giovedì 19 luglio 2007

il Riformista 19.7.07
Germania a sinistra, ma la Spd è nei guai
di Paolo Soldini


Ai socialdemocratici tedeschi l’ultimo sondaggio di opinione, condotto dalla Allensbach, il più serio istituto demoscopico della Germania, ha portato due notizie. Una è buona e l’altra è cattiva, ma non fanno un pareggio: quella cattiva, infatti, è tanto cattiva da mandare in malora anche quella buona.
Vediamo un po’. La notizia buona è che il più autorevole oracolo politico della Repubblica federale registra l’esistenza di una maggioranza assoluta (in voti e non solo in seggi) per la sinistra. I tre partiti che la compongono (la Spd, i Verdi e la Linke), se si votasse oggi otterrebbero il 50,5% dei voti. La Germania, in assoluta controtendenza rispetto agli altri paesi europei, si sbilancia a sinistra, dando postuma soddisfazione a un celebre, e mai verificato, postulato di Willy Brandt, secondo il quale, già all’inizio degli anni ’80, esisteva una strutturale «maggioranza a sinistra del centro». Fine della notizia buona.
La notizia cattiva, anzi pessima per il partito che fu di Brandt e ora è dello scialbo Kurt Beck, sta nel come è composta quella ipotetica maggioranza del 50,5%. E cioè: solo un 28,3% dai consensi della Spd, ovvero la bellezza di quasi 6 punti percentuali in meno del 34.2% che fu il risultato elettorale (vero) del 18 settembre 2005; un 9,7% dai voti potenziali per i Verdi (rispetto all’8,1 delle elezioni) e un quasi incredibile 12,5% della Linke (che aveva avuto nel 2005 un già sorprendente 8,7). Insomma: la grande rimonta ha un nome e cognome, anzi due nomi e due cognomi: Oskar Lafontaine e Lothar Bisky, mentre sul nome del presidente Spd si abbatte pure il destino d’una infamante postilla: secondo un altro istituto di sondaggi, il Forsa, se oggi si facesse un referendum tra gli elettori socialdemocratici, Kurt Beck soccomberebbe, in una sfida diretta per la cancelleria, alla cancelliera che c’è già: Angela Merkel. Mai successo, neppure ai tempi della massima popolarità di Helmut Kohl.
Pignoleggiando, si potrebbe sottolineare che anche la buona notizia è buona fino a un certo punto: considerati complessivamente, Spd, Verdi e Linke già nel 2005 raccoglievano la maggioranza assoluta dei consensi elettorali, esattamente il 51% e a ben vedere, quindi, hanno perso mezzo punto. Il fatto è che però a quel tempo in alcun modo i tre potevano essere considerati politicamente accomunabili. Gerhard Schröder, con il pieno assenso degli organismi dirigenti socialdemocratici, aveva escluso ogni ipotesi di accordo con la Linke, cosicché chi la votava sapeva bene di scegliere un partito chiaramente (e duramente) in alternativa alla Spd. E viceversa. Ora invece non è più così. Il non possumus vacilla da tutte e due le parti e più si acuiscono i contrasti nella grosse Koalition più tra i socialdemocratici crescono le tentazioni per una piccola Linkenkoalition colorata di rosa, di rosso e di verde.
La circostanza rischia di aprire una querelle pericolosissima nella Spd, che attraversa, già di per sé, una fase molto delicata su più fronti. È alle prese con la discussione del suo nuovo Programma fondamentale; ha un gruppo dirigente che non è mai stato tanto debole; ha difficoltà sempre più grosse a far valere le sue idee di riforma del welfare nell’alleanza con una Cdu-Csu ben altrimenti orientata; sta perdendo il contatto con ceti e zone del paese (soprattutto le nuove professioni nelle grandi città) in cui era tradizionalmente radicata. Una serie di item del sondaggio Allensbach sono, per il partito di Beck, micidiali: alla domanda «Chi difende di più lo Stato sociale?» il 26% dei tedeschi interpellati risponde: «La Linke» e solo il 25% la Spd. Il 29% (contro il 22%) ritiene che la Linke si curi di più della «giustizia sociale»; il 36% (contro solo il 10%) che «proponga misure più adeguate per creare più eguaglianza»; il 44% (contro soltanto il 9%) che si dia da fare «per ridurre il divario tra ricchi e poveri». Insomma, su praticamente tutti i temi sociali la formazione di Lafontaine e Bisky è considerata dall’insieme dell’elettorato tedesco più attrezzata di quella di Beck. E ciò in un contesto, oltretutto, in cui sfuma la diffidenza verso quanto ci potrebbe essere di «veterocomunista» in un partito che, bene o male, raccoglie anche l’eredità della Sed della fu Rdt: il 45% contro il 27% dei tedeschi (il 57% contro il 19% nei Länder dell’est) ritiene che il socialismo sia «una buona idea che è stata applicata male».
D’altronde, queste opinioni trovano un riscontro nel rapporto dei due partiti con i sindacati. Un tempo indiscusso serbatoio di consensi per la Spd, una buona parte delle 8 confederazioni di categoria che compongono la Dgb (6,8 milioni di iscritti), sta emigrando ormai da parecchi mesi verso la Linke, considerata più attenta e più competente sui grandi temi del precariato e della difesa del salario. Particolarmente dolorosa, per i socialdemocratici, è la perdita di egemonia che registrano in diverse federazioni della ver.di, la confederazione dei lavoratori nel settore dei servizi, e nella mitica Ig-Metall.
In queste condizioni, il congresso convocato per novembre allo scopo di approvare il testo del nuovo Programma fondamentale rischia di tramutarsi per la Spd in un drammatico redde rationem sul tema dei rapporti a sinistra. Uno scontro che potrebbe essere reso ancora più lacerante dall’eventualità che, dissoltasi la grosse Koalition, la Germania si trovi già in clima pre-elettorale. Prospettiva nera per Kurt Beck, e non solo per lui. (...)

l’Unità 19.7.07
Intervista a Mussi
«Fermiamo la lotta di classe dei ricchi contro i poveri»
«La minaccia al governo non viene da sinistra»
di Simone Collini


Non c’è un conflitto sulle pensioni tra giovani e vecchi. Fabio Mussi vede invece dispiegarsi oggi in Italia «una lotta di classe»: «Dei ricchi, in forza, contro i poveri». Il ministro per l’Università e la ricerca guarda con preoccupazione alla «fune tirata da settori del centro dello schieramento» sullo scalone. Attenzione a questa «linea oltranzista», dice il leader di Sinistra democratica, attenzione a dipingere come nemici dell’accordo sulla riforma previdenziale i sindacati. «Su una linea così non solo salta il governo ma si alza fino all’incandescenza il conflitto sociale. Questo si vuole?».
Quando l’accordo sulle pensioni sembrava in dirittura d’arrivo è arrivata la mossa di Emma Bonino. Come la giudica ministro Mussi?
«È un episodio di guerra preventiva. Voglio bene alla Bonino, però ha utilizzato una forma stravagante».
Ha detto che rimetteva nelle mani di Prodi il suo incarico chiedendogli di decidere se il suo permanere nel governo è compatibile con la proposta che presenterà ai sindacati.
«Un chiaro tentativo di condizionamento. Non consapevole dell’importanza per il governo, per la sua tenuta e durata, di un accordo con le parti sociali. Il governo non agisce mai sotto dettatura di un altro soggetto. Ma senza concertazione si va alla guerra di tutti contro tutti».
Il dubbio della Bonino è che si siano ascoltate troppo le “posizioni reazionarie della sinistra comunista e sindacale”.
«Madonna santa. Noi partiamo dal programma. Si fa un gran discutere di crisi della politica. Uno dei modi per non aggravarla è fare in modo che tra le parole, gli annunci, le promesse, e i fatti, le azioni, ci sia coerenza. Immagino che quelli che nella Fabbrica del programma di Prodi hanno scritto “abolire lo scalone” sapevano quel che facevano».
Il programma dice però anche che bisogna tenere conto dei cambiamenti demografici.
«Certo. E io aggiungo anche i cambiamenti della struttura del mercato del lavoro, il fatto cioè che i giovani sono sempre più impegnati in lavori atipici, precari, a tempo determinato, discontinuo. Questo pone un problema enorme in relazione all’entrata in vigore del sistema contributivo. Mi sono battuto per la riforma Dini e nel 2012 si supererà il sistema dell’età in quanto si andrà in pensione prendendo in proporzione i contributi versati. Se per i giovani il lavoro continua a essere così precario si crea un problema esplosivo che va affrontato precocemente».
C’è anche chi dice che sarà un problema tenere in ordine i conti dell’Inps se non ci sarà un innalzamento dell’età pensionabile.
«Intanto, nella precedente Finanziaria abbiamo già aumentato il prelievo contributivo sul lavoro dello 0,3%, il che ha dato 800 milioni di euro. E poi oggi c’è un attivo dell’Inps di 3 miliardi e mezzo di euro, con il quale si finanziano i passivi di altre casse previdenziali. Per esempio si finanzia il deficit della cassa previdenziale dei dirigenti d’azienda. Cioè questo è un paese in cui i lavoratori con i loro contributi finanziano le pensioni ai loro capi. E la cosa appare normale».
Tenuto conto di tutto questo?
«Si tratta di lavorare a un onorevole compromesso».
L’ipotesi che circola circa lo scalino di 58 anni più le quote contributi-più-età possono portare a un accordo?
«Se c’è anche la messa in sicurezza dei lavoratori precoci, quelli che hanno 40 anni di contributi, gli usuranti».
E se a un’ipotesi del genere ci fosse oggi l’accordo con le parti sociali?
«Credo che il governo dovrebbe nella sua collegialità sostenerlo. Servirebbe a garantire la sua tenuta».
Nella sua collegialità vuol dire anche dai partiti di sinistra, come il Prc, che nelle passate settimane si sono mostrati scettici?
«La minaccia, nonostante la monumentale costruzione ideologica, non viene da sinistra. Rifondazione comunista ha avuto la tentazione di scavalcare il sindacato. Mi pare che sia rientrata».
Da dove dice che viene la minaccia?
«La fune viene tirata da settori del centro dello schieramento. Settori del costituendo Partito democratico e dintorni. È da lì che sono venute le più esplicite minacce, compresa quella di aprire una crisi di governo. E questo su una linea oltranzista: i nemici sono i lavoratori e i sindacati, non vogliono fare l’accordo, l’unica cosa che conta è il dato economico. Su una linea così non solo salta il governo ma si alza fino all’incandescenza il conflitto sociale. Questo si vuole?».
Importanti giornali soffiano sulla crisi di governo, quello di Confindustria suggerisce a determinati ministri di dimettersi.
«È la prima volta che il Sole 24 Ore fa degli articoli in cui auspica una crisi di governo. Non gliel’ho mai visto fare. Quando l’esecutivo era presieduto da uno degli associati di Confindustria, di nome Silvio, con il debito pubblico in ripresa, il deficit sopra le soglie del Patto di stabilità europeo, la crescita zero, non è stata chiesta la crisi di governo».
Questo per dire cosa?
«Voglio fare un appello per fermare la lotta di classe. La lotta di classe in forza dei ricchi contro i poveri».
Più che altro oggi si parla di un conflitto di generazioni.
«Sì, una volta c’erano le dispute tra gli antichi e i moderni, ora c’è la disputa giovani-vecchi. Rutelli ha persino invocato la protesta dei giovani contro i sindacati, poi ci ha provato Giachetti e hanno partecipato in venti».
La teoria non la convince?
«L’atto più ostile della società attuale contro i giovani si chiama precarietà. Sono state approvate leggi che hanno enormemente moltiplicato la condizione precaria dei giovani. E anzi ormai non si può dire neanche più dire che il fenomeno riguardi solo loro, perché la vita precaria continua in età matura, con redditi e stipendi da fame. Io guardo al mio settore, a chi si occupa di ricerca scientifica: un dottorando riceve 800 euro al mese, un assegnista di ricerca 1100, un ricercatore 1200. Questo è un clamoroso oltraggio sociale al principio del merito, che è l’ospite d’onore in tutti i convegni della domenica. Se interessa una politica che disarmi l’eventuale guerra tra anziani e giovani dobbiamo prendere di petto la questione del precariato. Per esempio le norme sul lavoro a tempo determinato. Non si può importare in Italia una delle regole d’oro della globalizzazione: pagare il lavoro a prezzi orientali, vendere le merci a prezzi occidentali».
Che ne pensa del manifesto di Rutelli e del centrosinistra di “nuovo conio”?
«Intanto, non si può non notare che il documento di Rutelli comincia con un attacco al governo. Poi presenta uno schema programmatico piuttosto distante dal programma dell’Unione. E alla fine appare l’espressione alleanze di nuovo conio. Confesso di non capire cosa voglia dire. Perché se l’intenzione è quella di scaricare la sinistra dello schieramento, per sostituirla e fare maggioranza non basta l’Udc. Bisogna andare più in là. Molto più in là».
E delle primarie per il Partito democratico?
«Ho fatto gli auguri a Veltroni, alla Bindi, li faccio a tutti gli altri. Con la pluralità dei candidati si è evitato il plebiscito. Però con questo sistema elettorale di liste che si collegano non è facile evitare una rete feudale. E poi mi sembra una bizzarria un partito che nasce con le primarie, che sono uno strumento per selezionare i candidati per le cariche pubbliche».
Il suo giudizio sul Pd rimane negativo anche dopo la discesa in campo di Veltroni?
«Li ha salvati dal naufragio, ma per quanto mi riguarda non cambia nulla. Anzi, ci sono cose che continuano a sorprendermi».
Per esempio?
«Che alle ultime uscite di Papa Ratzinger, la riabilitazione della preghiera per la conversione degli ebrei e l’affermazione che l’unica vera Chiesa è quella cattolica apostolica romana, ci sia stato un tale silenzio da parte della cultura cattolico democratica. Il Pd si è fatto per fondere la cultura riformista di matrice socialista con quella di matrice cattolica. Ma se il cattolicesimo democratico è silente di fronte a una spinta reazionaria di questa portata, che partito è quello che nasce? Non vorrei dover rimpiangere la Dc».
Non è che sia tanto positiva la situazione a sinistra. L’obiettivo di unificare ciò che oggi è diviso appare alquanto lontano.
«Certo, comporta un processo, anche una lotta politica, perché bisogna che tutti i reparti dei vari eserciti escano dalle trincee, bisogna che tutti si rimettano in discussione e che si guardi alla sinistra che verrà, non semplicemente a quella che è stata».
È quello che sostiene Bertinotti in un articolo della rivista “Alternative del socialismo”.
«È un articolo a doppio taglio. Non condivido il giudizio liquidatorio sulla socialdemocrazia in Europa. Ne avessimo ora, oltre che di Enrico Berlinguer, di Olof Palme e Willy Brandt. Poi non condivido che ci siano due sinistre, una riformista e una di alternativa. Dopodiché si entra nella parte interessante del suo discorso, che è quella che chiama del socialismo del XXI secolo. Lì si può lavorare. Sapendo che non sarà un rapporto bilaterale Prc-Sd, perché in questo campo della sinistra ci sono forze politiche - spero compreso lo Sdi, che ha fatto una scelta infeconda con l’idea di rimettere insieme i pezzi di una diaspora socialista di 15 anni fa con il nome Psi - ma poi c’è anche un pezzo d’Italia che oggi non è rappresentato politicamente e che è in attesa della buona novella».

l’Unità 19.7.07
Clamoroso, Aga Rossi e Zaslavski riabilitano Togliatti e salvano Enrico Berlinguer


E alla fine tornando su «Togliatti e Stalin» i due storici ammettono il ruolo moderato e «responsabile» di Ercoli e riconoscono persino una sua autonomia politica

Se non è proprio una riabilitazione di Togliatti, poco ci manca. E a guardar bene è notevole la revisione a cui alfine sono approdati gli storici Elena Aga Rossi e Victor Zaslavski, «coppia terribile» antitogliattiana, che in questi anni s’è sgolata a sostenere che Ercoli era uno stalinista e basta. Che non aveva nessuna autonomia da Mosca. Che la svolta di Salerno del 1944 fu inventata e imposta da Stalin al segretario del Pci. E che il Pci dopotutto non fu che un partito staliniano mascherato e nient’altro, lungo l’intero dopoguerra.
Ora invece, dopo la pubblicazione della seconda edizione del loro Togliatti e Stalin (Il Mulino, 1997, 2007) il quadro interpretativo dei due autori sembra mutato. E incrinato dalle tante obiezioni incassate. Perché da un lato fa capolino in essi l’idea di una Svolta di Salerno non proprio imposta da Stalin a Togliatti, ma semmai «autorizzata e avallata» dal primo. Dall’altro si fa strada un giudizio su Togliatti come «stalinista moderato», che teneva a freno gli «ortodossi» radicali alla Secchia. E infine c’è persino un apprezzamento su Berlinguer, «figura tragica» e teorico di una «terza via inaccetabile per Mosca», in quanto «equivaleva a una sconfitta nella storica lotta ingaggiata contro la socialdemocrazia» (dal movimento comunista).
Sono tutti elementi ricavabili da due interviste, a Mirella Serri e Nello Ajello, rilasciate sulla Stampa e su Repubblica, da Zaslavski e da Zaslavski e Aga Rossi. La prima il 10 luglio, l’altra di ieri, 18 luglio. Interviste che costituiscono anche una sorta di «autointerpretazione» e di autorecensione della nuova edizione del Togliatti e Stalin. Certo non mancano al solito oltranze e toni da guerra fredda retrospettiva. Come quando Zaslavski su Repubblica vitupera che il Pci «mediasse» dall’Italia le scelte del personale diplomatico italiano a Mosca, per sondarne il gradimento: conventio ad exludendum giusta, verso un «partito che intratteneva un simile legame verso una potenza straniera» (sic). Il che, se a volte è avvenuto, rientra semmai in una logica che tendeva a travalicare la guerra fredda e la guerra dei mondi «tout court», esplicando un effetto positivo per l’Italia e il suo ruolo, nonché per l’influsso del Pci sul quel mondo (che vi fu e che il Pci non usò sempre fino in fondo).
Poi, imprecisioni e incoerenze, da riflesso condizionato. Come quando, sempre Zaslavski, rievoca la vicenda della lotta armata in Grecia nel 1947. Che Stalin appoggiò all’inizio, ma che proprio Stalin non voleva, come lo stesso Zaslavski in altre occasioni ha dimostrato, quando ha raccontato che erano gli Jugoslavi a premere, inseguendo la grande egemonia balcanica titina. È insensato perciò dire, come fa Zaslavski, che Stalin desistette dal perseguire e applicare la «via jugoslava» anche in Italia solo nel 1948, perché era cominciato lo scisma con Tito. E nondimeno sia i documenti «nuovi» trovati dai due storici, sia le cose che oggi dicono, vanno in direzione opposta rispetto a quanto essi affermavano nel 1997. E cioè che Togliatti non aveva e non ebbe nessuna autonomia. Ad esempio, nel riprendere il tema del colloquio con l’ambasciatore Kostylev del 23 marzo 1948 alla viglia del 18 aprile, si riconosce che Togliatti poneva il quesito su un eventuale insurrezione in chiave difensiva. E contro una Dc volta ad annullare un risultato elettorale sfavorevole. E si ammette che tale quesito era posto cautelativamente, al fine di sentirsi dire: «per carità non muovetevi». E anche il colloquio con Stalin, del 26 dicembre 1949, trovato dai due storici lavorando alla nuova edizione del libro (documento non del tutto inedito) viene letto in questa chiave. Ercoli dice: «Si può forzare?». E Stalin di rimando: «Difficile avere grandi scioperi economici quando vi sono tali condizioni per la classe operaia, si possono avere politici». Laddove è da notare che il contesto era quello della ripresa delle lotte operaie e contadine dopo il 18 aprile. Che non erano in ballo bivii decisivi, al più avanzamenti politici. E che sia Stalin che Togliatti non ipotizzavano alternative di guerra civile. Cosa del resto che lo stesso Zaslavski è costretto a riconoscere, anche stavolta: «Togliatti temeva che una guerra civile avrebbe inevitabilmente aperto le porte a una nuova guerra mondiale». (La Stampa). Ma è sulla svolta di Salerno che i due autori rivelano imbarazzo e fanno marcia indietro. Seppur confondendo le carte. Infatti prima parlano della loro versione «nettamente negativa» sull’originalità togliattiana, quella rifiutata ieri da tanti storici. Poi però si limitano a evocare «l’impossibilità per quei tempi per un partito comunista di assumere una decisione di simile portata»: riconoscimento della monarchia e partecipazione al governo borghese senza consenso e avallo di Stalin.
Ma è proprio qui l’equivoco voluto! Perché nessuno mai ha affermato la «sovranità» di Togliatti o negato l’ autorizzazione di Stalin. E il punto è un altro: Togliatti lanciò per primo l’idea via radio nel settembre 1943. E la sostenne sempre, malgrado arretramenti tattici. Anche quando l’Urss alzava la posta geopolitica in Italia e gli antifascisti recalcitravano. Infine Stalin giunse alle stesse conclusioni di Togliatti. E fu Svolta di Salerno. Copyright di Togliatti.

l’Unità 19.7.07
A Palazzo Venezia il mistero del bambino di Pinturicchio
In mostra il «Bambin Gesù delle mani» frammento della pittura
che ritraeva Papa Alessandro VI e la sua amante Giulia Farnese
di Adele Cambria


È RIAPPARSO - ed è esposto da oggi e fino al 9 settembre a Palazzo Venezia - il «Bambin Gesù delle mani» del Pinturicchio: che é il frammento, ovviamente prezioso, di una misteriosa pittura murale, «narrata» via via attraverso cinque secoli in termini che oggi diremmo «scandalistici». Infatti il primo a parlarne fu Giorgio Vasari: nelle sue celebri «Vite» candidamente scrive che il Pinturicchio, decorando gli Appartamenti Borgia in Vaticano, per commissione del Papa Alessandro VI, «ritrasse sopra la porta di una camera la signora Giulia Farnese per il volto di una Nostra Donna, e, nel medesimo quadro la testa d'esso Papa, Alessandro, che l'adora. «Traduco: il pittore umbro - il suo vero nome era Bernardino di Betto - aveva dipinto, sulla sovrapporta di quella camera degli Appartamenti Borgia, successivamente individuata come la camera da letto del Papa - «una gran camera… tutta dipinta e dorata…» - la signora Giulia Farnese: raffigurandola come una Madonna col Bambin Gesù in grembo. Ai suoi piedi, il Papa Alessandro VI.
Avverto subito che l'opera in mostra da oggi a Palazzo Venezia è soltanto il Bambino. Ma perché lo chiamano «Il Bambin Gesù delle mani»? Semplicemente perché della Madonna, in questo frammento murale, sono rimaste soltanto le agili e piccole mani che sfiorano il ventre e il fianco sinistro del figlio: mentre un'altra mano, maschile, questa, ma ben curata, racchiude delicatamente, come in una conchiglia, il piedino del bimbo.
Era la mano del Pontefice «splendido e dissoluto» (così lo definirà Maria Bellonci), amante di Giulia Farnese, come recita una tradizione ininterrotta? E lei, Giulia, dov'è? Cerco di ricostruire l'affascinante giallo con l'aiuto del Professore Franco Ivan Nucciarelli: lo storico dell'arte che ha presentato la Mostra, ieri mattina a Palazzo Vanezia, insieme al Soprintendente Claudio Strinati. A Nucciarelli, docente dell'Università di Perugia, si deve la "visibilità", finalmente, del molto chiacchierato ma assai poco visto, finora, «Bambin Gesù delle mani». Ma è anche, il Professore, un brillante interprete dei costumi pontifici dell'epoca, con una speciale attenzione alla spregiudicata "libertà" di cui si appropriavano certe protagoniste femminili della società romana. Mi racconta che in un palazzo di Santa Maria in Portico, adiacente a San Pietro, provvisto, sembra, di un passaggio segreto che conduceva agli Appartamenti Borgia, vivevano tutt'e tre insieme, e in perfetta armonia, le tre donne di Alessandro VI: Vannozza, Giulia e la figlia Lucrezia. Da Vannozza Catanei, il Papa aveva avuto quattro figli; Giulia Farnese era sposata con Orsino Orsini, che non si opponeva - se non con richieste (al Pontefice) di sonante oro e vigne e ville - all'abbandono del tetto coniugale da parte della moglie; ed anche la giovanissima Lucrezia, «amata dal padre di un amore che dava le vertigini al suo tepido promesso sposo» (Maria Bellonci, «Lucrezia Borgia») abitava in quello speciale convento.
Ma torniamo al «Gesù Bambino delle mani». La grande scoperta che si trattasse della pittura descritta dal Vasari (e da altri testimoni, tra i quali un divertito François Rabelais) arriva nel 1940. Quando Giovanni Incisa della Rocchetta, appassionato studioso d'arte e che ha familiarità con la collezione che appartenne a Papa Alessandro VII (Chigi) - perché sua madre è la principessa Eleonora Chigi Della Rovere - va a casa di una nobile signora mantovana. Che mostra, a lui e alla madre, un dipinto di cui ignora l'autore. «Appena vidi il quadro - racconterà Giovanni Incisa della Rocchetta in uno scritto ignorato fino al 2004 dagli addetti ai lavori - ne riconobbi la grandissima importanza». Era, in effetti, la copia, su tela, dell'opera del Pinturicchio che Francesco IV Gonzaga, duca di Mantova, aveva commissionato al pittore Facchetti per avere una prova degli scandalosi comportamenti di Alessandro VI. A questo punto, Giovanni Incisa della Rocchetta individua l'origine «dei due frammenti che nel 1912 Corrado Ricci vide e citò a Palazzo Chigi a Roma». E li descrive con precisione: «Un frammento contiene la testa della Madonna e l'altro contiene il Bambino Gesù, seduto su un cuscino ma sorretto ai fianchi da due mani, e benedicente una terza figura, della quale si vede ancora la mano sinistra soltanto…».
La mia amica Agnese Incisa della Rocchetta, agente letteraria, mi conferma che alla morte di sua nonna Eleonora Chigi, nel 1963, la sua collezione fu distribuita tra i sei figli. Il «Gesù Bambino delle mani» è stato venduto nei primissimi Anni '80, la Madonna invece è custodita da altri eredi che non intendono venderla.
«Ed il Papa che regge il piedino dov'è finito?», chiedo al Professore. «Alessandro VII avrebbe fatto asportare il massello con la figura di Papa Borgia, conservando però i due frammenti del Bambino e della Madonna…».
«Ma - conclude, e gli brillano gli occhi - chi sa che invece, con un altro miracolo, un giorno non salti fuori anche Papa Borgia…».

