lunedì 23 luglio 2007

l'Unità 23.7.07
Giordano: Prodi non può essere il garante del Pd

«Va frenato il segno centrista del governo, sullo scalone sarà battaglia. E consulteremo gli elettori»
di Natalia Lombardo


L’ACCELERATORE «Sullo “scalone” la partita è aperta: proporrò alle forze di sinistra di verificare se si può migliorare l’accordo. Ma d’ora in poi le scelte del governo vanno discusse prima con noi. Il Pd ha creato una gerarchia, e così si dissolve l’Unione».
Il segretario di Rifondazione comunista, Franco Giordano, preme l’acceleratore per creare un soggetto unitario della sinistra.
L’accordo sulle pensioni resta negativo per il Prc?
«Sullo “scalone” sì. È come se l’Unione avesse introiettato la filosofia di Maroni e delle destre, ritardandone l’effetto. Si è disatteso il programma dell’Unione. D’ora in poi tutti i provvedimenti dovranno essere ridiscussi preventivamente con noi, per avere il nostro voto»
Però ha detto che ci sono anche cose positive. Quali?
«Gli esoneri dall’innalzamento dell’età pensionabile: chi ha 40 anni di contributi, i lavori a vincolo e i turnisti, la platea degli “usurati” stilata da Salvi, il rendimento per la pensione dei giovani. E l’innovazione culturale, che Confindustria avversa: il lavoro di un operaio non è uguale a quello di un manager. Fatti positivi per cui il nostro partito si è battuto molto, mentre non ho visto grande sostegno, nella trattativa, da coloro che vorrebbero difendere i giovani».
Vuol dire che se ci sono cose buone è grazie alla sinistra?
«È così. Le innovazioni sono il felice prodotto della sintonia tra la sinistra politica e gli scioperi preventivi».
Troppo pochi, aveva detto.
«Infatti parlo degli scioperi dei metalmeccanici del Nord. Se fossimo andati alla trattativa con una mobilitazione sindacale preventiva e con un’iniziativa della sinistra unitaria, forse avremmo ottenuto di più».
È anche un’autocritica?
«Noi abbiamo fatto il massimo della battaglia politica. Sul piano sociale penso che il sindacato avrebbe potuto fare di più per una mobilitazione preventiva in grado, sullo scalone, di ottenere risultati migliori. È solo una mia valutazione politica, non voglio ledere l’autonomia del sindacato».
Ma la spaccatura tra Fiom e Cgil non ha riflessi nel Prc?
«Non entro in questa dialettica. Ci accusano di invadere il campo dei sindacati sulle pensioni? Semmai è singolare che il governo non abbia avanzato una proposta compiuta con noi, per poi proporla ai sindacati»
Dopo l’accordo stavate per uscire dal governo?
«La nostra è una battaglia di merito, non una questione politica».
Chi sostiene l’accordo dice: i giovani rischiano di non avere mai la pensione, e la vita media si è allungata.
«Ma perché il tempo di vita che si libera dal lavoro anziché essere usato in modo creativo o per la cura della famiglia, dev’essere riconsegnato alla valorizzazione del capitale e alla competizione globale? Lo scalone se lo pagano i lavoratori, perché i conti Inps sono a posto con l’aumento dei contributi dello 0,3% e con il lavoro degli immigrati. Quindi lancio una sfida a chi insiste sui giovani: stiano con noi quando chiederemo il superamento della Legge 30, un monumento alla precarietà, o un reddito sociale minimo come esiste in tutta Europa, o più risorse sulla ricerca pubblica».
Con chi ce l’ha?
«Col Partito Democratico. Perché alcuni esponenti del Pd non si sono appellati ai giovani quando sono stati regalati cinque miliardi di cuneo fiscale al sistema delle imprese?».
Barenghi su «La Stampa» valuta che la sinistra radicale non ha ottenuto nulla... Per questo farete un referendum per decidere se stare o no nel governo?
«Be’, i media devono decidere: non possono dire che esiste un monocolore comunista e il giorno dopo che la sinistra non conta nulla. Delle due l’una.
Un problema vero però c’è: il Pd ha costruito le condizioni per determinare una gerarchia tra le forze di governo. Prima si ci mette d’accordo tra le varie anime del Pd, e poi la sinistra può solo emendare quanto deciso. Ecco, se continua così l’Unione si dissolve».
L’ha irritata il vertice tra il premier e i suoi vice prima di convocare i sindacati?
«Esattamente, non è la prima volta in cui si crea una plancia di comando nel governo. Chiedo a Prodi: si sente il mediatore e garante del Pd, o fa il Presidente del consiglio dell’Unione?».
Qual è il vero problema?
«Il Pd è un’opzione neocentrista che crea squilibrio nella maggioranza e nel governo. Anche per frenare l’aggressività moderata del Pd dobbiamo costruire rapidamente una soggettività unitaria e plurale a sinistra».
Ma dopo l’accordo sulle pensioni la Sinistra unita non è più lontana?
«Non enfatizzo tali divisioni, nella Sinistra Democratica sullo scalone ci sono pareri diversi. Certo se fossimo andati con una posizione comune avremmo ottenuto di più. Per questo si deve accelerare, ma il terreno è anche quello della partecipazione di massa, con passione, non solo quello dei partiti. Dobbiamo aprire una discussione con il nostro popolo» .
Sarà un referendum?
«Una cosa è il referendum sindacale dei lavoratori sull’accordo, un grande fatto democratico. Noi consulteremo l’elettorato della sinistra sul “se e come stare al governo”. Il Pd discute in un giorno sul leader, noi sui contenuti...».
Come? Via internet?
«Discuteremo, vedremo, spero si possa fare in modo unitario».
Nel governo quali passi farete?
«Il più vicino è il superamento della Legge Biagi, la lotta alla precarietà e sui contratti a termine. Poi le questioni di fondo sulla politica economica, e rilanciare una campagna sui diritti civili che risponda a quell’ampia domanda di liberazione venuta dal GayPride».
Sulla legge elettorale?
«Finalmente una buona notizia: abbiamo una sintonia tra noi e i Ds. Sono totalmente d’accordo con Fassino per il sistema alla tedesca. Dobbiamo accelerare una soluzione parlamentare. Il referendum è una truffa».
Sansonetti, direttore di Liberazione, vede un’unica pressione delle banche: dalle scalate allo scalone...
«Sulle intercettazioni non vedo questioni penali, ma tante dal punto di vista politico. Per D’Alema è “sconcertante” che noi critichiamo lo scalone? Per me è meglio essere sconcertati dal difendere i lavoratori, piuttosto che dal vedere mettere tutta la passione su come costruire un sistema di potere economico finanziario. Resto fermo a Enrico Berlinguer sulla questione morale che punta alla separazione tra politica e economia».
È a rischio il voto di domani in Senato sulle missioni?
«Al Senato si sa come si entra e non come si esce. Noi siamo disponibili a stare sul terreno unitario, ma è dal campo ulivista che hanno messo spesso a repentaglio la coalizione».
Be’, Turigliatto ha detto che non voterà sulle pensioni...
«Turigliatto da tempo non è più iscritto a Rifondazione».

l'Unità 23.7.07
PDCI. Diliberto annuncia: sulle pensioni una campagna estiva


ROMA «Da domani inizia la campagna estiva contro la controriforma delle pensioni». Lo annuncia Oliviero Diliberto a margine del comizio di chiusura della Festa Nazionale di Rinascita, al parco Schuster. «Le quote come ipotizzate nell'accordo sono inique. Su questo - aggiunge il segretario dei Comunisti italiani - il mio partito darà battaglia quando il provvedimento arriverà nelle aule parlamentari. Intanto, da subito inizia la mobilitazione contro l'aumento dell'età pensionabile». «I lavoratori - ha concluso Diliberto - non sono numeri, ma persone in carne e ossa. Questo il Governo lo deve sapere e questo messaggio deve diventare il cuore dell'azione della sinistra».
Incalza il deputato verde Paolo Cento «Al di là dei giudizi diversi che i partiti della sinistra hanno dato sull'accordo per le pensioni, è necessario preparare rapidamente un'iniziativa comune capace, da una parte, di difendere le cose positive che in quell'accordo ci sono, dall'altra di mettere in campo una vera offensiva per migliorare quel che non è condiviso».

l'Unità 23.7.07
ARCHIVI Il ritrovamento in Inghilterra della versione italiana degli appunti del Mussolini prigioniero a Ponza e alla Maddalena nel 1943
«Pensieri pontini e sardi», diario del Duce che si sentiva ormai finito
di Bruno Gravagnuolo


Il testo di quei fogli era noto. E abbondantemente usato dagli storici, sulla base della loro traduzione tedesca riversata nell’edizione dell’Opera omnia di Mussolini, a cura dei fratelli Edoardo e Dulio Susmel. E tuttavia il ritrovamento delle copie fotografiche degli originali dei Pensieri pontini e sardi, scritti dal dittattore tra il 26 luglio e il 27 agosto 1943, quando era prigioniero a Ponza e alla Maddalena, è ritrovamento filologico di primaria importanza.
La scoperta, presentata ieri da Repubblica, è avvenuta per merito di Mario J. Cereghino, ricercatore che lavora fianco a fianco con gli storici Giuseppe Casarrubea e Nicola Tranfaglia, con il primo dei quali ha anche sondato di recente i misteri della «Tango Connection» e della fuga in Argentina di tanti criminali nazisti grazie alla rete di protezioni Oltretevere (con Eva Peron al centro). Ed è avvenuta nei National Archives di Kew Garden nel Surrey a sud di Londra, dove il materiale diaristico fu portato dagli inglesi dal bunker di Hitler, dove si trova. Sono 88 fogli a quadretti, fatti subito tradurre da Hitler, quando Mussolini fu portato a Rastenburg, dopo la liberazione del Duce al Gran Sasso via Pratica di Mare il 12 settembre 1943. Gli originali italiani furono distrutti ma vennero pubblicati su un giornale austriaco, grazie a un ufficiale delle Ss che aveva salvato una copia in traduzione tedesca. E ora il confronto con il testo italiano consente di fugare i dubbi sulla loro autenticità, nonché di confrontare le versioni. Anche se le inevitabili discrepanze non paiono essere decisive al momento.
Ma qual è l’interesse storiografico del tema e del ritrovamento? Svariati punti. Prima di tutto la cronistoria dei trasferimenti del prigioniero. Il suo stato d’animo, i suoi propositi. Il giallo della sua liberazione al Gran Sasso, connesso alla domanda: sapevano i tedeschi dov’era Mussolini dopo il 25 luglio? Come lo seppero? E soprattutto: che voleva fare di Mussolini Badoglio? Perché, con la fuga a Pescara col Re, lo lasciò quasi incustodito e senza piani di sorveglianza? A ques’ultima domanda forse si può rispondere. Proprio sulla base delle vicende diaristiche del prigioniero, niente affatto isolato a Ponza e alla Maddalena, ma anzi in contatto con l’esterno, tramite attendenti, corrispondenza, lavaggio di bianchieria, colloqui con Don Salvatore Capula, prete nell’isola sarda. Ed ecco la risposta. Badoglio s’era impegnato a consegnare Mussolini agli Alleati. Ma preferì non farlo, perché poteva rivelare molte cose scomode sulle sue responsabilità militari e di regime. Un Mussolini liberato dai tedeschi invece, non avrebbe avuto credibilità, meno ancora ovviamente se fosse perito in un tentativo di liberazione fallito, con gli Alleati in arrivo.
Ma al di là di tutto questo, qual è l’autoritratto i diari ci consegnano? È quello di un uomo stralunato, incredulo e sfiduciato. Cha ha visto il suo castello sfaldarsi in un sol colpo. Che non ha ancora capito bene la dinamica dei fatti legata al 25 luglio. E che è consapevole della sconfitta irreparabile dei suoi disegni. L’unica cosa che pare intressarlo è quella dell’immagine e della giustificazione di sé, da consegnare alla storia, tra «giornate radiose», tradimenti e crollo. È la grandezza schiantata del suo ruolo che lo deprime: il rimpianto per la grandezza dissolta. Non già la tragedia dell’Italia in rovina, la Città eterna bombardata, che pure aveva scorto di passata in areo di ritorno da Feltre il 19 luglio 1943, quando non riuscì a sganciarsi dalla guerra di Hitler, con cui andò a colloquio. Legge a Ponza una Vita di Gesù e una monografia su Leopardi, paragonandosi al Salvatore tradito e al poeta. E annota tra l’altro: «la gioventù del Littorio finirà verso idee estreme di sinistra; oppure non crederà più a nulla e nessuno». Un uomo finito, che però liberato dai tedeschi, riterrà di poter salvare il salvabile, «evitare una Polonia all’Italia» e forse di vincere anche lui la guerra con le «armi segrete» di Hitler. E invece la sua fu guerra ai civili. Agli ordini dei tedeschi.

Repubblica 23.7.07
Parla Li Ruogu: "La crescita del Pil? Poco per una parte del Paese"
Il re dei banchieri cinesi "Siamo ancora troppo poveri"
di Federico Rampini


"La Cina ha milioni di poveri l'economia non si fermerà" Il re dei banchieri: risorse infinite, la crescita continua Li Ruogu, primo finanziere del Paese: "Esagerati gli allarmi sullo sviluppo" Il protezionismo. Inutile chiedere barriere alle nostre merci, l'Occidente è il primo a volerci aperti al commercio internazionale

