiera la coppia amico-nemico sovrasta sia quella del conflitto di classe che quella tra destra e sinistra, spingendo la politica fuori dal centro della contesa di società e rendendo difficilissima, pur nell'autonomia reciproca, la connessione forte tra la pratica dei movimenti e una rappresentanza politica della sinistra

La necessità di un "cambio di passo"
E dunque. Quale cambio di passo propone alla sinistra di alternativa questo quadro? In primo luogo quello della costruzione, proprio in questa fase e per fronteggiare queste sfide, di una massa critica capace di perseguire l'obiettivo. Da essa non si può prescindere, ne sono persuaso, se si vuole davvero lavorare alla rinascita del conflitto di trasformazione e alla contestuale formazione di una cultura critica di massa. Resto altresì convinto che, senza l'esperienza di un Prc ricostruito sulla rifondazione della sua cultura, su dolorosi strappi con la sua storia e sull'apertura ai movimenti e ad altre culture critiche, l'impresa sarebbe impossibile. E lo stesso segno dell'unità che si proponesse sarebbe totalmente diverso, e sostanzialmente muto rispetto al tema della trasformazione. Ma ora, senza una soggettività unitaria e plurale dell'intera sinistra di alternativa, la massa critica necessaria non la si mette insieme. E ci si perde. E' ora che il fiume (i fiumi) entrino nel lago. La ricerca di tendenza dovrà continuare, confrontarsi con altre tendenze, costruire tessere del mosaico condivise e proseguire il cammino anche più coraggiosamente e radicalmente. Ma occorre un fatto nuovo nella politica a sinistra, nella sinistra di alternativa. Si tratta di suscitare quell'entusiasmo «che è poi il metodo pedagogico più antico», come ci ricorda Franco Piperno ne "Lo Spettacolo Cosmico".
E' fuorviante domandarsi adesso come sarà il soggetto politico unitario e plurale della sinistra di alternativa: sarà quel che deciderà il processo di partecipazione democratica che la proposta deve aprire. Non si può lasciare da parte, o rimuovere, la critica alle forme della politica, mentre si progetta il nuovo: il "come" deve essere a disposizione dei protagonisti del processo, quelli già organizzati in partiti e associazioni e quelli non organizzati. Un processo unitario reale, per un verso è fatica e apprendimento, per l'altro verso è conflitto aperto tra tesi diverse e aperta ricerca della mediazione. Soprattutto è la capacità di far emergere i protagonisti della nuova stagione, in una fase segnata da alcune rilevanti novità politiche, a sinistra.
La prima, è il Pd. La nascita del Partito democratico ridefinisce la collocazione strategica della principale formazione riformista del nostro Paese: evidente, nel profilo del leader ma anche nel discorso che Walter Veltroni ha pronunciato a Torino a fine giugno, è la sua prossimità alla cultura politica nord-americana. Più in generale è esplicita nella nuova formazione la sua separazione dalla tradizione politica europea, in particolare dalla storia socialdemocratica. Non è un caso anomalo, l'ultima stranezza della politica italiana. La tendenza liberal-sociale, che è quella prevalente nelle formazioni di centro-sinistra dei diversi paese europei, dopo la fine della "terza via" di scuola anglosassone, con la sconfitta di Schroeder in Germania e l'uscita dalla scena di Blair, ne vede ora nascere una nuova versione nell'Europa latina, sull'asse franco-italiano di Segolène Royal e di Walter Veltroni che segna, sullo stesso asse politico-culturale, sia la nascita del Partito democratico in Italia che il nuovo Partito socialista in Francia.
Il rifiuto di questo esito del processo iniziato alla Bolognina (che non era niente affatto scontato) ha portato un'importante componente dei Democratici di Sinistra, in nome di un discorso socialista, a collocarsi fuori dal Partito democratico, a sinistra: dunque, una parte importante della cultura riformista degli ultimi decenni spezza il monolitismo del percorso e si colloca nettamente a sinistra. E' un fatto nuovo e rilevante. Contemporaneamente lo Sdi, con motivazioni diverse, rifugge dall'ingresso nel Partito democratico e punta ad avviare, con forze affini e provenienti dalla diaspora socialista, il processo costituente di una forza socialista. Un'esperienza a cui guardare con interesse e spirito di confronto, come alla stessa dialettica nel Partito Democratico, ma assai lontana dal terreno su cui si sono organizzate o si sono venute organizzando, in rapporto col movimento di critica della globalizzazione, le forze di alternativa. Ma è proprio su questo terreno che, dunque, va messa a frutto la novità, cogliendo l'occasione per dar vita ad un'operazione politica di riorganizzazione dell'intero campo.
Si dischiude, vale a dire, una possibilità che non può andare perduta. Sullo stesso terreno, in tempi diversi e su un'ipotesi politica differente, vi ha lavorato il progetto di una rifondazione comunista fondata sulla revisione della sua cultura politica e su un rapporto inedito col movimento dei movimenti. Questa ipotesi, nella sua aspirazione più alta, si è infranta sulle dinamiche assunte dal rapporto tra politica e movimenti, su quelli interni al movimento e sul passaggio del Governo. Essa resta viva come ricerca strategica, mentre l'esperienza in Europa e in Italia del Partito della sinistra europea continua a rivelarsi promettente, come dimostra la nascita in Germania della Die Linke , la nuova formazione politica che per la prima volta nasce e vive quale esperienza nazionale e di massa alla sinistra della socialdemocrazia tedesca. In Italia essa ha compiuto un passo avanti significativo con la Sinistra Europea, che ha messo, prima nella sua costruzione e quindi nella sua costituzione, in rapporto organico tra loro, esperienze, storie e culture diverse che ora trovano posto in un'organizzazione politica che travalica in modo concreto e fecondo il Prc, valorizzando la sua, come tutte le altre storie nel lavoro politico comune. Ora, di fronte al fatto nuovo a sinistra, la nascita di Sinistra Democratica, e di fronte alla necessità storica deterninata dal rischio della scomparsa, in Europa, di una sinistra protagonista della politica, questo patrimonio va investito in un nuovo processo unitario capace di investire l'intero campo delle forze di alternativa. Italia, Francia e Germania sono di fronte allo stesso problema. Esso in ogni caso non può certo essere oscurato dalle diverse collocazioni europee: i confini tra Gue, Partito socialista europeo o altre "internazionali" non sono paratie stagne e anzi possono essere forzate di fronte a movimenti reali e sovranazionali. Come è successo nel caso della direttiva Bolkenstein. Non sono quelle, comunque, che possono impedire inediti processi unitari a sinistra.

Identità e contenuti. Per una nuova costituente
In ogni caso, esiste già il perimetro attivo su cui costruire nei paesi europei una soggettività politica unitaria e plurale capace di far vivere la sinistra di alternativa. Esso si basa sulle grandi discriminanti che si sono affermate nella prassi di questi anni e che consentono di rifiutare muri artificiosi sia nei confronti delle aree più radicali, che nei confronti delle aree più moderate dei movimenti. Il no alla guerra e al terrorismo, prima di tutto (...) e il no alle politiche neo-liberiste (...).
Qui si colloca l'arduo passaggio da compiere: dalle grandi coordinate della pace, del rifiuto delle politiche neo-liberiste, della partecipazione democratica ad una politica capace di porsi il tema della transizione - dell'alternativa di società. Ma questa impresa è possibile solo se prende corpo, forma e presenza permanente una sinistra di alternativa come soggetto politico. Solo la sua nascita può cambiare un panorama politico che, allo stato attuale, impedisce il salto e ne mette in discussione il futuro. L'americanizzazione della politica in Europa si è fatta un rischio minaccioso. Ogni rinvio di una nuova iniziativa a sinistra lo può alimentare. Solo l'acuta percezione di una necessità storica e la capacità di cogliere l'opportunità che si presenta consente di reimpostare efficacemente il rapporto tra la politica con la società, il conflitto e i movimenti. Né ci si può rassegnare ad un neo-collateralismo tendenziale delle organizzazioni sociali e delle istituzioni di movimento rispetto all'accettazione o al rifiuto del governo.
In questo passaggio, serve mettere all'opera, fin dall'avvio del processo costituente del nuovo soggetto, un largo e coinvolgente impegno per la definizione di un vero e proprio programma fondamentale. Il suo programma fondamentale, quello a cui possono lavorare fin d'ora tutti i partiti e le formazioni politiche interessate al progetto, le associazioni e le organizzazioni sociali che, pur nella loro autonomia, possono scegliere di costruire un rapporto positivo con il processo, centri sociali, luoghi di organizzazione della società civile, riviste, organizzazioni di cultura, intellettualità che possano essere sollecitate a contribuire a una ricerca che anche attraverso il programma, un programma fondamentale, parli del futuro della sinistra. Un programma capace di lavorare su due obiettivi: la definizione di un nuovo compromesso per un'organizzazione dell'economia e della società compatibili socialemente, ecologicamente, democraticamente e nei diritti delle persone e la rimessa all'ordine del giorno della politica del tema della trasformazione.
Dunque, la proposta che ci sentiamo di avanzare qui e ora è quella di una costituente del soggetto unitario e plurale della sinistra di alternativa. Essa, battendo in breccia ogni tentazione politicista, passa in primo luogo per lo sviluppo di un discorso con e sui movimenti che incontri il popolo delle piazze, i lavoratori e i sindacati dei contratti di lavoro, le comunità di lotta dei territori, i movimenti sui diritti della persona, i soggetti critici, la formazione delle culture nel popolo e le ricerche degli intellettuali e nei saperi. Il governo, se ci si intende, è una variabile dipendente, nel futuro della sinistra di alternativa. Va perseguita quando ne ricorra la necessità per il futuro del paese (specie se così considerata dall'intero popolo della sinistra) e/o quando su di esso si possa investire per un progetto di riforma della società. Il rapporto tra la politica del cambiamento e i movimenti è, sempre che ci si intenda, una variabile indipendente, nel senso che la ricerca di tale rapporto è il sale di ogni politica di trasformazione della società. Ma perché esso viva realmente, fuori da ogni inutile (e al fine dannosa) scomunica e da un'altrettanto inutile (e, al fine, ugualmente dannosa) assolutizzazione acritica di ogni conflitto, c'è bisogno della costruzione di un progetto di società, di riforma, e di trasformazione. E c'è bisogno di un soggetto politico che possa interloquire e dialogare sulla base di una conquistata capacità di rendere efficace la sua azione, cioè di essere credibile non solo perché autentico (non è questo ciò che ci manca) ma anche perché influente, incidente e capace di promuovere processi politici e risultati concreti. Di nuovo un'urgenza. C'è l'urgenza del fare per evitare che la sinistra venga sradicata dal paese e dall'Italia e c'è l'urgenza del fare perché una diversa prospettiva può essere aperta.

Conclusione
Tocca correre e, insieme, cercare la strada. Ci sono compiti che solo in parte si possono scegliere, tanto è forte la costrizione del contesto è forte. Puoi rifiutarlo, ma così ti condanni. Dunque devi sceglierlo se vuoi darti un futuro. E puoi conquistarlo. La ricerca della rifondazione va perseguita lavorando sulla cultura politica, sulla prassi, sulle forme di organizzazione della politica; la revisione è stata avviata, va portata avanti coraggiosamente senza temere l'innovazione ulteriore: essa è ancora necessaria quanto la progettazione e la ricerca sulla trasformazione del capitalismo della globalizzazione; è la ricerca sul socialismo del XXI secolo. E va collocata in campo aperto, messa al confronto con altre culture politiche, altre soggettività - tutte quelle disponibili a costruire insieme il soggetto politico della sinistra di alternativa. Non vale opporvi la difesa di un'identità statica. L'identità che serve sia alla ricerca sia alla costruzione della sinistra alternativa è quella che abbiamo già conosciuta: è l'identità aperta, quella che si forma nella rifondazione della cultura di origine. Era la stessa la nostra identità prima e dopo l'incontro con la nonviolenza? In realtà la stessa costruzione del chi siamo, politicamente, deve rispondere alla ricerca su quale debba essere la politica di una sinistra di alternativa in Europa, il suo programma, e quale debba essere il suo compito nella ripresa del discorso sulla trasformazione. Perciò tocca insieme correre e cercare la strada.

*Questo testo è parte dell'editoriale del secondo numero della rivista "Alternative per il Socialismo del XXI Secolo" che potete trovare in edicola con Left, a partire da venerdì 20 luglio

Liberazione 17.7.07
Approvato il documento del segretario: «I riformisti vogliono passivizzare la politica e la società»
Alle minoranze: «Infondata la vostra tesi». A Prodi: «I soldi per abolire lo scalone ci sono»
Con Giordano il 90 percento del Comitato politico nazionale
di Angela Mauro


In una fase particolarmente delicata, segnata dallo scontro interno al governo sulle pensioni e dalle problematiche legate al percorso unitario a sinistra, il comitato politico nazionale di Rifondazione Comunista si compatta intorno alla proposta della maggioranza guidata dal segretario Franco Giordano. Domenica il "parlamentino" del partito, riunito al centro congressi Frentani, approva la linea della segreteria con 146 voti (il 90 per cento dell'assemblea). Respinti i documenti alternativi presentati dalla minoranza di Sinistra Critica guidata da Cannavò (12 sì) e dalla Falce e Martello di Bellotti (4 voti favorevoli). Con la maggioranza, anche Claudio Grassi, leader della mozione Essere Comunisti che vota a favore del documento della segreteria nazionale, pur esprimendo un dissenso sul passaggio che valuta positivamente la linea emersa dal congresso di Venezia. L'area ex grassiana dell'Ernesto (Masella, Giannini, Pegolo) resta contro la maggioranza e firma con Cannavò e Cremaschi un ordine del giorno sulle pensioni, respinto dall'assemblea.
Il «passaggio è complesso» e non c'è spazio per le operazioni politiche che mirano a sfruttare la questione pensioni per «giocare partite al di fuori degli interessi dei lavoratori». Giordano è netto nella relazione conclusiva. Non usa giri di parole il segretario, né gira intorno alle risposte che intende dare agli avversari politici interni. «Il paradigma di Cannavò è infondato», dice subito riferendosi alla tesi del leader di Sinistra Critica secondo cui oggi in occidente la sinistra può crescere solo all'opposizione. «Così si rischia di fuggire dai passaggi più stringenti della politica», rincara Giordano perché «i rapporti di forza non si risolvono taumaturgicamente stando all'opposizione». Quindi, il segretario ribadisce la linea dell'ultimo congresso: «Il governo è un mezzo, non un fine. E resta per noi lo spazio per una critica alla natura del potere: non esiste una divaricazione tra lo stare al governo e praticare il conflitto sociale».
Dopo aver replicato a Cannavò, Giordano mira ai nemici esterni, le destre naturalmente, che restano in agguato se il governo Prodi dovesse fallire, ma soprattutto i riformisti e centristi della maggioranza che, ormai è chiarissimo, vogliono la sinistra alternativa (Prc in testa) fuori dall'esecutivo. Giordano inizia con Scalfari, il fondatore di Repubblica ultra-impegnato ultimamente in una serie di attacchi a Rifondazione, al presidente della Camera Bertinotti, alla stessa Liberazione. Per il segretario del Prc, Scalfari è il paladino di un «impianto liberale diventato totalitario e coercitivo, che nega le forme dell'autonomia e di espressione del conflitto e del sindacato» e che alla sinistra dice: «Siete minoranza, dovete sottostare alla tolda di comando riformista». Il resto non conta: «Scompare anche l'idea della coalizione e lo stesso mandato elettorale», attacca Giordano, sicuro che ormai nell'Unione lavora a pieno ritmo chi, «condizionato dai poteri forti, cerca altri tipi di compatibilità». Oggi si respira «un clima da uomo forte», continua il segretario guardando anche alle vicende del Partito Democratico, alla candidatura plebiscitaria di Veltroni, agli obiettivi del referendum sulla legge elettorale. C'è il rischio di una «passivizzazione» della società e delle sue domande, di una «americanizzazione e omologazione del sistema politico».
Giordano lo dice non solo a Cannavò. Lo manda a dire anche a Cremaschi, sabato bellicoso contro la maggioranza, domenica assente (e a Giordano la cosa non sfugge: «Mi piacerebbe rispondergli, ma non lo vedo»). L'invito a tutti è a restare «nel merito» della partita previdenziale, a lasciar stare «i tentativi di giocare partite al di fuori degli interessi dei lavoratori», a non usare «questa tribuna come tribuna mediatica». E il merito per Giordano è che «se non interveniamo sullo scalone, ci saranno lavoratori che andranno in pensione tre anni più tardi dal primo gennaio del 2008». Questo è certo, perché la Maroni entra in vigore dall'anno prossimo. Dunque il messaggio a Prodi, che sabato aveva sottolineato la necessità di tener conto dei conti pubblici nella partita sulla previdenza. Il Prc, dice Giordano, «accetta la sfida della congruità finanziaria» perché tanto «per abolire lo scalone, le risorse ci sono», afferma anche Paolo Ferrero, intervenuto nel dibattito domenica mattina. «Il problema - puntualizza il ministro - è evitare le resistenze di tipo politico che impediscono un buon accordo con il sindacato, vogliono marginalizzarlo, marginalizzare noi, soprattutto vogliono far cadere un governo che ha difficoltà perché siamo lontani dalle aspettative». Torniamo a Giordano, che cita i «bilanci in attivo dell'Inps», denuncia come una vergogna il fatto che «il lavoro dipendente finanzi le pensioni dei dirigenti d'azienda» e fa chiarezza sulla proposta del Prc: «Età pensionabile a 58 anni dal 2008, senza ulteriori scalini e con l'esenzione dei turnisti delle catene di montaggio e della scuola pubblica e anche di coloro che hanno già maturato 40 anni di contributi, più gli incentivi per chi vuole rimanere in attività». Il tutto al massimo accompagnato da ‘quote' (somma tra età anagrafica ed età contributiva) ma sempre «per stare al di sotto della soglia Maroni». Un fondamentale: qualsiasi tipo di accordo sarà sottoposto al voto dei lavoratori, come dice anche la Fiom. E Rifondazione consulterà anche il suo popolo sulla partecipazione al governo.
Per il momento, il Prc rivendica il suo ruolo nella trattativa sulla riforma della previdenza, senza temere né le accuse di «subalternità ai confederali», dice Giordano, né quelle di ingerenza nel lavoro dei sindacati («Ma che razza di politica è quella in cui una forza politica di sinistra non può concorrere a formulare una proposta sulle pensioni?») e né chi dice che il Prc non pensa ai giovani. «Abbiamo aperto la legislatura con una manifestazione contro la precarietà a novembre scorso», ricorda Giordano, esprimendo un auspicio e un intendimento. Il primo: «Chi oggi si batte in difesa dello scalone ci aiuti ad abbattere la legge 30». Il secondo: «La battaglia contro la precarietà deve essere il centro della manifestazione unitaria delle sinistre in autunno».
La maggioranza si compatta anche sul tema del percorso unitario a sinistra, incamerando non solo il voto dei "grassiani" («A patto che non si sciolga il partito», puntualizza Grassi), ma anche quello di Alfonso Gianni, distintosi nelle settimane scorse per una posizione più vicina al soggetto unico delle sinistre che all'idea di confederazione di Prc, Sd, Verdi e Pdci. Il sottosegretario spiega così il suo sì: la formula «soggetto politico unitario e plurale delle sinistre», contenuta nel documento di maggioranza, è «un'espressione forte che lascia aperte modalità di carattere organizzativo, ma stabilisce un tragitto ideale». Ci pensa Peppe De Cristofaro, segretario regionale della Campania, a dare una lettura netta di quell'andare ‘oltre Rifondazione' (articolo di qualche settimana fa di Liberazione sull'analisi di Fausto Bertinotti) che, prima del chiarimento di maggioranza avvenuto a Segni, ha acceso il dibattito nel partito. «Dobbiamo evidenziare gli elementi della nostra cultura politica. Io sono contro lo scioglimento di Rifondazione anche perché il Prc ha saputo già andare ‘oltre', oltre il comunismo ortodosso per esempio. Se non fosse stato così, ci avrebbe sciolto la storia». Assodato che non c'è aria di scioglimento «non facciamo di questa paura il freno al soggetto unitario che, dopo aver prodotto il patto di unità d'azione, deve diventare un fatto di massa e di popolo», conclude Giordano. Ferrero esorta al lavoro politico «nella società, dal basso» e invita a farla finita con il «non vogliamo» nel dibattito politico: «Facciamo una confederazione e facciamola marciare da subito, dentro una prospettiva». Il cantiere delle sinistre, avverte il segretario della Federazione romana Massimiliano Smeriglio, «non è una terra promessa dove risolvere i nostri problemi, ma un percorso obbligato. Per starci dentro c'è bisogno di un'identità forte, di un progetto: per questo Rifondazione è indispensabile».