Repubblica 19.7.07
Maurizio Zipponi, Prc: il superamento della riforma Maroni è compatibile con le regole della Ue
"Abolire lo scalone è possibile costa 13 miliardi in quarant'anni"
Se l'ipotesi di intesa è quella apparsa sui giornali l'accordo nella maggioranza è ancora lontano
di Roberto Mania


ROMA - «L´abrogazione totale dello scalone introdotto dal governo Berlusconi è del tutto compatibile con l´andamento della spesa previdenziale». Maurizio Zipponi è l´"uomo dei conti" di Rifondazione comunista. A lui, cinquantenne bresciano, ex sindacalista della Fiom, è stato affidato il compito di trattare, più o meno dietro le quinte e in parallelo a Cgil, Cisl e Uil, con i tecnici dei ministeri del Lavoro e del Tesoro. Lo fa senza dimenticare i "suoi" metalmeccanici delle fabbriche bresciane: da loro è partita ieri una lettera al premier Prodi perché «eviti di scavare un solco» con la condizione operaia. «Noi - aggiungo - non possiamo dimetterci». Insomma Rifondazione è tornata di lotta, e in regia c´è anche Zipponi.
Ora non siete più d´accordo con l´ipotesi del governo?
«Se l´ipotesi è quella apparsa sui giornali l´accordo nella maggioranza è ancora lontano».
Qual è la vostra posizione? Non accettate di alzare l´età pensionabile?
«Per noi si può passare da 57 a 58 anni nel 2009 e poi affidarsi al meccanismo degli incentivi per far rimanere le persone al lavoro».
Ma gli incentivi non hanno mai funzionato e sono stati abbandonati anche dal governo.
«Se dopo tre anni non si dovesse raggiungere l´età media europea di pensionamento effettivo, che è 60,7 si farebbe una verifica. Ricordo che in Italia l´età effettiva è già a 60,2 anni. Tutto questo per solo cinque mesi!».
In realtà è il programma dell´Unione a prevedere il superamento dello scalone. E che poi, strada facendo, avete scoperto che costa tanto.
«È vero che sta scritto nel programma, ma non è vero che il superamento non sia compatibile con i vincoli finanziari europei».
Per il ministero dell´Economia il costo è di 65 miliardi. E tutti gli esperti e le organizzazioni internazionali, dall´Fmi all´Ocse, sostengono il contrario di quello che dice lei.
«Ed è un inganno. Guardiamo i numeri. Meglio: le tabelle che il governo precedente ha consegnato a Bruxelles. Ecco, lì c´è scritto che dal 2008 al 2030 attraverso il meccanismo dello scalone si otterranno risparmi pari a 54,5 miliardi. Dal 2030, però, si comincia ad andare in rosso. E nel 2050 si arriverebbe ad un meno 41,5 miliardi. Conclusione: la differenza tra l´attivo e il passivo nell´arco di 42 anni è di 13 miliardi di euro. E, in ogni caso, l´abrogazione dello scalone è già stato pagato dal sistema previdenziale».
Come, scusi?
«Dal 2004 sono successe diverse cose che è meglio non dimenticare. L´ultima Finanziaria ha aumentato dello 0,30 per cento i contributi a carico dei lavoratori dipendenti. Questo vale un miliardo strutturale all´anno. Sono aumentati di quattro punti i contributi dei parasubordinati: 1,2 miliardi l´anno. E ancora: il bilancio dell´Inps è in attivo di oltre due miliardi grazie ai nuovi immigrati e ai lavoratori edili. Per finire dall´accorpamento delle strutture degli enti previdenziali arrivano almeno 800 milioni l´anno. Può bastare o no?».
Resta il fatto che il nostro paese ha il rapporto tra spesa previdenziale e Pil più alto degli altri partner europei, con un invecchiamento della popolazione più marcato. Anche questo non è vero?
«Sì, anche questo non è vero. Siamo in media Ue perché dalla nostra spesa previdenziale va tolto quel punto e mezzo in percentuale di spesa di natura assistenziale. Siamo intorno al 13-13,2 rispetto ad una media europea che si arriva al 13,5 per cento. Questi sono i numeri».

Repubblica 19.7.07
E Prodi in dirittura alza l'asticella
Inaspriti quote e coefficienti. Giordano: "È l'effetto Draghi-Bonino"
di Claudio Tito


ROMA - «Così non c´è l´accordo. Evidentemente il governo ha subito l´allarme di Draghi e la minaccia della Bonino. Ma così non ci stiamo». Ad un passo dall´intesa, Rifondazione comunista tira il freno a mano. Le certezze si incrinano. Il segretario del Prc, Franco Giordano, lancia un ultimatum a Palazzo Chigi. Avverte Romano Prodi che non può cambiare le carte in tavola a poche ore dal probabile incontro con i sindacati. E il Professore risponde: «Nulla ancora è stato deciso. Ma quando avanzerò la mia proposta, non sarà più negoziabile».
Dalle parti di Rifondazione, però, il sospetto ieri è cresciuto a dismisura. Si è trasformato quasi nella certezza che le linee-guida seguite dal premier per ammorbidire lo "scalone" siano repentinamente cambiate. La prima "quota", fissata per il 2010, sarebbe così meno soffice salendo da 95 a 96 e la seconda potrebbe salire a 98. «E se è così - avverte Giordano - noi non ci stiamo». Anche perché tra i partiti della sinistra radicale sta emergendo un convincimento: questo inasprimento è stato determinato dall´audizione in parlamento del Governatore della Banca d´Italia e dalle minacce del ministro pannelliano per il Commercio estero. Per loro, è semplicemente uno slittamento a destra dell´asse della coalizione: «Inaccettabile».
Certo, l´irrigidimento delle ultime ore in parte ha anche una spiegazione tattica. Nessuno vuol correre il rischio di cedere sulla dirittura d´arrivo. Nei contatti proseguiti ieri tra palazzo Chigi e gli alleati, il piano del Professore qualche "ritocco", però, l´ha subito. Anche sui coefficienti di rivalutazione e sulla soglia dei 40 anni di contributi che dovrebbe permettere di andare comunque in pensione. Misure su cui, in effetti, ha insistito negli ultimi giorni il ministro dell´Economia Padoa Schioppa. Per il Tesoro, infatti, la mediazione originaria di Prodi non garantirebbe il «rispetto» dei vincoli economici imposti dall´Ue. Sergio D´Antoni, viceministro allo Sviluppo ed ex segretario della Cisl, ieri ammetteva: «Quota 96 è il minimo. Bisognerebbe anche alzarla un po´». Elementi, appunto, che hanno fatto drizzare le orecchie non solo al Prc e al Pdci, ma anche alla Cgil e alla Uil. Soprattutto l´organizzazione di Epifani non intende discutere una riforma "al ribasso".
Insomma la partita previdenziale sembra complicarsi di nuovo in "zona Cesarini". Tant´è che il premier e il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Enrico Letta, fino a ieri sera non avevano ancora convocato Cgil Cisl e Uil. L´incontro è comunque previsto per oggi e quando la proposta di Prodi sarà pronta saranno invitati "ad horas". Il Professore, però, prima di formalizzare la sua riforma vuole che ci sia almeno un pre-accordo. Anche perché, ha ripetuto in tutti i suoi colloqui, «quando presenterò la proposta, sarà definitiva. Non sarà negoziabile». Ossia non saranno ammesse modifiche e non saranno consentiti emendamenti in Parlamento. «Sarà semplicemente un prendere o lasciare». E nella sua bozza al momento figurano ancora due soluzioni: «quota 95» e «quota 96». Ma per Rifondazione e Cgil il ritorno alla "95" è ormai la condizione irrinunciabile. Un paletto che metterebbe Prodi di fronte all´irritazione dei riformisti (per placarli è stata valutata persino l´idea di accompagnare il piano previdenziale con un documento per lo sviluppo economico. Ma la soluzione è considerata poco credibile persino da Palazzo Chigi). Il caso Bonino, del resto, si è chiuso solo in parte. Marco Pannella ha convocato per oggi la direzione del suo partito e non ha alcuna intenzione di far calare la tensione. Almeno a livello mediatico. E nella Margherita non mancano i distinguo.
Una situazione intricata che ha indotto Prodi a soppesare la possibilità di far slittare di una settimana l´accordo. Un´opzione stoppata dall´ala radicale dell´Unione che vuole chiudere con un testo ufficiale entro domani, al consiglio dei ministri. I mal di pancia dei moderati del centrosinistra, infatti, hanno messo sul chi va là Prc e Pdci. La loro paura è che nel corso del dibattito sul Dpef (al Senato verrà votato mercoledì prossimo, 25 luglio) qualcuno dei centristi possa presentare in aula un ordine del giorno proprio sulla riforma previdenziale. Con numeri e orientamenti più «riformisti». E se venisse approvato - magari con i voti del centrodestra - la sinistra radicale sarebbe costretta ad aprire la crisi.
Un pericolo ben presente anche al premier. Che sa di avere spazi di manovra ristretti. E che l´unico modo per sciogliere il nodo è quello di mettere sul tappeto la "quota 95", per poi attendere il referendum che i sindacati organizzeranno tra i lavoratori e infine mettere nero su bianco il patto con un provvedimento da varare a settembre. «Anche perché - preconizza Clemente Mastella - se stavolta cade, sarà l´ultima volta. Dopo di che si tornerà al voto. Ma io, a quel punto, uscirò comunque dalla coalizione. Magari per far nascere un nuovo centrosinistra senza i comunisti. Ma sarò libero. Sarò l´ultimo a spegnere la luce, una volta spenta però sarà per sempre».

Repubblica 19.7.07
L'albero della vita
È di Linneo la prima classificazione genetica di piante e animali
Le sue teorie irritarono i teologi del tempo
di Piergiorgio Odifreddi


Creazionista ma, in fondo, evoluzionista collocò l’uomo tra le scimmie antropomorfe
Il grande scienziato nasceva 300 anni fa Il suo lavoro è considerato ancora attuale

Una delle classificazioni più note della storia è sicuramente quella delle categorie aristoteliche, che il filosofo distingueva in «sostanza, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, essere, avere, agire e patire». L´elenco è un po´ erratico, e fa venire in mente le penitenze dei bambini: «dire, fare, baciare, lettera, testamento». Ancora più balzana è la classificazione dell´Emporio celeste di riconoscimenti benevoli, un´enciclopedia cinese del decimo secolo citata o inventata da Borges: «Gli animali si dividono in: appartenenti all´Imperatore, imbalsamati, addomesticati, maialini da latte, sirene, favolosi, cani randagi, inclusi in questa classificazione, che si agitano come matti, innumerevoli, disegnati con un pennellino finissimo di peli di cammello, eccetera, non più vergini, che da lontano sembrano mosche».
Da vicino tutte queste classificazioni sembrano invece pure e semplici espressioni di umorismo, volontario o involontario che sia. Anche se, con un po´ di buona volontà, la lista di Aristotele si può intendere come un elenco di categorie grammaticali, ipostatizzate metafisicamente: «sostantivi, aggettivi (quantitativi e qualitativi), relazioni, avverbi (di luogo e di tempo), verbi ausiliari (essere e avere) e forme verbali (attive e passive)».
Tutte le classificazioni, per quanto ingenue, sono comunque la manifestazione di un istinto tassonomico che tradisce la volontà di ordinamento del mondo secondo l´antico principio del divide et impera, inteso metaforicamente come: «classifica e comprendi». O, ancora più anticamente, secondo la denominazione delle cose che fu la prima attività di Adamo nel Genesi quand´ancora la sua attenzione non era stata distratta dall´arrivo di Eva: «Il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all´uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l´uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l´uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche».
Più che gli Ebrei, furono però i Greci a tentare una prima classificazione sistematica del mondo animale e vegetale.
Aristotele dedicò infatti al primo i tre libri Storia degli animali, Sulle parti degli animali e Sulla generazione degli animali, distinguendo ad esempio quelli con sangue (uomo, quadrupedi, cetacei, pesci e uccelli) da quelli senza sangue (crostacei, molluschi e entema, comprendenti tra gli altri insetti e vermi), in una divisione che ricalca quella odierna tra vertebrati e invertebrati. E il suo allievo e successore Teofrasto allargò nelle Ricerche sulle piante e Cause delle piante l´attenzione al secondo mondo, coniando il termine «botanica» e classificando 480 piante sulla base della loro generazione (spontanea, da seme, da radice, da un ramo, dal tronco).
Dopo questi timidi inizi la classificazione del mondo della vita si rivelò via via più complessa, e produsse presto da un lato opere di dimensioni sempre più mastodontiche, quali la Storia naturale di Plinio il Vecchio, e dall´altro lato classificazioni sempre più complicate e cervellotiche, basate su lunghe sfilze di nomi e attributi quali Physalis annua ramosissima, ramis angulosis glabris, foliis dentato-serratis. Nel Settecento la situazione era ormai diventata ingestibile, e la botanica e la zoologia attendevano un Messia che venisse a mettere ordine nel disordine dei loro ordinamenti.
Lo trovarono entrambe nello svedese Carlo Linneo, di cui quest´anno si celebra il terzo centenario della nascita con manifestazioni di ogni tipo e in ogni luogo: oltre a innumerevoli congressi internazionali, la celebre rivista Nature gli ha infatti consacrato una copertina, la sua patria gli ha dedicato un´emissione filatelica, dopo averlo già effigiato sul biglietto da 100 corone, il Museo Linneo di Uppsala ha aperto le porte del suo giardino e della sua casa, e la Società Linnea di Londra ha esibito la sua collezione originale di 40.000 specie, oltre alla sua biblioteca di 16.000 libri e alla sua corrispondenza.
Col senno di poi, si può dire che Linneo trovò un uovo di Colombo: classificare animali e piante come si fa con le persone, semplicemente mediante un cognome generico e un nome specifico come Physalis angulata. Ironicamente, a quell´epoca in Svezia le persone di solito non avevano un cognome, e usavano semplicemente un patronimico: ad esempio, il nonno di Linneo si chiamava Ingemar Bengtsson, cioè «figlio di Bengt»: fu il padre di Linneo a darsi questo cognome, ispirandosi a un suo bosco di linn, «tigli», e latinizzandolo in Linneus.
Altrettanto ironicamente, il metodo di nomenclatura binomiale era già stato anticipato di un paio di secoli dai due fratelli Gaspare e Giovanni Bauhin. Cosí come era stata parzialmente anticipata, sempre di un paio di secoli e da Corrado Gesner, l´organizzazione abbozzata da Linneo, e poi divenuta classica, delle forme viventi in «domini, regni, fila, classi, ordini, famiglie, generi, specie, sottospecie e razze». A prima vista si trattava di un´altra sospetta lista di categorie, ma questa volta il principio ispiratore era quello giusto: non più una classificazione basata su caratteri apparenti, come nel duecentesco trattato Sugli animali di Alberto Magno, che distingueva alla maniera cinese «quelli che camminano, che volano, che nuotano e che strisciano», bensí una classificazione ad albero genetico che oggi riconosciamo come basata sulla storia evolutiva.
Naturalmente non la vedeva cosí Linneo, che era un creazionista e credeva che le specie principali fossero uscite dalle mani di Dio come Venere dalla spuma del mare, fatte e finite una volta per tutte. D´altronde la sua metafisica era ancora biblica, visto che egli descriveva se stesso come un secondo Adamo e il proprio lavoro col motto: Deus creavit, Linnaeus disposuit. Dio creò, Linneo dispose. Non a caso, sulla copertina del Sistema della natura, il capolavoro che passò gradualmente dalle undici pagine della prima edizione del 1735 alla classificazione di 4.400 specie animali e 7.700 vegetali della decima del 1758, era raffigurato un uomo che nel Giardino dell´Eden assegna i nomi alle creature.
Ciò nonostante, Linneo non era completamente fissista: riconosceva, ad esempio, che per ibridazione e acclimatazione possono nascere nuove specie, a partire da quelle create direttamente da Dio. Quanto all´uomo, lo collocò non al sommo del creato ma tra le scimmie antropomorfe, attirandosi di conseguenza scontate accuse di «empietà» da parte dell´arcivescovo di Uppsala, com´è il prevedibile e immutabile destino di chiunque osi sfidare scientificamente la superstizione religiosa. Un destino che Linneo affrontò coscientemente, attestando in una lettera del 1747 che «chiamare l´uomo scimmia, o la scimmia uomo, irrita i teologi, ma va fatto perché così ordina la scienza».
Oggi i teologi sono rimasti fermi a quell´irritazione, ma la scienza è andata molto avanti sulla via indicata da Linneo, di una classificazione gerarchica della vita basata su caratteristiche osservabili degli organismi. Anzitutto, sostituendo il suo creazionismo con l´evoluzionismo, che Darwin arrivò a formulare solo dopo aver studiato a fondo la sua classificazione. E poi, passando dalle sue osservabili macroscopiche, quali gli stami e i pistilli per una classificazione di tipo «sessuale» delle piante, ad analisi microscopiche basate sulla struttura del Dna. Su queste basi gli scienziati stanno oggi ricostruendo il vero Albero della Vita, riscrivendo il vero Genesi e scoprendone il vero Autore, all´insegna del motto coniato da Spinoza e condiviso da Einstein: Deus, sive Natura, Dio, cioè la Natura.

Repubblica 19.7.07
Vedi alla voce anima
di Umberto Galimberti


Escono quattro nuovi dizionari
Da un’opera in due volumi sulla "Psiche" all’antropologia da una enciclopedia sui luoghi letterari immaginari a una mappa sorprendente sul mondo della sessualità

Più il sapere si amplia, più le conoscenze si accrescono, più le competenze si specializzano, più le teorie si confrontano, più abbiamo bisogno di dizionari, di enciclopedie, di mappe capaci di orientare nella ricerca e rinviare ai testi fondamentali che le hanno promosse. Le case editrici Utet e Garzanti in Italia hanno fatto da apripista in questo bisogno di orientamento. Ad esse oggi si aggiunge Einaudi con due significativi dizionari: uno di psicologia e uno di antropologia.
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Il dizionario di psicologia, che ha per titolo Psiche, si presenta in due volumi per complessive 1306 pagine al prezzo di 153 euro. E´ un´opera intelligente e informatissima. Intelligente perché parte dalla consapevolezza che la psicologia non è una scienza esatta, e che la psiche e le scienze che la riguardano forse sono solo un episodio tra i molti con cui nella storia l´uomo ha tentato di interpretare se stesso. Di qui il taglio «storico» del dizionario, dove psicologia, psichiatria, psicoanalisi e neuroscienze, nate in diversi contesti e a partire da presupposti teorici tra i più disparati, si danno convegno per discutere le loro prossimità e le loro distanze. Le rispettive e specifiche posizioni sono ben identificate, ma in un contesto di dialogo e di reciproco riconoscimento, allo scopo di individuare quali analogie sono tra loro compatibili, e quali distanze sono tali solo per le diverse provenienze metodologiche e linguistiche che non è impossibile attenuare.
Francesco Barale, Mauro Bertani, Vittorio Gallese, Stefano Mistura e Adriano Zamperini, oltre a essere estensori delle voci più impegnative, hanno coordinato un folto numero di specialisti, uniformando con vera intelligenza i contributi, in modo da conferire all´opera innanzitutto quell´omogeneità che evita ripetizioni e sovrapposizioni, e poi quella completezza che evita lacune, sia in ordine alle biografie dei maggiori esponenti delle scienze psicologiche, sia in ordine alle voci teoriche ricostruite nel loro farsi storico.
La lettura è piacevolissima e, senza rinunciare alla scientificità, accessibile anche ai non specialisti. L´indice dei nomi e degli argomenti (quest´ultimo significativamente particolareggiato) consentono di individuare con molta facilità i percorsi che il lettore intende seguire. Nelle ottanta pagine di bibliografia, i testi stranieri sono opportunamente corredati dall´indicazione delle traduzioni italiane là dove esistono, e per ogni settore sono esaurienti e complete.
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Marco Aime ha curato, sempre per Einaudi, l´edizione italiane del Dizionario di antropologia e etnologia di Pierre Bonte e Michel Izard (pagg. 802, euro 82) che è stato e continua a essere il più importante riferimento per lo stato degli studi di quella scienza, l´antropologia, che non è mai stata in pace con se stessa.
Nata come «etnologia», termine che i francesi impiegano allo stesso modo di «etnografia», per designare lo studio delle società primitive, con particolare attenzione alle popolazioni degli imperi coloniali d´Occidente, ad essa si affiancò l´«antropologia fisica» che studia i caratteri somatici dell´uomo e le differenze razziali, e l´«antropologia culturale» che mette i risultati della ricerca etnologica al servizio della conoscenza generale dell´uomo.
Oltre alle nozioni, ai programmi di ricerca, alle sottodiscipline e ai metodi impiegati dagli antropologi, le voci illustrano gli orientamenti di carattere teorico, la storia generale dell´antropologia, le antropologie nazionali e la biografia dei principali esponenti di questo ambito disciplinare. Le società e le culture sono inquadrate nella cornice delle grandi regioni del mondo per facilitare il percorso e l´orientamento del lettore.
Nell´epoca della globalizzazione, dove ognuno di noi incontra l´altro da sé, con tutte le difficoltà che le differenze culturali comportano, sembra sia proprio oggi il tempo opportuno per tentare un bilancio e procedere a un inventario delle diversità, perché a facilitare la comunicazione tra gli uomini non è tanto l´adozione della lingua inglese quanto la comprensione delle simboliche sottese alle varie culture che solo gli studi di antropologia sono in grado di facilitare.
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Anna Ferrari, già autrice del bellissimo Dizionario di mitologia greca e romana edito dalla Utet nel 1999, oggi pubblica sempre con la Utet il Dizionario dei luoghi letterari immaginari che figura come ultimo volume del Grande Dizionario Enciclopedico acquistabile a rate. Si tratta di un´impresa ciclopica alla ricerca delle località che non compaiono nelle nostre carte geografiche, perché sono state ideate dall´immaginazione dei poeti e dei narratori di tutte le letterature e di tutti i tempi, che questo dizionario rende disponibili per un viaggio immaginario nei luoghi della mitologia che non hanno trovato un archeologo capace di individuarli con precisione sul terreno, o che l´hanno trovato solo in tempi relativamente recenti come nel caso di Troia.
I luoghi collocati oltre i confini del mondo o proiettati nell´aldilà (altri pianeti, mondi della fantascienza, regni dell´oltretomba); luoghi situati in un futuro più o meno remoto e verosimile; luoghi dove la tradizione popolare o le antiche saghe e leggende hanno ambientato i loro racconti; luoghi ideali e perfetti dell´utopia o sinistri e inquietanti della distopia. Sono città, regioni, regni, isole, fiumi, mari, monti, ma qualche volta anche boschi, fontane, abbazie, castelli, locande, collegi, navi, pianeti.
Per ogni località sono indicati l´opera o le opere in cui compaiono, gli avvenimenti di cui sono teatro e una descrizione che nella maggior parte dei casi è tratta direttamente, spesso mediante citazioni, dai testi letterari. Un´opera, quindi, che, per i frequentatori della letteratura, consente di avvicinare l´immaginario al reale, non per demitizzare il primo, ma per sottrarre al secondo il lato prosaico della nuda geografia, che in realtà è molto più ricca e più fantastica di quanto non dicano le linee tracciate dai geografi.
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Da ultimo segnalo l´ottimo Dizionario della pornografia edito nel 2005 dalla Presses Universitaires de France e ora tradotto in italiano dal Centro Scientifico Editore di Torino (pagg. 582, euro 38).
Da Sade a Pasolini, dalla Bibbia a Proust, dal barocco alla body art, da Baudelaire a Rocco Siffredi, l´opera, che ha visto l´impegno di cento autori, estensori di 450 voci, entra nel mondo della sessualità, laddove questa turba, offusca, spaventa, disgusta, ferisce, e che per questo noi rifiutiamo e proibiamo, dimenticando che nulla di ciò che è umano ci è estraneo.
Ma perché un dizionario, peraltro molto colto e impegnato? Perché i confini della pornografia sono mobili e si spostano di continuo nello spazio a secondo delle regioni geografiche, e nel tempo a seconda delle scansioni storiche. Questo dizionario ne dà conto, offrendo uno spaccato dello spirito dei tempi e dei luoghi a partire da che cosa un´epoca o una cultura definiscono indecente, sconveniente, scandaloso, e altre eccitante, dinamico, vitale. E questo perché, come afferma Steven Marcus nei suoi studi sulla sessualità: «La pornografia caratterizza un punto di vista e non una cosa».
E i punti di vista, studiati sui banchi universitari anglosassoni, europei, giapponesi, brasiliani, africani, sono esposti in questo dizionario con ordine e chiarezza e persino con un intento etico: se la pornografia esiste da quando l´uomo è comparso sulla terra, perché non accordarle uno spazio nella storia della cultura, invece di seppellirla nei divieti dettati dal comune senso del pudore che nessuna morale riesce davvero a delimitare e a definire?
Gli autori di questo dizionario, diretto dallo scrittore francese Philippe Di Falco e curato nell´edizione italiana da Roberto Marro, tentano di accordarle questo spazio e di far chiarezza in quella vera e propria trappola lessografica in cui la pornografia si maschera e si confonde, perché ancora non le è stato consentito di venire chiaramente allo scoperto.

