mercoledì 25 luglio 2007

Repubblica 25.7.07
Il segretario di Rifondazione, Franco Giordano: sul mercato del lavoro siamo pronti allo scontro
"La lotta al precariato non esiste più i riformisti hanno tradito i giovani"
di Luca Iezzi


Mani libere sul welfare. Non siamo stati consultati per il pacchetto sul welfare: sono proposte fuori dal programma e noi ci sentiamo liberi da vincoli Regalo agli industriali. E´ l´ennesimo favore alle imprese dopo il cuneo fiscale Non si potevano usare quei soldi per la previdenza?

ROMA - «Questo provvedimento deve essere cambiato, iniziamo uno scontro politico per riuscirci. Solo dopo decideremo come votare». Il segretario di Rifondazione Comunista, Franco Giordano, è di nuovo in prima linea. Alle critiche sulle pensioni, che rimangono, aggiunge, anche più forte, l´irritazione sul protocollo per il Welfare: «Sono proposte che colpiscono i lavoratori, favoriscono la precarietà, su cui non siamo stati consultati e che sono anni luce lontane dal programma. Ci sentiamo del tutto liberi da ogni vincolo rispetto a queste norme».
Però è una proposta del governo. Per di più, dice il ministro Damiano, "non emendabile".
«Fino a oggi pensavo anch´io di essere parte della coalizione di governo e invece mi trovo questo pacchetto di misure che non capisco a nome chi sia stata presentato. Vorrei ricordare che non esistono "soci di maggioranza" in questa coalizione, ma un programma da rispettare. Prodi deve chiarire se è il garante dell´Unione o è più interessato alle lotte intestine nel partito Democratico».
Le vostre proteste sono un modo per riportare l´asse del governo verso sinistra, dopo la vittoria dei "riformisti" sulle pensioni?
«No, le obiezioni sono sul merito di norme che colpiscono i lavoratori, specie i giovani. Mentre ai cosiddetti "riformisti" dico che ora si mostrerà tutta la strumentalità delle loro posizioni. Dopo aver passato mesi a parlare dei diritti dei "giovani" adesso sono spariti. Dove sono Veltroni e gli altri ora che serve combattere contro l´uso sistematico dei contratti precari».
Quali sono i punti per voi irricevibili?
«La parte sul superamento della legge Biagi non è in linea con il programma, la decontribuzione degli straordinari non era mai stata presa in considerazione, poi le norme sul lavoro precario dovevano ridurre l´uso di questi contratti e ciò non avviene. Anche sulle pensioni si scopre che c´è un tetto di 5 mila persone l´anno nelle esenzioni dall´aumento dell´età pensionabile: cosa significa? Se tra usuranti, turnisti e lavoratori con più di 40 anni di contributi si supera quel numero qualcuno rimane fuori? Sarebbe inaccettabile»
Però Cgil, Cisl e Uil hanno firmato il protocollo pur chiedendo delle modifiche.
«Guardi che stavolta a sinistra il giudizio è unanime: la Cgil espone critiche identiche alle nostre. Con i lavoratori si ha sempre un atteggiamento rigoroso: per mesi si dice che i soldi delle pensioni devono essere trovati all´interno del sistema, perché i conti non permettono altre scelte, poi di colpo escono i soldi per incentivare gli straordinari e per la contrattazione di secondo livello. È l´ennesimo favore alle imprese che hanno già ottenuto 5 miliardi dal cuneo fiscale. Perché quei soldi non si potevano usare per la previdenza? La verità è che il Partito Democratico vuole costruirsi un sindacato di riferimento meno conflittuale. Ma attenzione perché sui principi di fondo i lavoratori sono compatti».
Quali principi sono messi in pericolo dal protocollo?
«Viene modificata la struttura dei contratti e si ripropone un modello industriale secondo cui la competitività si ottiene con la riduzione del costo del lavoro. Il centrosinistra ha detto di voler superare questa visione favorendo gli investimenti in innovazione e qualità. Dove sta tutto questo nel documento del governo?».

Repubblica 25.7.07
L'amarezza del leader sindacale dopo la chiusura delle trattative sul Welfare
Lettera al premier: c'è un problema di metodo

"La concertazione è finita qui". Epifani rompe con il governo: "Da Prodi uno sgarbo alla Cgil"
di Roberto Mania


La svolta. Da settembre in avanti il confronto con l´esecutivo sarà assolutamente forte e serrato. Come disse Luciano Lama: i governi passano e le maggioranze cambiano, ma la Cgil resta Un patchwork. Quest´accordo è un patchwork , nel quale ogni pezzo risponde ad un gruppo di interessi Ecco il suo limite: è assente un´idea condivisa del Paese da parte di tutti gli attori sociali Duro scontro nella Confederazione "Firmeremo per senso di responsabilità"

ROMA - «È stato uno sgarbo alla Cgil che non possiamo far passare sotto silenzio», dice Guglielmo Epifani sfogliando tra le mani quel "Protocollo su previdenza, lavoro e competitività" che firmerà solo per senso di responsabilità e che sosterrà nella consultazione tra i lavoratori. Una scelta travagliata per la Cgil. Assunta a maggioranza (circa il 75 per cento) intorno alle quattro di notte, dopo una discussione tesa e asprissima nel Direttivo confederale, come non accadeva da molti anni. Perché su alcuni punti decisivi - e anche simbolici per la Cgil - il testo presentato dal governo non era quello concordato in precedenza. Due i vulnus: gli incentivi al lavoro straordinario e la fragilità dei vincoli ai contratti a termine. Oggi il leader di Corso d´Italia lo scriverà al presidente del Consiglio, Romano Prodi. E la lettera che arriverà a Palazzo Chigi segnerà l´inizio di una nuova stagione tra la Cgil e il governo di centrosinistra. Da settembre - dice Epifani - «il confronto sarà assolutamente forte e serrato». Conflittuale, insomma. Anche se è un aggettivo che si guarda bene dal pronunciare. L´appoggio della Cgil, comunque, non sarà mai scontato. Anzi. Epifani cita Luciano Lama per dire che ciascuno ora andrà per la sua strada: «I governi passano, le maggioranze cambiano, la Cgil resta».
Le distanze tra Epifani e Prodi sono diventate profonde, strategiche, non solo per ragioni di ruoli. Le misura anche il giudizio sul Protocollo: per il premier un risultato della concertazione tanto che ha voluto presentarlo lo stesso giorno (il 23 luglio) del "protocollo Ciampi" del ´93 sulla politica dei redditi; per il leader sindacale è invece «la dimostrazione che la concertazione, come l´abbiamo conosciuta, non c´è più». È finita esattamente dopo quattordici anni. «Allora - spiega Epifani - servì a ricreare coesione nel Paese, mentre si susseguivano i governi tecnici, e i vecchi partiti si ritiravano sotto la spinta anche dell´emergenza finanziaria. Oggi possiamo dire lo stesso? Oggi abbiamo un Paese molto più diviso, anche sul piano istituzionale. E poi quest´accordo è un patchwork , nel quale ogni pezzo risponde ad un gruppo di interessi. Questo è il limite del Protocollo: una somma di interessi parziali più che un interesse generale. È assente un´idea condivisa del Paese da parte di tutti gli attori sociali».
Certo, i risultati ci sono. Ed è anche per questo che Epifani firmerà: ci sono le misure per i giovani, c´è un assaggio di riforma degli ammortizzatori sociali, c´è il rafforzamento della contrattazione aziendale legata alla produttività, c´è l´aumento delle pensioni e c´è anche una via alternativa allo scalone per l´aumento dell´età pensionabile. Ma c´è un capitolo sul mercato del lavoro che Epifani è tentato di non firmare. «Perché per noi, per la nostra cultura, per un sindacato dei diritti, è molto più delicato il mercato del lavoro rispetto al nodo dello scalone. Sono in gioco diritti e tutele. Non è un problema di costi».
Nelle vicende sindacali contano anche i simboli. E i contratti a termine, per la Cgil, lo erano diventati. Da lì, nel 2001, cominciarono gli accordi separati fino al "Patto per l´Italia". Da lì, Epifani, avrebbe voluto far iniziare la risalita della Cgil. Invece no. Invece «all´ultimo momento» le proposte del governo sono cambiate. «Il governo ha sentito la Confindustria. Tutto legittimo, ma doveva aprire un confronto diretto, trasparente. Questo è stato uno sgarbo nei confronti della Cgil. Così l´ho avvertito io come segretario generale, così l´ha avvertito il Direttivo. Per i contratti a termine non ci sono le causali che li giustificano, né è chiara la base su cui definire i tetti sul totale degli addetti. Dopo 36 mesi si possono ancora reiterare a condizione che si rinnovino davanti alla Direzione provinciale del lavoro con il dipendente assistito da un sindacalista qualsiasi, anche di un "sindacato giallo"! Ma i contratti a termine sono il vero crocevia della precarietà. Passa tutto da lì. E poi lo staff leasing: la Confindustria ha chiesto di mantenerlo...». Ce l´ha con il ministro Damiano, ex Cgil? «Non credo che Damiano abbia responsabilità. È Palazzo Chigi che ha fatto questa scelta», risponde Epifani.
Non si può dire che la Cgil sia passata all´opposizione. Il lessico sindacale non contempla questa ipotesi perché c´è l´autonomia dalla politica. Però - dice Epifani - «c´è anche una situazione sociale delicata». «La protesta contro gli scalini non è amplissima, riguarda solo una parte dei lavoratori del nord, ma può legarsi a quella contro la precarietà con l´effetto di aumentare il distacco e la sfiducia verso la politica».

Corriere della Sera 25.7.07
Ultimi giorni di vacanza in Cadore. «Andare in Cina? Non posso parlare ora, è troppo complicato»
Il Papa e il '68: «Fu la crisi della cultura occidentale»
Question time del pontefice davanti ai sacerdoti: dopo il Concilio altri tempi difficili, come l'89
di Marisa Fumagalli


AURONZO (Belluno) — «È importante che il parroco non sia il burocrate del sacro, ma resti vicino alla sua gente. La segua nella preparazione ai sacramenti, favorisca tra i laici il senso della corresponsabilità ». Negli ultimi giorni di vacanza del Papa in Cadore, è l'ora del question time: i sacerdoti chiedono lumi, Benedetto XVI risponde, tracciando le linee guida. L'incontro (due ore, a porte chiuse) si è svolto ieri nella chiesa di Santa Giustina di Auronzo, dove, in mattinata, si erano dati appuntamento in 400, tra parroci e preti delle diocesi di Belluno e Treviso. La scaletta è stata preparata accuratamente. Niente sorprese, nessuna domanda estemporanea o di scottante attualità come il revival della messa in latino, secondo il rito Tridentino, o le «prove di dialogo» con la Chiesa cinese. Sul sagrato, rimedia un cronista. Che si lancia («Santità, andrà in Cina?»). Ma la risposta è laconica: «Non posso parlare in questo momento, è troppo complicato». Poi, Benedetto XVI sale sull'auto, acclamato dalla folla, per fare rientro a Lorenzago.
Ma torniamo ai preti, tra i banchi della navata della chiesa; qui, dieci intervistatori selezionati (rispettando la salomonica divisione fra le aree ecclesiastiche di appartenenza) pongono alcuni quesiti a Ratzinger. Il Pontefice risponde, ribadendo, in sostanza, concetti già espressi. I principali temi affrontati riguardano la formazione della coscienza dei giovani («occorre trovare una via laica e religiosa »), il confronto con gli immigrati, le priorità del ministero sacerdotale, il rapporto con i fedeli divorziati/ risposati, il senso della vita umana, il modo più consono di portare Dio tra gli uomini... «Pregate, curate, annunciate», esorta il Papa. Suggerisce di evitare dogmatismi, «diffondendo la parola di Cristo con semplicità, dentro una comunità parrocchiale viva e accogliente. La Chiesa non cresce nella statistica, ma nella vitalità che dimostra». «Il cattolicesimo — aggiunge — chiede che i sacerdoti tengano i piedi per terra, con gli occhi rivolti verso il cielo». Il nodo dei divorziati — osserva — va affrontato a monte, attraverso la prevenzione. Cioè la preparazione al matrimonio. E se l'unione fallisce, occorre valutare bene se c'era o no il matrimonio sacramentale, tenendo in considerazione anche la strada della «nullità». Sui rapporti con gli immigrati, esalta soprattutto i valori da condividere, il dialogo, affermando che «occorre vivere da prossimi, anche con i non cristiani».
Ai preti della generazione del Concilio, delusi nelle loro aspettative («avevamo sognato tante cose »), Benedetto XVI ricorda che i tempi successivi al Concilio non sono stati facili, citando due «cesure » storiche: il '68, periodo di «crisi della cultura occidentale» e il crollo dei regimi dell'Est dell'89.
Sul tema creazionismo/evoluzionismo, già trattato in un suo libro, il Papa si sofferma, ribadendo che il senso della vita li contiene entrambi. «L'evoluzione è un dato di fatto — asserisce — ma non basta per rispondere alle grandi domande. Dunque, non c'è alternativa assoluta tra l'evoluzione e il Dio creatore ». Esalta, poi, il valore della sofferenza («non c'è amore senza sofferenza e dolore») e della rinuncia.

Corriere della Sera 25.7.07
Un saggio di Nicholas Humphrey
Le origini delle emozioni
di Edoardo Boncinelli


La vista di una palla rossa può suggerire tante sensazioni. «Con il lancio di una rossa palla / di nuovo Eros dalle auree chiome / mi invita ora a giocare / con quella là dai sandali sgargianti », canta per esempio Anacreonte. Quando vedo una palla rossa, in verità, accadono in me almeno tre cose. Per prima cosa ho la sensazione di vedere una palla rossa; in secondo luogo apprendo che nel mio campo visivo c'è una palla rossa; in terzo luogo, infine, so che sto percependo la presenza di una palla rossa. Per quanto concerne la conduzione della mia vita, delle tre cose in fondo basterebbe che si realizzasse anche soltanto la seconda, ma un'attenta riflessione mostra anche la presenza delle altre due, seppure indissolubilmente fuse con quella. Sono considerazioni queste che hanno a che fare con il fenomeno della coscienza, il più enigmatico ed elusivo tra quelli concepibili, quello che ha fatto versare fiumi di inchiostro e che tiene tutt'ora impegnate le menti migliori, tra i filosofi come tra gli psicologi e i neuroscienziati. Come abbiamo detto, per la mia vita sarebbe sufficiente che in questa circostanza io prendessi coscienza della presenza di una palla rossa. Per vivere e sopravvivere ciò è più che sufficiente.
Accade però che accanto a questo tipo di coscienza, che ha un contenuto cognitivo dichiarabile, esiste una mia personale sensazione che accompagna tale presa di coscienza. Questa sensazione personale, piena di risonanze affettive e ricca di coloriture emotive è mia e solo mia. Non è probabilmente essenziale, ma accompagna invariabilmente e inesorabilmente ogni mia esperienza sensibile, o anche ogni mia rievocazione di ricordi. A questo lato sovranamente ineffabile della coscienza è stato dato il nome di coscienza fenomenica. Comprendere l'essenza e il ruolo della coscienza fenomenica sembra il problema più arduo della moderna riflessione filosofica intorno alle neuroscienze.
Il problema della coscienza fenomenica è anche l'oggetto del bel libretto di Nicholas Humphrey intitolato sibillinamente Rosso (Codice Edizioni, pp. 106, e 11). Le cento pagine del libro sono tutte centrate sull'effetto che ha su di noi la vista di uno schermo rosso, uno dei colori ai quali è più difficile restare indifferenti. Si tratta di una serie di semplici considerazioni accompagnate da qualche disegnino elementare. Ma l'aspetto dimesso e accattivante non deve trarre in inganno: si tratta di una riflessione molto approfondita su alcuni fenomeni quotidiani ma non per questo meno enigmatici, come chiarisce il sottotitolo Uno studio sulla coscienza.
Lo scopo dichiarato del nostro autore è quello di comprendere e farci comprendere perché accanto alla coscienza di qualcosa esiste l'insieme di sensazioni che l'accompagnano. Perché insomma una coscienza fenomenica va sempre di pari passo con la presa di coscienza di un fatto. Qual è l'origine e la funzione di tutto questo? E perché l'evoluzione biologica — Humphrey è di scuola inglese e non dubita nemmeno un istante che dietro ogni fenomeno vitale ci sia lo zampino della selezione naturale — ha favorito lo sviluppo di questa forma di coscienza?
Dopo una lunga serie di ragionamenti ed esempi, tutti in sé e per sé estremamente semplici, l'autore giunge ad una conclusione interessante e abbastanza inusitata, che chiama in causa il terzo dei fatti ai quali abbiamo accennato all'inizio. Provare un'intensa sensazione alla vista di una palla rossa, o di qualsiasi altra cosa, mi rimanda indirettamente ma irresistibilmente a me come soggetto cosciente. Ogni mia sensazione riafferma la mia esistenza e la centralità del mio io. Insomma mi fa sentire importante, certo più importante di qualcuno o qualcosa che non avesse sensazioni coscienti. E mi fa pensare di avere un Sé, magari immateriale. «Io propongo che nel corso dell'evoluzione umana i nostri antenati — i quali ritenevano le proprie coscienze metafisicamente notevoli (esistenti fuori dallo spazio e dal tempo normali) — si sarebbero presi più sul serio come Sé». Nel libro si può riscontrare qua e là qualche ambiguità terminologica e l'autore non ci dice a che punto della scala evolutiva pone gli eventi che prende in considerazione: parla di uomini direttamente o anche di scimmiotti o di cani? Ciononostante, leggerlo è piacevolissimo e certamente molto istruttivo. È un libro fatto per chi ama pensare. E che... non disdegna il rosso. A proposito di rosso, abbiamo iniziato con Anacreonte; finiamo con Saffo: «Come la mela dolce che rosseggia del ramo alto / sulla parte più alta; l'hanno lasciata li i coglitori,/ certo non la scartarono, ma non poterono raggiungerla».