«Una crescita del Pil cinese del 12% annuo vi sembra troppa? Dipende dai punti di vista: potrebbe anche essere troppo poca. Se invece di concentrarvi su Pechino, Shanghai e Canton guardate al livello di sviluppo delle nostre zone interne, per esempio la Cina centro-occidentale, il bisogno di crescita è perfino superiore». Chi parla è uno dei più potenti banchieri di Pechino, Li Ruogu, presidente della China Exim Bank.
«E anche le nostre potenzialità di sviluppo sono quasi illimitate, visto il bacino di manodopera rurale che ancora deve trasferirsi dall´agricoltura all´industria. In quest´ottica, l´allarme per i rischi dell´economia cinese mi pare esagerato o prematuro».
Li Ruogu è forse il finanziere più importante in assoluto, perché attraverso la sua attività di finanziamento delle esportazioni è al centro dei rapporti tra la Cina e l´economia globale. L´allarme che affrontiamo in questa intervista nasce dagli ultimi dati sull´economia cinese, che attraversa il boom più lungo della sua storia. La crescita dell´11,5% del Pil nel 2006 sembrava un record irripetibile e invece nell´ultimo trimestre è accelerata ulteriormente, fino all´11,9%. Lo stesso Congresso nazionale del Popolo (l´assemblea legislativa cinese) parla di «rischi di surriscaldamento». L´inflazione è salita al 4,4% e la banca centrale è corsa ai ripari con il quinto rialzo dei tassi (+0,27%) in 15 mesi, più un taglio dell´imposta sui depositi bancari che equivale a un altro aumento dei rendimenti. Ma ad alimentare la crescita ci sono motori finora inarrestabili: l´aumento costante delle esportazioni (l´attivo commerciale ha raggiunto 112,5 miliardi di dollari nel primo semestre, le riserve valutarie arrivano a 1.330 miliardi) insieme con l´aumento degli investimenti sia pubblici che privati.
L´Ocse ha stimato che la crescita potenziale e quindi fisiologica della vostra economia è del 9,5% annuo. Se ne può dedurre che al di sopra di quel ritmo di aumento del Pil rischiate di rilanciare l´inflazione e di andare incontro a un crac finanziario o a una recessione?
«Da 13 anni ormai abbiamo aumenti del Pil superiori al 10% e non vedo segni che questa crescita stia raggiungendo i suoi limiti. Ci sono tanti modi per calcolare il ritmo di crescita potenziale, io penso che l´11% non sia affatto un livello eccessivo. Nel passato paesi più piccoli della Cina, come il Giappone e la Corea del Sud, hanno avuto periodi di decollo economico molto prolungati. E ciò accadeva quando l´economia globale era meno aperta di oggi e non c´erano gli effetti moltiplicatori delle nuove tecnologie informatiche».
Che cosa le fa ritenere che la Cina possa sfidare le leggi di gravità, crescendo sempre più in fretta e senza incappare in una crisi?
«La prima ragione è l´offerta di lavoro. Abbiamo una popolazione di un miliardo e 300 milioni, di cui 760 milioni di lavoratori attivi. Il loro numero continua a crescere dell´1% all´anno che vuol dire 7,6 milioni di occupati in più ogni 12 mesi. Di questa forza lavoro attiva ben 340 milioni sono agricoltori. L´urbanizzazione è destinata ad accelerare. Nei prossimi 25 anni avremo almeno 120 milioni di operai aggiuntivi, e nonostante questo ci sarà ancora una larga quota di popolazione rurale disposta a lasciare i campi per andare a lavorare nelle fabbriche e nei cantieri delle città. Tenendo conto che la produttività di un operaio è molto superiore a quella di un contadino, questa formidabile riserva alimenterà ancora a lungo il nostro sviluppo».
L´immenso serbatoio di manodopera di per sé non è una garanzia di crescita: può anche tradursi in disoccupazione, senza un adeguato livello di investimenti.
«Qui entrano in gioco le altre risorse che abbiamo. Una è il risparmio: i depositi bancari delle famiglie raggiungono 1.400 miliardi di euro, le nostre riserve valutarie sono le più alte del mondo, gli investimenti esteri continuano ad affluire al ritmo di 60 miliardi di dollari all´anno. Su questa disponibilità di capitali si innesta il ruolo del progresso scientifico e tecnologico. La Cina sta formando un esercito di scienziati di eccellenza mondiale, la nostra capacità di innovare migliora di anno in anno».
Però uno squilibrio pericoloso è nelle diseguaglianze sociali. I profitti delle imprese salgono del 40%, i ricchi diventano sempre più ricchi, si scava un divario con gli altri. Si usa dire che il boom cinese è trainato da una troika composta di due robusti cavalli e un asino macilento: i cavalli da traino sono le esportazioni e gli investimenti, l´asinello rappresenta i consumi.
«La questione delle diseguaglianze è al centro della nostra attenzione. Abbiamo 23 milioni di contadini e 22 milioni di abitanti delle città che vivono sotto il livello della povertà assoluta (alcune stime internazionali calcolano un numero di poveri ancora più elevato, ndr). Il divario di redditi fra città e campagne è di 3,2 a 1 cioè uno dei peggiori del mondo. I contadini delle zone più remote che coltivano le terre meno fertili vivono davvero in un altro mondo rispetto alla Cina delle grandi metropoli industriali. Questo tuttavia è un argomento in più per sostenere che la Cina può sostenere ritmi di crescita molto elevati e per lungo tempo. La strategia di riequilibrio delle disparità regionali punta a stimolare gli investimenti nel nord-est, nel centro e nell´ovest. C´è un bisogno di modernizzazione delle infrastrutture in quelle zone e questo è un altro motore di investimenti e di crescita. Dobbiamo anche affrontare i costi ambientali dello sviluppo, il degrado delle nostre risorse naturali, lo spreco di energia. Il governo ne è consapevole ed è orientato a cambiare profondamente il modello di sviluppo. Perché questa sfida sia vinta, è importante che la Cina possa agire in un contesto internazionale favorevole».
Invece sul contesto internazionale si addensano nubi minacciose. Dopo la lunga serie di scandali che hanno colpito merci "made in China" contraffatte e pericolose per la salute dei consumatori, l´Occidente può alzare delle barriere e rallentare le vostre esportazioni.
«La ragione fondamentale per cui la Cina oggi ha elevati attivi commerciali con gli Stati Uniti e con l´Europa è di natura strutturale: produrre una camicia qui da noi costa un trentesimo di quel che costa nei vostri paesi. Questo divario competitivo ha una forza che è inutile contrastare. C´è una logica di mercato che regge la nuova divisione internazionale del lavoro. Vedo che il protezionismo diventa sempre più popolare nei paesi ricchi. Voi europei e gli americani sembrate dimenticare che foste i primi a volere una Cina aperta al commercio internazionale: nell´Ottocento con la politica delle cannoniere, dieci anni fa spingendo per il nostro ingresso nel Wto. A chi oggi chiede barriere protezionistiche io voglio ricordare che il 58% delle esportazioni made in China viene effettuato da multinazionali estere, e quindi le vostre imprese e i risparmiatori che ne sono azionisti sono tra i beneficiari della nostra crescita. Inoltre noi spendiamo sempre di più all´estero. Per citare un solo esempio fra tanti, 30 milioni di cinesi hanno fatto turismo all´estero l´anno scorso, e sono destinati ad aumentare a una velocità sostenuta».

Corriere della Sera Roma 23.7.07
Inediti. Esposto un frammento a Palazzo Venezia
Pinturicchio. L'opera scandalosa
Il «Bambin Gesù» dell'affresco su Papa Borgia e Giulia Farnese
di Lauretta Colonnelli


Per secoli si è favoleggiato sull'esistenza di un'opera scandalosa del Pinturicchio, citata dal Vasari nel celebre volume che raccoglie le «Vite dei pittori, scultori e architettori», pubblicato la prima volta nel 1550. Lo scrittore aretino, riferendosi agli appartamenti in Vaticano di papa Alessandro VI Borgia, afferma che Pinturicchio «ritrasse sopra la porta d'una camera la signora Giulia Farnese per il volto d'una Nostra Donna e, nel medesimo quadro, la testa d'esso papa Alessandro che l'adora».
L'opera era scandalosa non solo perché avrebbe ritratto nelle vesti della Vergine Giulia Farnese, amante favorita del papa più discusso della storia della Chiesa, ma anche perché avrebbe dipinto lo stesso papa in ginocchio davanti a lei. Ma nonostante il brano del Vasari sia citato più volte fino ai nostri giorni nella letteratura specialistica e in quella rivolta al grande pubblico, dell'affresco si erano perse le tracce fin dall'inizio, tanto da far supporre che lo scrittore aretino si fosse inventato l'episodio. Le ultime ricerche del dipinto vennero fatte, senza risultati, nel 1897, quando l'appartamento di papa Borgia fu restaurato.
Per questo è stupefacente che ora un frammento di quell'affresco compaia in una mostra allestita con l'aiuto delle nuove tecnologie multimediali che in un percorso di ambienti successivi e attraverso un filmato con protagonista narrante Arnoldo Foà, racconta ai visitatori la storia dell'opera perduta e ritrovata dopo cinque secoli.
In realtà il ritrovamento non è di questi giorni, ma risale a un pomeriggio di novembre del 1940, quando la principessa romana Eleonora Chigi Albani della Rovere e suo figlio Giovanni Incisa della Rocchetta, in visita nel palazzo di una famiglia patrizia a Mantova, improvvisamente si trovano davanti a una tela che raffigura la Madonna con il Bambino e un papa in adorazione. I visitatori romani riconoscono la scena a cui in origine dovevano appartenere i due frammenti di affresco della collezione di famiglia: un Gesù Bambino benedicente e una Madonna, separati, ma chiaramente un tempo parte di una composizione unitaria. Il marchese Giovanni, storico dell'arte, inizia le sue ricerche e identifica la tela di Mantova con l'opera di Pietro Facchetti (o Fachetti), pittore agli ordini dei Gonzaga e noto copista. Le cronache cinquecentesche di Stefano Infessura raccontano che Facchetti fu inviato a Roma per riprodurre l'affresco del Pinturicchio da Francesco IV Gonzaga, il quale, avendo saputo dell'opera la trovò irresistibile occasione di scherno verso la famiglia Farnese.
Dicono le cronache che Facchetti riuscì a introdursi negli appartamenti vaticani corrompendo un guardarobiere con un paio di calze di seta e che si fece «svelare» l'affresco prudentemente coperto con un «tafetà» inchiodato, riuscendo a riprodurre quella che doveva rimanere per i posteri l'unica testimonianza dell'imbarazzante scena. Nel 1655, infatti, salì al soglio pontificio Alessandro VII Chigi, determinato a far scomparire ogni ricordo di Alessandro VI e delle sue scelleratezze. L'affresco del Pinturicchio, distaccato e frammentato, fu la prima vittima della «damnatio memoriae».
Nell'immagine «Dama con unicorno» attribuito a Luca Longhi. Si ritiene che la dama sia Giulia Farnese

Repubblica 23.7.07
I silenzi di Mussolini
I diari del duce pubblicati da "Repubblica". Un groviglio di drammi personali e pubblici
Da quegli appunti manca ogni riflessione sui disastri della guerra e sulle sue cause profonde
di Lucio Villari


Solo la calma razionalità di Spinoza può far leggere le pagine dei "Pensieri pontini e sardi" di Mussolini come un documento storico, fra i tanti, che richiama la svolta avvenuta in Italia esattamente 64 anni or sono, il 25 luglio del 1943. «Non ridere, nec detestari sec intelligere»: questo è un "pensiero" di Spinoza che può aiutare soprattutto i lettori che ieri hanno letto, nell´inserto domenicale di Repubblica, forse per la prima volta, i pensieri di Mussolini, del dittatore appena caduto e posto in isolamento a Ponza sotto stretto controllo militare dal governo Badoglio. Quei documenti sono stati rinvenuti nel National Archives di Londra. Il loro contenuto era noto, perché ritradotto in italiano da una traduzione tedesca degli originali. Ma il ritrovamento proprio degli originali ripropone quegli appunti all´attenzione degli storici e non solo degli storici.
Scorrendo quei testi si tratta appunto di "intelligere", cioè di capire il personaggio Mussolini nel momento forse più autentico della sua verità, senza riderne e senza detestarlo. Ebbene se questa operazione conoscitiva ha un senso, la riemersione dagli archivi londinesi dell´autografo mussoliniano, può aggiungere qualche tocco interpretativo in più rispetto al testo di queste memorie della prima prigionia che gli storici ben conoscono.
Il contatto con la scrittura originale forse diminuisce il distacco e riduce il grande spazio temporale che ci separa da quei momenti della nostra storia. Il Mussolini vinto è, a mio parere, lo stesso Mussolini vincente. Dal punto di vista dell´"intelligere", infatti, non vi è in lui una seria riflessione politica e storica su quanto è accaduto. Detti in altre parole: la verità esistenziale del suo dramma non è da lui ricondotta alla verità esistenziale del dramma dell´Italia.
Pur nella malinconia di quei caldi giorni d´agosto, nelle parole che lui appunta non vi è nessun sentimento che possa ricondurre non solo ad un´analisi sulle responsabilità personali ma neanche alla complessità di una guerra in corso che senza alcun dubbio era la più "mondiale" e la più sproporzionata della storia dell´età moderna. Certo, ricordare il figlio caduto, o riferirsi alle banalità ignoranti di un Delcroix sui cicli storici, ad altri episodi minori accaduti all´inizio della guerra, non può che stupire chi vorrebbe snidare tra i pensieri di Mussolini il pensiero maggiore: perché l´Italia ha dichiarato guerra fra il ´40 e il ´41 alla Gran Bretagna, alla Francia, alla Grecia, alla Jugoslavia, agli Stati Uniti e all´Unione Sovietica?
Nessuna risposta emerge tra le righe che Benito Mussolini stende in quei giorni, ma quasi la serenità se non un senso di gioia soffocata nel sottrarsi, con la sua caduta e la sua prigionia, a ogni ulteriore responsabilità in proposito come se il crollo del suo regime lo proteggesse dalla sua storia. La "gioia" di poter concludere il pensiero numero 37 con queste parole: «Il mio sistema è crollato, la mia caduta è definitiva». Un concetto ribadito nel pensiero numero 40: «Quando un uomo crolla con il suo sistema, la caduta è definitiva, specie se l´uomo ha oltre i 60 anni». O, ancora: «Il sangue, la voce infallibile del sangue mi dice che il mio astro è tramontato per sempre».
Dunque questo "astro" è sensibile alla voce del sangue e, come nel pensiero 11 alla "malattia" che «ha avuto gran parte» nel crollo del dittatore. Un altro tentativo di trasferire altrove, in percezioni metastoriche e fisiologiche l´obbligo del giudizio morale con la dissimulata felicità di poter dire che il tempo delle dittature moderne «non possa durare il ventennio» (pensiero numero 20). Quindi il discorso alla fine non lo riguarda più.
Queste note al margine non sono dettate da alcun rancore storiografico o ideologico. Quello che leggiamo in questi appunti è un Mussolini che avrebbe potuto chiudere qui e così la sua esperienza umana. Ma il fatto di non avere scritto il pensiero supremo sulle ragioni della guerra e della tragedia dell´Italia è proprio all´origine dell´ultimo errore compiuto dal 12 settembre 1943, giorno della liberazione dal Gran Sasso, al 28 aprile 1945. E su quel pensiero non detto dovrebbero "intelligere" tanti storici superficiali del fascismo.

Corriere della Sera 23.7.07
Filologia e libertà
Laicità. Erasmo, Bruno, Spinoza padri di un pensiero che mette in discussione i dogmi. E riporta la Bibbia alle sue origini
Lo spirito critico nacque dall'analisi dei testi sacri
Le antagoniste principali degli studi sulle Scritture furono le diverse Chiese per ragioni confessionali
di Luciano Canfora