Repubblica 19.7.07
"Io, poliziotto e poi contestatore vi racconto il film della mia vita"
L’attore e regista annuncia "Il grande sogno" il nuovo progetto autobiografico che da anni aveva nel cassetto
di Leandro Palestini


ROMA - Il Sessantotto visto con gli occhi di un ex poliziotto. Titolo: "Il grande sogno". A Michele Placido trema la voce, perché sta per coronare un antico progetto, il più amato: girare il film della sua vita. Come regista e come attore. «Al cinema il ‘68 è stato finora raccontato da comunisti e da fascisti. Io offro una angolatura originale, racconto la mia "conversione": quella di un ventenne, meridionale, poliziotto, che dopo aver manganellato gli studenti universitari capisce la loro protesta e passa dall´altra parte della barricata. Vorrei rendere anche il clima di speranza di quegli anni», annuncia Placido, confermando la forte impronta autobiografica della storia. Lui prestò davvero servizio «alla caserma Castro Pretorio di Roma dal ‘67 al ´69. Il 1968 l´ho preso in pieno, l´ho vissuto sulla mia pelle, stavo sulle camionette della Polizia nelle cariche contro gli studenti universitari. Alla famosa carica di Architettura, a Valle Giulia, non partecipai per un caso. Quel giorno non ero di turno». Episodi che saranno riproposti nel film. Insieme agli sceneggiatori Angelo Pasquini e Doriana Leondef, Placido rivela di «rivedere diversi documentari dell´epoca, le cariche della Polizia di quella primavera del 1968. E posso dire: c´ero anch´io».
Tra due mesi il primo ciak del "Grande sogno", che in un primo tempo si intitolava "Cari compagni". «Il vero inizio sarà a febbraio, ma a settembre faremo alcuni esterni. In Calabria: lì si trovano ancora le zone agricole di quell´Italia contadina da cui provenivano i celerini descritti da Pasolini. Pier Paolo aveva un occhio di riguardo per i proletari in divisa. Io l´ho conosciuto, in seguito, un grande intellettuale, ma credo esagerasse nel criticare i "figli di papà" che animarono in Italia il ´68: gli studenti di Architettura di Roma erano espressione di quel vento progressista che andò dal Maggio Francese alla Primavera di Praga». E per rendere lo spirito di quelli anni, nella scrittura del "Grande sogno", il regista si avvale del contributo dei suoi sceneggiatori come di due angeli protettori, per una corretta visione di quell´epoca: «Pasquini mentre io usavo il manganello era tra i dimostranti: nella scrittura mi ha fornito l´ottica opposta a quella che avevo io. La Leondef ha messo nel film elementi preziosi per capire le ragazze del ´68, il movimento delle donne».
Placido rivela che la prima stesura del film risale a quattro anni fa. «Ma poi ci siamo fermati perché sul tema del Sessantotto francese era uscito il film di Bertolucci ("The dreamers", ndr). Avevamo qualche personaggio simile, anche io avevo inserito un cinefilo, temevo la sovrapposizione. Così abbiamo aspettato».
Il budget si aggira sui 7,5 milioni di euro. È già in moto la produzione, la Taodue di Pietro Valsecchi («Torniamo a fare il grande cinema») e RaiCinema (Giancarlo Leone sostiene molto questo film), con partner francesi e ricco cast: Riccardo Scamarcio dovrebbe essere il protagonista (il 22enne Placido), si fanno i nomi di Laura Morante, Elio Germano, Isabelle Huppert e Carole Bouquet. «Ci saranno almeno 7-8 protagonisti. È giusto che sia un film corale, a tante voci, perché così è stato il ‘68», dice Placido: «È presto per parlare del cast. Stiamo ancora cercando l´attrice giusta per un ruolo chiave, quello di una ragazza cattolica, assistente universitaria, che ebbe il coraggio di schierarsi dalla parte dei ragazzi che protestavano. Ci vorrebbe una come Giovanna Mezzogiorno ai tempi del film "Del perduto amore"». Pietro Valsecchi azzarda un nome per il ruolo della protagonista: «Mi piacerebbe molto Jasmine Trinca». Per le scenografie sarebbe stato contattato Francesco Frigerio.
Il poliedrico Michele Placido, ieri in tournée teatrale a Taormina (con Albertazzi è impegnato nel "Satyricon"), nel "Grande sogno" si riserva anche un ruolo, quello del capo del reparto che nel lontano 1968 dirigeva la caserma romana di Castro Pretorio, un uomo molto importante nella sua vita. «Quel colonnello capì che ero combattuto, che avevo aspirazioni diverse dalla carriera in Polizia. Mi ascoltò, mi diede una mano a diventare attore. Dopo avermi sentito recitare Pirandello mi incoraggiò. E nel 1969 io mi iscrissi all´Accademia».

Repubblica Firenze 19.7.07
Etruschi mai visti. Tornano a casa i nostri antenati
di Mara Amorevoli


Nel Palazzo dei Priori a Volterra da sabato fino all'8 gennaio
La rassegna riunisce reperti "dispersi" in vari musei europei

Gli Etruschi tornano a Volterra. Tornano a casa dai musei di mezza Europa con pezzi straordinari. Reperti finora mai visti che ritrovano le collocazioni originarie, in fedeli ricostruzioni di tombe e tumuli, restituendo un patrimonio archeologico disperso in musei e collezioni private nazionali e straniere, dopo i numerosi scavi che fin dal 1730 hanno sistematicamente interessato questo territorio. Da sabato 21 luglio fino al 6 gennaio 2008, nei due piani del nell´antico Palazzo dei Priori (il più antico palazzo comunale toscano), saranno esposti centinaia di pezzi che documentano l´incredibile ricchezza di corredi tombali, gioielli e arredi degli insediamenti etruschi in Val di Cecina e Valdelsa, oltre ai riti funebri di questa antica civiltà.
Così, a pochi passi dal Museo Guarnacci, dalla filiforme e romantica «Ombra della sera», dai tanti sarcofagi e urne in alabastro e della ricca collezione di reperti che qui è conservata dal 1761, la mostra presenta una «Volterra fuori Volterra», restituendo temporaneamente opere dai musei del Louvre, di Berlino, dalle collezioni del museo archeologico di Firenze, da Villa Giulia, dai Musei Vaticani e Villa Albani a Roma. Tante vetrine per documentare le sei sezioni del precorso, tra cui spicca la Tomba eneolitica di Montebrandoni con i suoi arredi preistorici, tra cui 4 pugnali e punte di freccia (dal Museo Pigorini a Roma), la ricostruzione delle Necropoli delle Ripaie e Guerruccia (IX-VIII sec. a. C.) con 16 tombe, con tutti i loro corredi di vasi, fibule, armi e piccoli gioielli, un parte della necropoli di Casale Marittimo con le tombe dei principi guerrieri e una tomba a tholos. Ricostruita fedelmente anche la Tomba Inghirani (III-I a. C.), con tutte le urne in alabastro che arrivano dal museo archeologico di Firenze, dal Louvre, da Berlino e dai Musei Vaticani. E da Firenze tornano anche i gioielli della Collezione Annibale Cinci, oltre ad un tesoretto di monete greche ed etrusche del V a. C. rinvenuto presso le mura di Volterra con vasi, urne e statuette di bronzo.
La rassegna «truschi di Volterra-Capolavori dai grandi musei europei propone anche la ricostruzione di due templi che restituiscono l´immagine dell´acropoli volterrana, oltre ad un percorso unitario collegato con il Museo Guarnacci e l´area archeologica in cui si trovano le tombe visitabili, fino alle antiche mura. Capolavori in prestito, che forse qualcuno vorrebbe restituiti definitivamente ai luoghi di origine? «Certo, verrebbe voglia di tenerseli qui, ma va bene anche se ce li prestano» osserva il curatore della mostra e direttore del Museo Gabriele Cateni. E tra le curiosità, va segnalata l´esposizione di una bellissima testa di Apollo in marmo apuano (V sec. a. C), la "Testa Lorenzini" che - dopo il sequestro e una disputa giudiziaria durata dieci anni - torna esposta per volontà dei proprietari, tra l´altro disponibili alla vendita milionaria del prezioso reperto. Tutta la rassegna promossa da Comune, Regione Toscana, Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra e altri enti, celebra Enrico Fiumi (1908-1976), noto personaggio a cui si devono studi e pubblicazioni a carattere storico archeologico, e l´aver riportato alla luce il teatro romano di Vallebuona. La mostra resta aperta tutti i giorni 10.30-18.30 e il 28 luglio e il 1 settembre, per "Le notti bianche", fino alle 2 del mattino. Ingresso 7 euro (ridotto 4). Info 0588-91280 - www. etruschi-volterra. net

Repubblica Roma 19.9.07
Affiancate a villa Giulia le 2 statue etrusche del tempio di Veio.
L´Ercole restaurato ritrova l’Apollo
di Carlo Alberto Bucci


Ora ha gambe leggere, in poliestere, invece dei pesanti arti in gesso realizzati 52 anni fa per sostenere il busto. E colori "nuovi" - secondo la tecnica del puntinato, invece del rigatino - che si affiancano a quelli originari, del VI secolo a.C., tornati a splendere, soprattutto sulla cerva stesa ai piedi del semidio. Così, dopo quattro anni di interventi dell´équipe del restauratore Tuccio Sante Guido, l´Ercole di Veio ora fronteggia l´Apollo. Di nuovo una di fianco all´altra, come quando, con altre 10 statue, giganteggiavano sul santuario di Minerva a Portonaccio, le due terracotte policrome si posso ammirare al primo piano del museo Etrusco. «Ma quando sarà pronta la sede di Villa Poniatowki» ha detto la soprintendente Annamaria Moretti, «lì porteremo i reperti di Latium Vetus e liberemo il braccio destro di Villa Giulia per le opere di Veio». La città sconfitta da Roma è nel cuore del ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli. «Con il restauro dell´Ercole, la Federtabaccai ha finanziato un immenso successo, che si inserisce in un progetto di rilancio dell´antico Veio» ha detto il vicepremier. E a settembre nuova conferenza dei servizi, «in vista dell´ampliamento dei percorsi di visita alla città e dell´acquisto dell´antica mola».

Corriere della Sera 19.7.07
Carteggi. Divisa tra i due, la Karplus mette in forse il sodalizio tra gli ispiratori della Scuola di Francoforte
Gretel tra Adorno e Benjamin, un triangolo filosofico
di Pierluigi Panza


Lei scrive: «Ho fame delle tue cose». Walter: «Ti voglio, sembri la Hepburn»
Il filosofo che con Max Horkheimer scrisse «La dialettica dell'Illuminismo» conobbe Gretel Karplus nel 1923, ma la sposò solo dopo 14 anni di fidanzamento nel 1937

Vero è che furono amori fatti per lo più solo di parole, come si conviene tra filosofi. Ma dalla lettura delle corrispondenze dei grandi pensatori del Novecento emergono sempre più storie di triangoli filosofici, raramente equilateri. Si sapeva della coppia aperta Sartre-de Beauvoir, si sapeva di Heidegger e la Arendt, delle scorribande di Bertrand Russell... Ad essi si aggiunge ora lo strano triangolo d'ispirazione «francofortese» — consumato in teoria più che in prassi —, tra Walter Benjamin, Gretel Karplus e Theodor Wiesengrund Adorno, di cui la donna fu moglie.
Dal 1930 la vita di Gretel Karplus (1902-1993) incomincia ad essere sospesa, come lei stessa scrive, «tra due letterati... entrambi pieni di raccapriccio per tutti i miei passi falsi». Uno è Theodor Adorno, che lei sposerà nel '37 dopo 14 anni di fidanzamento; l'altro è Walter Benjamin (1892-1940), a quel tempo un pensatore che vive per l'Europa con sussidi universitari e con il cuore diviso tra Dora Keller (ex moglie, ma che frequenta alla pensione Villa Verde di San Remo da lei gestita), Jula Cohn, sorella del suo amico d'infanzia Alfred e Asja Lacis, una rivoluzionaria marxista.
Gretel è una trentenne berlinese dai capelli corti, sguardo mascolino e deciso, naso e zigomi pronunciati, labbra sottili. L'intonazione delle loro lettere (il Carteggio 1930-1940 è uscito in Germania da Suhrkamp Verlag ed esce ora in Francia da Gallimard suscitando interesse sulle riviste letterarie) non lascia dubbi sull'amicizia amorosa tra i due. Lei lo chiama «Caro Walter» e si firma «Tua Felicita » alludendo a un personaggio di una pièce di Wilhelm Speyer alla quale Benjamin ha collaborato. Lui si firma con lo pseudonimo «Detlef» e dice che lei è «il primo violino della sua orchestra». Una passione più che altro platonica a causa dei vagabondaggi di lui (Ibiza, dove scrive il suo testo sull'infanzia berlinese, Costa Azzurra, San Remo, Parigi...) e per la presenza dell'altro (Adorno). O se vogliamo perché intasata di gigantesco struggimento. Lui, inizialmente, si sente frenato da una «pudica tenerezza». Ma poi, in un florilegio di metafore, le racconta le notti del '33 passate a Ibiza a fumare l'oppio pensando a lei. Lei gli scrive: «Detlef non c'è alcun uomo al quale io mi senta per lettera più vicino di te, da nessuna parte v'è più dolcezza di quella delle parole che tu mi fai anche solo intuire». Adorno, naturalmente, non sa nulla di loro, «non sa nulla del nostro "tu"», scrive Gretel. E mentre lui è impegnato nella stesura di quello che è il suo più attuale contributo teorico,
L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica pubblicato nel 1936 (dove per la prima volta si parla di emancipare l'arte dal suo originario «contenuto parassitario basato sul rituale»), lei si dà alla moda e apre una fabbrica di guanti.
Lei è un'inquieta, e s'invaghisce anche del cugino di Benjamin, Egon Wissing, un medico morfinomane rimasto vedovo nel '33. Ma nemmeno questa amicizia un po' dissimulata la soddisfa. La sua esistenza a Berlino è monotona, e alla fine decide di sposare Adorno nel settembre del '37 con l'intenzione di andare a vivere negli Stati Uniti. A quel punto Wissing sposa la sorella di Gretel, Lotte. A bocca asciutta resta sempre Benjamin, che incomincia a incattivirsi e a provare un po' di gelosia nei riguardi di Adorno, che egli considera un semplice discepolo al quale muove critiche sulle «categorie estetiche».
A Gretel, invece, non piacciono i lunghi soggiorni del «Caro Walter» in Danimarca ospite di Bertolt Brecht.
Lui non cessa di scriverle, parlandole delle categorie del flâneur, dei «passaggi» e aggiungendo osservazioni come «l'arte del XIX secolo non è conoscibile se non nelle circostanze presenti». Lei è più decisa nel trasmettere i suoi sentimenti, ma è preoccupata che quella «amicizia amorosa » possa incrinare la stima tra i due filosofi: «Sarei inconsolabile se la vostra relazione finisse», intendendo finisse per colpa mia. Lei, del resto, vuol bene al suo «Teddie» (Adorno), ma non cessa il flirt a distanza, e scrive a Benjamin frasi come «ho fame delle tue cose,... caro Detlef » (20 luglio 1938). Lui le risponde: «Io voglio ultimamente per la prima volta! Katherine Hepburn. Ella è grandiosa e ti assomiglia molto. Non te l'ho mai detto?».
Alla fine lei lo invita a raggiungerla (con Adorno ovviamente) nella loro casa lungo l'Hudson. Lui ci crede: e nell'agosto del '39 vende un quadro di Paul Klee per racimolare i fondi necessari per il viaggio.
Ma il momento è drammatico. Lui lo intuisce: «Nulla fa presupporre che il momento di rivederci è vicino». Benjamin lascia Parigi per il Sud della Francia. Viene internato in un campo di lavoro volontario a Nevers nel '39. Liberato per l'intervento di alcuni amici, scrive ancora a Gretel prima di spostarsi a Lourdes. Bloccato al confine con la Spagna, temendo di venir consegnato ai nazisti, Benjamin si suicida.
E Adorno? Fu sensibile per tutta la vita al fascino femminile, ma non lasciò mai Gretel. Nel gennaio del '69, maestro indiscusso della Scuola di Francoforte, si trovò a denunciare alcuni studenti per una irruzione in aula. Per punirlo, il Movimento studentesco pensò di attaccarlo su un punto sensibile: il fascino femminile. E così il 22 aprile, mentre teneva una lezione sul pensiero dialettico, gli mandò tre studentesse in lunghi mantelli che salirono sulla sua cattedra e si mostrarono nude. Il 19 luglio, innanzi al tribunale di Francoforte si doveva discutere della denuncia, ma Adorno partì per le vacanze in Svizzera insieme a Gretel. Il 6 agosto, durante un'escursione a Visp, venne stroncato da un infarto a 66 anni. Gretel rimase vedova, ed è morta 14 anni fa.

Corriere della Sera 19.7.07
Il ministro Rutelli ha presentato ieri il restauro della statua
Torna l'Eracle, si riscopre l'identità etrusca


Torna l'Eracle di Veio dopo quattro anni di sofisticati restauri. La bellissima statua in terracotta del VI secolo a.C., che ornava con altre 12 figure a grandezza naturale il frontone del tempio del Portonaccio, a Veio, riassemblata nei suoi quattro pezzi ritrovati fortunosamente tra il 1916 e gli anni 50, è esposta da ieri nel Museo nazionale etrusco di Villa Giulia a Roma. L'Eracle fronteggia, col suo torace possente e la pelle di lupo a tracolla, il suo celebre antagonista per la contesa sulla cerva d'oro: l'Apollo di Veio, a sua volta restaurato da poco.
Due capolavori ora riuniti a cui presto saranno affiancati anche gli altri due pezzi esistenti del frontone, la statua di Latona e una testa di Hermes.
Tornano gli etruschi. Una promozione che il ministero dei Beni culturali rivendica con orgoglio. Francesco Rutelli, titolare del dicastero, l'ha ricordato nel corso della presentazione del nuovo restauro, a cui hanno concorso sponsor privati (la Federazione tabaccai). L'interesse è scattato un anno fa col ritrovamento della «tomba dei leoni ruggenti», il sepolcro più antico dipinto del Mediterraneo. Fu allora che fu annunciato un Progetto Veio. «Con due decreti ministeriali in settembre e ottobre — ha spiegato il ministro — abbiamo dato un concreto impulso alle ricerche e alla valorizzazione di un patrimonio come quello etrusco un po' troppo dimenticato». Prossima tappa, a settembre, l'ampliamento dei percorsi di visita a Veio e l'acquisizione di nuove strutture per il parco, come l'edificio della Mola. A riaccendere i riflettori sugli etruschi punta anche la Regione Lazio che sta preparando una grande mostra sugli etruschi ospitata dal Palaexpo nell'autunno 2008. Volterra, invece, dal prossimo sabato a Palazzo dei Priori, espone «capolavori etruschi» provenienti da grandi musei europei.
«Restaurare l'Eracle è stata un'esperienza scientifica fantastica — hanno detto con orgoglio ieri l'archeologa Francesca Boitani e il restauratore Tuccio Sante Guido —. Dovevamo misurarci con i segreti dei grandi artisti etruschi. E così abbiamo capito finalmente come assemblavano i pezzi e come poi li cuocevano in un blocco unico». La statua ha restituito ora la sua dolce policromia affievolita dal tempo, ha ritrovato un consolidamento statico con la sostituzione del supporto interno in legno, ha ricevuto nuove gambe modellate in poliestere leggero al posto di quelle un po' fuori misura ideate dal Verducci nel precedente restauro degli anni 50. Prossimo restauro, quello del noto sarcofago degli sposi.
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mercoledì 18 luglio 2007

Liberazione 18.7.07
Migliore: «Costituente è qualsiasi atto che renda irreversibile il percorso unitario a sinistra»
Il Prc apprezza il saggio di Bertinotti
Giordano: «Stessa analisi e sintonia»
di Angela Mauro


All'indomani della riunione del comitato politico nazionale del Prc, l'elaborazione di Bertinotti aggiunge linfa al dibattito interno al partito, impegnato nel percorso unitario a sinistra soprattutto dalla nascita di Sinistra Democratica. Assensi al ragionamento del "padre nobile" di Rifondazione arrivano dal segretario Franco Giordano. «Gli ho parlato direttamente, anche alla luce delle deliberazioni del cpn», spiega Giordano in riferimento al documento della segreteria nazionale approvato dal 90 per cento dell'assemblea di domenica e contenente indicazioni per la costruzione di un «soggetto unitario e plurale» delle sinistre, che non sciolga il Prc, ma che lo metta in stretta relazione con Sd, Verdi, Pdci, oltre che con le forze della società civile che hanno aderito alla Sinistra Europea. Ed è proprio con una parte di queste realtà che incontriamo Giordano, nel pomeriggio di ieri, al dibattito su "La sinistra. Sociale e di movimento" nella "Factory occupata", vecchio impianto in zona Ostiense, per l'appunto "occupato" a maggio da Giovani Comunisti, Riva Sinistra, Casetta Rossa, studenti medi e pezzi di società civile. «Condivido sia l'urgenza sottolineata da Bertinotti - dice Giordano - sia la necessità di costruire una cultura politica adeguata. Partiamo dallo stesso schema di analisi». Costituente, programma delle sinistre? «Al programma ci stiamo lavorando concretamente - risponde il segretario - sia sul piano della mobilitazione, con la manifestazione unitaria delle sinistre in autunno, sia con il patto d'azione sui temi dell'agenda politica». Accanto gli sta Massimiliano Smeriglio, segretario della Federazione di Roma, che ne approfitta per ricordare che nella capitale il cammino unitario a sinistra «procede bene: dalla prossima settimana si riuniscono specifici gruppi di lavoro per la stesura di un programma comune che guarda alla sfida elettorale delle prossime provinciali».
Plaude all'iniziativa di Bertinotti il capogruppo alla Camera Gennaro Migliore, che vi legge un «contributo ulteriore alla discussione in comitato politico nazionale». Spiega Migliore: «In continuità con il lavoro di questi anni, il Prc può contribuire ad un processo unitario e plurale più grande senza sciogliersi». L'importante, sottolinea, «è non far precipitare in un'ora X» i passi da fare. Tradotto: «E' strumentale e giornalistico identificare una parola come "costituente" in un'ora X» perchè, continua, «per me "costituente" è ogni atto che rende irreversibile il processo unitario»: dalla «lettera unitaria dei quattro ministri della sinistra di alternativa a Prodi» (in cui si auspicava una «scossa» del governo sulle questioni sociali), fino allo stesso «confronto ravvicinato» tra i soggetti politici a sinistra del Pd. Così come è stato "costituente" nella storia di Rifondazione il «rapporto con i movimenti», aggiunge Migliore, e sarà "costituente" la «manifestazione unitaria in autunno». Quanto al programma: «Come si diceva una volta - precisa il capogruppo - il programma è una bandiera piantata nella testa della gente», per dire che «il processo è più importante di un cenacolo di leader che mettono nero su bianco i loro propositi. Il programma si invera nella costruzione degli spazi pubblici, nella partecipazione dal basso, come stanno facendo le assemblee della sinistra fiorentina con Paul Ginsborg». Che hanno già prodotto un "manifesto" in dieci punti.
Anche il capogruppo del Prc al Senato Giovanni Russo Spena si dice «d'accordo» con Bertinotti e sottolinea: «Rifondazione deve stare dentro la forza unitaria senza negarsi: l'identità comunista non deve essere percepita in maniera statica e museale, non va sfibrata ma ricollocata». Proprio per questo, «il Prc, con la sua "rifondazione" su non-violenza, critica al potere, internità ai movimenti è un dato di innovazione forte per il percorso unitario a sinistra». Al coordinatore della segreteria nazionale Walter De Cesaris piace l'accento di Bertinotti sulla necessità di investire l'esperienza della Sinistra Europea nel percorso unitario e «il collegamento tra la drammaticità della situazione e la necessità di costruire l'unità non come processo politicista, ma mettendo i piedi nel piatto dello scontro sociale e politico». I riferimenti non mancano, come testimonia il braccio di ferro in corso nel governo sulle pensioni. «Poi, potrà essere un'unità modello Flm o una confederazione... Non dobbiamo mettere il carro davanti ai buoi, ma compiere dei passi subito», continua De Cesaris.
Soddisfatto Alfonso Gianni, che non ha mai nascosto le sue simpatie per la fondazione di un soggetto unico delle sinistre subito. Per lui «l'elemento importante da cogliere nel discorso di Bertinotti è proprio quello dei tempi: la politica non può prescindere dal quando e dal come e Fausto dice ora, subito». Chi invece vorrebbe vederci più chiaro è Claudio Grassi, che in cpn ha votato il documento della maggioranza, seppur critico con le valutazioni sul congresso di Venezia. Nel discorso di Bertinotti «c'è un'accelerazione sul partito unico della sinistra che non condivido e che è stato escluso dalle deliberazioni del cpn. Per noi fa fede quanto deciso collettivamente, sembrerebbe però che posizioni che non erano in campo nel dibattito, sono evidentemente in campo». All'attacco invece l'ex grassiano Fosco Giannini dell'Ernesto: «Sull'andare "oltre Rifondazione" il gruppo dirigente dice e non dice». E vede «confusione» anche Salvatore Cannavò di Sinistra Critica: «Bertinotti spiega bene un progetto che non condivido e che dentro il partito è annebbiato».