Liberazione 25.7.07
Forum con Mussi, Giordano, Diliberto e Bonelli
La Sinistra unita incalza il governo e organizza una manifestazione a ottobre
di Angela Mauro


Le divergenze sulla riforma previdenziale (Prc e Pdci da una parte, Verdi e Sinistra Democratica dall'altra) non fermano il percorso unitario a sinistra. L'occasione per un chiarimento, non definitivo ma che prova a spingere il processo in avanti, è stato il forum organizzato ieri pomeriggio dagli organi delle quattro forze interessate: Liberazione, Aprileonline, Rinascita, Notizie Verdi (in versione integrale la settimana prossima, in contemporanea sui 4 giornali). Il segretario del Prc Franco Giordano, il segretario del Pdci Oliviero Diliberto, il leader di Sd Fabio Mussi, il capogruppo alla Camera Angelo Bonelli per i Verdi si sono confrontati sui passi da compiere nel governo Prodi, in Parlamento e nella società, di fronte ad un Partito Democratico che pretende di essere timone unico dell'Unione.
Per tutti, un punto di incontro forte, fresco fresco di questi giorni: il protocollo sul welfare, presentato dal ministro Damiano alle parti sociali, sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil (seppur con distinguo da parte dell'organizzazione di Epifani) e criticato da tutta la sinistra dell'Unione che promette battaglia in Parlamento. Sulla riforma previdenziale, singolo atto di un'unica partita politica sul lavoro, restano le differenze di giudizio, ma il forum di ieri ha partorito una novità, positiva per l'unità a sinistra. Infatti, pur confermando la buona valutazione dell'accordo raggiunto la scorsa settimana tra governo e sindacati, Mussi condivide le criticità del Prc e del Pdci sulla clausola che limita ad un massimo di cinquemila unità annue gli esentati dall'innalzamento dell'età pensionabile (sarebbe un'ulteriore scrematura della platea dei lavori usuranti interessati, dettata dai tetti di spesa, secondo i calcoli dei riformisti al governo). E dà un giudizio decisamente negativo sulle proposte del governo per il welfare.
Al di là delle questioni specifiche, il vero punto di unità attuale per Prc, Pdci, Verdi e Sd è l'idea di una mobilitazione unitaria in autunno. Il forum si conclude con l'annuncio che prima dell'estate i rappresentanti delle quattro forze politiche si riuniranno per mettere a punto uno schema di proposte da avanzare al governo. Un governo, quello guidato da Prodi, in crisi di consensi, minacciato da forze (anche interne all'Unione) che vorrebbero vederne la fine, ma che tutti nella sinistra radicale vogliono difendere. Gli accenti della discussione al riguardo sono però diversi e sembrerebbero disegnare due assi principali, che rispecchiano un po' quelli emersi dai giudizi sulle pensioni: da un lato, Prc e Pdci decisi a non perdonare più nulla a questo governo per riconquistare la sua base sociale e salvaguardare l'alleanza e il programma premiati dalle elezioni; dall'altro, Verdi ed Sd attenti a non aprire conflitti nel governo, pur contestando le sue tentazioni e torsioni riformiste. Ci si mobiliterà insieme in autunno, ma Giordano va oltre, propone una «manifestazione unitaria a ottobre» e aggiunge: «Il mio partito è pronto a costruire un soggetto unitario e plurale della sinistra. Lanciamone gli stati generali a settembre». Mussi non dice né sì né no alla proposta e fornisce la sua idea sulla mobilitazione d'autunno: «Ragioniamo su un evento partecipativo, capillare di massa perchè chi non fa l'inchiesta non ha diritto di parola, diceva Mao». Il segretario del Prc risponde con Marcos: «Camminare domandando». Spiega il leader di Sd: «Abbiamo litigato sulle pensioni e forse continueremo ma non rinuncio al progetto di unità della sinistra. Ma dobbiamo rinnovarci tutti: non possiamo restare naufraghi del passato».
Il passato è il '98, la fine del primo governo Prodi, un'esperienza che nessuno dei quattro è interessato a ripetere. Dice ancora Mussi che mentre «l'accordo sulle pensioni non è malaccio, tranne la "clausola sui 5mila"», su lavoro e welfare «siamo molto lontani dal programma dell'Unione». Il parere è dunque «assolutamente negativo», ma al «che fare?» evocato da Diliberto, l'ex diesse risponde: «Calibrare i giudizi, compiere dei passi, ma muovere il paese contro il governo di cui si fa parte sarebbe un atto di originalità italiana». Dunque, «bene l'iniziativa comune delle sinistre, ma sono contrario ad aprire da sinistra una crisi di governo». Al Partito Democratico che «procede verso nuove ipotesi di alleanza», bisogna replicare «rimettendo sul tavolo il programma dell'Unione».
Giordano rilancia, battendo sulle pretese di autosufficienza del Partito Democratico. Sulle pensioni, dice, Rifondazione «non ha invaso la sfera del sindacato. Il punto rilevante è chi fa le scelte, a nome di chi, con quale mandato: è possibile che il governo proceda ad una riforma del mondo del lavoro senza che i ministri della sinistra radicale sappiano nulla?». Dunque, «se c'è un programma che non è più attuale, perchè non ricontrattarlo punto per punto con tutti?». E' anche una risposta a Bonelli, esplicito nella critica alla strategia di Rifondazione sulle pensioni. «Mi convince però la mobilitazione d'autunno per trovare punti di contatto e creare un clima di partecipazione - aggiunge il Verde - ma se lo dobbiamo fare, dobbiamo evitare ulteriori conflitti nel governo. Io immagino una stagione con capacità riformiste, con una sinistra che sappia modernizzarsi e fare proposte».
A Bonelli e Mussi replica anche Diliberto: «Ogni volta che viene toccato un diritto, alla sinistra viene chiesto il senso di responsabilità, ma così si rischia di smarrire il senso della missione sociale della sinistra, cioè lo stare dalla parte dei subalterni». Quindi, «continueremo ad esercitare il senso di responsabilità, ma lo chiediamo anche agli altri. Siamo d'accordo sul fatto che aprire una crisi di governo da sinistra vorrebbe dire fare un regalo a chi vuol far cadere il governo, ma non vedo contraddizione tra l'essere al governo e lottare contro i provvedimenti che non condivido». Perciò la battaglia si dispiegherà su due fronti: «A colpi di emendamenti in Aula su welfare e pensioni e con la mobilitazione sociale fuori dal Parlamento per dare un educato e positivo scossone al governo per il suo bene: sennò potrà anche durare, ma senza consensi». L'autunno «sarà di lotta e di governo».
«Non uso la stessa espressione per scaramanzia», scherza Giordano che sottolinea la necessità di un'operazione culturale a sinistra, riprendendo e rovesciando il ragionamento di Mussi sull'opportunità per la sinistra di concentrarsi sulla qualità del lavoro più che sulla sua fine (pensioni ed età pensionabile). «Dobbiamo discutere del rapporto tra tempo di vita e tempo di lavoro - dice il segretario del Prc - perchè una maggiore aspettativa di vita non sia consegnata automaticamente al lavoro, altrimenti la politica rischia di diventare l'ancella dei processi di valorizzazione del capitale». Il punto per Giordano è che questo governo, sotto la pressione dell'imprenditoria, «rischia di posizionarsi negativamente sia sul tempo del lavoro che sulla sua fine». Come dimostra il protocollo Damiano sul welfare: «E' caduta la foglia di fico: chi sbandierava gli interessi dei giovani sulle pensioni, adesso non li difende dalla precarietà e dalla legge 30». C'è materia per battaglie comuni.

Liberazione 25.7.07
Il progetto neogollista illustrato da Veltroni al "Corriere"
La democrazia è in crisi: aboliamola...
di Piero Sansonetti


Ieri Walter Veltroni ha pubblicato sul Corriere della Sera un proclama che riassume la sostanza del suo pensiero e del suo progetto politico. Indica la via da seguire al Partito democratico, e delinea un abbozzo di "Italia del futuro", come piace a lui, come l'immagina. E' un proclama essenzialmente gollista (nel senso che riprende tutte le suggestioni della democrazia autoritaria francese, fondata dal generale Charles de Gaulle negli anni '50), prevede un grande rafforzamento del potere esecutivo e della premiership , con una consistente riduzione del potere rappresentativo del parlamento e dei partiti. Delinea un annullamento del conflitto, della lotta sociale, del ruolo e dei diritti del sindacato. Sostituiti dall'efficienza e dall'ordine della decisione. Disegna una società molto gerarchizzata, la cui riuscita dipende dalla capacità di chi la governa, con metodi forti, autorevoli, certi. Il Corriere della Sera ha dedicato una pagina intera a questo saggio del Sindaco di Roma, che è corredato da 10 proposte, semplici e concrete, di correzioni delle leggi e della Costituzione, che dovrebbero essere i dieci pilastri della terza Repubblica.
Il progetto di Veltroni ha due pregi, indiscutibili: il primo è quello di essere chiarissimo, netto, di rovesciare il luogo comune del Veltroni generico e unanimista. Il secondo pregio è quello di essere perfettamente compatibile con le aspettative e i disegni dei gruppi dirigenti della borghesia italiana. Veltroni offre ai gruppi dirigenti del nostro capitalismo uno schema politico che - per la prima volta dai tempi della Dc - possa ricostruire l'unità tra il potere politico e il potere economico. In che modo? Sfrondando il potere politico dalle sue implicazioni sociali, di classe, di ceto, diciamo dalle sue "radici di massa", e trasformandolo in una macchina funzionante, neutra, capace di adattarsi alle prospettive e agli interessi della "classe vincente". L'Italia di Veltroni è in grado di ricomporre le fratture che in questi anni hanno diviso la borghesia italiana, indebolendone le capacità di governo.
Per questo è fortemente attuale. Ha moltissimo a che vedere con quello che leggete nell'articolo di Andrea Colombo, qui accanto, e cioè con la controffensiva delle classi dirigenti che - quattordici anni dopo la vittoria del 1992 e la normalizzazione sindacale del 1993 - rilanciano, chiedono una nuova affermazione, la resa dei sindacati e il "contenimento" della politica e delle resistenze che esercita.
Le dieci proposte di Veltroni possono essere riassunte così: riduzione del Parlamento; aumento del potere del presidente del Consiglio; bipolarismo, o meglio bipartitismo; sistema maggioritario; corsie preferenziali per le leggi del governo; emarginazione e forte ridimensionamento, anche finanziario, dei partiti (e persino dei giornali di partito); federalismo fiscale e quindi spostamento di ricchezze verso il nord, cioè verso la parte più efficiente del paese. Poi due proposte che si misurano con la questione del consenso: voto ai sedicenni per le amministrative e quote rosa per legge.
L'analisi di Veltroni parte da una constatazione: la crisi della democrazia. Però questa constatazione non è accompagnata da una analisi. Qual è la ragione di questa crisi? Veltroni scrive solo qualche frase un po' vaga sulla globalizzazione e l'internazionalizzazione del potere. Se invece avesse preso in considerazione le elaborazioni di qualche anno fa di due suoi compagni di partito come Alfredo Reichlin e Giorgio Ruffolo, avrebbe potuto ragionare sulla loro teoria che riguarda la separazione tra "potenza e potere". Dicevano Reichlin e Ruffolo che potenza e potere sono le due particelle che compongono l'"atomo" denominato governo. "Appartengono" alla politica. Scindendosi, creano una deflagrazione che rende impossibile il governo. La globalizzazione capitalista ha portato a questa scissione: l'economia ha sottratto alla politica la "potenza", lasciandole solo il potere formale, cioè i riti e la burocrazia del potere ma non più la sua funzionalità. Per questo - dicevano Reichlin e Ruffolo - la democrazia soffre, perché le decisioni vengono prese altrove.
Ora voi capite che se le cose stanno così, ci sono due possibilità: la prima è aiutare la politica a riprendersi il potere, e quindi la democrazia a vivere. L'altra soluzione è quella di rinunciare alla democrazia e consegnare all'economia, che già detiene la potenza, anche il potere, permettendole di esercitare la sua dittatura, finalmente completa e libera dagli ostacoli costituiti dalla democrazia politica, dal libero conflitto sociale, dalla legittimità del sindacato.
Questo secondo è il disegno di Veltroni. Correggere una democrazia malata con l'iniezione di una forte dose di autoritarismo. Risolvere la sempre più difficile convivenza tra democrazia come rappresentanza e democrazia come governabilità, a favore di quest'ultima.
C'è un illustre precedente, in questa storia. Si chiamava Bettino Craxi. Sebbene la Grande Riforma che lui propose alla fine degli anni '70 (tra gli artefici di quella riforma, in un ruolo importantissimo, c'era Giuliano Amato) fosse assai meno drastica, e lasciasse in vita una parte assai più grande della democrazia politica, tuttavia la Grande Riforma Craxiana assomigliava a questo proclama di Veltroni per una ragione essenziale. Era stata concepita come una via d'uscita dalla crisi e un modo per rifondare una sinistra che intendeva recidere tutte le sue radici storiche e di classe e riproporsi come alternativa alla destra, più stabile, più affidabile, con più capacità di governo.
Nell'idea di Craxi, però, questa sinistra avrebbe garantito la mediazione tra borghesia e ceti deboli. E avrebbe anche garantito il primato della politica e la sua piena autonomia. Veltroni, oggi, ritiene che questo non sia possibile: che la politica, per sopravvivere, deve cedere lo scettro all'economia e accontentarsi degli onori del secondo posto. E che, per questa ragione, non sia più possibile una funzione di mediazione tra gli interessi: il compito che deve essere assunto dalla politica è quello dell'organizzazione del consenso che consenta la prevalenza degli interessi dello sviluppo e del profitto sugli interessi dei ceti più deboli. Gli interessi dei ceti più deboli, in questa costruzione teorica, vengono definiti "frammentari" e corporativi. E proprio perché frammentari devono essere "sterilizzati" e trasformati in una variabile dipendente dell'interesse generale che coincide con l'interesse della Classe dirigente. E alla politica spetta la conquista e l'organizzazione del consenso, per conto terzi, cioè per conto di quella Classe dirigente alla quale è restituito il ruolo di guida della nazione.

il manifesto 25.7.07
Sinistra al bivio: o si cambia o è la fine
La «Cosa rossa» si ricompatta contro il protocollo sul welfare. Oltre a Rifondazione e Pdci critici anche Verdi e Sd. Pecoraro Scanio: «Un accordo che sa tanto di muffa». Giordano promette battaglia e Manuela Palermi avverte: «Siamo arrivati al capolinea»
di Alessandro Braga


Roma. In un incontro di pugilato, un «uno-due» così ravvicinato, repentino, preciso, è di quelli che ti mette al tappeto. O, perlomeno, ti costringe alle corde, all'angolo. A quel punto o reagisci d'orgoglio e inizi a tirar fendenti all'avversario, o getti la spugna, o cadi a terra in attesa che l'arbitro conti fino a dieci.
In pochi giorni, il governo e l'ala riformista dell'Unione hanno sferrato un duplice uppercut alla parte sinistra della maggioranza. Venerdì scorso, con l'accordo firmato tra governo e sindacati sulla riforma delle pensioni. L'altra notte, con la firma del protocollo d'intesa sul welfare. L'esito finale della trattativa sulla riforma previdenziale, con l'aut aut di Romano Prodi ai sindacati, in particolare alla Cgil («o firmate, o cade l'esecutivo e vi tenete la legge Maroni e lo scalone») aveva diviso i partiti alla sinistra del nascituro partito democratico: Rifondazione comunista e Pdci a dire che non ci stavano, che avrebbero fatto di tutto per cambiare un accordo che non andava bene. Verdi e Sinistra democratica, dal canto loro, avevano apprezzato nel complesso il documento, sebbene ne sottolineassero alcuni punti di criticità.
Ieri almeno i quattro partiti della sinistra alternativa erano su una posizione comune che, spiegata con termini non propriamente politichesi, era: questo accordo fa schifo. Il ministro Fabio Mussi ieri ha detto che «il protocollo del governo contiene tre parti: previdenza, competitività e mercato del lavoro». Se c'è l'ok da parte di Sinistra democratica alla prima parte, sugli altri punti Mussi avverte che il suo gruppo proporrà, quando il consiglio dei ministri sarà chiamato a discutere e il parlamento a decidere, «soluzioni diverse, più coerenti con il programma dell'Unione». E anche il verde Alfonso Pecoraro Scanio parla di «un accordo che sa di muffa, che non guarda al futuro».
Magra consolazione, questa nuova unità a sinistra, visto che ora si tratta comunque di decidere che fare nel prossimo futuro. Se si ingoia il rospo, l'ennesimo, si può dire che la sinistra di governo sia finita. Nel senso che non esisterebbe in quanto tale all'interno della maggioranza. In questo primo anno di vita dell'esecutivo Prodi, da sinistra, si è cavato poco o nulla: sui diritti civili si era partiti dai Pacs, poi trasformati in Dico, ora Cus; in politica estera, a parte il ritiro delle nostre truppe dall'Iraq, dovuto più a una contingenza storica che a una vera concessione dell'ala riformista alla sinistra, quasi nulla. In Afghanistan i nostri soldati ci stanno ancora, e anzi la scorsa primavera il nostro contingente era stato rafforzato con l'invio di altri elicotteri e mezzi corazzati, oltre a un aumento del numero degli uomini impegnati nella missione.
Se non lo si ingoia, d'altra parte, a non esistere più sarebbe il governo. Che resterebbe senza una maggioranza politica a sostenerlo, a meno di accordi con una parte dell'opposizione, magari proprio quella che citava l'altroieri il diessino Maurizio Migliavacca quando parlava di dialogare con quelle forze del centrodestra «che manifestano posizioni autonome rispetto a chi va alla ricerca ossessiva della spallata al governo».
Il documento sul welfare, che mantiene sostanzialmente intatta la legge Biagi e non elimina la precarietà, così com'è non può essere in alcun modo digerito a sinistra. Ma possibilità di cambiamento si scontrano con la dichiarazione del ministro Damiano, che lo ha blidato: «Non è emendabile». Il fatto di non essere stati parte in causa durante la discussione permette alla sinistra maggior libertà di azione, e il segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano su questo punto è stato chiaro: «Non ci sentiamo legati al rispetto di nulla visto che siamo lontani anni luce dal programma. Sulla proposta si apre un conflitto, e il nostro voto dipenderà dall'esito del conflitto». Conflitto in cui il Prc avrà come alleati anche gli altri partiti della sinistra alternativa, se si tiene fede alle dichiarazioni di ieri. «Il protocollo è inaccettabile, così non si può continuare», ha detto il capogruppo alla camera del Pdci Pino Sgobio. La battaglia è aperta, il rischio è che, come afferma Manuela Palermi, si sia «arrivati al capolinea».

il manifesto 25.7.07
Bertinotti processa D'Alema e Latorre
«No ai privilegi dei parlamentari e allo scontro istituzionale» I Ds non hanno ancora sciolto il nodo dell'autorizzazione


Roma. Più di tutto, a convincere il presidente della camera sono state le parole di Giorgio Napolitano. Quell'intervento sulla gip milanese Clementina Forleo, considerata colpevole di aver espresso giudizi «non pertinenti e chiaramente eccedenti», a lui non è piaciuto e anche se sa che il Prc ha scelto di tenere un profilo basso, lasciando che siano i Ds a fare la prima mossa, Fausto Bertinotti ha scelto la propria. Complici i microfoni di Otto e mezzo ha spiegato che davanti alle intercettazioni scaturite dalle indagini su Unipol, gli onorevoli coinvolti dovranno accettare di sottoporsi al giudizio dei magistrati come chiunque altro: «In questa fase i parlamentari devono dimostrare non solo di essere al di sopra dei sospetti ma di non avere nessun privilegio, nemmeno un'apparenza di privilegio, in modo che la discussione politica possa essere avviata senza elementi che la turbino». Ha accompagnato l'esternazione a un paio di commenti circa la massima stima verso i dirigenti Ds coinvolti dalla vicenda, ma poi ha proseguito criticando le parole venute dal Quirinale: «Bisogna evitare il rischio di un conflitto interistituzionale. Siamo in un momento di crisi politica ma un conflitto tra le istituzioni è un serio rumore di fondo a questa crisi».
La mossa del presidente della camera stringe i Democratici di sinistra in un angolo persino più stretto di quello in cui si trovavano. Qualcuno, nel partito e fuori, si aspettava che nella giornata di oggi avrebbero sciolto il nodo e preso esplicitamente posizione sull'autorizzazione all'uso delle intercettazioni. E invece il dado non è tratto. Marina Sereni, vicecapogruppo alla Camera dell'Ulivo, ha fatto la prima apertura spiegando che i Ds non hanno nulla da nascondere: «Non siamo mai stati né pregiudizialmente a favore né pregiudizialmente contro le autorizzazioni. Si tratta di guardare le carte e diciamo che non abbiamo nulla da nascondere. Ci orienteremo di conseguenza». Ma non è ancora la linea della massima trasparenza che qualcuno attendeva. Anche perché più o meno mentre la vicecapogruppo della Camera spiegava la propria opinione, il virtualmente indagato Nicola Latorre ai microfoni di Radio24 spiegava che sì, lui è «a disposizione della magistratura», ma «prima la giunta e poi l'aula devono valutare con estrema serenità e rigore la documentazione oggetto di questa richiesta, posto che di questo materiale non c'è ancora traccia». Un modo, neanche velato, per evitare il punto che lo tocca più da vicino.
Pur non avendo ottenuto le dimissioni del rivale Antonio Di Pietro, il ministro Clemente Mastella ha dato mandato al suo ispettorato perché acquisisca le ordinanze firmate a Milano, in particolare quella che tira in ballo D'Alema e Latorre. Non una ispezione, dunque, ma una valutazione degli atti passata la quale il guardasigilli deciderà se archiviare il caso, inviare gli ispettori nel capoluogo meneghino oppure inviare la propria segnalazione al procuratore generale della cassazione Mario Delli Priscoli che, attraverso una procedura tutta interna al Csm, ha ricevuto tutto ieri tramite il presidente della corte d'appello di Milano, Giuseppe Grechi.
Tutte mosse che piacciono poco al ministro per le infrastrutture Antonio Di Pietro. Incurante delle proteste del collega ha insistito anche ieri: «Nessuno tenti di fermare le indagini e il parlamento dia la possibilità al giudice di decidere con tutte le carte in mano».