Liberazione 17.7.07
Gli organizzatori dicono di essere vicini al tragurado per la raccolta delle firme
La loro iniziativa è molto costosa
(a proposito di sprechi della politica),
non risolve nessuno dei problemi istituzionali aperti, toglie potere di scelta agli elettori

A che serve questo referendum? A dare più potere al ceto politico
di Piero Sansonetti


Gli organizzatori del referendum per la riforma elettorale dicono di essere ormai molto vicini all'obiettivo delle 500mila firme. Quindi è abbastanza probabile che il referendum si farà, se in parlamento non verrà raggiunto un accordo per cambiare la legge elettorale. Se invece il Parlamento deciderà di cambiare la legge elettorale, allora vorrà dire che saremo l'unico paese al mondo ad avere prodotto, nel breve giro di un decennio, ben sette nuove leggi elettorali. Che impressione può trarne un osservatore esterno? L'impressione che il ceto politico italiano sia ossessionato da un solo problema: i propri assetti, i meccanismi con i quali si seleziona il personale politico e si distribuisce il potere. Se poi a quello stesso osservatore - ad esempio - fornissimo anche una breve rassegna stampa sul dibattito che ha accompagnato la nascita del partito democratico, la sua impressione iniziale si trasformerebbe in granitica certezza.
Chi sono i promotori dei referendum e qual è il loro obiettivo? I promotori sono alcuni professori come Guzzetta e Segni, alcuni uomini politici come Parisi, Fini e forse Veltroni, e alcuni dirigenti di Confindustria (anzi quasi tutti) guidati da Montezemolo. L'obiettivo del referendum è uno solo e semplicissimo: eliminare la complessità del pluralismo politico attraverso una riforma elettorale che imponga a tutti di radunarsi sotto due soli simboli elettorali - uno di centrodestra e uno di centrosinistra - e di accettare le decisioni degli stati maggiori dei partiti che assumeranno il controllo di questi due simboli. Punto e basta. Delle stranezze della legge elettorale in vigore - quelle che tutti hanno notato e chiesto di correggere - nessuna viene modificata.
Spieghiamoci meglio. L'attuale legge elettorale è una classica legge elettorale proporzionale (come nella grande maggioranza dei più importanti paesi europei, esclusi Francia e Gb) con però la stranezza del premio di maggioranza (tra i grandi paesi europei l'Italia è l'unico che ha il premio di maggioranza). Il premio di maggioranza comunque assicura una solida maggioranza alla coalizione che vince le lezioni alla Camera, ma non garantisce nessuna maggioranza sicura al Senato, dove il premio anziché essere nazionale è regionale. In pratica è come se non esistesse, dal momento che - di solito - ciascuna delle coalizioni si aggiudica più o meno la metà delle regioni, e così il premio di maggioranza si distribuisce equamente tra le due coalizioni, autoannullandosi.
In conseguenza di tutto ciò, oggi, la situazione è che la legge elettorale non crea problemi alla Camera e ne crea, molto grandi, al Senato. I promotori del referendum però hanno escogitato un arguto meccanismo che modifica la situazione alla Camera - dove le cose funzionavano - e la lascia immutata al Senato. A voi sembra una cosa ragionevole?
Come modifica le cose alla Camera? Stabilendo che il premio andrà non a una coalizione ma alla sola lista "di maggioranza" nella coalizione. Le conseguenze immediate, quali sarebbero? Vediamone tre. La prima conseguenza - e la più vistosa e consistente - è l'enorme aumento del potere dello stato maggiore dei partiti. Visto che non sono previste preferenze, l'elenco dei nuovi deputati sarà deciso in modo insindacabile da una trattativa tra i leader dei partiti che accettano di raggrupparsi sotto un solo simbolo. Con grandi poteri di veto sulle candidature, specialmente da parte dei leader dei partiti più forti. E dunque ci sarà una griglia di candidati eleggibili molto subalterni ai leader, senza anticonformismi, senza nessuna possibilità di essere rappresentati delle minoranze, e senza nessuna possibilità, per gli elettori, di poter mandare segnali di gradimento o di sgradimento e di determinare lo spostamento a destra o a sinistra di una coalizione. Potere che precedentemente avevano, seppure molto limitato, perché votando - poniamo - per il centrosinistra, potevano dire se preferivano Bertinotti o Rutelli. Ora non più. Il voto, per gli elettori, diventa solo una vaga dichiarazione di schieramento col centrodestra o col centrosinistra, e tanto basta. Toccherà ad altri, poi, determinare le politiche del governo e influire coi propri poteri e condizionamenti sulle scelte. Diciamo che è una sorta di congelamento della democrazia.
La seconda conseguenza è la "costituzionalizzazione" del centrismo. Il centrismo, cioè, non sarebbe più una delle scelte in campo ma la condizione necessaria per governare. Dal momento che le due liste in gara potranno competere solo al centro, riducendo al minimo, quasi a un atto formale la presenza delle loro componenti più radicali. E dunque conterà pochissimo se la soluzione centrista vincerà nella sua versione di centrosinistra o in quella di centrodestra. Se poi all'interno di uno dei due schieramenti si consumerà una rottura, cioè non si troverà l'accordo per fare la lista comune, e si andrà al voto con tre liste, la consultazione elettorale diventerà un atto formale, perché la vittoria sarà preassegnata allo schieramento che ha saputo conservare l'unità.
La terza conseguenza - riassunto delle prime due - sarà la passivizzazione della politica. Ed è esattamente quello che vuole una parte della borghesia italiana, quella che ha sostenuto il referendum, quella montezemolina. Convinta che l'unico obiettivo debba essere la stabilità politica - intesa come conservazione, come barriera alla trasformazione sociale - e che la via giusta per la stabilità sia la passivizzazione, la sterilizzazione della politica.

La Stampa 17.7.07
Tra Ratzinger e il diavolo
di Gian Enrico Rusconi
qui

La Stampa 17.7.07
E la Chiesa divorziò dalla politica italiana
di Andrea Riccardi
qui

Repubblica 17.7.07
Monsignor Betori in Parlamento: conseguenze gravi sul matrimonio dal rischio-poligamia
Libertà religiosa, lo stop della Cei: errore parificare i cattolici agli altri
Per i vescovi c'è una forzatura sulla laicità: "Non è il fondamento della libertà di culto. È quest'ultima che struttura la laicità"
di Marco Politi


ROMA - Pollice verso della Cei nei confronti del progetto di legge sulla libertà religiosa, che invece piace molto alle altre confessioni. I vescovi respingono l´idea che la Chiesa cattolica sia uguale alle altre confessioni. E criticano il fatto che il principio di laicità sia la base della libertà concessa a tutte le fedi.
Portatore del giudizio negativo, durante l´audizione in commissione Affari costituzionali della Camera, è stato il segretario della Cei monsignor Giuseppe Betori. Il concetto di laicità - ha criticato - «è più vicino al modello francese che non alla tradizione italiana». Inoltre il progetto «rischia di omologare la Chiesa cattolica e le altre confessioni religiose» nei rapporti con lo Stato.
Per la Cei suscita «sorpresa e preoccupazione» l´introduzione del principio della laicità come fondamento della legge sulla libertà religiosa. Per i vescovi dovrebbe essere il contrario, e cioè che «il diritto alla libertà religiosa strutturi il principio di laicità». Qui però la gerarchia ecclesiastica sbaglia: la Corte Costituzionale ha già riconosciuto la laicità come principio supremo dell´ordinamento giuridico. Il che è evidente. In base alla laicità lo Stato non può ispirarsi né ad un´ideologia né ad una religione e ogni credo è uguale davanti alla legge.
Proprio questo, invece, disturba la Cei, che dai privilegi concordatari vuole dedurre uno status di rango più elevato per la fede cattolica. Betori è stato polemico: «L´inserimento del principio di laicità nell´ordinamento mediante una legge sulla libertà religiosa e la sua affermazione quale fondamento di una tale libertà appare singolare e forzata». Duro anche il giudizio sulla disciplina para-concordataria dei matrimoni religiosi di altre fedi. Intanto perché c´è il rischio di introdurre istituti in contrasto con principi irrinunciabili della legge italiana. I musulmani, ha ricordato Betori, prevedono «forme di poligamia» e «non si possono riconoscere effetti civili a questi matrimoni». Ma c´è un aspetto più generale, che dà ragione ai vescovi: in molti paesi di altre culture il rito religioso è cosa diversa dal matrimonio come istituto giuridico e non ha senso inventare in Italia un «matrimonio religioso» per fedi che non lo hanno. «Nel mondo musulmano - sottolinea in proposito Souad Sbai, leader dell´associazione donne marocchine - il contratto matrimoniale si fa dal notaio ed è assurdo trasformare gli imam in ministri del culto». In ogni caso il prelato ha ammonito che l´integrazione di nuovi gruppi etnici non può portare al cedimento di fronte a «dottrine o pratiche che suscitano allarme sociale».
L´audizione di Betori, iniziata con parole di apprezzamento, è stata scandita da una raffica di giudizi negativi sugli aspetti «problematici e non condivisibili» del progetto. La Cei teme le norme che riguardano l´accesso delle altre fedi al servizio pubblico radiotelevisivo. Chiede approfondimenti a proposito del «registro delle confessioni» e dei «diritti delle confessioni» iscritte. E non è d´accordo su come il testo disciplina la materia degli edifici di culto né sull´equiparazione automatica delle confessioni e associazioni religiose alle Onlus ai fini della destinazione del 5 per mille e delle donazioni. Meno che mai la Cei accetta che il trattamento delle altre fedi ricalchi il regime giuridico «bilateralmente previsto per la Chiesa cattolica». Insomma, uno stop su tutta la linea.

Repubblica 17.7.07
Se muore l'engagement
Il filosofo francese Alain Badiou: "Sparisce l´intellettuale di sinistra. Meglio così"
di Giampiero Martinotti


La provocazione dello studioso molto critico con gli ex compagni pro Sarkozy
Jacques Le Goff : "Non cadiamo nella trappola tesa dal nuovo presidente"
"Un tempo, quando un uomo di cultura era di destra, aveva dei complessi. Ora non più"

Parigi. «L´intellettuale di sinistra sparirà. Meglio così». Il titolo di Le Monde non va troppo per il sottile, ma rispecchia fedelmente il pensiero di Alain Badiou, filosofo, professore alla Normale ed ex leader maoista: secondo lui, la sinistra tutta intera deve sprofondare per poter rinascere. Una tesi radicale che si accompagna a una critica a tutto campo di Nicolas Sarkozy e della sua politica e soprattutto a una polemica contro gli intellettuali sedotti dal nuovo presidente della Repubblica e dal suo stile.
Uomo che difficilmente potrebbe essere definito intellettuale, Sarkozy riesce così a provocare un dibattito anche nel mondo universitario parigino, in quella schiera di uomini e donne che hanno spesso vissuto in simbiosi con la politica. Anche se l´intellettuale engagé è morto con Sartre ventisette anni fa, anche se filosofi e scienziati sono sempre meno ricercati per sostenere questa o quella iniziativa politica, la capitale francese continua ad appassionarsi a questi temi. Badiou, oltre che appassionato, è sferzante: l´apertura politica di Sarkozy, l´arrivo al governo di personalità di sinistra segna la fine «della forma francese del dopoguerra». Il nuovo capo dello Stato starebbe mettendo fine al vecchio sistema più o meno consensuale, costruito all´origine sul compromesso tra il generale de Gaulle e i comunisti. La nuova destra non ha più complessi, dice Badiou, esalta il capitalismo sfrenato e riabilita in maniera «forzata e aggressiva» l´identità nazionale. Il vero Sarkozy è quello che per quasi quattro anni ha tenuto le redini del ministero dell´Interno, che «ha fatto entrare in maniera aperta il lepenismo (cioè le idee di Jean-Marie Le Pen, ndr.) nello Stato». Da qui si è generata la crisi di sinistra ed estrema sinistra, visceralmente attaccate al sistema consensuale del dopoguerra.
È a partire dall´analisi di questo contesto politico che Badiou sviluppa la sua tesi senza concessioni sul mondo intellettuale: «L´allineamento a Sarkozy simbolizza la possibilità per intellettuali e filosofi di essere ormai dei reazionari classici, "senza esitazione, né mormorii", come dice il regolamento militare. Sono compresi in questo allineamento la frequentazione corrotta di ricchi e potenti, la xenofobia antipopolare e l´adorazione della politica americana. Un tempo, quando un intellettuale era di destra aveva dei complessi». Poi la provocazione: «Stiamo per assistere, cosa cui aspiro, alla morte dell´intellettuale di sinistra, che sprofonderà insieme a tutta la sinistra, prima di rinascere dalle sue ceneri come la fenice». E come potrà avvenire questa rinascita? Badiou risponde che c´è un solo modo: «O radicalismo politico di tipo nuovo o allineamento reazionario. Nessuna via di mezzo».
La provocazione di Badiou è stata accolta con interesse da Jacques Le Goff, grande storico che non ha mai nascosto le sue simpatie a sinistra e ha sostenuto Ségolène Royal, difendendola anche dalle critiche degli intellettuali parigini: «È una tesi interessante, perché è una delle ipotesi possibili sull´evoluzione della sinistra, ma penso si debba evitare di cadere nella trappola di Sarkozy, che vorrebbe spazzar via la sinistra. Io ritengo che l´opposizione destra-sinistra resti fondamentale». Anche per Le Goff Sarkozy ha saputo integrare nel suo discorso il pensiero di Le Pen. La tesi di Badiou può anche essere considerata come una specie di suicidio, «ma è sicuro che la vera posta in gioco è la distinzione fra destra e sinistra, che risale alla Rivoluzione francese. Interrogarsi è dunque legittimo. Ma non avrei la stessa certezza di Badiou: per riprendere un proverbio popolare, direi che il peggio non è sempre sicuro».
Del resto, le tesi di Badiou hanno suscitato qualche perplessità anche nei numerosi blog alimentati dalla sinistra più o meno radicale francese. Molti militanti avrebbero preferito un appello alla resistenza anziché l'auspicio di un naufragio. Ma il dibattito, appena abbozzato, dimostra soprattutto lo smarrimento del mondo intellettuale francese di sinistra davanti al ciclone Sarkozy. Il fatto che certi saggisti, come André Glucksmann, si fossero schierati con il leader del centro-destra non aveva suscitato particolari discussioni. Ma è la politica di Sarkozy a generare disorientamento: vedere leader della gauche accettare ministeri, incarichi, missioni crea un malessere profondo. Due mesi fa, il filosofo Marcel Gauchet aveva analizzato il fenomeno in un senso molto diverso da quello di Badiou: «La contrapposizione destra-sinistra è molto indebolita in termini di forze politiche, ma resta un punto di riferimento nella testa della gente. Quel che è cambiato è che la Francia si è convertita al pluralismo: la guerra civile fredda è finita. Le appartenenze monolitiche a un campo identificato al bene o alla luce sono fuori corso. Si può benissimo essere di sinistra a causa di un orientamento generale che si pensa auspicabile e votare a destra.
Le identità politiche non sono scomparse, ma se ne fa un uso molto più libero. Sarkozy l´ha perfettamente capito. Da qui la sua "apertura"». Il dibattito, ancor più che sugli intellettuali, è su questo tema.