Due «fatti di cronaca» sembrano riportare il latino all'attenzione dei moderni. Da un lato il ripristino, opzionale, della messa in latino; dall'altro lo sproloquio con cui l'ex ministro Berlinguer, già impegnato demolitore dell'università italiana, spiega, dalle colonne del manifesto, che per giovare alla nostra scuola bisogna mettere alla porta i classici. Sembrerebbero due posizioni opposte. Da un lato il pontefice attuale, che pian piano vanifica i risultati del Vaticano II. Dall'altro l'innovatore «sessantottesco» che del passato vuol fare table rase, tabula rasa: e non già nel senso economico-sociale del celebre canto proletario, ma nel senso letterale, di propugnata e teorizzata dimenticanza del passato, della storia.
Eppure non sono così lontani, i due. Il latino immobile ed extrastorico della liturgia, nemmeno compiutamente compreso dalla gran parte dei destinatari, è l'emblema di uno stile acritico nella percezione del passato. Alimento alle grossolanità dei propugnatori della tabula rasa. Del resto anche la ricostruzione biografica della persona di Gesù — cui l'attuale pontefice da tempo si dedica e che ha fatto dire al cardinale Martini che quella non è opera di un filologo — è un esempio concreto, e autorevole, di incursione acritica nello studio del passato. Essa allontana le menti dal piacere dell'indagine storico-critica sul passato.
È invece una storia affascinante quella della libertà di pensiero vista attraverso il faticoso e contrastato dispiegarsi della critica sui testi. Il campo in cui primamente in età moderna tale critica provò a dispiegarsi fu appunto quello delle «Scritture» dette «sacre» (un aggettivo che di per sé scoraggia la critica): e l'antagonista tenace, quando non minacciosamente repressivo, di una tale forma di libertà fu la Chiesa, furono le Chiese. Dal lungo processo di definizione di quel che poteva accettarsi come «canonico» alla «stretta» tridentina, che sancì l'assoluta prevalenza della Vulgata di Gerolamo: «stretta» tridentina che, si potrebbe dire, cede il passo all'irresistibilità della critica testuale dopo circa quattro secoli con l'enciclica di Pio XII Divino afflante spiritu, del 1943, quando Pacelli, pur tra mille cautele e contorsioni, alfine dichiarò legittimo l'esercizio della critica testuale sul corpus antico e neotestamentario. Sembra di sognare quando si ricostruisce questa vicenda, ma essa coincide con la storia stessa della filologia, cioè della libertà di pensiero. Un grande intellettuale italiano della prima metà del Novecento, Giorgio Pasquali, fu autore di un libro memorabile, che andrebbe ciclicamente ristampato (non importa se bibliograficamente invecchiato, come potrebbe deplorare qualche associate professor anglo-pensante): la Storia della tradizione e critica del testo (la prima edizione è del 1934, la più recente è del 1988). Qui, il capolavoro nel capolavoro è il capitolo iniziale, dove Pasquali narra come il metodo filologico volto a recuperare quanto possibile l'autenticità dei testi — una pratica in cui verità e libertà si sostengono a vicenda — si sia venuto formando, almeno da Erasmo in avanti, nel lavoro storico-testuale sul Nuovo Testamento. Una lotta nella quale i cattolici brandivano i deliberati tridentini, particolarmente oscurantisti su questo punto, ma che vide anche le Chiese protestanti perseguitare i loro adepti i quali, studiando criticamente il testo greco del Vangelo, ne mettevano di necessità in crisi la comoda e arbitraria fissità e unità. Gli eretici degli eretici furono dunque allora i fondatori della filologia e il seme della nostra libertà: il «campo di battaglia» furono quei testi imbalsamati come «sacri» e lo strumento della lotta fu, allora come sempre, la filologia.
E quando si parla di «eretici degli eretici» non si intendono soltanto Pierre Bayle, «rifugiato» a Rotterdam, o Johann Jakob Wetstein, rifugiato ad Amsterdam a causa del suo lavoro di critico neotestamentario.
C'è un nome capitale che va qui pronunciato perché è da lui che ha inizio la disciplina che chiamiamo storia dei testi: il nome di Spinoza. Della sua opera, ora raccolta da Mondadori in un'eccellente traduzione munita di apparati (a cura di Filippo Mignini e Omero Proietti), vanno qui ricordati — e andrebbero posti al centro di ogni moderna storia della filologia — i capitoli VII e VIII del Trattato teologico-politico. «Tutte le difficoltà nell'interpretazione della Scrittura — scrive Spinoza — sono derivate non tanto da un difetto di forze del lume naturale, quanto dalla trascuratezza (per non dire la malizia) di uomini che neglessero la storia della Scrittura». Ed è istruttivo, a titolo di esempio, ricordare almeno il titolo del capitolo VIII: «In cui si mostra che il Pentateuco e i libri di Giosué, dei Giudici, di Rut, di Samuele e dei Re non sono autografi. Si chiede poi se gli scrittori di tutti questi libri sono stati molti o uno solo, e chi sia stato». L'ortodossia contro cui Spinoza dovette scontrarsi fu quella ebraica (rabbinica). Nel 1656 Spinoza fu espulso dalla sinagoga per le sue opinioni eterodosse e «atti mostruosi» (!), e gran parte dell'apologia che allora scrisse apparve in seguito nel Trattato teologico-politico (Bayle, voce «Spinoza» del Dictionnaire). Se si considera quanto vigoreggi la tendenza delle tre confessioni che ancora oggi occupano la scena a proclamare la letterale verità, e dunque intangibilità testuale, di quanto si legge nei libri proclamati «sacri», viene da chiedersi se, come antidoto a un così costante fluire del dogmatismo, gli studi filologici non debbano essere potenziati, altro che archiviati!
Indagando sulla nascita del metodo, Pasquali dimostrò la superiorità del lavoro critico sul Nuovo Testamento compiuto da Karl Lachmann — l'uomo divenuto, a torto o a ragione, simbolo della disciplina critica — rispetto alla più celebre e celebrata sua edizione del poema di Lucrezio De rerum natura. Ma in quella pur memorabile edizione mancava (e forse ciò era inevitabile) la domanda principale che è la seguente: perché, nonostante la condanna da parte dei padri della Chiesa (a cominciare da Lattanzio), il poema materialistico e atomistico di Lucrezio — già inviso ai pagani bigotti — si era salvato? Per quali rivoli carsici, in un contesto spiritualmente ostile, quel poema era riuscito a salvarsi, e soprattutto a giungere nella cella di ignoti (a noi) monaci medievali, i quali forse in segreto, e non certo in tranquillità di spirito, diedero vita a quei due manoscritti, l'Oblongo e il Quadrato, ai quali dobbiamo la salvezza del gigantesco poema, decisivo, ben più delle lettere di Epicuro, nella storia del pensiero? Monaci siffatti esistettero ben prima del più celebre di loro, finito sul rogo per eresia, il nolano Giordano Bruno (cui Michele Ciliberto dedica una importante e appassionata biografia che Mondadori manda in questi giorni in libreria). Qui non ricorderemo, conclusivamente, il coraggio intellettuale del Nolano, la sua originale appropriazione di tutto il pensiero materialistico e fisico-cosmico antico dai presocratici a Lucrezio; né il suo coraggio personale nel rifiutare di salvarsi piegandosi a umilianti abiure. Ricorderemo invece, perché dà speranza, che soprattutto dall'interno del corpo straripante e oppressivo delle religioni germogliano, per opposizione, le voci liberatrici. Che risultano tali proprio perché capaci di ripercorrere all'incontrario, onde poterne uscire, i sentieri del dogmatismo.

Autori e libri
• Le «Opere» di Spinoza sono appena uscite nei Meridiani Mondadori, collana «Classici dello Spirito» (pp.1890, e 55), a cura di Filippo Mignini, tradotte dallo stesso Mignini e da Omero Proietti
• Michele Ciliberto è l'autore di «Giordano Bruno. Il teatro della vita» (Mondadori, pp. 560, e 30)
• L'edizione più recente di «Storia della tradizione e critica del testo» di Giorgio Pasquali è uscita presso Le Lettere nel 1988

Nell'immagine: L’opera di Giorgione (1477/78 - 1510) «I tre filosofi», dipinta tra il 1508 e il 1509. Il quadro è conservato Kunsthistorisches Museum di Vienna

il Riformista 23.7.07
Governo. Le pensioni, Bertinotti e i rapporti tra le due sinistre
Il referendum di Rifondazione non ci convince
di Paolo Franchi


È il caso di guardare con grande rispetto e con grande attenzione a quanto va capitando in Rifondazione comunista e, più in generale, nella sinistra cosiddetta alternativa. Con grande rispetto perché quello cui stiamo assistendo da mesi, e ancor di più all’indomani dell’accordo sulle pensioni, è un travaglio reale, profondo, che non investe solo ristretti gruppi dirigenti ma una parte importante del popolo della sinistra, la sua identità, il suo radicamento. Con grande attenzione perché in gioco ci sono le sorti di quell’intesa tra moderati, riformisti e radicali, inedita in Italia e in Europa, fortemente voluta da Fausto Bertinotti, che va sotto il nome di Unione e che, da un anno e passa, governa il paese. È proprio tirando le somme di una simile esperienza, infatti, che molti all’interno di quest’area cominciano a chiedersi se il gioco valga la candela. Soprattutto adesso, quando si fa sempre più forte la pressione per mettere in campo prima o poi - più prima che poi - un centrosinistra «di nuovo conio», che cioè scarichi i radicali per imbarcare i centristi, e mandi in soffitta il bipolarismo, almeno per come lo abbiamo conosciuto sin qui. Perché, ci si domanda, non giocare d’anticipo invece che di rimessa, perché non costringere gli alleati, primo tra tutti il nascente Partito democratico, a pronunciarsi apertamente in materia e ad assumersi le loro responsabilità, invece di rassegnarsi a perdere giorno dopo giorno un po’ di terreno, un po’ di identità e un po’ di consensi?
L’idea, se abbiamo capito bene, è quella di promuovere delle primarie parallele a quelle del Pd, o se si preferisce una sorta di referendum, per chiedere a militanti ed elettori se è il caso o no che Rifondazione resti al governo. Buona idea, e democratica come poche altre, verrebbe da dire di primo acchito: il popolo decide, i gruppi dirigenti prendono atto, e si adeguano. Ma è davvero così? Davvero spetta ai militanti e agli elettori sciogliere con un sì o con un no i nodi che le leadership hanno lasciato aggrovigliare? A noi, onestamente, sembra di no. A noi sembra che spetti in primo luogo ai gruppi dirigenti tracciare un bilancio, indicare una prospettiva e dare battaglia politica tra la propria gente perché si affermi. Specie quando non si fa solo un rendiconto del dare e dell’avere in un’esperienza di governo, ma si sollevano questioni alte e altamente drammatiche, come ha fatto Bertinotti conversando su questo giornale con Emanuele Macaluso. Altro che le due sinistre, l’una riformista, l’altra radicale, di cui si discute da decenni: «Si rischia di non avere più una sinistra in Italia e in Europa», o meglio di averne varie, ma tutte ininfluenti, perché quelle che hanno i voti «non hanno come riferimento un idea di società» e quelle che una simile ricerca la tentano non hanno i voti, sostiene il presidente della Camera. Ma, se questo è il pericolo, allora bisogna chiedersi, anche quando si ragiona sul governo, perché il percorso che si è intrapreso si è interrotto, o rischia (pensiamo alla Cosa rossa) di interrompersi sul nascere. E domandarsi se il problema sia come tornare indietro, riguadagnando l’ininfluenza dell’opposizione per l’opposizione, o come cercare di andare avanti, contribuendo a costruire l’identità, la cultura politica e i programmi di una sinistra larga, che consideri, certo, la partecipazione al governo una possibilità, non una variabile indipendente; ma che non si ritragga dalla prova del governo solo per il timore di perdere qualche pezzo. Di questo, da riformisti, vorremmo che la sinistra cosiddetta radicale discutesse. Di questo, da riformisti, vorremmo discutere con la sinistra cosiddetta radicale. Fin qui non è andata benissimo. Speriamo che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi non vada anche peggio. Perché ci rimetteremmo tutti. Riformisti e radicali.

ANSA 2007-07-23 12:37
PROSCIOLTO MEDICO CHE INTERRUPPE TRATTAMENTO WELBY

ROMA - L'anestesista Mario Riccio che interruppe la ventilazione meccanica aiutando Piergiorgio Welby a morire è stato prosciolto dall'accusa di 'omicidio del consenziente'. La decisione è del gup di Roma Zaira Secchi. Non luogo a procedere perché il fatto non costituisce reato. E' la formula utilizzata dal gup Secchi per sentenziare il proscioglimento di Mario Riccio. In pratica, il giudice ha stabilito che Piergiorgio Welby aveva il diritto di chiedere di interrompere il trattamento medico cui era sottoposto, e l'anestesista che interruppe la ventilazione artificiale aveva il dovere di assecondare questo diritto. Piergiorgio Welby, affetto da una grave forma di distrofia muscolare, morì a Roma nel dicembre scorso.

L'8 giugno il gup di Roma Renato Laviola respinse la richiesta di archiviazione della posizione di Riccio, chiedendo alla procura di Roma di formulare un 'capo di imputazione coatto' e chiedere il rinvio a giudizio del medico per il reato di 'omicidio del consenziente'. Il procuratore Giovanni Ferrara ed il sostituto Gustavo De Marinis, titolari dell'inchiesta, preannunciarono che, in sede di esame della richiesta di rinvio a giudizio, la loro posizione sarebbe stata la stessa. Oggi, infatti, il pm Francesca Loy ha sostenuto davanti al gup che con l'interruzione della ventilazione meccanica a Piergiorgio Welby praticata da Riccio é stato attuato un diritto del paziente che "trova la sua fonte nella Costituzione e in disposizioni internazionali recepite dall'ordinamento italiano e ribadito in fonte di grado secondario dal codice di deontologia medica", sollecitando il proscioglimento dell'indagato.

"Era un dovere di Riccio - ha detto a conclusione dell'udienza l'avvocato Giuseppe Rossodivita, difensore dell'anestesista - staccare il respiratore perché così aveva chiesto il paziente. E' una sentenza molto importante che riconosce il diritto del malato di rifiutare la terapia o la prosecuzione di terapie non volute".

domenica 22 luglio 2007

l'Unità 22.7.07
Giordano vuole dare tutto il potere al suo popolo
Pensioni, così Rc deciderà se rimanere nel governo. Diliberto: riunifichiamoci presto
di Eduardo Di Blasi


L’accordo allontana moltissimo dalle prospettive di «Cosa rossa» i Verdi
Più dilemmatica la situazione del partito di Mussi. Anche se il progetto sembra in salita

DIVISI ALLA META. Nei soggetti non ancora costituenti della «Cosa rossa», il passaggio della riforma delle pensioni ha lasciato dei segni evidenti di instabilità.
Non solo all’interno di Rifondazione, il maggior partito organizzato dell’area, ma anche nei rapporti con l’esecutivo e con gli altri soggetti della sinistra. Afferma il segretario del Prc Franco Giordano: «Verificheremo la nostra posizione, rispetto all’esito della finanziaria e rispetto al rapporto con il nostro popolo, non unilateralmente. Credo sia utile, a quel punto, fare una valutazione reale con il nostro popolo e decidere se continuare oppure se è il caso di non farlo».
Che al Prc la riforma non sia piaciuta è cosa nota. Così come non è piaciuta al Pdci, mentre è stata accettata, anche nella visione del «miglior compromesso possibile», da Sd e Verdi.
Ieri, sul tema, si registravano ulteriori accelerazioni. Al Consiglio Federale dei Verdi, il presidente Alfonso Pecoraro Scanio rilancia l’alleanza arcobaleno e ribadisce la propria contrarietà ad ogni ipotesi di «Cosa rossa» o partito unico. Allo stesso tempo Oliviero Diliberto (Pdci) rilancia la lotta: «Epifani è stato costretto a firmare l’accordo sulle pensioni, altrimenti cadeva il governo. È il bis dell’accordo del 1992, quando fu cancellata la scala mobile sotto ricatto; se la sinistra politica l’avesse coperta la Cgil avrebbe potuto strappare altri risultati». E così il leader del Pdci, può annotare: «C’è un bisogno urgente di unità a sinistra per bilanciare il potere degli altri, e invece ci siamo sfaldati alla prima prova: i Verdi e Sd da una parte, Prc e noi, per fortuna assieme, dall’altra. Credo che il ragionamento possa riprendere da qui». Traccia una via parlamentare per un pacchetto di proposte «laburiste, socialdemocratiche, dalla parte dei lavoratori, e la prima è quella di abbassare gli scalini o toglierli. Vedremo chi firmerà a sinistra questi emendamenti e vedremo chi li voterà. Sulla base di questo faremo o non faremo l’unità a Sinistra e chi non ci starà si assumerà una grande responsabilità». Quindi il Pdci spinge (il partito di Diliberto è maestro nella «competizione nell’unità»), convinto che anche un’alleanza con il Prc possa essere un risultato da rivendicare, i Verdi cambiano direzione, e il Prc aspetta. E la Sd?
Titti Di Salvo, capogruppo alla Camera, non si sottrae al dibattito: «La nostra idea “genetica” è quella di contribuire a unire la sinistra, non la somma di soggetti esistenti. Certo il punto politico non è solo il giudizio sull’accordo ma il rapporto con il sindacato confederale. Il punto politico aperto è cosa vuole dire candidarsi a rappresentare il lavoro e, in questo, il rapporto con il sindacato. Questa è una cosa che interroga il socialismo non solo in Europa». Dal punto di vista operativo, sull’accordo saranno «poi i lavoratori a pronunciarsi», mentre sul futuro della «Cosa rossa», precisa Di Salvo, «penso che a settembre dovremo fare una campagna di ascolto tra le persone, ridare senso e funzione su cosa sia la sinistra».
Anche per il senatore Sd Piero Di Siena: «Sul fatto che il risultato sia deludente c’è un’uniformità di giudizio». Ma la discussione è diversa: la spaccatura non è all’interno della sinistra, ma tra le componenti moderate e la sinistra. Quindi il tema non è il futuro della «Cosa rossa» quanto «il destino che il governo Prodi può avere all’interno del Paese». Oggettivamente, afferma «la situazione è complicata, ma non tutto è pregiudicato». Così propone: «Forse sarebbe necessario che alla ripresa, per iniziativa dello stesso Prodi, si arrivi a una verifica generale degli elementi di coesione, si ridefinisca un vero programma di governo in cui siano sciolti alcuni nodi decisivi, penso ad un comune orientamento sulla legge elettorale e una ridefinizione delle priorità della politica economica».
Pietro Folena ritiene che la sinistra abbia commesso un errore di approccio: «Penso che la visione molto politicista che c’è stata tra le forze della sinistra abbia concorso. Se il patto di unità e azione fosse stato un vero patto federativo si sarebbe andati insieme a trattare, a decidere, a valutare. C’è stato un limite nell’impostazione di queste settimane: come uscire? Non buttando la spugna». Per questo propone che una fase costituente che parta dalla manifestazione unitaria promossa dalla Sinistra Europea sui temi dei diritti civili e sociali: «Facciamola, anche i 14 ottobre. Facciamola diventare un evento costitutivo».

l'Unità 22.7.07
Nell’istituto per la Resistenza il fascista che cantava per Priebke
Verona, il comune del leghista Tosi nomina un dirigente della Fiamma
Tricolore: si è fatto 3 mesi di carcere per istigazione all’odio razziale
di Massimo Franchi