Liberazione 18.7.07
La ministra della Rosa nel Pugno contro sindacati e Rifondazione. Scrive al premier: «Rimetto il mandato, scegli tra me e i comunisti»
Non vuole l'accordo sulle pensioni. Giordano e Ferrero: i nostri non sono capricci, l'abolizione dello scalone è scritta nel programma
Pensioni, Bonino ricatta Prodi: punisci i sindacati o me ne vado
di Frida Nacinovich


La partita sulle pensioni è ancora ferma sullo zero a zero. Passano i minuti, si avvicina il novantesimo. Il match è importantissimo, dal suo risultato dipende il futuro dei lavoratori italiani, dal suo esito dipende il destino del governo Prodi. Una partita che non ammette tempi supplementari, perché a settembre tutto diventerebbe maledettamente complicato. Vista la posta in palio, a qualcuno saltano i nervi. E' il caso di Emma Bonino, la leader radicale rimette il suo incarico di ministra per il Commercio estero nelle mani del presidente del Consiglio. Il motivo? «Decida il premier se sono ancora compatibile con la sua proposta sulle pensioni». Una lettera aperta inviata al Professore, una conferenza stampa tattica a metà del pomeriggio e la notizia è servita, fresca fresca per il telegiornale della sera. In via di Torre Argentina, telecamere e taccuini impazziscono per la padrona di casa. Lei li accontenta, si unisce al coro dei Lamberto Dini, Luca di Montezemolo e Mario Draghi, dei "riformisti per lo scalone", di Confindustria, di Bankitalia. E naturalmente della destra berlusconiana. «Il rischio è che, sulla spinta della sinistra comunista e dei leader sindacali, il nostro paese, unico nel contesto europeo, operi persino per una riduzione dell'età pensionabile con un aggravamento dei costi complessivi della previdenza». Evviva lo scalone di Maroni e Berlusconi dunque. E il programma dell'Unione, sottoscritto anche dai Radicali di Bonino? Con una lettera scritta a tempo di record, Prodi rinnova la fiducia a Bonino.
«Riusciremo a coniugare, come sempre, il rigoroso rispetto dei conti pubblici con la necessità di dare ai nostri concittadini un sistema pensionistico più equo e giusto», assicura il premier. Intanto la trattativa fra governo e sindacati va avanti, le ultime indiscrezioni parlano di una schiarita, un possibile accordo. «Alle porte c'è un buon compromesso - spiega il segretario di Rifondazione comunista, Franco Giordano - in sintonia con il programma dell'Unione, in grado di difendere i giovani e combattere il fenomeno della precarietà».
Da copione arriva l'entrata scorretta, i media l'amplificano, il caso è servito. Bonino rimette il mandato nelle mani di Prodi, il Professore le rinnova la fiducia. Potrebbe fare altrimenti? Il tentativo è quello di disinnescare l'ennesima mina sulla strada dell'accordo. Va da sé che la Casa delle libertà plaude alla sortita della ministra, saluta con favore l'ennesima fibrillazione governativa. Fibrillazioni che, guarda caso, negli ultimi giorni sono arrivate sempre dal centro e da destra. «Ci sono modalità d'intervento nella discussione politica che non hanno per nulla il senso di responsabilità», osserva Giordano. «Abbiamo difeso e difendiamo l'impianto programmatico con cui abbiamo vinto le elezioni. In questo anno ci siamo confrontati su tanti punti che non condividevamo appieno, ma abbiamo trovato sempre una mediazione. Cosa sarebbe successo se anche noi ci fossimo comportati come Bonino?». Già, cosa sarebbe successo se il ministro Ferrero avesse rimesso il suo mandato nelle mani di Prodi? «Quella che Bonino definisce come sinistra radicale - dice Paolo Ferrero - non ha proposto che si tenesse conto di un proprio capriccio, quanto piuttosto che si rispettasse il programma» che l'Unione ha sottoscritto con gli elettori. «Un programma che non può che rappresentare un vincolo per tutti e non solo per alcuni». Per Russo Spena «la lettera di Bonino a Prodi è l'ennesimo tentativo di impedire la conclusione di un accordo positivo sull'età pensionabile. Mi sembra una posizione irresponsabile sia socialmente che politicamente».
La partita sulle pensioni va avanti, nonostante i continui interventi fallosi. Per il segretario Ds, Piero Fassino, «siamo in dirittura d'arrivo». Prodi si dice convinto che «questa sarà la settimana decisiva». L'intesa su riforma delle pensioni e superamento o abolizione dello "scalone" potrebbe finire nella risoluzione di maggioranza con cui il Parlamento darà il via libera al Dpef.«C'è stato un lungo e complesso lavoro realizzato con intelligenza e pazienza da Damiano (ministro del Lavoro, ndr) - spiega Fassino - che ha offerto alle parti sociali e a Prodi una proposta che, ora, si tratta di portare a compimento». Staremo a vedere.
L'uscita di Emma Bonino piace alla destra e fa arrabbiare i sindacati. «Un tentativo di sabotaggio della trattativa sulla riforma del sistema previdenziale», commenta la segretaria confederale della Cgil, Morena Piccinini. «Bonino ha insistito per mesi sull'aumento dell'età di pensionamento di vecchiaia per le donne - aggiunge - e noi avevamo detto di no a scambi tra l'anzianità degli uomini e la vecchiaia delle donne. Ora, quando si cominciava a profilare una soluzione, si mette in campo un sabotaggio di un accordo sindacale. Ci sono già cinque ministri che si occupano di questa trattativa». Difficile darle torto.
Ben diversa la reazione di Pier Ferdinando Casini: per il leader dell'Udc, nel governo c'è una «contraddizione evidente. Mi rallegro che c'è qualcuno che finalmente si assume la responsabilità di non procrastinare oltre una situazione intollerabile». Daniele Capezzone, presidente della commissione Attività produttive della Camera, aspetta invece Bonino alla manifestazione contro la controriforma delle pensioni che sta organizzando per settembre: «Sono lieto del fatto che anche Emma Bonino ponga al governo la questione della inaccettabilità della controriforma delle pensioni. Spero di vedere anche lei alla marcia dei 40 mila di "Decidere.net" del 22 settembre». Bonino e Capezzone di nuovo insieme, chissà che ne pensa Marco Pannella. Ma le crociate, si sa, uniscono. E quella per lo scalone sta diventando una guerra santa che unisce tutti i poteri forti. Chiude Maurizio Zipponi del Prc:«Evitiamo una guerra di religione sulla pelle dei lavoratori».

Liberazione 18.7.07
«Il sistema pensionistico è costruito a misura d'uomo e non di donna»
E le parlamentari della sinistra radicale bocciano la ministra
di Tiziana Barrucci


«A differenza della signora Gina noi per metà della nostra vita ci svegliamo alle 4.30 del mattino per fare il primo turno e torniamo verso le 23, quando facciamo il secondo. Non ci sentiremmo vecchie in pensione ma ci piacerebbe poter fare delle cose per noi. Non chiediamo che non si esaudiscano i desideri della signora Gina, ma non vogliamo che i desideri della signora Gina diventino per noi un obbligo». Inizia così la lettera indirizzata ad Emma Bonino scritta da un gruppo di metalmeccaniche della Leader Grugliasco, una fabbrica di Torino. E' la loro risposta alla missiva scritta da Bonino al direttore di un noto quotidiano nazionale e pubblicata il 19 giugno scorso, in cui l'onorevole radicale portava l'esempio emblematico di una ipotetica signora Gina, simbolo delle donne che non vogliono andare in pensione. Esempio usato da Bonino per giustificare la proposta di innalzamento dell'età pensionabile delle donne. Proposta a cui le parlamentari della sinistra radicale dicono un secco «no», perché la ritengono «scandalosa e provocatoria».
Per criticarla, ieri una conferenza stampa al senato a cui hanno partecipato varie esponenti dei gruppi di sinistra.
Quella di Bonino «è una proposta brutale che respingiamo completamente - ha detto la senatrice dei Verdi Loredana De Petris - perché non riconosce il valore sociale dell'impegno femminile nella cura dei figli e degli anziani. La differenza di età per andare in pensione è un minimo risarcimento per quello che fanno le donne».
Il nodo centrale per le parlamentari di Rifondazione, Sinistra europea, Comunisti italiani, Sinistra democratica e Verdi è l'idea che le donne hanno già da sempre maggiori problemi nell'accumulo degli anni di lavoro necessari ad arrivare all'età pensionabile a causa del loro peculiare ruolo all'interno della società. Se già spesso le donne non possono beneficiare di una pensione perché i contributi versati non sono sufficienti, visto che non hanno potuto portare a termine la loro vita lavorativa in quanto costrette da obblighi sociali (ad esempio cura dei figli), perché rendere loro tutto ancora più difficile, addirittura aumentando il numero di anni necessari alla pensione? I dati sono chiari e dimostrano che il sistema pensionistico italiano è costruito sugli uomini e non sulle donne: il 60% delle lavoratrici va in pensione con il minimo, solo l'1,2% raggiunge i 40 anni di contributi. Più del 52% delle lavoratrici è al di sotto dei venti anni di contribuzione. Molte hanno per anni versato contributi senza poi maturare il diritto di pensione. In generale, la media annuale del reddito pensionistico di vecchiaia e invalidità delle donne è meno della metà della media dell'analogo reddito pensionistico degli uomini.
Marilde Provera, Prc incalza: «L'aumento dell'età pensionabile per le donne è uno slogan brutale per continuare a peggiorare la vita delle donne - dice- E poi, dietro c'è sempre la logica dei due tempi: prima i tagli e poi gli interventi di sostegno. Il discorso va invertito: prima miglioriamo la condizione delle donne e poi parliamo di tagli» . Ritiene scandaloso che una proposta del genere «arrivi da una donna» Daniela Dioguardi, Commissione Affari sociali Prc, che lancia anche l'idea di una flessibilità del sistema previdenziale «nei confronti delle donne ma a partire dalle donne» nonché la garanzia di un anno di contributi per la maternità. Per Dioguardi le proposte di innalzamento dell'età pensionabile femminile sono indice di «posizioni reazionarie», che non tengono minimamente in conto neanche di quanto le donne fanno già risparmiare alle casse dello Stato. Un esempio per tutti, quello relativo all'ordine pubblico: « La popolazione carceraria complessiva italiana del 2007 è di 43.957 detenuti, di questi solo 1.922 sono donne - dice - brevi calcoli mostrano che le donne fanno risparmiare ben sei milioni di euro all'anno in questo settore».

Liberazione 18.7.07
Intervista al professore di Economia della Sapienza:
«Costringere gli anziani al lavoro è un danno per tutti»
Pizzuti: «Non è vero che abolire lo scalone costa dieci miliardi»
di Fabio Sebastiani


«Non è vero che l'abolizione dello scalone costerebbe alle casse dello Stato tutti quei miliardi. Hanno sbagliato i conti». Roberto Pizzuti, professore di economia all'Università "La Sapienza", i conti se li è fatti davvero ed ha scoperto che per togliere di mezzo la riforma della previdenza di Maroni e Berlusconi non servirebbero più di due miliardi

Quali sono i conti giusti, quindi?
Sullo scalone sono in ballo diverse cifre. Alcune risalgono al 2004, di accompagnamento alla legge Maroni, che quantificarono il costo dello scalone sulla base delle tendenze spontanee al pensionamento di allora. Il punto è che dopo tre anni di dibattito quella tendenza spontanea è molto cambiata. Chi poteva andare via per non incappare nello scalone è già fuggito. Nel frattempo ci sono persone per le quali la possibilità di passare dal salario alla pensione, anche potendo, viene vista come proibitiva. Il movimento spontaneo al pensionamento si è molto ridotto. Anche nel 2010 il costo dell'abolizione dello scalone sarebbe intorno ai due miliardi e no ai dieci che dicono. Evidentemente l'abolizione dello scalone risente molto di più dei riposizionamenti politici di questa fase.

Tutta questa pressione sulla previdenza oltre che nuocere alla convivenza civile non credi che crei problemi anche all'economia?
Almeno nell'immediato, poiché i tassi di occupazione nel nostro paese sono particolarmente bassi, forzare un anziano a rimanere al lavoro equivale a ridurre il turn over e dunque a pregiudicare la possibilità per i giovani a entrare nel mondo del lavoro. Questa sostituzione è pregiudizievole dal punto di vista della produttività e dal punto di vista dei costi, rispetto alla stabilità complessiva della società e anche per il livello dei consumi. Dunque in questa specifica fase non è la cosa più importante forzare gli anziani a lavorare. Anche se nel medio-lungo periodo c'è una coerenza tra il pensionamento e l'invecchiamento demografico. In ogni caso è assolutamente privo di fondamento che ci sia un egoismo degli anziani a danno dei giovani. I giovani sono anche pregiudicati dall'altro punto in discussione che è l'adeguamento dei coefficienti. L'adeguamento ridurrà le pensioni dei giovani attuali. Quello che non è chiaro è che un sistema pensionistico è in fondo un sistema di trasferimento di reddito dagli attivi ai non attivi. Questo è vero sia per un sistema a ripartizione che a capitalizzazione. In generale la politica economica che sta prevalendo essendo improntata a un rigore poco intelligente sta condizionando la crescita del sistema. In Italia ignoriamo il ruolo propulsivo della spesa sociale per accrescere la produtttività del nostro sistema economico.

Passiamo agli usuranti. Anche su questo tema c'è parecchia confusione...
Il lavoro usurante è rilevante due volte: primo perché imporre di continuare a fare un lavoro usurante a chi l'ha svolto per anni vuol dire rendere il lavoratore poco produttivo e nello stesso tempo peggiorargli la qualità di vita. Ma li lavoro usurante rileva anche ai fini delle aspettative di vita, cosicché anche da un punto di vista genuinamente attuariale è iniquo che si applichino pari coefficeinti di trasformazione a lavoratori che verosimilmente hanno una aspettativiva di vita diversa. E' attuarialmente non equo, oltre che socialmente ingiusto. Quindi differenziare i lavoratori in base all'usura della loro attività e alle conseguenze che ne derivano nelle attese di vita è attuarialmente equo oltre che socialmente giusto. Di lavoratori usurati se ne parla da decenni e se non sono stati fatti studi vuol dire che non c'è una adeguata volontà politica. Alcuni studi confermano che diverse categorie di lavoratori hanno una diversa aspettativa di vita. Le verifiche empiriche dimostrano questa correlazione.

Hai accennato ai coefficienti di trasformazione. Anche su questi c'è poca chiarezza.
Per quanto riguarda i coefficienti di trasformazione, da qui al 2050 si prevede che il rapporto tra gli ultrasessantacinquenni e le persone attive più che raddoppierà. Tuttavia il rapporto e la compllessiva spesa pensionistica e il pil nel 2050 si prevede che sia lo stesso di adesso. Ad una fetta crescente di popolazione sarà data una pari fetta di pil e quindi i pensionati del futuro saranno sempre più lontani dal reddito del resto della società.

Liberazione 18.7.07
Sintesi della relazione del segretario nazionale di Rifondazione comunista al Cpn
Giordano: «Lanciamo una sfida al Partito Democratico,
una sfida innanzitutto culturale e sociale, non una sfida identitaria»


Questo Cpn coincide con un insieme di appuntamenti politici difficili e significativi. Si tratta per noi di legare contingenza politica a prospettiva strategica, legare il processo di unità della sinistra all'alternativa di società.
E' utile avviare dal prossimo Cpn a settembre, la fase del Congresso ordinario, lavorando affinché si concluda all'inizio del prossimo anno per essere pronti alle scelte importanti dei mesi successivi.
La vicenda della trattativa sindacale sulle pensioni è sempre più dirimente sull'identità politica e sociale di questo governo. Si gioca su questa trattativa sia il terreno del simbolico, sia quello delle condizioni materiali concrete.

Sul governo gli effetti della nascita del Partito Democratico
Le resistenze in corso in questa vicenda sono illuminanti rispetto al contrasto in atto al rinnovamento della società italiana. Noi siamo stati i primi ad affermare, inizialmente in modo timido e anche incredulo, ciò che oggi appare evidente a tutti: la costruzione del Partito Democratico ha determinato una costante instabilità sul percorso di vita di questo governo, per le divaricazioni strategiche che in quel processo si sono determinate. Si è prodotta di fatto una modifica culturale e dell'impianto programmatico del governo via via che questo processo prendeva corpo. Ed in queste ore ce lo confermato i patemi sofferti dal governo durante la discussione sull'ordinamento giudiziario in senato. E' qui, nelle aree interne al centro ulivista, l'epicentro delle difficoltà, della instabilità e del tentativo di modifica dell'impianto programmatico del governo. Dobbiamo ormai fare i conti con questa realtà, ed illuminante sul terreno della politica è il manifesto di Rutelli di questi giorni, ci propone esplicitamente un cambio di governo, la rottura a sinistra, un'idea organica del Partito Democratico, si profila così un'area politica e culturale che resiste al rinnovamento della società italiana, sia sul terreno della trattativa e del risarcimento sociale, sia a quel moto sui diritti civili che si è espresso qui a Roma con la manifestazione del Gay Pride. E sono significative le adesioni a Rutelli delle aree più integraliste. Anche per questo la trattativa mi appare dirimente. Guardiamo l'editoriale di Scalfari, disegna un impianto neoliberale che pone come principale obiettivo il contrasto all'autonomia dei conflitti sociali e a qualsiasi forma di critica a questo impianto, riduce il sindacato a puro aggregato di interessi neo corporativi, sposa il paradigma della filosofia d'impresa nella competizione globale con elementi di neo autoritarismo. Chiunque contrasta l'impianto neoliberale viene visto come un vincolo ed un impaccio. Tutto ciò non è distante da ciò che avviene sul terreno delle proposte di riforma istituzionale, e in particolare sulla legge elettorale, sono pensati in una prospettiva di semplificazione e coercizione. Per questo dobbiamo produrre una controffensiva alla campagna referendaria, che indichi il modello elettorale tedesco come modello praticabile all'interno dell'attuale dettato costituzionale.
Oggi si esprime una gerarchia nella catena decisionale, che vede protagonista il campo riformista, e vede noi come emendatori: questo ci conferma l'esperienza della vicenda di questi giorni, dove siamo estromessi dalla possibilità di intervenire sul complesso della proposta.
E' bene ricordarlo, la stessa legge Dini del '95, fu respinta nella consultazione dalle fabbriche e dagli operai anche se poi passò nel voto complessivo.

Teniamo insieme condizioni materiali e innovazione politico culturale
L'impianto del Partito Democratico esprime l'equidistanza tra impresa e lavoratori, i riferimenti culturali sono tutti dentro la connotazione del cittadino consumatore.
Noi invece con determinazione dobbiamo tenere unite le condizioni materiali e la più generale cultura politica. Oggi c'è una partita decisiva sulla centralità della filosofia d'impresa, assunta come condizione oggettiva, e sulla ristrutturazione dei poteri.
Le scelte sulla struttura contrattuale, la logica della competitività di prezzo e la contrazione del costo del lavoro nello scenario globale e più generalmente la rincorsa del lavoro e anche dell'ambiente al suo prezzo più basso rendono sempre più labili le forme di resistenza.
Nessun diritto è più al riparo dentro lo scenario della competizione globale.
Mutamenti strutturali, come la flexsecurity, portano con sé anche un mutamento del pubblico, si abbassano le tutele dovute dall'impresa, si allarga il ruolo di uno stato che nei fatti potrà intervenire solo come stato sociale minimo.
Dobbiamo guardare di più su cosa avviene sul piano anche culturale in larga parte del lavoro dipendente, ne abbiamo parlato in passato ed oggi lo vediamo concretamente e drammaticamente, la forte divaricazione tra condizione sociale e cultura di sé, e orientamento politico e culturale. Questo disacoppiamento è tanto più grave nell'incapacità della politica di prospettare una ipotesi di alternativa politica e culturale
Ce lo confermano una serie di ricerche, la maggioranza del voto degli operai del nord è andato a sinistra solo in un passaggio che è stato quello dopo il '68, cioè solo dopo che l'ondata politica si è congiunta ad un mutamento culturale.

Una proposta in grado di superare un passaggio decisivo
Torna la contrapposizione tra giovani ed anziani, tra precari e lavoratori, contro la quale noi dobbiamo costruire una campagna politico culturale. Qui c'è tutta la distanza con chi propone una redistribuzione tutta interna al mondo del lavoro, da cui l'impresa, i profitti, cioè i grandi beneficiari della redistribuzione avvenuta in questi ultimi 30 anni, sono esentati: gli aumenti di produttività e di competitività sono giocati tutti sullo scenario della competitività globale. Nei fatti questo significa che è esclusa ogni possibilità di trasformazione nel futuro, è l'accettazione degli attuali assetti economico sociali, la redistribuzione è tutta interna alla frammentazione del mondo del lavoro.
Dobbiamo uscire da questa partita sullo scalone con la tenuta delle nostre relazioni sociali, dei nostri soggetti sociali e politici.
La nostra proposta non può non essere in sintonia con il programma dell'Unione.
E' una proposta che non si limita allo scalone, c'è un impegno nostro contro i privilegi, non solo quelli della politica. Mi riferisco alle pensioni dei dirigenti d'azienda che pesano sulle casse dei lavoratori dipendenti, così come proponiamo un intervento sul mercato del lavoro, sulla non ripetitività dei contratti a termine, sulle pensioni basse e sulla soglia legata agli anni di contribuzione, sugli ammortizzatori sociali e sugli assegni di disoccupazione, sulla copertura contributiva nei periodi di disoccupazione, sui coefficienti di calcolo per riportare le pensioni legate al sistema contributivo ad un grado di copertura del 60% rispetto all'attuale 40%, sul recupero degli anni di laurea.
Sulle donne abbiamo espresso una netta contrarietà all'aumento dell'età pensionabile.
Così come abbiamo allargato in modo sostanziale il numero degli esonerati dallo scalino dei 58 anni, ben oltre i lavori usuranti che il decreto Salvi stabiliva in 5-6000, e che invece oggi prevederebbe i turnisti, gli addetti alla catena di montaggio e quelli a vincolo, tutti quelli che hanno raggiunto 40 anni di contribuzione. Stabilendo incentivi veri e un meccanismo in sintonia con il programma che abbiamo sottoscritto,
Ci sono le condizioni per conquistare queste proposte, raggiungendo al tempo stesso l'età media europea di pensionamento in modo abbondante.
Qualcuno ha detto che siamo troppo interni alla trattativa, noi diamo massima autonomia alla trattativa, ma per un partito di sinistra è legittimo e doveroso intervenire su un tema di questo genere, noi siamo intervenuti in modo legittimo per aiutare la trattativa, che era già di per sé in difficoltà. Non a caso oggi appare ad un punto più avanzato di appena qualche settimana fa.
Da dopo le elezioni amministrative è stato possibile registrare una maggiore incidenza nostra anche grazie ai processi di unità a sinistra.
La politica economica è stata nei fatti sequestrata dal dibattito politico. Il governo ha lavorato dentro una priorità non condivisa, la centralità è stata la riduzione del debito, sottostimando la crescita e pregiudicando le possibilità di redistribuzione sociale dell'extra-gettito per i vincoli europei. Oggi appare una maggiore disponibilità del governo che è emersa nella preparazione del Dpef sul quale abbiamo comunque espresso una criticità. Di segno diverso ma di critica aspra è stato il giudizio del Fondo Monetario Internazionale e dell'Unione Europea.
Noi dovremo riprendere nelle aule parlamentari questo documento mettendo al centro della politica economica proprio il tema dei giovani, e sfidare proprio coloro che oggi li usano e li contrappongono ai lavoratori. E quindi lanciare la sfida sui temi della formazione, la ricerca, la lotta alla precarietà, l'investimento sull'università, sulle politiche del reddito, sulle nuove produzioni, sulla scelta di politiche meno energivore.
A me colpisce come oggi gli scienziati siano comunemente d'accordo e diano in 40 anni l'esaurimento delle risorse energetiche ed entro 4 anni l'avvio del punto di declino di queste risorse.
Occorre ritornare a parlare sia di beni comuni che di mezzogiorno per lavorare alla ripresa di una politica, non solo perequativa, ma di investimento su una ritrovata centralità del sud che non copia il modello del nord, un modello nei fatti esaurito.