Corriere della Sera 17.7.07
L'Unicef: «Bambini allo stremo, stavano meglio con Saddam»
Manca l'acqua pulita. Impossibile distribuire cibo e medicine. E le scuole sono deserte
di Monica Ricci Sargentini


L'Iraq sta perdendo i suoi bambini. Molti non vanno più a scuola, non hanno cibo e acqua potabile, vivono lontani da casa, in rifugi d'emergenza. Peggio di un anno fa, molto peggio di quando al potere c'era Saddam Hussein. La denuncia viene da una fonte autorevole: il Fondo delle Nazioni Unite per l'Infanzia (Unicef). A lanciare l'allarme è Dan Toole, vicedirettore esecutivo dell'organizzazione, a capo dei programmi d'emergenza. «Quando c'era Saddam — dice al telefono da Ginevra — l'istruzione era a livelli alti e anche il sistema sanitario funzionava molto bene. Ora molti dottori, come anche gli infermieri e gli insegnanti, sono scappati. Una vera fuga di cervelli. Che pesa sul futuro dei bambini».
Da un anno a questa parte si è dissolto anche il programma di aiuto alimentare messo in piedi durante la dittatura, nel 1991, per far fronte alle sanzioni delle Nazioni Unite. Alla gente arrivavano cereali, legumi, latte in polvere. Ma ora il sistema di distribuzione pubblica che lo gestiva non funziona più. «Non c'è possibilità di far arrivare gli alimenti dove servono — spiega Toole al Corriere —. E i due terzi dei bambini non hanno accesso all'acqua pulita. Questa è forse la nostra maggiore preoccupazione. Nella stagione estiva avremo diarrea e disidratazione, con rischi mortali. I primi casi di colera nel sud del Paese sono stati un gigantesco campanello d'allarme. Bisogna agire subito».
La soluzione? Non c'è se non aumenta la sicurezza. «La violenza — dice il vicedirettore dell'Unicef — deve cessare. Non si può risolvere il problema della frequenza scolastica se i genitori hanno paura di far uscire i figli di casa anche per portarli in ospedale. Non possiamo sperare che ci sia una buona alimentazione se le madri tremano ad andare al mercato per comprare il cibo. Quindi la violenza deve cessare. Gli indicatori nutrizionali e sull'accesso alle cure sanitarie stanno cambiando in peggio».
La situazione è precipitata dopo la distruzione della moschea d'oro di Samarra, nel febbraio del 2006. È esplosa la guerra civile, il numero dei rifugiati è raddoppiato e i piccoli passi che erano stati fatti dopo la caduta di Saddam, nel 2003, sono stati spazzati via. Da allora 822mila iracheni hanno lasciato le proprie case. In tutto sono più di quattro milioni i rifugiati, una buona metà bambini. Sia in Iraq che nei campi profughi la scolarizzazione è bassa. «C'è stato un grosso calo nella frequenza scolastica. Le cause sono due: la violenza e la mancanza di insegnanti. Basta andare in giro per l'Iraq per vedere che ci sono aule deserte e altre sovraffollate ».
L'emergenza è al centro e al sud. Mentre al nord la situazione è molto migliore anche se appesantita dal continuo arrivo di sfollati. «Lì c'è attività industriale, — spiega Toole — la distribuzione funziona e anche il sistema sanitario è in buono stato». A Erbil, per esempio, il programma di vaccinazione contro il morbillo viaggia a gonfie vele. E in tutto il Paese sono 3,6 milioni i bambini che sono stati immunizzati. «Ma anche al nord — aggiunge —, come dimostra l'attentato a Kirkuk, tutto è precario, può andare bene un giorno ma non quello dopo. E i bambini sono i più vulnerabili».
Per l'Unicef l'Iraq merita di figurare tra le crisi umanitarie trascurate. Nonostante la grande attenzione della stampa mondiale, «l'accento è posto sulla situazione politica e di sicurezza, non sulle condizioni di vita degli iracheni che convivono con le privazioni». Nel 2006 il Fondo delle Nazioni Unite ha speso 57 milioni di dollari in Iraq per distribuire cibo, acqua e medicinali. C'è riuscito grazie al lavoro di quelli che sono restati, nonostante i rischi. Ora però il loro sforzo non basta più.

l'Unità Firenze 17.7.07
Piazza Tasso, la memoria dell’eccidio
Stasera alle Leopoldine letture e concerto per ricordare i 5 civili uccisi dai fascisti e il partigiano Fanciullacci


Si chiamavano Ivo Poli, Aldo Arditi, Igino Bercigli, Corrado Frittelli, Umberto Peri. Furono uccisi, la sera del 17 luglio 1944 in piazza Tasso a Firenze, dalle bande fasciste in ritirata. Ivo aveva solo 9 anni. In quello stesso pomeriggio nell’ospedale militare di Villa Natalia moriva anche Bruno Fanciullacci, 24 anni, partigiano, medaglia d’oro al valor militare. Si era gettato dal secondo piano di Villa Triste per sfuggire all’ennesimo interrogatorio e all’ennesima tortura dei fascisti. Forse voleva fuggire o forse sapeva che non avrebbe retto e non voleva tradire i suoi compagni partigiani.
Stasera, a sessantatrè anni da quel 17 luglio, l’Anpi Oltrarno ricorda i civili morti di piazza Tasso e Fanciullacci in una serata al chiostro delle Leopoldine proprio in piazza Tasso. Alle 19, nell’ora in cui si consumò la strage, Daniele Lamuraglia leggerà Ivo corre, una poesia dedicata al piccolo Ivo Poli, alle 21 saranno commemorate le vittime con il sindaco di Firenze Leonardo Domenici, Enio Sardelli “Fuoco”, presidente dell’Anpi Oltrarno, e Stefano Marmugi, presidente del Quertiere 1. Alle 21.45 andrà in scena Le parole di Bruno: Daniele Lamuraglia legge brani tratti dal Diario di Bruno Fanciullacci e alle 22.45 Angela Batoni trio in concerto con Ricordo e canto - le fatiche, la guerra, l’amore.
Ricordare i fatti di piazza Tasso e la morte di Bruno Fanciullacci non è solo l’esercizio di un ricordo. La memoria è materia ancora talmente viva che proprio intorno alla figura di Fanciullacci si è recentemente consumato un processo in cui il senatore di Alleanza Nazionale Achille Totaro ed alcuni membri fiorentini di An erano stati accusati di oltraggio alla memoria per aver definito il partigiano «un assassino». Il tribunale di Firenze ha deciso per l’assoluzione degli imputati. La procura ha annunciato che ricorrerà in appello. Ecco perché la manifestazione di stasera ha un sapore particolare. E perché anche la Cgil ha voluto inviare all’Anpi Oltrarno una lettera in cui spiega che « Bruno Fanciulacci, medaglia d'oro la valore militare, è un eroe. Per questo la segreteria della Cgil Toscana aderisce alla iniziativa che oggi ricorda Bruno Fanciullacci. Sono passati tanti anni, siamo in un secolo diverso, ma dobbiamo ricordare il prezzo pagato per la libertà, dobbiamo farlo a garanzia del nostro futuro».

Repubblica 17.7.07
Parla Asor Rosa
Ma la vera crisi è politica
di Francesco Erbani


Roma. «C´è una questione più profonda rispetto a quella dell´intellettuale di sinistra e della sua morte presunta: che cos´è e dov´è la sinistra?». Alberto Asor Rosa, storico e critico della letteratura, nel grande mare della sinistra si muove da decenni. E della sinistra nelle sue diverse declinazioni, da quelle operaiste all´allora Pci, fino all´attuale impegno ambientalista.
Dunque il problema sollevato da Alain Badiou è mal posto?
«In Francia le cose sono un po´ diverse che da noi. Qui esiste la difficoltà di definire anche solo provvisoriamente un orizzonte di sinistra, a causa dell´estrema debolezza del ceto politico. L´incertezza si registra in tutta Europa, nonostante le linee di divisione fra la sinistra e la destra siano molto marcate e ne spuntino sempre di nuove. Ma in Italia questa incertezza è enormemente accentuata e prende la forma di un pantano».
Non sarebbe compito della cultura contribuire all´orizzonte di sinistra di cui lei parla?
«Ne sono convinto e non da oggi. L´elaborazione culturale ha un ruolo insostituibile. Ma sono pochissimi gli intellettuali disposti a introdurre nel dibattito idee e stimoli per una cultura di sinistra. È una ginnastica alla quale si presta una sparuta minoranza».
L´alternativa per gli intellettuali può essere il radicalismo di cui parla Badiou?
«Sì, se "radicale" è l´attributo di un modello che non abbia i suoi cardini in una visione della società tipo vecchia lotta di classe».
Per esempio?
«Le battaglie in difesa dell´ambiente sono il pezzo di una nuova cultura di sinistra».
Quaderni Radicali n. 100, luglio 2007
Non c'è libertà senza identità
MASSIMO FAGIOLI
intervistato da Paolo Izzo


Psichiatra, scrittore, docente universitario, architetto, regista… Per presentare il teorico dell’Analisi collettiva, Massimo Fagioli, ci vorrebbe una lunga introduzione. Di questi tempi dovremmo aggiungere che è diventato un referente politico, se pensiamo che Fausto Bertinotti si è interessato in più occasioni alla sua teoria sulla nascita e natura umana, preziosa per la sinistra soprattutto per il rifiuto dell’idea di un Male originario e del peccato originale. Teoria che lo psichiatra esprime, oltre che nei suoi libri, nelle ormai note pagine intitolate “Trasformazione” del settimanale «Left». Gli abbiamo rivolto alcune domande sugli anni in cui nasceva Quaderni Radicali, anni che Fagioli ha vissuto molto… irrazionalmente.


*****

Professor Fagioli, vuole raccontarci gli anni 70 dal suo punto di vista?

È una ciliegia che tira l’altra, perché prima degli anni 70 ci sono gli scioperi e il cosiddetto “autunno caldo” del ’69; prima ancora c’è il ’68, in particolare il Maggio francese, dove non ci sono ancora le lotte operaie ma si tratta di un movimento studentesco, matrice delle battaglie per i diritti civili. La grande domanda di quegli anni è la Libertà, cioè la prima parola della Rivoluzione francese, già ripresa anche nei moti del 1848. Un’altra ciliegia, però, è che questa ribellione ha dietro un intero decennio e bisogna tenere presente che la rivolta più o meno libertaria, ma anche notevolmente politica, era cominciata nel 1964 a Berkeley, ancor prima della Rivoluzione culturale cinese. Ecco, proporrei una visione ampia, per cui se il ’68 va a finire nel ’77 magari per esaurirsi nel 1980, come molti affermano, con il sequestro Dozier di gennaio, tutta questa storia parte in realtà all’inizio degli anni 60.

Quindi sarebbe tutto un continuum, senza separazioni?

Questa è un’affermazione che ancora non ho il coraggio di fare: molti dicono che il ’77 è tutta altra cosa rispetto al ’68; altri sostengono la tesi per cui il ’77 sarebbe la degenerazione sanguinosa, terroristica del ’68. A me interessa leggere questi passaggi come un fatto storico. E in tal senso do ragione a chi, come Sansonetti e Gagliardi, dice che il ’68 era una grande cosa e che però negli anni 70 viene distrutto quel movimento che aveva il sogno di un’umanità migliore.

Chi lo distrusse?

Dicono il partito comunista da una parte e il terrorismo dall’altra. Ma qui si pone una questione: specialmente il partito comunista nell’Europa occidentale riguarda soltanto l’Italia e volendo essere pignoli riguarda un quarto dell’Italia, perché a sud non è mai esistito. Quindi non si può finire in una questione provinciale, senza accorgersi che a partire dagli anni 60 c’è stato un movimento che ha riguardato tutto il mondo! L’Italia in questo senso è un fanalino di coda. Se poi vogliamo fare ancora un po’ di storia, possiamo risalire fino alla destalinizzazione del 1956. E chiederci: esiste un altro comunismo o il comunismo è Stalin e Mao e Castro? Un altro comunismo non c’è: se butti giù Stalin, come ha fatto Kruscev, butti giù il comunismo. Così le matrici di quanto è successo nell’’89 con la caduta del Muro starebbero nel ’56. Ecco il discorso.

Cosa si è perso per strada nel passaggio dal ’68 agli anni di piombo?

Su questo sono “radicale”: per me la molla di tutto è stata la fatuità. Si diceva “liberiamo il desiderio” e si intendeva che la libertà si ottenesse spaccando le vetrine o uscendo di casa nudi… Ma non era vero: c’è la realtà umana da prendere in considerazione. Sull’iconoclastia, sul voler abolire tutti i divieti, sul “vietato vietare” si può essere perfettamente d’accordo, ma la cosa si esaurisce in niente se prima di parlare di libertà del desiderio non si trova questo desiderio! Che vuoi liberare, un uccello che non c’è? Aprivano la gabbia al desiderio ma dentro il desiderio non c’era. Per cui venne fuori uno “scopiamo, scopiamo” e nessuno sapeva scopare. Allora, ecco la grande fiammata, ma poi bastò che arrivasse De Gaulle a fare “bau” e tutti tornarono a casa con la coda tra le gambe. Perché non c’era identità. Soltanto fatuità, euforia di un momento, come a Woodstock. Dietro c’è una storia di cinquemila anni da cui la donna è stata sempre esclusa e il desiderio è diventato Wünsch, cioè voglia di andare a prendere il sole, di farsi una passeggiata. Invece desiderio è una parola che va collocata nel rapporto uomo donna, in cui si gioca la realizzazione di tutte e due le identità. Va bene la libertà, ma vogliamo fare anche un lavoretto di ricerca su qual è la realtà umana? E qui voglio fare un pensiero pro radicali, per le loro battaglie sul divorzio e l’aborto, che non erano soltanto per la libertà, ma pretendevano che venisse riconosciuta specialmente alle donne una identità: le donne devono avere la possibilità di decidere della loro vita contro chi le ha sempre ritenute esseri inferiori, a livello animale cioè solo per la procreazione! In questo senso va sottolineato anche l'enorme valore dei metodi anticoncezionali, perché un mezzo dei fascisti e dei cattolici per paralizzare la sessualità delle donne è stato sempre il terrore delle malattie veneree e delle gravidanze indesiderate. Onde l’assurdo della proibizione dei contraccettivi da parte del Vaticano, che dice qual è il vero volto del cattolicesimo contro la sessualità delle donne. Per finire a questa lotta contro qualsiasi riconoscimento di coppie libere e autodeterminate.

Facciamo un confronto con l’attualità. Non le sembra che oggi questo fronte cattolico sia più forte che negli anni 70?

