domenica 22 luglio 2007

l'Unità 22.7.07
Giordano vuole dare tutto il potere al suo popolo
Pensioni, così Rc deciderà se rimanere nel governo. Diliberto: riunifichiamoci presto
di Eduardo Di Blasi


L’accordo allontana moltissimo dalle prospettive di «Cosa rossa» i Verdi
Più dilemmatica la situazione del partito di Mussi. Anche se il progetto sembra in salita

DIVISI ALLA META. Nei soggetti non ancora costituenti della «Cosa rossa», il passaggio della riforma delle pensioni ha lasciato dei segni evidenti di instabilità.
Non solo all’interno di Rifondazione, il maggior partito organizzato dell’area, ma anche nei rapporti con l’esecutivo e con gli altri soggetti della sinistra. Afferma il segretario del Prc Franco Giordano: «Verificheremo la nostra posizione, rispetto all’esito della finanziaria e rispetto al rapporto con il nostro popolo, non unilateralmente. Credo sia utile, a quel punto, fare una valutazione reale con il nostro popolo e decidere se continuare oppure se è il caso di non farlo».
Che al Prc la riforma non sia piaciuta è cosa nota. Così come non è piaciuta al Pdci, mentre è stata accettata, anche nella visione del «miglior compromesso possibile», da Sd e Verdi.
Ieri, sul tema, si registravano ulteriori accelerazioni. Al Consiglio Federale dei Verdi, il presidente Alfonso Pecoraro Scanio rilancia l’alleanza arcobaleno e ribadisce la propria contrarietà ad ogni ipotesi di «Cosa rossa» o partito unico. Allo stesso tempo Oliviero Diliberto (Pdci) rilancia la lotta: «Epifani è stato costretto a firmare l’accordo sulle pensioni, altrimenti cadeva il governo. È il bis dell’accordo del 1992, quando fu cancellata la scala mobile sotto ricatto; se la sinistra politica l’avesse coperta la Cgil avrebbe potuto strappare altri risultati». E così il leader del Pdci, può annotare: «C’è un bisogno urgente di unità a sinistra per bilanciare il potere degli altri, e invece ci siamo sfaldati alla prima prova: i Verdi e Sd da una parte, Prc e noi, per fortuna assieme, dall’altra. Credo che il ragionamento possa riprendere da qui». Traccia una via parlamentare per un pacchetto di proposte «laburiste, socialdemocratiche, dalla parte dei lavoratori, e la prima è quella di abbassare gli scalini o toglierli. Vedremo chi firmerà a sinistra questi emendamenti e vedremo chi li voterà. Sulla base di questo faremo o non faremo l’unità a Sinistra e chi non ci starà si assumerà una grande responsabilità». Quindi il Pdci spinge (il partito di Diliberto è maestro nella «competizione nell’unità»), convinto che anche un’alleanza con il Prc possa essere un risultato da rivendicare, i Verdi cambiano direzione, e il Prc aspetta. E la Sd?
Titti Di Salvo, capogruppo alla Camera, non si sottrae al dibattito: «La nostra idea “genetica” è quella di contribuire a unire la sinistra, non la somma di soggetti esistenti. Certo il punto politico non è solo il giudizio sull’accordo ma il rapporto con il sindacato confederale. Il punto politico aperto è cosa vuole dire candidarsi a rappresentare il lavoro e, in questo, il rapporto con il sindacato. Questa è una cosa che interroga il socialismo non solo in Europa». Dal punto di vista operativo, sull’accordo saranno «poi i lavoratori a pronunciarsi», mentre sul futuro della «Cosa rossa», precisa Di Salvo, «penso che a settembre dovremo fare una campagna di ascolto tra le persone, ridare senso e funzione su cosa sia la sinistra».
Anche per il senatore Sd Piero Di Siena: «Sul fatto che il risultato sia deludente c’è un’uniformità di giudizio». Ma la discussione è diversa: la spaccatura non è all’interno della sinistra, ma tra le componenti moderate e la sinistra. Quindi il tema non è il futuro della «Cosa rossa» quanto «il destino che il governo Prodi può avere all’interno del Paese». Oggettivamente, afferma «la situazione è complicata, ma non tutto è pregiudicato». Così propone: «Forse sarebbe necessario che alla ripresa, per iniziativa dello stesso Prodi, si arrivi a una verifica generale degli elementi di coesione, si ridefinisca un vero programma di governo in cui siano sciolti alcuni nodi decisivi, penso ad un comune orientamento sulla legge elettorale e una ridefinizione delle priorità della politica economica».
Pietro Folena ritiene che la sinistra abbia commesso un errore di approccio: «Penso che la visione molto politicista che c’è stata tra le forze della sinistra abbia concorso. Se il patto di unità e azione fosse stato un vero patto federativo si sarebbe andati insieme a trattare, a decidere, a valutare. C’è stato un limite nell’impostazione di queste settimane: come uscire? Non buttando la spugna». Per questo propone che una fase costituente che parta dalla manifestazione unitaria promossa dalla Sinistra Europea sui temi dei diritti civili e sociali: «Facciamola, anche i 14 ottobre. Facciamola diventare un evento costitutivo».

l'Unità 22.7.07
Nell’istituto per la Resistenza il fascista che cantava per Priebke
Verona, il comune del leghista Tosi nomina un dirigente della Fiamma
Tricolore: si è fatto 3 mesi di carcere per istigazione all’odio razziale
di Massimo Franchi


TRE MESI DI CARCERE per istigazione all’odio razziale, leader degli skinhead, dirigente della Fiamma Tricolore, membro del gruppo musicale “Gesta bellica”, che come pezzi culto ha canzoni dedicate a Erik Priebke (”Il capitano”) e a Rudolph Hess (”Vittima
della democrazia”). Quale curriculum migliore per far parte dell’Istituto per la resistenza di Verona?
La splendida idea di nominare il 35enne Andrea Miglioranzi («Fascista? Per me è un termine molto caro») come rappresentate del Comune all’ente fondato nel 1998 che ha tra i compiti quello di «raccogliere testimonianze di partigiani» è venuta alla maggioranza del consiglio comunale. Ancora elettrizzati dalla fresca nomina dopo l’elezione a sindaco dell’astro nascente della Lega Flavio Tosi (quello che come prima cosa ha cacciato gli «zingari» dalla città), i consiglieri della destra si sono sentiti di osare. Dovevano nominare due persone. La prima è stata Lucia Canetti di Alleanza Nazionale. E già ci sarebbe di che discutere. Ma per secondo hanno scelto lui, «il camerata Miglioranzi». Uno che era già conosciuto nel mondo del white power rock, ma è diventato ancora più famoso per essere il primo in Italia a finire in carcere per la legge Mancino sull’istigazione all’odio razziale. Nel 1996: tre componenti del gruppo (oltre a Miglioranzi, c’è il leader Alessandro Castorina, ora segretario provinciale della Fiamma Tricolore) organizzano un’aggressione nei confronti di uno “sharp” (skinheads di sinistra), reo di essere l’ispiratore di alcune iniziative musicali multietniche. Le minacce sono chiare: «A Verona queste cose non le vogliamo, se ci provi ancora sei morto». I picchiatori sono di Napoli, i mandanti si limitano ad osservare il pestaggio. Con entusiasmo. La Digos li arresta e, grazie all’applicazione della legge Mancino, scontano in carcere quasi tre mesi.
Qualcuno a Verona, città medaglia d’oro per la Resistenza, si è opposto. Oltre allo scultore e sopravvissuto ai campi di concentramento Vittore Bocchetta («Qui è peggio del periodo di Hitler, a Verona manca totalmente la memoria storica»), è la senatrice di Rifondazione Tiziana Valpiana a organizzare la protesta. «Io sono anche componente del direttivo dell’Istituto e posso promettere che Miglioranzi non varcherà mai la soglia della nostra sede. Mi impegno in nome dei miei parenti morti a Mathausen. La sua nomina è in spregio alla resistenza e già lunedì chiederò a Oscar Luigi Scalfaro, come presidente degli enti di ricerca sulla resistenza, di chiedere l’annullamento della nomina». La senatrice Valpiana, poi, dietro Miglioranzi vede la mano di Tosi. «Sono sicura che l’idea è sua. Il nuovo sindaco vuole mostrarsi come uomo forte, come nuovo Gentilini (l’ex sindaco di Treviso, Ndr) e per farlo arriva a provocazioni come quella di nominare un fascista pregiudicato a custode della memoria dei partigiani».
E difatti il neo sindaco di Verona (accomunato a Miglioranzi per una condanna, ancora non definitiva, per lo stesso reato) non si nasconde. «Le nomine sono del Consiglio comunale, ma li avrei votati anch’io se fossi stato presente. I due consiglieri nominati sono sicuramente persone preparate, con idee politiche magari diverse. Ma sono convinto che possano portare un confronto positivo all’interno dell’Istituto, non per riscrivere la storia o per fare del revisionismo, ma per approfondire alcuni aspetti sui quali fino ad ora c’è stata minore sensibilità». Oltre a Tosi, a Miglioranzi è stata espressa solidarietà dal presidente veronese di An Massimo Giorgetti. «In democrazia funziona così, non capisco lo sconcerto. E poi mi pare che il dopoguerra sia finito da un pezzo», ha commentato stupito al Corriere di Verona.
Insomma, Miglioranzi (e Canetti di An) potranno dimostrare che i partigiani stavano dalla parte sbagliata e che i giusti stavano vicino Verona, nella Repubblica Sociale di Salò. Miglioranzi potrà farlo canticchiando le canzoni del suo gruppo. Come “Feccia Rossa”: «feccia rossa/nemica della civiltà/ bestia senza umanità/ la celtica croce vincerà». Oppure “8 settembre '43”: «una data senza perché/ è giunta l’ora della viltà/ un altro marchio di infamità/ Ma io sono camicia nera/ nel mio cuore una fede sincera».

l'Unità 22.7.07
In Italia una donna su tre è stata vittima di violenza
Sondaggio Istat su un campione di 25mila donne fra i 16 e i 70 anni. Il 30% non rivela a nessuno quanto le è successo
di Giuseppe Vittori


UNA DONNA SU TRE in Italia ha subito almeno una violenza fisica o sessuale: è il dato che emerge dall’indagine Istat, grazie a un sondaggio telefonico che ha raggiunto circa 25.000
persone fra i 16 e i 70 anni. E che venerdì sera è stato presentato nella tavola rotonda dedicata alle buone pratiche in difesa dei diritti delle donne nel corso del meeting di San Rossore organizzato dalla Regione Toscana. Quasi il 5% è stato vittima di uno stupro o di un tentativo di stupro e, circa nella metà dei casi, questo è avvenuto ad opera del partner. Nel 96% dei casi la donna non sporge denuncia, ed è dimostrato che almeno una vittima su tre mai nella vita rivelerà a qualcuno quanto le è successo. «Circa 1.400.000 donne - ha detto Alessandra Kustermann, ginecologa e membro del Centro soccorso violenza sessuale di Milano - hanno subito una violenza prima dei 16 anni, e circa 1.680.000 hanno visto la madre subire abusi o violenze. In questi casi spesso si instaura un meccanismo chiamato “la catena della violenza”, ed un’elevata percentuale di queste persone, circa il 65% di quelle che hanno subito abusi e il 59% di quelle che hanno visto la madre subirne, sarà di nuovo vittima di violenze. Questo avviene perché il danno psicologico è enorme e queste persone avranno una maggiore fragilità, che le esporrà di nuovo al rischio». La dottoressa si è soffermata anche sul profilo dell’aggressore: «Spesso gli autori provengono da famiglie violente - ha detto - il 32% di loro ha subito violenze dal padre, il 42% dalla madre. Proprio quest’ultimo dato ci fa notare come le donne possono contribuire a questo fenomeno, lasciando nei loro figli ferite così devastanti da indurli un domani ad essere violenti contro la propria donna. La violenza è solo un modo per imporre sudditanza alla donna, talvolta chi stupra neppure arriva all’eiaculazione». La ricerca Urban, condotta dal Ministero delle Pari Opportunità, ha dimostrato che sono soprattutto insegnanti e psicologi ed accorgersi di essere di fronte ad un caso di violenza. Medici e ginecologi spesso non hanno una formazione adatta ad affrontare questo fenomeno. «È importante - ha spiegato inoltre la Kustermann - che le forze dell’ordine imparino a non minimizzare gli episodi di violenza domestica di cui vengono a conoscenza, e che le istituzioni investano sulla formazione del personale sanitario».