il manifesto 25.7.07
I concetti di Gramsci al filtro delle lingue straniere
Primo di una serie di annali che intendono offrire una rassegna delle ricerche su Gramsci fuori d'Italia, il volume «Studi gramsciani nel mondo 2000-2005» a cura di Giuseppe Vacca e Giancarlo Schirru rivela l'attenzione internazionale rivolta ai «Quaderni». Anche se, come nota nel suo contributo Marcus Green, non mancano letture incomplete e fraintendimenti
di Guido Liguori


La fortuna di Gramsci nel mondo, e la rilevanza numerica dei contributi su Gramsci in lingua inglese (dovuta ai cultural studies e ai subaltern studies, per i quali egli è forse il massimo autore di riferimento), è un dato acquisito, come è stato dimostrato - in questo settimo decennale della morte - anche dal convegno internazionale organizzato dalla Fondazione Gramsci in collaborazione con l'International Gramsci Society su «Gramsci, le culture e il mondo» lo scorso aprile; e dal convegno della stessa Igs su «Antonio Gramsci, un sardo nel "mondo grande e terribile"», che si è svolto a maggio in Sardegna con la partecipazione di oltre sessanta studiosi, di cui la metà provenienti dall'estero (una decina dagli Stati Uniti, sei dall'Australia, cinque dal Brasile; e altri dal Regno Unito, dal Canada, dalla Romania, dalla Francia, dal Messico, dal Giappone).
Se si va al di là del dato quantitativo, quali sono i temi gramsciani che più hanno diffusione al di fuori del nostro paese? Un contributo di conoscenza è dato da una pubblicazione della stessa Fondazione Gramsci, Studi gramsciani nel mondo 2000-2005, a cura di Giuseppe Vacca e Giancarlo Schirru (il Mulino 2007, pp. 345, euro 24,50), primo di una serie di annali che si prefiggono di offrire una rassegna degli studi su Gramsci scritti fuori d'Italia. Un comitato scientifico quale quello che presiede alla pubblicazione - con studiosi che operano in Francia, Giappone, Stati Uniti, Russia, Messico, Germania, oltre che in Italia - può monitorare l'evolversi degli studi su scala internazionale e operare una selezione di qualità. L'osservazione che si può fare è solo quella della necessità di allargarlo a esponenti di altre aree geoculturali: l'assenza di rappresentanti di realtà come quella brasiliana e quella australiana sono pecche alle quali non sarà difficile porre rimedio.
Il volume in questione è composto da undici saggi, scelti con un duplice criterio: alcuni per il valore di rappresentatività dei contesti culturali dai quali provengono; altri quali contributi specialistici di oggettiva rilevanza. Sul primo versante, gli scritti di Michaelle Browers su «società civile» e «intellettuale» nel mondo arabo, di Markus Bouillon sul declino del processo di pace in Medio Oriente, di Rupe Simms sulla Black Theology in Sud Africa e di Claire Cutler sulla concezione gramsciana del diritto globale hanno un valore soprattutto documentario.
Indubbiamente interessante è lo scritto di Amartya Sen sui rapporti di Sraffa con Gramsci e con Wittgenstein: il premio Nobel ricorda come Sraffa abbia influenzato la svolta teorica tra il Tractatus e le Ricerche (il fatto era noto), ma anche mette in rilievo come le idee sul linguaggio dell'economista italiano fossero quelle del suo amico Gramsci. Tesi affascinante anche se un po' aleatoria.
Certo la collocazione di Gramsci in un consesso di tale livello - tra Wittgenstein e Sraffa - già di per sé aiuta a spiegarne la statura e l'enorme influenza del lascito intellettuale, rispetto alla quale persino l'accademia italiana inizia a mostrare qualche crepa: il successo del Centro interuniversitario di studi gramsciani, promosso dalla Igs Italia e presieduto da Pasquale Voza, ne è un chiaro sintomo.
Altri autori presenti nel volume sono nomi molto noti nel panorama degli studi gramsciani - da Joseph Buttigieg, curatore dell'edizione inglese dei Notebooks, a Juan Carlos Portantiero, da poco scomparso, antesignano con Aricó degli studi gramsciani in Argentina; da Dora Kanoussi, che in Messico ha portato a termine la traduzione in spagnolo dell'edizione critica dei Quaderni e poi le Lettere, al newyorkese Benedetto Fontana, uno dei migliori studiosi di teoria politica che si occupano di Gramsci. Accanto a essi, alcuni dei più promettenti studiosi delle nuove leve, quali lo statunitense Marcus Green e l'inglese Adam Morton. Il ventaglio dei temi è ampio: si va dal Gramsci lettore di Machiavelli di Portantiero al Filosofo democratico: retorica come egemonia di Fontana, dalla Introduzione alle Lettere della Kanoussi alla teoria della nascita dello Stato moderno tentata da Morton con una strumentazione marxiana e gramsciana. Sono però gli scritti di Buttigieg e di Green a riportarci maggiormente alle considerazioni dalle quali siamo partiti: quali sono i concetti gramsciani oggi più usati nel mondo? I saggi dei due autori sono imperniati sulle due architravi di questa fortuna, che essi sottopongono ad argomentata critica, opponendovisi dall'interno: il concetto di «società civile» e quello di «subalterno». Buttigieg critica la concezione di società civile attribuita a Gramsci prevalente nel mondo anglofono, fondata sulla visione binaria Stato/non Stato tipica della tradizione liberale ma - sottolinea Buttigieg - estranea a Gramsci, che col concetto di «Stato integrale» vede invece come un unico filo di potere attraversi e unisca dialetticamente entrambi.
Non solo, Buttigieg mostra come l'analisi gramsciana trovi una riprova proprio negli Stati Uniti di oggi, dove le forze conservatrici agiscono per formare l'opinione pubblica nella società civile in tutt'uno con la loro azione nelle amministrazioni repubblicane. Analogamente fa Green per il concetto molto diffuso di «subalterno», che viene da Gramsci e che grande fortuna ha avuto a partire dall'uso che ne ha fatto la scuola indiana cui appartengono fra gli esponenti più noti Ranajit Guha e Gayatri Spivak. Proprio con la Spivak polemizza l'autore fin dal titolo inglese del saggio - purtroppo non conservato nella traduzione italiana - Gramsci cannot speak, contrapposto al celebre scritto della Spivak Can the subaltern speak? L'accusa che egli rivolge alla celebre studiosa di Derrida è quella di aver stravolto il concetto gramsciano, astraendolo dal contesto di lotta per l'egemonia in cui era immesso. Green ci fa capire come Gramsci sia stato letto in modo incompleto, e spesso frainteso, specie dagli studiosi che, non conoscendo l'italiano, spesso non possono leggerlo e studiarlo integralmente.
Insomma, il panorama degli studi gramsciani fuori d'Italia è variegato. Non è solo nel nostro paese che è viva l'attenzione al testo e al contesto storico-culturale, anche se è soprattutto da noi gli studi gramsciani hanno fortemente privilegiato questo versante: penso alle iniziative della Igs Italia - un seminario interdisciplinare sul lessico dei Quaderni che va avanti da diversi anni e che ha già prodotto un libro apprezzato come Le parole di Gramsci (Carocci) e il primo, grande Dizionario gramsciano di prossima pubblicazione; e a quelle della Fondazione Gramsci, come l'edizione nazionale delle opere, di cui è uscito quest'anno il primo volume dei finora inediti Quaderni di traduzione a cura di Giuseppe Cospito e Gianni Francioni per i tipi dell'Istituto della Enciclopedia Italiana; e come l'impegnativo convegno in programma in autunno su «Gramsci nel suo tempo», nonché la grande Bibliografia Gramsciana Ragionata (BGR) a cui sta lavorando un gruppo di studiosi guidato da Angelo D'Orsi.
Non necessariamente questi «due mondi» (quello dello scavo storico-filologico e quello soprattutto volto all'uso di Gramsci) devono essere intesi come contrapposti: il reciproco ascolto è anzi necessario perché si impari da una parte a usare Gramsci senza tradirlo, e dall'altra a studiare Gramsci senza farne un fossile, un «classico» del tutto estraneo alla politica e alla lotta per l'egemonia che egli non solo teorizzò, ma cercò anche sempre di portare avanti in prima persona.

il Riformista 25.7.07
Rifondazione. La proposta
A sinistra più che un referendum servono primarie sui contenuti
di Pietro Folena


L'articolo di Paolo Franchi sul referendum che Rifondazione intenderebbe tenere per decidere se rimanere al governo è pieno di contenuti condivisibili e anche intessuto di un rispetto per l'interlocutore che è purtroppo merce rara tra i riformisti. Anche per questo merita una riflessione da parte di chi, come me, pur non essendo iscritto a quel partito, condivide con esso un percorso politico, quello di Sinistra europea.
Nella mia valutazione ci sono due elementi. Il primo è la condivisione del principio per cui un partito, il suo gruppo dirigente, non decide in solitudine sulle scelte più importanti. Qualcuno sostiene che il leader, quando decide, è solo. Io penso che quando il leader è solo prende le decisioni sbagliate e si condanna a rimanere in solitudine. Quando invece un partito cede il suo potere ai propri elettori, questo è un fatto da salutare come la rottura di un paradigma e il possibile inizio di una stagione differente nel rapporto tra politica e cittadini. Ben venga quindi che il Prc chiami i cittadini e gli elettori a scegliere. Se lo facessero tutti i partiti oggi non parleremmo di crisi della politica, almeno nei termini attuali.
I problemi, però, sono due, uno a monte e uno a valle. Quello a monte è che a una decisione del genere si poteva non arrivare affatto, se la sinistra, non solo il Prc, avesse raccolto per davvero l'appello di Fausto Bertinotti all'unità. Invece ci siamo incartati in discussioni interne, riflessi identitari, esegesi a volte ridicole sul vero significato delle parole del presidente della Camera. Malgrado lo sforzo generoso che Franco Giordano e il gruppo dirigente hanno condotto sulla strada dell'unità, evidentemente questo sforzo non è stato ancora sufficiente.
Per non parlare dei ritardi, colpevoli anche se non dolosi, nel percorso. Uno per tutti: dopo l'assemblea dei parlamentari, non ci siamo più riuniti. Questo ha portato a far saltare nei fatti il patto di unità di azione che davanti al primo banco di prova non è riuscito a produrre non dico l'azione, ma neppure la valutazione comune.
Ora pare che le forze di sinistra siano unite contro le proposte del governo sulla revisione della legge 30. Speriamo che almeno su questo la massa critica si faccia sentire. Il referendum del Prc, insomma, non avrebbe avuto neppure ragione, a mio parere, se la sinistra avesse marciato unita nella trattativa interna alla maggioranza sulle pensioni. Gli equilibri sarebbero stati differenti e l'esito pure. Del resto occorre dire che quel buono che c'è nell'accordo lo si deve al fatto che Rifondazione ha puntato i piedi.
Il problema a valle, invece, riguarda le forme di questa consultazione. Un referendum su un tema tanto importante non può risolversi in un semplice sì o no. Più che di referendum bisognerebbe pensare a «primarie di contenuto», non solo sulla permanenza al governo, ma sul programma e sul «come» agire nel governo. Personalmente, se mi chiedessero: «Vuoi che la sinistra rimanga al governo nelle condizioni attuali» la mia risposta sarebbe difficilmente un «sì». Rimanere come adesso è impossibile, perché o Rifondazione, Sinistra democratica, Pdci, Verdi, associazioni e movimenti si uniscono e fanno massa critica oppure la loro presenza al governo sarà sempre più ininfluente. A quel punto essere dentro o fuori poco cambia per i lavoratori, i giovani e i pensionati. Se invece la domanda fosse: «Vuoi che la sinistra rimanga nel governo, si unisca e ottenga scelte sociali differenti», allora la mia risposta sarebbe un «sì» convinto.
Ancora. Chi parteciperà a questo referendum e dove si voterà? È una questione decisiva. A Genova, alla riunione della Sinistra europea, ho posto con chiarezza questo problema. La quantità dei coinvolti fa la qualità della consultazione. Se si trattasse - e ancora non è chiaro - di un referendum tra i soli iscritti sarebbe una scelta sbagliata e deflagrante per l'intera sinistra. Non credo che i soli iscritti e militanti di un partito abbiano la piena disponibilità della permanenza di quel partito nel governo. Una forza politica, presente in parlamento e nell'esecutivo, lo è perché è stata votata da centinaia di migliaia o milioni di elettori. E allora questo referendum, per avere un senso e anche una validità, deve essere aperto a tutti gli elettori, svolto per strada, nelle piazze, non nelle sezioni o nelle Feste di Liberazione (lo dico con rispetto per le une e le altre). Insisto: questo è un punto che ancora non è stato sufficientemente chiarito. Ed è un punto dirimente, per ragioni sin troppo evidenti. Da questa scelta dipenderebbe anche l'esito del percorso di unità, oltre che le scelte di Uniti a Sinistra.
Insomma, non vedo nulla di male, anzi, nel fatto che il Prc decida di fare questa chiamata del proprio popolo. Io stesso nelle settimane passate avevo auspicato le primarie di progetto e di xxx. A patto che sia vera, partecipata e che qualsiasi sia l'esito - non ho paura a confrontarmi su questo - essa sia capace di cambiare in profondità la strategia. Se il referendum - che preferirei pensare come primarie sui contenuti - si farà e mi sarà data la possibilità di parteciparvi, farò campagna per una decisa virata nelle linee sinora adottate tanto verso il governo che verso l'unità a sinistra, per cambiare la prima nel senso di una maggiore incisività e l'altra nel senso dell'abbandono di ogni reticenza e ritardo. Che poi, a ben vedere, sono la stessa cosa.
portavoce di Uniti a sinistra
www.pietrofolena.net


Repubblica 25.7.07
Wajda e l'eccidio di Katyn
I Russi in Polonia


L'uscita è prevista per il 17 settembre anniversario dell'aggressione sovietica
Il regista racconta il massacro in un film dai risvolti autobiografici
"Mio padre fu trovato nelle fosse, anche se allora credemmo che la responsabilità fosse dei nazisti. Negli anni '50 ho saputo la verità"
"Stalin voleva eliminare le élites intellettuali più influenti e tutti quelli che avevano partecipato alla guerra del 1920"