Verissimo. Oggi, e lo dice bene Ezio Mauro su la Repubblica del 7 febbraio, c’è un’offensiva cattolica senza precedenti. Pur essendo ormai una minoranza, anzi proprio per questo, i cattolici vogliono l’egemonia culturale facendo breccia sulla tradizione cristiana, con l’aiuto della destra che innesca il pericolo del terrorismo islamico, sostenendo Bush e la guerra di Bush.

E la sinistra?

La sinistra non si sa opporre ad un’aggressione del genere, perché non ha una teoria sulla realtà umana. Così l’egemonia culturale diventa dittatura di legge e il Vaticano impone che in Italia non si deve fare la legge sui pacs o sull’eutanasia o sulla ricerca sulle staminali embrionali… Diventa una dittatura, apparentemente democratica, che gioca sui vari Rutelli e Mastella di turno, i quali si rivelano peggio dei preti. Peggio di quei democristiani che nel 1958 fecero una qualche proposta per la tutela delle coppie di fatto! Si arriva al paradosso di dire che quando la Dc aveva la maggioranza assoluta c’era più libertà, più liberalità, più laicità. Tanto è vero che sono passati il divorzio e l’aborto. Con questi non passano nemmeno i pacs! E il novanta percento degli italiani, che non ha il coraggio di dichiararsi ateo, consente che l’altro dieci percento imponga la propria volontà.

È una vita che lei si scontra su queste tematiche, sin dalla fine degli anni 50. Come si inserisce in questo discorso storico la sua ricerca sulla psiche?

Lì c’entra la svolta del 1784, quando Mesmer volle occuparsi di realtà umana e aprì le porte, seppure con la stupidaggine del magnetismo animale, alla psicoterapia, che prima fu ipnosi e poi passò attraverso la psicanalisi freudiana. E Freud sarebbe il grande scopritore dell’inconscio avendo sostenuto che l’inconscio è inconoscibile! È così che la psicoterapia è diventata un esercizio di memoria cosciente, come potrebbe farlo un commissario di polizia: “mettiti qui e ricordati, trovati l’alibi, che facevi la notte del 2 febbraio?”. Un esercizio di memoria come quelli che faceva Pico della Mirandola. Non c’è mai stata, al contrario, una ricerca sulla realtà senza coscienza. La parola Das Unbewußt, usata ai primi dell’Ottocento da Schelling per definire l’inconscio e che letteralmente significa inconoscibile, ha condizionato tutta la psichiatria. E la cultura che fa, compresa la sinistra? Esalta Freud!

Nel 1978 viene varata la legge 180 sulla chiusura dei manicomi. Anche qui lei è stato piuttosto critico…

Ecco un’altra ciliegia. Ben venga la chiusura dei manicomi, gli stessi radicali volevano fare un referendum, no? Da lì a esaltare Basaglia e la 180 - che per inciso non è fatta da Basaglia, bensì dal socialista Mariotti – ce ne passa. Il problema è come per lo “scopiamo, scopiamo”: buttiamo giù i muri e la malattia mentale sarebbe risolta? Ma siamo scemi? La malattia mentale va affrontata in maniera ben più solida. Difatti abbiamo chiuso i manicomi e in Italia pare tutto un manicomio: penso a Erba, a Cogne, a Novi Ligure e alle altre mostruosità motivate con assoluta stolidità: “L’ho ammazzata perché il suo cane abbaiava”, “ho ucciso il bambino perché piangeva”. Il “vaffanculo” non esiste più, esiste la coltellata. Se questo è il risultato di una neo-psichiatria più o meno foucaultiana e basagliana…

Aggiungiamo i vari “manicomi” privati che ogni tanto vengono scoperti oppure gli interessi delle multinazionali farmaceutiche?

Ah sì! Le cliniche private e le case farmaceutiche fanno un sacco di soldi, ma la malattia mentale resta. E la colpa è di quegli psichiatri a cui non interessa veramente di sapere cosa c’è dentro la psiche, dentro l’inconscio di chi si è ammalato. Si affidano all’elettrochoc, alla neurologia, alle medicine.

La sua storia personale, invece, è molto diversa…

Presi medicina per fare lo psichiatra: frequentavo l’ambiente perché mio padre era medico e vedevo che il malato di mente lo buttavano via. Guarivano un’appendicite acuta e il malato di mente lo rinchiudevano nel manicomio. Quindi ho fatto tutta la strada classica, dalla specializzazione ai manicomi, alla clinica di Binswanger, alla psicanalisi, al training. Per arrivare a questo fenomeno dell’Analisi collettiva nel ’74-’75, dopo aver scritto i miei libri, la mia teoria, avendo rifiutato Freud, Foucault, Basaglia, l’elettrochoc e la camicia di forza. Ormai sono più di trent’anni e pare proprio che la cosa funzioni.

C’è chi come Citto Maselli, per citare uno che non partecipa ai suoi seminari ma sa bene di che si tratta, ritiene che in quella stagione tante persone si sarebbero salvate proprio venendo all’Analisi collettiva…

Questo si inserisce nel nostro discorso tra ’68 e ’77. Pur lavorando già nell’analisi individuale sulla fantasia di sparizione, sull’annullamento, su anaffettività e dissociazione, decisi di scrivere la mia teoria alla fine del ’70, cioè dopo il ’68, perché (e lo dico in Bambino donna trasformazione dell’uomo) vedevo che la gente, dopo la grande euforia, cadeva in crisi depressive e dissociative mostruose. Vennero a dirlo ai seminari: “io sono venuto perché stavo impazzendo”, “io perché avevo capito che i discorsi di Toni Negri portavano alla morte”… Oggi quei discorsi dissociati di Negri ritornano e c’è Scalzone che vuole rifare la rivoluzione: insomma non si può avere una mentalità infantile di questo genere, tra “liberiamo il desiderio” e prendiamo lo schioppetto per fare il corsaro nero! Non esiste che ci sia una cultura che segue queste dichiarazioni senza senso. Per questo scrissi Istinto di morte e conoscenza e fu chiaro che mi ero sempre scontrato con il freudismo. Allora si vide che tra il freudismo e quello che da psichiatra avevo pensato, scoperto e teorizzato io, c’era un’incompatibilità assoluta!

E cominciarono i famosi seminari…

Dopo altri due libri, immediatamente, cominciai a Siena nel 1974, poi al Centro di Igiene mentale di Roma dove mi chiamò Ammaniti e a Villa Massimo dove mi chiamò Lalli. Infine a via Roma Libera, dove siamo dal 1980. La gente corse a frotte, per confrontarsi con questa grande eterodossia dove non c’era l’analisi individuale e non c’era onorario: massima libertà, come nel ’68, però con una struttura, una spina dorsale di teoria e, se vogliamo, di prassi e di mia formazione personale: non mi ero inventato di fare lo psichiatra qualche giorno prima…

Possiamo dire che i suoi seminari hanno preso il buono del ’68 e rifiutato il peggio del ’77?

È un’ottima frase. Però il buono del ’68 era solo la libertà. E la libertà è un po’ come una medicina: presa a giuste dosi fa bene, se sbagli le dosi è veleno. Se ti prendi tutta la libertà, arrivi a dire come Binswanger e Foucault che c’è la libertà di buttarsi dalla finestra o di violentare i bambini. Arrivi alla criminalità e alla violenza. Così come ci arrivi se non sai fare la differenza tra follia, più o meno creativa, e pazzia criminale distruttiva. Quindi, libertà certamente: uno deve prendersi la libertà se è un genio, un artista, uno scienziato, sennò le cose nuove chi le scopre? Però non è accettabile dire che la pazzia sta sempre nell’inconscio, che l’inconscio sarebbe idea innata, anima spirituale, naturalmente perversa. Per me l’inconscio è fantasia, è teoria della nascita, è identità: se è criminalità è perché l’inconscio si è ammalato. Cioè ho portato il concetto di malattia dalla psichiatria come coscienza e comportamento alterato, all’inconscio stesso. Perché ho scoperto la negazione. Il problema non è il desiderio, il problema è la negazione. Elimina questa e il desiderio viene fuori da solo. Elimina la malattia, elimina l’anaffettività e vedrai che il rapporto uomo donna si realizza.

Come ci si riesce?

Con la ricerca, con una lotta che è continua proposizione di cercare l’uomo, l’essere umano. Conosci te stesso, ma per conoscere te stesso devi essere. Bisogna scoprire l’irrazionale e una prassi irrazionale, però intelligente, non stupida o violenta. Bisogna cercare questo io al di là della ragione e poi realizzarlo come identità. Che ognuno trovi la sua identità, non per educazione - e qui ritorna lo scontro con la religione. La mia grande sfida, da kamikaze anche se ancora non sono morto, è fare ricerca sul non cosciente affermando che non è inconoscibile. In una prassi di rapporto interumano, in cui si tolga la corteccia della coscienza e del comportamento e si stabilisca una possibilità di comunicazione a livello inconscio, si può avere questa conoscenza. Fino alla codificazione dell’interpretazione dei sogni, cioè portare al pensiero verbale un linguaggio senza parola e di sole immagini, ovvero quello del sonno.

Roma, 8 febbraio 2007

lunedì 16 luglio 2007

La Stampa 16.7.07
Fausto: la Cosa Rossa deve nascere con il Pd
Fausto Bertinotti ex leader di Rifondazione: «Dobbiamo correre»
Il nuovo partito della sinistra secondo Bertinotti di Riccardo Barenghi
qui

l'Unità 16.7.07
«Le risorse ci sono, l’intesa è possibile»
Approvata la linea Giordano, ma il partito farà una «consultazione di massa» sulla presenza al governo
di Wanda Marra


RIFONDAZIONE lo ribadisce e lo ripete a Prodi: «Noi l’accordo lo vogliamo fare, la copertura c’è». Lo dichiara Ferrero nel suo intervento, lo riprende Giordano nelle sue (applauditissime) conclusioni. Il partito di viale del Policlinico ancora una volta non ci sta a farsi mettere all’angolo. E continua a denunciare: contro il governo, c’è un attacco centrista. Rc è largamente schierata sulla posizione del segretario (alla fine la sua relazione viene approvata dal Comitato politico nazionale con la maggioranza “bulgara” del 90,1%). Ma allo stesso tempo si riserva, dopo una grande consultazione popolare, la possibilità di uscire dal governo. «Proponiamo di dare vita a una consultazione vincolante e di massa sulla nostra presenza al governo», si legge a chiare lettere nel documento approvato dall’assemblea. Forme e modi sono ancora tutti da decidere. La proposta che Rc intende avanzare formalmente è che ad essa - che dovrebbe tenersi entro il prossimo autunno - partercipino gli elettori di tutti i partiti della “Cosa Rossa”. Se dagli altri attori della sinistra-sinistra dovesse arrivare un no, Rc le sue consultazioni se le farà comunque. Affiancando a questa decisione la proposta al governo di mettere le pensioni in Finanziaria, dopo la consultazione popolare dei sindacati, anche questa da tenersi in autunno, il puzzle diventa chiaro: prima di dare un sì o un no definitivo, che potrebbe essere determinante per il governo sulla questione del sistema previdenziale, il partito vuole tenersi le mani libere, riservandosi di chiedere ai suoi elettori.
Ma intanto, Rc rimane ferma nel tentativo di arrivare all’accordo. Si dice pronto ad «accettare la sfida» visto che «i soldi ci sono», Giordano, ricordando che «l’Inps fuori dalle previsioni, ha all’attivo più di 3 miliardi». Sì dunque al ritocco e non all’abbattimento secco dello scalone Maroni, con il meccanismo già noto della proposta del Prc. Un solo scalino a 58 anni con vaste aree di esenzione: per i turnisti, i lavoratori a vincolo, i lavoratori definiti usuranti nel decreto Salvi del ‘99 e quelli con 40 anni di contributi (da notare che scompare la richiesta che ad essere esentati siano tutti gli operai). Ma, «non accetteremo - avverte il segretario di Rc - nessuna proposta che ritardi gli effetti dello scalone». Non mancano le stilettate ai moderati: «Dini dice che l’80% è contro di noi? Peccato che il programma ci dia totalmente ragione», polemizza Giordano. Ancora più “duro” e “puro” il Ministro per la Solidarietà sociale, Paolo Ferrero: «Il presidente del Consiglio vada avanti e non si faccia frenare dalle resistenze politiche che verbalmente sono dirette contro di noi ma in realtà sono contro il sindacato, puntano a marginalizzarlo e alla fine a far saltare il Governo». Lontano dal palco e dai microfoni, raccontano che il Ministro sembra decisamente possibilista sull’accordo: perché, come dice anche nel suo intervento, le coperture finanziarie ci sono per abbattere lo scalone, e quindi se Prodi ha deciso di tirare in ballo quest’aspetto della questione, il suo tentativivo è in realtà quello di smarcarsi dalle pressioni politiche, che vengono ad ora soprattutto dall’ala neocentrista della coalizione. Non manca la strigliata da parte del Ministro al suo partito: «Nella discussione interna alla sinistra c’è un effetto di centralità del governo: certi problemi non possono essere risolti per questa via qui, perché il profilo della coalizione è così e non può cambiare. Rc deve tornare ad agire nella società. Dobbiamo tornare a fare quello che facevamo bene quando eravamo all’opposizione».
È dalle minoranze che arrivano non pochi problemi. A scagliarsi contro la linea della segreteria era stato sabato il sindacalista Fiom, Cremaschi. E se la minoranza di Grassi vota con la maggioranza, a dire sì all’ordine del giorno contro ogni innalzamento dell’età pensionabile, insieme a Sinistra critica, ormai da mesi verso l’uscita dal partito, è anche l’Ernesto. In tutto, sono solo 22 voti, ma tra questi ce n’è almeno uno molto pericoloso: quello di Giannini, che è senatore, e che a Palazzo Madama potrebbe votare contro qualsiasi accordo, insieme ai 2 irriducibili, Turigliatto e Rossi, con i “soliti” rischi per la maggioranza. E il partito teme un suo no già al Dpef, che arriva al passaggio di Palazzo Madama la prossima settimana.

l'Unità 16.7.07
Pensioni, l’ultimatum dei sindacati
Giorni decisivi per il negoziato. Epifani: «Non firmo accordi con fabbriche e uffici chiusi»
In caso di rinvio, sciopero generale dopo l’estate. Prodi prepara la proposta finale
di Rinaldo Gianola