La critica della globalizzazione e i soggetti a cui guardiamo
Dobbiamo spingere sull'innovazione politico culturale e riprendere il filo interrotto dopo Venezia e radicarlo nella impostazione assunta nella Conferenza di Carrara. Noi lanciamo una sfida al Partito Democratico, una sfida innanzitutto culturale e sociale, non una sfida identitaria.
Le domande da porci sono, quale critica a questa fase del processo di globalizzazione e quali soggetti di riferimento?
Noi lavoriamo ad una soggettività unitaria e plurale, antiliberista, pacifista e laica.
Se guardiamo in Europa, osserviamo una sinistra elitaria e tecnocratica, interna al processo di globalizzazione e di americanizzazione della società, muta nella sua soggettività, dall'altra una sinistra identitaria che non incide nella politica. Questo è lo scenario oggi, a cui risponde una destra che combina populismo e liberismo, che provoca paure e propone soluzioni neo autoritarie.
Se riflettessimo sulla nostra assemblea della Sinistra Europea di Giugno, vedremmo lì l'importanza delle nuove soggettività.
Anche la sinistra moderata è percepita come forza conservatrice, la ricchezza della sinistra europea è nella densità dell'innovazione politico culturale lì espressa.
Ma dobbiamo anche aggiungere, che nessuna ipotesi di nuova soggettività prevede lo scioglimento di Rifondazione Comunista.
Quindi, acceleriamo il processo unitario, e facciamo una riflessione vera sul rapporto tra governo e movimenti. Da più parti ci viene proposto un ruolo interno al processo di americanizzazione, o al governo o all'opposizione, non si può essere contemporaneamente in piazza e al governo. No, questo è un errore strategico, a noi non interessa un conflitto anche radicale che viaggia parallelo all'esercizio del potere e non incide su di esso. E' una logica interna alla cultura della conquista del potere.Da questo punto di vista la centralità politica della non violenza ci propone una ipotesi di trasformazione sociale. Proviamo ora a capire quali sono le nuove soggettività critiche rispetto al processo di modernizzazione capitalistica.
Qualche elemento di novità dovremmo vederlo, vi sono ad esempio forme nuove di comunità che riconoscono il legame sociale e che possiamo chiamare comunità solidali, penso a vicende concrete come No Tav, no Ponte, Vicenza, Melfi, che si contrappongono al processo di globalizzazione ed ad altre esperienze di comunità invece chiuse attorno all'idea di comunità territoriali.
Per quanto riguarda il mezzogiorno pensiamo da un lato l'esperienza di Taranto, come ricostruzione di una comunità solidale, e dall'altro quella della Sicilia

Con Rifondazione Comunista nel nuovo soggetto politico a sinistra
Il movimento no global, le comunità solidali e il conflitto di classe sono l'antidoto di quella democrazia del pubblico che ha preso il sopravvento sulla democrazia dei partiti, e come scrive Ilvo Diamanti, esso segnala il ritrarsi della sfera della politica che lascia il posto ad una fiducia momentanea dei singoli perché manca una narrazione comune, un ritratto condiviso, organizzazioni in grado di proporsi come guida. Io penso che il nuovo soggetto unitario a sinistra abbia bisogno di alimentarsi di queste forme nuove della politica, ma al tempo stesso dobbiamo dire che occorre accelerare i tempi, perché in politica i tempi contano.
In queste ultime settimane abbiamo avuto una unità d'azione importantissima con le altre forze della sinistra, che ha pesato anche sulla trattativa con il governo. E l'idea di una mobilitazione di popolo a settembre con una manifestazione nazionale va vissuta alimentando da subito processi e iniziative nei territori.
Siamo stati e vogliano continuare ad essere un motore del processo unitario e plurale.
Una mobilitazione che ha al centro la critica della precarietà, che non contrappone i giovani agli altri lavoratori. Un soggetto politico unitario e plurale che è fatto certo di forze politiche in quanto tali, ma anche di singoli, di associazioni, cosi come abbiamo fatto con la Sinistra Europea, questa è l'operazione a cui siamo chiamati a lavorare, accelerando ma anche tornando ad una cultura della trasformazione. Oggi più di ieri si pone la prospettiva di una società non fondata sul dominio della merce ma sulla possibilità della persona umana di decidere sul proprio futuro. Una prospettiva che non va attesa, ma costruita, determinando le condizioni per la ricostruzione di una soggettività politica. Di fronte a noi vi è anche l'impegno arduo della ricostruzione di una teoria del movimento e non di una semplice tecnica separata della gestione del potere, una riconnessione e ridefinizione dei termini uguaglianza e libertà, mi sembra che le forze riformiste abbiamo rimosso il termine dell'uguaglianza, ma per una forza di sinistra questo è invece decisivo.

Uguaglianza, libertà, differenza
Grazie a Marx sapevamo che l'universalismo borghese, illuministico liberale, quello dei diritti dell'uomo, l'idea dell'uguaglianza fino ad allora conosciuta aveva una grande capacità di attrazione e di occultamento della distinzione tra borghesi e cittadini, tra produttori e cittadini, tra economia e politica, per scoprire poi, solo grazie al pensiero femminista che quell'universalismo occultava anche la differenza dei due generi; poi, però dopo il socialismo reale sappiamo che il mito dell'uguaglianza presente nelle culture e nelle pratiche delle socializzazioni dei paesi dell'Est, è anch'esso terribilmente attratto e repressivo della vita reale, è uguaglianza senza differenza, dove la critica dell'individualismo trascinava con sé la repressione dell'individualità reale, tale individualità reale non può poggiare solo su un'accezione negativa di libertà, libertà da, su una semplice contrapposizione tra libertà formale e libertà sostanziale, essa indica una ricchezza in positivo di forme di relazione che bisogna nutrire sia del partire da sé della differenza di genere, sia dell'umanesimo assoluto di gramsciana memoria, cioè un'umanesimo sciolto da qualsiasi vincolo e legame metafisico ed idealistico.
Insomma, solo nel nesso dialettico tra uguaglianza e differenza si può fondare un'idea non liberale di libertà, quella che Gramsci chiamava libertà organica. Lavorare politicamente e culturalmente per un'idea limite della libertà organica, per la continua interazione e costruzione del nesso uguaglianza differenza comporta una critica radicale di ogni deriva tecnologica e plebiscitaria della democrazia post moderna ed insieme l'assunzione del tema della crisi delle forme della rappresentanza, quella del tempo della solitudine del cittadino globale ben aldilà di ingegnerie costituzionali.
Siamo di fronte ad un formidabile quanto inedito tentativo di rivoluzione passiva, la dilatazione a mercato globale del capitale è capace di modellare ogni forma di vita, sociale ed individuale.
Oggi dal campo riformista, non viene nessun contrasto reale ai processi in atto, al massimo solo un'ipotesi redistributiva sul terreno economico.
L'alternativa futura, l'altro mondo possibile, non può nascere strategicamente in quel campo. Si può lealmente condividere un'esperienza di governo con loro, uno spazio politico, ma strategicamente dobbiamo progettare una sfida superiore alla loro. Una sfida di massa, non identitaria.
Questo è il cammino di fronte a noi per costruire la sinistra di alternativa. Il governo resta un mezzo e non un fine, l'innovazione non può essere un artifizio per rinunciare alla trasformazione, questa volta dobbiamo far sentire che innovazione, mutamento, condizioni di vita materiali individuali e collettive, un altro mondo possibile, stanno indissolubilmente insieme, l'uno è funzionale all'altro, noi non possiamo smarrire i nessi, ne va della nostra dignità, del senso stesso del nostro stare insieme.

Liberazione 18.7.07
Il documento approvato al Cpn
Presentato dalla Segreteria Nazionale


Il Comitato Politico Nazionale approva la relazione del segretario nazionale.
In particolare, sottolinea i seguenti punti.

Lo scontro sulle pensioni
Rifondazione Comunista è pienamente dentro il conflitto sociale e politico che attraversa il Paese e che oggi ha al suo centro il nodo decisivo della previdenza pubblica. Ci sta con grande determinazione per esprimere le istanze del mondo del lavoro, la coerenza degli impegni che sono contenuti nel programma dell'Unione, l'impegno più generale per aggredire la generalizzazione della precarietà che è il frutto avvelenato prodotto dalle politiche neoliberiste.
Nel corso delle ultime settimane si sono moltiplicati gli scioperi in molte fabbriche per chiedere una inversione di tendenza nelle politiche governative a partire dall'abolizione dello scalone pensionistiche introdotto dal governo delle destre. Queste mobilitazioni vanno sostenute e rilanciate alfine di raggiungere un esito positivo dell'accordo.
Ci sono forze che intendono adombrare lo spettro della crisi per non affrontare il merito della contesa sociale.
Noi cerchiamo un accordo socialmente equo, altri, a partire da settori moderati dell'Unione, fino ai grandi centri di potere, puntano a una nostra marginalizzazione, mettendo così in mora la stessa esistenza dell'Unione.
Questa ispirazione, coerenza nei contenuti e gestione unitaria, deve continuare ad essere una caratteristica di fondo della nostra iniziativa.
Siamo, naturalmente, per il pieno rispetto dell'autonomia delle parti sociali. Con questa premessa, riteniamo con assoluta determinazione, che la soluzione non possa essere trovata che in coerenza con il programma, attuando quanto vi è previsto.
Il quadro che è stato presentato nella relazione introduttiva e le proposte anche di merito che sono state avanzate rappresentano la base condivisa con la quale affrontiamo la fase decisiva di questo confronto, con l'obiettivo di realizzare risultati concreti e di determinare un'efficace difesa e un avanzamento nel campo dei diritti e delle tutele.
Gli organismi dirigenti del partito, in piena autonomia, esprimeranno un giudizio di merito. Ma il giudizio di fondo spetta alle lavoratrici e ai lavoratori che debbono essere chiamati ad esprimersi in maniera vincolante.

L'offensiva sociale e il giudizio sulla nostra presenza al governo
Dobbiamo lanciare una grande offensiva politica e culturale. Una offensiva per contrastare la distorsione di un dibattito scatenato in queste settimane e che vorrebbe sostenere la tesi che i nemici dei giovani siano gli operai. Una offensiva falsa e bugiarda tanto più perché scatenata da poteri economici, ambienti politici, poteri dell'informazione che sono tra i responsabili della condizione della precarietà che investe le giovani generazioni.
E' necessario non fare retorica sui giovani, ma agire per i giovani. Occorre rilanciare quelle parti del programma che prevedono il superamento della legge 30 e introdurre norme che possono contrastare la precarietà, oggi condizione dominante nell'epoca della globalizzazione.
Per questo pensiamo alla promozione di un grande processo partecipativo, una vera e propria mobilitazione generale, costituito da momenti articolati nel territorio che culmini in una manifestazione nazionale entro ottobre, promosso dalle forze politiche della sinistra, delle grandi organizzazioni sociali, le associazioni democratiche, i movimenti, i comitati di base.
Per parte nostra, proponiamo di dare vita a una consultazione vincolante e di massa sulla nostra presenza al governo. Tale consultazione si intreccia con il processo di mobilitazione e si rivolge a tutto il popolo delle sinistre. Le sue forme dovranno essere rapidamente decise e, comunque, avanziamo tale proposta anche alle altre forze della sinistra.
Dobbiamo innescare una connessione: redistribuzione del reddito, diritti del lavoro, difesa ed estensione dello stato sociale, aggressione della precarietà giovanile attraverso l'introduzione di misure concrete che partano dal reddito di cittadinanza e dalla dotazione di un pacchetto di diritti esigibili , interventi concreti che riguardano la condizione di vita e lavoro delle donne . Ma assieme a questo, occorre anche connettere l'esigenza di liberazione e libertà che è espressa dalle politiche delle donne, dal popolo del Pride, quella della democrazia che si esprime dalle grandi e piccole vertenze territoriali, dai contenuti ineludibili delle nuove sfide che pongono i nuovi termini della contraddizione ambientale, prima fra tutte quella del clima, la costituzione di un nuovo statuto della cittadinanza a partire dai diritti di donne e uomini migranti, la solidarietà e la cooperazione internazionale.
Concretamente bisogna contrastare alcune misure nell'immediato, come quelle contenute nell'allegato infrastrutturale al DPEF.
Critichiamo nel metodo e nel merito l'adozione del "mini trattato" proposto nell'ultima CIG e ribadiamo la nostra richiesta di un vero processo costituente popolare e democratico al fine di adottare una vera Costituzione Europea.
Insomma, un grande moto partecipativo che connetta i movimenti dentro un orizzonte della costruzione dell'alternativa di società e che metta in relazione quella prospettiva con la costruzione qui e ora di una piattaforma per l'Italia di oggi.

Il governo dell'Unione alla prova
Dobbiamo avere piena consapevolezza delle difficoltà del governo e della coalizione, evidenziata dal deludente risultato elettorale, dalla sempre maggiore crisi di legittimazione della politica per operare, a partire da noi, un profondo lavoro di recupero di consenso e di relazione con la società. E' ormai evidente che il Partito Democratico rappresenta il principale elemento di instabilità politica.
E' da settori interni a quello che è il Partito Democratico che viene sistematicamente messo in discussione il programma, a partire dai suoi punti più qualificanti, è dai medesimi settori che, anche con il voto in Parlamento, il governo viene sistematicamente messo in discussione.
Suoi rappresentanti, anche che fanno parte della formazione di governo, sono i principali promotori del referendum sulla legge elettorale, il cui svolgimento di fatto determinerebbe un elemento di crisi verticale dell'alleanza di governo.
Nel manifesto presentato da Francesco Rutelli, addirittura si arriva a prospettare nuove alleanze con settori moderati che seppelliscano definitivamente l'Unione.
Il punto è che il potere di condizionamento dei poteri che intendono ostacolare il processo di rinnovamento cui il Paese aspira, arriva fin dentro l'Unione, coinvolge direttamente alcuni suoi settori, ne determina i comportamenti e, attraverso questi, intende condizionare l'azione del governo e preparare nuovi scenari per determinare un quadro compatibile a un ritorno all'indietro, verso un governo espressione diretta dei poteri forti.
E' così che si creano le condizioni per la crisi e si favorisce il ritorno delle destre.
Anche in questo senso, la mobilitazione che proponiamo è decisiva per affrontare, dentro un conflitto aperto, il tema di una svolta politica, della ricostruzione di un profilo riformatore, di un rapporto positivo tra il governo, il mondo del lavoro, le forze sociali, le energie migliori del Paese.

Sinistra Europea e unità a sinistra
Siamo impegnati in maniera determinata nella costruzione di un doppio processo unitario che riteniamo indichi una prospettiva condivisa, compiendo atti impegnativi e tali da renderlo effettivo e non reversibile.
Sinistra Europea e unità tra le forze della sinistra sono i due aspetti di questo processo. L'uno non è alternativo all'altro, l'uno non si sostituisce o si sovrappone all'altro. Con la Sinistra Europea, costruiamo uno spazio pubblico della politica che, dentro il quadro di riferimento europeo, cerca di tradurre l'onda lunga del movimento dei movimento e mettere in discussione la divisione classica tra partito/ società/movimenti. Il successo dell'assemblea nazionale del 16 e 17 giugno ci incoraggia in quella direzione. Compiremo i passaggi necessari per fare in modo che Sinistra Europea sia un processo costituente vero e radicato.
Siamo impegnati coerentemente in un processo unitario a sinistra che si fonda, innanzitutto, sulle risposte da dare qui e ora, dentro i principali conflitti e alla crisi che attraversa il Paese. Un processo, quindi, che si fonda su quello che abbiamo definito patto d'unità d'azione e che costruisca forme di relazioni unitarie più avanzate.
Proponiamo un soggetto politico plurale e unitario come un obiettivo per la ricostruzione della sinistra. Un processo che non si costituisce su annessioni, cooptazioni o scioglimenti di culture e organizzazioni politiche della sinistra. Un processo, infine, che parta anche dal basso e contrasti le tendenze di americanizzazione della politica e della società.
Abbiamo coscienza che i tempi sono essenziali. Per questo, abbiamo già compiuto passi importanti e avanzato proposte impegnative e su questa strada intendiamo continuare con ulteriore impegno. In questo percorso, il nostro partito è chiamato a svolgere una funzione importante che ne raccomanda una rinnovata e più forte capacità di iniziativa.
Non è in discussione, quindi, la permanenza del partito. L'innovazione politica prodotta da Rifondazione Comunista è necessaria per riattualizzare il tema arduo della trasformazione della società come lo è per la ricostruzione di una sinistra pacifista, antiliberista, laica e antiproibizionista. Per questi motivi, pensiamo che occorra proseguire e sviluppare il percorso fecondo dell'innovazione prodotta in questi anni, dalla rottura del 1998, alla scelta di Genova e dell'internità al movimento dei movimenti, alle elaborazioni dello scorso congresso di Venezia, ai contenuti della Conferenza di Organizzazione di Carrara.
Per dare seguito agli impegni presi, Il Comitato Politico Nazionale approva il documento proposto sull'applicazione delle indicazioni provenienti dal percorso democratico svolto nella Conferenza Nazionale di Organizzazione.
Si tratta di un insieme di proposte politiche e di misure regolamentari e statutarie nella direzione di una democratizzazione della vita del partito, della critica alla pratica della separatezza istituzionale, dello sviluppo delle forme di partecipazione.
Si tratta di tradurre in percorsi concreti la pratica di una critica alla crisi della politica per proporre una possibilità di una sua uscita da sinistra.
E' questo il risultato di un vero percorso di discussione che ha coinvolto il partito a partire dai suoi circoli e che si è avvalso anche dei risultati di una prima inchiesta sul partito e le sue forme di organizzazione.
Sottoponiamo il documento a una discussione, articolata nelle strutture territoriali nonché agli organi di garanzia per prevederne la traduzione in atti formali. Questa discussione ampia potrà utilmente servirsi di una nuova fase più generale e approfondita dell'inchiesta sul partito.
Subito alla ripresa dell'attività politica dopo l'estate, il Comitato Politico Nazionale affronterà le tematiche connesse al percorso congressuale, i suoi contenuti e le sue modalità di svolgimento. Il Congresso Nazionale del Partito si svolgerà alla sua scadenza naturale, nei primi mesi del 2008.

Approvato con 146 voti a favore

Repubblica 18.7.07
Procreazione, la legge scaduta
di Stefano Rodotà


Quali sono, oggi, le virtù del buon legislatore? Prima tra tutte la consapevolezza del maneggiare sempre più spesso materia mobile, fluida, addirittura incandescente, e per ciò difficile da affidare a norme che pretendano di chiudere definitivamente una questione. La parola "fine" appartiene sempre meno al linguaggio di chi fa le leggi.
Non a caso si parla di sunset rules, di leggi destinate a tramontare, di leggi a termine, di leggi sperimentali. Ne abbiamo esperienza anche in Italia, e questo diventa quasi un obbligo quando si affrontano problemi legati ad una incessante innovazione scientifica e tecnologica che tocca la vita delle persone, le libera da vincoli naturali e così ne amplia la libertà di scelta. Un solo esempio: per le leggi francesi sulla bioetica del 1994 si previde che, dopo cinque anni, sarebbe stato necessario riscriverle tenendo conto dell´esperienza maturata.
Con questo spirito il Parlamento italiano dovrebbe leggere la relazione presentata dalla ministra Livia Turco sull´esperienza della legge in materia di procreazione assistita a tre anni dalla sua entrata in vigore. Nulla di inatteso, a dire il vero, poiché una serie di effetti negativi (diminuzione delle gravidanze e dei parti, aumento degli aborti e delle gravidanze extrauterine) era stata puntualmente prevista nel corso della lunga discussione che aveva preceduto l´approvazione della legge. Oggi quelle che potevano apparire previsioni discutibili sono divenute dati di realtà, come ha ben chiarito Carlo Flamigni analizzando la relazione. Sono parte di una esperienza che dovrebbe indurre un legislatore accorto non a fare autocritica, ma a riconsiderare le norme vigenti sulla base di una evidenza empirica che non può essere ignorata con una mossa tutta ideologica.
Colpisce il quadruplicarsi del turismo procreativo. I viaggi della speranza alla ricerca del figlio sono passati dai 1.020 del 2003 ai 4.200 del 2006. Piccole cifre, si dirà: ma esse ci mostrano concretamente che tredici donne su cento, tra quelle che in Italia scelgono di ricorrere alle tecniche di procreazione assistita, decidono di andare all´estero. Un segnale eloquente del rifiuto individuale e sociale di una legge che ha preteso di sostituire la legittima decisione delle donne (e delle coppie) con una serie di divieti contrari a ragione e Costituzione. E questa sola constatazione dovrebbe indurre un legislatore appena assennato a rendersi conto della delegittimazione che lo colpisce in una materia delicatissima com´è quella del nascere, per la pretesa di espropriare le donne dell´ordinaria loro autonomia, ed a correre ai ripari modificando la legge.
Sappiamo che nulla fa pensare che questo sia possibile, e proprio questa rassegnata conclusione continuerà ad obbligare le donne al penoso e gravoso turismo procreativo, per sfuggire ai divieti della diagnosi preimpianto, della fecondazione con gameti di un donatore, del congelamento degli embrioni, dell´accesso alle tecniche procreative da parte di donne sole. Questo esito era stato previsto in ogni dettaglio, e segnalato ripetutamente a deputati e senatori che battagliavano ideologicamente in una materia che avrebbe richiesto da parte loro sobrietà di interventi e rispetto per la vita delle persone. Tutto documentato dagli atti parlamentari fin dai primi anni del 2000.
Oggi, tuttavia, misuriamo in modo ancor più profondo i guasti della legge 40, i costi umani che sta facendo pagare. In questo obbligato viaggiare per l´Europa – dalla Spagna al Belgio, alla Svezia, alla Gran Bretagna, alla Turchia – non è raro imbattersi in centri dove l´inadeguatezza delle strutture o l´intento speculativo procurano danni consistenti alla salute delle donne. Vittime di questa legge, le donne italiane sono state ricacciate in un Far West europeo in nome di una lotta ad un Far West italiano enfatizzato oltre ogni dato di realtà, e che sarebbe stato possibile debellare con poche e severe norme sull´autorizzazione e il controllo dei centri di procreazione assistita. I parlamentari che hanno abusato di quell´argomento dovrebbero riflettere su questa realtà inquietante.
Ma chi può permettersi questo turismo? Solo le donne e le coppie che dispongono di adeguate risorse finanziarie e culturali. Torna così una storia italiana che abbiamo già conosciuto. Quando il divorzio non era ammesso e l´aborto era un reato, chi aveva denaro e contatti giusti poteva sciogliere il matrimonio e interrompere la gravidanza senza correre i rischi dell´aborto clandestino, ricorrendo appunto al turismo abortivo o del divorzio. Oggi come ieri abbiamo cittadini, meglio cittadine, di serie A e di serie B. La nascita di una nuova discriminazione fondata sul reddito, dunque il ritorno della cittadinanza censitaria.
Questa considerazione sul valore dell´eguaglianza impone di ricordare due vizi di costituzionalità che accompagnano la legge 40 fin dalla sua origine. Ricondotta com´è alla cura della sterilità individuale o di coppia, la procreazione medicalmente assistita si colloca nell´ambito degli atti medici, dunque della tutela della salute, nell´ampia sua accezione, ormai generalmente acquisita, di benessere fisico, psichico e sociale. E proprio il diritto alla salute, dichiarato "fondamentale" dall´art. 32 della Costituzione e quindi non comprimibile attraverso una legge ordinaria, è palesemente violato quando si esclude, in maniera non ragionevole, che alcune categorie di cittadini possano ricorrere a tecniche mediche largamente accettate nel mondo. Inoltre, l´esclusione delle donne non coniugate o non conviventi dall´accesso a tecniche di riproduzione assistita che altre donne possono utilizzare costituisce una violazione ancor più specifica del diritto alla salute, dal momento che il divieto è basato su una "condizione personale", in palese contrasto con quanto è scritto nell´articolo 3 della Costituzione. Tutto questo è oggi più evidente e più eloquente. Pure di questa evidenza dovrebbero tener conto i parlamentari, senza attendere che la questione possa essere risolta dalla Corte costituzionale (che, però, finora non ha mostrato adeguata sensibilità per questo tema delicatissimo).
Non penso che l´elenco di tante buone ragioni farà divenire virtuoso il legislatore italiano e indurlo a modificare la legge 40. Ma sarebbe almeno doverosa la discussione parlamentare della relazione, ascoltando anche le voci che vengono dall´Europa e che sottolineano la necessità di una normativa comune che, superando i proibizionismi, guardi ai bisogni reali delle persone. Proprio questo è oggi sempre più difficile in Italia, dove il linguaggio politico cede alla volgarità pura, dove nelle aule parlamentari si innalzano cartelli che le fanno somigliare alle peggiori curve da stadio e dove il confronto civile non ha più posto. Invano cercheremmo l´attenzione partecipe che l´Assemblea nazionale francese ha dedicato ad un grande antropologo, Maurice Godelier, ascoltato in vista di una revisione della legge sulle unioni di fatto, i Pacs, che tenga conto delle metamorfosi delle relazioni di parentela, dunque anche di che cosa sia quel "moderno" desiderio d´avere un figlio che dovrebbe stare al centro d´ogni legge sulla procreazione assistita.
Ma davanti a noi sta una politica impietosa, prigioniera delle proprie logiche, incapace di accostarsi alla vita delle persone con la discrezione e il rispetto che merita. Condanna alla sofferenze le coppie infertili così come vuole condannare ad un morire non dignitoso, opponendosi al testamento biologico. So che rivolgere critiche alla "politica", senza fare qualche distinzione, rischia di fare d´ogni erba un fascio. Ma credo che così bisogna fare, almeno fino a quando azioni concrete, chiare e risolute non prenderanno il posto di dichiarazioni a buon mercato, che sono assai poco virtuose e lasciano il tempo che trovano.