VARSAVIA. Per chi si dedica oggi al triste esercizio di voler stabilire se sia stato il nazismo oppure lo stalinismo ad avere raggiunto il più alto grado di atrocità del ventesimo secolo, il caso di Katyn appare emblematico. Nel rimbalzarsi la responsabilità dell´esecuzione segreta, perpetrata nella primavera del 1940, di decine di migliaia di ufficiali polacchi prigionieri di guerra, in una foresta russa non lontana da Smolensk, sovietici e nazisti rivelano, infatti, al di là delle loro ideologie, la potenziale interscambiabiltà dei loro crimini e delle loro menzogne.
E´ solo nel 1992, quando ormai l´URSS non esisteva più, che il presidente russo Boris Elstin offriva al presidente polacco Lech Walesa l´ordine scritto dato da Stalin alla NKVD di sopprimere 27.700 cittadini polacchi - colpevoli di combattere contro l´invasione nazista e «nemici incorreggibili «del potere sovietico». Ammissione tardiva di una verità di cui i polacchi, nonostante la censura comunista, erano al corrente da molto tempo. Era infatti in nome non già della razza ma della lotta di classe e di un preciso calcolo politico che un´intera élite era stata seppellita nelle fosse comuni di Katyn, privando così la Polonia della guida di buona parte della sua classe dirigente tradizionale.
Per più di mezzo secolo, dunque, la Polonia sovietica ha dovuto vivere questo immenso lutto nazionale sotto il segno della censura e della menzogna, ed ora che la verità su Katyn ha smesso di essere un argomento tabù ed è entrata nei libri di storia, vi era bisogno di un drammaturgo capace di evocarne l´intera tragedia, consentendone la catarsi collettiva.
Non è sorprendente che sia Andrzej Wajda ad avere raccolto la sfida con Post Mortem. Storia di Katyn, un film (tratto dal libro di Andrzej Mularczyk) la cui preparazione ha impegnato il regista per anni e di cui, non a caso, è prevista l´uscita il 17 settembre, ricorrenza dell´anniversario dell´aggressione della Russia alla Polonia del 1939. Chi, in effetti, più del maggiore e più famoso cineasta polacco aveva le carte in regola per affrontare la vicenda di Katyn? Nel corso della sua vastissima opera costellata di capolavori Wajda non ha forse raccontato in modo esemplare tanto gli avvenimenti tragici dell´ultima guerra - l´occupazione e la resistenza in Generazione e in I dannati di Varsavia, il ghetto in Il dottor Korczak - , quanto la lotta condotta nel dopoguerra dal suo popolo per la libertà con film come L´uomo di marmo e L´uomo di ferro?
Ma è a Wajda stesso che abbiamo chiesto di illustrarci le ragioni della sua scelta. E se la drammaticità e la delicatezza dell´argomento affrontato e la grande aspettativa che incombe sul film non sembrano apparentemente fare breccia nella corazza di cortese riserbo del grande regista, si avverte molta tensione nelle sue risposte. Seduto su una poltrona davanti a me, l´elegante, fragile signore ottantenne che è da tempo entrato nella leggenda del cinema, soppesa le parole, come se ne bastasse una sbagliata per rendere la verità di Katyn indicibile.
Signor Wajda, perché un film su Katyn oggi?
«Per due ragioni. In primo luogo perché fino ad oggi la cinematografia polacca non aveva realizzato un film su questo avvenimento. Un avvenimento che ritengo capitale per noi, non solo dal punto di vista storico ma dal punto di vista dell´esperienza spirituale di tutta la nazione e che, dunque, doveva assolutamente trovare la sua traduzione nel cinema. In secondo luogo per una ragione personale: mio padre faceva parte degli ufficiali che furono vittime del massacro».
All´epoca di Katyn lei aveva diciott´anni. Quando e in che modo è venuto a conoscenza di quel che era successo e come ricorda di avere vissuto personalmente la tragedia?
«La mia famiglia ed io l´abbiamo saputo esattamente come tutti gli altri, vale a dire durante l´occupazione. I tedeschi pubblicarono le prime informazioni sui loro giornali subito dopo la scoperta delle fosse di Katyn nel 1943. Ed è su questa lista tedesca che la mia famiglia ha trovato il nome di mio padre.
Personalmente ho vissuto l´eccidio di Katyn attraverso la tragedia di mia madre che, fino a qualche anno prima di morire, non ha mai potuto credere che suo marito non sarebbe più ritornato».
Allora si sapeva già che erano i sovietici ad essere responsabili del massacro?
«Debbo riconoscere che noi stessi, vista l´esperienza di mia madre, della mia famiglia e, in generale, dei polacchi, abbiamo creduto alla responsabilità dei nazisti. Conoscendo già il loro comportamento da assassini in Polonia, sapendo di cosa erano capaci, abbiamo pensato di trovarci davanti a una manipolazione tedesca. E´ soltanto negli anni Cinquanta, nel corso di un mio soggiorno a Parigi, che per la prima volta ho avuto modo di venire a conoscenza dei documenti riguardanti Katyn pubblicati da Kultura, la rivista dei dissidenti polacchi in esilio. Ed è allora che mi sono reso chiaramente conto che si trattava di un massacro sovietico».
Quali sono i motivi che hanno indotto i sovietici a perpetrare questo immenso crimine?
«A mio avviso ci sono delle ragioni precise per cui l´Unione Sovietica ha agito in questo modo. Innanzitutto Stalin voleva privare la Polonia delle sue élites intellettuali più attive e influenti. Non bisogna dimenticare che la maggior parte degli ufficiali assassinati erano militari di riserva e non di mestiere - medici, avvocati, professori, oltre a numerosi preti e rabbini - e né Stalin, né i suoi accoliti ritenevano possibile «convertire» questo tipo di persone al nuovo sistema ideologico. Inoltre i militari che hanno trovato la morte a Katyn avevano partecipato alla guerra del 1920. Erano loro che avevano difeso vittoriosamente Varsavia dall´offensiva dell´armata rossa. E questo smacco si era impresso a caratteri di fuoco nella memoria di Stalin, condizionando psicologicamente tutto il suo comportamento successivo. Vi era in lui la volontà di sopprimere i colpevoli della sua precedente disfatta. D´altronde, di per sé, il massacro di Katyn non è un avvenimento senza precedenti nella storia dell´URSS. Esattamente negli stessi luoghi erano già state sepolte un gran numero di altre vittime - in questo caso russi che si opponevano allo stalinismo - massacrate nel 1935, nel 1936, nel 1937».
Sovente, nei suoi film - penso, ad esempio, a L´uomo di marmo (1976), o a Sotto anestesia (1978) - lei ha affrontato il tema della manipolazione della verità da parte del potere. Il modo in cui il delitto di Katyn è stato dissimulato non ne costituisce un terribile esempio? Gli alleati, che pure sapevano chi erano i veri colpevoli, non vollero denunciare i russi per non compromettere l´alleanza con Stalin contro Hitler, e la Polonia comunista del dopoguerra, sotto la pressione della dittatura sovietica, fece di Katyn un argomento tabù grazie anche al sostegno di un certo numero di intellettuali che si rifiutavano di considerare Stalin alla stregua di Hitler. Non è così?
«In effetti, sì. Durante tutto il periodo della repubblica popolare polacca non vi è stato un solo momento in cui il potere sia stato disposto a dire la verità su Katyn. Nessun film sull´argomento ha potuto vedere la luce. Le autorità ritenevano comunque che nessuna produzione cinematografica pro - sovietica sarebbe stata in grado di convincere il pubblico e che di conseguenza era meglio evitare di affrontare la questione. Dunque niente libri, niente film, niente articoli, niente dibattiti. Di fatto il silenzio su Katyn ha costituito un ostacolo gravissimo per le relazioni polacco-sovietiche e ha continuato a pesare drammaticamente sul corso degli ultimi cinquant´anni della nostra storia.
Ricordiamoci che subito dopo la vittoria del 1945, Mosca ebbe la diabolica idea di istruire in Polonia un processo in cui si faceva ricadere la responsabilità di Katyn sui tedeschi. Le amministrazioni competenti incominciarono a raccogliere la documentazione necessaria, ma l´idea venne poi abbandonata perché Stalin decise di portare il caso davanti al tribunale di Norimberga per mondare davanti all´opinione internazionale l´URSS da ogni sospetto.
Oggi sappiamo che il procuratore sovietico che aveva osato suggerire a Stalin di astenersi dal presentare il dossier a Norimberga, venne assassinato il giorno dopo dal KGB, anche se poi il dittatore finì per rinunciare al suo progetto.
Qualche anno fa, al momento dell´uscita di Enigma, molte personalità polacche hanno protestato contro il film che raccontava, per l´appunto, della scoperta fatta dagli alleati della colpevolezza russa del massacro di Katyn grazie al lavoro di decodificazione degli ascolti radio svolto dagli ingegneri polacchi. Nel film uno dei tecnici polacchi era talmente sconvolto dalla decisione delle autorità britanniche di occultare la notizia per non lasciare trapelare di avere scoperto il codice usato dai nemici da decidere di passare dalla parte dei tedeschi. Le sembra una storia plausibile?
«Le proteste - che mostrano quanto questa storia continui ad essere dolorosa e importante per i polacchi - dipendevano dal fatto che i miei compatrioti pensavano che quel film tradisse la verità tanto sul ruolo avuto dai polacchi nella scoperta della chiave di decodificazione di Enigma quanto sulle conseguenze che ne erano derivate nel corso della guerra.
Una cosa va detta: l´atteggiamento degli alleati davanti al massacro di Katyn ha gettato un´ombra fra la Polonia e le democrazie occidentali, perché il loro atteggiamento è stato percepito come un autentico tradimento. Questa è, d´altronde, una delle ragioni per cui, a partire dal 1945, quando già si sapeva chi erano i veri responsabili del massacro, una parte della élite intellettuale polacca ha optato per il comunismo».
Ma non era una scelta contraddittoria?
«Non necessariamente. I polacchi avevano capito che gli alleati li avevano abbandonati in balia di Stalin. Di colpo, rimasti soli a fronteggiarlo, profondamente delusi dall´Occidente, alcuni di loro si erano rassegnati a considerare il sistema come l´unica realtà possibile».
E lei come ha deciso di raccontare questa terribile storia nel suo film?
«La sceneggiatura doveva prendere in considerazione due fattori: il crimine di Katyn e la menzogna di Katyn. Ora, mentre l´evocazione del crimine richiedeva un film d´azione, la ricostruzione della menzogna doveva avvalersi delle modalità narrative proprie di un film psicologico. Ed è così che è stato costruito il film.
L´inizio mostra gli ufficiali polacchi presi prigionieri dai sovietici e la loro vita nel campo di internamento; la fine è la ricostruzione del massacro nella foresta di Katyn nella primavera del 1940. Invece la parte centrale del film si svolge nel 1945, a Cracovia, sotto l´occupazione dell´esercito sovietico, e mostra le famiglie delle vittime di Katyn in preda all´angoscia che indagano e si interrogano sulla credibilità della versione ufficiale russa che sosteneva che il massacro era stato commesso dai nazisti nel 1941. Che cercano, insomma, in tutti i modi di scoprire la verità».
Che cosa rappresenta Katyn per la Polonia di oggi?
«La memoria della strage è radicata nel popolo polacco e gli anni di menzogne hanno contribuito a trasmetterla intatta alle generazioni successive al 1945. Tuttavia, da quando, nel 1989, la Polonia ha ritrovato la libertà il suo ricordo è meno vivo nei giovani. Di qui la necessità di rinvigorirlo puntando sulle date più importanti di quel periodo, a cominciare dal 17 settembre 1939, la data dell´invasione delle forze armate russe in Polonia in virtù del patto Rebentropp-Molotov».
Tempo fa lei ha dichiarato: "non ho cercato di evocare gratuitamente delle epoche trascorse, delle grandi figure, delle battaglie, insomma tutto ciò che chiamano storia. Ho tentato, al contrario, di descrivere degli esseri di carne e di sangue travolti dal corso della storia. Sono piuttosto i loro destini a darci il senso della storia".
«Questa affermazione vale anche per Post Mortem. Storia di Katym. Ancora una volta non si tratta di una ricostruzione cinematografica di eventi storici ma di una trascrizione di destini umani. E tra questi destini c´è anche il ricordo di quello di mia madre che non ha mai voluto accettare la verità ed ha continuato a sperare nel ritorno di mio padre».
Nel corso degli anni, per definire il suo stile, i critici hanno via via fatto ricorso ai termini di realismo, neorealismo, barocco, preziosismo, simbolismo. Quale le sembra oggi il più appropriato?
«La mia evoluzione è andata di pari passo con il cinema europeo di cui faccio parte. Nel corso di questi cinquant´anni ho sperimentato stili e correnti diverse. A cominciare dal neorealismo italiano di Rossellini. Ho cercato di trovarvi di volta in volta il mio posto man mano che apparivano nuovi temi e nuovi stili e che il pubblico cambiava. Tuttavia mi sono sempre sentito «al servizio» dei temi e degli autori che volevo evocare nei miei film».
Si può parlare, al di là di tutte queste metamorfosi, di uno «stile Wajda»?
«Quello che potrei indicare come elemento caratteristico di tutti i miei film e l´importanza delle immagini. Faccio un uso relativamente ridotto dei dialoghi per consentire una maggiore «visualità». Eppure anche le immagini, non meno delle parole, possono trasformarsi in ostacoli, costrizioni. Faccio dunque sempre molta attenzione a far sì che ciò non avvenga e sono sempre alla ricerca di immagini comprensibili a tutti, di immagini universali».

martedì 24 luglio 2007

l'Unità 24.7.07
Fabio Mussi. Il leader di Sinistra Democratica prende le distanze dalle critiche alla riforma previdenziale di Rifondazione comunista e Pdci

«Non è stato un colpo di testa, lo scalone di Maroni andava superato»


L’unità a sinistra è un progetto che traballa prima ancora di essere compiuta. Franco Giordano, segretario Prc, critica duramente l’accordo governo-sindacati sulle pensioni, mentre Oliviero Diliberto, Pdci, promette una calda estate sullo stesso tema. Fabio Mussi, Sd, ministro dell’Università e della Ricerca controbatte: «Sarebbe un errore imperdonabile se si dovessero creare le condizioni che minacciano l’apertura di una crisi di governo da sinistra».
Ministro, ha letto l’intervista rilasciata da Giordano?
«Sono abituato a considerare le situazioni concrete. Sulle pensioni esistono due leggi in vigore: la Dini che prevedeva la revisione dei coefficienti, cioè la riduzione delle prestazioni pensionistiche; la Maroni, che prevedeva dal 1 gennaio 1998, il salto di 3 anni per tutti i lavoratori. Dunque, occorreva correggerle, in modo favorevole ai lavoratori, non si è trattato di un colpo di testa del governo».
Giordano critica lo scalone...
«Il salto previsto da Maroni viene spalmato in quattro anni, un provvedimento che riguarda qualche centinaio di migliaia di lavoratori che andrà in pensione prima di quanto previsto dalla legge; la quota 97, con i 61 anni di età è prevista per il 2013, previa verifica sullo stato dei conti della previdenza. Attualmente l’età di pensionamento media reale supera i 60 anni. Il giudizio deve essere dato considerando tutti gli aspetti dell’accordo».
Su quali di questi lei ha ancora riserve, o promuove a piene voti?
«Questa partita tra governo e sindacati non è ancora chiusa. Ci sono due aspetti importanti: competitività e mercato del lavoro. Il modo in cui verranno risolte queste due questioni sarà decisivo per la valutazione finale. Non sono d’accordo sugli sgravi fiscali per il lavoro straordinario e ritengo l’intervento sul lavoro a tempo determinato debba essere risolutivo, in grado cioè di contrastare davvero la precarizzazione dei giovani».
Diliberto annuncia battaglia contro la controriforma. Sembra che parliate di cose diverse.
«Analizziamo qualche punto: la pensione di vecchiaia delle donne non viene toccata - anche se l’Europa chiede il contrario - e alla base di questa resistenza italiana c’è una particolare attenzione alla condizione delle donne che, a parità di qualifiche hanno stipendi più bassi e quindi più bassa contribuzione; nella vita lavorano due volte, perché hanno a carico anche il lavoro di cura, una funzione sociale di primario valore. Vengono salvaguardati i lavoratori precoci, quelli con 40 anni di contribuzione e aumentano le finestre di uscita. Per la prima volta viene applicata una tabella dei lavori usuranti, la tabella Salvi allargata. Infine, c’è, sia pure in una forma non perentoria, il minimo del 60% dello stipendio per i i giovani che hanno lavori discontinui. Certo, si poteva fare anche di più, ma il complesso di questi provvedimenti, non giustifica questa opposizione frontale. È una condotta che rischia di far saltare il banco».
Perché, secondo lei?
«Mi preoccupa il fatto che ai fari accesi sulle pensioni corrispondano sempre più spesso luci basse sul tempo di lavoro, sulla qualità del lavoro».
Sicuri di riuscire a fare l’unità a sinistra?
«Sono abituato ad assumermi la responsabilità politica per tenere una posizione quando viene meditatamente presa, per più di 24 ore. Voglio dire a questi compagni che non abbandono il progetto dell’unità a sinistra. Vanno prese sul serio le parole quando sparliamo di unità e rinnovamento della sinistra. E voglio ricordare anche che all’incontro politico del 7 giugno tra Rc, Pdci, Verdi e Sd, ha fatto seguito quello con i segretari delle tre confederazioni sindacali. Lì si è preso un doppio impegno: pretendere che il governo di cui facciamo parte e sosteniamo lavorasse non alla rottura ma a un accordo con i sindacati; e nel caso di raggiunto accordo, che non avremmo giocato al più uno. Poi, Rc ha scartato, mentre in un incontro successivo il Pdci ha confermato questa posizione politica. Sarebbe un errore imperdonabile se si dovessero creare condizioni che minaccino un’apertura della crisi di governo da sinistra».
Sarebbe la seconda volta. Non c’è il pericolo che gli elettori non vi seguano più?
«Stavolta non capirebbero. Si sono già espressi un anno fa, a noi spetta l’assunzione di responsabilità di scelte essenziali per il paese. L’arretratezza sociale italiana non è sul sistema previdenziale. Siamo indietro su altro. Dal tasso di occupazione, soprattutto femminile; ai servizi sociali efficienti per tutti; al livello di qualità della rete delle infrastrutture; università, ricerca scientifica, innovazione tecnologica».

il Riformista 24.7.07
Sd e Rifondazione di nuovo uniti dopo le pensioni
di Alessandro De Angelis


In principio ci fu il patto di unità d’azione tra i gruppi parlamentari. Poi l’annuncio di una manifestazione comune in autunno con lo scopo di ascoltare sul programma il popolo della sinistra (quella «senza aggettivi») e anche di contrastare mediaticamente le primarie del Pd. E, da ultimo, anche una serie di iniziative (comprese feste comuni) sul territorio. La “Cosa rossa” sembrava, fino a qualche giorno fa, sul punto di nascere. Poi l’accordo raggiunto dal governo sulle pensioni, difeso dal grosso di Sinistra democratica (dal ministro Mussi in primis) e bocciato dalla sinistra-sinistra, sembrava costituire, di qui ad ottobre, un possibile ostacolo sul futuro della “Cosa rossa”. O meglio le conseguenze politiche di quell’accordo lasciavano intendere una separazione tra Sd e Rifondazione: prima tra tutte, ça va sans dire, la decisione del Prc di indire un referendum sulla permanenza o meno al governo. Nel day after dell’accordo sulle pensioni sembrava tutto questo. Ma ora i principali fautori della «sinistra senza aggettivi» sono di nuovo accomunati da una parola d’ordine: non drammatizzare. E il cammino unitario, almeno nelle intenzioni, non appare più in discussione. Anzi, la tesi dominante è: se fossimo già stati uniti ci sarebbero stati meno problemi.
Partiamo da Rifondazione. Getta acqua sul fuoco il capogruppo del Prc alla Camera Gennaro Migliore, assai fiducioso sul percorso costituente: «La cosiddetta “Cosa rossa” va rilanciata e proprio questo passaggio difficile lo dimostra. Se avessimo già avuto luoghi di discussione comuni e più cura della prospettiva unitaria, avremmo avuto meno problemi». Nonostante tutto prefiguri una divergenza parlamentare con Sd, Migliore minimizza: «Non credo che alla Camera avremo posizioni differenti. Anzi nella discussione parlamentare rilanceremo l’unità d’azione». E sulla consultazione popolare aggiunge: «Avevamo deciso prima delle pensioni che avremmo consultato i nostri elettori sul bilancio del governo. Fa parte del processo di ascolto del popolo della sinistra».
Così sul fronte di Rifondazione. Non dissimili le valutazioni che si fanno su quello di Sinistra democratica. La capogruppo alla Camera, Titti di Salvo spiega: «Non mi nascondo dietro un dito. Sull’accordo raggiunto c’è un giudizio diverso visto che per noi gli elementi positivi prevalgono su quelli negativi». E sull’appuntamento di ottobre chiarisce: «Noi non abbiamo mai proposto un referendum ma una campagna d’ascolto con un evento finale. Quindi non ci dissociamo adesso perché il referendum sul governo non è mai stata una proposta comune». Ma, nonostante questi distinguo, rilancia con convinzione la prospettiva unitaria: «Serve una sinistra unita e plurale in cui le divergenze possano coesistere. Dobbiamo insistere nel confronto con Rifondazione a partire dal tema del rapporto tra partiti e sindacato». Sulla stessa linea “unitaria” il capogruppo di Sd al Senato Cesare Salvi: «C’è una differenza ma non è la fine del mondo. Questa vicenda mostra come sia nocivo andare ognuno per conto suo. Dobbiamo riprendere il ragionamento sull’unità a sinistra da una prospettiva più generale». E spiega: «Il nodo che viene al pettine è l’insoddisfazione diffusa dei lavoratori verso l’esecutivo. Il confronto quindi deve riprendere su tre temi - il giudizio sul governo, quello sul Pd e quello sul Pse - e produrre valutazioni comuni».
Ma all’interno di Sd ci sono anche voci fuori dal coro. È di tutt’altra opinione ad esempio il vicecapogruppo di Sd alla Camera Valdo Spini, che scandisce: «La permanenza al governo non è in dubbio». E la manifestazione di ottobre, annunciata da Giordano e Mussi prima delle pensioni? «Un conto è un’iniziativa di massa per parlare dell’unità della sinistra e delle prospettive del socialismo del XXI secolo, un conto è un referendum sulla permanenza al governo. A quest’ultimo Sd non è intenzionata a partecipare». Il rischio che una parte di Sd avverte ha un solo nome: isolamento. In una situazione in cui ad ottobre si verificassero due mobilitazioni di segno opposto, le primarie del Pd e il referendum di Rifondazione, Sd non solo sarebbe oscurata dagli eventi (e già questo non sarebbe poco) ma si troverebbe in una posizione difficile da spiegare, alla luce della linea seguita in questi mesi. Forse anche per questo Spini pensa a un “piano b” nel caso in cui la linea Mussi non dovesse portare risultati e lancia un amo allo Sdi: «È indubbio che tra Sd e Sdi ci sia un contrasto di programmi e di mentalità difficile da nascondere. Per superarlo servirebbe un’iniziativa nuova come le primarie». E annuncia: «Convocheremo per settembre il comitato promotore di Sd, per fare un punto della situazione. Non possiamo tenere alla finestra una forza di sinistra del socialismo europeo». E Gavino Angius, nel giudicare «bizzarro e incredibile» il referendum di Rifondazione aggiunge: «Il futuro della sinistra non può essere affidato a una sinistra alternativa e movimentista o a un Pd sempre più di centro. Serve una sinistra di governo di ispirazione socialista».