Repubblica 22.7.07
Mediare per il Paese e non per il potere
di Eugenio Scalfari


MI sono fatto da qualche mese una nomea alla quale non sono particolarmente affezionato: quella di essere la sola persona convinta che Romano Prodi sia un buon presidente del Consiglio.
In realtà dare giudizi su chi è migliore o peggiore rispetto ad un altro è un esercizio futile e logicamente scorretto perché non si possono paragonare le mele con le spigole, le zucchine con la carne d´agnello. E così non si possono dare etichette di efficienza a due governi che hanno operato in contesti politici ed economici diversi.
Se inquadriamo l´attuale governo Prodi nel contesto in cui ha operato nei primi dodici mesi dal suo insediamento sono convinto che si tratti d´un buon governo, anche se assai scarso nella comunicazione dei suoi provvedimenti. La capacità di Prodi a mediare è notevole, ma c´è mediazione e mediazione. Andreotti per esempio, ai suoi tempi, fu un fuoriclasse in questo esercizio da lui usato quasi sempre per mantenersi al potere anche a costo dell´immobilismo più disperante. La mediazione di Prodi ha una diversa natura: mira a compromessi capaci di avanzare verso obiettivi di utilità generale.
Andreotti – tanto per proseguire nell´esempio – governò in tutte le stagioni politiche; guidò governi appoggiati a destra, al centro, a sinistra. In alcuni casi ebbe perfino il sostegno dell´Msi; in altre fece maggioranze organiche con il Pci.
Prodi al contrario ha sempre sostenuto (e confermato con i fatti) di non essere un politico disponibile in tutte le stagioni ma in una soltanto. Forse proprio per questo non piace alla maggioranza degli italiani. In più ha una testa durissima, come quasi tutti quelli che sono nati a Reggio Emilia. Io sono nato nel segno dell´Ariete, perciò lo capisco.
Guardate ai vaticini berlusconiani che si susseguono ormai da un anno. Vaticinavano che sarebbe caduto entro un mese dalla proclamazione del verdetto elettorale. Da allora spostano la data dell´apertura della crisi di due o al massimo tre settimane in continuazione. Sono passati dodici mesi e le date di scadenza della crisi sono state finora almeno una ventina. Adesso il capo dell´opposizione e tutti i suoi accoliti hanno fissato per il prossimo settembre l´appuntamento decisivo con la dissoluzione del centrosinistra.
Tutto può accadere quando si naviga con la maggioranza di un voto, ma io non credo che il centrosinistra celebrerà il suo suicidio in autunno.
Credo che, di compromesso in compromesso, continuerà a realizzare obiettivi e ad andare avanti. Per una ragione molto semplice: ancora per un bel pezzo non ci saranno alternative al governo Prodi.
* * *
Vengo alla riforma delle pensioni, una vicenda che dura da mesi e che, un giorno dopo l´altro, è stata preconizzata come irrisolvibile. Sarebbe un esercizio utile per tutti rivedere i titoli dei telegiornali e dei quotidiani da maggio in poi. Una sequenza sussultoria senza fine: «Pensioni, l´accordo è vicino» «Scontro feroce sulle pensioni» «Il governo è spaccato» «La sinistra all´attacco» «Il contrattacco per i riformisti» «Berlusconi: governo in crisi» «Resta lo scalone» «Via lo scalone senza se e senza ma».
Bene. Giovedì sera alle 22 i sindacati confederali sono stati convocati a Palazzo Chigi. Alle 4 del mattino, in una delle tante pause d´un negoziato che tutti i partecipanti hanno definito durissimo, si sono appartati in una saletta del palazzo Prodi, Padoa-Schioppa, Letta e il segretario della Cgil, Epifani. «Devi dirmi sì o no. Adesso» gli ha detto il presidente del Consiglio. «Per me l´accordo va bene, ma debbo consultare il direttivo. Garantisco che la risposta sarà un sì ma formalmente la darò lunedì mattina». «Lo ripeto: mi devi dare la risposta adesso. Se è no esco di qui e annuncio le dimissioni del governo».
Dopo questo siparietto il sì di Epifani è arrivato con la clausola «per presa d´atto» scritta a penna prima della firma. Il senso di quella frase l´ha dato lo stesso segretario della Cgil in un´intervista di ieri al nostro giornale. Alla domanda dell´intervistatore sull´accordo raggiunto, la risposta è stata la seguente «il testo di ieri notte contiene molte misure di grandissimo valore e anche di carattere innovativo. In modo particolare sto pensando ai giovani, al fatto che nell´aggiornamento dei coefficienti di trasformazione sarà indicato che per loro la pensione non potrà essere inferiore al 60 per cento dell´ultima retribuzione. Non solo: dopo tanti anni vengono definiti finalmente i lavori faticosi».
Poche righe più in là il giornalista gli chiede: «Il governo reggerà la prova parlamentare dell´intesa?». Risposta: «Il governo ha una navigazione a vista, ma troverei paradossale che naufragasse proprio su questo. La conseguenza sarebbe la crisi di governo ma anche la sopravvivenza dello scalone e la rinuncia a tutto ciò che c´è di buono in questa intesa».
Esatto. Che altro c´è di buono in questa intesa? Ricordiamolo perché di questi tempi la memoria è diventata assai corta. C´è l´aumento delle pensioni d´anzianità a 3 milioni di pensionati, l´avvio degli ammortizzatori sociali, il sostegno ai giovani contro il precariato, per un complessivo ammontare di 2.600 miliardi.
Altri 5 miliardi sono stati stanziati per l´aumento graduale dell´età pensionabile al posto dello scalone di Maroni. Si parte da subito con lo scalino di 58 anni, nel 2009 l´età sale a 59 anni, nel 2011 a 60, nel 2013 a 61. Un anno in più alle stesse date per i lavoratori autonomi.
Tutti questi provvedimenti saranno inseriti nella legge finanziaria per il 2008. Se il governo fosse battuto, il complesso di questi accordi – che dovranno essere approvati dai lavoratori – salterà per aria insieme al governo.
Ha ragione Epifani: sarebbe un capitombolo epocale. Chi si prenderebbe questa responsabilità: Giordano? Diliberto? Cremaschi della Fiom?
* * *
Tito Boeri, un economista di valore, ha scritto ieri sulla "Stampa" che l´accordo sulle pensioni è un buon compromesso. Avrebbe voluto che l´età pensionabile si muovesse con maggiore celerità ma si rende conto, appunto, del "contesto" e se ne dichiara parzialmente soddisfatto. A differenza del suo collega ed amico Francesco Giavazzi che sul "Corriere della Sera", lancia invece raffiche sul governo, sui sindacati, sulla sinistra. Se la prende anche con Veltroni. Il finale arieggia a quello che il Manzoni mette in bocca a fra´ Cristoforo quando apostrofando don Rodrigo con l´indice puntato contro di lui e gli occhi fiammeggianti profetizza: «Verrà un giorno... ».
Più misurati gli eurocrati di Bruxelles. Conosceremo meglio domani la loro opinione ma il primo impatto è stato favorevole, almeno perché una decisione è stata presa.
Negativa – moderatamente – la Confindustria, anche perché non è stata ascoltata. Mi permetto di osservare in proposito che l´oggetto del negoziato riguardava i pensionati e i pensionandi. Non un contratto di categoria e neppure la politica economica in generale ma semplicemente pensionati e pensionandi.
Mi permetto altresì di dire che perfino la consultazione della "base" da parte dei sindacati è un gesto apprezzabile di democrazia ma non statutariamente necessario, come lo sarebbe per un contratto di lavoro. Si spera comunque che i dirigenti confederali accompagneranno la discussione con la base esternando il loro motivato parere e spiegando bene le conseguenze di un voto negativo. La democrazia non è (non dovrebbe essere) una lotta libera senza regole. Serve a costruire e non a sfasciare. E se i partiti invadono l´agone sindacale, tempi duri si preparano per i lavoratori.

Post Scriptum. Alcuni lettori si chiedono e ci chiedono perché mai la Chiesa abbia celebrato con tutti gli onori previsti dalla liturgia i funerali dell´avvocato Corso Bovio, eminente figura del Foro milanese, morto suicida, ed abbia invece negato quei funerali all´ammalato Welby che fu aiutato da un amico generoso a interrompere cure inutili che perpetuavano senza scopo alcuno una vita di intollerabili sofferenze.
Una spiegazione pare che ci sia da parte della Chiesa. Dal diniego opposto contro tutti i suicidi, essa è passata col tempo ad una visione più duttile (più ipocrita) secondo la quale il suicidio deriva da un "raptus", una perdita improvvisa di coscienza. Su questa base il suicida viene "perdonato" e ammesso ai funerali religiosi che mandano in pace l´anima sua e sono di conforto per i suoi parenti.
Nel caso Welby invece l´ipotesi del "raptus" non poteva essere adottata poiché si trattava di un militante che voleva contrastare l´accanimento terapeutico. Di qui il divieto di celebrare il funerale religioso nonostante fosse stato richiesto insistentemente da lui e dai suoi familiari.
Che possiamo rispondere ai nostri lettori? Che la Chiesa è, oltre che un´organizzazione religiosa, anche se non soprattutto un´organizzazione di potere. È anzi un potere a tutti gli effetti e si muove come tale su un´infinità di questioni che hanno poco o nulla a che vedere con la religione dell´amore e della carità predicata dai Vangeli. Come tutte le organizzazioni di potere, anche la Chiesa usa largamente lo strumento dell´ipocrisia. Questo è tutto.

Repubblica 22.7.07
Pd, Pannella pronto a candidarsi
"È la nostra tradizione, la sinistra liberale deve stare in quel partito"
di Giovanna Casadio


Parisi: "Una sorpresa e una sfida a patto che condivida l´idea di fondo"
Oggi ne parlerà con i radicali, poi si consulterà con i socialisti della Rnp
Bindi: "Queste regole favoriscono le organizzazioni più forti"

ROMA - «Perché dovrebbe restare fuori dal Partito democratico la tradizione di Gaetano Salvemini, di Ernesto Rossi, di Carlo e Nello Rosselli? Ritengo che correre alle primarie del Pd sia una cosa da fare, e io sono disposto a farlo». Marco Pannella giura che è un´idea tutt´altro che improvvisata. Il leader storico dei Radicali annuncia che oggi ne parlerà con il suo partito, poi con la "Rosa nel pugno" cioè con i compagni dello Sdi con cui il Pr si è alleato alle ultime politiche. «Proporrò di partecipare con un nostro candidato alle primarie del 14 ottobre, personalmente sono pronto a scendere in gara». Per Walter Veltroni un nuovo, inatteso sfidante.
Non solo sarebbe una scelta opportuna, secondo Pannella, ma necessaria poiché «il Partito democratico appartiene alla nostra tradizione, non può non esservi rappresentata la sinistra liberale, pienamente laica, pienamente socialista e radicale. Contro la patente involuzione del regime politico del nostro paese». E per dimostrare che non si tratta di una provocazione, ricorda le volte in cui, rispondendo ai «compagni socialisti» scettici sul Pd, aveva replicato: «Il punto è che non mi hanno mai invitato...». Ora dopo quanto è accaduto su «pensioni e sindacato» c´è ancora «più bisogno della rappresentanza della sinistra liberale e anche dei nostri 55 anni di Radicali. Spesso gran parte degli elettori di Rifondazione si sono schierati dalla nostra parte, ne abbiamo avuto prova sul finanziamento pubblico ai partiti, in occasione dei referendum...».
Una mossa a sorpresa. «Aspetto reazioni, però è una bella idea. Noi Radicali, sciamani come siamo...», sorride Pannella. Il primo commento è della "sfidante" Rosy Bindi: «Come candidato minoritario diamo il benvenuto anche a Pannella». Da Arturo Parisi un benvenuto che è però una stoccata: «Una sorpresa e una sfida la candidatura di Pannella. Chiunque condivida l´idea di fondo e le regole che sono alla base del nuovo partito e s´impegna a dedicarvi tutte le sue energie, non può che essere benvenuto».
A questo punto, a competere alle primarie si ritroverebbero in sette. Oltre a Walter Veltroni, a Rosy Bindi, a Enrico Letta (che nelle prossime ore dovrebbe sciogliere la riserva), a Furio Colombo, Mario Adinolfi e al finanziere Jacopo Gavazzoli Schettini, ecco irrompere il leader radicale. Scaldano i motori intanto gli sfidanti. Entro fine mese bisogna infatti avere raccolto le firme per presentare la propria candidatura. Rosy Bindi torna ad attaccare le regole per il Pd fatte a misura di apparati di partito: «Ha ragione Furio Colombo, le regole previste per l´elezione del segretario e dell´assemblea costituente favoriscono le organizzazioni più forti, i candidati che hanno alle spalle strutture di partito. Ma le persone saranno più forti delle regole», non s´arrende il ministro della Famiglia. «La raccolta delle firme sta andando molto bene», aggiunge. Marina Magistrelli, prodiana, senatrice dell´Ulivo e supporter della Bindi, attacca: «Il leader del Pd deve esserlo a tempo pieno. Se Bindi vincesse, smetterebbe di fare il ministro e gli altri?». Veltroni è in Umbria ieri, e un elettore di centrosinistra lo ferma per dirgli: «Vengo dalla Toscana, con la Bindi in campo non so chi votare». E il sindaco di Roma: «A tua coscienza...». Si preparano liste e iniziative. Le Democratiche, la rete di donne per il Pd, hanno fatto partire una "staffetta" di incontri e dibattiti in tutt´Italia.