TRE MESI DI CARCERE per istigazione all’odio razziale, leader degli skinhead, dirigente della Fiamma Tricolore, membro del gruppo musicale “Gesta bellica”, che come pezzi culto ha canzoni dedicate a Erik Priebke (”Il capitano”) e a Rudolph Hess (”Vittima
della democrazia”). Quale curriculum migliore per far parte dell’Istituto per la resistenza di Verona?
La splendida idea di nominare il 35enne Andrea Miglioranzi («Fascista? Per me è un termine molto caro») come rappresentate del Comune all’ente fondato nel 1998 che ha tra i compiti quello di «raccogliere testimonianze di partigiani» è venuta alla maggioranza del consiglio comunale. Ancora elettrizzati dalla fresca nomina dopo l’elezione a sindaco dell’astro nascente della Lega Flavio Tosi (quello che come prima cosa ha cacciato gli «zingari» dalla città), i consiglieri della destra si sono sentiti di osare. Dovevano nominare due persone. La prima è stata Lucia Canetti di Alleanza Nazionale. E già ci sarebbe di che discutere. Ma per secondo hanno scelto lui, «il camerata Miglioranzi». Uno che era già conosciuto nel mondo del white power rock, ma è diventato ancora più famoso per essere il primo in Italia a finire in carcere per la legge Mancino sull’istigazione all’odio razziale. Nel 1996: tre componenti del gruppo (oltre a Miglioranzi, c’è il leader Alessandro Castorina, ora segretario provinciale della Fiamma Tricolore) organizzano un’aggressione nei confronti di uno “sharp” (skinheads di sinistra), reo di essere l’ispiratore di alcune iniziative musicali multietniche. Le minacce sono chiare: «A Verona queste cose non le vogliamo, se ci provi ancora sei morto». I picchiatori sono di Napoli, i mandanti si limitano ad osservare il pestaggio. Con entusiasmo. La Digos li arresta e, grazie all’applicazione della legge Mancino, scontano in carcere quasi tre mesi.
Qualcuno a Verona, città medaglia d’oro per la Resistenza, si è opposto. Oltre allo scultore e sopravvissuto ai campi di concentramento Vittore Bocchetta («Qui è peggio del periodo di Hitler, a Verona manca totalmente la memoria storica»), è la senatrice di Rifondazione Tiziana Valpiana a organizzare la protesta. «Io sono anche componente del direttivo dell’Istituto e posso promettere che Miglioranzi non varcherà mai la soglia della nostra sede. Mi impegno in nome dei miei parenti morti a Mathausen. La sua nomina è in spregio alla resistenza e già lunedì chiederò a Oscar Luigi Scalfaro, come presidente degli enti di ricerca sulla resistenza, di chiedere l’annullamento della nomina». La senatrice Valpiana, poi, dietro Miglioranzi vede la mano di Tosi. «Sono sicura che l’idea è sua. Il nuovo sindaco vuole mostrarsi come uomo forte, come nuovo Gentilini (l’ex sindaco di Treviso, Ndr) e per farlo arriva a provocazioni come quella di nominare un fascista pregiudicato a custode della memoria dei partigiani».
E difatti il neo sindaco di Verona (accomunato a Miglioranzi per una condanna, ancora non definitiva, per lo stesso reato) non si nasconde. «Le nomine sono del Consiglio comunale, ma li avrei votati anch’io se fossi stato presente. I due consiglieri nominati sono sicuramente persone preparate, con idee politiche magari diverse. Ma sono convinto che possano portare un confronto positivo all’interno dell’Istituto, non per riscrivere la storia o per fare del revisionismo, ma per approfondire alcuni aspetti sui quali fino ad ora c’è stata minore sensibilità». Oltre a Tosi, a Miglioranzi è stata espressa solidarietà dal presidente veronese di An Massimo Giorgetti. «In democrazia funziona così, non capisco lo sconcerto. E poi mi pare che il dopoguerra sia finito da un pezzo», ha commentato stupito al Corriere di Verona.
Insomma, Miglioranzi (e Canetti di An) potranno dimostrare che i partigiani stavano dalla parte sbagliata e che i giusti stavano vicino Verona, nella Repubblica Sociale di Salò. Miglioranzi potrà farlo canticchiando le canzoni del suo gruppo. Come “Feccia Rossa”: «feccia rossa/nemica della civiltà/ bestia senza umanità/ la celtica croce vincerà». Oppure “8 settembre '43”: «una data senza perché/ è giunta l’ora della viltà/ un altro marchio di infamità/ Ma io sono camicia nera/ nel mio cuore una fede sincera».

l'Unità 22.7.07
In Italia una donna su tre è stata vittima di violenza
Sondaggio Istat su un campione di 25mila donne fra i 16 e i 70 anni. Il 30% non rivela a nessuno quanto le è successo
di Giuseppe Vittori


UNA DONNA SU TRE in Italia ha subito almeno una violenza fisica o sessuale: è il dato che emerge dall’indagine Istat, grazie a un sondaggio telefonico che ha raggiunto circa 25.000
persone fra i 16 e i 70 anni. E che venerdì sera è stato presentato nella tavola rotonda dedicata alle buone pratiche in difesa dei diritti delle donne nel corso del meeting di San Rossore organizzato dalla Regione Toscana. Quasi il 5% è stato vittima di uno stupro o di un tentativo di stupro e, circa nella metà dei casi, questo è avvenuto ad opera del partner. Nel 96% dei casi la donna non sporge denuncia, ed è dimostrato che almeno una vittima su tre mai nella vita rivelerà a qualcuno quanto le è successo. «Circa 1.400.000 donne - ha detto Alessandra Kustermann, ginecologa e membro del Centro soccorso violenza sessuale di Milano - hanno subito una violenza prima dei 16 anni, e circa 1.680.000 hanno visto la madre subire abusi o violenze. In questi casi spesso si instaura un meccanismo chiamato “la catena della violenza”, ed un’elevata percentuale di queste persone, circa il 65% di quelle che hanno subito abusi e il 59% di quelle che hanno visto la madre subirne, sarà di nuovo vittima di violenze. Questo avviene perché il danno psicologico è enorme e queste persone avranno una maggiore fragilità, che le esporrà di nuovo al rischio». La dottoressa si è soffermata anche sul profilo dell’aggressore: «Spesso gli autori provengono da famiglie violente - ha detto - il 32% di loro ha subito violenze dal padre, il 42% dalla madre. Proprio quest’ultimo dato ci fa notare come le donne possono contribuire a questo fenomeno, lasciando nei loro figli ferite così devastanti da indurli un domani ad essere violenti contro la propria donna. La violenza è solo un modo per imporre sudditanza alla donna, talvolta chi stupra neppure arriva all’eiaculazione». La ricerca Urban, condotta dal Ministero delle Pari Opportunità, ha dimostrato che sono soprattutto insegnanti e psicologi ed accorgersi di essere di fronte ad un caso di violenza. Medici e ginecologi spesso non hanno una formazione adatta ad affrontare questo fenomeno. «È importante - ha spiegato inoltre la Kustermann - che le forze dell’ordine imparino a non minimizzare gli episodi di violenza domestica di cui vengono a conoscenza, e che le istituzioni investano sulla formazione del personale sanitario».

Repubblica 22.7.07
Mediare per il Paese e non per il potere
di Eugenio Scalfari


MI sono fatto da qualche mese una nomea alla quale non sono particolarmente affezionato: quella di essere la sola persona convinta che Romano Prodi sia un buon presidente del Consiglio.
In realtà dare giudizi su chi è migliore o peggiore rispetto ad un altro è un esercizio futile e logicamente scorretto perché non si possono paragonare le mele con le spigole, le zucchine con la carne d´agnello. E così non si possono dare etichette di efficienza a due governi che hanno operato in contesti politici ed economici diversi.
Se inquadriamo l´attuale governo Prodi nel contesto in cui ha operato nei primi dodici mesi dal suo insediamento sono convinto che si tratti d´un buon governo, anche se assai scarso nella comunicazione dei suoi provvedimenti. La capacità di Prodi a mediare è notevole, ma c´è mediazione e mediazione. Andreotti per esempio, ai suoi tempi, fu un fuoriclasse in questo esercizio da lui usato quasi sempre per mantenersi al potere anche a costo dell´immobilismo più disperante. La mediazione di Prodi ha una diversa natura: mira a compromessi capaci di avanzare verso obiettivi di utilità generale.
Andreotti – tanto per proseguire nell´esempio – governò in tutte le stagioni politiche; guidò governi appoggiati a destra, al centro, a sinistra. In alcuni casi ebbe perfino il sostegno dell´Msi; in altre fece maggioranze organiche con il Pci.
Prodi al contrario ha sempre sostenuto (e confermato con i fatti) di non essere un politico disponibile in tutte le stagioni ma in una soltanto. Forse proprio per questo non piace alla maggioranza degli italiani. In più ha una testa durissima, come quasi tutti quelli che sono nati a Reggio Emilia. Io sono nato nel segno dell´Ariete, perciò lo capisco.
Guardate ai vaticini berlusconiani che si susseguono ormai da un anno. Vaticinavano che sarebbe caduto entro un mese dalla proclamazione del verdetto elettorale. Da allora spostano la data dell´apertura della crisi di due o al massimo tre settimane in continuazione. Sono passati dodici mesi e le date di scadenza della crisi sono state finora almeno una ventina. Adesso il capo dell´opposizione e tutti i suoi accoliti hanno fissato per il prossimo settembre l´appuntamento decisivo con la dissoluzione del centrosinistra.
Tutto può accadere quando si naviga con la maggioranza di un voto, ma io non credo che il centrosinistra celebrerà il suo suicidio in autunno.
Credo che, di compromesso in compromesso, continuerà a realizzare obiettivi e ad andare avanti. Per una ragione molto semplice: ancora per un bel pezzo non ci saranno alternative al governo Prodi.
* * *
Vengo alla riforma delle pensioni, una vicenda che dura da mesi e che, un giorno dopo l´altro, è stata preconizzata come irrisolvibile. Sarebbe un esercizio utile per tutti rivedere i titoli dei telegiornali e dei quotidiani da maggio in poi. Una sequenza sussultoria senza fine: «Pensioni, l´accordo è vicino» «Scontro feroce sulle pensioni» «Il governo è spaccato» «La sinistra all´attacco» «Il contrattacco per i riformisti» «Berlusconi: governo in crisi» «Resta lo scalone» «Via lo scalone senza se e senza ma».
Bene. Giovedì sera alle 22 i sindacati confederali sono stati convocati a Palazzo Chigi. Alle 4 del mattino, in una delle tante pause d´un negoziato che tutti i partecipanti hanno definito durissimo, si sono appartati in una saletta del palazzo Prodi, Padoa-Schioppa, Letta e il segretario della Cgil, Epifani. «Devi dirmi sì o no. Adesso» gli ha detto il presidente del Consiglio. «Per me l´accordo va bene, ma debbo consultare il direttivo. Garantisco che la risposta sarà un sì ma formalmente la darò lunedì mattina». «Lo ripeto: mi devi dare la risposta adesso. Se è no esco di qui e annuncio le dimissioni del governo».
Dopo questo siparietto il sì di Epifani è arrivato con la clausola «per presa d´atto» scritta a penna prima della firma. Il senso di quella frase l´ha dato lo stesso segretario della Cgil in un´intervista di ieri al nostro giornale. Alla domanda dell´intervistatore sull´accordo raggiunto, la risposta è stata la seguente «il testo di ieri notte contiene molte misure di grandissimo valore e anche di carattere innovativo. In modo particolare sto pensando ai giovani, al fatto che nell´aggiornamento dei coefficienti di trasformazione sarà indicato che per loro la pensione non potrà essere inferiore al 60 per cento dell´ultima retribuzione. Non solo: dopo tanti anni vengono definiti finalmente i lavori faticosi».
Poche righe più in là il giornalista gli chiede: «Il governo reggerà la prova parlamentare dell´intesa?». Risposta: «Il governo ha una navigazione a vista, ma troverei paradossale che naufragasse proprio su questo. La conseguenza sarebbe la crisi di governo ma anche la sopravvivenza dello scalone e la rinuncia a tutto ciò che c´è di buono in questa intesa».
Esatto. Che altro c´è di buono in questa intesa? Ricordiamolo perché di questi tempi la memoria è diventata assai corta. C´è l´aumento delle pensioni d´anzianità a 3 milioni di pensionati, l´avvio degli ammortizzatori sociali, il sostegno ai giovani contro il precariato, per un complessivo ammontare di 2.600 miliardi.
Altri 5 miliardi sono stati stanziati per l´aumento graduale dell´età pensionabile al posto dello scalone di Maroni. Si parte da subito con lo scalino di 58 anni, nel 2009 l´età sale a 59 anni, nel 2011 a 60, nel 2013 a 61. Un anno in più alle stesse date per i lavoratori autonomi.
Tutti questi provvedimenti saranno inseriti nella legge finanziaria per il 2008. Se il governo fosse battuto, il complesso di questi accordi – che dovranno essere approvati dai lavoratori – salterà per aria insieme al governo.
Ha ragione Epifani: sarebbe un capitombolo epocale. Chi si prenderebbe questa responsabilità: Giordano? Diliberto? Cremaschi della Fiom?
* * *
Tito Boeri, un economista di valore, ha scritto ieri sulla "Stampa" che l´accordo sulle pensioni è un buon compromesso. Avrebbe voluto che l´età pensionabile si muovesse con maggiore celerità ma si rende conto, appunto, del "contesto" e se ne dichiara parzialmente soddisfatto. A differenza del suo collega ed amico Francesco Giavazzi che sul "Corriere della Sera", lancia invece raffiche sul governo, sui sindacati, sulla sinistra. Se la prende anche con Veltroni. Il finale arieggia a quello che il Manzoni mette in bocca a fra´ Cristoforo quando apostrofando don Rodrigo con l´indice puntato contro di lui e gli occhi fiammeggianti profetizza: «Verrà un giorno... ».
Più misurati gli eurocrati di Bruxelles. Conosceremo meglio domani la loro opinione ma il primo impatto è stato favorevole, almeno perché una decisione è stata presa.
Negativa – moderatamente – la Confindustria, anche perché non è stata ascoltata. Mi permetto di osservare in proposito che l´oggetto del negoziato riguardava i pensionati e i pensionandi. Non un contratto di categoria e neppure la politica economica in generale ma semplicemente pensionati e pensionandi.
Mi permetto altresì di dire che perfino la consultazione della "base" da parte dei sindacati è un gesto apprezzabile di democrazia ma non statutariamente necessario, come lo sarebbe per un contratto di lavoro. Si spera comunque che i dirigenti confederali accompagneranno la discussione con la base esternando il loro motivato parere e spiegando bene le conseguenze di un voto negativo. La democrazia non è (non dovrebbe essere) una lotta libera senza regole. Serve a costruire e non a sfasciare. E se i partiti invadono l´agone sindacale, tempi duri si preparano per i lavoratori.

Post Scriptum. Alcuni lettori si chiedono e ci chiedono perché mai la Chiesa abbia celebrato con tutti gli onori previsti dalla liturgia i funerali dell´avvocato Corso Bovio, eminente figura del Foro milanese, morto suicida, ed abbia invece negato quei funerali all´ammalato Welby che fu aiutato da un amico generoso a interrompere cure inutili che perpetuavano senza scopo alcuno una vita di intollerabili sofferenze.
Una spiegazione pare che ci sia da parte della Chiesa. Dal diniego opposto contro tutti i suicidi, essa è passata col tempo ad una visione più duttile (più ipocrita) secondo la quale il suicidio deriva da un "raptus", una perdita improvvisa di coscienza. Su questa base il suicida viene "perdonato" e ammesso ai funerali religiosi che mandano in pace l´anima sua e sono di conforto per i suoi parenti.
Nel caso Welby invece l´ipotesi del "raptus" non poteva essere adottata poiché si trattava di un militante che voleva contrastare l´accanimento terapeutico. Di qui il divieto di celebrare il funerale religioso nonostante fosse stato richiesto insistentemente da lui e dai suoi familiari.
Che possiamo rispondere ai nostri lettori? Che la Chiesa è, oltre che un´organizzazione religiosa, anche se non soprattutto un´organizzazione di potere. È anzi un potere a tutti gli effetti e si muove come tale su un´infinità di questioni che hanno poco o nulla a che vedere con la religione dell´amore e della carità predicata dai Vangeli. Come tutte le organizzazioni di potere, anche la Chiesa usa largamente lo strumento dell´ipocrisia. Questo è tutto.