Repubblica 18.7.07
L’uomo camminò su due zampe per risparmiare energia
Studio sull’evoluzione. Gli scimpanzè bruciano il quadruplo
di Elena Dusi


Lo prova un test. Minori consumi rispetto agli altri primati
La separazione dai nostri "cugini" 7 milioni di anni fa
Tutte le ipotesi sui vantaggi di avere la "schiena dritta"

ROMA - Per camminare, due gambe sono meglio di quattro zampe. Al doppio dei piedi corrisponde infatti il quadruplo del dispendio energetico. E sarebbero stati proprio la maggiore velocità e il minor consumo di ossigeno negli spostamenti a regalare all´uomo, rispetto allo scimpanzé, un vantaggio decisivo lungo il corso dell´evoluzione.
I calcoli effettuati oggi dai ricercatori dell´università della California, confrontando le performance sul tapis roulant di 4 uomini e 5 primati, combaciano con la teoria classica di Charles Darwin, secondo cui la posizione eretta ha permesso ai primi ominidi di avere le mani libere per usare strumenti e armi. Camminare con la schiena dritta è il più antico fra i segni distintivi della separazione fra uomini e scimmie. Solo in seguito apparvero l´uso degli utensili e il linguaggio.
Michael Sockol dell´università della California, insieme ai suoi colleghi delle università dell´Arizona e di Washington, ha insegnato a usare il tapis roulant ad alcuni primati capaci di camminare sia a quattro zampe che in posizione eretta. Poi ha confrontato l´energia spesa e l´ossigeno consumato dagli animali con le performance dell´uomo, che nel corso delle ere ha perfezionato il suo apparato locomotore allungando gli arti inferiori, irrobustendo i muscoli delle cosce e modificando la forma del bacino in modo da sorreggere una schiena in posizione verticale. Il risultato, pubblicato ieri su Proceedings of the National Academy of Sciences, è stata la vittoria dell´uomo sullo scimpanzé per quattro a uno. In tutto, per percorrere un chilometro, un uomo di 50 chili spende 13 chilocalorie, uno scimpanzé ne spende 50 se cammina a due zampe e 46 se usa quattro zampe.
Quando il confronto rimane interno al campo dei primati, infatti, chi cammina a quattro zampe brucia meno energia rispetto a chi tenta di sollevare il busto e si muove su due piedi. Segno che la struttura ossea e muscolare delle scimmie non è adatta al "grande balzo" dell´evoluzione, che ha permesso ai primi ominidi (ma anche a specie assai diverse come i dinosauri e i canguri) di alzare il baricentro, guardare lontano sull´orizzonte e allungare la falcata (o il balzo nel caso dei marsupiali).
Uomini e scimpanzé si sono separati fra 4 e 7 milioni di anni fa, a seconda delle diverse teorie. E proprio intorno a quest´epoca la nostra specie avrebbe imparato a camminare con la schiena dritta. «Lo studio che abbiamo pubblicato - spiega David Raichlen, uno dei ricercatori - dimostra con chiarezza che gli uomini hanno assunto la posizione eretta per esigenze di risparmio energetico». Gli scimpanzé in natura preferiscono "gattonare" su quattro zampe, ma se necessario sanno muoversi anche su due. «Questi nostro amici sono tanto intelligenti - va avanti Raichlen - da camminare sul tapis roulant e poi premere un bottone per fermarlo se sono stanchi». Durante l´esercizio una mascherina raccoglieva l´ossigeno emesso dai polmoni e ne misurava il consumo. Alcune strisce di vernice bianca sulle articolazioni degli arti e una telecamera che riprendeva le fasi della camminata completavano l´esperimento, permettendo di ricostruire il movimento anche dal punto di vista meccanico.
La teoria dell´efficienza energetica per spiegare l´evoluzione della posizione eretta circolava da anni, senza che l´antropologia fosse mai riuscita a dimostrarla. Nel 1973 uno studio non troppo diverso da quello di oggi arrivò alla conclusione che, a due o quattro zampe, le calorie consumate erano le stesse. Quei risultati però non vennero mai accettati dalla comunità scientifica, sia per le misurazioni poco precise sia per il fatto che gli scimpanzé utilizzati erano tutti cuccioli. Il perché del salto dalle quattro zampe ai due piedi si è trasformato col tempo in un terreno di acerrima contesa fra scienziati. Una delle possibili spiegazioni sostiene che camminando a due zampe il papà potesse portare il cibo alla compagna rimasta ad accudire il figlio. Un´altra che camminare diritti espone meno ai raggi solari. Negli ambienti acquitrinosi - pensarono altri ancora - ci si bagna molto meno se si tengono sollevati il busto e le braccia. Alla fine di maggio, su Science, un´équipe dell´università di Birmingham annunciò che gli orango assunsero la posizione eretta per arrampicarsi meglio sugli alberi, utilizzando le braccia per lanciarsi da un ramo all´altro e raccogliere i frutti. Anche Lucy, la nostra più antica antenata di cui sia mai stato trovato un fossile, aveva già tutti i tratti dei bipedi. Questa donna appartenente alla specie Australopithecus afarensis aveva circa 3,2 milioni di anni e i suoi progenitori avevano smesso di gattonare, sia nella foresta che nella savana, da almeno un paio di milioni di anni.

Il mal di schiena è antico quanto la posizione eretta
WASHINGTON - Forse camminare in posizione eretta ci fa risparmiare energia, ma non fa bene alla nostra schiena. Secondo Aaron Filler del Cedars Sinai Medical Center di Los Angeles, ortopedico specializzato nelle malattie della spina dorsale, l´anatomia umana si presta in modo particolare al mal di schiena. Oggi diamo la colpa alla mancanza di attività fisica, ma Filler, studiando i resti fossili di animali vertebrati antichi fino a 21 milioni di anni fa, ha concluso che il mal di schiena è un male più antico dell´uomo e che i primi antenati a soffrire di questo disturbo erano primati ora scomparsi, abituati a sollevare il busto e allungarsi per arrampicarsi sugli alberi. Anche gli scimpanzé, così come tutte le altre specie con la schiena che tende a curvarsi in avanti all´altezza dei lombi, sono suscettibili di disturbi articolari. Ma la specie più a rischio, da questo punto di vista, è sicuramente l´uomo.

Repubblica 18.7.07
I segreti di Togliatti
di Nello Ajello


Intervista / Torna, aggiornato, il saggio di Aga Rossi e Zaslavsky su Stalin e il leader del Pci
Esce confermata la matrice sovietica di molte decisioni di Botteghe Oscure
Gli storici hanno consultato nuovi documenti negli archivi di Mosca
Per alcune nomine diplomatiche veniva chiesto il placet del Cremlino
Berlinguer e Gorbaciov erano animati dall'illusione di un comunismo democratico

Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky sono oggi i maggiori esperti nella storia dei rapporti fra l´Unione Sovietica e il Pci. L´opera che essi hanno scritto a quattro mani, Togliatti e Stalin, pubblicata dieci anni fa dal Mulino, riappare ora in un´edizione aggiornata (Il Mulino, pagine 408, euro 25), integrata da inediti documenti di archivio. Ne deriva un panorama complesso, ricco di agganci con alcune fasi cruciali della storia del XX secolo. A questa coppia di storici abbiamo rivolto una serie di domande.
Elena Aga Rossi, negli anni Ottanta e primi Novanta i suoi libri più noti, da L´Italia nella sconfitta a Una nazione allo sbando, riguardavano le vicende del nostro paese sullo scadere del fascismo. Che cosa l´ha indotta a orientare i suoi studi verso la storia della sinistra italiana?
«In realtà - risponde la studiosa - la storia dei partiti politici è stato il mio interesse originario. Mi sono laureata con una tesi su Giustizia e Libertà e il partito d´Azione. Un´antologia di documenti relativi al partito di Parri e La Malfa uscì nel ´69 a mia cura. Nello stesso anno pubblicai un volume sulla transizione dal Partito Popolare alla Dc. Ma proprio queste esperienze mi mostrarono come fosse incompleta una storia dei partiti condotta con un´ottica solo nazionale. Convinzione di cui ebbi conferma durante due anni di studio (1969-71) trascorsi ad Harvard. Poi, la conoscenza di Zaslavski è stata determinante nel senso di allargare i miei orizzonti di ricerca al di là dell´Occidente».
Zaslavski, per il suo lavoro è stata determinante la possibilità di esplorare gli archivi sovietici. Quali ostacoli ha dovuto superare per avervi accesso? E oggi, è facile esplorarli?
«Nel ´92, insieme ad Elena Aga Rossi, tentammo per la prima volta, invano, di consultare gli archivi di Mosca. Il tentativo riuscì l´anno successivo, grazie a un accordo culturale tra la Fondazione Feltrinelli e l´archivio del Ministero degli Esteri russo, che prevedeva la possibilità, per alcuni studiosi - fra i quali noi due - di accedere ai materiali archivistici del Ministero stesso. Da lì proviene gran parte dei documenti di cui ci siamo valsi per Togliatti e Stalin. E oggi? Direi che negli ultimi quindici anni la situazione è peggiorata. Restano escluse dalla consultazione - cito un solo caso - le carte di Stalin e di Molotov. L´era Putin ha segnato un sostanziale arretramento».
Alla sua prima comparsa, dieci anni fa, Togliatti e Stalin suscitò aspre polemiche. Vi si colse un attacco alla personalità del leader del Pci, al quale si accreditava un´autonomia politica da Mosca che voi contestavate.
«Allora, nel 1997 - risponde Aga Rossi - le discussioni si concentrarono sulla svolta di Salerno, che veniva considerata il personale capolavoro del segretario del Pci. Chi, fra gli storici, più aveva puntato su questa interpretazione, trovò difficile accettare una versione che nettamente la negava. Oggi si può registrare un certo grado di accettazione delle radici internazionali - per essere più chiari, dell´origine sovietica - di quell´evento. Risulta sempre più lampante l´impossibilità a quei tempi, per un partito comunista, di assumere una decisione di simile portata - cioè il riconoscimento della monarchia e la partecipazione a un governo «borghese» - senza l´avallo e il consenso di Stalin».
Ma la svolta di Salerno è solo uno dei temi trattati in quel volume.
«Certamente. I rapporti fra Pci e Pcus - interviene Zaslavski - influenzavano molte altre situazioni. Faccio un esempio. Quando in Italia si profilava un cambio nel personale nei paesi dell´Est, il Pci rendeva noto al partito sovietico il nome designato dal governo di Roma per coprire l´incarico. Si chiedeva, insomma, il placet del Cremlino. C´è da domandarsi se una nazione democratica dell´Occidente potesse avere nel proprio governo i rappresentanti d´un partito che intratteneva un simile legame con una potenza straniera. E´ proprio di fronte a fatti di questo tipo, da noi riesumati, che ancora prevale tra gli storici italiani un atteggiamento di rimozione. Tarda a svilupparsi un discorso generale sul ruolo svolto per decenni dal Pci nella vita politica italiana, sui condizionamenti internazionali di quel partito e sulle conseguenze che ne derivavano».
Quali sono le novità contenute nella nuova edizione di Togliatti e Stalin?
«Abbiamo esaminato - racconta Aga Rossi - documenti e testi storici apparsi di recente sia in Russia che nel paesi dell´ex blocco sovietico. Per esempio, il diario di Georgi Dimitrov, primo segretario del Comintern. Altra novità: diamo ampio spazio, nel volume, al resoconto di un´importante riunione che si svolse a Mosca il 10 febbraio 1948. Vi presero parte, con Stalin, i leader dei partiti comunisti jugoslavo e bulgaro. Era all´ordine del giorno l´opportunità o meno di continuare ad aiutare la rivoluzione comunista in atto in Grecia. Si profilò il proposito di bloccare gli aiuti ai greci insorti, nella convinzione che il proseguimento della sollevazione avrebbe indotto gli Stati Uniti a intervenire militarmente. Sia questa valutazione del "caso greco", sia la rottura intervenuta fra Mosca e Belgrado aiutano a spiegare il "no" di Stalin a una sollevazione armata in Italia».
Spicca nel vostro libro la definizione di Togliatti come uno «stalinista moderato».
«A Togliatti - dice Zaslavski - un merito va infatti riconosciuto: l´aver ostacolato all´interno del Pci le tendenze più massimaliste. Anche nei rapporti con Stalin si registrano, da parte sua, alcune prese di posizioni responsabili, in contrasto con quelle assunte da altri esponenti del partito, a cominciare da Pietro Secchia. Risulta eloquente, a questo proposito, un episodio che risale al marzo del ´48, vigilia di elezioni decisive. Tramite l´ambasciatore sovietico a Roma, Mikhail Kostylev, Togliatti rivolge a Stalin una domanda precisa: nel caso di una vittoria popolare della sinistra, qualora la Dc tentasse di annullarla, come dovrebbe reagire il Pci? Il modo stesso in cui il leader italiano poneva il quesito implicava, a nostro parere, una risposta ispirata a cautela. Quasi che egli volesse sentirsi dire: per carità, non muovetevi. Probabilmente, come abbiamo visto, Stalin era già convinto in questo senso, ma la moderazione di Togliatti poté servirgli da conferma».
Come si spiega, a vostro parere, lo scarso seguito che hanno riscosso in Italia le posizioni dell'anticomunismo democratico?
«Qui da noi - osserva Aga Rossi - il vero liberalismo è stata sempre una pianticella gracile. La sua crescita è stata ostacolata, con una convergenza di fatto, dai due maggiori partiti, comunista e cattolico. Penso, per esempio, al ruolo di minoranza in cui venne relegato, negli anni Cinquanta e Sessanta, un gruppo come quello del Mondo. Si può aggiungere che fino agli anni Novanta, a sinistra, il termine "riformista" equivaleva per lo più a un´ingiuria».
Qual è il vostro giudizio sulla politica dei successori di Togliatti, dai tempi di Berlinguer fino alla caduta dei muri?
«Prenderei le mosse - dice Zaslavski - dall´invasione della Cecoslovacchia, estate 1968. Essa ebbe un doppio effetto. Dimostrò che il sistema sovietico era irriformabile e accompagnò lo sviluppo, in Unione sovietica, di un movimento di dissenso e di un flusso migratorio di natura politica. Allo stesso tempo nasceva o rinasceva in molti l´illusione che fosse possibile arrivare a un comunismo democratico, senza più l´intervento dei carri armati del Patto di Varsavia. Così, negli ultimi vent´anni del regime sovietico apparvero tragiche figure di leader, come Berlinguer e come Gorbaciov».
In che senso, figure tragiche?
«Nel senso, conclude Aga Rossi, che erano accomunati dalla speranza in un comunismo dal volto umano. Con il suo eurocomunismo, Berlinguer ipotizzava una terza via tra gli ideali socialdemocratici e il regime comunista: qualcosa, cioè, che per Mosca era inaccettabile in quanto equivaleva a una sconfitta nella storica lotta ingaggiata, appunto, contro la socialdemocrazia. Gorbaciov puntava a sua volta su un suo disegno utopistico: democratizzare l´Urss e in pari tempo mantenere l´integrità dell´impero sovietico. Nei fatti, quanto più successo otteneva la perestrojka più instabile diventava il potere sovietico. E così al crollo dei muri seguì la divisione dell´Unione sovietica in quindici paesi indipendenti e la scomparsa del comunismo internazionale».

Repubblica 18.7.07
Religione e politica
Perché si sceglie il fondamentalismo
di Olivier Roy


L'Islam europeo e l’immigrazione operaia
Il radicalismo è il prodotto di una crisi di civiltà

Proponendo di sostituire il clash (scontro) di culture con il «dialogo» tra le culture, si rischia di accettare il nucleo della teoria dei fautori dello scontro, ossia l´idea che il mondo sia diviso in «culture» del tutto diverse. Ma attraverso quali caratteristiche si definisce una cultura? In generale, nell´accezione corrente tale termine presuppone la presenza di una religione o di una colorazione religiosa (cultura occidentale cristiana, cultura musulmana, ecc.), di un territorio (aree culturali, come il Medio Oriente o il «mondo musulmano») e spesso anche, almeno in relazione all´origine, di un´etnia (cultura «araba»). Ormai però in virtù della mescolanza delle popolazioni e delle migrazioni, la cultura non è più necessariamente appannaggio di un territorio o di un gruppo etnico, sebbene ancora oggi si ritenga che tutte le culture siano fondate su una religione e che tutte le religioni – quantomeno le grandi religioni del mondo – si incarnino in una cultura.
L´islam europeo, è bene ricordarlo, trae origine dalla massiccia immigrazione operaia degli anni ´60 e ´70. Di fronte alla trasformazione di questa immigrazione di lavoro in un´immigrazione di popolamento, l´Europa ha cercato di affrontare il problema ricorrendo a due paradigmi apparentemente contraddittori: il multiculturalismo nell´Europa settentrionale e l´assimilazionismo in Francia.
Oggi, tuttavia, si può affermare che questi due modelli hanno fallito, per ragioni in verità analoghe: entrambi postulano, ancorché in modo opposto, un legame intrinseco tra religione e cultura; in altri termini, conservare la propria religione significa conservare la propria cultura e viceversa. Il multiculturalismo sostiene che la religione, anche quando si svigorisce o svanisce del tutto, resta incarnata in una cultura d´origine che invece permane; l´assimilazionismo, di contro, presuppone che l´integrazione comporti per definizione la secolarizzazione delle confessioni e dei comportamenti, nella misura in cui le culture d´origine scompaiono. Ma il problema è che attualmente il ritorno del religioso (sia esso in forme fondamentaliste o spiritualiste) avviene nella gran parte dei casi attraverso la scollamento tra fede religiosa e modello culturale. L´humus del revivalismo religioso è la «deculturazione»: i musulmani francesi chiedono di essere riconosciuti in quanto francesi e musulmani, così come i giovani born again («rinati») dei Paesi Bassi o del Regno Unito non vogliono essere identificati con la cultura dei loro genitori. Eppure oggi i due modelli – multiculturale e assimilazionista – stentano a far fronte a questa nuova manifestazione del religioso «puro», che peraltro può assumere forme notevolmente diverse: dalla costruzione delle moschee al velo, fino all´estremismo politico. Il religioso «puro» può infatti incarnarsi in una pratica privata e non ostentatoria, ma altresì in un salafismo rigorista, puritano e spesso esibizionista (si esibisce per strada il velo nel caso delle donne e la tunica bianca nel caso degli uomini).
Il problema di fondo è capire se la «deculturazione» è un fenomeno peculiare dell´islam, in quanto conseguenza dei mutamenti intervenuti in seno alla seconda e alla terza generazione di immigrati in Europa oppure in quanto effetto della progressiva occidentalizzazione delle società musulmane, o se non partecipi viceversa di un destino, di una deriva comune a tutte le grandi religioni contemporanee, a partire dal cristianesimo. In quest´ultimo caso (ed è questa la mia tesi), le manifestazioni di religiosità collegate all´immigrazione musulmana in Europa non sarebbero altro che un aspetto dei fenomeni di ricomposizione delle identità religiose nel quadro della globalizzazione.
Nel caso dell´islam il fenomeno della deculturazione è palese. Sebbene resti celata nella prima generazione di immigrati, per i quali la religione è legata alla cultura d´origine, nelle generazioni successive la deculturazione è invece caratterizzata da un certo numero di fenomeni. Quello più evidente è l´arretramento della lingua d´origine a vantaggio della lingua del paese d´accoglienza: fenomeno questo che ha raggiunto l´apice in Francia e nel Regno Unito, mentre è più debole in Italia e in Spagna (perché si è ancora alla prima generazione) e in Germania (dove in realtà la lingua turca si conserva grazie al grado di alfabetizzazione dei turchi nella loro lingua d´origine).
Si assiste poi a una crisi generazionale: il modello familiare tradizionale e patriarcale è in crisi. L´aumento dei delitti d´onore è infatti – e soprattutto – il sintomo dell´emancipazione femminile nella seconda generazione (...). La moda, la musica, le abitudini alimentari dei giovani si rifanno alla street culture occidentale più che alle tradizioni dei genitori. Peraltro, quanti tra i giovani si rivolgono all´islam non seguono affatto la religione dei loro genitori ma si costruiscono un islam proprio. (...) L´islam cui si rifanno molti born again, ossia il salafismo, si oppone esplicitamente a qualsiasi cultura nazionale – ivi comprese le culture musulmane – promuovendo invece una religione epurata da particolarismi locali; il che spiega il fascino che il salafismo può esercitare su giovani deculturati quali i musulmani europei della seconda generazione. In realtà il salafismo presenta la deculturazione non come una perdita, bensì come l´occasione per riguadagnare «tutto»: un islam puro, universale e realmente internazionalista. (...)
Anche la violenza deriva dalla rottura dei legami con i paesi d´origine. Il radicalismo è una conseguenza patologica (e minoritaria) dell´occidentalizzazione piuttosto che l´espressione dell´importazione in Europa delle culture e dei conflitti mediorientali. Non è dunque attraverso il dialogo con le autorità dei paesi d´origine dell´immigrazione che si può, tranne in casi eccezionali, tentare di trovare una soluzione. Allo stesso modo, il concetto di «dialogo di civiltà» non coglie il fatto che non ci troviamo di fronte a due civiltà diverse, bensì a una crisi di civiltà, una crisi del rapporto con la cultura. Quando una religione, quale che sia, viene ricostruita al di fuori della cultura, sfocia quasi inevitabilmente in forme di radicalismo.
(Traduzione di Marianna Matullo)

Repubblica 18.7.07
Come muta e migliora una specie
La vita non si riproduce uguale a se stessa
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza


A cambiare è il DNA, la sostanza responsabile dell'eredità
Le mutazioni sono brusche trasmissibili casuali, rare e spontanee
Ragionevole pensare ai collegamenti tra scimpanzé e uomini
I due figli di un batterio non sempre sono identici al genitore