Repubblica 22.7.07
Oliviero Diliberto: modificare l´intesa a partire dal referendum tra i lavoratori
"Le quote sono un inganno lotteremo in Parlamento"
di Giovanna Casadio


La sinistra radicale si è sfaldata. Positiva però l'unità col Prc: cadute le ragioni della scissione a sinistra

ROMA - «Prima che l´accordo sulle pensioni arrivi in Parlamento ci vuole un referendum tra i lavoratori. È di elementare buonsenso chiedergli se sono d´accordo». Non gli è ancora sbollita la rabbia, a Oliviero Diliberto. «Diciamo che sono irritato, per usare un eufemismo. Nessuno da Palazzo Chigi che si sia fatto sentire... non si va per strappi su una materia così importante». Il giorno dopo il via libera alla riforma previdenziale, il segretario del Pdci lancia bordate. Senza risparmiare nessuno. Ad Epifani, ad esempio: «Immagino sia stato costretto a firmare l´accordo per senso di responsabilità dopo l´aut aut di Prodi. Se non firmava, cadeva il governo». A Rutelli, Fassino e Prodi: «Io a Monfalcone, tra i lavoratori delle aziende in crisi non sono stato fischiato. Non so se per altri sarebbe lo stesso. Ero per un compromesso perché non sono massimalista ma questa soluzione è meno avanzata della bozza proposta dal ministro Damiano. Va modificata».
Segretario Diliberto, la notte non le ha portato consiglio? Un compromesso sulle pensioni andava trovato.
«La notte mi ha portato consiglio sì, sono più arrabbiato. È dal 1992 dal primo accordo per togliere la scala mobile che si chiedono sacrifici ai lavoratori in nome di presunte compatibilità sui conti pubblici. A pezzo a pezzo sono stati tolti, con la logica dei petali, diritti che erano stati conquistati dai nostri padri. È la Confindustria ora che fa la lotta di classe e ci sta facendo un mazzo così. Siamo arrivati all´età della pensione a 62 anni: a me sembra un´enormità, e la delusione per un comportamento siffatto di un governo di centrosinistra, che dovrebbe essere dalla parte dei lavoratori, è forte».
I riformisti dell´Unione dicono che è un accordo ragionevole. Lei come lo giudica?
«Un inganno. Le quote sono un inganno. A parte che sono altissime. Le quote per definizione sono tali se sono elastiche nelle loro applicazioni. Se io raggiungo "quota 97", quale che sia la mia età devo potere andare in pensione. Ma se invece la "quota 97" è legata all´obbligo di pensione a 61 anni, allora di quale quota stiamo parlando?».
Non crede che un patto tra le generazioni sia necessario?
«Evitiamo l´ipocrisia. Le nuove generazioni iniziano a lavorare molto più tardi delle precedenti, quindi l´età pensionabile è un falso problema. Il problema della pensione dei giovani è il precariato del lavoro. Assurdo e odioso mettere i figli contro i padri».
La sinistra radicale si è divisa sulle pensioni: addio unità?
«Questa divisione è molto dolorosa per me. Ci siamo sfaldati alla prima prova: Verdi e Sd da una parte, noi del Pdci e Rifondazione, dall´altra, per fortuna insieme. Credo che il ragionamento possa riprendere da qui. Non ci sono più le ragioni della scissione della sinistra del 1998. Ci vorrà un chiarimento con Sd di Mussi: quando si andrà a un referendum tra i lavoratori bisogna evitare di creare un solco profondo a sinistra, sarebbe molto grave».
Le prossime mosse?
«Inizieremo subito una mobilitazione contro l´aumento dell´età pensionabile. È tempo di reagire, i lavoratori non sono numeri ma persone in carne e ossa. Questo messaggio semplice deve ridiventare il cuore dell´azione della sinistra. Quindi, il referendum tra i lavoratori. In Parlamento presenteremo un pacchetto di emendamenti».
Rinvia all´autunno la resa dei conti con il governo?
«Non sono un matto e so che dopo questo governo ci può essere qualcosa di molto, molto peggio. Ma non sono cieco e vedo che il governo sta perdendo consensi. Il centrosinistra deve presentarsi tra i lavoratori senza rischiare di essere fischiato. Vanno prese misure che contrastino il precariato giovanile e bisogna consentire di andare in pensione a un´età decente a chi ha lavorato una vita».

Repubblica 22.7.07
La Chiesa e la Cina un duello di secoli
di Federico Rampini


Il 30 giugno Benedetto XVI ha indirizzato una lettera ai cattolici della Repubblica popolare, uno Stato con cui il Vaticano non ha relazioni dal 1951. Si è rimessa così in movimento una storia di coraggio e di fede iniziata dai gesuiti alla fine del Cinquecento e precipitata duecento anni dopo in uno scontro che dura ancor oggi
Dopo Francesco Saverio e Matteo Ricci esplose nell´Europa della Controriforma una febbre delle vocazioni per generazioni di giovani sacerdoti attirati dall´Oriente
Con un editto del 1706 l´imperatore Kangxi respinse le richieste di papa Clemente XI e impose ai missionari l´obbligo del "piao", una licenza speciale concessa dal Figlio del Cielo


PECHINO. Resiste in cima a una scalinata nel cuore di Macao: una superba facciata barocca che sembra appesa alle nuvole. Solo l´azzurro del cielo l´avvolge e buca le sue porte. Sta in piedi per miracolo, la facciata da sola. Dietro di lei la chiesa intera, le pareti, il soffitto, il tetto sono crollati da tempo, travolti da tifoni e incendi. È quel che resta di São Paulo, la più celebre cattedrale di tutta l´Asia quando Macao era una colonia del Portogallo e la "base" di penetrazione del proselitismo cristiano verso l´Estremo Oriente.
Nel collegio dei gesuiti di Macao studiarono alla fine del Cinquecento i missionari Matteo Ricci e Adam van Schall prima di andare a evangelizzare la Cina. Ai loro tempi la cattedrale era di legno e di terra, la facciata di pietra venne aggiunta dal gesuita italiano Carlo Spinola nel 1602. Degli artigiani giapponesi fuggiti da Nagasaki per le persecuzioni religiose la decorarono di curiose sculture, una loro visione originale del cristianesimo in Asia. La statua della Vergine Maria ha ai suoi fianchi una peonia che rappresenta la Cina, un crisantemo per il Giappone.
Quella facciata diroccata, fragile rovina abbandonata, racconta un pezzo di storia del cattolicesimo in Cina: l´impresa di missionari che quattro secoli fa vennero fin qui sfidando pericoli mortali, seminarono i germi di una nuova fede nel popolo cinese, per poi fuggire travolti da una drammatica crisi politica. All´avventura dei gesuiti lo storico americano Liam Brockey ha dedicato un nuovo saggio, Journey to the East. The Jesuit Mission to China, 1579-1724. Brockey ha riesumato i ricordi di un´antica processione che sfilò davanti alla cattedrale di São Paulo per festeggiare la beatificazione di Francesco Saverio, pioniere dei missionari in Asia e patrono di Macao. Nel pittoresco corteo i fedeli cinesi recitavano scene di teatro di strada, allegorie di storia vissuta. Un attore personificava la Cina dei Ming: vestita sontuosamente, con monili d´oro e argento e pietre preziose, lacrimava per aver chiuso le porte in faccia a Francesco Saverio: «Ecco l´Impero di Mezzo con tutte le sue vane ricchezze, condannato a piangere sui suoi sbagli». Ma errori, incomprensioni e incompatibilità ci furono da ambedue le parti, nel primo dialogo tra i vertici della Chiesa romana e il Figlio del Cielo, come si definiva il sovrano cinese.
Il tormentato rapporto tra la Cina e il Cristianesimo è tornato d´attualità il 30 giugno scorso quando papa Benedetto XVI ha indirizzato per la prima volta una lettera ai cattolici della Repubblica popolare: uno Stato con cui il Vaticano non ha più relazioni dal 1951. Agostino Giovagnoli, docente di storia all´Università cattolica di Milano, ricorda che «per molti decenni agli occhi del cattolicesimo mondiale è sembrato che in Cina prevalesse il concentrato di tutti i mali: era il solo Paese in cui il comunismo non solo perseguitava la Chiesa, ma riusciva anche a penetrare al suo interno, dividendola in fazioni e contrapponendo gli uni agli altri».
Lo scontro che da mezzo secolo oppone il regime di Pechino al Vaticano presenta delle singolari analogie con il braccio di ferro ai tempi della Controriforma e della dinastia Qing. Il comunismo all´epoca di Mao e della Rivoluzione culturale ha aggiunto di suo una virulenta persecuzione ateista contro tutte le religioni. Ma al cuore della crisi che Roma e Pechino oggi tentano faticosamente di superare, c´è una questione di potere quasi immutata da trecento anni.
La penetrazione dei gesuiti in Cina è associata indissolubilmente alla figura di Matteo Ricci, il maceratese che nel 1583 sbarcò vicino a Canton e nel 1601 ottenne udienza al Palazzo imperiale nella Città Proibita di Pechino. Ricci non era certo il primo cristiano in Cina (la presenza di nuclei di nestoriani si segnala fin dall´ottavo secolo dopo Cristo) e neanche il primo missionario visto che i francescani si erano affacciati alla corte del Gran Khan nel XIII secolo. Ma l´impatto intellettuale di Ricci è senza precedenti. Erudito e geniale, primo sinologo della storia, Ricci adatta il messaggio dei Vangeli all´etica confuciana e conquista il rispetto dell´alta burocrazia mandarina grazie alle sue conoscenze di matematica e astronomia. Crea un ponte tra due civiltà, offre all´Europa intera le chiavi di comprensione della millenaria cultura cinese.
Insieme a Francesco Saverio, Ricci diventa un mito per generazioni di giovani sacerdoti attirati dal proselitismo in Estremo Oriente. Passando in rassegna una vasta mole di documenti d´epoca, lettere e diari personali, Brockey ricostruisce un´autentica febbre delle vocazioni esplosa in Europa: la Compagnia di Gesù deve operare una selezione spietata, i candidati sono troppi, solo una minoranza viene prescelta per partire in Asia. A volte le strade dei missionari incrociano quelle dei mercanti europei, ma spesso i religiosi affrontano il pericolo da soli. Gli italiani non hanno dietro di sé una potenza coloniale. Anche i portoghesi, gli spagnoli, i francesi, una volta entrati nell´Impero di Mezzo non possono fare affidamento sulla protezione dei propri Stati. Il martirio non li spaventa: per alcuni, è la fine che sognano. Contrariamente agli stereotipi sulla Compagnia di Gesù, non cercano solo di convertire la classe dirigente, i colti e i potenti. In realtà i gesuiti conquistano una base popolare, nell´anno 1700 hanno duecentomila fedeli, diffusi anche tra i ceti umili e nelle regioni di provincia. Una traccia di questa devozione si ritrova in opere di artisti anonimi che applicano lo stile cinese ai soggetti cristiani: come una bellissima Madonna con Gesù bambino, tutti e due con gli occhi a mandorla, fisionomie e abiti inconfondibilmente locali, in un dipinto del XVII secolo ritrovato nel centro della Cina, nella provincia dello Shaanxi.
A conferma del loro successo, ben presto i gesuiti sono sopraffatti dal lavoro. Ci sono troppi fedeli rispetto al numero limitato dei missionari e formarne di nuovi richiede tempi lunghi. Si arrangiano con soluzioni originali, come l´uso della "confessione con l´interprete". Inoltre nel 1700 il gesuita José Monteiro inventa per i suoi confratelli il primo manualetto di conversazione rapida in mandarino. S´intitola Vera et unica praxis breviter ediscendi, ac expeditissime loquendi sinicum idioma, suapte natura adeo difficile (L´autentico e unico metodo breve, per imparare rapidamente a parlare la lingua cinese, per sua natura assai difficile). Contiene le frasi essenziali per catechizzare i cinesi, e anche qualche espressione utile per i bisogni più materiali della vita quotidiana: «Questa carne non è cotta abbastanza. Il riso è scotto. Le verdure non sanno di niente. Questo tè fa schifo».
I gesuiti applicano la lezione del loro pioniere per aprirsi un varco nella mentalità cinese. Ricci ha stabilito che il confucianesimo non va trattato da avversario, È un´etica che può conciliarsi coi principi cristiani, così come un europeo può apprezzare Aristotele senza essere sospettato di eresia. Dunque i cinesi convertiti vadano pure nei templi di Confucio: non è un idolo pagano, solo un maestro di vita. La stessa tolleranza viene applicata alla venerazione degli antenati, un culto che ha radici millenarie. Da questo pragmatismo nasce il cattolicesimo di "rito cinese". Diventa la pietra dello scandalo quando nell´Impero celeste nella seconda metà del XVII secolo affluiscono altre ondate di missionari. Domenicani e francescani attaccano la tolleranza dei gesuiti, denunciano le liturgie locali come idolatria. Scoppia la Questione dei Riti, che papa Clemente XI risolve nel 1704 dando torto alla Compagnia di Gesù.
La querelle dei riti ha avuto grande notorietà, ma non è lì che si consuma definitivamente il divorzio tra la Chiesa e la Cina. Lo scontro più importante è su un altro punto. La svolta decisiva avviene quando il Papa, per informare l´Imperatore della sua decisione sui riti, invia a Pechino un´ambasciata guidata da un giovane prelato piemontese, Carlo Tommaso Maillard de Tournon. De Tournon è ricevuto dall´Imperatore Kangxi nel dicembre 1705 e pone una condizione per stabilire relazioni dirette fra la Santa Sede e la dinastia Qing: il pontefice designerà un superiore di tutti i missionari cattolici in Cina. Per l´Imperatore la richiesta è inaccettabile. Egli non ammette che possa esistere sotto il suo regno una "gerarchia parallela", un´armata di sacerdoti che obbediscono a un sovrano straniero.
Con un editto imperiale del dicembre 1706 Kangxi stabilisce la regola opposta: i missionari cattolici per esercitare in Cina devono ottenere una licenza speciale, il piao. L´imposizione del piao, scrive Brockey, «è un esercizio del controllo imperiale sui missionari», non diverso dal principio di autorità a cui devono sottostare i monaci buddisti e taoisti. Diventa uno strumento per dividere i sacerdoti tra buoni e cattivi. La situazione precipita. Mentre de Tournon viene ricacciato a Macao, ai missionari presenti sul territorio cinese s´impone un´alternativa drammatica. Devono scegliere tra il Papa e l´Imperatore, ma anche fra continuare l´apostolato in Cina o rinunciarvi. Lasciare il Paese vuol dire abbandonare i propri fedeli. Fare atto di sottomissione a Pechino significa sfidare la condanna papale.
È un dilemma che anticipa quello che vivranno i preti cinesi nel 1957, quando Mao Zedong deciderà di istituire la "Chiesa patriottica", l´unica autorizzata dal Partito comunista, i cui vescovi e sacerdoti devono essere nominati dal governo e fare giuramento di fedeltà al regime. Come accadrà nella Repubblica popolare, anche tra i sacerdoti europei del Settecento la reazione non è compatta. Quarantuno domenicani partono in esilio, espulsi dai confini dell´impero dalla dinastia Qing. Una cinquantina di gesuiti seguaci dei "riti cinesi" ricevono il piao e decidono di rimanere, sperando di guadagnare tempo e di ottenere un ripensamento del Papa. Un manipolo di religiosi scelgono una terza via, rifiutano il piao ed entrano nella clandestinità, continuando a praticare di nascosto in alcune regioni rurali della Cina meridionale (proprio come i preti cinesi della "Chiesa sommersa" ai nostri tempi).
La crisi precipita con la morte di Kangxi e l´avvento al trono di suo figlio Yongzheng nel 1723. Il nuovo Imperatore promulga un editto in cui condanna il cattolicesimo come «setta perversa e dottrina sinistra». La repressione si scatena sui fedeli, chiese e seminari vengono sequestrati e convertiti ad altri usi: diventano scuole, ospedali, granai. Nella provincia del Fujian, con un crudele scherzo alla memoria di Ricci, le parrocchie cattoliche vengono trasformate in templi per il culto degli antenati. «Nell´ottobre 1724», scrive Brockey, «sedici anni dopo che i gesuiti hanno sfidato Clemente XI accettando il piao, vengono arrestati in massa dalle autorità imperiali, deportati a Canton, da lì imbarcati per l´esilio a Macao». Yongzheng fa sapere a Ignatius Koegler, un sacerdote tedesco che dirige il laboratorio astronomico alla corte imperiale, che i gesuiti devono considerarsi fortunati per essere stati cacciati da vivi. Nello stesso anno, in un giro di vite per riaffermare il suo controllo su tutti i culti, l´Imperatore ha «ordinato la distruzione in massa di molti templi buddisti e lo sterminio di oltre un migliaio di lama».
I missionari cattolici torneranno nel secolo successivo in una Cina indebolita e decadente, piegata dalla superiorità militare delle nuove potenze occidentali. Poi le porte si chiuderanno di nuovo con la rivoluzione comunista. Adesso la lettera di Benedetto XVI cerca una soluzione all´impasse: per la prima volta il Papa non disconosce la Chiesa patriottica, propone di fonderla con quella clandestina. Pechino deve ancora rispondere.