Repubblica 22.7.07
Pd, Pannella pronto a candidarsi
"È la nostra tradizione, la sinistra liberale deve stare in quel partito"
di Giovanna Casadio


Parisi: "Una sorpresa e una sfida a patto che condivida l´idea di fondo"
Oggi ne parlerà con i radicali, poi si consulterà con i socialisti della Rnp
Bindi: "Queste regole favoriscono le organizzazioni più forti"

ROMA - «Perché dovrebbe restare fuori dal Partito democratico la tradizione di Gaetano Salvemini, di Ernesto Rossi, di Carlo e Nello Rosselli? Ritengo che correre alle primarie del Pd sia una cosa da fare, e io sono disposto a farlo». Marco Pannella giura che è un´idea tutt´altro che improvvisata. Il leader storico dei Radicali annuncia che oggi ne parlerà con il suo partito, poi con la "Rosa nel pugno" cioè con i compagni dello Sdi con cui il Pr si è alleato alle ultime politiche. «Proporrò di partecipare con un nostro candidato alle primarie del 14 ottobre, personalmente sono pronto a scendere in gara». Per Walter Veltroni un nuovo, inatteso sfidante.
Non solo sarebbe una scelta opportuna, secondo Pannella, ma necessaria poiché «il Partito democratico appartiene alla nostra tradizione, non può non esservi rappresentata la sinistra liberale, pienamente laica, pienamente socialista e radicale. Contro la patente involuzione del regime politico del nostro paese». E per dimostrare che non si tratta di una provocazione, ricorda le volte in cui, rispondendo ai «compagni socialisti» scettici sul Pd, aveva replicato: «Il punto è che non mi hanno mai invitato...». Ora dopo quanto è accaduto su «pensioni e sindacato» c´è ancora «più bisogno della rappresentanza della sinistra liberale e anche dei nostri 55 anni di Radicali. Spesso gran parte degli elettori di Rifondazione si sono schierati dalla nostra parte, ne abbiamo avuto prova sul finanziamento pubblico ai partiti, in occasione dei referendum...».
Una mossa a sorpresa. «Aspetto reazioni, però è una bella idea. Noi Radicali, sciamani come siamo...», sorride Pannella. Il primo commento è della "sfidante" Rosy Bindi: «Come candidato minoritario diamo il benvenuto anche a Pannella». Da Arturo Parisi un benvenuto che è però una stoccata: «Una sorpresa e una sfida la candidatura di Pannella. Chiunque condivida l´idea di fondo e le regole che sono alla base del nuovo partito e s´impegna a dedicarvi tutte le sue energie, non può che essere benvenuto».
A questo punto, a competere alle primarie si ritroverebbero in sette. Oltre a Walter Veltroni, a Rosy Bindi, a Enrico Letta (che nelle prossime ore dovrebbe sciogliere la riserva), a Furio Colombo, Mario Adinolfi e al finanziere Jacopo Gavazzoli Schettini, ecco irrompere il leader radicale. Scaldano i motori intanto gli sfidanti. Entro fine mese bisogna infatti avere raccolto le firme per presentare la propria candidatura. Rosy Bindi torna ad attaccare le regole per il Pd fatte a misura di apparati di partito: «Ha ragione Furio Colombo, le regole previste per l´elezione del segretario e dell´assemblea costituente favoriscono le organizzazioni più forti, i candidati che hanno alle spalle strutture di partito. Ma le persone saranno più forti delle regole», non s´arrende il ministro della Famiglia. «La raccolta delle firme sta andando molto bene», aggiunge. Marina Magistrelli, prodiana, senatrice dell´Ulivo e supporter della Bindi, attacca: «Il leader del Pd deve esserlo a tempo pieno. Se Bindi vincesse, smetterebbe di fare il ministro e gli altri?». Veltroni è in Umbria ieri, e un elettore di centrosinistra lo ferma per dirgli: «Vengo dalla Toscana, con la Bindi in campo non so chi votare». E il sindaco di Roma: «A tua coscienza...». Si preparano liste e iniziative. Le Democratiche, la rete di donne per il Pd, hanno fatto partire una "staffetta" di incontri e dibattiti in tutt´Italia.

Repubblica 22.7.07
Oliviero Diliberto: modificare l´intesa a partire dal referendum tra i lavoratori
"Le quote sono un inganno lotteremo in Parlamento"
di Giovanna Casadio


La sinistra radicale si è sfaldata. Positiva però l'unità col Prc: cadute le ragioni della scissione a sinistra

ROMA - «Prima che l´accordo sulle pensioni arrivi in Parlamento ci vuole un referendum tra i lavoratori. È di elementare buonsenso chiedergli se sono d´accordo». Non gli è ancora sbollita la rabbia, a Oliviero Diliberto. «Diciamo che sono irritato, per usare un eufemismo. Nessuno da Palazzo Chigi che si sia fatto sentire... non si va per strappi su una materia così importante». Il giorno dopo il via libera alla riforma previdenziale, il segretario del Pdci lancia bordate. Senza risparmiare nessuno. Ad Epifani, ad esempio: «Immagino sia stato costretto a firmare l´accordo per senso di responsabilità dopo l´aut aut di Prodi. Se non firmava, cadeva il governo». A Rutelli, Fassino e Prodi: «Io a Monfalcone, tra i lavoratori delle aziende in crisi non sono stato fischiato. Non so se per altri sarebbe lo stesso. Ero per un compromesso perché non sono massimalista ma questa soluzione è meno avanzata della bozza proposta dal ministro Damiano. Va modificata».
Segretario Diliberto, la notte non le ha portato consiglio? Un compromesso sulle pensioni andava trovato.
«La notte mi ha portato consiglio sì, sono più arrabbiato. È dal 1992 dal primo accordo per togliere la scala mobile che si chiedono sacrifici ai lavoratori in nome di presunte compatibilità sui conti pubblici. A pezzo a pezzo sono stati tolti, con la logica dei petali, diritti che erano stati conquistati dai nostri padri. È la Confindustria ora che fa la lotta di classe e ci sta facendo un mazzo così. Siamo arrivati all´età della pensione a 62 anni: a me sembra un´enormità, e la delusione per un comportamento siffatto di un governo di centrosinistra, che dovrebbe essere dalla parte dei lavoratori, è forte».
I riformisti dell´Unione dicono che è un accordo ragionevole. Lei come lo giudica?
«Un inganno. Le quote sono un inganno. A parte che sono altissime. Le quote per definizione sono tali se sono elastiche nelle loro applicazioni. Se io raggiungo "quota 97", quale che sia la mia età devo potere andare in pensione. Ma se invece la "quota 97" è legata all´obbligo di pensione a 61 anni, allora di quale quota stiamo parlando?».
Non crede che un patto tra le generazioni sia necessario?
«Evitiamo l´ipocrisia. Le nuove generazioni iniziano a lavorare molto più tardi delle precedenti, quindi l´età pensionabile è un falso problema. Il problema della pensione dei giovani è il precariato del lavoro. Assurdo e odioso mettere i figli contro i padri».
La sinistra radicale si è divisa sulle pensioni: addio unità?
«Questa divisione è molto dolorosa per me. Ci siamo sfaldati alla prima prova: Verdi e Sd da una parte, noi del Pdci e Rifondazione, dall´altra, per fortuna insieme. Credo che il ragionamento possa riprendere da qui. Non ci sono più le ragioni della scissione della sinistra del 1998. Ci vorrà un chiarimento con Sd di Mussi: quando si andrà a un referendum tra i lavoratori bisogna evitare di creare un solco profondo a sinistra, sarebbe molto grave».
Le prossime mosse?
«Inizieremo subito una mobilitazione contro l´aumento dell´età pensionabile. È tempo di reagire, i lavoratori non sono numeri ma persone in carne e ossa. Questo messaggio semplice deve ridiventare il cuore dell´azione della sinistra. Quindi, il referendum tra i lavoratori. In Parlamento presenteremo un pacchetto di emendamenti».
Rinvia all´autunno la resa dei conti con il governo?
«Non sono un matto e so che dopo questo governo ci può essere qualcosa di molto, molto peggio. Ma non sono cieco e vedo che il governo sta perdendo consensi. Il centrosinistra deve presentarsi tra i lavoratori senza rischiare di essere fischiato. Vanno prese misure che contrastino il precariato giovanile e bisogna consentire di andare in pensione a un´età decente a chi ha lavorato una vita».

Repubblica 22.7.07
La Chiesa e la Cina un duello di secoli
di Federico Rampini


Il 30 giugno Benedetto XVI ha indirizzato una lettera ai cattolici della Repubblica popolare, uno Stato con cui il Vaticano non ha relazioni dal 1951. Si è rimessa così in movimento una storia di coraggio e di fede iniziata dai gesuiti alla fine del Cinquecento e precipitata duecento anni dopo in uno scontro che dura ancor oggi
Dopo Francesco Saverio e Matteo Ricci esplose nell´Europa della Controriforma una febbre delle vocazioni per generazioni di giovani sacerdoti attirati dall´Oriente
Con un editto del 1706 l´imperatore Kangxi respinse le richieste di papa Clemente XI e impose ai missionari l´obbligo del "piao", una licenza speciale concessa dal Figlio del Cielo


PECHINO. Resiste in cima a una scalinata nel cuore di Macao: una superba facciata barocca che sembra appesa alle nuvole. Solo l´azzurro del cielo l´avvolge e buca le sue porte. Sta in piedi per miracolo, la facciata da sola. Dietro di lei la chiesa intera, le pareti, il soffitto, il tetto sono crollati da tempo, travolti da tifoni e incendi. È quel che resta di São Paulo, la più celebre cattedrale di tutta l´Asia quando Macao era una colonia del Portogallo e la "base" di penetrazione del proselitismo cristiano verso l´Estremo Oriente.
Nel collegio dei gesuiti di Macao studiarono alla fine del Cinquecento i missionari Matteo Ricci e Adam van Schall prima di andare a evangelizzare la Cina. Ai loro tempi la cattedrale era di legno e di terra, la facciata di pietra venne aggiunta dal gesuita italiano Carlo Spinola nel 1602. Degli artigiani giapponesi fuggiti da Nagasaki per le persecuzioni religiose la decorarono di curiose sculture, una loro visione originale del cristianesimo in Asia. La statua della Vergine Maria ha ai suoi fianchi una peonia che rappresenta la Cina, un crisantemo per il Giappone.
Quella facciata diroccata, fragile rovina abbandonata, racconta un pezzo di storia del cattolicesimo in Cina: l´impresa di missionari che quattro secoli fa vennero fin qui sfidando pericoli mortali, seminarono i germi di una nuova fede nel popolo cinese, per poi fuggire travolti da una drammatica crisi politica. All´avventura dei gesuiti lo storico americano Liam Brockey ha dedicato un nuovo saggio, Journey to the East. The Jesuit Mission to China, 1579-1724. Brockey ha riesumato i ricordi di un´antica processione che sfilò davanti alla cattedrale di São Paulo per festeggiare la beatificazione di Francesco Saverio, pioniere dei missionari in Asia e patrono di Macao. Nel pittoresco corteo i fedeli cinesi recitavano scene di teatro di strada, allegorie di storia vissuta. Un attore personificava la Cina dei Ming: vestita sontuosamente, con monili d´oro e argento e pietre preziose, lacrimava per aver chiuso le porte in faccia a Francesco Saverio: «Ecco l´Impero di Mezzo con tutte le sue vane ricchezze, condannato a piangere sui suoi sbagli». Ma errori, incomprensioni e incompatibilità ci furono da ambedue le parti, nel primo dialogo tra i vertici della Chiesa romana e il Figlio del Cielo, come si definiva il sovrano cinese.
Il tormentato rapporto tra la Cina e il Cristianesimo è tornato d´attualità il 30 giugno scorso quando papa Benedetto XVI ha indirizzato per la prima volta una lettera ai cattolici della Repubblica popolare: uno Stato con cui il Vaticano non ha più relazioni dal 1951. Agostino Giovagnoli, docente di storia all´Università cattolica di Milano, ricorda che «per molti decenni agli occhi del cattolicesimo mondiale è sembrato che in Cina prevalesse il concentrato di tutti i mali: era il solo Paese in cui il comunismo non solo perseguitava la Chiesa, ma riusciva anche a penetrare al suo interno, dividendola in fazioni e contrapponendo gli uni agli altri».
Lo scontro che da mezzo secolo oppone il regime di Pechino al Vaticano presenta delle singolari analogie con il braccio di ferro ai tempi della Controriforma e della dinastia Qing. Il comunismo all´epoca di Mao e della Rivoluzione culturale ha aggiunto di suo una virulenta persecuzione ateista contro tutte le religioni. Ma al cuore della crisi che Roma e Pechino oggi tentano faticosamente di superare, c´è una questione di potere quasi immutata da trecento anni.
La penetrazione dei gesuiti in Cina è associata indissolubilmente alla figura di Matteo Ricci, il maceratese che nel 1583 sbarcò vicino a Canton e nel 1601 ottenne udienza al Palazzo imperiale nella Città Proibita di Pechino. Ricci non era certo il primo cristiano in Cina (la presenza di nuclei di nestoriani si segnala fin dall´ottavo secolo dopo Cristo) e neanche il primo missionario visto che i francescani si erano affacciati alla corte del Gran Khan nel XIII secolo. Ma l´impatto intellettuale di Ricci è senza precedenti. Erudito e geniale, primo sinologo della storia, Ricci adatta il messaggio dei Vangeli all´etica confuciana e conquista il rispetto dell´alta burocrazia mandarina grazie alle sue conoscenze di matematica e astronomia. Crea un ponte tra due civiltà, offre all´Europa intera le chiavi di comprensione della millenaria cultura cinese.
Insieme a Francesco Saverio, Ricci diventa un mito per generazioni di giovani sacerdoti attirati dal proselitismo in Estremo Oriente. Passando in rassegna una vasta mole di documenti d´epoca, lettere e diari personali, Brockey ricostruisce un´autentica febbre delle vocazioni esplosa in Europa: la Compagnia di Gesù deve operare una selezione spietata, i candidati sono troppi, solo una minoranza viene prescelta per partire in Asia. A volte le strade dei missionari incrociano quelle dei mercanti europei, ma spesso i religiosi affrontano il pericolo da soli. Gli italiani non hanno dietro di sé una potenza coloniale. Anche i portoghesi, gli spagnoli, i francesi, una volta entrati nell´Impero di Mezzo non possono fare affidamento sulla protezione dei propri Stati. Il martirio non li spaventa: per alcuni, è la fine che sognano. Contrariamente agli stereotipi sulla Compagnia di Gesù, non cercano solo di convertire la classe dirigente, i colti e i potenti. In realtà i gesuiti conquistano una base popolare, nell´anno 1700 hanno duecentomila fedeli, diffusi anche tra i ceti umili e nelle regioni di provincia. Una traccia di questa devozione si ritrova in opere di artisti anonimi che applicano lo stile cinese ai soggetti cristiani: come una bellissima Madonna con Gesù bambino, tutti e due con gli occhi a mandorla, fisionomie e abiti inconfondibilmente locali, in un dipinto del XVII secolo ritrovato nel centro della Cina, nella provincia dello Shaanxi.
A conferma del loro successo, ben presto i gesuiti sono sopraffatti dal lavoro. Ci sono troppi fedeli rispetto al numero limitato dei missionari e formarne di nuovi richiede tempi lunghi. Si arrangiano con soluzioni originali, come l´uso della "confessione con l´interprete". Inoltre nel 1700 il gesuita José Monteiro inventa per i suoi confratelli il primo manualetto di conversazione rapida in mandarino. S´intitola Vera et unica praxis breviter ediscendi, ac expeditissime loquendi sinicum idioma, suapte natura adeo difficile (L´autentico e unico metodo breve, per imparare rapidamente a parlare la lingua cinese, per sua natura assai difficile). Contiene le frasi essenziali per catechizzare i cinesi, e anche qualche espressione utile per i bisogni più materiali della vita quotidiana: «Questa carne non è cotta abbastanza. Il riso è scotto. Le verdure non sanno di niente. Questo tè fa schifo».
I gesuiti applicano la lezione del loro pioniere per aprirsi un varco nella mentalità cinese. Ricci ha stabilito che il confucianesimo non va trattato da avversario, È un´etica che può conciliarsi coi principi cristiani, così come un europeo può apprezzare Aristotele senza essere sospettato di eresia. Dunque i cinesi convertiti vadano pure nei templi di Confucio: non è un idolo pagano, solo un maestro di vita. La stessa tolleranza viene applicata alla venerazione degli antenati, un culto che ha radici millenarie. Da questo pragmatismo nasce il cattolicesimo di "rito cinese". Diventa la pietra dello scandalo quando nell´Impero celeste nella seconda metà del XVII secolo affluiscono altre ondate di missionari. Domenicani e francescani attaccano la tolleranza dei gesuiti, denunciano le liturgie locali come idolatria. Scoppia la Questione dei Riti, che papa Clemente XI risolve nel 1704 dando torto alla Compagnia di Gesù.
La querelle dei riti ha avuto grande notorietà, ma non è lì che si consuma definitivamente il divorzio tra la Chiesa e la Cina. Lo scontro più importante è su un altro punto. La svolta decisiva avviene quando il Papa, per informare l´Imperatore della sua decisione sui riti, invia a Pechino un´ambasciata guidata da un giovane prelato piemontese, Carlo Tommaso Maillard de Tournon. De Tournon è ricevuto dall´Imperatore Kangxi nel dicembre 1705 e pone una condizione per stabilire relazioni dirette fra la Santa Sede e la dinastia Qing: il pontefice designerà un superiore di tutti i missionari cattolici in Cina. Per l´Imperatore la richiesta è inaccettabile. Egli non ammette che possa esistere sotto il suo regno una "gerarchia parallela", un´armata di sacerdoti che obbediscono a un sovrano straniero.
Con un editto imperiale del dicembre 1706 Kangxi stabilisce la regola opposta: i missionari cattolici per esercitare in Cina devono ottenere una licenza speciale, il piao. L´imposizione del piao, scrive Brockey, «è un esercizio del controllo imperiale sui missionari», non diverso dal principio di autorità a cui devono sottostare i monaci buddisti e taoisti. Diventa uno strumento per dividere i sacerdoti tra buoni e cattivi. La situazione precipita. Mentre de Tournon viene ricacciato a Macao, ai missionari presenti sul territorio cinese s´impone un´alternativa drammatica. Devono scegliere tra il Papa e l´Imperatore, ma anche fra continuare l´apostolato in Cina o rinunciarvi. Lasciare il Paese vuol dire abbandonare i propri fedeli. Fare atto di sottomissione a Pechino significa sfidare la condanna papale.
È un dilemma che anticipa quello che vivranno i preti cinesi nel 1957, quando Mao Zedong deciderà di istituire la "Chiesa patriottica", l´unica autorizzata dal Partito comunista, i cui vescovi e sacerdoti devono essere nominati dal governo e fare giuramento di fedeltà al regime. Come accadrà nella Repubblica popolare, anche tra i sacerdoti europei del Settecento la reazione non è compatta. Quarantuno domenicani partono in esilio, espulsi dai confini dell´impero dalla dinastia Qing. Una cinquantina di gesuiti seguaci dei "riti cinesi" ricevono il piao e decidono di rimanere, sperando di guadagnare tempo e di ottenere un ripensamento del Papa. Un manipolo di religiosi scelgono una terza via, rifiutano il piao ed entrano nella clandestinità, continuando a praticare di nascosto in alcune regioni rurali della Cina meridionale (proprio come i preti cinesi della "Chiesa sommersa" ai nostri tempi).
La crisi precipita con la morte di Kangxi e l´avvento al trono di suo figlio Yongzheng nel 1723. Il nuovo Imperatore promulga un editto in cui condanna il cattolicesimo come «setta perversa e dottrina sinistra». La repressione si scatena sui fedeli, chiese e seminari vengono sequestrati e convertiti ad altri usi: diventano scuole, ospedali, granai. Nella provincia del Fujian, con un crudele scherzo alla memoria di Ricci, le parrocchie cattoliche vengono trasformate in templi per il culto degli antenati. «Nell´ottobre 1724», scrive Brockey, «sedici anni dopo che i gesuiti hanno sfidato Clemente XI accettando il piao, vengono arrestati in massa dalle autorità imperiali, deportati a Canton, da lì imbarcati per l´esilio a Macao». Yongzheng fa sapere a Ignatius Koegler, un sacerdote tedesco che dirige il laboratorio astronomico alla corte imperiale, che i gesuiti devono considerarsi fortunati per essere stati cacciati da vivi. Nello stesso anno, in un giro di vite per riaffermare il suo controllo su tutti i culti, l´Imperatore ha «ordinato la distruzione in massa di molti templi buddisti e lo sterminio di oltre un migliaio di lama».
I missionari cattolici torneranno nel secolo successivo in una Cina indebolita e decadente, piegata dalla superiorità militare delle nuove potenze occidentali. Poi le porte si chiuderanno di nuovo con la rivoluzione comunista. Adesso la lettera di Benedetto XVI cerca una soluzione all´impasse: per la prima volta il Papa non disconosce la Chiesa patriottica, propone di fonderla con quella clandestina. Pechino deve ancora rispondere.