l'Unità 24.7.07
Caso Welby, lode a un giudice che non ha avuto paura
di Maurizio Mori


«Non luogo a procedere per avere adempiuto al proprio dovere»: inequivocabile e netto è l’esito dell’udienza davanti al Giudice che doveva valutare se rinviare Mario Riccio a giudizio. Lode a un giudice che non ha avuto paura di decidere secondo la legge, semplicemente, e senza quei timori per poteri extra legali che, sul tema, hanno portato molti ad arrampicarsi sugli specchi con interpretazioni da Azzeccagarbugli. Finalmente, adesso il caso Welby si chiude e diventa modello per le migliaia di altri malati che si trovano o si troveranno in situazioni simili. Speriamo che ci siano tanti medici pronti ad adempiere al proprio dovere, e a non lasciarsi spaventare dai mille lacci e laccioli messi in atto dallo sparuto (ma potente) gruppo di vitalisti medici. Già la Commissione medica dell’Ordine di Cremona aveva dichiarato a febbraio che la condotta di Riccio è stata deontologicamente ineccepibile, lasciando credere che qualche riserva poteva essere avanzata per quei medici che avevano rifiutato di dar corso alla volontà di Welby. Ma il vitalismo medico è duro a morire, e qualcuno ha subito dichiarato: «spero nella magistratura», lasciando credere che il giudizio finale spettasse a chi detiene i rigori della legge. Il Giudice delle indagini preliminari di Roma, aveva alimentato la speranza di condanna e le orecchie di alcuni già sentivano il tintinnio dei ferri: il Gip aveva, infatti, rigettato la richiesta di archiviazione del caso proposta dalla Procura - che aveva vagliato la relazione dei periti medico-legali -, e richiesto il rinvio a giudizio di Riccio per omicidio del consenziente, un reato che prevede una pena fino a 12 anni di carcere! Ora il Gup chiude definitivamente questo procedimento, e con grande soddisfazione: non per una qualche scappatoia o scorciatoia, ma perché il medico Riccio ha assolto un proprio preciso dovere professionale.
I soliti vitalisti (quelli che hanno invocato il rigore della legge!) diranno adesso che il diritto italiano è inadeguato e che il giudizio ultimo, quello davvero valido, è quello etico: diranno che sul piano etico resta che l’operato di Riccio è condannabile in quanto forma di eutanasia.
È bene ribadire che è vero proprio il contrario: l’azione di Riccio è sempre stata ineccepibile e giusta proprio sul piano etico. Come ha dichiarato Riccio stesso all’agenzia Ansa il primo di aprile alla notizia della richiesta di rinvio a giudizio: «Non mi aspettavo che il Gip di Roma rigettasse la richiesta di archiviazione, ma resto della mia opinione che sia stato giusto fare quello che ho fatto». C’è in queste parole la consapevolezza nell’adesione alla nuova tavola dei valori che ormai è ampiamente affermata anche nel nostro Paese, tavola che ha come centro l’autonomia del cittadino. Questa si afferma non per la corruzione dei tempi o per via di una singolare cecità bioetica dei nostri concittadini, ma perché la tecnica ha creato situazioni nuove circa la fine della vita, situazioni in cui diventa inevitabile scegliere: in queste situazioni, la scelta sul da farsi spetta all’interessato (in base ai propri valori, visto che la decisione è personalissima e interessa direttamente la persona). Né si riesce a capire come si possa dubitare di questo. Anzi, è giunto il tempo di ribadire che chi ancora ha dubbi in proposito sembra impermeabile alla novità, mostrando di avere una sorta di scorza protettiva la cui spiegazione va rimandata al piano psicologico.
Questa convinzione toglie fondamento a chi, in forza di una sorta di ipergarantismo, aveva previsto (e forse sperato) il rinvio a giudizio per avere poi una tripla conforme assolutoria nei tre livelli previsti dall’ordinamento. Questo - si osservava - avrebbe definitivamente sancito il principio di autonomia e fugato ogni dubbio: ma sarebbe stato davvero necessario? O non sarebbe stata una ripetizione ridondante che troppo peso avrebbe dato a quelle che ormai appaiono come chiare sopravvivenze culturali prive di ogni giustificazione coltivate da pochi irriducibili impermeabili ad ogni argomentazione razionale? Per questo va rinnovato il plauso al giudice che ha ritenuto di non continuare oltre in una vicenda che stava disorientando professionisti e opinione pubblica.
* Presidente della Consulta di Bioetica, Milano e professore di Bioetica all’Università di Torino

Repubblica 24.7.07
L'oncologo Veronesi: sentenza che il Parlamento non può ignorare
"Così il giudice scavalca la politica"
di Carlo Brambilla


Magistrati.Complimenti alla magistratura che ha dimostrato di essere indipendente dalla politica. Un passo in avanti, teniamone conto

MILANO - «Complimenti alla magistratura che ha dimostrato di essere indipendente dalla politica. La sentenza di ieri è un passo avanti di straordinaria importanza di cui tutti dovranno tenere conto».
Professor Veronesi, perché la sentenza è così importante?
«Mentre da nove mesi prosegue stancamente in Parlamento il dibattito partitico sulle legge sul testamento biologico, che tratta proprio il diritto di autodeterminazione del malato, senza riuscire ad arrivare a nessuna conclusione, la magistratura, seccamente, con cinque parole lucidissime, il fatto non costituisce reato, richiama il Paese ai valori della Costituzione. In particolare l´articolo 32 che tratta del diritto alla salute e impone di non somministrare alcun trattamento ad un malato contro la sua volontà, e l´articolo 13, che tratta della libertà personale di tutti i cittadini».
Il principio dell'autodeterminazione viene riconosciuto dalla magistratura, ma non dalla politica.
«Mi auguro che questa sentenza sblocchi finalmente il dibattito parlamentare sulla legge sul testamento biologico. Sappia però il Parlamento che, se anche non si arrivasse all´accordo su una legge, i cittadini potranno comportarsi come se la legge già esistesse, sapendo di essere protetti dalla Costituzione e da una magistratura che ha dimostrato di avere la forza di difenderla».
È giusto quindi che i cittadini comincino a stendere le proprie volontà anticipate in materia di trattamenti di fine vita?
«Certo. Chi vuole lo potrà fare. E pretendere che vengano rispettate, sapendo di avere dei diritti basati su articoli costituzionali prima ancora che su leggi del Parlamento».
Molti politici, soprattutto a destra, temono che questa sentenza possa aprire le porte all´eutanasia.
«Confondere il testamento biologico con l´eutanasia serve a insabbiare il dibattito sui diritti del malato. L´eutanasia è una risposta ad una espressa e lucida richiesta da parte di una persona malata di porre fine alla propria esistenza, perché giudicata non più sopportabile dignitosa a causa della sua malattia. Attraverso il testamento biologico, invece, qualsiasi cittadino, nel pieno delle sue facoltà, può indicare i trattamenti sanitari che intende ricevere o a cui intende rinunciare, nel caso non sia più in grado di prendere decisioni autonome».
In pratica se vuole o no una vita artificiale.
«Esatto. Un´altra definizione che viene data di testamento biologico è «volontà anticipate» (in inglese Living will). Tale volontà può anche, per esempio, escludere a priori l´eutanasia».
Lei resta in ogni caso favorevole all´eutanasia?
«La mia posizione sull´eutanasia è nota. Io credo che oltre al diritto di autodeterminazione alla cura esista il diritto a morire».

Repubblica 24.7.07
Parla Riccio: quell'accusa di omicidio, terribile per un medico
"Sancito un diritto del paziente voglio solo essere dimenticato"
di Enrico Bonerandi


MILANO - Mario Riccio ieri ha preferito non presentarsi in aula: «C'era Mina Welby, parte offesa ma mia amica fraterna, in teoria contrapposta a me, che avrei ucciso suo marito. Situazione kafkiana...». Così l´anestesista cremonese è partito con la famiglia per Grecia, anche se il mare l´ha visto solo dalla finestra, perché tutto il giorno è rimasto attaccato al telefono.
E adesso che è stato prosciolto? «Sono sollevato. Per un medico l´accusa di omicidio è terribile». Riccio si riserva di leggere la sentenza del gup «virgola per virgola», ma già commenta: «Si sancisce che tutte le terapie sono rifiutabili dal paziente, anche quelle salva-vita. Un diritto, che se non può essere esercitato in prima persona, può essere delegato. Quale differenza c´è tra un diritto fatto valere a voce o per iscritto? Nessuna. Il passaggio al testamento biologico sta nelle cose stesse».
«Sembrava a un certo punto che tutti avessero voce in capitolo, tranne il paziente», si sfoga Riccio. Il medico, dunque, ha il dovere di fare quel che il paziente ha deciso? «Tenendo salva l´obiezione di coscienza. Preciso: obiezione di coscienza per l´interruzione di cure preesistenti. Non è che se uno entra in ospedale e non vuole essere intubato, glielo fanno a forza». Ci saranno riflessi su altri casi come quello di Piergiorgio Welby? «In Italia una sentenza non diventa automaticamente legge. Ma non si potrà non tener conto di quello che ha deciso il giudice». «Ora voglio solo sparire dai riflettori», conclude Riccio, che si leva un sassolino dalla scarpa: «Si congratula con me anche il presidente dell´Associazione degli anestesisti, Vincenzo Carpino. Ha un bel coraggio, dopo che mi ha dato in tv dell´assassino!».

il Riformista 24.7.07
Post-Welby. Il caso Lafargue-Marx su «Critica sociale»
La libertà di suicidio difesa da Turati
di David Bidussa


L’articolo 32 della Costituzione italiana recita al secondo capoverso: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». La questione intorno al testamento biologico, in fondo, sta tutta qui. Riguarda la decisione di predisporre il trattamento cui potrebbe essere sottoposto il nostro corpo in caso di incapacità di intendere e di volere. Questo su un piano tecnico. Su un piano di interazione sociale significa comporre tutti e tre gli attori fondamentali della scena: rendere effettivi i diritti dei malati; alleggerire le spalle dei famigliari dal peso delle decisioni più difficili; tutelare l’operato dei medici.
Il problema, tuttavia, non è tecnico. È culturale. Noi abbiamo oggi una discussione aperta sulla questione del testamento biologico perché non siamo in grado di sopportare il confronto con la morte. Non è solo un dato culturale o emozionale, è prima di tutto una condizione mentale. Riguarda l’immagine della morte che coltiviamo; le superstizioni che ci portiamo dietro; il rapporto che abbiamo con il nostro corpo; la nostra convinzione di fede.
Due fenomeni uguali e contrari hanno segnato il vissuto culturale ed emozionale intorno all’esperienza della morte nel corso del Novecento: da una parte la sua industrializzazione; dall’altra l’incapacità di fronteggiarla. La sua industrializzazione ha indotto, per reazione, la centralità dei luoghi della memoria pubblica, laddove la morte di massa si è verificata (campi di battaglia, cimiteri di guerra, ossari, campi di sterminio ecc). In quel caso il contatto con la morte (pur nella sua assurdità) sollecita una riflessione sui percorsi della responsabilità collettiva. Farsi carico di quei morti significa assumere su di sé il peso della storia. Dall’altra parte, invece, il tema è l’incapacità di sostenere le tappe della morte individuale, più spesso la morte per vecchiaia o per lunga malattia. La morte, in questo secondo caso, è un evento difficilmente sopportato perché implica scelte che né il malato terminale né il nucleo della famiglia sono in grado di affrontare. È per esempio il caso dell’abbandono di terapie di contenimento in casi di tumori verso l’adozione di terapie palliative o di accompagnamento.
Il tema non è la morte, ma la decisione intorno ai suoi tempi. In questo caso la questione rientra nel vasto campo della decisione sulla interruzione dell’intervento di contrasto. A ben vedere, al di là del caso specifico, ovvero la liceità di interrompere le cure che consentono ai malati di continuare a vivere, la questione è quella del diritto alla morte come sfera della libertà degli individui, della possibilità della decisione di darsi morte non come patologia (depressione, crisi della persona ecc.), ma come decisione di disporre di sé. Allo stesso tempo legando la propria sorte a quella dei vivi con cui si continua un confronto serrato e conflittuale. In questo senso e forse anche paradossalmente, quella decisione costituisce anche un momento di affermazione di sé.
È esemplare, da questo punto di vista, la decisione e la comunicazione con cui Paul Lafargue e Laura Marx decidono il loro suicidio. È il 26 novembre 1911; i coniugi Lafargue rientrano in casa da Parigi, salutano il giardiniere e si intrattengono cordialmente con la sua famiglia: raccontano del film che hanno visto in un locale della capitale. La mattina dopo, una domenica, sono trovati morti: Paul sdraiato sul letto, vestito, e nella stanza vicina, Laura, seduta in poltrona; la morte era stata provocata da un’iniezione di acido cianidrico. Nel testamento rinvenuto insieme ad altre ultime lettere, Lafargue aveva scritto: «Sano di corpo e di spirito, mi uccido prima che l’impietosa vecchiaia mi tolga uno a uno i piaceri e le gioie dell’esistenza e mi spogli delle forze fisiche e intellettuali. Affinché la vecchiaia non paralizzi la mia energia, non spezzi la mia volontà e non mi renda un peso per me e per gli altri. Da molto tempo mi sono ripromesso di non superare i settant’anni; ho fissato la stagione dell’anno per il mio distacco dalla vita e ho preparato il sistema per mettere in pratica la mia decisione: un’iniezione ipodermica di acido cianidrico».
Filippo Turati su Critica sociale scriveva due settimane dopo, rendendo omaggio alle loro figure: «Questa è la morte che rinnega se stessa. Sempre nei grandi suicidi c’è l’anormale o il fatale, c’è lo sforzo, l’acrobatismo, la fuga o la sfida. Vi è “il gesto”, insomma. Il deluso, lo stanco, il disperato della vita, fuggono a uno strazio non sopportabile. Il martire della fede presume di fare passaggio a una vita migliore. Paolo e Laura Lafargue non hanno mai esitato né dubitato. Non è giusto dire che sono “morti”, che si sono “uccisi”. L’ora parve ad essi scoccata e “sono partiti”. Senza chiudere gli occhi nel terrore e senza rabbrividire».
Partendo da un’altra condizione esistenziale, negli anni ’70 è stato Jean Améry a riproporre il medesimo paradigma, ovvero come diritto a scegliere e a decidere allorché in Levar la mano su di sé. Saggio sul suicidio (Bollati Boringhieri) analizza lo stato d’animo del suicida, difendendo la dignità della morte libera dai pregiudizi del senso comune, negando che il suicidio sia un chiaro indizio di follia, un gesto egoista o immorale. Il suicidio gli appare piuttosto come un ultimo disperato momento di affermazione di sé, un paradossale «Muoio dunque sono». Parallelamente, non accanirsi non è un gesto né beffardo né impertinente, riguarda il diritto di decidere di sé e per sé. Un dato su cui dovremmo riflettere in un’epoca in cui la ricerca del gesto eroico, della esaltazione della vita esemplare induce troppo spesso a negare dei diritti, a contenere la propria individualità in nome di una «pedagogia della vita virtuosa» che non c’è.

Repubblica 24.7.07
Resistenza, altro choc a Verona "Il 25 aprile per i morti di Salò"
Lo chiede la rappresentante di An nominata dal centrodestra al vertice dell'Istituto storico
I partigiani in rivolta "Qui si rischia di tornare ai tempi del nazismo"
di Filippo Tosatto


VERONA - Prima l´incredulità, poi l´indignazione. Ciò che rimane della memoria antifascista veneta reagisce a voce alta allo schiaffo subito a Verona dove, a rappresentarla ai vertici dell´Istituto per la storia della Resistenza, l´amministrazione comunale di centrodestra ha designato il consigliere del Msi-Fiamma Tricolore Andrea Miglioranzi, già condannato per istigazione all´odio razziale, e la collega di Alleanza Nazionale Lucia Cametti. Quest´ultima, nell´auspicare un radicale revisionismo storico, ha esordito auspicando che il 25 aprile siano commemorati «con pari dignità i combattenti partigiani e i soldati di Salò». Una scelta, a dir poco, sconcertante, non fosse altro per i trascorsi di Miglioranzi: 35 anni, a lungo leader degli skinhead scaligeri, ama esibirsi nel gruppo nazi-rock Gesta Bellica il cui repertorio comprende hit che inneggiano al "coraggio dei gerarchi del Terzo Reich". «In passato, proclamarmi fascista mi è costato il carcere - fa sapere Miglioranzi -, ma ora farò sentire la voce dei vinti, di tutti quelli che dal 1945 a oggi sono stati imbavagliati dai vincitori».
Toni imbarazzanti per lo stesso sindaco leghista Flavio Tosi, che si sforza di gettare acqua sul fuoco: «Non è stata una mia decisione, i candidati sono stati indicati dai capigruppo della maggioranza e nominati dal consiglio comunale. Aggiungo che dai verbali della seduta non emergono obiezioni di rilievo da parte dell´opposizione. Si tratta di persone preparate, certo con idee politiche diverse rispetto ai responsabili dell´Istituto, ma proprio questo potrebbe favorire un confronto positivo. Non si tratta di riscrivere la storia ma di approfondirla in una visione pluralista».
Amare e durissime le reazioni sul versante resistenziale. «Il periodo che stiamo attraversando è peggiore di quello di Hitler», esclama Vittore Bocchetta, 89 anni, un partigiano sopravvissuto ai lager nazisti «perché sono venute meno la memoria storica e la capacità di distinguere tra vittime e carnefici». Sferzanti i commenti degli storici di sinistra: «È come nominare un pedofilo conclamato nel gruppo dirigente di un asilo - dichiara Emilio Franzina che dell´istituto veronese è il presidente onorario - Con questi signori non ho intenzione di interagire perché nulla, dalla cultura al linguaggio, ce lo consente». «La definirei una provocazione blasfema, suggerisco a tutti i componenti dell´Istituto di dimettersi in segno di testimonianza civile», gli fa eco Silvio Lanaro.
Anche i diessini esprimono «sbalordimento» nelle parole di Samuele Mascarin: «Chiediamo al sindaco Tosi di revocare la nomina di un esponente della destra neofascista già condannato nel 1996 a tre mesi di carcere per istigazione all´odio razziale», afferma il dirigente della Sinistra giovanile. Di avviso diverso An: «Non capisco lo scandalo, la diversità è il sale della democrazia e il dopoguerra, con il suo carico di odio e veleni, è finito da un pezzo», taglia corto il presidente della destra veronese Massimo Giorgetti.
E l´Anpi? La presidenza veneta dell´Associazione partigiani esprime, com´era prevedibile, la sua contrarietà alle nomine («Un´aperta contraddizione rispetto ai valori fondanti di un arco democratico che va dalla sinistra alla destra monarchica») ma evita i toni da crociata e, anzi, rilancia la sfida: «L´atto compiuto non turberà il serio lavoro di ricerca in corso, ci auguriamo piuttosto che la convivenza con l´Istituto possa indurre i due nuovi rappresentanti del Comune a rivedere il loro pensiero, ispirandolo alla Costituzione repubblicana».