«Una cosa è certa: con le fabbriche chiuse io non firmo niente». Da qualche giorno Guglielmo Epifani ripete queste parole ai suoi più stretti collaboratori commentando la lunga, interminabile, faticosa trattativa sulle pensioni.
Non è un mistero che la Cgil, insieme alle altre confederazioni, ritiene la settimana che inizia oggi quella decisiva per arrivare a un accordo. O si firma entro sabato, oppure di scalone, scalini, quote e altre diavolerie se ne parla a settembre. Senza lavoratori nelle fabbriche e negli uffici, non ci sono intese da sottoscrivere.
Ma un rinvio del negoziato, che in questa congiuntura potrebbe essere interpretato come un fallimento politico e sindacale, non sarebbe indolore, né per le confederazioni, né tantomeno per Romano Prodi.
La ripresa della trattativa dopo l’estate sarebbe accompagnata da uno sciopero generale indetto da Cgil, Cisl e Uil contro il governo sulla riforma delle pensioni. Se non è un ultimatum all’esecutivo quello che gira in queste ore sulle bocche di alcuni leader sindacali, poco ci manca.
Sciopero? Scontro? Non c’è nulla di male: uno sciopero rappresenta un segnale di normale conflitto nella dialettica tra parti sociali e governo e potrebbe essere anche propedeutico a un successivo, positivo incontro. Ma per il centrosinistra, che ha vinto le elezioni definendo «iniquo» lo scalone di Maroni, iniziare la stagione della prossima legge Finanziaria con milioni di lavoratori nelle piazze a chiedere il rispetto delle promesse non sarebbe un bel risultato. Anche se non è da escludere che nel centrosinistra ci possa essere qualche tentazione “modernizzatrice” nel forzare la mano contro i sindacati, per segnalare all’opinione pubblica che il costituendo partito democratico non ha certo paura di rompere con il mondo del lavoro.
Dall’altra parte per i sindacati, e soprattutto per la Cgil, non si può nemmeno lontamente ipotizzare di trattare e chiudere un accordo mentre i lavoratori sono in ferie. E man mano che passano i giorni, e la proposta di Prodi ancora non si vede, a qualcuno particolarmente sospettoso è venuto in mente che nel governo ci sono protagonisti di primo piano che puntano al rinvio a dopo l’estate, mantenendo la spada dello scalone sulla testa dei sindacati. Fantasie? Probabile, però non si sa mai. A pensar male, come diceva quel famoso senatore a vita, si fa peccato ma ogni tanto ci si prende.
Di certo mentre si avvicina la fine di luglio, in casa Cgil è cresciuto l’allarme e con l’allarme ha preso corpo la «sindrome del 31 luglio» di cui nessuno, nel sindacato di Epifani, ha nostalgia. La fine di luglio del 1992, con l’accordo tra il governo Amato e le parti sociali, rappresentò un passaggio drammatico per la Cgil, con la firma di un storico documento che sanciva la definitiva cancellazione di ogni indicizzazione dei salari e bloccava la contrattazione, che portò alle dimissioni (successivamente rientrate, non senza traumi però) dell’allora segretario generale Bruno Trentin. Per questo Epifani, che è davvero moderato e dotato di buon senso, starà al tavolo fino all’ultimo minuto utile, ma non oltre la fine di questa settimana. Perchè proprio non si può. Se c’è l’accordo bene, i sindacati allora chiameranno alla consultazione tutti i lavoratori e poi le nuove pensioni andranno in Finanziaria. Se non si fa l’accordo nei prossimi giorni, invece, ci si rivede in autunno con uno sciopero generale.
Quello che sorprende, in casa Cgil ma anche nelle altre confederazioni, è la drammatizzazione che sui giornali e nel governo alcuni fanno della situazione previdenziale e dei conti pubblici. Ma non siamo nel 1992. Pur con tutti gli sforzi d’immaginazione, oggi nessuno al governo, all’opposizione e nemmeno sulla grande stampa d’informazione può paragonare l’emergenza di quindici anni fa, quando per noi si parlava di «sindrome messicana» e il dottor Sottile ci deliziò con una manovra da 90mila miliardi accompagnata dalla svalutazione della gloriosa lira per conquistare Maastricht, con l’Italia del 2007. Oggi i conti sono in ordine, il deficit-pil è sotto il 3%, c’è la ripresina e pure un extra gettito da distribuire.
Ma sulle previdenza, invece, è sempre allarme. Siamo perennemente allo scontro generazionale, ai sindacati conservatori, alla sinistra ostaggio dei suoi estremismi e via discorrendo. La Confindustria strepita, i giornali degli industriali e delle banche si lamentano per i tempi biblici e difendono lo scalone. Valorosi giornalisti ed ex dirigenti della Banca d’Italia, che incassano almeno un paio di pensioni mensili da far impallidire quelle di interi reparti di Cipputi, si ergono a moralizzatori e a difensori della stabilità finanziaria. Poi il professor Giavazzi vorrebbe un Sarkozy, un uomo forte, o almeno un decisionista in salsa tricolore. Forse cercano di influenzare Walter Veltroni, che s’è già preso il rimbrotto di Paolo Mieli per aver appoggiato, ma non firmato, il referendum elettorale.
Eppure, a ben vedere, un accordo potrebbe essere già sul tavolo, se il governo fosse tutt’uno. Le carte sono state voltate. Ai sindacati può andar bene che dal 2008 si vada in pensione a 58 anni, poi si può ragionare su due quote (età anagrafica più contributiva) a 95 e 96. Il piatto sarebbe completato dall’aumento dei contributi per i parasubordinati, dal taglio alle pensioni d’oro e dall’accorpamento degli enti previdenziali per recuperare risorse. Ma se questa ipotesi trova consensi sociali e anche politici, perchè ancora non si formalizza e magari si chiude con una firma e una bella bicchierata? Forse è una ipotesi troppo timida per gli aficionados di Sarkozy, fuori e dentro la maggioranza? Si vedrà.
Il problema vero è che la trattativa inciampa spesso nel ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa. E in queste settimane, per dirla tutta, è emerso con chiarezza che tra la Cgil e il ministro c’è una difficoltà di comunicazione e di comprensione. Tanto che nella confederazione di Corso d’Italia c’è chi rileva che «o Prodi prende in mano la partita oppure con Padoa-Schioppa non si fa nemmeno un passo avanti». E proprio in questo momento delicato per la vertenza delle pensioni, considerate le obiezioni del titolare di via xx settembre, alla Cgil ricordano come non sia la prima volta che con il ministro dell’Economia, un “tecnico” che sente sulle sue spalle la responsabilità del risanamento dei conti e dello sviluppo del Paese, si arriva sulla soglia dello schianto. Il superamento dello scalone costa tanto, almeno un miliardo di euro l’anno. Ma per alcune veline forse scappate dal ministero dell’Economia e arrivate sui giornali confindustriali il costo sarebbe ben più elevato, insostenibile. Ma non ci sono solo le pensioni.
A Padoa-Schioppa la Cgil rimprovera di aver sbagliato i conti e di aver sottostimato le entrate fiscali nella fase preparatoria della Finanziaria 2007 che, alla prova dei fatti, ha poi deluso famiglie, lavoratori e pensionati mentre alle imprese si concedeva il taglio del cuneo fiscale. Altri ricordano ancora l’ostruzionismo del ministro nel rinnovo del contratto degli statali, salvo poi firmarlo senza particolari modifiche il giorno dopo le elezioni amministrative chiuse con risultati certo non brillanti per la coalizione di centrosinistra. Poi c’è stata la diatriba, che poteva sfociare in una rottura, sull’extragettito e l’aumento delle pensioni minime. E adesso lo scontro, si perchè tra Cgil e Padoa-Schioppa di scontro si tratta, sulla riforma delle pensioni. In questo quadro tocca spesso al ministro del Lavoro Damiano predicare prudenza e ricucire pazientemente le posizioni.
Ma miracoli non ne fa nessuno, nemmeno Ronaldinho. Spetta a Prodi dire la parola finale sulle pensioni. Il conto alla rovescia è iniziato.

l'Unità 16.7.07
Luciano Gallino. «Pensioni, la leggenda dell’onere insopportabile»
di Bruno Gravagnuolo


Luciano Gallino è uno studioso insigne e rigoroso. Professore emerito di Sociologia nell’ateneo torinese, da anni smonta con pazienza i luoghi comuni. Esempi. La «fine del lavoro dipendente e degli operai»: da noi 16 milioni i primi, e 5 i secondi solo nell’industria! Poi, il mito progressivo della «flessibilità», sempre precaria in realtà. In ogni caso eccessiva in Italia e «diseconomica» ovunque. Oppure l’altro mito: la «concorrenza cinese». Che invece è in larga parte occidentale, fatta di merci occidentali importate dalla Cina. Di recente Gallino ha liquidato sulla Repubblica un’altra frottola corrente: l’onere pensionistico insopportabile. Laddove al contrario il bilancio Inps è a posto. E - senza l’assistenza e gli oneri non da lavoro dipendente - avrebbe un attivo di 3,5 miliardi di euro. In più, c’è il futuro. Chi ha detto che la platea degli occupati, a favore dei futuri pensionati, non debba crescere, con giuste politiche? Insomma è sbagliato prendere ai poveri per dare ai poveri, con la scusa del «conflitto tra generazioni». E condannarsi alfine a dover gestire così la «naturale» precarietà dei flessibili. L’articolo sull’Inps è stato un po’ oscurato da Repubblica e messo in un angoletto, il 5 luglio scorso. Ma il tema è decisivo, e ci regala uno spunto per fare intervenire Gallino nel nostro dibattito sulla «sinistra smarrita». È vero, lui è un sociologo con «understatement», però di sinistra se ne intende. Addirittura nel suo ultimo libro, Tecnologia e democrazia (Einaudi) rilancia il «socialismo», «pezzi» di cui per Gallino sono: «Il buon uso sociale della scienza come “bene comune”, il governo politico della finanza, la democrazia industriale, forme cooperative...». In altri termini, la democrazia applicata ad ogni ambito sociale. Sì, ma la cultura politica della sinistra di oggi, la «sinistra smarrita»? Sentiamo il professore.
È opinione diffusa tra i moderati del centrosinistra che compito della sinistra sia quello di adeguare il welfare alla flessibilità del lavoro. Gestire l’esercito di riserva in sintonia con l’impresa. È questa la sinistra ritrovata?
«Opinione diffusa non solo in Italia. Ma è un’impostazione di corto raggio. La flessibilità nasce dalla messa in concorrenza di 1 miliardo e mezzo di nuovi lavoratori extraeuropei, con quelli occidentali. E dal riassetto produttivo del sistema globale. Ma la flessibilità non è una legge di natura, e arrendersi ad essa, subirla, è miope. Inoltre chi idealizza la «flexsecurity» scandinava, non fa i conti con i costi immensi che implica: milioni di lavoratori assistiti, in mobilità e formazione. Se si fa sul serio, allora si tratta di elevare massicciamente la pressione fiscale, come in Svezia e Danimarca: più del 50% del Pil. Irrealistico».
Meglio per la sinistra puntare alla piena occupazione perché meno costoso?
«Sì, meno costoso, più equo e anche più di sinistra»
Lei ha dimostrato che l’Inps, detratta l’assistenza, ha i conti in ordine. Che le pensioni del futuro sono assicurate. E che occorre ampliare la platea degli occupati, per garantirle ancor di più...
«Già, e qui torniamo alla piena occupazione. Ma anche all’evasione fiscale e al sommerso - vero serbatoio di flessibilità! - che sono decisivi per impostare seriamente il problema. E sul quale né la destra né la sinistra hanno dato risposte risolutive».
Viceversa la sinistra dà vita a un Partito democratico che sembra far suoi gli allarmi e le politiche di cui sopra sul welfare. C’è un nesso tra il mercatismo delle «opportunità», e la cultura politica «democrat»?
«Certamente sì. Se diciamo che il compito non è quello di regolare con forza il capitalismo, come nel 900, ma quello di lenire la precarietà, e adattare il lavoro a un certo trend, allora ci si adegua a compiti più limitati. Si perdono di vista finalità più generali di emancipazione. E si finisce col pagarne lo scotto anche in termini di bilanci finanziari».
Altro leit-motiv: sono finiti i partiti di massa per certi obiettivi. Ma, destre di massa a parte, è davvero così, in Gran Bretagna o in Germania?
«Molti studiosi, in Germania, Francia e Regno Unito non sarebbero affatto d’accordo con questa tesi. Prenda il caso della Gran Bretagna, dove c’è ancora un Labour radicato. Gordon Brown sta cambiando la politica filo americana di Blair. E ha fatto, all’atto del suo insediamento, un forte discorso, molto di sinistra. Con la ripresa di temi abbandonati dal New Labour da molti anni. Più eguaglianza, più stato sociale, più sanità. Più beni pubblici per tutti i cittadini. Discorso che ha alle spalle l’idea di un partito robusto e combattivo a sostegno. In Germania la Spd resta un partito esteso, mentre si affaccia la realtà della Neue Linke, con uno spessore sociale anni fa inimmaginabile. Certo l’Spd, con il suo stile adattivo e leggero tipo “Neue Mitte” s’è tagliata molta erba sotto i piedi...»
Lei auspica forti politiche pubbliche. E Sarkozy in Europa sembra accontentarla. No agli alti tassi, no al monetarismo, no alla concorrenza come totem. Sfida imbarazzante da destra?
«Sarkozy è molto capace e sveglio, ed è appoggiato dalle grandi famiglie economiche francesi. Valorizza il profilo statale della Francia e il ruolo pubblico in economia. Da noi la sinistra è invece sensibile agli argomenti globali liberisti che vengono dall’esterno. Come la svalutazione delle politiche industriali e dello stato in economia. Mentre, se c’è un paese che investe in colossali politiche industriali pubbliche, sono proprio gli Usa liberisti, peraltro paese protezionista. Il liberismo è sempre un enunciato che vale per gli altri... Quanto alla Bce, la si è presa troppo sul serio e le si è concesso troppo potere. L’Europa non può essere governata in una prospettiva solo finanziaria. E da questo punto di vista Sarkozy ha pienamente ragione. Viceversa ogni volta che un funzionario di Bruxelles, dell’Ocse o del Fmi starnutisce, il governo italiano trema».
La sinistra per essere tale, deve assumere ancora come tratto saliente la critica al capitalismo?
«Senza il minimo dubbio. Significa il tentativo di regolare il caos selvaggio del capitalismo. Introducendo finalità universali. Dall’uso della scienza, ai beni comuni, alla democrazia industriale, alle forme proprietarie. E puntando al governo della finanza. Il capitalismo attuale per il 90% coincide con i mercati finanziari. Esso non è produzione, non è lavoro, non è industria, non è scambio di merci. È finanza da regolare».
È protezionismo esigere che le merci non siano adulterate o prodotte con salari schiavistici? E imporre standard per alzare i salari non è in fondo «esportazione della democrazia»?
«Sì, certi standard sono irrinunciabili. Ma va ricordato anche che la concorrenza cinese, e di altri paesi emergenti, non è fatta solo di merci cinesi. Il 50% infatti è prodotto in deroga a elementari diritti umani - 2 o 3 dollari al giorno di costo del lavoro - e grazie a investimenti occidentali. Le imprese occidentali esportano capitali in cerca di manodopera a buon mercato. E reintroducono nei paesi d’origine quelle merci. Il gigante cinese è costruito per metà dall’occidente, con 40 milioni di schiavi disseminati nelle zone franche. Vuol dire: materie prime e semilavorati, trasformate in Cina. E rivendute in occidente a prezzi occidentali. Quindi diritti minimi, niente vincoli ambientali e grande “ricarico”. Oggi l’85% dei computer portatili del mondo è fabbricato in Cina, a 80 dollari al mese. Da noi costano 1200 dollari l’uno».
C’è un nesso tra tutto questo scenario e la spirale delle guerre?
«C’è un rapporto complesso, ma altresì evidente. A parte la contesa globale e geopolitica sui mercati, assistiamo oggi alla produzione intenzionale di immense ineguaglianze, nel segno del capitalismo globale. Con un abisso tra un 90% di paria e un 20% di privilegiati sul pianeta. Le immense diseguaglianze alimentano a loro volta tensioni terrificanti. E la disponibilità di grandi masse disperate ad ogni avventura. Un fenomeno sociale che si collega ai nazionalismi e ai fondamentalismi».

l'Unità 16.7.07
La «grande stampa» ha nostalgia dell’uomo forte
Dal «Corriere» a «Repubblica» l’elogio del «cesarismo»
Prodi indeciso? Meglio la crisi. «Impari da Sarkozy...»
di Maria Zegarelli