Repubblica Firenze 22.7.07
"Il mio corpo a corpo con la perfezione"
Da otto anni Patrizia Riitano sta restaurando la Madonna del cardellino
di Mara Amorevoli


Si incontrano e si guardano da otto anni. Ogni giorno, puntualmente. Si scrutano, si toccano e si accarezzano fino all´ossessione. Una dolce ossessione costruita nel tempo con piccoli gesti delicati e precisi, impastati di materia e colore, di paura e passione. E di incubi: «L´ho sognato più volte. Una volta aprivo la scatola e non lo trovavo più, era scomparso. Un´altra volta ero a casa con degli amici, sul tavolo c´era lui, e io preoccupata e gelosa controllavo tutti. Ho anche sognato con terrore che sollevavo la carta con cui avevo fermato il colore, che restava tutto attaccato». Ma è l´affezione a vincere: «A casa, ho le sue foto appese. Montagne di documenti, studi e analisi. Sì, se potessi me lo porterei a casa. E´ il "mio" quadro». Dopo otto anni di convivenza, di corpo a corpo con quell´immagine, il minimo che poteva capitare alla restauratrice Patrizia Riitano, è che quel dipinto diventasse una parte di lei, una presenza costante nella sua vita.
Il quadro non è un dipinto qualsiasi, ma l´icona più rappresentata e conosciuta da secoli: «La Madonna del cardellino» di Raffaello, un´immagine archetipo che tutti abbiamo imparato a riconoscere fin da piccoli, un santino su libri e messali di cresime e comunioni, riprodotto all´infinito, celebrato fin dall´antichità. Patrizia Riitano ne è la vestale da quando la tavola, 107 per 77 centimetri, dal ‘99 ha lasciato la Galleria degli Uffizi per il Laboratorio di restauro dell´Opificio delle Pietre Dure. Da allora la superficie pittorica della celeberrima Madonna seduta, con il Bambino a destra e San Giovannino che tiene in mano un cardellino, contrassegnata da una pesante patina giallo-bruno, come tutti la ricordiamo, è molto cambiata. Ha ritrovato luce e colori, sfondi e particolari prima invisibili perché sepolti sotto molteplici strati di ridipinture.
Un lungo lavoro certosino e lenticolare, che la restauratrice avvia ogni giorno con il rito dell´apertura della scatola di sicurezza in cui è custodita la tavola. Riitano cita ad occhi chiusi ogni dettaglio, millimetro per millimetro del dipinto. Racconta i momenti difficili: le sottrazioni di particelle di pittura, di vecchi pigmenti che se ne andavano con solventi e bisturi. «Che stress - confessa - perché non si sapeva mai esattamente cosa ci fosse sotto». Nonostante le ripetute campagne di analisi, tac e riflettografie a cui è stata sottoposta la tavola prima del restauro. «Le indagini sono mappature da interpretare, integrano il lavoro, ma non si sa mai cosa si trova alla fine. All´inizio siamo partiti chiedendoci si potrà pulire o no?» spiega ripercorrendo momenti di dubbi e incertezze, di confronti con Marco Ciatti e l´équipe dell´Opificio, con la soprintendente Cristina Acidini. Su di lei, il peso degli occhi del mondo e la responsabilità delle aspettative di quanti attendono la fine del restauro e la restituzione del dipinto agli Uffizi, prevista per fine anno.
Anni di lavoro quotidiano che umilmente, «calandosi nel rispetto del dipinto» precisa, lentamente hanno visto riemergere le pennellate dei colori di Raffaello. Il blu del lapislazzulo del mantello della Madonna sepolto sotto alla vernice bruna, il chiarore degli incarnati, il verde azzurrognolo del paesaggio sullo sfondo (fatto di lapislazzulo con aggiunte di giallo o bianco), i particolari di un mazzolino di violette, di arbusti di piantaggine e di fiori di una piantina di fragole ai piedi dei due bambini. Si rileggono le pennellate di Raffaello, oltre alle crepe e ai danni subiti dal dipinto. Perché la tavola, eseguita da Raffaello durante il suo soggiorno fiorentino nel 1505 come dono di nozze all´amico Lorenzo Nasi, fu travolta nel crollo dell´abitazione di Nasi sotto lo smottamento di Monte San Giorgio nel 1548. Vasari scrive che l´opera fu ritrovata in pezzi insieme ai calcinacci e fatta rimettere insieme nel miglior mondo possibile «da Batista, figliolo di Lorenzo, amorevolissimo dell´arte». Così furono aggiunti due tasselli di legno mancanti, e fu ridipinta. Reintegrazioni tornate visibili come ferite durante il restauro, quindi risanate fino a recuperare tutta la superficie pittorica e l´integrità del dipinto. La fine del restauro è davvero vicina. Patrizia Riitano si schermisce: «Mia figlia, incuriosita dall´attenzione mediatica intorno a questo intervento, mi ha chiesto "Mamma, ma quando l´hai finito sparisci anche tu?"». E sorride, consapevole che, come in tutte le storie d´amore, passare dal possesso all´abbandono è sempre una tragedia.

Corriere della Sera 22.7.07
Guardie rosse, slogan e ravioli Rivoluzione culturale sul menu
E' un successo a Pechino il ristorante «maoista»
di Paolo Salom


PECHINO — Le quattro Guardie rosse, all'ingresso, scattano sull'attenti, fanno il saluto militare e, con le loro voci acute di ragazze ancora adolescenti, gridano: «Lottiamo contro l'ideologia borghese!». Gli ospiti, un po' intimoriti, rispondono con una prontezza che non si è appannata nei quattro decenni dalla fine della Rivoluzione Culturale: «Lo faremo senza esitazioni!».
Via libera. Possiamo entrare, attraverso un'enorme stella rossa, salutati dagli slogan maoisti che decorano pareti e soffitti di quella che sembra, a tutti gli effetti, una comune popolare. Possibile che sia sopravvissuta alla trasformazione che ha regalato, ai nipoti di Mao, un Paese destinato a sostituire la Germania come terza economia del mondo? In realtà, ci troviamo in un ristorante, ricavato da una vecchia fattoria alle porte di Pechino, che sfrutta commercialmente la Rivoluzione culturale per riempire i suoi tavoli. Idea geniale, trasformata in marchio protetto: per riuscire a sedersi, occorre prenotare giorni prima. La sala, alle sei e mezzo di sera, è già colma di famiglie eccitate che si guardano intorno come se si trovassero in una Disneyland del comunismo realizzato: quando la Rivoluzione diventa un pranzo di gala. Tutto è «copia autentica »: il grande murale con il volto di Mao, gli slogan sospesi sui tavoli («Viva il presidente Mao», «Viva il Partito comunista»), il trattore che irrompe da una parete e, soprattutto, le giovani Guardie rosse che si aggirano tra i clienti, con fare minaccioso. Ragazzi e ragazze con la divisa maoista stirata di fresco, pronti a servire il popolo: a tavola. Dove solo il menu non è rivoluzionario. Al posto delle ciotole di riso scotto e poco più del passato, trionfi di ravioli, pollo alle mandorle e con gli anacardi, manzo in fricassea con fagioli cinesi e toufu: uno spettacolo.
I camerieri-Guardie rosse hanno imparato bene la lezione. Come confermano i due coniugi che accompagnano il cronista in questo inaspettato salto indietro nella Storia cinese. «A quel tempo — spiegano Xu Ziyan, 65 anni, ex ricercatore dell'Istituto per l'energia atomica di Pechino, e la moglie (e collega) Guo Xinying, 62 — quando si incrociavano le Guardie rosse era obbligatorio rispondere ai loro slogan secondo precise parole d'ordine. Guai a chi sgarrava». Diciamo subito che Xu e Guo sono stati abbastanza fortunati. In quanto ricercatori di un istituto strategico, durante la Rivoluzione culturale (1966-1976), il movimento voluto da Mao (e «difeso » dalla Guardie rosse, in gran parte studenti imberbi), furono mandati in campagna a «soli» cento chilometri da Pechino. Nel ristorante, tutto è pensato per suscitare i ricordi di un'epoca durissima per i cinesi, in particolare intellettuali e quadri dirigenti, costretti a «rieducarsi nel lavoro manuale e imparare dai contadini», classe simbolo della Cina di allora. Eppure, a osservare i clienti del ristorante Hongse Jindian («I classici rossi»), si nota più nostalgia che tristezza per un passato che oggi tutti criticano, almeno ufficialmente. «Mi diverto a fare la Guardia rossa— civetta una cameriera prima di prendere le ordinazioni con un palmare —. Ma forse perché sono troppo giovane, a quel tempo non c'ero». «Noi sì, c'eravamo — ribatte Xu Ziyan, incuriosito dalla moglie che, davanti a lui, canticchia le canzoni rivoluzionarie diffuse dagli altoparlanti —. Però non mi sento a disagio qui. È divertente. O forse sarà che mi tornano in mente i ricordi che appartengono comunque ai miei vent'anni...».
Xu è interrotto da una Guardia rossa che sale sul palco e grida: «Compagni, buonasera! ». È il momento più atteso: ha inizio una sorta di musical che ripropone opere rivoluzionarie. Nel ristorante è un tripudio di musica, inni e Libretti rossi. I clienti rispondono in coro, si alzano in piedi, battono le mani a ritmo. Compreso un ragazzo, avrà diciannove anni. Indossa una maglia del Milan: davvero una giustapposizione incongrua con le divise verdi dei camerieri che gli passano vicino. Ma che importa? «Io dico che Mao è stato un gigante della Storia — interviene da un tavolo vicino Wu Daqiang, 62 anni, forse un po' alticcio —. Oggi le cose non vanno affatto bene: troppe disuguaglianze. Allora non era così: eravamo tutti sulla stessa barca». L'entusiasmo è al massimo. Incitati dalle Guardie rosse alcuni clienti si muovono a mo' di corteo tra i tavoli. Portano ritratti di Mao e cantano: «Obbediamo agli ordini del presidente. Andiamo in campagna! ». È l'ultima coreografia. La musica si interrompe, i clienti tornano a sedere, sudati. La Guardia rossa si presenta con un sorriso. E il conto. Chiediamo a Xu Ziyan e alla moglie se si sono divertiti, nonostante tutto. «Ma — rispondono — forse era un po' troppo rumoroso...».