Repubblica Firenze 22.7.07
"Il mio corpo a corpo con la perfezione"
Da otto anni Patrizia Riitano sta restaurando la Madonna del cardellino
di Mara Amorevoli


Si incontrano e si guardano da otto anni. Ogni giorno, puntualmente. Si scrutano, si toccano e si accarezzano fino all´ossessione. Una dolce ossessione costruita nel tempo con piccoli gesti delicati e precisi, impastati di materia e colore, di paura e passione. E di incubi: «L´ho sognato più volte. Una volta aprivo la scatola e non lo trovavo più, era scomparso. Un´altra volta ero a casa con degli amici, sul tavolo c´era lui, e io preoccupata e gelosa controllavo tutti. Ho anche sognato con terrore che sollevavo la carta con cui avevo fermato il colore, che restava tutto attaccato». Ma è l´affezione a vincere: «A casa, ho le sue foto appese. Montagne di documenti, studi e analisi. Sì, se potessi me lo porterei a casa. E´ il "mio" quadro». Dopo otto anni di convivenza, di corpo a corpo con quell´immagine, il minimo che poteva capitare alla restauratrice Patrizia Riitano, è che quel dipinto diventasse una parte di lei, una presenza costante nella sua vita.
Il quadro non è un dipinto qualsiasi, ma l´icona più rappresentata e conosciuta da secoli: «La Madonna del cardellino» di Raffaello, un´immagine archetipo che tutti abbiamo imparato a riconoscere fin da piccoli, un santino su libri e messali di cresime e comunioni, riprodotto all´infinito, celebrato fin dall´antichità. Patrizia Riitano ne è la vestale da quando la tavola, 107 per 77 centimetri, dal ‘99 ha lasciato la Galleria degli Uffizi per il Laboratorio di restauro dell´Opificio delle Pietre Dure. Da allora la superficie pittorica della celeberrima Madonna seduta, con il Bambino a destra e San Giovannino che tiene in mano un cardellino, contrassegnata da una pesante patina giallo-bruno, come tutti la ricordiamo, è molto cambiata. Ha ritrovato luce e colori, sfondi e particolari prima invisibili perché sepolti sotto molteplici strati di ridipinture.
Un lungo lavoro certosino e lenticolare, che la restauratrice avvia ogni giorno con il rito dell´apertura della scatola di sicurezza in cui è custodita la tavola. Riitano cita ad occhi chiusi ogni dettaglio, millimetro per millimetro del dipinto. Racconta i momenti difficili: le sottrazioni di particelle di pittura, di vecchi pigmenti che se ne andavano con solventi e bisturi. «Che stress - confessa - perché non si sapeva mai esattamente cosa ci fosse sotto». Nonostante le ripetute campagne di analisi, tac e riflettografie a cui è stata sottoposta la tavola prima del restauro. «Le indagini sono mappature da interpretare, integrano il lavoro, ma non si sa mai cosa si trova alla fine. All´inizio siamo partiti chiedendoci si potrà pulire o no?» spiega ripercorrendo momenti di dubbi e incertezze, di confronti con Marco Ciatti e l´équipe dell´Opificio, con la soprintendente Cristina Acidini. Su di lei, il peso degli occhi del mondo e la responsabilità delle aspettative di quanti attendono la fine del restauro e la restituzione del dipinto agli Uffizi, prevista per fine anno.
Anni di lavoro quotidiano che umilmente, «calandosi nel rispetto del dipinto» precisa, lentamente hanno visto riemergere le pennellate dei colori di Raffaello. Il blu del lapislazzulo del mantello della Madonna sepolto sotto alla vernice bruna, il chiarore degli incarnati, il verde azzurrognolo del paesaggio sullo sfondo (fatto di lapislazzulo con aggiunte di giallo o bianco), i particolari di un mazzolino di violette, di arbusti di piantaggine e di fiori di una piantina di fragole ai piedi dei due bambini. Si rileggono le pennellate di Raffaello, oltre alle crepe e ai danni subiti dal dipinto. Perché la tavola, eseguita da Raffaello durante il suo soggiorno fiorentino nel 1505 come dono di nozze all´amico Lorenzo Nasi, fu travolta nel crollo dell´abitazione di Nasi sotto lo smottamento di Monte San Giorgio nel 1548. Vasari scrive che l´opera fu ritrovata in pezzi insieme ai calcinacci e fatta rimettere insieme nel miglior mondo possibile «da Batista, figliolo di Lorenzo, amorevolissimo dell´arte». Così furono aggiunti due tasselli di legno mancanti, e fu ridipinta. Reintegrazioni tornate visibili come ferite durante il restauro, quindi risanate fino a recuperare tutta la superficie pittorica e l´integrità del dipinto. La fine del restauro è davvero vicina. Patrizia Riitano si schermisce: «Mia figlia, incuriosita dall´attenzione mediatica intorno a questo intervento, mi ha chiesto "Mamma, ma quando l´hai finito sparisci anche tu?"». E sorride, consapevole che, come in tutte le storie d´amore, passare dal possesso all´abbandono è sempre una tragedia.

Corriere della Sera 22.7.07
Guardie rosse, slogan e ravioli Rivoluzione culturale sul menu
E' un successo a Pechino il ristorante «maoista»
di Paolo Salom