Nostalgie. Il premier Romano Prodi ieri mattina leggendo i maggiori quotidiani italiani ha scoperto che l’ultimo rimprovero che gli si fa è quello di non essere l’«uomo forte» di cui gli italiani sentirebbero in maniera sempre più pressante la mancanza. Non sono ancora guariti dal «berlusconismo» - anzi - ed è già sopraggiunto un nuovo sintomo ad agitare i loro sonni: il «cesarismo». C’è voglia di «cesarismo» («versione italiana del bonapartismo»), scrive infatti Ilvo Diamanti su la Repubblica.
Qui si sente - aggiunge Diamanti - la mancanza di ciò che Oltralpe sta accadendo: «Il rinnovamento». Sul Corriere Francesco Giavazzi, parla de «il ciclone Sarkozy» che si sta felicemente abbattendo sulla Francia. In poche settimane l’uomo di destra che pia-
ce a sinistra, ha fatto vedere subito chi è il più forte. «Lunedì sera Nicolas Sarkozy ha partecipato, fatto senza precedenti, alla riunione dei ministri delle Finanze dell’euro e ha chiesto clemenza: “Per riformare la Francia ho bisogno di spendere qualche soldo in più”». Lasciando di stucco tutti gli scettici, «quattro giorni dopo il Parlamento francese ha approvato i primi articoli della legge che elimina di fatto le 35 ore». Ma non modificando l’orario di lavoro, lui «lo fa con astuzia» e introduce incentivi a lavorare di più. Non come qui.
Di «prodismo», neanche a parlarne. Anzi, l’antidoto viene somministrato con rigorosa attenzione ogni giorno da crisi minacciate, auspicate, invocate, più o meno apertamente appoggiate, non solo in Parlamento. La cosiddetta grande stampa, aiutata certo da una sfiancante litigiosità della maggioranza, sparge sale sulle ferite. Al loro esordio il governo e il suo premier venivano rimproverati - sia dai quotidiani sia dagli elettori - di scarsa capacità di comunicazione. Oggi si scopre che gli italiani, lo dicono gli infallibili sondaggi, sognano l’«uomo forte», una guida autoritaria. I poteri forti invece, la Confindustria per esempio, hanno ben altre ragioni alla base di così poca simpatia: non perdonano il «peccato originale», questa alleanza con la sinistra radicale che si mette di traverso su pensioni, coefficienti e scalone.
È la penna di Eugenio Scalfari a bilanciare la lettura dei giornali del premier : «La cosiddetta fase due del governo Prodi - scrive - è cominciata da una paio di mesi. quella dei provvedimenti per la crescita e l’aumento del potere di acquisto dei ceti deboli: il cuneo fiscale ormai operativo, l’aumento delle pensioni sotto al livello di 650 euro, il sostegno ai giovani, l’avvio degli ammortizzatori sociali, la revisione concordata degli studi di settore, infine la trattativa sull’età pensionabile ancora in bilico...». Il guaio, continua, «per il centrosinistra è che questa linea espansiva», non ha prodotto, dicono i sondaggi, «alcun effetto sul consenso degli elettori». Gli italiani, insistono ancora i sondaggi, sono sempre più attratti da Nicolas Sarkozy, “homo novus” della politica come lo ha definito Barbara Spinelli, su La Stampa. Chissà che non dipenda un po’- sarebbe riduttivo liquidarla così - anche dalla fotografia che ogni giorno viene pubblicata: un governo attaccato al respiratore. La didascalia è più o meno sempre uguale a se stessa: «crisi».
Di governo, della maggioranza, di questo o quel ministro. C’è anche chi rompe la tradizione - almeno di facciata -di imparzialità e come Gianni Riotta, direttore del Tg 1, auspica la crisi se non arrivano le riforme. Tentazione a cui non resiste nemmeno il Sole 24Ore. Il 4 luglio scorso fa outing. Guido Gentili scrive: «Meglio un taglio netto, ma limpido, cioè una crisi di Governo, che una crisi opaca e strisciante. Meglio, insomma, dire chiaro e tondo: a queste condizioni non ci stiamo, né al Governo né nella maggioranza. Punto e stop». Il giorno dopo Dario Di Vico , dalle colonne del Corriere fotografa: «Assomiglia sempre di più a un governo balneare. Nella cronaca politica di questi giorni è difficile, infatti, trovare traccia dell’esistenza di un esecutivo con una sua autorità e un’autonoma capacità di proposta. La presunta trattativa sulle pensioni si prolunga da giorni in una grottesca rappresentazione dell’inutilità della politica. I ministri responsabili vanno a ruota libera e si contraddicono tra di loro. Come conseguenza della latitanza del governo i sindacati hanno preso forza e battono i pugni sul tavolo».
La diagnosi la stila Sergio Romano, l’8 luglio sul Corriere: «Più di cinquant’anni fa, negli albori della Prima Repubblica, un presidente del Consiglio dovette dimettersi perché il segretario del suo partito definì il governo, con glaciale distacco, semplicemente “amico”». Oggi non è più così. Scrive: «L’Italia è cambiata. Romano Prodi e il suo governo vengono trattati con sufficienza, ironia e persino sarcasmo da coloro che dovrebbero sostenerlo. Il presidente del Consiglio, in particolare, è diventato bersaglio di battute taglienti e sorrisi di sufficienza. qualcuno, all’interno del governo, lo contraddice apertamente. Altri lo prendono in giro...». C’erano tempi - non troppo lontani - invece, in cui il Presidente del Consiglio in carica appariva su tutti i quotidiani del mondo mentre faceva le corna ai suoi colleghi. Incassava le leggi «ad personam». Alzava il telefono e chiamava in diretta durante i programmi in onda sulle sue televisioni. Cambiava la legge elettorale sotto elezioni. Uno dei suoi alleati, l’ha scherzosamente chiamata «il porcellum». Una porcata, per rendere impossibile governare a chi veniva dopo.

l'Unità 16.7.07
Il referendum comincia a far paura ai piccoli dell’Unione
Il comitato ormai vicino al traguardo delle firme
La sinistra radicale: attenti ai poteri forti
di Natalia Lombardo


REFERENDUM Cresce la polemica mano a mano che aumenta il numero di firme raccolte in tutta Italia: una polemica trasversale fra i due schieramenti, ma anche interna al centrosinistra, con lo Sdi, i Verdi e i popolari della Margherita che vedono nella legge che
uscirebbe dal referendum il rimedio peggiore del male (la «porcata» di Calderoli, il sistema elettorale attuale).
Nell’ultimo weed end la raccolta di firme si è intensificata (6000 solo a Roma sabato nei banchetti al concerto dei Genesis) ma sui numeri il comitato promotore naviga a vista, oscillando tra le cerificate 421 mila di dieci giorni fa e le 450 mila. Il tetto per l’ammissibilità è di 500mila, ma ne servono almeno 70mila in più per sicurezza. L’incertezza è dovuta al fatto che i moduli con le firme, raccolti dai tanti volontari in tutta Italia, non sono ancora arrivati a Roma. Il comitato promotore infatti lancia un appello a tutti i «raccoglitori»: «Le firme vanno consegnate alla Cassazione il 24 mattina (ripulite da errori), quindi sbrigatevi a mandare i moduli al comitato nazionale a Roma, sennò è lavoro sprecato». Il referendario Guzzetta plaude all’appoggio di Luca di Montezemolo; nel rush finale si attendono novità: gli ulivisti danno per prossima «la firma di Enrico Letta, e di qualche ministro».
Il referendum scuote le acque e riattiva il dibattito sulla modifica della legge elettorale. All’erta i partiti minori e la sinistra radicale: per il segretario di Rifondazione, Giordano, «la sponsorizzazione di Montezemolo non è un caso», dimostrando che l’impianto referendario è vicino a quello «neo-autoritario di Confindustria». Per Rizzo del Pdci «i poteri forti vogliono cancellare le forze critiche della società».
Enrico Boselli, segretario dello Sdi, avverte: «L`unica cosa certa è che il sistema elettorale che uscirebbe dal referendum sarebbe molto peggiore di quella attuale». In realtà anche i parisiani la pensano allo stesso modo, ma con presupposti diversi: il ministro della Difesa, convinto sostenitore della raccolta di firme, ritiene «il referendum uno strumento di pressione perché il Parlamento faccia una nuova legge elettorale» promessa un anno fa agli elettori nel programma dell’Unione. Per Arturo Parisi, quindi, «il referendum è l’unica arma per difendersi dal rischio del collasso e del ritorno all’indietro, l’unico pungolo per andare avanti nel solco del bipolarismo. Altro che nuove alleanze e leggi alla tedesca in salsa italiana!», conclude il ministro che, semmai, preferirebbe a un ritorno al «Mattarellum».
Più ottimista su un’intesa parlamentare è il segretario Ds Piero Fassino, che nell’intervista a l’Unità valuta la possibilità di «una convergenza ampia sul sistema tedesco», anche se per i Ds sarebbe preferibile il sistema maggioritario con doppio turno alla francese.
A sostenere il voto alla tedesca c’è l’Udc in testa, col segretario Lorenzo Cesa disponibile al dialogo» e confortato dalla convergenza di tante forze per «evitare la mannaia referendaria». Per un accordo in Parlamento sul sistema alla tedesca insiste anche il Prc, con Russo Spena che critica lo sprint dato alla raccolta di firme impresso «da An e, in modo non dichiarato, dai Ds di Veltroni. Sta dando frutti avvelenati», avverte, perché «la pessima legge che ne uscirebbe sarebbe una mina contro il governo». Per il verde Bonelli il referendum «pone un falso problema: non semplifica il quadro politico», ma mette «il silenziatore ad alcune forze politiche». Ancora più duro Merlo, parlamentare della Margherita, che parla di «ipocrisia» del centrosinistra. Forza Italia, in parte impegnata nella raccolta di firme, con Schifani si dice dialogante su «uno sbarramento al 5%».
Dall’altra parte c’è il fronte delle firme: dopo Fini anche Gasparri, in An, spinge per il referendum pensando alla nascita del «partito unitario della Libertà». E nell’Unione Di Pietro giura che «il 24, cascasse il mondo, noi, Segni, Alemanno andremo a depositare le firme».

Repubblica 16.7.07
Il comitato politico finisce con il 90% dei consensi alla linea del segretario sulla previdenza
Il Prc schiaccia la minoranza sconfitta la linea anti-riforma
di Goffredo De Marchis


ROMA - Rifondazione compatta, Rifondazione che non lascia varchi a nessuno, né a sinistra né a destra, ora che si avvicina la curva finale della trattativa sulle pensioni. A Prodi risponde che la copertura finanziaria per lo "scalino" esiste. A Rutelli e agli oppositori interni dell´ala più radicale mostra l´immagine più granitica di Prc. Franco Giordano celebra infatti una vittoria schiacciante della sua linea al parlamentino del partito, riunito al centro congressi Frentani, a Roma. È la risposta di Rifondazione alle critiche, la risposta di un partito chiamato in questi giorni a reagire su un doppio fronte. Le accuse da sinistra (che porteranno a una ormai annunciatissima scissione) e l´«offensiva neocentrista», certificata dal "manifesto dei coraggiosi" scritto da Francesco Rutelli. La linea del segretario passa al comitato politico con una maggioranza che con luogo comune si definisce bulgara: 90,1 per cento. «Anche troppo», scherza Giordano.
Agli assetti del congresso di Venezia (dove Fausto Bertinotti vinse con il 59 per cento) si aggiungono oggi i consensi di Claudio Grassi, allora all´opposizione. «Mi convince la proposta della segreteria, mi convince la consultazione dei militanti sul gradimento al governo, mi convince il richiamo al programma», dice Grassi. Morale: Giordano raccoglie 146 voti a favore su un totale di 162. Spiega Gennaro Migliore, capogruppo alla Camera: «Questo risultato è figlio del momento che stiamo vivendo. Di fronte agli attacchi, il partito mostra la sua compattezza. Non poteva essere altrimenti». Dunque al comitato politico di Prc, riunito per l´ultimo giorno nella sala del quartiere San Lorenzo mentre Roma è svuotata dal caldo, le minoranze restano schiacciate. Giorgio Cremaschi, segretario nazionale della Fiom, se n´è andato, dopo l´intervento di sabato. Giordano lo fa notare più volte, durante la replica: «Mi piacerebbe dire a Giorgio, se solo fosse qui...». Un artificio retorico, prima dell´attacco frontale: «Ci sono compagni che vengono qui esclusivamente per attaccare il gruppo dirigente quando ci sono le telecamere e i giornalisti. E che alla fine preferiscono non partecipare al dibattito». In questo parlamentino la forza della maggioranza interna è davvero indiscutibile. L´ordine del giorno firmato da Cremaschi, Salvatore Cannavò e Fosco Giannini per l´abolizione dello scalone e il ritorno ai 57 anni raccoglie 22 voti. La proposta di una sinistra alternativa, fuori dal governo, presentata da Cannavò "incassa" 12 consensi. Il leader della componente oltranzista è sempre più fuori dal partito. Riunito in fondo alla sala con i suoi militanti, non risparmia battute e commenti sarcastici durante la replica di Giordano. «A settembre costruiremo un´altra sinistra - annuncia Cannavò - per uscire dal falso unanimismo di Prc».
Sulla linea dello "scalino", Giordano tiene insieme praticamente tutte le anime di Rifondazione. E non c´è dubbio che il manifesto rutelliano abbia favorito questo risultato. Alfonso Gianni, sottosegretario al Tesoro, vede qualcosa di «peggio dell´attacco centrista. Vogliono scaricare Rifondazione per fare una coalizione con le destre». E il problema non è Prc, la sua possibile rottura sulla previdenza «perché alla fine saranno i lavoratori con il referendum a dire se l´accordo è giusto o meno», spiega Gianni.
L´intesa sulle pensioni serve anche allo sviluppo della Cosa rossa. «È una sfida strategica al Partito democratico», dice Giordano. Ma non passerà dallo scioglimento di Prc. «Anche perché - avverte Migliore - senza Rifondazione non c´è nemmeno il soggetto unitario a sinistra».

Repubblica 16.7.07
Il leader del Pdci: "Rutelli spaccia per riforme un pesante arretramento sul piano dei diritti"
Diliberto: "C'è un disegno centrista per scardinare il governo Prodi"
di Francesco Bei


La sinistra. Vogliono cacciare la sinistra dalla maggioranza, perché blocchiamo le misure più impopolari Montezemolo. Il progetto è quello teorizzato da Montezemolo. Una logica in contrasto con il programma dell'Unione

ROMA - «Nella maggioranza c´è già chi sta facendo i conti del dopo Prodi. È un disastro perché, con tutti i suoi limiti, questo governo per noi rappresenta l´equilibrio più avanzato possibile. E c´è chi è al lavoro per scardinarlo». Per il segretario del Pdci, Oliviero Diliberto, le talpe al lavoro per provocare la crisi hanno nomi e cognomi: Rutelli, Dini, Montezemolo, i moderati dell´Unione.
Esiste davvero un disegno neocentrista per mettervi alla porta?
«C´è un disegno esplicito, che è stato persino teorizzato da Cordero di Montezemolo, cioè dalla Confindustria. È quello di costruire un sistema di alleanze centriste, con dei precisi referenti sociali, che tendano a marginalizzare sinistra e sindacati. E´ una logica che contrasta, prima che con il programma dell´Unione, con il vocabolario».
Che c´entra il vocabolario?
«Rutelli parla di coraggio riformatore, Dini ci definisce conservatori. Ma le riforme sono quelle cose che servono per estendere i diritti, non per restringerli. E conservatore è colui che tende a mantenere dei privilegi, non la sinistra. Rutelli spaccia per riforme un pesante arretramento sul piano dei diritti»
Non è un privilegio consentire di andare in pensione a 57 anni mentre in tutta Europa si percorre la strada opposta?
«Vorrei far fare un esperimento pratico a Dini e Rutelli. Provare a salire su un´impalcatura di un cantiere edile a 58 anni e vedere se si trovano bene. Il punto è questo: la stessa età anagrafica dipende da come gli anni li hai passati. La mia età è diversa da chi ha fatto l´operaio, oppure l´infermiere facendo i turni di notte, oppure l´impiegato in un lavoro ripetitivo».
Così non rende semplice una soluzione di compromesso...
«Dobbiamo rispettare l´impegno di abolire l´innalzamento da 57 a 60 anni e modulare, a seconda del lavoro che si svolge, eventuali modifiche».
È un´apertura?
«No, tutto il contrario. Confido che i sindacati tengano duro».
Torniamo al "manifesto" di Rutelli. Il vicepremier sostiene che il suo non voleva essere un attacco al governo.
«E´ del tutto evidente che quello di Rutelli è un attacco al governo: violento, lucido e determinato. E noi dobbiamo sventarlo, non agevolarlo. Se vuole si assuma lui la responsabilità della crisi».
Ci sono settori della maggioranza che non considerano più un tabù la sostituzione di Prodi con Veltroni?
«Io credo che per i moderati della maggioranza il problema non sia tanto la persona quanto l´assetto politico. Vogliono espungere la sinistra dalla maggioranza perché, finché ci siamo noi, le misure più impopolari non passano».
Continuando a litigare così, sul ciglio del burrone, avvicinate la fine...
«Il rischio, se continuiamo su questa strada, è già scritto. Noi faremo il lavoro sporco, cioè il risanamento, scontentando il nostro elettorato, dopodiché torna Berlusconi, perché la nostra gente ci avrà voltato le spalle. Non mi sembra un risultato brillante. Ma nel manifesto di Rutelli c´è proprio un passaggio, che posso citare a memoria, in cui dice che "bisogna evitare il ritorno delle destre, ma soprattutto, evitare che la sinistra blocchi le riforme". Cioè preferisce la destra alla sinistra. Viene da chiedersi perché nel 2006 abbia siglato un patto con noi».
Come potete evitare questo esito?
«Per provarci, la sinistra deve essere più forte e sarà più forte se sarà unita».
Il cantiere della cosa rossa tuttavia segna un po´ il passo...
«Ora dobbiamo accelerare con grande determinazione, altrimenti i fatti andranno più avanti di noi. A ottobre dobbiamo creare un evento politico di unità, che abbia anche qualche gamba organizzativa. Lasciamoci alle spalle la stagione delle nicchie e degli egoismi: se ci sono riusciti persino i socialisti, i più litigiosi tra tutti...».