Repubblica 24.7.07
Sarkozismo ovvero l'arte di travolgere i luoghi comuni
di Bernardo Valli


Un leader che è un caso per la sinistra e la destra. Il suo stile farà scuola? Cresce il consenso della gente che di lui apprezza chiarezza, energia e decisionismo

Più che all´ispiratore di una nuova scuola di pensiero (il sarkozismo!), il neopresidente francese mi fa pensare a un uomo politico soddisfatto di sé, senza complessi, la cui felicità sprizza non solo dagli occhi ma da ogni gesto, frase e (chissà!) forse pensiero. Insomma un uomo contento, di buon umore, la cui azione non è frenata dal minimo dubbio. Un uomo in cui l´ottimismo della volontà lascia scarso spazio, almeno in apparenza, al pessimismo di solito aggiudicato (a torto?) alla ragione. Questa è naturalmente soltanto l´immagine offerta da Nicolas Sarkozy, da neppure tre mesi presidente eletto al suffragio universale in uno dei paesi prediletti dalla Storia. Quel che accade in realtà nel suo conscio o inconscio sfugge ovviamente alla nostra curiosità. Gli appartiene. Ma poiché nel passato, nel suo ruolo di ministro dell´Interno, il personaggio non ha nascosto bruschi balzi d´umore, è esploso in collere non trascurate dalla cronaca nazionale e internazionale (come quando chiamò "teppaglia" i giovani delle periferie parigine, o insultò un suo collega, membro del governo), è lecito immaginare che la sua mente (la sua coscienza) sia attraversata anche da qualche ombra.
La politica, lui lo sa bene, è un dramma. È spesso tragedia. Ma lui non lo dà da vedere. E la gente gli è grata. È riconoscente. Si immedesima nel suo corroborante esibito ottimismo. La sua popolarità infatti cresce. Eletto col 53 per cento dei voti raggiunge adesso il 67 per cento dei consensi. Il suo buon umore, accompagnato da un decisionismo ininterrotto, accende entusiasmi. Dà buoni frutti.
Nella civiltà delle immagini un uomo politico che sprizza felicità, che sprigiona ottimismo, che tiene per sé, ben nascosto, l´inevitabile dose di pessimismo della ragione, ha una forza di convinzione superiore a quella dell´uomo politico imbronciato o perplesso. Ai tanti guai quotidiani la gente non vuole aggiungere quelli che le trasmette l´uomo di governo. Quando governa, in democrazia, la politica cerca di piacere, e, per attirare consensi, deve usare le armi della seduzione e del ragionamento.
L´effetto immagine funziona soprattutto all´inizio. E Sarkozy è ancora al debutto. Politologi e sociologi elencheranno altri motivi, più pensati, più complessi, per spiegare l´attuale sarkomania. Ma quel che conta più di tutto, per ora, è, come si dice con un luogo comune, "lo stile".
Lui non nasconde che la conquista del potere l´ha appagato. Lo rende di buon umore. Al punto di dare l´impressione che le responsabilità acquisite con la carica, da altri ritenute schiaccianti, angoscianti, comportino per lui occupazioni amene.
Quando esce da un´agitata riunione con i ministri delle Finanze dell´Eurogruppo ha lo stesso sorriso di quando assiste a una tappa del Giro di Francia. Cronisti ingenui, in buona fede, patiti di storia, tirano in ballo Napoleone. Chi il Primo, chi il Terzo. Qualcuno ha pensato per fortuna a Balzac, del quale Nicolas Sarkozy potrebbe essere un personaggio. La trama del romanzo è la scalata sociale e politica di un francese di prima generazione, figlio di un avventuroso ungherese (di piccola nobiltà) fuggito dal mondo comunista e di una coraggiosa madre discendente da una famiglia greca di Salonicco. Insomma un quasi immigrato, sia pur di lusso. Lui stesso, Nicolas Sarkozy, ama definirsi uno dei tanti "sanguemisti" che popolano la Francia del XXI secolo. Lui è un sangue misto che ha conquistato la Francia per farne una Francia Felix.
La sua Francia è incantata come la Dulcinea di Don Chisciotte. Rientra un po´ nell´estinta tradizione gollista. A Tours, durante un comizio, nell´aprile scorso, ho ascoltato una sua litania in cui la Francia era via via gloriosa e generosa, aperta al mondo e gelosa della propria storia. Insomma una terra appunto incantata, non solo in quanto libera e amata, ma perché pronta ad assumere con orgoglio il proprio passato, qualsiasi esso sia. La Francia va presa tutta, cosi com´è.
Nicolas Sarkozy vuole estirpare i tormenti della Francia che si interroga sui drammi della sua Storia: ad esempio sui crimini del colonialismo e delle guerre coloniali (in particolare quella d´Algeria). Anche per questo egli detesta il maggio ‘68, del quale vuole cancellare dalla società quel che ne resta. Il ‘68 mise tante cose della Storia a nudo. Il neopresidente è allergico a quell´ondata dissacrante di quarant´anni fa.
E´ come se Nicolas Sarkozy non accettasse le tragedie della Storia. Non approva ovviamente i crimini, ma ritiene che sia un errore, sia un esercizio inutile soffermarcisi troppo, rivangarli, inoltrarsi nelle autocritiche, flagellarsi con interminabili mea culpa. Il neo presidente è un pragmatico. Quel che conta è il presente. La difesa dei diritti umani e la lotta contro i totalitarismi sono compiti da esercitare oggi.
Questo invito a ignorare il peso della Storia favorisce la sarkomania in un Paese in cui convivono razze e religioni in più o meno aperta tenzone, anche nella memoria. Si pensi ai cittadini francesi di origine algerina e ai francesi fuggiti dall´Algeria indipendente. La loro lettura del colonialismo non può essere la stessa. È evidente che non si può cancellare la Storia con una colpo di spugna. Né una società può rinchiudere i suoi drammi negli archivi riservati agli specialisti del passato. Ma la ventata di ottimismo provocata dall´elezione del presidente dinamico, contento di se stesso in un mondo di scontenti, crea l´illusione che le coscienze si siano cosi alleggerite del passato. E´ un bel sollievo, sia pure effimero.
Nicolas Sarkozy ama rimescolare le carte, violare i confini politici, collocarsi al di sopra delle parti. Il suo ruolo di presidente "di tutti i francesi" favorisce questa sua tendenza. Ma già come candidato si appropriava dei personaggi storici della sinistra, esaltando Jean Jaurès e Léon Blum, due icone socialiste. I socialisti scandalizzati denunciavano lo scippo. Ma a molti francesi piaceva quel modo di «faire bouger les lignes», di spostare le linee di divisione, di travolgere le rigide frontiere ideologiche. Soltanto un uomo di destra (della destra democratica) senza più complessi poteva osare tanto.
Nicolas Sarkozy appartiene una specie abbastanza rara: è un conservatore con una gran faccia tosta. Ed è felice di esserlo e di apparire tale.
Il modo in cui recupera personaggi di sinistra per collocarli in posti di responsabilità (come ministri o membri di commissioni di studio) irrita i suoi compagni di centro destra, che si vedono privati di cariche ambite assegnate agli avversari; e al tempo stesso manda in bestia i socialisti, che si sentono vittime di un ecumenismo artificioso. E´ in effetti difficile parlare di un´apertura a sinistra, trattandosi di singoli esponenti, per lo più socialisti, disposti a operare nel quadro di un governo di centro destra. Transfughi isolati, che passano da un campo all´altro? Non sempre. Spesso essi non rinnegano le proprie idee, poiché i compiti assunti riguardano missioni speciali o comitati incaricati di studiare eventuali riforme costituzionali (come nel caso di Jack Lang, ex ministro della Cultura di François Mitterrand).
Nicolas Sarkozy ha una passione: confondere le idee. Travolgere i luoghi comuni. Stupire. Non è di tutti. Lui è un superdotato e ci riesce. Al tempo stesso decide e realizza.
Anche questa è una qualità rara. E´ un aspetto tutt´ altro che trascurabile di quello che un giorno, quando si saranno precisate le cose, figurerà sotto il titolo di sarkozysmo. Molti francesi, e non pochi europei, apprezzano il suo modo spettacolare di abbattere gli steccati ideologici senza in realtà spostarli di un pollice. Lo «stile», come si diceva, conta. Sarkozy ama chi lavora, e pensa che chi lavora di più debba guadagnare di più.
Nutre un amore ("romantico" secondo gli inglesi) per l´industria e per gli operai che vi lavorano. E al tempo stesso conta tra i suoi amici i più grandi patrons di Francia (che producono armi, aerei, articoli di lusso, che controllano la tv privata, larga parte della stampa, l´immobiliare, le assicurazioni.).
Bernard Henry Lévy, un grande elettore di Ségolène Royal, scrive (sul New York Times) che Nicolas Sarkozy è cinico e sentimentale. Parla di tutto e appare un uomo senza memoria. Al contrario di molti suoi predecessori è un ammiratore, quasi senza riserve, degli Stati Uniti. Ma è anzitutto il primo ospite del Palazzo dell´Eliseo a parlare d´amore. Il rapporto (un tempo agitato e adesso esemplare) con la moglie Cécilia contribuisce alla sua popolarità. Le storie sentimentali dei potenti, in particolare se sono o sono state o possono essere burrascose, piacciono e non scalfiscono l´immagine pubblica dei protagonisti.

Marcel Gauchet:
Sarkozy non è gollista né ortodosso né chiracchiano. È liberale, ma non lo è totalmente. Per un periodo incarnava una forma di thatcherismo alla francese, ma ora invece si sta spostando verso il gollismo sociale. Non so chi sia veramente. Ha "aplomb" e tenacia, certamente. Per il resto bisognerà vederlo alla prova. In ogni caso non ha la forza del federatore. E´ una personalità che fa discutere. E´ lontano dalla moderazione caratteristica dell´autorità "super partes", ha un lato reattivo quasi minaccioso. Da questo punto di vista è una personalità che non unisce, ma che divide. La sua base si divide, a lume di naso, in tre strati. Uno popolare, una clientela nelle classi medie e infine ha un forte appoggio nei grandi interessi economici. Lo strato popolare apprezza il suo parlare diretto e la fermezza. La classe media approva il richiamo al principio di responsabilità personale. Infine l´élite economica attende con impazienza la riduzione dello Stato sociale.

Repubblica 24.7.07
L'infatuazione dei nostri politici I chiassosi imitatori italiani
di Filippo Ceccarelli


Chi salverà l´Italia dai pappagalli chiassosi, dai bracconieri faciloni e dai trepidi imitatori accomodanti?
Quanti sarkozisti – per qualche settimana. Berlusconi laudatore scravattato, Tremonti ragionevolmente azzimato, Fini condannato in eterno a rincorrere una destra moderna. Luca di Montezemolo che proclama volontà di "rupture" là dove s´incontrano libertà d´impresa, pensioni, tasse, riforme, e riforme, riforme… Il centrosinistra che scopre la sicurezza; la diffidenza (vedi Bologna) con cui viene accolta tale scoperta; la Turco che pure lei vuole la gente senza cravatta e propone di mandare i cani lupo nei licei e negli istituti professionali.
Nuovo marchio d´Oltralpe: un sarkozismo di seconda mano, vistoso ma adattabile, multi-uso, un po´ parassitario; un modello a doppio fondo e a volte – pare di capire – anche di contrabbando. L´usato insicuro, a occhio. Ma che ci si può fare? Va così, qui da noi. In compenso, dura poco.
Dopo la pallida emulazione blairiana, dopo la tenue scopiazzatura zapaterista, dopo il brivido femminile importato dalla Merkel (e un po´ anche da Segolène), ecco che del fresco vincitore di Parigi gli strateghi di Montecitorio acchiappano gli aspetti più plateali. Senza rendersi conto che in questo modo mettono a nudo incertezze e magagne che più italiane non potrebbero essere: sfiducia, crisi della rappresentanza, culture politiche ormai esauste, invecchiamento e spudoratezza di casta. La mancanza, in definitiva, di un futuro gradevole.
Così l´ennesima infatuazione esterofila, per non dire provinciale, si risolve in una seduta di make-up, o trucco mediatico che dir si voglia. Fra i tanti guai c´è pure quello che i politici italiani non studiano e non viaggiano (come si dovrebbe). E questo non è che li aiuti tanto a capire. Per cui, anche di fronte al fenomeno Sarkozy, si fermano alla prima stazione: arraffano ciò che è piaciuto all´elettorato, secondo loro, e ciò che può servirgli nell´immediato. Ma così gli sfugge il senso completo di quella vittoria.
Poi, per le suggestioni della post-politica, tanti sarkozisti all´italiana applicheranno brevemente la loro fantasia a qualche altro modello, in giro per il mondo. Da qualche parte, del resto, si vota sempre; e c´è chi vince e chi perde (e saranno pure fatti loro).

Repubblica 24.7.07
Pragmatismo, blocco sociale ed egemonia
Quanto Sarkosy serve alla sinistra
di Marc Lazar


A prima vista, Nicolas Sarkozy è diametralmente opposto alla sinistra: l´incarnazione di tutto ciò che per tradizione ha sempre detestato. Un uomo forte e immediatamente sospettato di autoritarismo, «bonapartismo», «cesarismo»; che fa riferimento a De Gaulle, con cui la sinistra ha sempre avuto, quand´era in vita e tuttora, nel suo ricordo, un rapporto ambivalente, di fascinazione e repulsione. Un uomo che a detta della sinistra si è impossessato degli argomenti della destra estrema contro l´immigrazione clandestina e in favore della sicurezza dei cittadini; e che ha traviato, sacrilegio dei sacrilegi, alcuni esponenti della sinistra per impegnarli nel suo governo o nominarli a posti di responsabilità, inasprendo così la crisi in cui versa il partito socialista dopo la sua sconfitta alle presidenziali. Infine, un presidente della Repubblica che porta avanti senza complessi una politica di destra.
Ma la sinistra non può continuare la sua sterile politica di demonizzazione di Sarkozy, che peraltro non le è bastata per batterlo alle presidenziali. Insistendo su questa linea si metterebbe in contrapposizione frontale con l´opinione pubblica. Se infatti Sarkozy è stato eletto all´Eliseo col 53% dei voti, oggi i francesi che approvano la sua azione di presidente hanno raggiunto il 65%. La sinistra dovrebbe piuttosto cercare di comprendere le ragioni di questo successo, e trarne eventualmente qualche insegnamento, non solo a livello nazionale ma anche ad uso della sinistra italiana, che segue con attenzione gli avvenimenti in Francia, pur rimanendo consapevole dei limiti inerenti a quest´esercizio. Sarkozy è unico per definizione. Le sue idee di destra non sono riproducibili a rovescio nello specchio della sinistra; né può esistere un made in France esportabile nella Penisola. In che senso allora la sinistra può trarre insegnamento dall´esperienza di Nicolas Sarkozy?
In primo luogo, è il caso di citare un vecchio precetto della vulgata gramsciana che lo stesso Sarkozy non si stanca di ripetere: la lotta politica dev´essere preceduta dalla conquista dell´egemonia culturale. Se Sarkozy ha vinto, è perché larga parte della società francese ha accolto le sue idee e i suoi valori: il lavoro, il merito, la libertà d´impresa, l´ordine, l´autorità, il rispetto, la solidarietà senza assistenzialismo, la responsabilità, la volontà politica, l´identità nazionale, l´amore per la Francia, il riconoscimento dell´Europa, e infine la condanna delle opinioni libertarie degli anni sessanta. La sinistra deve ora ricostituire l´insieme delle proprie idee e dei propri valori, in sintonia con le attese della società – cosa che peraltro Ségolène Royal aveva tentato di fare nella sua campagna elettorale, ma in maniera maldestra – e diffonderli, anche in contrapposizione a quelli della destra. E deve inoltre elaborare un programma chiaro e coerente. Di fatto, molto prima di lanciare la sua campagna presidenziale Nicolas Sarkozy aveva convocato non meno di diciotto convegni del suo partito, l´Ump, sulle tematiche più diverse: economia, società, politica, ecologia, Europa ecc. Aveva inoltre beneficiato dell´opera di influenti think tank, e consultato un gran numero di esperti. Ecco perché, secondo tutti i sondaggi, in maggioranza gli elettori francesi lo hanno giudicato pronto a diventare un presidente competente, portatore di una serie di proposte chiare, che hanno riscosso il loro consenso.
Nicolas Sarkozy è riuscito inoltre a costruire un blocco sociale composto da categorie eterogenee – imprenditori, liberi professionisti, artigiani, commercianti, dipendenti del settore privato, ma anche anziani, impiegati e operai. Nelle nostre società frammentate e pervase da un profondo individualismo – caratteristica questa che si nota in misura molto marcata in Italia – la sinistra deve reinventare i suoi principi di solidarietà e di uguaglianza. E ripensare le condizioni per rafforzare la coesione tra i suoi pilastri oggi più solidi – i pubblici dipendenti, la popolazione urbana e giovanile a più alto livello di istruzione – e i gruppi sociali (in particolare gli anziani) intimoriti dal processo di modernizzazione. In Francia come in Italia, la svolta a destra non è ineluttabile. Al contrario, l´opinione pubblica di questi due Paesi diffida sia della sinistra che della destra. Non è interamente convertita al liberismo integrale; ha a cuore la protezione sociale, e se guarda con tolleranza all´evoluzione contemporanea dei costumi, sente al tempo stesso il bisogno di ordine, autorità e sicurezza. In una congiuntura tanto incerta, l´offerta politica si rivela determinante. In Francia, Sarkozy ha compreso le aspirazioni ambivalenti dei francesi, desiderosi di essere protetti ma anche disposti a cambiare. E ha dato loro una risposta tanto più forte in quanto il messaggio della sinistra appariva estremamente vago. La sinistra italiana dovrebbe evitare di commettere lo stesso errore.
Resta infine la questione decisiva del leader. In un suo contributo a La Francia di Sarkozy (il libro curato da Franco Baldini e dall´autore di quest´articolo, che uscirà in ottobre per i tipi del Mulino) il politologo Mauro Barisione sintetizza con notevole efficacia i punti di forza di Nicolas Sarkozy: un leader forte e d´azione, in grado tuttavia di capire la gente, accessibile, antielitario, vicino alla gente, dotato di capacità comunicative e relazionali, tanto diverso dai politici tradizionali da passare per un uomo nuovo, proiettato oltre le categorie ideologiche tradizionali; un pragmatico post-ideologico, artefice dell´unità delle destre fino allora contrapposte. E´ questa senza dubbio la sfida più difficile da raccogliere per la sinistra. In effetti, trovare un leader e schierarsi intorno a lui vorrebbe dire riassorbire le rivalità politiche interne alla sinistra e le sue dispute ideologiche, ben più serie di quelle che dividono la destra. Ma al tempo stesso, la mancata risoluzione di questi problemi lascerebbe il campo libero alla destra. E per lungo tempo.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Repubblica 24.7.07
Detesta il dubbio e la rassegnazione, non si lascia condizionare dal passato
Il mio viaggio con il presidente
di Jean Daniel