Perché un organismo non si riproduce sempre uguale a se stesso? Che cosa introduce novità nella storia della vita?
Un batterio si divide in due e genera due figli, che di solito sono identici al batterio che li ha generati: eppure qualche volta acquistano proprietà che questo non aveva, per cui risultano diversi dal genitore. Lo stesso fenomeno si verifica fra le piante e gli animali che si riproducono per via sessuale: maschio e femmina mescolano il proprio patrimonio ereditario, e il figlio porta un misto delle caratteristiche di padre e madre; ma a volte può capitare che presenti un carattere che non era presente né nei genitori, né nei loro antenati. Come mai?
Ben prima che Darwin aprisse la strada allo studio dell´evoluzione, ci si era accorti che possono comparire, nella storia della vita, caratteri che non erano presenti in precedenza: magari cambia leggermente la forma della foglia in una pianta di varietà ben nota; oppure cambia qualcosa nel piumaggio o nel becco di uccelli che hanno abitato per secoli una determinata zona. Gli agricoltori e gli allevatori sono stati attenti da sempre ad approfittarne: una spiga di frumento o di granturco che presentasse chicchi più abbondanti, o una mucca che fornisse più latte, venivano subito scelte per la riproduzione. Questi interventi umani hanno dato origine a molti miglioramenti delle piante coltivate e degli animali domestici, ma naturalmente potevano essere utili solo se i mutamenti osservati erano ereditari, cioè trasmissibili ai figli.
Darwin notò che questa esperienza degli agricoltori ed allevatori poteva aiutarci a spiegare perché avviene l´evoluzione. Rendeva anche ragionevole pensare che le somiglianze osservate fra gli uomini e gli animali più simili a noi, gli scimpanzé, potessero derivare dal fatto che in origine erano la stessa specie, ma si erano formate due linee diverse che erano evolute in organismi differenti. È un´idea che poteva dispiacere a chi non ama gli animali, e addirittura essere ritenuta sacrilega da alcune religioni, mentre per altre era del tutto ovvio che discendiamo dagli animali. Però, se l´evoluzione è possibile perché almeno alcune delle differenze che nascono fra genitori e figli sono ereditate, questo significa che l´evoluzione può essere un fatto inevitabile. Così è, in effetti.
Rimase a lungo un mistero, comunque, che cosa determinasse questi minuscoli cambiamenti. Ci volle più di un secolo di ricerche per arrivare a capirlo. Come sempre accade nella scienza, ci si riuscì in più tappe.
Con un lavoro pazientissimo proseguito per oltre vent´anni, allevando e incrociando milioni di drosofile in una stanzetta della Columbia University di New York, Thomas Hunt Morgan e i suoi collaboratori avevano raccolto moltissimi ceppi che portavano piccoli cambiamenti, tutti perfettamente ereditabili, nella forma o nel colore di occhi, zampe, ali, torace e altri parti del corpo degli insetti. La loro ricerca era stata facilitata dalla scelta di un organismo facile da allevare: il moscerino della frutta o Drosofila.
Hermann Muller, un ricercatore del gruppo, poté dimostrare che ogni cambiamento si manifestava molto raramente ma con una frequenza particolare e riproducibile, e che veniva poi ereditato secondo le leggi formulate da Mendel, o che da queste potevano essere derivate in accordo con la teoria cromosomica dell´eredità, che ha valore più generale. Diciamo che, ad esempio, ogni duecentomila moscerini ne nasca uno con il corpo nero invece che giallo, e che uno su centomila possa nascere con gli occhi bianchi anziché rossi o di altro colore o forma. Questi numeri dipendono non solo dal tipo di cambiamento, ma anche dalla temperatura alla quale vengono allevati i moscerini: aumentano con la temperatura come in una normale reazione chimica. Muller dimostrò pure che la frequenza con cui appare una mutazione può essere aumentata di cento e più volte irradiando i genitori con raggi X o altre radiazioni, in un modo che ci dice (oggi) che la reazione chimica è influenzata da agenti ossidanti o che modificano altrimenti il DNA.
A cent´anni di distanza da quando ebbero inizio gli esperimenti di Muller, sappiamo molto sulla natura chimica e fisica del fenomeno, perché conosciamo la struttura della molecola del materiale ereditario, il DNA. Questi cambiamenti furono chiamati da Muller "mutazioni", un nome che già esisteva: era stato proposto al principio del secolo dal botanico olandese Hugo de Vries, uno dei riscopritori di Mendel, che però lo aveva impiegato per un fenomeno un po´ diverso, che con la mutazione come la intendiamo oggi non ha niente a che vedere.
Le osservazioni di Muller furono estese a moltissimi altri organismi e permisero di descrivere con esattezza in cosa consistano le mutazioni: si tratta di un cambiamento brusco, trasmissibile, casuale, spontaneo e raro del patrimonio ereditario. Brusco, perché si tratta di un cambiamento netto: per esempio, da genitori e antenati con le ali lisce nasce una drosofila con le ali arricciate. Fra i discendenti di quest´ultima compaiono moscerini con le ali arricciate allo stesso strano modo, per cui il cambiamento è trasmissibile. Una mutazione compare solo occasionalmente: è quindi un fenomeno raro. È anche spontaneo e casuale? E qual è la sostanza che si trasforma?
Durante l´ultima guerra, due ricerche batteriologiche fecero luce sulla questione. Nel 1943 un genetista italiano, Salvador Luria, e un tedesco, Max Delbrück, entrambi rifugiati negli Stati Uniti per sottrarsi alla dittatura nei rispettivi paesi, appurarono che la mutazione presenta queste identiche caratteristiche anche nei batteri. Con un esperimento molto brillante, coltivando batteri in provetta ed esponendoli all´azione del batteriofago (un virus che divora i batteri, come dice il nome), Luria e Delbrück riuscirono a dimostrare che se alcuni batteri sviluppano resistenza al virus, che perde così la sua efficacia, questo non avviene perché siano stimolati dalla presenza del batteriofago e stiano tentando di difendersene, come si credeva fino ad allora. La ragione è semplicemente che avvengono comunque di continuo mutazioni di resistenza, come di tutti i tipi, anche in totale assenza di batteriofago, con una frequenza caratteristica ma molto piccola, e alcune di queste rendono il batterio insensibile all´azione del virus. Le mutazioni, cioè, si verificano prima che il batterio venga a contatto con il batteriofago, del tutto indipendentemente dalla presenza del batteriofago, e gli permettono di sopravvivere. Il contatto con il batteriofago si limita a selezionare mutazioni già avvenute, cambiamenti spontanei che hanno una frequenza ben riproducibile, alterabile come se si trattasse di una reazione chimica.
Queste conclusioni furono criticate perché tutti i batteriologi erano convinti che il cambiamento fosse indotto dal contatto con il batteriofago, ma furono confermate in seguito da altri esperimenti, che eliminarono ogni dubbio.
All´Istituto Rockefeller di New York tre americani, Oswald Avery, Colin MacLeod e Maclin McCarty, dimostrarono nel 1944 che cosa cambia materialmente in ogni mutazione: è la sostanza chimica responsabile dell´eredità, il DNA, un acido che si trova nei cromosomi. Sperimentando con batteri responsabili di numerose infezioni, gli pneumococchi, essi restituirono a un ceppo privo di virulenza la capacità di uccidere i topolini usati come cavie di laboratorio, mettendoli a contatto con il DNA, altamente purificato, estratto da un batterio virulento. Con un altro esperimento confermarono che la sostanza trasformante era proprio il DNA: trattandola con un enzima, anch´esso altamente purificato, che demolisce soltanto il DNA, dimostrarono che è effettivamente questa la sostanza che trasmette l´informazione ereditaria.
Ma come può il DNA portare il materiale ereditario? Vi era una vecchia nozione chimica che sembrava rendere impossibile questa affermazione. La struttura del DNA era stata descritta nell´Ottocento da un chimico tedesco, Friedrich Miescher: una molecola piuttosto piccola, composta di quattro unità dette nucleotidi: A, C, G, T. Con una struttura così semplice, come era possibile spiegare l´estrema complessità dell´eredità biologica? Occorse più di mezzo secolo per capire: la struttura proposta da Miescher era sbagliata. Era stata suggerita dall´osservazione che queste quattro sostanze si trovano in quantità all´incirca eguali nelle cellule degli animali superiori. Più avanti, all´inizio degli anni Cinquanta, si sarebbe scoperto che nei batteri, invece, si trovano in quantità molto diverse. Vi è però una regola fissa: C e G sono presenti in quantità eguali; anche A e T lo sono, ma in quantità diverse da C e G.
In realtà, nell´Ottocento non vi erano i mezzi per capire quanto grande fosse una molecola di DNA. Oggi sappiamo che è una molecola estremamente sottile ma lunghissima, lunga quanto un cromosoma srotolato. Il DNA ha forte tendenza a spiralizzarsi, formando spirali, spirali di spirali e gomitoli di spirali, che alla fine sono abbastanza spessi da divenire visibili al microscopio normale, ma sono a questo punto molto corti. La struttura della molecola fu dimostrata nel 1953 da un batteriologo americano allievo di Luria, James Watson, e dal fisico britannico Francis Crick. Divenne chiaro che può bastare che cambi anche una sola di queste sostanze, A, C, G e T, in un punto qualunque del DNA, per osservare una mutazione nell´organismo che la porta.
Questa scoperta ha cambiato radicalmente la biologia, e ci ha portato oggi ad una nuova era appena iniziata, quella del genoma. Che cosa ci attende in questo secolo? E come può essere che un minuscolo cambiamento chimico, spontaneo e casuale, la mutazione, sia responsabile di un fenomeno gigantesco come l´evoluzione di milioni di specie di organismi viventi?
(3 - continua)

Corriere della Sera 18.7.07
Migliore: conservatrice è lei, che ci fa nel governo?
di Mario Sensini


ROMA — «Emma Bonino? Mi fa venire in mente quel libro di Chatwin,
Che ci faccio io qui?. Ecco, mi domando cosa ci sta a fare la Bonino nel governo». Che Gennaro Migliore, capogruppo di Rifondazione comunista alla Camera, sia irritato dalle motivazioni addotte dal ministro radicale per giustificare la remissione del suo mandato a Romano Prodi è dire poco. «Posizioni conservatrici e reazionarie della sinistra? Io non penso di dover nascondere nulla, ma voglio dire che si possono prendere ottime lezioni dalla Bonino. Il suo è un atteggiamento intimidatorio che getta discredito, con accuse del tutto campate in aria, nei confronti di chi come noi sta sostenendo con impegno una soluzione positiva per il governo di cui lei stessa fa parte».
Quindi?
«Ne concludo che questa sua sortita sia frutto di una sensazione di estraneità alla compagine di governo e della maggioranza».
Vi accusa di puntare alla riduzione dell'età pensionabile...
«Noi abbiamo fatto una proposta che prevede il superamento dello scalone, come sta scritto nel programma del governo che anche lei ha sottoscritto, e ci siamo sforzati di spiegarla a tutti. Io la proposta della signora Bonino non la conosco, a meno che non sia quella di insultare i sindacati e la sinistra».
Sostiene che il piano di Rifondazione comunista porterà ad un aumento della spesa previdenziale...
«Quello che noi cerchiamo è un'intesa che salvaguardi l'equità sociale, perché non sono la stessa cosa il mio lavoro e quello di chi sta in catena di montaggio, e che abbia anche una sostenibilità finanziaria. E siamo convinti, come dice anche l'Economia, che i soldi ci siano. Ci sono nell'Inps, ne arrivano altri dall'aumento dei contributi dei lavoratori dipendenti, e altri ne arriveranno perché stiamo facendo una lotta seria contro l'evasione fiscale, ma anche contributiva, perché puntiamo all'emersione del lavoro nero».
Il ministro dice che se si smonta lo scalone ci allontaniamo dall'Europa...
«Lei la conosce bene l'Europa, e allora perché non dice che l'età di pensionamento media effettiva in Italia è di soli quattro mesi più bassa chein Francia ein Germania? Perché l'europeista Bonino si ricorda sempre troppo tardi che l'evasione fiscale in Italia è quadrupla rispetto alla media europea? Questo vedo che non la scandalizza affatto».
Resta il problema dei costi della riforma.
«Ragionare sulle risorse è giusto, ma non si deve per questo calpestare la vita delle persone. Noi difendiamo i diritti dei lavoratori, ed una buona politica è quella che guarda alla società, non quella che si fa con questi trucchetti da prima repubblica. Rimettere il mandato... Mah! Ciascuno dovrebbe trarre le conseguenze delle proprie convinzioni. Non mi pare assolutamente un modo corretto di interloquire, questo».
Allora ha ragione la Bonino, con i riformisti voi siete proprio incompatibili...
«Il punto è capire se qui stiamo parlando della riforma del sistema previdenziale o della natura del governo. Sulle pensioni, ripeto, noi di Rifondazione cerchiamo un accordo che garantisca equità sociale e sostenibilità finanziaria. Ho l'impressione che altri vogliano, invece, mettere solo in discussione l'esistenza stessa del governo. Lo dica allora, la Bonino. E la smetta di speculare sulle spalle di qualche centinaio di migliaia di lavoratori che non meritano l'iniquità dello scalone».

Corriere della Sera 18.7.07
Colonialismo. Un volume analizza i diari dei nostri connazionali in Africa orientale
Esotica quanto erotica, l'Abissinia degli italiani
Il fascino delle indigene era più forte dello spirito imperiale
di Giovanni Belardinelli


C he nel 1935-36 la guerra d'Etiopia rappresentasse il momento di massimo consenso degli italiani al regime fascista, quello nel quale la retorica mussoliniana seppe anche intercettare sentimenti profondi della popolazione, è un fatto da tempo riconosciuto. Ma il libro di una giovane studiosa, Giulietta Stefani ( Colonia per maschi. Italiani in Africa orientale: una storia di genere, Ombre corte, pp. 202, e 18), esamina ora la questione da un altro punto di vista: studia cioè, soprattutto attraverso i diari e le memorie conservati nell'Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, l'insieme di sogni, paure, aspirazioni e delusioni che furono proprie degli italiani che allora si recarono in Africa, come civili o come militari. Quell'impresa coloniale, secondo il Duce, rappresentava una prova per collaudare «la virilità del popolo italiano»: coinvolgendo quasi 500 mila giovani (un quinto di quanti allora avevano dai 20 ai 25 anni), doveva contribuire appunto a forgiare l'«uomo nuovo» fascista, impegnato nella conquista militare, ma anche nella colonizzazione dell'Etiopia. In realtà, a giudicare dalle testimonianze utilizzate nel libro, le cose andarono in modo diverso.
Almeno nel caso dei civili, di quanti cioè si erano recati nella nuova colonia per lavoro, si trattò di un soggiorno pieno di disagi, durante il quale le speranze di ricchezza che avevano indotto alla partenza furono presto sostituite dalla disillusione. «A volte c'erano vermi nella minestra», scrive un ex operaio che aveva lavorato alla costruzione della strada tra l'Asmara e Addis Abeba, per giunta faticando non poco a farsi pagare dalla ditta presso cui era impiegato. E un altro ricorda di aver dovuto dormire in «brande di ferro senza un pagliericcio e senza niente». Alcune testimonianze menzionano il sollievo di incontrare a volte dei «compaesani », registrando invece il disagio di fronte ad italiani di altre regioni, per la «Babele di dialetti» che poteva far sentire ancora più sperduti. Fino alla comparsa di un pregiudizio antimeridionale dai toni quasi razzisti: «È doloroso dirlo — si legge in un diario — ma in Etiopia abbiamo mandato troppi meridionali. Sono troppo arretrati per avere autorità, per imporre quella che si chiama civiltà europea. Taluni di essi si trovano perfettamente a loro agio nella sporcizia dei tucul, perché nel loro paese pugliese o calabrese non ebbero mai nulla di meglio».
L'impressione generale che si ricava da diari e testimonianze di civili, osserva la Stefani, è che «l'esperienza in Etiopia abbia smorzato, se mai c'era stata in questi individui, l'adesione al modello coloniale fascista». Ed è un'osservazione che riguarda gli stessi militari: un ufficiale, riflettendo sul fatto che in Africa sembrava non attecchire l'uso del «voi» imposto dal regime nel 1938 al posto del «lei», concludeva con l'impressione che lì, per la stessa lontananza dall'Italia, l'ideologia fascista fosse stata collocata «come in soffitta ». Le testimonianze di italiani in Etiopia, coeve o posteriori, sembrano riproporre un immaginario coloniale largamente antecedente il fascismo, quell'insieme di sogni e fantasie esotiche (ed erotiche) sull'Africa che aveva caratterizzato già da fine Ottocento la popolazione maschile di vari Stati europei.
Così, nelle descrizioni dovute alla penna di ufficiali o di civili colti, ritorna il topos — diffuso attraverso tanti racconti di viaggio e romanzi coloniali — dell'Africa come terra del mistero e dell'avventura, grande spazio popolato da animali selvaggi e per il resto vuoto o quasi di esseri umani (che la presenza degli indigeni fosse un dato del tutto marginale era stato appunto un elemento essenziale della rappresentazione europea del continente africano e una delle principali giustificazioni della sua conquista). Ritorna la contrapposizione tra la vita debilitante della madrepatria e quella «tonificante» ed «eccitante» della colonia. Ritorna la rappresentazione dell'Africa come paradiso dei sensi, quell'insieme di luoghi comuni sulla sfrenata e disinibita sessualità delle africane che aveva nutrito, dall'inizio del colonialismo, l'immaginazione di tanti europei. Si trattava di una rappresentazione in cui l'attrazione e la repulsione si mescolavano, a giudicare dalla facilità con cui la descrizione del fascino delle donne indigene poteva lasciare il posto alla caratterizzazione quasi animalesca delle africane. Ed era, questa, un'oscillazione che spesso corrispondeva al modo in cui la cultura dell'epoca contrapponeva il talento seduttivo delle donne arabe all'aspetto selvaggio delle «negre».
I riferimenti alle indigene rappresentano un argomento molto frequentato nelle memorie di chi si era recato in Etiopia; ma nella realtà gli effettivi contatti erano stati sporadici, limitati alla prostituzione e, per alcuni ufficiali, al cosiddetto «madamato», un rapporto temporaneo d'indole coniugale destinato a terminare con il ritorno in patria. Una pratica, quest'ultima, che era da tempo giustificata con l'argomento che le stesse regole indigene la consentivano, e che spesso coinvolgeva donne giovanissime, quasi delle bambine. A partire dal 1937 il regime vietò ogni relazione di tipo coniugale fra italiani ed indigene, che divenne punibile con la reclusione da uno a cinque anni. Ma è probabile, osserva Giulietta Stefani, che la pratica rimanesse diffusa, benché in forma sommersa. Si tratterebbe di un ulteriore motivo, dunque, per ritenere che l'esperienza «africana» di tanti italiani venisse toccata solo in parte dalle direttive del regime e dai suoi progetti di costruzione dell'«uomo nuovo» fascista.

il manifesto 18.7.07
Manipolazioni
di Rossana Rossanda


Nessuna discussione come quella delle pensioni è segnata da tante menzogne, errori e reticenze. Comunque vada - accordo o rottura dell'Unione - essa resterà una pagina singolarmente bassa della nostra stagione politica. Lasciamo da parte il profilo morale, dove la maggioranza da' per giusto e solidale che circa la metà dei pensionati italiani - su oltre 16 milioni - viva con meno di 750 euro al mese, cifra che a chi decide della loro sorte non basta per due giorni. Ma guardiamo all'informazione, tutta scesa dall'approssimazione alla menzogna pura e semplice, all'omissione e manipolazione. Non credo che chi ci governa , la stampa e la tv non sappiano come stanno realmente le cose. I dati Istat e della Ragioneria dello stato sono di facile accesso e nel complesso chiari. Dico «nel complesso» perché lo sminuzzamento delle tipologie e dei tipi di calcolo non aiuta il cittadino a capire che cosa personalmente può attendersi, ma chi decide ne è perfettamente al corrente. Vediamo le maggiori libertà, diciamo così, che la nostra classe dirigente e i suoi editorialisti si prendono.
1. Governo e grandi firme dicono che occore d'urgenza riformare il sistema previdenziale perché come tale è in deficit. E' falso. Il rapporto entrate e uscite delle pensioni da lavoro - quanti contributi hai versato e quanto riceverai a occupazione finita - è da qualche anno in attivo, compensandosi le categorie relativamente più privilegiate sui fondi del lavoro dipendente privato e pubblico. Se nel bilancio dell'Inps appare un modesto deficit è perché gli sono attribuiti, oltre alle pensioni di lavoro, una serie di provvedimenti assistenziali cui il governo fa fronte (più o meno giusti e se mai a decrescere). Questo sta scritto nei dati ufficiali, lo dicono i sindacalisti, vi ha lavorato Rc, lo spiega su Repubblica in termini semplici ed esatti Luciano Gallino - ma niente, la tesi resta quella, troppi i pensionati, pochi i contributi, e sarà sempre peggio. E chi deve pagare questo deficit assistenziale (dopo avere già colmato quello previdenziale dei coltivatori agricoli, degli artigiani e dei dirigenti d'azienda (!), dei telefonici e degli elettrici, perché è una selva di sistemi differenti) se non l'ex fondo dei lavoratori dipendenti specie del settore privato? Quelli pagati meno e sicuramente non evasori? A costoro si chiede di allungare il tempo di lavoro e allargare la contribuzione. Questa, ridotta al sugo, la famosa riforma.
2. A premessa o coronamento di questo assioma stanno le previsioni sul futuro, destinate a dimostrare che saremo sempre meno, sempre più vecchi, quindi ci saranno sempre meno contributi, spaventevoli «gobbe» nei deficit. Nuove leve a pensione zero. E' perfino curioso, direi strampalato, che nessuno dia un'occhiata al trascorso decennio, dalla riforma Dini in poi: non una delle proiezioni avanzate allora si è rivelata giusta. Nel 1995 s'era previsto che la popolazione residente sarebbe calata, nel 2005 saremmo stati 57.613.144, mentre a quella data siamo risultati 58.751.711: errore di oltre un milione, siamo il 2% di più. Ma più vecchi improduttivi? No, è aumentato il numero di chi è in età lavorativa, la fascia fra i 24 e 29 anni è cresciuta di oltre il 6%, il tasso di chi sta al lavoro fra i 15 e 64 anni è cresciuto del 3%. Last but not least, in concreto in Italia si va in pensione mediamente a 61 anni e qualcosa. Non sarà stata cattiva intenzione, ma certo un clamoroso errore, che dimostra quante varianti intervengano nella previsione e quanto valgano le attuali estrapolazioni su un temibile futuro.
3. Nel bel mezzo della non innocente confusione stanno gli immigrati. Nel 1995 il governo previde che al 2005 ne sarebbero entrati e regolarizzati 51.000. Sono stati invece 238.357, e in gran parte costituiscono la fascia giovane in aumento. Una volta regolarizzati pagano contributi e tasse (fra parentesi, le tasse le pagano anche i pensionati, che non sono soltanto spesa). Si aggiunga che quelli che ce l'hanno fatta ad arrivare alle nostre coste senza affogare (troppi e non fanno più neppure cronaca) sono robusti, e non abbiamo speso un soldo per alfabetizzarli e magari diplomarli. Bisogna essere Bossi o Fini, maniaci dell'identità nazionale e simili stupidaggini, per non capire che essi sono ormai costitutivi dell'Europa mediamente affluente, ne allargano la platea contributiva, sono una risorsa. Se non se ne tiene conto, tutte le previsioni sia sulla speranza di vita (fra l'altro diversa per leggibilissime categorie sociali) sia sulla composizione del lavoro e della platea contributiva sono destinate a equivoci grossi come nel trascorso decennio.
E si potrebbe continuare. Non sempre è menzogna: è «naturale» oscuramento, come quello calato sulle donne. Esse, si sa, hanno una maggiore speranza di vita e pretendono la pensione cinque anni prima. Vampire! Si finge di scordare - o, peggio, si scorda davvero - che una lavoratrice aggiunge alle trentacinque o quaranta ore di attività fuori casa (e non si sa quante di più le colf e badanti al nero, perché le nostre signore non pagano i contributi) il lavoro a casa propria: nutrire, lavare e stirare i loro uomini, allevare i bambini, prendersi cura dei vecchi, pulire la casa, fare la spesa e assolvere alla burocrazia minuta - tutti lavori che prendono tempo e non vengono pagati, ma dei quali si potrebbe calcolare agevolmente il costo sulla retribuzione di chi lo svolge da professionista (colf, badanti, infermieri, segretarie). Dire che mediamente una lavoratrice sgobba non sette ore per cinque ma sette per sette è approssimato per difetto. Eugenio Scalfari scriverebbe che non la usura se continua a farlo finché si regge in piedi.
E oscuramento è del resto quello sui lavori «usuranti» dove forse non si mente ma tutti, sindacati inclusi, traccheggiano. Non occorre essere uno psicologo o sociologo in cattedra per sapere che qualsiasi lavoro che è solo ripetitività, fatica e noia, solo macchinale, senza possibilità di scelta o decisione e non ha per contropartita altro che il salario, è usurante fisicamente e/o psichicamente, è alienante e mangia energie. Come per un precario la permanente incertezza sul domani è nove volte su dieci più logorante di un lavoro. Il decimo lo lasciamo alla signorina Padoa Schioppa, che - suo padre dixit - è contenta di sapere solo il venerdì se potrà lavorare il lunedì seguente. Ma torniamo alla menzogna su fatti e dati pur facilmente controllabili. A che si deve?
Due mi sembrano le spiegazioni. La prima che, pur essendo alla quota di sfacciataggine sociale 2007, ci si vergogna a dire: Carissimo popolo italiano, manterremo le pensioni al livello in cui sono (8 milioni di voi con meno di 750 euro al mese, l'80 % dei quali con meno di 500 euro) ma dovrete lavorare alcuni anni di più, nonché conferire il tfr a qualche fondo di investimento, perché dobbiamo pompare i vostri soldi per sollevare le nostre povere imprese. Se con questo vostro aiuto ce la faranno nella concorrenza, avrete alla fine qualche euro in più, non come pensionati ma come azionisti; se non ce la faranno, perderete anche quelli. La crescita delle imprese sia il vostro motto, tirate fiduciosamente la cinghia.
La seconda è che la prima legge non è quella del Signore, ma quella della Commissione europea e della Banca centrale che esigono il nostro rientro nel debito al ritmo previsto. C'è stato un aumento imprevisto delle entrate fiscali? Vada a risanarci un po' più in fretta. E' vero che in Francia Nicolas Sarkozy ha detto a quelle due autorità supreme del continente: a proposito, la Francia rientrerà non nel 2008 ma nel 2012, e non è caduto il mondo. Ma lui è la destra e noi la sinistra, lui puzza di protezionismo mentre noi, fedeli alla libertà, lasciamo sfondare le nostre frontiere e se appena possiamo sfondiamo quelle altrui: una vivace azienda italiana si è mangiata due settimane fa un'azienda francese in buono stato per chiuderla e spostarla in Tunisia, dove il lavoro costa molto meno. E arrivederci alle maestranze.
Questo si fa ma non si dice. Almeno non fino a quando la maggioranza è formata dall'intero arco della sinistra, Rifondazione e Pcdi inclusi, e soprattutto al Senato ha bisogno di ogni voto fino all'ultimo.
Sarebbe diverso se, come non nascondono Francesco Rutelli e buona parte dei dirigenti del nascituro Partito democratico, la maggioranza si liberasse della sua sinistra, definita massimalista e conservatrice, e potesse contare sui voti della Udc e altri, possibilmente sciolti ma sufficienti a rimpiazzarla. Oppure se il governo cadesse e si formasse, sotto gli auspici del presidente della Repubblica, un bel governo di unità nazionale che non avrebbe più bisogno di mentire, salvo naturalmente sotto le elezioni. Oggi come oggi è ancora difficile che senza alzare foglia lo stato, interdetto dall'intervenire in economia, intervenga minutamente a sciogliere tutti gli impegni che mettono in qualche modo limite alla logica dei profitti. Questo è, d'altronde, il vero nodo dell'attuale maggioranza.