Corriere della Sera 16.7.07
Zipponi, il mediatore rosso che «salvò» Romano
L'autore della proposta: al Professore non c'è alternativa. E basta commiserare gli operai


ROMA — «A Prodi non c'è alternativa». Maurizio Zipponi, 52 anni, deputato-metalmeccanico di Brescia, lo sostiene da dieci anni. Da quando nell'ottobre '97, allora segretario della Fiom cittadina, calò a Roma in pullman con 50 compagni per scongiurare la caduta del primo esecutivo del Professore. E, allo scopo, non esitò a prendere d'assedio la segreteria del suo partito: Rifondazione comunista. Combattivo.
A distanza di un decennio Zipponi insiste: «Non c'è che Prodi. Fino al 2011». Questa volta però, diventato onorevole e responsabile Lavoro di Prc, niente picchetti. Ma una proposta sulle pensioni che potrebbe agevolare l'accordo nella maggioranza e scongiurare la crisi. Un passo indietro? «Macchè, è una proposta complessiva che avevamo messo a punto a gennaio ». Anche il «sì» allo scalino dei 58 anni?
Non è che il «manifesto » riformista di Rutelli, che vi spinge ai margini della coalizione, vi ha consigliato una linea più morbida? «Quell'idea è venuta fuori 15 giorni fa, la notte che è saltato l'accordo. Era una delle proposte che circolavano. Si è pensato di metterla giù per non contrastare la trattativa ». Cioè? «Abbiamo deciso un atto di sincerità totale verso il governo: per noi Prodi deve durare fino al 2011 e non intendiamo usare le pensioni per qualsiasi manovra di tipo politico. Sempre che l'accordo sia coerente con il programma ».
Ma l'iniziativa non è piaciuta alla sinistra del partito: Giorgio Cremaschi, leader della corrente «Rete 28 aprile», l'ha definita, durante il comitato politico, un «pastrocchio che metterà i lavoratori gli uni contro gli altri». Zipponi ha accettato la sfida: il suo discorso tranquillo ma appassionato, tutto in salita, ha guadagnato l'ovazione della platea. «Il comitato si è chiuso ieri con un 90% di consensi per la linea del segretario Giordano — osserva —. In quale altro partito c'è questo consenso...» Bulgaro? «Insomma, noi non abbiamo un problema». E la scissione? La corrente che fa capo a Salvatore Cannavò l'ha annunciata. «L'unica scissione che mi preoccupa è quella con i lavoratori. Tutto il resto è roba da ceto politico che strumentalizza le questioni per affermarsi». E per non perdere il contatto con la base, Zipponi, ex operaio della Franchi, torna appena può nella sua Brescia dove ha costituito un personale comitato consultivo: «Sei persone: cinque delegati delle più grandi fabbriche metalmeccaniche e il segretario generale della Fiom di Brescia, Michela Spera». Così Zipponi tasta il polso degli operai del Nord, sottopone loro le ipotesi di accordo, le corregge. «Detesto chi parla dell'operaio con commiserazione, o chi usa le immagini e le parole della tradizione operaia per vendere una macchina ». Ce l'ha con la Fiat? «Quello spot della 500 esprime la massima distanza tra il messaggio e il prodotto: potevano venderci anche lo shampoo». Non esagera un pochino? «Io? In quei cinque minuti si dice solo una cosa: esiste soltanto il punto di vista delle imprese. Ma io sono altro, io sono di quelli che si alzano la mattina per andarle a fare le macchine!». Qualcuno potrebbe dire che lei non è più operaio, e che gli operai sono sempre di meno, una categoria abusata dalla retorica sindacale: «Operaio oggi è chiunque non abbia capacità contrattuale — risponde —: dalla hostess al lavoratore del call center. Sono in tanti e vorrei che continuassero a votare a sinistra. Per questo sulle pensioni chiedo al governo coerenza con il programma dell'Unione».
Una coerenza che, secondo Zipponi, è sostenibile economicamente e non mette il ministro dell'Economia in difficoltà: «Chiedo a Padoa-Schioppa di fare i conti insieme. Non la voglio mettere in politica. A tre anni dalla riforma andiamo a verificare se si è raggiunta la quota dei pensionamenti auspicata, e se così non fosse, applichiamo il sistema delle quote ».
Tanto attivismo da parte di Rifondazione ha profondamente irritato i sindacati. Il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani, ha chiesto un «passo indietro ». «Noi non ci siamo offesi — dice Zipponi — abbiamo bevuto una camomilla. Non vogliamo invadere il campo, anche se i sindacati stanno andando avanti senza sottoporre la piattaforma ai lavoratori. Sono stato sindacalista, è una cosa che non si fa, altrimenti poi nelle assemblee sono problemi ». Ma con il sindacato un punto di contatto c'è: «Entrambi pensiamo di consultare i lavoratori dopo l'accordo. Un referendum vincolante. Se sarà un "no", non se ne farà niente. Costi quel che costi».

Repubblica 16.7.07
Referendum e nuove alleanze nell'Unione riparte lo scontro
Fassino ai rosso-verdi: la maggioranza deve allargarsi
di Gianluca Luzi


Riforma elettorale, l'Udc e Mastella rilanciano il sistema tedesco Il segretario dei Ds: nel centrodestra c'è una frattura, non possiamo ignorarla Parisi sull'altro fronte: i cittadini hanno capito che le urne sono l'arma anti-collasso La sinistra radicale in allarme dopo che le firme hanno raggiunto quota 500 mila

ROMA - Il referendum ha oltrepassato le 500mila firme e la sinistra radicale accusa i Ds e Veltroni per aver dato l´impulso decisivo. Ma nel mirino di Giordano, Diliberto e dei Verdi c´è anche Rutelli, con il suo «Manifesto dei coraggiosi» che prefigura «alleanze di nuovo conio», cioè senza la sinistra radicale. Fassino cerca di calmare le acque: ripropone l´ipotesi di sistema elettorale tedesco - e questo fa piacere alla sinistra estrema - difende «senza enfatizzarlo» il «Manifesto dei coraggiosi», e avverte nello stesso tempo Giordano, Diliberto e i Verdi che il centrosinistra deve cercare alleanze oltre i propri confini se vuole andare avanti. La differenza con Rutelli è che per il segretario della Quercia tutto l´attuale centrosinistra - comunisti compresi - deve allargare i propri confini. «Considero questo documento un contributo al dibattito, anche se credo non lo si debba enfatizzare più di tanto», dice Fassino all´Unità parlando del Manifesto di Rutelli. «E sarà utile per la piattaforma politica e progettuale che dovremo presentare all´Assemblea costituente del 14 ottobre». Ma il problema delle alleanze non si esaurisce con la schermaglia sui documenti. Anche Fassino lo ripropone, che piaccia o no alla sinistra più dura. «Io dico che il centrosinistra, tutto insieme unito, deve porsi l´obiettivo di garantire una governabilità più stabile e per farlo abbiamo bisogno di guardare oltre gli orizzonti dell´Unione». Il messaggio non si presta ad equivoci. «Anche Rifondazione comunista - chiarisce infatti il leader dei Ds - deve fare i conti con il fatto che con un voto o due di maggioranza è difficile governare». Ed è chiaro quale può essere l´interlocutore: «Non possiamo non vedere - nota Fassino - che nel centrodestra si è prodotta una frattura. Tra l´Udc da una parte e Fi e An dall´altra. E anche su molti temi concreti si sta producendo sempre di più una distinzione tra la Lega da una parte e Fi e An dall´altra».
Un dibattito, quello sulle alleanze, che peserà sulla campagna per le primarie di ottobre. Il 30 luglio scade il termine per presentare le candidature alla segreteria del Pd in vista delle primarie del 14 ottobre. Ed è possibile che già questa settimana Letta e Bindi decidano se presentare le loro. Il senatore Furio Colombo, ex direttore dell´Unità, intanto, ha confermato che presenterà la sua candidatura alle primarie. Ad agitare il clima nel centrosinistra c´è anche il referendum elettorale. «I cittadini hanno capito che il referendum è l´unica arma per difendersi dal rischio del collasso e del ritorno all´indietro - commenta soddisfatto il ministro Parisi - . Altro che nuove alleanze e leggi alla tedesca in salsa italiana». E mentre la sinistra radicale attacca il referendum che vuole a tutti i costi evitare, l´Udc rilancia il sistema tedesco su cui è d´accordo anche il ministro Mastella.

Repubblica 16.7.07
Pedofilia, risarcimento record i preti Usa pagano 660 milioni
Si tratta dell'indennizzo più alto nella storia americana, al quale vanno aggiunti 114 milioni promessi dalla diocesi californiana in accordi precedenti. Che spenderà, da sola, 774 milioni di dollari

di Mario Calabresi


L'accordo prevede che vengano diffusi alcuni documenti riservati in cui emergono le responsabilità della gerarchia ecclesiastica Mahony è accusato di aver taciuto la storia di Michael Baker, un sacerdote che nel 1986 gli confessò di aver abusato di tre ragazzini Il cardinale ha già messo in vendita più di 50 proprietà e palazzi della chiesa locale L'accordo è giunto all'ultimo momento possibile, alla vigilia del primo processo A Boston tutto è cominciato mentre a Los Angeles si metterà la parola fine

LOS ANGELES - Un nuovo scandalo pedofilia investe la Chiesa cattolica americana e stabilisce un nuovo record nei risarcimenti che dovrà pagare alle vittime di abusi sessuali da parte di oltre un centinaio di preti. Protagonista di questo nuovo capitolo della storia, cominciata a Boston nel 2002, è la diocesi di Los Angeles che ieri mattina ha annunciato di aver raggiunto un accordo con 508 persone che avevano denunciato di essere state molestate o stuprate dai sacerdoti in un periodo di tempo che va dalla fine degli Anni Trenta ad oggi. L´arcidiocesi, guidata da uno delle personalità più note della Chiesa americana, il cardinale Roger Mahony, pagherà l´astronomica cifra di 660 milioni di dollari, oltre un milione e 200mila dollari per ogni vittima, un milione di euro circa a testa.
L´accordo è giunto all´ultimo momento possibile, alla vigilia del primo dei quindici processi civili che dovevano essere celebrati a Los Angeles a partire proprio da oggi. Il patteggiamento extra - giudiziario, che sarà sottoscritto questa mattina davanti ai giudici tra gli avvocati delle vittime e la diocesi più grande d´America, annulla tutti i dibattimenti previsti.
Le accuse coinvolgono 113 sacerdoti che hanno servito nella diocesi fra il 1930 e il 2003, ma di questi 43 sono morti e 54 non vestono più l´abito talare. Dei sedici rimasti all´interno della Chiesa per 12 non sono stati trovati riscontri sufficienti per sostenere l´accusa di abusi sessuali su minori, mentre quattro erano stati posti sotto processo. L´accordo che verrà firmato oggi prevede che vengano diffusi alcuni documenti riservati, che fino ad oggi l´arcidiocesi aveva rifiutato di rendere pubblici, in cui emergono le colpe di una parte della gerarchia ecclesiastica che per troppo tempo ha cercato di coprire lo scandalo. Il patteggiamento evita però a Mahony di dover comparire sul banco dei testimoni in alcune delle cause. Il cardinale infatti pur avendo dettato severe linee guida a cui devono attenersi tutti gli adulti, sia i religiosi sia gli educatori, che hanno un contatto diretto con i bambini, è stato al centro di severe critiche per i suoi comportamenti negli Anni Ottanta. Dalle carte processuali infatti emerge chiaramente che le gerarchie permisero a decine di sacerdoti di continuare a vestire i paramenti sacri nonostante emergessero accuse nei loro confronti. Mahony rimosse 17 preti indicati come colpevoli di abusi ma è accusato di aver taciuto la storia di Michael Baker, un sacerdote che nel 1986 gli confessò di aver abusato di tre ragazzini parecchi anni prima. Lui lo mandò a curarsi in New Mexico e poi negli anni lo trasferì in nove differenti parrocchie dove Baker però tornò a molestare 23 ragazzini. Oggi il cardinale ammette il grave errore e sottolinea che questo pesa sulla sua coscienza, e nel tentativo di riparare almeno economicamente, già da mesi ha messo in vendita più di cinquanta proprietà della Chiesa e i palazzi dell´amministrazione.
Inoltre altri 114 milioni di dollari erano stati promessi dalla Chiesa di Los Angeles in accordi precedenti portando a un totale di 774 milioni di dollari il totale che la diocesi californiana deve reperire. Nessun aiuto finanziario verrà dal Vaticano e ogni diocesi dovrà fare affidamento sui suoi beni e sulle assicurazioni stipulate negli anni.
Questa storia supera di gran lunga quella famosa della diocesi di Boston che nel 2002 riconobbe 552 casi e pagò 84 milioni di dollari, anche se il record di una singola causa era della Chiesa di Orange sempre in California che nel 2004 pagò 100 milioni a 90 ex ragazzini. Di fronte a questa ondata di cause, negli ultimi anni cinque diocesi americane sono andate in bancarotta tra cui quella di Tucson in Arizona, quella di Portland nell´Oregon e a gennaio quella di San Diego che è fallita.
Da quando il caso degli abusi sessuali sui minori è scoppiato negli Stati Uniti, si sono susseguite a decine le cause delle associazioni delle vittime contro le diverse diocesi. Epicentro dello scandalo fu Boston, il cui arcivescovo, il cardinale Bernard Law, fu costretto alle dimissioni e venne richiamato a Roma dove attualmente è arciprete della basilica di San Giovanni in Laterano.
Ma se a Boston tutto è cominciato a Los Angeles potrebbe essere scritto il capitolo finale. I 660 milioni di dollari metteranno la parola fine a tutte le denunce, ai processi collettivi e alla possibilità di rivalersi contro la Chiesa: nel 2002 infatti lo stato della California approvò una legge che creava una finestra di un anno durante la quale potevano essere presentate denunce senza limiti di tempo, ma con l´accordo di ieri questa finestra si chiuderà per sempre e da domani saranno possibile solo singole denunce per abusi compiuti negli ultimi due anni.

Il Vaticano. La Santa Sede non contribuirà in alcun modo le chiese americane venderanno il patrimonio
di Orazio La Rocca

CITTÀ DEL VATICANO - La Santa Sede non contribuirà in nessun modo al pagamento degli indennizzi per le vittime dei preti pedofili. Come già avvenuto in casi simili, l´arcidiocesi di Los Angeles dovrà pagare i 660 milioni di dollari vendendo parte del suo patrimonio (immobili, titoli, donazioni...) che ammonta a circa 4 miliardi di dollari. Altre strade percorribili, il ricorso a coperture assicurative o alla "protezione" della dichiarazione di bancarotta, seguendo l´esempio delle diocesi di San Diego, Davenport nell´Iowa, Portland in Oregon, Spokane nello stato di Washington e Tucson in Arizona. Ma, nella storia dello scandalo dei preti pedofili scoppiato 5 anni fa a Boston, l´indennizzo di Los Angeles è il più alto, autentico record della vergogna preceduto dai 100 milioni già pagati dalla diocesi di Orange, California, e dagli 85 milioni di Covington, Kentucky. Le azioni legali per gli abusi sessuali sono già costati alla Chiesa cattolica Usa 1,5 miliardi di dollari, che, comunque, non intaccheranno le finanze vaticane e, tantomeno, il contributo dell´8 per mille dell´imponibile Irpef della Chiesa italiana.

Corriere della Sera 16.7.07
Le diocesi americane sotto accusa
Steven, Mary e gli altri 10.665 violentati Mezzo secolo di abusi. Il ruolo del cardinale Mahony: sacerdoti trasferiti hanno commesso ancora reati
di Ennio Caretto