PECHINO — Le quattro Guardie rosse, all'ingresso, scattano sull'attenti, fanno il saluto militare e, con le loro voci acute di ragazze ancora adolescenti, gridano: «Lottiamo contro l'ideologia borghese!». Gli ospiti, un po' intimoriti, rispondono con una prontezza che non si è appannata nei quattro decenni dalla fine della Rivoluzione Culturale: «Lo faremo senza esitazioni!».
Via libera. Possiamo entrare, attraverso un'enorme stella rossa, salutati dagli slogan maoisti che decorano pareti e soffitti di quella che sembra, a tutti gli effetti, una comune popolare. Possibile che sia sopravvissuta alla trasformazione che ha regalato, ai nipoti di Mao, un Paese destinato a sostituire la Germania come terza economia del mondo? In realtà, ci troviamo in un ristorante, ricavato da una vecchia fattoria alle porte di Pechino, che sfrutta commercialmente la Rivoluzione culturale per riempire i suoi tavoli. Idea geniale, trasformata in marchio protetto: per riuscire a sedersi, occorre prenotare giorni prima. La sala, alle sei e mezzo di sera, è già colma di famiglie eccitate che si guardano intorno come se si trovassero in una Disneyland del comunismo realizzato: quando la Rivoluzione diventa un pranzo di gala. Tutto è «copia autentica »: il grande murale con il volto di Mao, gli slogan sospesi sui tavoli («Viva il presidente Mao», «Viva il Partito comunista»), il trattore che irrompe da una parete e, soprattutto, le giovani Guardie rosse che si aggirano tra i clienti, con fare minaccioso. Ragazzi e ragazze con la divisa maoista stirata di fresco, pronti a servire il popolo: a tavola. Dove solo il menu non è rivoluzionario. Al posto delle ciotole di riso scotto e poco più del passato, trionfi di ravioli, pollo alle mandorle e con gli anacardi, manzo in fricassea con fagioli cinesi e toufu: uno spettacolo.
I camerieri-Guardie rosse hanno imparato bene la lezione. Come confermano i due coniugi che accompagnano il cronista in questo inaspettato salto indietro nella Storia cinese. «A quel tempo — spiegano Xu Ziyan, 65 anni, ex ricercatore dell'Istituto per l'energia atomica di Pechino, e la moglie (e collega) Guo Xinying, 62 — quando si incrociavano le Guardie rosse era obbligatorio rispondere ai loro slogan secondo precise parole d'ordine. Guai a chi sgarrava». Diciamo subito che Xu e Guo sono stati abbastanza fortunati. In quanto ricercatori di un istituto strategico, durante la Rivoluzione culturale (1966-1976), il movimento voluto da Mao (e «difeso » dalla Guardie rosse, in gran parte studenti imberbi), furono mandati in campagna a «soli» cento chilometri da Pechino. Nel ristorante, tutto è pensato per suscitare i ricordi di un'epoca durissima per i cinesi, in particolare intellettuali e quadri dirigenti, costretti a «rieducarsi nel lavoro manuale e imparare dai contadini», classe simbolo della Cina di allora. Eppure, a osservare i clienti del ristorante Hongse Jindian («I classici rossi»), si nota più nostalgia che tristezza per un passato che oggi tutti criticano, almeno ufficialmente. «Mi diverto a fare la Guardia rossa— civetta una cameriera prima di prendere le ordinazioni con un palmare —. Ma forse perché sono troppo giovane, a quel tempo non c'ero». «Noi sì, c'eravamo — ribatte Xu Ziyan, incuriosito dalla moglie che, davanti a lui, canticchia le canzoni rivoluzionarie diffuse dagli altoparlanti —. Però non mi sento a disagio qui. È divertente. O forse sarà che mi tornano in mente i ricordi che appartengono comunque ai miei vent'anni...».
Xu è interrotto da una Guardia rossa che sale sul palco e grida: «Compagni, buonasera! ». È il momento più atteso: ha inizio una sorta di musical che ripropone opere rivoluzionarie. Nel ristorante è un tripudio di musica, inni e Libretti rossi. I clienti rispondono in coro, si alzano in piedi, battono le mani a ritmo. Compreso un ragazzo, avrà diciannove anni. Indossa una maglia del Milan: davvero una giustapposizione incongrua con le divise verdi dei camerieri che gli passano vicino. Ma che importa? «Io dico che Mao è stato un gigante della Storia — interviene da un tavolo vicino Wu Daqiang, 62 anni, forse un po' alticcio —. Oggi le cose non vanno affatto bene: troppe disuguaglianze. Allora non era così: eravamo tutti sulla stessa barca». L'entusiasmo è al massimo. Incitati dalle Guardie rosse alcuni clienti si muovono a mo' di corteo tra i tavoli. Portano ritratti di Mao e cantano: «Obbediamo agli ordini del presidente. Andiamo in campagna! ». È l'ultima coreografia. La musica si interrompe, i clienti tornano a sedere, sudati. La Guardia rossa si presenta con un sorriso. E il conto. Chiediamo a Xu Ziyan e alla moglie se si sono divertiti, nonostante tutto. «Ma — rispondono — forse era un po' troppo rumoroso...».

Corriere della Sera 22.7.07
Neurologia Nuove ricerche precisano il ruolo dei «neuroni specchio»
Perché ci facciamo sempre i fatti degli altri
Chiarito il meccanismo dell'empatia che ci permette di capirci anche senza parlare
di Cesare Peccarisi


Veder accarezzare o malmenare qualcuno può innescare le stesse aree cerebrali che si attivano quando la stessa cosa viene fatta a noi.
Il fenomeno è causato dai cosiddetti neuroni specchio, cellule nervose situate nella corteccia cerebrale premotoria ventrale e in quella parietale posteriore che si attivano poco prima di compiere un'azione, in particolare se «copiamo» quella fatta da un altro. In alcune persone si attivano al punto da far percepire la medesima sensazione di chi viene davvero toccato: si tratta di sinestesia speculare, l'esagerazione di un meccanismo cerebrale che tutti in qualche modo possiedono, ma che nei cosiddetti sinestesici fa scattare una sorta di risonanza tattile che fa letteralmente sentire gli stimoli altrui sulla propria pelle. Il termine sinestesia deriva dal greco e significa «percepire insieme», tant'è che chi ha questo disturbo, oltre a percepire lo stimolo che l'ha raggiunto, ne percepisce altri irreali, anche distanti dal vero punto di stimolazione: una stretta di mano può ad esempio accompagnarsi alla sensazione di una carezza sulla spalla che in realtà è solo nella testa del sinestesico.
Uno studio dei ricercatori del Dipartimento di psicologia dell'Università di Londra diretti da Michael Banissy appena pubblicato sulla rivista Nature Neuroscience dimostra che questo disturbo è associato a una spiccata empatia, la capacità, variabile da persona a persona, che ci fa percepire le emozioni e le sensazioni degli altri. Per verificare quanto le sensazioni altrui possano interferire empaticamente con quelle di questi soggetti, i ricercatori hanno chiesto a 10 sinestesici e a 20 persone normali d'identificare senza guardarla quale zona del loro corpo veniva sfiorata mentre osservavano un'altra persona a cui era toccata la stessa o un'altra parte.
Quando il punto toccato era lo stesso in entrambi, i sinestesici lo identificavano più in fretta, come se la loro percezione reale fosse rafforzata da quella della zona che vedevano toccare nell'altra persona; quando però la zona toccata al soggetto sinestesico e quella della persona che stava guardando non corrispondevano, le sensazioni altrui potevano essere per lui così intrusive da confondere le sue percezioni reali, facendogli ritenere come proprie le aree del corpo che vedeva sfiorate negli altri.
Le persone normali tendevano invece a fare errori di altro tipo: non riconoscevano il punto toccato nel loro corpo semplicemente perché non potevano vederlo.
Questo studio ha confermato i risultati di Christian Keysers dell'Istituto di neuroscienze di Groningen che, in collaborazione con i neuroricercatori dell'Università di Parma diretti da Vittorio Gallese (pioniere nello studio dei neuroni specchio) ha dimostrato nel 2004 come nel nostro cervello esista una sorta di «area del toccamento », la corteccia somatosensoriale secondaria che si attiva non solo quando è toccata una parte del nostro corpo, ma anche quando assistiamo alle sensazioni tattili provate dagli altri. L'empatia di cui parla Bannissy deriverebbe in realtà da meccanismi ancestrali propri delle prime fasi dell'evoluzione, quando il linguaggio non si era ancora sviluppato e toccarsi era la forma di comunicazione principale. Resta tuttora un fondamentale modo per scambiarsi messaggi in situazioni in qualche modo regressive come il rapporto mamma/bambino o quello sessuale, dove gli amanti si parlano più con gesti e carezze, che con le parole.
Il toccamento viene sempre catalogato emotivamente: anche se è del tutto casuale, come in un autobus affollato, per il nostro cervello si tratta di un movimento intenzionale di cui tendiamo ad interpretare emotivamente le finalità. Il riconoscimento delle emozioni altrui è mediato dal sistema sensitivo-motorio che indica come ci sentiremmo di fronte a una certa emozione attraverso la sensibilità empatica, sulle cui varie componenti (visiva, tattile, olfattiva, ecc) vanno ad agire i neuroni specchio che, in realtà, influenzano la vita di tutti i giorni anche di chi sinestesico non è.
Ad esempio sono molto usati dagli imitatori e sono sempre questi neuroni a scatenare un'improvvisa voglia di pastasciutta alla vista di Alberto Sordi che s'ingozza di spaghetti in «Un Americano a Roma».
Anche il voyerismo potrebbe sembrare un fenomeno di emozione specchiata in cui l'osservatore finisce col provare ciò che vede nei filmetti, nei giornalini o, soprattutto, dal vivo, ma in questo caso il rispecchiarsi nell'azione osservata diventa la cosa meno importante di una psicopatologia il cui aspetto principale è invece il raggiungimento dell'orgasmo guardando di nascosto sconosciuti che si spogliano o fanno sesso.
In tutti noi c'è un pizzico di voyerismo, ma solo in chi è davvero malato ciò si trasforma in ossessive fantasie sessuali che finiscono col condizionare tutta l'esistenza.
Nelle persone normali certe scene spinte possono indurre anche emozioni di rifiuto piuttosto che di eccitazione e una sinestesica potrebbe addirittura immedesimarsi completamente con la vittima di una scena di stupro, provando tutt'altro che eccitamento sessuale.
«Studiando con la risonanza funzionale il cervello di soggetti normali che guardavano una scena in cui veniva toccato il corpo di un'altra persona — racconta Gallese, che per primo ha ipotizzato e dimostrato l'esistenza del meccanismo di rispecchiamento visuo-tattile — abbiamo osservato che, come per una sorta di risonanza, si attiva anche la corteccia tattile secondaria dell'osservatore: ecco perché se guardiamo la scena in cui l'agente 007 resta immobile mentre una tarantola gli passeggia sul torace vengono i brividi anche a noi…».
Ma per chi è sinestesico queste esperienze possono diventare insopportabili: «Non ho mai capito come faccia la gente a divertirsi con i film truculenti — dice Jane, una ragazza affetta da questo disturbo che faceva parte dei soggetti studiati da Banissy — e a ridere se a qualcuno mozzano la testa o un braccio: se io vedo certe scene, non posso far a meno di provare le stesse sensazioni su me stessa».
«Non so cosa significhi vivere senza sentire ciò che i medici chiamano sinestesia a specchio — dice Alice, un'altra ragazza studiata sempre dai ricercatori inglesi — per me questa è la risposta perfettamente normale che si prova vedendo toccare un'altra persona, soprattutto se lo si fa per provocargli dolore».
Di fatto le emozioni rappresentano il primo processo con cui si prende coscienza dell'ambiente e con il quale riorganizziamo continuamente i nostri rapporti col prossimo e strutturiamo negli anni la nostra autocoscienza.
«Qualsiasi cosa vediamo con gli occhi — conclude Gallese — viene immediatamente tradotta dal nostro cervello in qualcosa che possiamo toccare, facendo scattare automaticamente una pianificazione simulata del movimento necessario a toccarla, dove sensibilità tattile e visiva si fondono: i sinestesici in fondo fanno semplicemente questo, solo che lo fanno in maniera abnorme ».
Uno studio sui sinestesici, persone che vivono in una costante sovrapposizione tra sensazioni proprie e quelle che osservano negli altri, ha permesso di capire meglio come funziona il nostro cervello

Corriere della Sera 22.7.07
Non esistono bianchi e neri: tante facce, stessa razza
di Luigi Ripamonti


Ormai è assodato che per tantissimi caratteri genetici non c'è discontinuità tra i vari gruppi di popolazioni