Martedì 11 luglio, sull´aereo che lo conduce ad Algeri, Nicolas Sarkozy evoca la celebrazione del 14 luglio. Normale. Salvo che non si riferisce a quella che presiederà tre giorni dopo, rendendo un omaggio fervente e senza precedenti all´Unione europea. Il presidente francese sta pensando al 14 luglio… del 2008! Semplicemente. E a quest´idea la sua faccia si illumina di un´eccitazione infantile. Perché questa celebrazione potrebbe essere, e anzi sarà di fatto qualcosa di "formidabile", dato che riunirà i Paesi di tutto il Mediterraneo, delle sue due rive d´Europa e d´Africa. Nientedimeno! «Io credo nella forza dei simboli più che in qualunque altra cosa. Dopo l´Unione europea, sarà la volta dell´Unione mediterranea».
Questa la grande idea che intende "vendere" agli algerini, scegliendo la loro capitale per il suo primo viaggio ufficiale fuori dall´Europa. Il primo partner della Francia dovrebbe essere il presidente Abdelaziz Bouteflika, con cui Sarkozy ha incominciato da tempo, all´insaputa di tutti, a tessere legami di stima e di simpatia. Aveva un suo piano. Ed è proprio dal presidente algerino che il presidente francese ha ricevuto, la sera della sua elezione, alle 20.20, il primo messaggio di felicitazioni. L´Unione mediterranea tra un anno? Ma non è un sogno impossibile, quando il Libano è in fiamme, l´instabilità regna in Israele e siamo confrontati con due Palestine, due Sahara e due Cipro? Sognare l´impossibile: a quanto dice, il presidente non fa praticamente altro. I sue due nemici sono sempre stati il dubbio e la rassegnazione. Solo l´impossibile merita di essere tentato. Ma in questo caso, ci crede veramente? Risposta: per agire bisogna credere, o fare come se si credesse. Dare tempo al tempo? Andrebbe bene per chi vuol durare, non per chi vuole riformare. Un evidente compiacimento lo porta a desumere una legge globale da ciascuno dei suoi comportamenti, a teorizzare in maniera sentenziosa tutti i suoi umori. Non si concede il tempo per riflettere? Ma se per cinque anni non ha fatto altro! Pone mano a troppe cose? Prima di lui, gli altri hanno peccato per difetto. Quando si rende conto che la formula non fa centro perché ormai mostra la corda, abbozza un sorriso, come chi si aspetta indulgenza per le inevitabili servitù del mestiere. Ma ha anche un modo astuto di ribattere. Quando il presidente tunisino Zine El Abidine Ben Ali si lamenta amaramente del trattamento riservatogli dalla stampa francese, Nicolas Sarkozy gli risponde che questo è niente, anzi meno di niente a confronto con quanto gli è toccato subire. E così il presidente tunisino si vede costretto a passare dalla protesta alla commiserazione.
Il giovedì successivo, 12 luglio, dovrà pronunciare a Epinal, come a suo tempo De Gaulle – ecco di nuovo la forza dei simboli – il suo grande discorso sulle istituzioni. «Sorprenderò l´opposizione e la maggioranza per i poteri che attribuirò al parlamento. Il presidente deve governare, ma da un lato è costantemente tenuto a rendere conto, e dall´altro ad accettare di essere costantemente controllato.»
Recentemente, sono state le formule di questo tipo a farmi imprudentemente evocare il ricordo di Mendès France. Ma con Mendès France non ci si chiedeva continuamente se la sua strategia di persuasione rischiasse di farlo apparire come un giocoliere o un adescatore, se la sua semplicità fosse fatta di demagogia, e la sua popolarità di populismo. In realtà c´è piuttosto un che di Bonaparte in Nicolas Sarkozy, il quale peraltro si è affermato alla testa di una destra veramente bonapartista.
Cosa sono venuto a fare su quest´aereo? Ho votato per Ségolène e non me ne pento. Mi fa orrore il giubilo masochista dei gerarchi del Ps davanti all´insuccesso della loro candidata. Ma a fronte della destra, il socialismo non si è comunque disonorato. Con Mauroy, con Jospin, con Rocard è avvenuto anzi il contrario. Il modo in cui Eric Besson ha tradito i suoi per diventare ministro mi sembra il colmo della prevaricazione. Quanto allo stesso Nicolas Sarkozy, ho criticato severamente il suo viaggio negli Stati Uniti per denunciare la politica del suo stesso paese - pur essendo il numero due del governo - a rischio di screditare la carica cui aspirava. E se mi sono sempre vietato di dire o di lasciar intendere che l´ex ministro degli interni di Jacques Chirac potesse essere anche minimamente razzista, xenofobo o fascistizzante, ho però dubitato fortemente dell´orientamento della sua politica estera.
Ma tutto ciò che ascolto su quest´aereo, lo avrebbe potuto dire anche un Hubert Védrine. Tra Nicolas Sarkozy, Bernard Kouchner, Jean-David Levitte, Henri Guaino e Rama Yade, non una sola nota stonata. Che dicono, ad esempio, del Medio Oriente? La sicurezza di Israele: una priorità. Ma che ormai dipende soprattutto dagli aiuti, più o meno massicci, degli israeliani all´autorità palestinese. Oltre tutto, e in ogni caso, la pace si può fare solo con i nemici. E non sarà proprio ora, nel momento in cui si arrogano il diritto di parlare con gli iraniani, che gli Stati Uniti potranno trovare da ridire su chi pensa di parlare con Hamas o con gli Hezbollah, e magari con i siriani. Ho chiesto a Sarkozy: «Se fosse stato in carica, avrebbe inviato truppe francesi in Iraq a fianco degli americani?» Se l´aspettava, questa domanda, e mi ha risposto senza esitare: «Assolutamente no! Non ci avrei neppure pensato, conoscendo la sorte di tutte le occupazioni. Ma in compenso sarei stato mille volte più vicino di prima agli Stati Uniti.»
Avremo dunque una certa continuità in politica estera. E visto che ho alle spalle una lunga familiarità con il Magreb e il Mediterraneo, sono stato invitato a vedere quale accoglienza potessero trovare gli ambiziosi progetti del nuovo presidente. Ma di fatto, e prima di ogni altra cosa, se è vero che con Sarkozy inizia una nuova era, è soprattutto perché questo presidente ha rotto con lo stile, i metodi, il linguaggio, i gesti dei suoi predecessori, al momento di incarnare il volto della Francia all´estero. Chiunque si sia fatto un´idea sussiegosa della presidenza della Repubblica dovrà rivederla. Chi pensa che un presidente non debba mai discostarsi da una certa alterigia, o conservare nella sua autorità qualcosa di segreto, se non addirittura di misterioso, e che dai suoi discorsi debba trasparire una consapevolezza non del tutto priva di sufficienza del rango occupato dal suo paese nel concerto delle nazioni – in breve, chi ha in mente De Gaulle o Giscard d´Estaing o Mitterrand dovrà prepararsi – (come ho fatto anch´io) a cadere dall´alto, o a tornare da molto lontano.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

Alain Badiou:
L´adunata intorno a Sarkozy simbolizza la possibilità per intellettuali e filosofi di essere ormai reazionari classici senza esitazione né sussurro

Roger Scruton:
Sarkozy ricorda le lezioni della Storia impartitegli dai genitori, ha il coraggio di dire ciò che pensa e di affrontare il sentimentalismo totalitario della sinistra

Alain de Benoist:
Sarkozy è innegabilmente un professionista della politica. Ha molto dinamismo e volontà, ma anche una totale assenza di scrupoli

Bernard-Henri Lèvy:
Se c´è un uomo che incarna la fine delle ideologie, e al quale non posso costringermi a dare credito, quello è Mr. Sarkozy, il sesto presidente della Quinta Repubblica

Repubblica 24.7.07
E il Dna svelò i suoi segreti
La rivoluzionaria scoperta di Jim Watson e Francis Crick
Quanto conta il caso nelle mutazioni
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza


Quei lunghi filamenti molto sottili Cambiò la nostra visione del mondo La ricerca dei due scienziati consentì di capire in quale modo gli organismi viventi possono riprodurre se stessi

Jim Watson era uno studente americano molto brillante. Conseguì il Ph.D. in Genetica (il dottorato di ricerca) all´Università dell´Indiana e ricevette una borsa di studio per continuare la sua preparazione in laboratori europei. Ne girò più d´uno per qualche tempo. Alla fine riuscì a trovare un posto nel laboratorio di Cambridge ove era stato creato il metodo di studio della struttura dei cristalli mediante i raggi X. Sperava di capire la struttura del Dna, l´acido desossiribonucleico che forma i cromosomi, che era stato recentemente cristallizzato in laboratori inglesi. Il suo supervisore americano, convinto che fosse un´impresa impossibile, soppresse la borsa di studio, ma a Cambridge lo aiutarono a sopravvivere, benché nemmeno la direzione del laboratorio avesse fiducia nel progetto.
Il successo venne grazie alla stretta collaborazione fra Watson e un fisico inglese, Francis Crick, che aveva una preparazione metodologica adatta: insieme inventarono una struttura che poteva spiegare le immagini di Dna ottenute a raggi X da un´altra ricercatrice inglese, Rosalind Franklin. La struttura ipotizzata sembrava anche permettere di capire perché gli organismi viventi possono riprodurre se stessi. Era vero: di fatto, spiegava il segreto stesso della vita.
Il Dna è una molecola doppia, formata da due lunghissimi filamenti molto sottili e attorcigliati l´uno all´altro in una doppia spirale, composti di un numero elevatissimo di unità, dette nucleotidi. I due filamenti sono appaiati strettamente, come può avvenire di due fili di lana appiccicati l´uno all´altro che formino una spirale. Ciascuno dei due è costituito di solo quattro nucleotidi, simboleggiati dalle lettere A, C, G e T, le iniziali del loro nome chimico. In ciascun filamento i quattro nucleotidi sono disposti in un ordine preciso, che ripete strettamente quello dell´altro filamento, con una regola stringente: dove il primo ha un A, l´altro ha un T, e viceversa (di fronte a un T del primo, cioè, c´è un A nel secondo). Dove il primo ha un C il secondo ha un G, e viceversa.
Il Dna ha la capacità di autoduplicarsi nell´ambiente formato dalle cellule in cui è presente: è così che i genitori passano ai figli una copia identica del proprio corredo ereditario. Qualche anno fa è uscito un film, assai mediocre, GATTACA, che parlava di Dna. Se su un filamento di Dna c´è un segmento GATTACA, su quello opposto c´è la sequenza CTAATGT. Il filamento doppio di Dna è quindi: GATTACA; CTAATGT
Il Dna che un genitore passa al figlio è un doppio filamento come questo. Un filamento singolo è sottilissimo, ma invece di sette nucleotidi come nell´esempio, nella specie umana ce ne sono più di tre miliardi, divisi in ventitré cromosomi, cioè in ventitré doppi filamenti di Dna di diversa lunghezza. Ognuno di noi ha due doppi filamenti di Dna da tre miliardi di nucleotidi, uno di origine paterna, l´altro di origine materna, cioè, in tutto dodici miliardi di nucleotidi. I filamenti sono attorcigliati in modo così complesso che al momento della divisione cellulare si raccolgono in gomitoli corti e spessi, a forma di bastoncini, e si possono vedere facilmente al microscopio (i cromosomi, per l´appunto).
Questo è il genoma umano: una doppia spirale di Dna. Come le lettere in un libro, nei cromosomi di ogni specie vivente i nucleotidi sono disposti in un ordine preciso, che decide cosa sarà un organismo, se un batterio o una mosca, una quercia o un elefante. Ogni essere vivente è costruito così.
La scoperta di Watson e Crick ha illuminato la natura della vita e trasformato la nostra visione del mondo. Tutta la ricerca successiva l´ha confermata, dimostrando che l´ordine dei nucleotidi nei cromosomi è ciò che permette ad ogni cellula di costruire se stessa.
Ad ogni divisione delle cellule di un individuo, quando si forma un nuovo Dna che è un duplicato del vecchio, si hanno però rarissimi errori di copia. Ogni mutazione è un errore che avviene all´atto del raddoppiamento: è raro, spontaneo e casuale, ma si verifica con una probabilità costante. Le mutazioni che avvengono nelle cellule germinali (spermatozoi e cellule uovo) sono trasmesse alla discendenza. Ne avviene una ogni trenta milioni di nucleotidi circa, in media, ad ogni generazione umana.
Se consideriamo un solo individuo, il genoma paterno o materno di un figlio porta in media duecento mutazioni nuove di un singolo nucleotide l´una. Quattrocento in totale per individuo, poiché riceviamo un genoma completo dal padre e uno dalla madre. Usiamo questi numeri a titolo esemplificativo: non sono noti con precisione, e possono variare molto da un sito all´altro del Dna.
C´è una piccola complicazione, che è bene spiegare per non essere fraintesi. La molecola è sì una doppia spirale, ma ognuna delle due determina l´altra, per cui parlando di mutazioni si considera il "paio di nucleotidi" di una molecola di Dna come una sola unità; per la stessa ragione si considera che il genoma sia formato da tre miliardi di nucleotidi, cioè da un singolo filamento. Da ciascuno dei genitori si riceve in realtà un doppio filamento, quindi sei miliardi di nucleotidi, ma ciascun filamento è complementare all´altro, e non introduce nessuna novità.
La mutazione, quindi, insorge perché il processo di copiatura non è perfetto (nessun processo di copia è perfetto, anche i computer sbagliano). Le mutazioni più frequenti comportano la sostituzione di un nucleotide con un altro, ma ve ne sono molti altri tipi, come lo spostamento, la perdita, il raddoppio di segmenti di cromosomi o di cromosomi interi. Sono tutti fenomeni di natura "casuale", cioè determinati da eventi imprevedibili, in quanto non conosciamo la ragione precisa per cui uno o più nucleotidi particolari in un punto della lunghissima molecola del Dna vengono sostituiti da altri. Sappiamo però che le mutazioni possono essere causate da perturbazioni locali che agiscono sul Dna, anche sui singoli nucleotidi; siamo in grado di misurare la frequenza con cui si verificano; e sappiamo che avvengono effettivamente molto di rado (anche per questo è difficile capire i motivi di ciascuna mutazione). Cominciamo anche a comprendere come aumentarne o diminuirne la frequenza, il che è desiderabile perché molte mutazioni sono dannose e vogliamo evitarle.
Essendo casuali, le mutazioni non sono necessariamente utili, anzi la maggioranza non ha alcun effetto visibile. Magari potranno essere utili domani, in nuove situazioni. Proprio perché casuali, però, possono essere anche nocive, e provocare malattie genetiche, cioè ereditarie.
Perché la mutazione è fondamentale? Perché determina tutte le novità che compaiono negli organismi viventi. Perché è anche importante che sia casuale? Perché il fatto che avviene a caso fa sì che la vita esplori tutte le alternative possibili. Due individui differiscono in media per un nucleotide ogni 1000 o 2000, ma nella popolazione umana vi sono sei miliardi di individui, e nel corso delle generazioni ha avuto modo di accumularsi un grandissimo numero di novità. Le novità che funzionano meglio si affermeranno automaticamente, nel corso del tempo, divenendo sempre più frequenti, e alla fine sostituiranno il tipo precedente.
Ogni essere vivente ha bisogno di nutrirsi e riprodursi, e nella ricerca e utilizzo di fonti di cibo ogni individuo può trovarsi in concorrenza con altri individui della stessa e di altre specie. L´ambiente cambia di continuo, e per sopravvivere i viventi devono adattarsi a questi cambiamenti. C´è concorrenza anche nella ricerca di un individuo della stessa specie come coniuge. Ogni organismo è esposto all´attacco di parassiti, che lo divorano dall´interno. Benché rare, vi sono mutazioni che portano vantaggio e permettono di bloccare l´attacco di un parassita, o di sfruttare una nuova fonte di cibo, o di utilizzarne meglio una già sfruttata. Queste mutazioni favoriscono chi le porta. Ne avvengono nella riproduzione del parassita, dell´ospite, di qualsiasi organismo vivente.
Ognuno evolve come meglio può: l´ospite cambia per mutazione, e chi grazie a questa si difende meglio da un parassita lascia più figli, nella generazione successiva, rispetto a quelli che non hanno la mutazione. Il tipo nuovo prodotto dalla mutazione tende così ad aumentare continuamente nelle generazioni successive. Ma anche il parassita cambia per mutazione casuale, e se la mutazione migliora la sua capacità di attaccare l´ospite, riuscirà a mantenersi all´altezza della situazione e magari a provocare gravi epidemie. Questa è la selezione naturale, un meccanismo automatico ed inevitabile, che aiuta ogni specie a mantenersi e, se possibile, prosperare. È così che mutazione e selezione rendono l´evoluzione un processo che crea continuamente novità, senza scampo.
L´idea che la mutazione sia casuale urta contro grandi pregiudizi. Molti sono convinti che la nostra esistenza sia controllata dal fato, ovvero da un Dio onnisciente ed onnipotente, preferendo quindi una visione idealistica del mondo (il cosiddetto finalismo o teleologia). Vi sono anche biologi, sempre più rari, che credono che organi così complessi come l´orecchio e l´occhio siano troppo complicati per essersi sviluppati pezzetto per pezzetto in una lunga serie di mutazioni casuali. Altri desiderano vedere nella natura il segno sicuro di un ordine superiore. Per ragioni squisitamente religiose, il 50 per cento degli americani, il popolo la cui fiducia nella scienza e nella tecnica ha grandemente aiutato la rivoluzione scientifica, non crede all´evoluzione, perché le loro sette cristiane impongono di credere nelle parole esatte della Bibbia: il mondo è stato creato così com´è in sette giorni da un Dio, e non cambia mai.
I biologi migliori hanno idee diverse. La vita è un bricoleur, nelle parole del grande biologo francese François Jacob. La natura è un artigiano dilettante esperto nel fai da te, che opera piccole riparazioni e aggiustamenti, talora anche grandi, usando tutte le alternative disponibili, tiene quelle che funzionano e butta le altre. Non ha un progetto preciso, ma prova in tutte le direzioni, sbaglia, riprova e scopre quello che fa al caso suo. I meccanismi biologici sono capolavori dell´arte di arrangiarsi. Con buona pace di quanti, filosofi o credenti, hanno pensato che la storia della vita sia guidata in una precisa direzione da un´intelligenza suprema, l´"intelligenza suprema" è semplicemente la selezione naturale, che sceglie automaticamente le mutazioni utili, perché si riproducono più delle altre.
Dal momento in cui ha avuto inizio, la vita è stata inevitabilmente diretta dalla selezione naturale, attraverso la quale il caso, rappresentato dalla mutazione, ha dimostrato di essere molto creativo. Vedremo che il caso agisce anche per altre vie. Che vi sono altre forze, accanto alla mutazione e alla selezione naturale. E che non vi è motivo di impensierirsi perché il caso è importante nella nostra evoluzione. Sarebbe comunque una preoccupazione futile, perché è così che vanno le cose.
(4 – continua)

Corriere della Sera 24.7.07
Esploratori della mente alleatevi con i medici
di Claudio Risé