WASHINGTON — Steven Sanchez ha 47 anni, è scapolo, fa il consulente finanziario. Da bambino, fu una delle 508 vittime dei preti pedofili di Los Angeles. Come le altre, riceverà 1 milione e 300 mila dollari di risarcimento danni dall'arcidiocesi. Gli hanno chiesto a che cosa gli serviranno i soldi: «Niente — ha risposto — nessun assegno ti può restituire l'innocenza dell'infanzia ».
Mary Ferrell è più anziana, ha 59 anni, è madre e nonna, fu abusata sessualmente dal parroco quando ne aveva 9. «Ho atteso mezzo secolo perché venisse fatta giustizia», ha dichiarato. «Ho vissuto una vita di tormenti, alcool, droga, e a questo la Chiesa non può porre riparo».
Mary Grant ebbe esperienze analoghe, ma esprime un giudizio diverso sull'accordo con l'arcidiocesi: «È una liberazione amara dalla prigione del passato: ci consente di curare le turbe psichiche di chi ancora ne soffre».
Sono testimonianze che illustrano le tragedie personali di uno scandalo orribile, esploso nel 2000, su cui si incominciò a fare luce solo due anni dopo, alla formazione di una Commissione della Conferenza episcopale. Il caso di Los Angeles è il più clamoroso, l'arcidiocesi aveva già pagato 114 milioni di dollari ad altre vittime: sommati ai 660 milioni concordati l'altro ieri fanno 774 milioni, un triste primato. Ma il caso è uno dei tanti delle diocesi americane, dove in 50 anni centinaia di sacerdoti si sono macchiati di colpe infami nei confronti di migliaia di innocenti. La diocesi di Boston ha risarcito 157 milioni di dollari alle vittime, quella di Portland 129 milioni, quella della contea di Orange in California 100 milioni e quella di Covington nel Kentucky 85 milioni. Nei calcoli del New York Times sono complessivamente oltre 1 miliardo e mezzo di dollari, una cifra enorme, ma destinata ad aumentare: il Vaticano, precisa il giornale, non contribuisce ad alcun risarcimento.
È uno dei capitoli più neri della storia della Chiesa cattolica. A Los Angeles, la svolta avviene nel 2003, quando il Parlamento della California approva una legge che permette ai violentati il ricorso in tribunale sebbene il reato sia prescritto. Dall'altro lato dell'America, Boston è in fiamme: un prete pedofilo condannato all'ergastolo sarà ucciso in carcere da un detenuto; il cardinale Bernard Law, un amico di Papa Giovanni Paolo II, si dovrà dimettere per non avere denunciato né punito i sacerdoti colpevoli, ma averli soltanto spostati da una parrocchia all'altra. In California, si fanno avanti le prime vittime.
Come Law, il cardinale Roger Mahony è costretto al mea culpa, ma si rifiuta di aprire i dossier. Svolge un'inchiesta interna e caccia 17 preti. Al pubblico non basta.
Racconta il Los Angeles Times che emergono retroscena inquietanti. Il più grave riguarda un sacerdote, Michael Baker, che anni prima ha ammesso di avere molestato alcuni bambini. Il cardinale lo ha trasferito nel Nuovo Messico, dove il sacerdote ha commesso altri 23 reati. Anne Burke, un ex membro della Commissione istituita dai vescovi, vi vede un momento decisivo. Mahony, riferisce, ha appena saputo di un fatto analogo, antecedente al suo arrivo a Los Angeles nell'85: per ben due decenni, un altro prete, Clinton Hagenbach, aveva impunemente compiuto abusi. L'atteggiamento del cardinale cambia, e l'arcidiocesi non fa più sconti ai preti pedofili. Quando la Procura di Los Angeles elenca 221 nomi di sacerdoti che hanno violentato 570 ragazzi e ragazze, gli avvocati incominciano a dibattere se evitare i processi non sia nell'interesse di tutti.
Qualche anno fa, la Chiesa cattolica americana ha fatto un penoso esame di coscienza. Ha interrogato le sue 202 diocesi ricevendo risposta da 195. Ne ha tratto il seguente quadro. Dal 1950 al 2002 inclusi, circa 4 mila religiosi, il 4% del totale, vennero accusati di molestie sessuali, in genere a danno dei bambini. Il 75% delle accuse fu presentato dal 1960 al 1984, dopo diminuirono nettamente. Ne furono oggetto i preti più anziani, ordinati prima del 1979, il 68% dei casi: di quelli ordinati più tardi venne accusato l'11%. Stando al rapporto, la quasi totalità delle diocesi ne restò colpita, il 95%, e oltre la metà delle comunità religiose, il 60%. Dei sacerdoti denunciati, il 29% fu sospeso, il 29% punito con altri provvedimenti, uno su dieci scagionato.
A quante ammontarono le vittime vere o presunte? Il rapporto parlò di 10.667 persone tra minori e adulti, ma la cifra venne ritenuta bassa. Da allora, le polemiche non si sono assopite, anzi si sono estese alle altre chiese americane, dove ebbero luogo drammi assai simili, sembra peraltro su scala minore. E hanno finito per investire la società americana, dove la lotta contro la pedofilia si sta facendo spietata.

Repubblica 16.7.07
In quei vasi la storia della tutela in Italia
di Salvatore Settis


Un catalogo di reperti attici racconta come circolavano le opere d´arte. E serve di monito Il quesito non è affatto nuovo. Fu già posto dopo l´Unità. E rimanda a una delle principali ricchezze del nostro paese Il dilemma è: perché una collezione etrusca finisce a Palermo e una di ceramiche provenienti da Ruvo di Puglia va a Milano?

A Siena è tornata in mostra la collezione Casuccini di antichità etrusche (venduta al Museo Nazionale di Palermo nel 1865), a Milano Electa pubblica, a cura di Gemma Sena Chiesa e Fabrizio Slavazzi, tre bellissimi volumi di catalogo delle Ceramiche attiche e magnogreche della Collezione Banca Intesa. Due eventi simultanei e senza apparente relazione tra loro, ma che pongono lo stesso problema: è saggio e giusto che una collezione etrusca finisca a Palermo, che una collezione di ceramiche provenienti da Ruvo di Puglia stia di casa a Vicenza o a Milano? Mentre si discute tanto delle possibili restituzioni di oggetti archeologici dai musei stranieri che li hanno illecitamente acquistati, come si giustificano queste migrazioni, anche se interne al nostro territorio nazionale?
Questa domanda non è nuova. Subito dopo l´unità d´Italia, un vivace dibattito si svolse fra Gian Carlo Conestabile della Staffa (professore di archeologia a Perugia) e Giuseppe Fiorelli (soprintendente agli scavi di Pompei e poi direttore generale alle Antichità e Belle Arti). Conestabile proponeva «lo scambio di originali e il passaggio dei duplicati» da un museo all´altro in tutto il Paese, «allo scopo di fornire alla cultura di popolazioni che ne sono lontane una idea reale degli usi dell´arte e dell´industria» delle città antiche (in particolare Pompei). Fiorelli ribatteva con sdegno che le collezioni archeologiche devono restare integre dove furon trovate: «Sarebbe oggi biasimevole acquistare pel Museo Nazionale di Napoli le iscrizioni del Lazio e pel Museo Nazionale di Palermo gli oggetti etruschi, come con funesto esempio fu fatto non è molto, allorché coi fondi dello Stato fu comperata pel primo museo della Sicilia la raccolta Casuccini di Chiusi». Insomma, come ha scritto Maria Luisa Catoni, si dibatteva allora sulla funzione del museo nella nuova Italia, se dovesse essere «scuola» (e cioè con funzioni pedagogiche) o «custodia», e cioè puntato alla tutela territoriale.
La storia e la sorte delle collezioni oggi di Banca Intesa vanno viste su questo sfondo. Il nucleo essenziale dei più che 500 oggetti che questi volumi inquadrano e catalogano al meglio viene da Ruvo di Puglia, le cui ricchissime necropoli alimentarono nell´Ottocento varie collezioni private. La più celebre è rimasta a Ruvo, nel palazzo appositamente costruito dalla famiglia Jatta, ed è stata acquistata dallo Stato nel 1991, mantenendo l´allestimento ottocentesco. Un´altra collezione ruvese, Lagioia (frutto di eredità della linea femminile degli Jatta), è approdata a Milano per acquisto della regione Lombardia ed è esposta nelle raccolte archeologiche della città di Milano.
La collezione Caputi (ora Banca Intesa) è però la più compatta fra tutte, perché proviene non solo da Ruvo, ma da un´area limitata delle necropoli, in cui prima l´arcidiacono Giuseppe Caputi poi uno dei suoi eredi, Francesco, scavarono fra il 1830 e il 1870 circa: la sua provenienza da un´area sepolcrale delimitata, forse frequentata da pochi gruppi familiari connessi tra loro, ne accresce enormemente l´interesse. Pubblicati 130 anni dopo il rarissimo primo catalogo della collezione, I vasi italo-greci del signor Caputi di Ruvo, descritti, dichiarati e nella miglior parte ancora inediti (Napoli 1877), di cui era autore Giovanni Jatta jr., questi volumi contengono anche le poche ma significative aggiunte dell´ultimo proprietario privato, l´ing. Giovanni Torno: la collezione infatti era già migrata da Ruvo a Roma a Milano, sempre restando in mani private, mentre il programma di esposizioni e iniziative annunciato da Giovanni Bazoli ne fa presagire una conoscenza e circolazione assai vasta: un´anticipazione se ne è vista nella bella mostra "Miti Greci" al Palazzo Reale di Milano (2004).
Per più di mille anni, antichità d´ogni sorta rimasero inerti e inosservate fra le rovine: dai marmi si cavava calce, i bronzi venivano fusi per farne armi, utensili, monete. Solo di rado qualche statua, qualche capitello, qualche sarcofago venne raccolto con cura e riusato in una chiesa, incastrato ed esibito sul suo paramento esterno; e molto più tardi, a partire dal Quattrocento, vennero in uso forme embrionali di collezione, pochi pezzi scelti un po´ a caso ed esposti (secondo le modalità medievali sperimentate nelle chiese) sul muro esterno di case e palazzi.
Quando, più tardi, si venne cercando e definendo uno spazio deputato per le collezioni di antichità, gli oggetti più grandi e prestigiosi (tipicamente, sculture di marmo) furono disposti in giardini, portici, e più tardi gallerie. In nessuno di questi luoghi i vasi di ceramica (il cui collezionismo, come si vede dal bel saggio di Slavazzi nel I volume, è più recente di quello di sculture antiche) potevano trovare collocazione appropriata. Essi appartennero sin dall´inizio a un altro e diverso spazio collezionistico, quello dello «studiolo», dove umanisti e vescovi e principi solevano raccogliersi in lettura e riflessione, circondati da libri, monete, medaglie, bronzetti, qualche gemma e qualche vaso. Ne vediamo un riflesso nel Sant´Agostino del Carpaccio a Venezia, dove pochi vasi antichi si allineano con alcuni bronzetti su una mensola dello studio del Santo (rappresentato come un umanista di rango): proprio come, sappiamo da Ulisse Aldrovandi, erano disposti i vasi antichi della collezione del cardinale Rodolfo Pio da Carpi a metà Cinquecento.
Le collezioni di vasi da Ruvo nel primo Ottocento sono eredi di questa tradizione, ma risentono anche della gran voga per le antichità che percorse come una febbre tutto il Regno di Napoli dopo gli scavi di Ercolano e Pompei principiati da Carlo III nel 1738. Fu dalla messe innumerevole di quelle scoperte che nacque nelle province del Regno un intenso commercio di antichità, subito ricercate per ogni dove; e fu per questo che lo stesso Re, a partire dal 1755, emanò bandi severissimi, che vietavano in particolare «l´estrazione dal Regno», cioè l´esportazione, di qualsiasi antichità. Insomma, proprio come nella Roma pontificia, le norme di tutela nacquero come reazione a un mercato indiscriminato. Le norme borboniche e quelle papali furono, fra Sette e Ottocento, le più avanzate del mondo (e sono all´origine della gloriosa tradizione italiana della tutela), ma farle rispettare alla lettera non era possibile, in mancanza di strutture e di comunicazioni adeguate, e quasi senza musei pubblici dove conservare i reperti. Perciò le collezioni private ebbero spesso una funzione positiva, mantenendo uniti oggetti altrimenti destinati alla dispersione: e la collezione Caputi ora approdata a Banca Intesa è esempio particolarmente chiaro.
Rinascesse oggi, Giuseppe Fiorelli vorrebbe forse riportare a Ruvo l´intera collezione; e senza dubbio il suo argomentare appassionato in favore di una tutela contestuale e territoriale ha più che mai tutto il suo peso. Ma anche le ragioni di Conestabile meritano cittadinanza in un mondo tanto cambiato, in cui la continua circolazione degli oggetti d´archeologia e d´arte ha preso la forma della mostra, con intenti didascalici non poi tanto diversi da quelli che egli aveva in mente. Il principio della priorità del contesto d´origine resta ovviamente inattaccabile: e tuttavia incontrare gli Etruschi a Palermo e gli Apuli a Milano ha assunto oggi un significato particolare, in linea con le preoccupazioni «pedagogiche» di Conestabile. Serve a richiamare una delle maggiori ricchezze d´Italia, le radici multietniche e multiculturali che dai Greci ai Longobardi, dagli Etruschi ai Celti, dai Fenici ai Veneti, fanno la trama della nostra storia. Serve a ricordarci che l´Italia è una, che la «tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione» prescritta dall´art. 9 della Costituzione dev´essere la stessa dalle Alpi a Lampedusa; che, in presenza di sciatti tentativi di svuotare la Costituzione di ogni significato rivendicando alle singole regioni le funzioni di tutela, è imperativo mantenere identico il livello della tutela in ogni angolo del Paese, e non frammentarne le norme in venti sottosistemi regionali. Il canonico Caputi non pensava certo a questo, quando raccoglieva antichi vasi nelle sue proprietà di Ruvo. Ma se, circolando grazie a Banca Intesa, i suoi vasi sapranno trasmettere un forte messaggio di pluralità e di unità della tradizione italiana, dovremo essergliene grati.

l'Unità 16.7.07
Da «Science»: Individuata l’area cerebrale dell’«oblio»
I brutti ricordi cancellabili senza farmaci


I brutti ricordi si possono cancellare senza fare ricorso ai farmaci. Esiste un’area del cervello, la corteccia prefrontale, che è capace di sopprimere i pensieri sgradevoli. Esercitando questa zona, potremmo sgombrare la mente dalle emozioni negative che ci perseguitano. A scoprire l’area e il meccanismo cerebrale alla base di questo processo di inibizione della memoria è stato un gruppo di ricercatori dell’Università di Colorado, a Boulder. La ricerca, pubblicata su Science, ha implicazioni rilevanti per il trattamento di vari disturbi psichiatrici, come la sindrome da stress post traumatico, la sindrome ossessivo-compulsiva, ma anche ansia, depressione e fobie. I ricercatori hanno osservato la soppressione della memoria attraverso una risonanza magnetica funzionale del cervello su alcuni soggetti.

il Riformista 16.7.07
A proposito del pd e di un centrosinistra «di nuovo conio»
Ai Coraggiosi manca una cosa: il coraggio


Ci sono molte cose ragionevoli e sensate, e altre assai meno convincenti, nel cosiddetto Manifesto dei Coraggiosi. Varrà la pena di discuterne a fondo. Ma, prima di entrare nel merito, è il caso di soffermarsi un po’ sul metodo. Che, è il caso di dirlo apertamente, non ci convince proprio. Nemmeno un po’.
Primo firmatario del manifesto - nella sua qualità, leggiamo, di «vicepresidente del Consiglio» - è, come è noto Francesco Rutelli. Niente di male, si dirà. E niente di male diciamo anche noi, ci mancherebbe. Se non fosse che il documento - un documento di pieno appoggio, vogliamo ricordarlo, alla candidatura di Walter Veltroni alla guida del Partito democratico - richiama apertamente la possibilità, di un cambio di maggioranza. Se Rifondazione comunista e la sinistra radicale in genere continueranno a comportarsi male, il Pd, in un futuro imprecisato, ma che dobbiamo ritenere prossimo, «dovrà proporre un’alleanza di centrosinistra di nuovo conio, per non riconsegnare l’Italia alle destre ma soprattutto per non essere imprigionato dal minoritarismo e dal conservatorismo di sinistra né dalla paralisi delle decisioni». Si tratta, ovviamente, di una tesi legittima. Magari anche condivisibile. E però vale la pena di ricordare, proprio noi che mai siamo stati apologeti e guardiani del bipolarismo, che le elezioni politiche sono state (quasi) vinte da una coalizione di cui Rifondazione comunista (non era così nel ’98) fa parte a pienissimo titolo, avendone sottoscritto il programma. Romano Prodi si è presentato agli elettori, e poi ha guidato il governo, come capo di questa coalizione, raffigurata alla stregua di un’inedita sintesi tra moderati, riformisti e (ci perdoni Marco Pannella) radicali. Di questo governo, espressione di questa sintesi, Rutelli non è un compagno di strada, ma uno dei vicepremier. Se, sulla base dell’esperienza, reputa che il governo, e la sintesi, non abbiano funzionato (e sarebbe difficile dargli torto), piuttosto che parlare del «centrosinistra di nuovo conio» a mo’ di avvertimento a Prodi e alla sinistra radicale, dovrebbe dirlo apertamente. Traendone, si capisce, le conseguenze, prima tra tutte l’annuncio delle dimissioni dalla carica. E assumendosi in prima persona la responsabilità politica di una crisi di governo (gliene sarebbero grati in tanti…) per ricercare già oggi, in questo Parlamento, le nuove e diverse alleanze necessarie a far prendere il largo, domani, al nuovo e diverso centrosinistra di cui parla.
Ma Rutelli, si sa, ha preferito prendere un’altra strada. Quella, appunto, di prospettare il suo «centrosinistra di nuovo conio» in un Manifesto, in cui, assieme ad altri Coraggiosi, invece di candidarsi alla guida del Pd, motiva i perché e i percome del suo appoggio a Walter Veltroni, quasi ad ipotecarne i passi successivi. Se e quanto Veltroni, al di là del suo primo commento, la pensi come lui non è dato sapere. Si può solo immaginare che, impegnato com’è a cercare un difficilissimo punto di equilibrio tra la sua candidatura e questo governo in stallo, non abbia apprezzato troppo il momento scelto da Rutelli per piazzare il colpo. Ma, sempre che le cose stiano così, questa è tattica. E a chi si candida prima a guidare il Pd, poi a contendere il governo del Paese al centrodestra, si chiede strategia. Mettiamola in modo un po’ brutale. Nel futuro del suo Partito democratico il candidato Veltroni vede ancora Bertinotti o piuttosto Pier Ferdinando Casini? E se indicasse una scelta netta in una direzione o nell’altra ci sarebbero o no altre candidature? Si capisce che questo non è, per Veltroni, il momento più indicato per sciogliere un enigma dalla cui soluzione derivano, in larga misura, identità e prospettive del partito prossimo venturo e del sistema politico nel suo complesso. Ma è doveroso chiedergli, perché nessuno, neanche lui, ha diritto a deleghe in bianco, e tutti, anche lui, hanno il dovere di misurare il proprio consenso sulla base di indicazioni chiare, che il momento adatto alla bisogna lo trovi al più presto.