Quante sono le razze umane? Le diverse classificazioni che sono state proposte ne ipotizzano da 2 fino a 200.
A una mente sgombra da pregiudizi questa premessa potrebbe bastare per chiudere qualsiasi discussione sull'argomento: è chiaro che conclusioni così discordanti possono fondarsi solo su basi che di scientifico hanno poco o nulla.
Eppure le razze sono lì, davanti ai nostri occhi. Chi può negare che un nero africano è diverso da noi e simile, se non quasi identico, ai suoi conterranei? E che cosa dire dei cinesi? C'è qualcuno che riesce distinguerli bene tra di loro? Chi può sostenere che non siano così simili l'uno all'altro e così diversi da noi italiani, o dagli svedesi?
Solo un cieco. Oppure qualcuno che ci vede particolarmente bene e sa guardare la realtà col microscopio e la lucidità dello scienziato. È quello che ha fatto Guido Barbujani, professore di genetica all'Università di Ferrara, che ha sintetizzato anni di studi e di ricerche sull'argomento nel libro «L'invenzione delle razze» (Bompiani), appena premiato nella sezione «saggi» della quinta edizione del premio letterario «Accademia nazionale delle biotecnologie Merck-Serono».
Poco più di cento pagine in cui viene argomentato in modo semplice ma esauriente perché la distinzione in razze è possibile e legittima, per esempio, per le lumache, ma è completamente priva di senso per l'uomo, a dispetto della apparenze. Abbiamo chiesto al professor Guido Barbujani di chiarirci la sua tesi.
Che cosa rende così diverse lumache e uomini relativamente al concetto di razza?
Il fatto che la variabilità biologica umana è discordante e continua, mentre per le classificazioni razziali la variabilità dev'essere concordante e discontinua.
Ci faccia un esempio che ci aiuti a capire.
Variabilità discontinua significa che è possibile tracciare linee sulla carta geografica, confini che separano razze, cioè gruppi di popolazioni ben distinte. Ma, nel caso dell'uomo, prendiamo, per esempio, la capacità di utilizzare anche nell'età adulta il lattosio contenuto nel latte, capacità che alcuni di noi perdono quando con la crescita si inattiva un enzima che si chiama lattasi. L'inattivazione è determinata geneticamente, ma non ci sono popolazioni o razze in cui tutti digeriscono il latte e popolazioni o razze in cui non lo digerisce nessuno. I diversi gruppi umani differiscono invece per la percentuale di persone in cui la lattasi si inattiva: sono una minoranza in Europa e in alcune aree dell'Africa, sono la maggioranza in estremo Oriente e in altre zone dell'Africa, con varie sfumature intermedie nelle località intermedie.
Insomma, se volessimo prendere la lattasi come criterio distintivo per stabilire una differenza tra razze ci accorgeremmo che non c'è discontinuità tra i gruppi umani per questo carattere, ma un continuum. Vale anche per tantissimi altri geni. Nell'umanità non ci sono linee scientificamente riconoscibili a separare popolazioni nettamente diverse le une dalle altre.
Sì, ma la lattasi è un enzima. Colore della pelle e degli occhi sembrano invece dire il contrario.
Non proprio. Proviamo a pensare agli aborigeni australiani e agli africani. Sono due popoli neri. Se esiste una razza nera dovremmo includerli entrambi. Ma se andiamo a valutare molte altre caratteristiche, come ha fatto il genetista Luca Cavalli-Sforza, scopriamo che sono probabilmente i due gruppi più diversi della terra dal punto di vista genetico: il colore della pelle varia in maniera discordante con tante altre caratteristiche, fra cui la funzionalità della lattasi. E se ripetiamo l'esperimento partendo da qualsiasi caratteristica biologica, il gioco finisce sempre allo stesso modo: un rompicapo in cui tutti si somigliano per qualche verso a tutti e per qualche altro verso si differenziano. Un puzzle che farebbe impazzire chiunque. Anzi, che, in un certo senso, ha già fatto, se non impazzire, perlomeno fallire, chiunque abbia provato a cimentarvisi con criteri scientifici e non soltanto con ingenui pregiudizi. Se si ripercorrono in chiave storico-critica le tappe del dibattito sulle basi biologiche della diversità umana, dalla nostra origine africana alla colonizzazione dei cinque continenti, si vede come le conoscenze accumulate smentiscano in modo definitivo l'idea ottocentesca che l'umanità sia frammentata in gruppi biologicamente distinti, che in altre specie si chiamano razze. Del resto, basti pensare al fatto che in passato l'identificazione delle razze nella specie umana ha prodotto risultati quasi comici: nel 1900 ne erano state contate 29, di cui 6 europee; nel 1933, quando il Field Museum of Natural History, di Chicago, commissionò alla scultrice Malvina Hoffman statue a grandezza naturale che descrivessero tutte le razze dell'umanità per l'Esposizione Universale, si arrivò a 104. E seguendo altri criteri di classificazione nel XX secolo si sono toccate le 200.
Perché definisce ingenui i pregiudizi?
Perché spesso alla base di errate convinzioni stanno percezioni abbastanza comprensibili e ingenue cui è difficile rinunciare. Basti pensare alla sfericità della terra: non è facile accettarla se rimaniamo sul piano della percezione fisica. E così per le razze. Eppure la scienza dimostra in modo inequivocabile che la terra è rotonda e che non è possibile classificare con criteri obiettivi gli esseri umani in diverse razze.
Sempre a proposito di pregiudizi, perché ha deciso di scrivere questo libro?
Perché mi occupo di genetica di popolazioni da molti anni. Ma anche perché mi piace una frase che ha scritto anni fa un bravo biologo inglese, Steve Jones, in un libro che si chiama «La lingua dei geni»: «Continuiamo a trovare tanti motivi per odiarci fra noi, ma oggi abbiamo almeno capito che nei nostri geni non stanno scritte profonde differenze fra razze. Credere che il nostro aspetto, e addirittura la nostra intelligenza e il nostro comportamento, siano inevitabilmente determinati dal nostro DNA è una buona scusa per non far niente, ma oggi questa scusa non regge più alla prova dei fatti».

Corriere della Sera 22.7.07
Casal Bertone in piazza, sei ore di alta tensione
Estremisti di destra e sinistra si fronteggiano, centinaia di agenti per impedire violenze


Musica e slogan «duri» nel quartiere blindato
Destra e sinistra, manifestazioni contrapposte a Casal Bertone. Ma niente scontri

Sei ore di tensione a Casal Bertone per le due manifestazioni organizzate da una parte, in piazza di Santa Maria Consolatrice, dai centri sociali e dai movimenti antifascisti, e dall'altra, in via Orti di Malabarba, dal Circolo futurista di Fiamma Tricolore. Le due fazioni, composte in tutto da meno di un migliaio di persone, sono state però divise e controllate a vista da un ingente spiegamento delle forze dell'ordine. Poliziotti, carabinieri e finanzieri hanno presidiato tutti gli incroci del rione con blindati e scudi. Nel pomeriggio, a cominciare dalle 16, tutto è andato per il meglio in un quartiere comunque chiuso, con le saracinesche dei negozi abbassate, come le serrande degli appartamenti ai piani bassi dei palazzi, e poche persone in strada. Dopo il tramonto l'attenzione delle forze dell'ordine si è spostata sulla prevenzione di possibili agguati fra gruppi di estremisti.
Una lunga fila di saracinesche abbassate, di portoni sprangati, di tapparelle chiuse per proteggere le finestre ai piani bassi dei palazzi. Casal Bertone ha iniziato così la sua giornata di tensione: da una parte tre-quattrocento giovani dei centri sociali, della sinistra antagonista e famiglie dell'ex asilo occupato di piazza De Dominicis, dall'altra oltre duecento ragazzi di estrema destra radunati nel Circolo futurista in via Orti di Malabarba, chiusa da entrambi i lati da un ingente servizio d'ordine di poliziotti e carabinieri.
Un pomeriggio e poi anche una serata ad alto rischio, con la possibilità di scontri occasionali e premeditati nelle strade lontane dai luoghi scelti per le due manifestazioni contrapposte non solo dalla politica, ma da contrasti profondi, decisamente peggiorati dopo la spedizione del 28 giugno a Villa Ada di un gruppo di estremisti di destra a un concerto della «Banda Bassotti» (che ha suonato anche ieri sera) e la devastazione la notte fra l'11 e il 12 luglio scorsi del circolo di Fiamma Tricolore proprio a Casal Bertone da parte di un commando di estrema sinistra. Non solo l'inizio di una «faida» politica, ma le conseguenze di tanti episodi di violenza meno eclatanti avvenuti nel quartiere dall'inizio dell'anno. Ieri, dalle quattro del pomeriggio a notte fonda, i protagonisti di questa «guerra» a distanza si sono confrontati ancora una volta. A dividerli però c'erano circa 350 uomini delle forze dell'ordine dislocati nei punti strategici del rione, agli incroci delle strade, nei vicoli più bui e meno trafficati.
In via Arimondi, fra un ristorante e un bar, a meno di 200 metri dal circolo futurista dove era stato organizzato un concerto rock con gruppi di destra, un presidio composto da oltre dieci blindati, fra leggeri e pesanti, ha chiuso ogni via d'accesso. Agenti della Digos e dei commissariati San Basilio e Prenestino hanno controllato chiunque si avvicinasse con fare sospetto. In azione anche il personale della «scientifica» pronto a riprendere con le videocamere i momenti principali delle due iniziative.
Controlli anche in via di Portonaccio, nei pressi della discoteca «Qube», fuori dalla quale nell'inverno scorso sono avvenute numerose aggressioni notturne. «Hanno cominciato in mattinata - racconta rincasando un inquilino di un palazzo di via Baldissera - poi, per fortuna, non è successo nulla di grave. Da casa ho sentito soltanto qualcuno dei ragazzi che gridava slogan e insulti, ma qui da un po' di tempo è una cosa normale». Normale o no, anche via Baldissera è stata presidiata da polizia, carabinieri e guardia di finanza: l'unica strada di collegamento diretto con piazza di Santa Maria Consolatrice, dove è stata organizzata la manifestazione antifascista. Un camion carico di altoparlanti parcheggiato davanti alla chiesa, con musica a tutto volume. Nel pomeriggio una giovane coppia si è sposata, parenti e amici si sono fatti fotografare sulla scalinata fra due cordoni di poliziotti.
«Non possiamo mica chiuderci in casa - sospira un'anziana in via di Casal Bertone, vicino alla Banca di Roma - è poi è una bella festa. Paura? Sì, un po'. Ma c'è anche tanta polizia». Dalle 16.30 il Circolo futurista ha cominciato a riempirsi di giovani, quasi tutti con le teste rasate, gli occhiali da sole, i bermuda mimetici e le magliette piene di frasi d'effetto, come «12 luglio, mai un passo indietro». Non soltanto residenti nel quartiere, ma anche di altre zone di Roma, con una buona percentuale di ragazze. L'attrazione della serata è stato il concerto della band di riferimento del movimento di estrema destra, gli «Zetazeroalfa», insieme con altri gruppi musicali. L'esibizione vera e propria è iniziata alle 21.30 circa, ma prima di allora polizia e carabinieri hanno vigilato su un paio di cortei organizzati dalla sinistra antagonista per le strade del quartiere.
Un centinaio di ragazzi hanno percorso il perimetro intorno a piazza di Santa Maria Consolatrice seguiti a vista dagli agenti, soprattutto quando nel loro cammino si sono avvicinati al «quartier generale » dei rivali. Non è successo nulla, solo altri slogan, striscioni e qualche insulto urlato al di là degli sbarramenti. Quanto è bastato, tuttavia, per ricordare a tutti, nonostante la calma apparente del pomeriggio, che in circa 200 metri si stavano tenendo due raduni dalle conseguenze imprevedibili.
Fino al tramonto tutto è filato per il verso giusto, poi con il calare delle tenebre la tensione è salita di nuovo per il timore di assalti e agguati con coltelli e bastoni da una parte e dall'altra.

Corriere della Sera 22.7.07
1977/2007, trent'anni dopo
Rossi e neri. L'odio politico trent'anni dopo
di Alessandro Capponi