Corriere della Sera 22.7.07
Neurologia Nuove ricerche precisano il ruolo dei «neuroni specchio»
Perché ci facciamo sempre i fatti degli altri
Chiarito il meccanismo dell'empatia che ci permette di capirci anche senza parlare
di Cesare Peccarisi


Veder accarezzare o malmenare qualcuno può innescare le stesse aree cerebrali che si attivano quando la stessa cosa viene fatta a noi.
Il fenomeno è causato dai cosiddetti neuroni specchio, cellule nervose situate nella corteccia cerebrale premotoria ventrale e in quella parietale posteriore che si attivano poco prima di compiere un'azione, in particolare se «copiamo» quella fatta da un altro. In alcune persone si attivano al punto da far percepire la medesima sensazione di chi viene davvero toccato: si tratta di sinestesia speculare, l'esagerazione di un meccanismo cerebrale che tutti in qualche modo possiedono, ma che nei cosiddetti sinestesici fa scattare una sorta di risonanza tattile che fa letteralmente sentire gli stimoli altrui sulla propria pelle. Il termine sinestesia deriva dal greco e significa «percepire insieme», tant'è che chi ha questo disturbo, oltre a percepire lo stimolo che l'ha raggiunto, ne percepisce altri irreali, anche distanti dal vero punto di stimolazione: una stretta di mano può ad esempio accompagnarsi alla sensazione di una carezza sulla spalla che in realtà è solo nella testa del sinestesico.
Uno studio dei ricercatori del Dipartimento di psicologia dell'Università di Londra diretti da Michael Banissy appena pubblicato sulla rivista Nature Neuroscience dimostra che questo disturbo è associato a una spiccata empatia, la capacità, variabile da persona a persona, che ci fa percepire le emozioni e le sensazioni degli altri. Per verificare quanto le sensazioni altrui possano interferire empaticamente con quelle di questi soggetti, i ricercatori hanno chiesto a 10 sinestesici e a 20 persone normali d'identificare senza guardarla quale zona del loro corpo veniva sfiorata mentre osservavano un'altra persona a cui era toccata la stessa o un'altra parte.
Quando il punto toccato era lo stesso in entrambi, i sinestesici lo identificavano più in fretta, come se la loro percezione reale fosse rafforzata da quella della zona che vedevano toccare nell'altra persona; quando però la zona toccata al soggetto sinestesico e quella della persona che stava guardando non corrispondevano, le sensazioni altrui potevano essere per lui così intrusive da confondere le sue percezioni reali, facendogli ritenere come proprie le aree del corpo che vedeva sfiorate negli altri.
Le persone normali tendevano invece a fare errori di altro tipo: non riconoscevano il punto toccato nel loro corpo semplicemente perché non potevano vederlo.
Questo studio ha confermato i risultati di Christian Keysers dell'Istituto di neuroscienze di Groningen che, in collaborazione con i neuroricercatori dell'Università di Parma diretti da Vittorio Gallese (pioniere nello studio dei neuroni specchio) ha dimostrato nel 2004 come nel nostro cervello esista una sorta di «area del toccamento », la corteccia somatosensoriale secondaria che si attiva non solo quando è toccata una parte del nostro corpo, ma anche quando assistiamo alle sensazioni tattili provate dagli altri. L'empatia di cui parla Bannissy deriverebbe in realtà da meccanismi ancestrali propri delle prime fasi dell'evoluzione, quando il linguaggio non si era ancora sviluppato e toccarsi era la forma di comunicazione principale. Resta tuttora un fondamentale modo per scambiarsi messaggi in situazioni in qualche modo regressive come il rapporto mamma/bambino o quello sessuale, dove gli amanti si parlano più con gesti e carezze, che con le parole.
Il toccamento viene sempre catalogato emotivamente: anche se è del tutto casuale, come in un autobus affollato, per il nostro cervello si tratta di un movimento intenzionale di cui tendiamo ad interpretare emotivamente le finalità. Il riconoscimento delle emozioni altrui è mediato dal sistema sensitivo-motorio che indica come ci sentiremmo di fronte a una certa emozione attraverso la sensibilità empatica, sulle cui varie componenti (visiva, tattile, olfattiva, ecc) vanno ad agire i neuroni specchio che, in realtà, influenzano la vita di tutti i giorni anche di chi sinestesico non è.
Ad esempio sono molto usati dagli imitatori e sono sempre questi neuroni a scatenare un'improvvisa voglia di pastasciutta alla vista di Alberto Sordi che s'ingozza di spaghetti in «Un Americano a Roma».
Anche il voyerismo potrebbe sembrare un fenomeno di emozione specchiata in cui l'osservatore finisce col provare ciò che vede nei filmetti, nei giornalini o, soprattutto, dal vivo, ma in questo caso il rispecchiarsi nell'azione osservata diventa la cosa meno importante di una psicopatologia il cui aspetto principale è invece il raggiungimento dell'orgasmo guardando di nascosto sconosciuti che si spogliano o fanno sesso.
In tutti noi c'è un pizzico di voyerismo, ma solo in chi è davvero malato ciò si trasforma in ossessive fantasie sessuali che finiscono col condizionare tutta l'esistenza.
Nelle persone normali certe scene spinte possono indurre anche emozioni di rifiuto piuttosto che di eccitazione e una sinestesica potrebbe addirittura immedesimarsi completamente con la vittima di una scena di stupro, provando tutt'altro che eccitamento sessuale.
«Studiando con la risonanza funzionale il cervello di soggetti normali che guardavano una scena in cui veniva toccato il corpo di un'altra persona — racconta Gallese, che per primo ha ipotizzato e dimostrato l'esistenza del meccanismo di rispecchiamento visuo-tattile — abbiamo osservato che, come per una sorta di risonanza, si attiva anche la corteccia tattile secondaria dell'osservatore: ecco perché se guardiamo la scena in cui l'agente 007 resta immobile mentre una tarantola gli passeggia sul torace vengono i brividi anche a noi…».
Ma per chi è sinestesico queste esperienze possono diventare insopportabili: «Non ho mai capito come faccia la gente a divertirsi con i film truculenti — dice Jane, una ragazza affetta da questo disturbo che faceva parte dei soggetti studiati da Banissy — e a ridere se a qualcuno mozzano la testa o un braccio: se io vedo certe scene, non posso far a meno di provare le stesse sensazioni su me stessa».
«Non so cosa significhi vivere senza sentire ciò che i medici chiamano sinestesia a specchio — dice Alice, un'altra ragazza studiata sempre dai ricercatori inglesi — per me questa è la risposta perfettamente normale che si prova vedendo toccare un'altra persona, soprattutto se lo si fa per provocargli dolore».
Di fatto le emozioni rappresentano il primo processo con cui si prende coscienza dell'ambiente e con il quale riorganizziamo continuamente i nostri rapporti col prossimo e strutturiamo negli anni la nostra autocoscienza.
«Qualsiasi cosa vediamo con gli occhi — conclude Gallese — viene immediatamente tradotta dal nostro cervello in qualcosa che possiamo toccare, facendo scattare automaticamente una pianificazione simulata del movimento necessario a toccarla, dove sensibilità tattile e visiva si fondono: i sinestesici in fondo fanno semplicemente questo, solo che lo fanno in maniera abnorme ».
Uno studio sui sinestesici, persone che vivono in una costante sovrapposizione tra sensazioni proprie e quelle che osservano negli altri, ha permesso di capire meglio come funziona il nostro cervello

Corriere della Sera 22.7.07
Non esistono bianchi e neri: tante facce, stessa razza
di Luigi Ripamonti


Ormai è assodato che per tantissimi caratteri genetici non c'è discontinuità tra i vari gruppi di popolazioni

Quante sono le razze umane? Le diverse classificazioni che sono state proposte ne ipotizzano da 2 fino a 200.
A una mente sgombra da pregiudizi questa premessa potrebbe bastare per chiudere qualsiasi discussione sull'argomento: è chiaro che conclusioni così discordanti possono fondarsi solo su basi che di scientifico hanno poco o nulla.
Eppure le razze sono lì, davanti ai nostri occhi. Chi può negare che un nero africano è diverso da noi e simile, se non quasi identico, ai suoi conterranei? E che cosa dire dei cinesi? C'è qualcuno che riesce distinguerli bene tra di loro? Chi può sostenere che non siano così simili l'uno all'altro e così diversi da noi italiani, o dagli svedesi?
Solo un cieco. Oppure qualcuno che ci vede particolarmente bene e sa guardare la realtà col microscopio e la lucidità dello scienziato. È quello che ha fatto Guido Barbujani, professore di genetica all'Università di Ferrara, che ha sintetizzato anni di studi e di ricerche sull'argomento nel libro «L'invenzione delle razze» (Bompiani), appena premiato nella sezione «saggi» della quinta edizione del premio letterario «Accademia nazionale delle biotecnologie Merck-Serono».
Poco più di cento pagine in cui viene argomentato in modo semplice ma esauriente perché la distinzione in razze è possibile e legittima, per esempio, per le lumache, ma è completamente priva di senso per l'uomo, a dispetto della apparenze. Abbiamo chiesto al professor Guido Barbujani di chiarirci la sua tesi.
Che cosa rende così diverse lumache e uomini relativamente al concetto di razza?
Il fatto che la variabilità biologica umana è discordante e continua, mentre per le classificazioni razziali la variabilità dev'essere concordante e discontinua.
Ci faccia un esempio che ci aiuti a capire.
Variabilità discontinua significa che è possibile tracciare linee sulla carta geografica, confini che separano razze, cioè gruppi di popolazioni ben distinte. Ma, nel caso dell'uomo, prendiamo, per esempio, la capacità di utilizzare anche nell'età adulta il lattosio contenuto nel latte, capacità che alcuni di noi perdono quando con la crescita si inattiva un enzima che si chiama lattasi. L'inattivazione è determinata geneticamente, ma non ci sono popolazioni o razze in cui tutti digeriscono il latte e popolazioni o razze in cui non lo digerisce nessuno. I diversi gruppi umani differiscono invece per la percentuale di persone in cui la lattasi si inattiva: sono una minoranza in Europa e in alcune aree dell'Africa, sono la maggioranza in estremo Oriente e in altre zone dell'Africa, con varie sfumature intermedie nelle località intermedie.
Insomma, se volessimo prendere la lattasi come criterio distintivo per stabilire una differenza tra razze ci accorgeremmo che non c'è discontinuità tra i gruppi umani per questo carattere, ma un continuum. Vale anche per tantissimi altri geni. Nell'umanità non ci sono linee scientificamente riconoscibili a separare popolazioni nettamente diverse le une dalle altre.
Sì, ma la lattasi è un enzima. Colore della pelle e degli occhi sembrano invece dire il contrario.
Non proprio. Proviamo a pensare agli aborigeni australiani e agli africani. Sono due popoli neri. Se esiste una razza nera dovremmo includerli entrambi. Ma se andiamo a valutare molte altre caratteristiche, come ha fatto il genetista Luca Cavalli-Sforza, scopriamo che sono probabilmente i due gruppi più diversi della terra dal punto di vista genetico: il colore della pelle varia in maniera discordante con tante altre caratteristiche, fra cui la funzionalità della lattasi. E se ripetiamo l'esperimento partendo da qualsiasi caratteristica biologica, il gioco finisce sempre allo stesso modo: un rompicapo in cui tutti si somigliano per qualche verso a tutti e per qualche altro verso si differenziano. Un puzzle che farebbe impazzire chiunque. Anzi, che, in un certo senso, ha già fatto, se non impazzire, perlomeno fallire, chiunque abbia provato a cimentarvisi con criteri scientifici e non soltanto con ingenui pregiudizi. Se si ripercorrono in chiave storico-critica le tappe del dibattito sulle basi biologiche della diversità umana, dalla nostra origine africana alla colonizzazione dei cinque continenti, si vede come le conoscenze accumulate smentiscano in modo definitivo l'idea ottocentesca che l'umanità sia frammentata in gruppi biologicamente distinti, che in altre specie si chiamano razze. Del resto, basti pensare al fatto che in passato l'identificazione delle razze nella specie umana ha prodotto risultati quasi comici: nel 1900 ne erano state contate 29, di cui 6 europee; nel 1933, quando il Field Museum of Natural History, di Chicago, commissionò alla scultrice Malvina Hoffman statue a grandezza naturale che descrivessero tutte le razze dell'umanità per l'Esposizione Universale, si arrivò a 104. E seguendo altri criteri di classificazione nel XX secolo si sono toccate le 200.
Perché definisce ingenui i pregiudizi?
Perché spesso alla base di errate convinzioni stanno percezioni abbastanza comprensibili e ingenue cui è difficile rinunciare. Basti pensare alla sfericità della terra: non è facile accettarla se rimaniamo sul piano della percezione fisica. E così per le razze. Eppure la scienza dimostra in modo inequivocabile che la terra è rotonda e che non è possibile classificare con criteri obiettivi gli esseri umani in diverse razze.
Sempre a proposito di pregiudizi, perché ha deciso di scrivere questo libro?
Perché mi occupo di genetica di popolazioni da molti anni. Ma anche perché mi piace una frase che ha scritto anni fa un bravo biologo inglese, Steve Jones, in un libro che si chiama «La lingua dei geni»: «Continuiamo a trovare tanti motivi per odiarci fra noi, ma oggi abbiamo almeno capito che nei nostri geni non stanno scritte profonde differenze fra razze. Credere che il nostro aspetto, e addirittura la nostra intelligenza e il nostro comportamento, siano inevitabilmente determinati dal nostro DNA è una buona scusa per non far niente, ma oggi questa scusa non regge più alla prova dei fatti».

Corriere della Sera 22.7.07
Casal Bertone in piazza, sei ore di alta tensione
Estremisti di destra e sinistra si fronteggiano, centinaia di agenti per impedire violenze


Musica e slogan «duri» nel quartiere blindato
Destra e sinistra, manifestazioni contrapposte a Casal Bertone. Ma niente scontri

Sei ore di tensione a Casal Bertone per le due manifestazioni organizzate da una parte, in piazza di Santa Maria Consolatrice, dai centri sociali e dai movimenti antifascisti, e dall'altra, in via Orti di Malabarba, dal Circolo futurista di Fiamma Tricolore. Le due fazioni, composte in tutto da meno di un migliaio di persone, sono state però divise e controllate a vista da un ingente spiegamento delle forze dell'ordine. Poliziotti, carabinieri e finanzieri hanno presidiato tutti gli incroci del rione con blindati e scudi. Nel pomeriggio, a cominciare dalle 16, tutto è andato per il meglio in un quartiere comunque chiuso, con le saracinesche dei negozi abbassate, come le serrande degli appartamenti ai piani bassi dei palazzi, e poche persone in strada. Dopo il tramonto l'attenzione delle forze dell'ordine si è spostata sulla prevenzione di possibili agguati fra gruppi di estremisti.
Una lunga fila di saracinesche abbassate, di portoni sprangati, di tapparelle chiuse per proteggere le finestre ai piani bassi dei palazzi. Casal Bertone ha iniziato così la sua giornata di tensione: da una parte tre-quattrocento giovani dei centri sociali, della sinistra antagonista e famiglie dell'ex asilo occupato di piazza De Dominicis, dall'altra oltre duecento ragazzi di estrema destra radunati nel Circolo futurista in via Orti di Malabarba, chiusa da entrambi i lati da un ingente servizio d'ordine di poliziotti e carabinieri.
Un pomeriggio e poi anche una serata ad alto rischio, con la possibilità di scontri occasionali e premeditati nelle strade lontane dai luoghi scelti per le due manifestazioni contrapposte non solo dalla politica, ma da contrasti profondi, decisamente peggiorati dopo la spedizione del 28 giugno a Villa Ada di un gruppo di estremisti di destra a un concerto della «Banda Bassotti» (che ha suonato anche ieri sera) e la devastazione la notte fra l'11 e il 12 luglio scorsi del circolo di Fiamma Tricolore proprio a Casal Bertone da parte di un commando di estrema sinistra. Non solo l'inizio di una «faida» politica, ma le conseguenze di tanti episodi di violenza meno eclatanti avvenuti nel quartiere dall'inizio dell'anno. Ieri, dalle quattro del pomeriggio a notte fonda, i protagonisti di questa «guerra» a distanza si sono confrontati ancora una volta. A dividerli però c'erano circa 350 uomini delle forze dell'ordine dislocati nei punti strategici del rione, agli incroci delle strade, nei vicoli più bui e meno trafficati.
In via Arimondi, fra un ristorante e un bar, a meno di 200 metri dal circolo futurista dove era stato organizzato un concerto rock con gruppi di destra, un presidio composto da oltre dieci blindati, fra leggeri e pesanti, ha chiuso ogni via d'accesso. Agenti della Digos e dei commissariati San Basilio e Prenestino hanno controllato chiunque si avvicinasse con fare sospetto. In azione anche il personale della «scientifica» pronto a riprendere con le videocamere i momenti principali delle due iniziative.
Controlli anche in via di Portonaccio, nei pressi della discoteca «Qube», fuori dalla quale nell'inverno scorso sono avvenute numerose aggressioni notturne. «Hanno cominciato in mattinata - racconta rincasando un inquilino di un palazzo di via Baldissera - poi, per fortuna, non è successo nulla di grave. Da casa ho sentito soltanto qualcuno dei ragazzi che gridava slogan e insulti, ma qui da un po' di tempo è una cosa normale». Normale o no, anche via Baldissera è stata presidiata da polizia, carabinieri e guardia di finanza: l'unica strada di collegamento diretto con piazza di Santa Maria Consolatrice, dove è stata organizzata la manifestazione antifascista. Un camion carico di altoparlanti parcheggiato davanti alla chiesa, con musica a tutto volume. Nel pomeriggio una giovane coppia si è sposata, parenti e amici si sono fatti fotografare sulla scalinata fra due cordoni di poliziotti.
«Non possiamo mica chiuderci in casa - sospira un'anziana in via di Casal Bertone, vicino alla Banca di Roma - è poi è una bella festa. Paura? Sì, un po'. Ma c'è anche tanta polizia». Dalle 16.30 il Circolo futurista ha cominciato a riempirsi di giovani, quasi tutti con le teste rasate, gli occhiali da sole, i bermuda mimetici e le magliette piene di frasi d'effetto, come «12 luglio, mai un passo indietro». Non soltanto residenti nel quartiere, ma anche di altre zone di Roma, con una buona percentuale di ragazze. L'attrazione della serata è stato il concerto della band di riferimento del movimento di estrema destra, gli «Zetazeroalfa», insieme con altri gruppi musicali. L'esibizione vera e propria è iniziata alle 21.30 circa, ma prima di allora polizia e carabinieri hanno vigilato su un paio di cortei organizzati dalla sinistra antagonista per le strade del quartiere.
Un centinaio di ragazzi hanno percorso il perimetro intorno a piazza di Santa Maria Consolatrice seguiti a vista dagli agenti, soprattutto quando nel loro cammino si sono avvicinati al «quartier generale » dei rivali. Non è successo nulla, solo altri slogan, striscioni e qualche insulto urlato al di là degli sbarramenti. Quanto è bastato, tuttavia, per ricordare a tutti, nonostante la calma apparente del pomeriggio, che in circa 200 metri si stavano tenendo due raduni dalle conseguenze imprevedibili.
Fino al tramonto tutto è filato per il verso giusto, poi con il calare delle tenebre la tensione è salita di nuovo per il timore di assalti e agguati con coltelli e bastoni da una parte e dall'altra.