il manifesto 18.7.07
La Cina s'adegua: a morte aguzzino di operai
Al muro Dopo il manager dei farmaci finti tocca a un guardiano killer: diritti umani, ma col plotone d'esecuzione
di Giulio Abbadie


Zhao Yangbin è stato condannato a morte. E' l'ex custode di una fabbrica di mattoni a Hongtong, provincia dello Shanxi, «a ovest delle montagne». Nella fabbrica era da tempo in corso un vero e proprio regime schiavista, in cui i lavoratori venivano picchiati, privati dei più elementari diritti e addirittura uccisi. Zhao Yangbin ha ucciso uno dei lavoratori, a bastonate, - lavorava troppo piano, si sarebbe giustificato. Bastonare era il suo lavoro. Il «Tribunale intermedio del Popolo» di Linfen, una delle città più inquinate della Cina, lo ha condannato alla pena capitale. La decisione arriva solo pochi giorni dopo l'esecuzione dell'ex «uomo-qualità» cinese, Zheng Xiaoyu, e dopo che sulle colonne del People's Daily è comparso un commento dal titolo «Solo la pena di morte può estinguere un crimine così immenso», chiosato con un osanna ai metodi efficentisti della giustizia cinese, «possa il Partito trarre insegnamento dagli esempi negativi».
Quello che la corte di Lenfen ha appurato non risulta nuovo nelle cronache cinesi: le vittime, anche bambini tra i sette ed i quindici anni, venivano costrette a lavorare fino a 16 ore al giorno e picchiate in caso di scarso rendimento. Vivevano in baracche senza cucine e senza bagni, controllate a vista dalle guardie private dei proprietari e da cani feroci. Lividi, ferite, la pelle bruciata dai mattoni incandescenti appena usciti dalle fornaci, che venivano costretti a trasportare. In totale gli schiavi liberati nello Shanxi e nella provincia dell'Henan sarebbero un migliaio.
La decisione di condannare a morte Zhao Yangbin, insieme a 28 altre pene dai due anni all'ergastolo per i responsabili delle condizioni di lavoro della fabbrica, pone ancora una volta la Cina al centro dei dibattiti internazionali. La decisione del tribunale intermedio apre una breccia su alcuni nervi scoperti della società cinese. Innanzitutto i rapporti con il resto del mondo e l'ansia di redimere all'interno il rischio di instabilità sociale. La necessità di assicurare l'estero sulla propria intransigenza nei confronti di temi come la qualità dei prodotti o i diritti sul lavoro è ormai una priorità del governo cinese, specie se si parla di lavoro minorile, sfruttamento, condizioni di lavoro inumane: dopo il recente scandalo portato alla luce dal rapporto di Playfair Alliance - secondo il quale a fabbricare le mascotte delle venture Olimpiadi di Pechino sarebbero per lo più bambini - la Cina ha la necessità di fare chiarezza sui propri impegni con il mondo che la sta a guardare. E di ergersi a rapido e immediato giustiziere utilizzando una moneta, la pena di morte, adoperata anche altrove in Occidente.
Dal punto di vista interno riecheggiano le parole di Deng: «Non importa se il gatto è bianco o nero, ciò che conta è che acchiappi i topi». E allora la fucilazione, subito lanciata sui media e poi destinata a sparire dalle notizie, sostituita dai tripudi per lo stock market o per la nazionalistica vittoria che ha visto la chiusura di Starbucks nella città proibita (ma rimangono le targhe fuori dalle stanze, con i ringraziamenti all'American Express), diventa un deterrente anche all'interno. Laddove non arriva la giustizia, più volte sono gli stessi cinesi a cercarla, in una forma che spesso viene negata agli occhi occidentali. Sono i cosiddetti «mass incidents». In maggio a Gurao, un villaggio vicino a Shantou, provincia di Guandong (sudest cinese) i contadini del luogo hanno scoperto la corruzione di alcuni funzionari di partito locale, e hanno attaccato le loro case e i loro uffici. A Zhengzhou, di fronte al comportamento violento di alcuni poliziotti, è partito un vero e proprio scontro tra studenti accorsi e polizia locale.
Questi eventi corrono sul filo di blog, siti o, alcune volte - come nel caso della contestazione contro la costruzione di una fabbrica chimica - via sms. Il Grande Firewall cinese spesso non riesce a stare dietro ai diversi mirror che i blogger cinesi, un'infinità, mettono in piedi di volta in volta. Questa contraddizione che anima il desiderio di controllo totale, a fronte di canali attraverso i quali l'opinione pubblica cinese ottiene spesso risultati straordinari, è replicato anche nella vicenda dei lavoratori schiavi. Sono stati infatti i genitori di 400 ragazzi - spariti in circostanze poche chiare nella provincia - a pubblicare su un sito cinese una lettera nella quale accusavano la polizia e le autorità dell'Henan e dello Shanxi di aver ignorato il dramma. Le denunce precedenti alla pubblicazione della lettera non avevano avuto alcun effetto. Internet ha costituito la svolta: altri siti riproposero la lettera, a quel punto anche il People's Daily ne ha dovuto dare notizia e fare partire le brusche manovre della propria polizia. Che ha acchiappato il topo.

il manifesto 18.7.07
L'etica della filosofia sul filo dell'inquietudine
«L'etica non è soltanto la regola, è anche creazione di una nuova cultura di sé». Parla lo studioso statunitense, fra i massimi conoscitori del pensiero di Michel Foucault
di Marica Setaro e Elisa Del Chierico


Nella discussione pubblica in corso sui media tradizionali è quasi impossibile, ormai, non incontrare espressioni attinte direttamente dal vocabolario di Michel Foucault e diventate di uso quasi comune. Parole come «ordine del discorso» o «società del controllo» subiscono così una sorta di inflazione, al pari del concetto di «biopolitica», elaborato da Foucault a partire dagli anni Settanta. Spesso, infatti, il termine «biopolitica» è usato per indicare la «politica della vita» che caratterizza alcune dinamiche statuali o, all'opposto, per qualificare alcune rivendicazioni avanzate da movimenti sociali o della controcultura.
Chi, al di là delle mode, cerca di scavare con rigore nel campo foucaultiano è sicuramente Arnold I. Davidson che negli Stati uniti è considerato fra i maggiori studiosi del filosofo francese. Davidson, che insegna filosofia all'università di Chicago, da circa due anni, in qualità di docente esterno, tiene a Pisa corsi di Storia della filosofia politica, indagando sui temi del piacere e del desiderio, oltre che sui rapporti di forza e di resistenza che attengono ai campi dell'etica e della politica. È su questi temi che -durante la pausa di una lezione-seminario recentemente tenuta a Firenze - Davidson ha accettato di rispondere alle nostre domande.
Lei ha insistito o molto sull'idea di una filosofia che sia anche scelta pratica di vita. Può illustrarci meglio la questione?
Sono sempre stato colpito dai filosofi francesi, soprattutto Foucault, ma anche Deleuze, Derrida e tanti altri, che sono riusciti a fare filosofia, parlando anche con il pubblico, senza la necessità di abbassare il livello del discorso. Si pensa che il pubblico non sia in grado di capire tutto il discorso, astratto, filosofico. La filosofia è una pratica e i concetti funzionano perché hanno la forza di cambiare il modo in cui vediamo il mondo, gli altri. L'esercizio della filosofia, dunque, come esercizio etico e politico è sempre legato al discorso filosofico. L'atteggiamento di Foucault viene chiaramente dagli studi di Pierre Hadot sulla filosofia antica. Secondo Hadot, che da molti è considerato il «maestro» di Foucault, non si può semplicemente riutilizzare l'atteggiamento antico, ma possiamo provare a capire come trasporlo dalla filosofia antica alla filosofia contemporanea e nella vita quotidiana. L'idea che la filosofia, soprattutto nell'antichità, sia una scelta di vita ci dà inoltre la possibilità di ripensare lo scopo principale della filosofia stessa. Noi viviamo la nostra vita in modo quasi automatico, la vita diventa invisibile: la filosofia può rendere visibile qualcosa che noi dobbiamo ripensare. Direi che preferisco la filosofia come esercizio e non soltanto come discorso.
In che senso l'esercizio etico del sé è un elemento di resistenza al potere?
Secondo me, la parola chiave nell'analisi del potere da parte di Foucault è la parola resistenza. Il potere è dappertutto. Resistenza è soprattutto il tentativo di modificare i rapporti di forza. Alla fine della sua vita, quando Foucault comincia a parlare di etica, viene molto criticato: lo si accusa di aver abbandonato la politica. Per me questa è un'interpretazione falsa perché Foucault ha trovato, al contrario, un'altra possibilità di resistenza: partendo dall'etica del sé arriva al cambiamento dei rapporti di forza. Nell'Ermeneutica del soggetto Foucault afferma che è «forse un compito urgente e fondamentale, politicamente indispensabile, quello di costruire un'etica del sé, se è vero, dopotutto, che non c'è un altro punto, primo e ultimo, di resistenza al potere politico se non nel rapporto di sé con sé».
Ci sono tanti punti di resistenza al potere politico. Se cambio il rapporto con me stesso, avrà effetto sul rapporto con gli altri, vedrò gli altri e il mondo in un'altra maniera. È un cambiamento continuo, un tentativo di rompere le abitudini. È una lotta incessante contro rapporti di forza stabiliti e contro atteggiamenti definiti di noi stessi. Diciamo che questo doppio attacco è il rapporto fondamentale fra la politica e l'etica. Foucault insiste molto sull'idea di inventare qualcosa di nuovo, di trovare nuove fragilità e nuove possibilità...
L'idea centrale della cosiddetta «estetica dell'esistenza» è che si deve sempre «inventare». Compito molto difficile perché non si crea un nuovo sé o un nuovo modo di vivere senza un lavoro che può riuscire o fallire, ma che si deve sempre ricominciare. Un'idea che è anche il motivo per cui, parlando della storia della sessualità, Foucault dice che non c'è il sé sessuale da scoprire, il sé nascosto, il vero sé.
C'è il tentativo di creare qualcosa che prima non esisteva e questo è per Foucault il compito etico fondamentale, vale a dire come creare un nuovo modo di vita. L'etica non è soltanto la regola, la legge, l'universalità del comandamento, ma è anche l' attività di creazione di una nuova cultura di sé.
Nel momento in cui creiamo una «cultura etica del sé», proprio perché c'è un'assidua pervasività del potere, è possibile anche pensare a nuove forme di potere?
Quando Foucault dice che il potere non è «il male» ma è sempre pericoloso, il nostro compito è identificare il pericolo principale che cambia continuamente perché il potere non è inerte. La creazione è individuale senza essere soltanto personale, perché l'individuo è sempre legato ad altri individui. Un compito etico molto efficace dal punto di vista del potere è di agganciare gli esercizi etici agli esercizi etici degli altri e creare uno spazio, un ostacolo, un rovesciamento che, invece, può essere contrapposto al potere.
A proposito della «Volontà di sapere» di Michel Foucault, lei ha parlato di «emergenza della sessualità». Perché proprio la sessualità assume un ruolo così importante nell'analisi del potere?
Prima di tutto c'è un dato storico: la sessualità è diventata un nucleo della personalità. Non a caso è al centro di tutta la cosiddetta psicologia della personalità. È «nascosta», ma si esprime dappertutto. Se la storia dovrà essere la storia del presente, il nostro presente è legato alla sessualità. Questo è il motivo storico, ma c'è anche un motivo politico. Quando parliamo della sessualità abbiamo sempre in mente il concetto di repressione. La repressione è il modo in cui si esercita il potere contro la sessualità che presuppone una rappresentazione giuridica e negativa del potere. L'altra faccia del modello giuridico è la liberazione. Il tentativo radicale di Foucault è stato di mostrarci che i concetti di repressione e liberazione sono, in un certo senso, sbagliati dal punto di vista storico-filosofico e storico-politico.
Dobbiamo cominciare a pensare alla sessualità non come un aspetto della personalità che viene represso, o liberato, ma come prodotto dal sapere stesso. Il potere produce la sessualità e questo modo di produzione è anche un modo di controllo. Il potere come norma va al di là di ogni legge perché è un modo non giuridico di organizzare un campo accessibile al potere. Noi viviamo in una società normalizzatrice e il modello politico classico non è capace di spiegare quest'aspetto del potere che normalizza. Quindi non c'è la liberazione. Ci sono sempre rapporti di forza, e noi possiamo cambiarli per un'autonomia relativa o per un'efficacia politica rarissima. Si cambiano i rapporti di forza non soltanto aggirando la legge ma cambiando i concetti di norma, normalità, normalizzazione. La sessualità senza la normalità, e quindi senza la perversione, non esiste; è così intrecciata con l'idea di normalità che se potessimo riuscire a farne piazza pulita dovremmo per forza ripensare il rapporto con il corpo senza, forse, il concetto di sessualità. E non sarà per niente facile.
Nella «Volontà di sapere», Foucault elabora soprattutto il concetto di biopotere. Di che cosa parliamo quando parliamo di biopotere e che rapporto ha con la biopolitica?
Prima di tutto, quando Foucault diceva che il desiderio sessuale non è l'oggetto di repressione del potere ma è l'oggetto creato per esercitare il potere, indica un modo completamente nuovo di analizzare il potere. Non è per caso che la scoperta del biopotere e della biopolitica sia legata alla sessualità. Per Foucault il biopotere implica due campi fondamentali: il potere sulla vita individuale, sul corpo, e il potere sulla popolazione, sulla riproduzione del corpo sociale.
La sessualità è il perno fra il corpo individuale e la popolazione. Se si controlla il corpo dell'individuo e l'attività della popolazione in quanto si riproduce, allora si esercita un certo tipo di biopotere. Foucault ha scoperto il biopotere facendone una storia; non è un concetto filosofico astratto. L'idea di costruire una teoria generale del potere basata sul biopotere, secondo me, è sbagliata perché non si vede neanche la specificità del potere contemporaneo e moderno. I tentativi di organizzare il concetto di biopotere per farne una teoria generale sono molto antifoucaultiani. La necessità di mettere insieme l'analisi storica e l'argomentazione filosofica è centrale in Foucault. Abbiamo oggi la tendenza a riconcettualizzare il biopotere in termini di diritto, ad esempio, alla vita. Ma con questo discorso del diritto non si vede il funzionamento concreto del potere. Foucault ha trovato proprio nei movimenti femministi e gay una visione del potere che non è legata al campo della legge. Il biopotere è un potere sul comportamento, sull'idea di condotta. Per Foucault si comincia da una lotta per i diritti, ma si deve sempre andare al di là perché ottenere il diritto rischia di diventare il momento in cui si smette di lottare. Dobbiamo vedere sotto il diritto una tecnica di potere che controlla soprattutto la condotta. Alla domanda: «se lei non è per la monogamia, allora lei è per la poligamia?», Foucault rispondeva che non era per «nessuna gamia». Non si può chiudere la sessualità, l'amore, in una gabbia prefabbricata e il diritto può essere anche una maniera per ridurre al silenzio il contropotere. Per Foucault questo silenzio è il momento peggiore per chi intenda far politica.
In un testo di Foucault risalente al 1978, «Il gay sapere», emerge il rapporto fra piacere e desiderio. Se il desiderio è legato al potere, in che senso il piacere è una forma di resistenza al potere?
Nella Volontà di sapere c'è la distinzione fra ars erotica e scientia sexualis che, a mio avviso, è molto legata alla distinzione fra piacere e desiderio. Il desiderio è sempre un concetto psicologico e normalizzatore. Il desiderio esprime il vero sé, mentre il piacere non esprime, non spiega niente. Foucault diceva sempre che il piacere non ha una carta d'identità. Se è vero che il potere attuale più pericoloso è legato alle tecniche di normalizzazione e richiede una scienza della sessualità, allora creare nuovi piaceri è un modo di resistere a questo insieme compatto e forte, rendere visibili le linee di fragilità del potere.
Non dobbiamo ri-psicologizzare l'idea di piacere, ma condurre un'attività etica e politica difficile. Foucault ha mostrato bene il contrasto fra la psicologia della sessualità e l'arte di vivere: «l'arte di vivere è uccidere la psicologia». L'arte di vivere è arte di creazione, non di un nuovo desiderio che rientra subito nell'ambito della norma, ma di nuovi piaceri.
Si può tollerare che due ragazzi dormano nello stesso letto - si legge nel «Gay sapere» -ma quello che non si tollera è che al mattino dopo si risveglino insieme e vadano via felici...
C'è un senso di felicità come componente di un modo di vivere: questa è l'idea che io trovo in Foucault. Quando la felicità diventa uno spazio della cultura di sé non può essere ridotta alla psicologia. La felicità è da scegliere come l'etica è da scegliere. Diceva Foucault: «dobbiamo cercare un'etica dell'inquietudine». L'inquietudine è il modo in cui possiamo combattere l'autocompiacimento, forma in cui rischia di cadere la felicità. L'etica dell'inquietudine prova a creare, anche in risposta all'attualità politica, un certo modo di vivere. Sappiamo bene che quando il potere ci dice che siamo felici, che godiamo di diritti, è proprio quello il momento di pericolosità maggiore. L'attività etica e politica, almeno dal punto di vista di Foucault, che coincide col mio, finisce soltanto con la morte.

il Riformista 18.7.07
La dimissioni di Bonino e i diktat della sinistra pari sono


La decisione di Emma Bonino di rimettere il suo mandato di ministro in vista di un possibile accordo sullo scalone è motivata dalla richiesta che il premier chiarisca «se è compatibile il nostro sostegno al governo o se lo siano, invece, le posizioni conservatrici e reazionarie della sinistra comunista e di alcuni leader sindacali». La mossa di Bonino è motivo per essere ancor più pessimisti sul destino del governo e al tempo stesso per solidarizzare con il Prof. Sul primo punto, è chiaro che il gesto di Bonino - che a quanto si capisce può ancora rientrare - non va sottovalutato. E non solo perché lo Sdi ha subito annunciato di essere pronto, nel caso, a passare all'appoggio esterno, ma perché è evidente che dietro la mossa del ministro radicale c'è un humus politico forte anche dentro il Pd e il suo gesto non è un'isolata alzata di capo, ma il sintomo che le fibrillazioni provocate dal manifesto dei "coraggiosi" non sono un mero dibattito accademico. Al contrario, la trattativa sullo scalone dimostra che Prodi sarà sempre sul filo. Se copre a sinistra, si scopre dall'altra parte. E viceversa.
D'altronde, però, c'è di che simpatizzare per il Professore, a dispetto dei suoi alleati di destra e di sinistra. Perché lo scenario politico italiano ci ha abituato a tutto. Ma le dimissioni preventive di un ministro, che rimette il mandato prima ancora di aver potuto valutare la proposta definitiva del governo, per giunta delegando al premier l'ultima parola sulla propria uscita di scena, sono una singolare novità. Non sappiamo se a scatenare la reazione di Bonino siano bastate le dichiarazioni di Franco Giordano, fiducioso su un accordo, e non ci sentiamo di escludere che la mediazione del Prof, di cui si sa molto ma non tutto, risulti meritevole di cotanto gesto di protesta. Ma non si può rimproverare alla sinistra di procedere per diktat senza rendersi conto che le dimissioni preventive appartengono in pieno a quel medesimo repertorio che si vorrebbe biasimare.

L'espresso n.28/07
A proposito dell'amore secondo Jean-Luc Marion
di Eugenio Scalfari


Sesso, denaro, tecnologia, hanno scacciato l'eros dalla nostra società: è la tesi del filosofo cattolico francese nel suo trattato 'Il fenomeno erotico' che ha fatto discutere in Francia e ora in Italia. Perché Marion ha chiuso in soffitta Cartesio e ne ha gettato via la chiave

"Amo, dunque sono": è un libro appena tradotto in italiano, l'autore è un noto filosofo francese (editore Cantagalli) che insegna alla Sorbona, si chiama Jean-Luc Marion, il titolo del volume 'Il fenomeno erotico'. In Francia è già un best-seller ed ha suscitato un dibattito molto intenso.

Marion professa la fede cattolica e infatti una parte sostanziosa delle 380 pagine del libro è dedicato all'amore mistico verso Dio e ad una dell'encicliche di Papa Ratzinger sull'amore visto come carità, verso il prossimo e quindi verso Dio.

La tesi centrale dell'opera di Marion è comunque quella parafrasata dal 'Discorso sul metodo' di Descartes. Questa poneva nel pensiero l'evidenza esistenziale dell'io; Marion la colloca nell'amore, anzi per esser più precisi nell'amore erotico, nell'eros, che non si esaurisce soltanto nell'atto sessuale ma in una serie di altri comportamenti altrettanto erotici e forse di più, a cominciare dalla castità dei mistici che amano Dio e/o Gesù non solo con l'intelletto e con la fede ma soprattutto con il corpo, anzi con la carne.

La tesi di Marion è certamente interessante e potremmo anche definirla 'trendy' contrariamente a quanto pensano alcuni dei suoi sostenitori. Nel dibattito che il libro ha suscitato in Francia ma ora anche in Italia si confrontano infatti varie tesi.

La prima è che nella nostra società, dominata dalla scienza e dall'economia, non ci sia più posto per l'amore ma soltanto per il sesso. Sesso, denaro, tecnologia: sarebbero questi gli idoli del presente che avrebbero scacciato l'eros. Questa è comunque la tesi di Marion e di chi sostiene le sue affermazioni.

A me non sembra che le cose stiano così. A me sembra invece che l'amore erotico abbia una parte crescente nella nostra modernità. Il corpo e la carne hanno una parte crescente, la carità ha una parte crescente, le varie forme di misticismo religioso hanno una parte crescente. Sarei perciò molto cauto nel sostenere che la società moderna sia sessualmente ricca ma eroticamente povera. A me sembra piuttosto vero il contrario. Se c'è un aspetto in netto declino è piuttosto quello dell'amore intellettuale e della conoscenza disinteressata. Questo sì, sta quasi scomparendo: la filosofia, l'amore per la sapienza e per il sapere.

Un altro punto di confronto nel dibattito suscitato dal libro di Marion riguarda un problema più propriamente filosofico: la felice formula "amo, dunque sono" avrebbe liquidato, dopo quattro secoli di incontrastata egemonia, il "penso, dunque sono" cartesiano ed anche la polarità cartesiana che contrappone o per lo meno distingue la 'res cogitans' dalla 'res extensa'. Saremmo cioè in presenza di una vera e propria rivoluzione nella storia delle idee filosofiche.

Ho usato prima la parola 'dibattito' ma mi correggo: sulla radicalità delle tesi di Marion non c'è stato dibattito ma una sostanziale unanimità. Marion ha chiuso in soffitta Cartesio e ne ha gettato via la chiave.

Ebbene, una posizione di questo genere dimostra soltanto a mio modo di vedere la pochezza del sapere filosofico dell'epoca nostra. La tesi cartesiana che definisce la bipolarità tra il corpo e il pensiero era già stata superata da Baruch Spinoza pochi anni dopo la pubblicazione del 'Discorso sul metodo'. Da allora cessò di egemonizzare la storia della filosofia pur essendole perennemente riconosciuta l'importanza d'aver detronizzato l'egemonia della 'Scolastica' aprendo la strada al pensiero moderno.

Diverso il giudizio che si deve dare sul 'Cogito, ergo sum'. La sostituzione di Marion dell'Io amante all'Io pensante costituisce certamente una variante che si affianca all'evidenza cartesiana senza tuttavia spossessarla della sua validità. D'altra parte non è la sola variante possibile dell'evidenza del soggetto; se ne potrebbero indicare parecchie altre di eguale evidenza e validità, tratte dai requisiti essenziali che caratterizzano la nostra specie. Per esempio: "rido, dunque sono", "gioco, dunque sono", "uccido, dunque sono", "sono nato, dunque sono" e infine, forse la più decisiva di tutti, "morirò, dunque sono".

il Riformista 18.7.07
I cattivi pensieri di Scalfari
di Emanuele Macaluso


I domenicali di Eugenio Scalfari sono pieni di spunti per riflessioni che meritano di essere ripresi anche dopo qualche giorno. Ragionando sulla candidatura di Veltroni, Scalfari scrive che, accettandola, «aveva tutto da perdere» e quindi il suo «è stato un atto di generosità». Piero Fassino «l'ha capito meglio di tutti», dice il nostro, «ed è stato il più coerente nell'appoggiarla rinunciando alle sue legittime ambizioni». Anche quello di Fassino «è stato un atto di generosità». E continua: «Se si guarda alle cause che determinarono la candidatura del sindaco di Roma, per iniziativa di Massimo D'Alema, si vedrà che la questione delle primarie, delle candidature alternative e di quelle convergenti, è stata dall'inizio malposta». Bene. Ma osservo: Veltroni candidato e beneficiario della iniziativa di D'Alema è generoso. Fassino che avrebbe voluto, ma non ha potuto e ha sostenuto l'iniziativa di Massimo, è un generoso. Ma per il povero D'Alema che ha voluto, proposto e sostenuto Walter, niente generosità: sarebbe il solito furbo che aveva bisogno di tempo e ha messo in corsa un cavallo da azzoppare a tempo debito. E questo non è certo generoso. Ma Scalfari è generoso nel fare questi cattivi pensieri?