«Il problema non è la caduta, ma l'atterraggio». L'odio è un film francese di qualche anno fa, e racconta le banlieues, ma non solo. Racconta, soprattutto, quella sensazione lì, precipitare.
Lentamente eppure rapidamente, precipitare. Ieri a Casal Bertone - un popolare quartiere romano tra Tiburtina e Portonaccio - c'erano poliziotti e blindati, carabinieri e jeep con le grate ai finestrini; alle finestre, persone senza magliette oppure anziani a guardare sotto. Guardavano i due gruppi, separati da qualche centinaio di passi e da molte più divise: fascisti e antifascisti.
Guardavano, soprattutto, il vuoto nel mezzo, queste strade deserte coi negozi chiusi, questo spazio che è un'apnea, una distanza incolmabile. Poche centinaia di passi, ma chi li percorre è quella la sensazione che prova. Precipitare.
La donna al megafono, in piazza Santa Maria Consolatrice, la piazza antifascista colma di persone, alle cinque del pomeriggio dice che vuole «uscire in pace, la sera, anche coi miei bambini. Perché queste aggressioni e questa violenza il quartiere le rifiuta, Roma le rifiuta, e io pure». È tenera, anche quando urla, il tono stridulo: «Ma che volete? Che volete? Che volete?». Lei vive nella scuola occupata che l'altra notte è stata invasa da quella roba lì, aggressioni e violenza. Ora: i compagni dicono «sono stati i fascisti», i fascisti dicono «sono stati i compagni». Brutta storia. «Centosessanta aggressioni fasciste in due anni, neanche un indagato: com'è possibile?». Già, com'è possibile? Anche se fossero state la metà, o un terzo: la domanda resta. Com'è possibile? Che anni sono, i Settanta? Oggi si può chiedere una risposta, basta fare qualche centinaio di passi, domandare permesso alle divise, ed ecco via degli Orti di Malabarba, il «circolo futurista», i fascisti. Ci sono poliziotti ovunque, qui, anche sul muro di cinta della ferrovia. Dentro sta per cominciare il concerto degli Zetazeroalfa, che canteranno «non darti pena, nel dubbio mena», anche se poi, loro, dicono che «il testo è ironico »; fuori, ci sono anche ragazze, anche carine: da incontrare in un cinema, a ballare la sera. E, ci sono, questi ragazzi con le magliette «12 luglio, non un passo indietro», come a dire che quella notte, quella notte delle aggressioni e della violenza, nessuno - certo non chi indossa la t-shirt s'è spaventato fino a fuggire. La domanda, certo: tutte queste aggressioni, è vero? Non avete, voi, questa sensazione chiara, precipitare? Risponde Gianluca Iannone, Fiamma Tricolore: «C'è chi semina odio, in città, questi politici di sinistra, anche Veltroni». Ma, Iannone, quelli nell'altra piazza, poco fa, dicevano lo stesso: colpa di Veltroni che ha dato agibilità ai fascisti. «Quale agibilità? Ha chiuso otto delle nostre sedi, otto, e mai è venuto a salutare i nostri feriti. E poi questa pacificazione è una menzogna: perché sulla lapide di Paolo Di Nella c'è scritto "vittima della violenza" e su quella di Walter Rossi "vittima della violenza fascista"? ». Solo che ecco, Iannone, la sensazione è che potrebbero esserci morti, se non la finite. «Certo, ma la colpa è di chi fomenta l'odio. Loro, i compagni, sono venuti ad aggredirci, a spaccare la nostra sede. Se qualcosa accadrà, la colpa è dei fomentatori d'odio». Già, l'odio. Iannone ha cicatrici sulla fronte: «Eh, l'altra notte, quelli tiravano mattoni grossi così».
Nella piazza antifascista, di là, ci sono anche i bambini. Sulle altalene, a correre tra la gente, nei passeggini. Bambini c'erano pure l'altra notte, qui a Casal Bertone. E pure a Villa Ada, quando ci fu il raid neofascista. Iannone è sarcastico: «Siamo stati io e lui, a Villa Ada...». Qualcuno è stato, però. I compagni hanno una certezza: negli striscioni elencano vittime (Biagetti, Dax) o eventi (Genova 2001) e scrivono «Sappiamo chi è Stato».
«C'ho un rigurgito antifascista, se vedo un punto nero ci sparo ci sparo a vista»: canzone vecchia di un decennio e più, ma anche questa suonano, oggi. «Il punto è che noi siamo stanchi - dice un ragazzo di un centro sociale - perché ogni volta che c'è un'assemblea dobbiamo mettere fuori le sentinelle, e anche per venire qui, fare manifestazioni così, dobbiamo interrompere progetti e lavori sul territorio. Abbiamo altro da fare, noi. Ne faremmo volentieri a meno. Ma ci sono aggressioni di continuo, di continuo». C'è un matrimonio, nella chiesa sulla piazza. Quando la sposa esce, ecco, tutti, invitati e manifestanti, applaudono, anche dalle finestre. Auguri, figli maschi. Concepiti stanotte, nascerebbero nel 2008. Chissà che anno sarà. Se di questo secolo o di quello passato. Se si avrà ancora questa sensazione, precipitare nell'odio. Perché è una sensazione che non può durare molto. E quella è una verità: il problema non è la caduta, ma l'atterraggio.
Prima il raid di Villa Ada, poi gli scontri in questo quartiere I centri sociali: «In due anni ci sono state 160 aggressioni fasciste e nessun indagato»

Liberazione 22.7.07
Prodi soddisfatto per l'accordo sulle pensioni. Il Pd ha consegnato alla grande borghesia, a Confindustria, alle banche la prova (richiesta) di essersi purificato dalla sua origine di sinistra. Ha sostituito il suo blocco sociale con un sistema di potere
Tra scalate e scalini nasce il Pd
E va al centro. Che fa la sinistra?
di Piero Sansonetti


Prodi ha dichiarato che l'accordo sulle pensioni è una specie di capolavoro: ripara all'ingiustizia dello scalone e tiene in ordine i conti dello Stato. Non è vero. L'accordo lascia aperte molte ingiustizie e soprattutto una: costringe i lavoratori a lavorare due o tre o quattro anni più del previsto, per permettere un certo equilibrio del potere finanziario italiano ed europeo. L' ordine nei conti dello Stato non c'entra niente. L'unico ordine che ha a che fare con questa vicenda è l' ordine che la parte più potente della borghesia italiana - quella rappresentata dal governatore di Bankitalia Mario Draghi - ha impartito al governo, e che è stato rispettato, e che imponeva in primo luogo un ridimensionamento delle pensioni pubbliche (in vista del rilancio del grande business delle pensioni private) e in secondo luogo un colpo a Rifondazione e più in generale alla sinistra politica e sindacale.
Prodi è soddisfatto per questo: non per la sua azione di governo, ma per come è andata la delicata battaglia politica che si è svolta sul tema delle pensioni, e che ha avuto quattro protagonisti principali. Uno da una parte e quattro dall'altra. Da una parte l'asse Prc-Fiom (con l'appoggio del Pdci) che si è battuta per difendere i futuri pensionati; ci è riuscita solo in parte, impedendo che la "mannaia" si abbattesse su circa un milione e mezzo di operai (tra lavori usuranti e lavoratori precoci). Dall'altra parte tre soggetti autonomi: il potere finanziario (Draghi, ma anche Confindustria), il nascente Partito democratico e la grande stampa; e in aggiunta ai tre, il piccolo ma contundente Partito radicale. Il Partito radicale, per la verità, non ha avuto nessuna funzione autonoma, è stato usato come una bottiglia molotov dagli altri soggetti, per cercare di mandare a fuoco il "fortino nemico".
Concentriamoci ora su uno solo di questi soggetti: il nascente Pd. Per due ragioni. Innanzitutto perché è il vero vincitore di questa partita, e in secondo luogo perché la prova-pensioni è la prima grande prova politica alla quale il Pd si sottopone, e il modo nel quale l'ha affrontata ci dice molto sul futuro di questo partito, sulla sua collocazione, sul ruolo che giocherà nella politica italiana.
Perché è il vero vincitore? Perché ha ottenuto quello che voleva. Cioè una riforma da portare in dono al mondo della finanza, dell'impresa e del potere economico, come garanzia della propria affidabilità. Cosa voleva la grande borghesia dal Pd? La certezza che non fosse più, in alcun modo, figlio di quel Pci, dal quale discende"geneticamente" la parte politicamente più forte del suo gruppo dirigente. Serviva al Pd la prova che i "cromosomi" sono ormai del tutto manipolati, e che questa manipolazione può essere usata nella battaglia contro la sinistra, e che questa battaglia può essere vincente. Questo voleva, questo ha avuto.
E quel che più fa impressione è la casuale coincidenza tra la battaglia delle pensioni e la vicenda Unipol-Consorte (con la richiesta al Parlamento, da parte della magistrata competente, del permesso ad usare le intercettazioni di Fassino, D'Alema, La Torre, Consorte e altri). Perché fa impressione? Perché si ha la fotografia di un partito che rinuncia, anche con toni sprezzanti, al proprio tradizionale blocco sociale (che aveva come nucleo essenziale il mondo del lavoro e soprattutto del lavoro dipendente) e non lo sostituisce - attraverso una complessa e dolorosa traversata politica, di tipo, ad esempio, blairiano - con un altro blocco sociale più moderato (fondato sul ceto medio); ma lo sostituisce con un "blocco di potere", cioè con pezzi di grande finanza e settori dello "stato maggiore" del capitalismo. Sta qui l'enormità dell'operazione: pensare che sia possibile sostituire la forza sociale con la forza finanziaria, il radicamento di massa con un sistema di potere. In algebra non si possono sommare le "a" e le "b", in politica - così pensa il nuovo gruppo dirigente piddino - si può. E questa idea è proprio quello che è rimasto - parecchio degenerato, o modernizzato: fate voi - del vecchio leninismo e del vecchio "doppismo" leninista. L'idea - in fondo - che si possa imbrogliare non solo il popolo, ma anche la storia. Battersi per la libertà e poi sotto sotto essere stalinisti. Combattere Berlusconi, e poi sotto sotto imitarlo, scambiando frasi "oscene" con i finanzieri e facendosi, con gioia, impelagare nella scalata - per altro non corretta - di una banca. Basta essere intelligenti più degli altri, basta "saperne" di politica...
Non so, francamente, se bisognerà concedere o no a Clementina Forleo il permesso di usare quelle intercettazioni. Il garantismo mi spinge a dire di no. La lettura di quelle telefonate, però, mette una tale tristezza, e riapre in modo così forte la ferita della questione morale, o più ancora, di una grande questione culturale...
Quello che è evidente, da questa vicenda, è che purtroppo quel fatto della scalata alle banche non è stato un errore di percorso. C'è una grande coerenza tra scalata alle banche e scelta politica, sullo scalone, guidata dalle banche. E questa coerenza, unita al programma - moralmente pulito, ma politicamente americano, di Veltroni - ci dice che il Pd non ha alcun interesse a dare rappresentanza a ceti, idee, progetti e politiche tradizionalmente di sinistra.
Mi piacerebbe, allora, che la sinistra cosidetta "radicale" (cioè l'unica sinistra rimasta sulla scena ) riuscisse ad affrontare con serenità e molto seriamente questa discussione, evitando di dividersi su aspetti tattici, procedure, opportunità e obiezioni minori. Ma rispondendo chiaramente a questa gigantesca domanda: come si fa a ricostruire una sinistra, che dia rappresentanza a un settore vasto ed esigente della nostra società, che sappia battersi, e ne abbia la forza, contro lo scivolamento a destra della società - largamente favorito dalla nascita del Pd - e che impedisca l'oligarchia, la cancellazione della partecipazione, l'oppressione dei ceti più deboli, la regressione culturale, la restituzione - dopo un quarantennio di lotte, di vittorie e di sconfitte - di tutto il potere alla grande borghesia?
La sfida dell'unità a sinistra è tutta qui, e prescinde dalle divisioni "tattiche", dai tempi, dai modi, e persino dai contraccolpi (come la distanza che si è creta, proprio sulle pensioni, tra Prc e un pezzo di Sd). Quello che mi sembra assolutamente innegabile è l'urgenza di questa unità.

il manifesto 22.7.07
Per un paio d'anni in più
di Alessandro Robecchi


Cari compagni, è meglio un bicchiere mezzo pieno o un bicchiere mezzo vuoto? Chissenefrega, tanto poi se lo beve Montezemolo. In ogni caso è stato divertente, ieri, leggere su La Stampa l'unico reportage controcorrente del giorno: le voci degli operai di Mirafiori sull'accordo sulle pensioni. Per fare una sintesi: sono incazzati come cobra. La mia opinione, a questo punto, pende verso la moderazione: aspettiamo a fasciarci la testa! Aspettiamo almeno di romperci anche un braccio, così facciamo un viaggio solo verso l'ospedale e risparmiamo! Naturalmente avrete visto anche voi per le strade i cortei dei giovani festanti fare il gesto dell'ombrello perché papà starà in fabbrica un paio di anni in più. Adesso sì, che per questi giovani si aprono straordinarie prospettive, ora che tutti quegli operai smetteranno di fare la bella vita con i soldi nostri. Come sempre in questi casi, consiglio di guardare il lato positivo. Anche se vi sembra strano, l'accordo sulle pensioni avrà positive ricadute sull'occupazione. Per esempio il partito democratico prossimo venturo potrà mandare centinaia di cococo a fingersi operai fuori dalle fabbriche, per dichiarare ai giornalisti, qualora ce ne fossero, che si tratta di un ottimo accordo. Altri potrebbero tenere lezioni di geometria per spiegare come tanti scalini facciano uno scalone. E ci sarebbero sbocchi interessanti anche per il lavoro intellettuale: qualcuno dovrà pur andare a spiegare l'accordo agli editorialisti del Corriere, perché quelli evidentemente si sono distratti e parlano di «capitolazione del governo», intendendo, in modo piuttosto strabiliante che è capitolato davanti all'estrema sinistra (sarà l'effetto di molti bicchieri mezzi pieni). Vedete? Si aprono nuove prospettive nel settore dell'informazione: ce ne vorrà di lavoro per convincere tutti che è in salvo il futuro dei giovani. Ci pensino con calma anche quelli delle presse, delle carrozzerie, della verniciatura. Coraggio, compagni operai! Per pensarci meglio, vi danno un paio di anni in più.

sabato 21 luglio 2007

Liberazione 21.07.2007
Giordano: Il soggetto unitario deve diventare un fatto di massa
Sintesi delle conclusioni del segretario nazionale di Rifondazione comunista

Penso che abbiamo svolto una discussione importante, un vero salto di qualità del nostro dibattito, che ha prodotto un larghissimo consenso seppure siamo in un passaggio complesso e difficile delle relazioni politiche e sociali. Consenso e spirito unitario che stridono con la rappresentazione interessata che sulla stampa abbiamo letto in questi giorni.
In questa replica non voglio tornare sul filo dell'impianto strategico che ho svolto nell'introduzione, quell'impianto che ci fa richiamare il Congresso di Venezia e poi gli sviluppi nella conferenza di Carrara.
Mi limiterò ad un ragionamento sui passaggi politici, decisivi per il prossimo futuro, ripromettendoci di tornare sulla nostra cultura politica, alla luce delle preoccupazioni da qualcuno accennate rispetto ai rischi di un loro offuscamento avvenuto in questa fase.