Corriere della Sera 22.7.07
1977/2007, trent'anni dopo
Rossi e neri. L'odio politico trent'anni dopo
di Alessandro Capponi


«Il problema non è la caduta, ma l'atterraggio». L'odio è un film francese di qualche anno fa, e racconta le banlieues, ma non solo. Racconta, soprattutto, quella sensazione lì, precipitare.
Lentamente eppure rapidamente, precipitare. Ieri a Casal Bertone - un popolare quartiere romano tra Tiburtina e Portonaccio - c'erano poliziotti e blindati, carabinieri e jeep con le grate ai finestrini; alle finestre, persone senza magliette oppure anziani a guardare sotto. Guardavano i due gruppi, separati da qualche centinaio di passi e da molte più divise: fascisti e antifascisti.
Guardavano, soprattutto, il vuoto nel mezzo, queste strade deserte coi negozi chiusi, questo spazio che è un'apnea, una distanza incolmabile. Poche centinaia di passi, ma chi li percorre è quella la sensazione che prova. Precipitare.
La donna al megafono, in piazza Santa Maria Consolatrice, la piazza antifascista colma di persone, alle cinque del pomeriggio dice che vuole «uscire in pace, la sera, anche coi miei bambini. Perché queste aggressioni e questa violenza il quartiere le rifiuta, Roma le rifiuta, e io pure». È tenera, anche quando urla, il tono stridulo: «Ma che volete? Che volete? Che volete?». Lei vive nella scuola occupata che l'altra notte è stata invasa da quella roba lì, aggressioni e violenza. Ora: i compagni dicono «sono stati i fascisti», i fascisti dicono «sono stati i compagni». Brutta storia. «Centosessanta aggressioni fasciste in due anni, neanche un indagato: com'è possibile?». Già, com'è possibile? Anche se fossero state la metà, o un terzo: la domanda resta. Com'è possibile? Che anni sono, i Settanta? Oggi si può chiedere una risposta, basta fare qualche centinaio di passi, domandare permesso alle divise, ed ecco via degli Orti di Malabarba, il «circolo futurista», i fascisti. Ci sono poliziotti ovunque, qui, anche sul muro di cinta della ferrovia. Dentro sta per cominciare il concerto degli Zetazeroalfa, che canteranno «non darti pena, nel dubbio mena», anche se poi, loro, dicono che «il testo è ironico »; fuori, ci sono anche ragazze, anche carine: da incontrare in un cinema, a ballare la sera. E, ci sono, questi ragazzi con le magliette «12 luglio, non un passo indietro», come a dire che quella notte, quella notte delle aggressioni e della violenza, nessuno - certo non chi indossa la t-shirt s'è spaventato fino a fuggire. La domanda, certo: tutte queste aggressioni, è vero? Non avete, voi, questa sensazione chiara, precipitare? Risponde Gianluca Iannone, Fiamma Tricolore: «C'è chi semina odio, in città, questi politici di sinistra, anche Veltroni». Ma, Iannone, quelli nell'altra piazza, poco fa, dicevano lo stesso: colpa di Veltroni che ha dato agibilità ai fascisti. «Quale agibilità? Ha chiuso otto delle nostre sedi, otto, e mai è venuto a salutare i nostri feriti. E poi questa pacificazione è una menzogna: perché sulla lapide di Paolo Di Nella c'è scritto "vittima della violenza" e su quella di Walter Rossi "vittima della violenza fascista"? ». Solo che ecco, Iannone, la sensazione è che potrebbero esserci morti, se non la finite. «Certo, ma la colpa è di chi fomenta l'odio. Loro, i compagni, sono venuti ad aggredirci, a spaccare la nostra sede. Se qualcosa accadrà, la colpa è dei fomentatori d'odio». Già, l'odio. Iannone ha cicatrici sulla fronte: «Eh, l'altra notte, quelli tiravano mattoni grossi così».
Nella piazza antifascista, di là, ci sono anche i bambini. Sulle altalene, a correre tra la gente, nei passeggini. Bambini c'erano pure l'altra notte, qui a Casal Bertone. E pure a Villa Ada, quando ci fu il raid neofascista. Iannone è sarcastico: «Siamo stati io e lui, a Villa Ada...». Qualcuno è stato, però. I compagni hanno una certezza: negli striscioni elencano vittime (Biagetti, Dax) o eventi (Genova 2001) e scrivono «Sappiamo chi è Stato».
«C'ho un rigurgito antifascista, se vedo un punto nero ci sparo ci sparo a vista»: canzone vecchia di un decennio e più, ma anche questa suonano, oggi. «Il punto è che noi siamo stanchi - dice un ragazzo di un centro sociale - perché ogni volta che c'è un'assemblea dobbiamo mettere fuori le sentinelle, e anche per venire qui, fare manifestazioni così, dobbiamo interrompere progetti e lavori sul territorio. Abbiamo altro da fare, noi. Ne faremmo volentieri a meno. Ma ci sono aggressioni di continuo, di continuo». C'è un matrimonio, nella chiesa sulla piazza. Quando la sposa esce, ecco, tutti, invitati e manifestanti, applaudono, anche dalle finestre. Auguri, figli maschi. Concepiti stanotte, nascerebbero nel 2008. Chissà che anno sarà. Se di questo secolo o di quello passato. Se si avrà ancora questa sensazione, precipitare nell'odio. Perché è una sensazione che non può durare molto. E quella è una verità: il problema non è la caduta, ma l'atterraggio.
Prima il raid di Villa Ada, poi gli scontri in questo quartiere I centri sociali: «In due anni ci sono state 160 aggressioni fasciste e nessun indagato»

Liberazione 22.7.07
Prodi soddisfatto per l'accordo sulle pensioni. Il Pd ha consegnato alla grande borghesia, a Confindustria, alle banche la prova (richiesta) di essersi purificato dalla sua origine di sinistra. Ha sostituito il suo blocco sociale con un sistema di potere
Tra scalate e scalini nasce il Pd
E va al centro. Che fa la sinistra?
di Piero Sansonetti


Prodi ha dichiarato che l'accordo sulle pensioni è una specie di capolavoro: ripara all'ingiustizia dello scalone e tiene in ordine i conti dello Stato. Non è vero. L'accordo lascia aperte molte ingiustizie e soprattutto una: costringe i lavoratori a lavorare due o tre o quattro anni più del previsto, per permettere un certo equilibrio del potere finanziario italiano ed europeo. L' ordine nei conti dello Stato non c'entra niente. L'unico ordine che ha a che fare con questa vicenda è l' ordine che la parte più potente della borghesia italiana - quella rappresentata dal governatore di Bankitalia Mario Draghi - ha impartito al governo, e che è stato rispettato, e che imponeva in primo luogo un ridimensionamento delle pensioni pubbliche (in vista del rilancio del grande business delle pensioni private) e in secondo luogo un colpo a Rifondazione e più in generale alla sinistra politica e sindacale.
Prodi è soddisfatto per questo: non per la sua azione di governo, ma per come è andata la delicata battaglia politica che si è svolta sul tema delle pensioni, e che ha avuto quattro protagonisti principali. Uno da una parte e quattro dall'altra. Da una parte l'asse Prc-Fiom (con l'appoggio del Pdci) che si è battuta per difendere i futuri pensionati; ci è riuscita solo in parte, impedendo che la "mannaia" si abbattesse su circa un milione e mezzo di operai (tra lavori usuranti e lavoratori precoci). Dall'altra parte tre soggetti autonomi: il potere finanziario (Draghi, ma anche Confindustria), il nascente Partito democratico e la grande stampa; e in aggiunta ai tre, il piccolo ma contundente Partito radicale. Il Partito radicale, per la verità, non ha avuto nessuna funzione autonoma, è stato usato come una bottiglia molotov dagli altri soggetti, per cercare di mandare a fuoco il "fortino nemico".
Concentriamoci ora su uno solo di questi soggetti: il nascente Pd. Per due ragioni. Innanzitutto perché è il vero vincitore di questa partita, e in secondo luogo perché la prova-pensioni è la prima grande prova politica alla quale il Pd si sottopone, e il modo nel quale l'ha affrontata ci dice molto sul futuro di questo partito, sulla sua collocazione, sul ruolo che giocherà nella politica italiana.
Perché è il vero vincitore? Perché ha ottenuto quello che voleva. Cioè una riforma da portare in dono al mondo della finanza, dell'impresa e del potere economico, come garanzia della propria affidabilità. Cosa voleva la grande borghesia dal Pd? La certezza che non fosse più, in alcun modo, figlio di quel Pci, dal quale discende"geneticamente" la parte politicamente più forte del suo gruppo dirigente. Serviva al Pd la prova che i "cromosomi" sono ormai del tutto manipolati, e che questa manipolazione può essere usata nella battaglia contro la sinistra, e che questa battaglia può essere vincente. Questo voleva, questo ha avuto.
E quel che più fa impressione è la casuale coincidenza tra la battaglia delle pensioni e la vicenda Unipol-Consorte (con la richiesta al Parlamento, da parte della magistrata competente, del permesso ad usare le intercettazioni di Fassino, D'Alema, La Torre, Consorte e altri). Perché fa impressione? Perché si ha la fotografia di un partito che rinuncia, anche con toni sprezzanti, al proprio tradizionale blocco sociale (che aveva come nucleo essenziale il mondo del lavoro e soprattutto del lavoro dipendente) e non lo sostituisce - attraverso una complessa e dolorosa traversata politica, di tipo, ad esempio, blairiano - con un altro blocco sociale più moderato (fondato sul ceto medio); ma lo sostituisce con un "blocco di potere", cioè con pezzi di grande finanza e settori dello "stato maggiore" del capitalismo. Sta qui l'enormità dell'operazione: pensare che sia possibile sostituire la forza sociale con la forza finanziaria, il radicamento di massa con un sistema di potere. In algebra non si possono sommare le "a" e le "b", in politica - così pensa il nuovo gruppo dirigente piddino - si può. E questa idea è proprio quello che è rimasto - parecchio degenerato, o modernizzato: fate voi - del vecchio leninismo e del vecchio "doppismo" leninista. L'idea - in fondo - che si possa imbrogliare non solo il popolo, ma anche la storia. Battersi per la libertà e poi sotto sotto essere stalinisti. Combattere Berlusconi, e poi sotto sotto imitarlo, scambiando frasi "oscene" con i finanzieri e facendosi, con gioia, impelagare nella scalata - per altro non corretta - di una banca. Basta essere intelligenti più degli altri, basta "saperne" di politica...
Non so, francamente, se bisognerà concedere o no a Clementina Forleo il permesso di usare quelle intercettazioni. Il garantismo mi spinge a dire di no. La lettura di quelle telefonate, però, mette una tale tristezza, e riapre in modo così forte la ferita della questione morale, o più ancora, di una grande questione culturale...
Quello che è evidente, da questa vicenda, è che purtroppo quel fatto della scalata alle banche non è stato un errore di percorso. C'è una grande coerenza tra scalata alle banche e scelta politica, sullo scalone, guidata dalle banche. E questa coerenza, unita al programma - moralmente pulito, ma politicamente americano, di Veltroni - ci dice che il Pd non ha alcun interesse a dare rappresentanza a ceti, idee, progetti e politiche tradizionalmente di sinistra.
Mi piacerebbe, allora, che la sinistra cosidetta "radicale" (cioè l'unica sinistra rimasta sulla scena ) riuscisse ad affrontare con serenità e molto seriamente questa discussione, evitando di dividersi su aspetti tattici, procedure, opportunità e obiezioni minori. Ma rispondendo chiaramente a questa gigantesca domanda: come si fa a ricostruire una sinistra, che dia rappresentanza a un settore vasto ed esigente della nostra società, che sappia battersi, e ne abbia la forza, contro lo scivolamento a destra della società - largamente favorito dalla nascita del Pd - e che impedisca l'oligarchia, la cancellazione della partecipazione, l'oppressione dei ceti più deboli, la regressione culturale, la restituzione - dopo un quarantennio di lotte, di vittorie e di sconfitte - di tutto il potere alla grande borghesia?
La sfida dell'unità a sinistra è tutta qui, e prescinde dalle divisioni "tattiche", dai tempi, dai modi, e persino dai contraccolpi (come la distanza che si è creta, proprio sulle pensioni, tra Prc e un pezzo di Sd). Quello che mi sembra assolutamente innegabile è l'urgenza di questa unità.

il manifesto 22.7.07
Per un paio d'anni in più
di Alessandro Robecchi


Cari compagni, è meglio un bicchiere mezzo pieno o un bicchiere mezzo vuoto? Chissenefrega, tanto poi se lo beve Montezemolo. In ogni caso è stato divertente, ieri, leggere su La Stampa l'unico reportage controcorrente del giorno: le voci degli operai di Mirafiori sull'accordo sulle pensioni. Per fare una sintesi: sono incazzati come cobra. La mia opinione, a questo punto, pende verso la moderazione: aspettiamo a fasciarci la testa! Aspettiamo almeno di romperci anche un braccio, così facciamo un viaggio solo verso l'ospedale e risparmiamo! Naturalmente avrete visto anche voi per le strade i cortei dei giovani festanti fare il gesto dell'ombrello perché papà starà in fabbrica un paio di anni in più. Adesso sì, che per questi giovani si aprono straordinarie prospettive, ora che tutti quegli operai smetteranno di fare la bella vita con i soldi nostri. Come sempre in questi casi, consiglio di guardare il lato positivo. Anche se vi sembra strano, l'accordo sulle pensioni avrà positive ricadute sull'occupazione. Per esempio il partito democratico prossimo venturo potrà mandare centinaia di cococo a fingersi operai fuori dalle fabbriche, per dichiarare ai giornalisti, qualora ce ne fossero, che si tratta di un ottimo accordo. Altri potrebbero tenere lezioni di geometria per spiegare come tanti scalini facciano uno scalone. E ci sarebbero sbocchi interessanti anche per il lavoro intellettuale: qualcuno dovrà pur andare a spiegare l'accordo agli editorialisti del Corriere, perché quelli evidentemente si sono distratti e parlano di «capitolazione del governo», intendendo, in modo piuttosto strabiliante che è capitolato davanti all'estrema sinistra (sarà l'effetto di molti bicchieri mezzi pieni). Vedete? Si aprono nuove prospettive nel settore dell'informazione: ce ne vorrà di lavoro per convincere tutti che è in salvo il futuro dei giovani. Ci pensino con calma anche quelli delle presse, delle carrozzerie, della verniciatura. Coraggio, compagni operai! Per pensarci meglio, vi danno un paio di anni in più.