Al centro è la trasformazione, non il governo
Ci sono stati naturalmente anche alcuni dissensi. Cannavò ci ripropone posizioni per noi note, che nei fatti possiamo racchiudere attorno all'affermazione che nell'occidente capitalistico non è possibile pensare di collocarsi dentro una qualsiasi ipotesi di governo, prospetta una opposizione quindi di fase e strategica.
Questo paradigma politico e culturale non è condivisibile. Anzi, questo atteggiamento nei fatti rischia di essere una fuga dalla politica. Burgio giustamente aggiunge che i problemi che ci ritroviamo da questa collocazione, li ritroveremmo anche stando all'opposizione.
Per noi il governo è un mezzo e non un fine, per noi al centro c'è il tema della trasformazione sia che siamo al governo, sia che siamo all'opposizione, la nostra funzione rimane comunque quella di critica al potere. Questo è un pezzo importante per la costruzione di una nostra nuova identità. Non può esistere una ipotesi divaricata tra stare al governo e stare nei processi reali e di movimento.
Non accettiamo lo schema che viene da sponde opposte, di chi ci chiede coerenza nello stare al governo abbandonando i movimenti, e al contrario di chi vorrebbe escluderci nel movimento perchè siamo ora nel governo.
E qui la polemica prosegue con Eugenio Scalfari, che nega ogni forma di autonomia del conflitto, ma non solo la nostra, anche quella del sindacato.
Riproponendo una forma coercitiva di esercizio del ruolo di governo, siamo minoranza e dobbiamo sottostare alle decisioni della maggioranza del governo. Per lui non esiste il programma, non esiste il concetto di mandato elettorale.Vogliono ripristinare una sorta di compatibilità organica, il programma scompare e rimangono i rapporti di forza, ma non nella società, nella sfera del governo e dei luoghi di comando.
E' dentro questo quadro che si spinge sull'ipotesi referendaria e di riforma elettorale e che vede la Confindustria diretta protagonista. Il paradigma è sempre quello dell'impresa e noi siamo un vincolo, un impaccio.
Questa cultura politica convive con la natura costituente del nuovo Partito Democratico, l'omologazione in modo compiuto passa attraverso la riforma elettorale.

La partita si gioca su previdenza e riforma elettorale
La nostra proposta sulle pensioni, che ho tratteggiato nella introduzione, è in sintonia con il programma dell'Unione ed è apertamente contrastata da un pezzo della coalizione, lo dice chiaramente Dini in una intervista.
Io penso che noi dobbiamo stare al merito, e distinguere in primo luogo la partita nel gruppo dirigente di Rifondazione, da quella che determina la condizione materiale dei lavoratori sulle loro pensioni. Non si può usare questa tribuna per andare sui giornali e poi non rimanere neanche alla discussione e alla fine ridurre tutto ad una partita interna quando ci sono lavoratori che per effetto dello scalone vanno in pensione tre anni dopo, e per chi ha maturato già 40 anni di contribuzione rischia di andarci 18 mesi dopo! Questo è quanto avverrà tra pochi mesi se non cambieremo la legge del governo Berlusconi.
Noi siamo pronti ad affrontare la sfida della congruità come ci chiede Romano Prodi. Oggi, anche grazie all'aumento dei contributi avvenuto in finanziaria dello 0,3%, ci sono le condizioni per fare una proposta congrua nel rispetto del programma dell'Unione. Non solo, va detto che oggi i privilegi sono quelli dei dirigenti d'azienda che attingono al fondo dei lavoratori dipendenti per percepire pensioni ben più sostanziose di quelle degli operai di cui stiamo parlando.
Lo scalino che viene portato a 58 anni prevede una platea larga di lavoratori esentati, turnisti, addetti alla catena di montaggio, ma non solo, quelli che hanno maturato 40 anni di contributi, ma anche allargando alla scuola e ad altri lavori usuranti fuori del lavoro di fabbrica.
Qui è il cuore della nostra proposta che non quella di ritardare l'applicazione dello scalone negli anni successivi. Ci hanno accusato di tutto, di essere pan sindacalisti, subalterni al sindacato, ma anche di essere troppo invadenti.
Ma che politica è, se una sinistra non può concorrere a decidere sulla condizione dei lavoratori?
E' giusto, come dice Rinaldini su Liberazione, che se è stato lasciato uno spazio vuoto ci sia qualcuno che lo riempie. Ci sono oggi le condizioni perchè venga raggiunto un accordo di merito, a meno che non ci sia un disegno politico che vuole impedirlo.
Dietro la campagna sui giovani contro gli anziani vi è in realtà una logica di redistribuzione all'interno del mondo del lavoro che tende a dividerlo, a colpire il lavoro operaio in particolare, ed a lasciare inalterati i profitti.
La manifestazione nazionale unitaria in programma per ottobre deve avere al centro la precarietà, che non è la patologia del mondo di oggi, è la cifra di questo capitalismo, è la rincorsa del lavoro al suo prezzo più basso.

Tornare al Marx delle macchine
Qui c'è un grande tema che è stato sollevato dalla discussione, riguarda il ruolo della scienza e della tecnica sul processo di valorizzazione del capitale. Esso non è scisso dai temi che abbiamo trattato, riguarda il tempo liberato, in particolare quello della pensione, l'impresa vuole riprendersi quella quota di tempo liberato che la tecnologia ti offre, vogliono rimetterlo nella catena di costruzione del valore, ma vogliono anche costruire un'egemonia culturale sul tempo fuori dal lavoro.
Questo ci dice che la sinistra non può pensare solo al governo e all'uso sociale della tecnologia, deve ripensare le forme di produzione sociale, la genesi della tecnologia che ha incorporato i rapporti di forza capitalistici. Mi piacerebbe tornare al Marx delle macchine, e ad un'altra idea della macchina, a costruire un'altra idea della razionalità a partire dalla produzione delle macchine che non possono essere funzionali solo a questa logica.
Un'inchiesta di diversi anni fa svolta alla Zanussi, parla di una donna che doveva entrare in fabbrica alle 6 di mattina, aveva due bambini piccoli da portare la mattina prestissimo dalla madre. Durante il lavoro è lì a pensare a come li ha dovuti svegliare, allo strappo che ha avuto da loro mentre ancora stavano dormendo, e pensa a come potrà risarcirli, a cosa farà quando uscirà. Ma poi quando esce dal lavoro non ha più la forza e la testa, di fare tutto quello che aveva progettato. Li riporta a casa come il giorno prima, perché quei ritmi e quel lavoro ti svuotano anche dei desideri.
Noi quando pensiamo ad una società alternativa, critica contro queste forme di organizzazione del lavoro pensiamo anche alla conquista della libertà e dell'autonomia dei soggetti dalla cultura drammatica dell'impresa.

Non è in campo nessuna ipotesi di scioglimento di Rifondazione comunista
Oggi siamo a dei passaggi decisivi, decisivi per un'alternativa di società e di trasformazione, possiamo dirlo ormai apertamente alla luce di questa discussione, importante, avuta nel Comitato Politico: non è in campo nessuna ipotesi di scioglimento di Rifondazione comunista, nonostante quanto se ne sia parlato, scritto, detto in queste settimane, qui non è stata avanzata da nessuna compagna e compagno. Questo, in modo chiaro, ci consegna questa discussione.
Ma questa paura che comunque è circolata, questa diffidenza che sempre c'è stata attorno alla proposta di costruzione del nuovo soggetto plurale, ora non deve più rappresentare un freno nella nostra azione. Perché, al contrario, è necessario accelerare. E' necessario perché c'è bisogno di questo nuovo soggetto. Se ricordate bene, sono le stesse paure che avevamo quando dovevamo costruire la Sinistra Europea, questione sulla quale abbiamo poi conquistato l'intero partito, producendo sullo scenario europeo una forza che è un'alternativa ad una sinistra tecnocratica e liberale ed ad una destra iperliberista e conservatrice. Un'operazione che nasceva anche in relazione alle esperienze di protagonismo diffuso che si sono prodotte in America Latina, dentro la crisi dell'unilateralismo americano, dentro la necessità di un'Europa fondata sul protagonismo sociale.
Mettiamo a valore questa esperienza, l'innovazione politico culturale che ha caratterizzato il percorso della sinistra europea, deve entrare dentro il progetto del soggetto unitario a sinistra.
Si tratta oggi di costruire una sinistra pacifista, antiliberista, laica.

Superiamo le nostre paure, acceleriamo il processo unitario a sinistra
Il soggetto unitario deve diventare un fatto di massa, di popolo, deve guardare ai movimenti, al conflitto sociale, alle comunità che si contrappongono ai processi di globalizzazione.
Abbiamo fatto degli atti importanti, il patto di unità d'azione, i quattro ministri che hanno chiesto il rispetto del programma, gli incontri, tutto ciò ha prodotto un'efficacia nuova ed una visibilità nell'incidenza nei confronti del governo, ora però è necessario che il nuovo soggetto sia produttore di una soggettività, deve appunto diventare un fatto di massa, di popolo, deve contrastare la spoliazione del protagonismo sociale.
Nella discussione è anche emersa una resistenza, che va capita ed ha delle giustificazioni nel fatto che in tutta la storia recente tutti i processi di innovazione sono state funzionali a processi di moderazione e riduzione delle spinte alternative e conflittuali. E'una paura ad investire fino in fondo in questo processo. In queste nostre resistenze si esprime al fondo una scarsa fiducia in noi stessi. Ma attenzione, la nascita del Partito Democratico è un problema vero, Veltroni tende a sussumere il tutto, non a parlare solo ad una parte, simbolicamente ingloba il tutto, concretamente rappresenta solo una parte.
Per questo noi dobbiamo prospettare, a partire dalla costruzione di questo nuovo soggetto unitario, una sfida strategica al Partito Democratico, un soggetto ancorato nel lavoro, non equidistante tra lavoro ed impresa, che non guarda ad un astratto ed indistinto cittadino - consumatore, che ha una grande fiducia sulla ricchezza di questa nostra comunità, che ha la capacità di raccogliere le spinte dei movimenti, le spinte antiliberiste, le spinte sul terreno della democrazia e delle libertà. Un'idea altra di società e un'altra idea di razionalità. Ce la possiamo fare. Ce la dobbiamo fare.


Salvatore Bonadonna

La relazione del Segretario colloca la discussione sulla fase politica nel quadro della costruzione dell'alternativa di società e del progetto di unità a Sinistra; anche in vista del Congresso. Mi convince questa impostazione e mi conferma l'inopportunità della riunione di Segni. L'acutizzazione dello scontro sociale e politico che si concentra sulle pensioni deriva dall'incapacità delle forza moderate di governare la crisi all'epoca della globalizzazione. E l'idea di rispondere a queste crisi con la costruzione del Partito Democratico invece che con politiche economiche innovative perché redistributive in senso egualitario e risarcitorie in senso sociale ed ambientale, non solo è miope ma rischia di costituire una sponda al cortocircuito tra liberismo economico e liberalismo politico del Corriere della Sera e anche di Eugenio Scalfari. Il Pd, il veltronismo, il manifesto di Rutelli rischiano di essere apprendisti stregoni che evocano i pericoli dell'estremismo aprono la strada ai processi autoritari che si alimentano anche dell'antipolitica e vedono la democrazia come sistema di sprechi e inefficienze. Il destino della Sinistra non può essere affidato a rapporti diplomatici tra gruppi dirigenti ma deve puntare decisamente alla costruzione del soggetto politico unitario e plurale, l'alternativa pacifista, anticapitalista e antiliberista, egualitaria e non violenta. Non mi convince la discussione astratta se e come andare "oltre Rifondazione". Sulle pensioni così come sulla Finanziaria, nella preparazione della manifestazione dell'autunno, dovremo svolgere incontri e assemblee del popolo della Sinistra. In questi incontri dovremmo eleggere i delegati dei Consigli Territoriali della Sinistra d'Alternativa. Avviare così la costituente del soggetto politico.