Non solo terapia. La psicologia, infatti, è tantissime altre cose. È anche, solo per fare qualche esempio, psicologia della forma, nipote della filosofia e sorella di scienze modernissime; psicologia dell'educazione, nutrice della pedagogia; psicologia sociale, strumento delle scienze politiche e della sociologia. E si potrebbe continuare per un pezzo. Senza limitarsi all'uomo: la psicologia studia, infatti, anche gli animali, e le piante. Ogni volta che qualcuno guarda il vivente dal punto di vista della psiche, entità di difficilissima definizione (e tuttavia ovunque riscontrabile, anche nell'immaginato ritrarsi della rosa che si è deciso di tagliare dal ramo), fa psicologia. Si tratta dunque di un campo sterminato, che ne rende difficili i contorni ed anche i fini, diversi tra loro.
Tuttavia, nell'immaginario delle persone, psicologia è oggi, soprattutto, cura, terapia. La nostra è, infatti, un'epoca assetata di cure: non si capisce se perché è troppo malata, o troppo ingorda di attenzioni (del resto, anche l'ingordigia può diventare malattia, e richiedere cure). L'identificazione tra psicologia e cura è comunque recente: fino a pochi decenni fa ogni «terapia» era riservata ai medici. Solo nel '68 compare una legge che prevede la presenza di uno psicologo nei reparti psichiatrici. La psicoterapia, però, rimane prerogativa dei medici. Anche se il maggior psicoanalista italiano, Cesare Musatti, non era affatto medico ma laureato in filosofia. E infatti, durante la guerra, per vivere, dovette occuparsi di psicologia industriale a Ivrea, sotto la protezione del generoso, e lungimirante, Adriano Olivetti. Fino al 1989 comunque, la pratica terapeutica privata rimane per legge riservata ai medici. Con l'eccezione, appunto, della psicoanalisi, silenziosamente tollerata, per via del suo carattere eccentrico e la sua doppia natura di terapia (sulla quale comunque non si insiste troppo), e di processo trasformativo della personalità.
Solo alla fine degli anni '80 dunque, la legge elaborata da Adriano Ossicini autorizza l'intervento psicoterapeutico, anche privato, ad opera degli psicologi, di cui viene istituito un Albo professionale. Anche questa legge, del resto, non menziona neppure la psicoanalisi, che rimane ancora nell'«ombra», nell'inconscio, secondo la sua originaria vocazione. Da allora però, diciotto anni fa, le psicoterapie svolte da non medici escono dalle catacombe, e appaiono alla luce del sole, senza rischi di accuse di abuso di professione o di attività.
Probabilmente, questa lunga disputa su chi fossero i legittimi titolari dell'attività di cura, se solo i medici o anche gli psicologi, tuttora rallenta al di là del ragionevole le comunicazioni e i contatti tra i due campi. Inoltre, anche il rispettivo iter formativo di psicologi e medici, non è certo fatto per portarli a conoscere l'altrui disciplina e convincerli dell'opportunità di una franca e leale collaborazione fra le due attività. Infine c'è una difficoltà che deriva proprio dai rispettivi metodi, per lo meno per come vengono insegnati e appresi. Lo psicologo di fronte al sintomo che il paziente presenta, finisce spesso con l'essere affascinato dalla sua causa e interpretazione, più che di preoccuparsi di fornirgli strumenti (ad esempio l'indirizzo di un medico specialista), per risolverlo velocemente, mentre lui, lo psicologo, lavorerà sui motivi profondi, per evitare ricadute.
L'esempio più banale di questa sorta di disprezzo per il sintomo è quello legato ai disturbi sessuali. È discutibile rischiare di lasciar naufragare un matrimonio per le insicurezze sessuali di lui, aspettando che il sintomo venga vinto dai tempi medio-lunghi della psicoterapia, quando ci sono ottimi prodotti in grado di risolverlo subito e ottimi medici in grado di prescriverli e controllarli, sgravando lo psicologo di un fardello che non gli compete. Poi, certo, il problema dell'insicurezza non sparisce con una pastiglia e la terapia avrà il suo da fare per risolverlo. Ma almeno si sarà agevolato l'utilizzo di uno strumento che il paziente ha a disposizione, senza ridurre tutto a psiche, anche ciò che è corpo, chimica, mercato. Tutte cose reali, di cui la psicoterapia dovrebbe aiutare la conoscenza e l'utilizzo, non rigettarle lontano da sé. Carl Gustav Jung, che veniva accusato di spiritualismo ma era un uomo coi piedi ben piantati per terra, come dimostra la torre che si è costruito con le sue mani sulle rive del lago di Zurigo, prendeva in giro quegli psicologi che pretendevano di «guarire la psiche con la psiche » e non con strumenti esterni al proprio campo. Come faceva invece la medicina, che curava senza tante storie il corpo coi farmaci, sostanze fabbricate al di fuori di esso, ma efficaci. All'interdisciplinarietà del resto, la psicologia è condannata proprio dalla vastità dei suoi interessi e dei suoi campi di applicazione. Un buon motivo per approfittarne senza timore.

Corriere della Sera 24.7.07
Un saggio di Giovanni Jervis
Le fondamenta della coscienza
di Sandro Modeo


Davanti alle guglie di una cattedrale — specie in una giornata luminosa — tendiamo a rimuovere la complessità sottostante che le ha prodotte e le sorregge, cioè la concezione della struttura e la profondità e solidità delle fondamenta. Allo stesso modo, tendiamo a considerare gli esiti più raffinati e rarefatti della nostra mente e del nostro comportamento (la coscienza, il pensiero astratto e l'etica), scorporandoli dal loro «opaco » substrato biologico e (neuro)fisiologico. Nel suo nuovo libro (Pensare dritto, pensare storto, Bollati Boringhieri, pp. 206, e 14) lo psichiatra e analista Giovanni Jervis elegge proprio questa rimozione a timone del suo ragionamento; anzi, del suo «smascheramento » delle molte «illusioni sociali» di cui è infittita la nostra quotidianità. Ignorare o misconoscere le basi naturalistico- materialistiche della nostra «cultura» (del nostro assetto emotivo-cognitivo e della nostra socialità) comporta infatti il rinsaldarsi di tante allucinazioni interpretative, facendo di ognuno di noi un Mister Magoo che dialoga coi semafori. Intendiamoci: queste «costruzioni » hanno un forte potere adattativo, scremato in milioni di anni di evoluzione (a cominciare dall'idea del trascendente, bersaglio ritornante del libro); ma ciò non toglie che la loro demistificazione porterebbe, con ogni probabilità, a una convivenza più democratica e tollerante in senso non retorico; ad adattamenti, insomma, meno approssimativi.
Molte acquisizioni delle scienze biologiche degli ultimi decenni, dimostra Jervis — in questo discostandosi da molti colleghi mestamente autarchici —, servono per spiegare la vera natura di tanti comportamenti. Le neuroscienze, per esempio, hanno ricondotto diverse varietà di istinti — più che alla coscienza — all'inconscio inteso come insieme di «automatismi » (vedi la memoria procedurale), così riducendo ulteriormente il margine di «libero arbitrio » (ma accrescendo, paradossalmente, quello della responsabilità di ogni scelta). Mentre la genetica e l'etologia hanno evidenziato una predisposizione (nell'uomo come in altri animali) non solo alla competizione e all'aggressività, ma anche alla cooperazione e all'altruismo, levando così gli alibi a ogni tipo di impostazione ideologica. In questa prospettiva, l'uomo si rivela insieme meno razionale e meno stupido del suo stereotipo, aggregato in una socialità che funziona più per mutua convenienza che per solidarietà e minacciato, nella sua sopravvivenza, più da vincoli strutturali (come la sovrappopolazione e l'esaurirsi delle risorse) che da istinti (auto)distruttivi pure innegabili.
Il rischio, in un simile disincanto, è quello di un «giustificazionismo» che divenga facile preda della propaganda di potere.
Ma che capire non significhi assecondare, per fortuna, Jervis lo ribadisce a ogni pagina: riconoscere nel «solidarismo familistico » una «naturale» propensione tribale non significa tacere davanti alle baronie universitarie o all'impasse economico determinato dalla mafia nel Mezzogiorno; e riconoscere la portata strutturante e identitaria della religione non implica di accettarne i fanatismi e le loro applicazioni (brutali, come nell'Islam, o subdolamente insinuanti, come nel «monitoraggio etico» cattolico). La stessa verve (fredda e ironica, beninteso) è dimostrata del resto nelle tante micro-invettive del testo, come quella sui festival culturali (tesi a fornire nello scrittore un surrogato del libro) o sul relativismo di sinistra, che sotto l'ombrello della «verità inattingibile » finisce col legittimare posizioni estreme come quelle neonaziste.
Una volta, Pensare dritto, pensare storto sarebbe stato rubricato tra i libri di «critica della cultura »; oggi — in un contesto meno ideologico, ma anche più intorpidito — è un tentativo di rilanciare una cultura della critica.

Corriere della Sera 24.7.07
Una mostra proporrà per la prima volta un capolavoro oggi attribuito al maestro veneto
Lionello Puppi: si raffigurò per i posteri

Tiziano, quel narciso nascosto nell'autoritratto ritrovato
di Marisa Fumagalli


PIEVE DI CADORE (Belluno) — Il più famoso autoritratto di Tiziano è, di sicuro, quello custodito al Prado di Madrid. Uno dei numerosi che il grande artista del '500 realizzò (svelando la sua vena narcisistica, sostiene qualche critico) durante gli ultimi vent'anni della sua lunga vita. «Dipinti, certo; ma anche varie incisioni che riproducevano pitture originali andate perdute; per queste "copie", ingaggiava i migliori maestri — nota Lionello Puppi, curatore della mostra dedicata a Tiziano in programma a Pieve di Cadore e a Belluno, dal 15 settembre al 6 gennaio —. Inoltre, diede il suo volto a figure inserite in quadri di altro soggetto. Così da sentirsi pienamente coinvolto nel significato dell'opera ». Fatto sta che, alla ricerca dell'autoritratto perduto (o meglio, sconosciuto), ecco spuntare, da una collezione privata americana, un piccolo gesso nero su carta d'avorio (99 per 120 mm.), già attribuito frettolosamente a Giuseppe Porta Salviati, fiorentino, coevo dell'artista veneto. Invece, la minuscola opera, esaminata attentamente da David Rosand, docente alla Columbia Univer-sity, uno dei maggiori studiosi di Tiziano, ha in serbo il colpo di scena: l'autore è proprio Tiziano. E si collega all'autoritratto del Prado, dove il pittore si riprende di profilo, rivolto verso destra; mentre, nel gesso nero, guarda a sinistra.
In tre cartelle, Rosand stila l'expertise, inserendo una sintetica dissertazione sulla tradizione storica e culturale dei «profili». «Come poteva Tiziano — si chiede il critico statunitense — guardandosi allo specchio, tratteggiare il profilo del suo volto?». Egli ritiene che, verosimilmente, utilizzasse non uno, ma due specchi, collocati ai suoi lati, così da riflettersi nella direzione voluta. Puppi, inoltre, suggerisce un'idea, che confermerebbe il «narcisismo» di Tiziano: «Credo che, con quel disegno, avesse in mente di creare un'immagine di sé per i posteri. Che cioè volesse offrire la traccia per l'incisione del suo viso in medaglia ». Ottenendo così il risultato «originale » di ciò che altri, negli anni 40 del Cinquecento, avevano già fatto, imprimendo il profilo dell'artista in alcune medaglie di bronzo.
La storia del piccolo autoritratto a carboncino, che sarà visibile nella mostra Tiziano. L'ultimo atto («Mario Botta, incaricato dell'allestimento, sta studiando un marchingegno per farlo risaltare al meglio») anticipa la linea dell'esposizione. Tesa a far luce, soprattutto, sugli aspetti dell'autore ancora poco indagati; in particolare, il rapporto che Tiziano Vecellio ebbe con la sua prolifica bottega. Da qui la discussione attorno al vero concetto di autografia. «Spesso esaltata dai musei per enfatizzare le opere in loro possesso», taglia corto Puppi. Che promette numerose sorprese. Una per tutte: L'Ultima Cena. Il dipinto lascia, per la prima volta, il Palazzo del Duca d'Alba di Madrid e prende la via del Cadore, con un nuovo taglio interpretativo: realizzato dai collaboratori dell'officina, evidenzia che, nelle parti fondamentali, c'è la mano personale dell'artista. Dunque, è «un Tiziano».

Liberazione 24.7.07
Lettera della capogruppo Sd alla Camera
Ora è più forte la necessità di unire la sinistra
di Titti Di Salvo


Caro Direttore,
proviamo ad intenderci sul metro utilizzato per giudicare l'accordo governo-sindacati. Per le organizzazioni sindacali il metro di misura è la distanza tra il contenuto dell'accordo e la piattaforma, nel contesto dato. Da questo punto di vista il sindacato ha valutato che nell'accordo ci fosse una sufficiente vicinanza tra richieste e soluzioni, così da formulare un primo consenso e avviare a settembre la consultazione delle lavoratrici, dei lavoratori e dei pensionati. Un' adeguatezza misurata rispetto all'insieme della piattaforma e dei risultati: l'aumento delle pensioni più basse; l'aumento dell'indennità di disoccupazione; il recupero dei limiti per i giovani della riforma Dini e il superamento degli effetti iniqui della legge Maroni. Non c'è dubbio che la soluzione trovata sullo scalone sia al di sotto delle attese, condizionata dall'essere diventata inopinatamente un test sul governo, sul suo tasso di riformismo o sul suo cedimento alla sinistra.
Ma non si può sottovalutare la difesa dell'età pensionabile per le donne, la distinzione tra i lavori, l'effettività dei quarant'anni di contributi. Infine, il contesto in cui ciò è avvenuto non può essere oscurato perché ha pesato come ovvio che sia, ma perfino più dell'ovvio. Mi riferisco all'assenza di una posizione univoca del governo, alle pressioni istituzionali (Draghi), a quelle europee (Bruxelles) e più in generale a un'impressionante aggressività nei confronti del sindacato, agli interessi e ai valori che il sindacato rappresenta. Una aggressività che si è manifestata esplicitamente all'interno della maggioranza di governo e che ha attraversato importanti testate giornalistiche, particolarmente nei confronti della Cgil.
Per le forze che costituiscono la maggioranza di governo, il criterio in base al quale valutare l'accordo dovrebbe essere rappresentato da quanto il programma dell'Unione prevedeva su tali argomenti. Ma, prima e dopo il confronto, una distorsione nel dibattito politico ha bollato l'attenzione al programma come un atto insensato, ostile, provocatorio ed estremista.
Da un lato il Tesoro e la Ragioneria hanno assunto l'"esclusiva" della interpretazione autentica e arcigna del programma; dall'altro, alcune forze politiche hanno strumentalizzato il confronto per un nuovo posizionamento e nuove alleanze per il futuro, anche oltre l'attuale governo.
E qual è il metro di Sinistra Democratica? Noi avevamo giudicato "immorale" rimandare il confronto a settembre, poiché bisognava trovare subito una soluzione che potesse dare certezza alle lavoratrici ed ai lavoratori, e consentire loro di esprimersi. Avevamo detto, insieme a tutti gli altri soggetti della sinistra, che il sindacato sarebbe stato l'interlocutore più autorevole del governo nella partita e, di conseguenza, che la soluzione doveva passare per un accordo sindacale. Avevamo detto, infine, che bisognava guardare non soltanto al tema dello scalone, ma anche a quello della precarietà sociale e del lavoro, tema fondamentale tanto per le figlie e i figli, quanto per le madri e i padri. Sulle pensioni, in particolare, avevamo detto che, certo, lo scalone andava superato, che non tutti i lavori sono uguali, che sarebbe stato inaccettabile far pagare alle donne italiane le pensioni di anzianità e che, infine, il problema dell'invecchiamento della società e dello squilibrio demografico doveva prevedere soluzioni più complesse e complete del semplice rimedio di alzare l'età pensionabile e molte più risorse. Per questo, guardando al merito dell'accordo raggiunto, per noi prevalgono gli aspetti positivi. Ma cogliamo anche aspetti negativi in ciò che c'è (gli scalini), in ciò che non c'è (la lotta alla precarietà) e in ciò che abbonda (una cultura aggressiva e vendicativa contro il lavoro e chi lo rappresenta).
Sull'accordo ci sono opinioni diverse tra i partiti della sinistra. Mentre spieghiamo la nostra, vorremmo proporre a tutti qualche riflessione per guardare avanti insieme. Sappiamo che la competizione globale si fonda sulla mercificazione del lavoro e dell'ambiente. Sappiamo che rivendicando il valore del lavoro e dell'ambiente chiariamo quali sono i capisaldi di un modello di sviluppo sostenibile. Sappiamo anche che in Italia la scelta del Partito Democratico di rimanere equidistante tra imprese e lavoratori priva il paese di una forza di sinistra, con una forte cultura di governo certo, ma con un saldo ancoraggio al mondo del lavoro. Per tutti coloro che, dunque, si candidano oggi a rappresentare politicamente il lavoro, riconoscendo che in Italia oggi manca una forza politica che risponda a questa necessità, la domanda fondamentale è: qual è il confine tra rappresentanza politica e sociale? Tra partito e sindacato?
E, quindi, quanto pesa il giudizio espresso dal sindacato sull'accordo di venerdì? E' uno dei tanti elementi che contribuiscono alla formazione di un'opinione o è un elemento fondamentale, legittimato ulteriormente dalla scelta di consultare quanto prima le lavoratrici e i lavoratori italiani?
Caro Direttore, chi scrive riconosce grande valore all'autonomia del Parlamento e alle prerogative di tutte le forze politiche nel percorso della discussione parlamentare. Ma a nessuno sfugge la reale possibilità che i contenuti dell'accordo, in Senato, siano fortemente ridimensionati. Così come a nessuno sfugge che quanto è emerso nel corso di questi mesi nel dibattito politico, in particolare proprio sul confronto tra governo e sindacati, rende quanto più evidente la necessità di unire la sinistra in Italia. Una sinistra larga, di donne e di uomini; una sinistra plurale che cerchi, appunto, la via dell'unità non in forzate alchimie dei gruppi dirigenti, ma partendo dal confronto - serrato e sincero - sui contenuti.
*Capogruppo alla Camera Sinistra Democratica

il manifesto 24.7.07
Una pedagogia in pillole per i filosofi d'azienda
L'odierno, ossessivo invito a migliorare la propria formazione - di cui le fortune della consulenza filosofica sono un segnale - rivela un'ansia manipolativa legata a un percorso di «modellamento» della persona. «Il business del pensiero» di Alessandro Dal Lago per manifestolibri
di Bruno Accarino


A chi voglia dare avvio a una nuova impresa o a un filone di sperimentazioni teoriche o pratiche, «smarcarsi» da qualcosa - o entrare in una dinamica di controversie con un avversario classificato come immobile e tradizionalista - serve per raggranellare un minimo profilo identitario, per farsi coraggio e per occupare (più spesso: per annunciare solennemente di essere sul punto di occupare) uno spazio lasciato vuoto. Nel caso della consulenza filosofica, per darsi slancio si fa carambola con la presunta e inveterata propensione della filosofia a soggiornare in torri d'avorio improduttive e inaccessibili.
Diciamo la verità: è un biglietto da visita disgraziato. Vogliamo chiedere ragguagli a Kant, che litigava un giorno sì e l'altro pure con il conservatorismo prussiano? O a Hegel, che monitorava ossessivamente il destino della Germania? O a Marx, che aveva una padronanza maniacale dei movimenti del capitale internazionale e trovava pure il tempo e il gusto di leggere la Scienza della logica di Hegel? E siamo sicuri che le pur leziose (per un laico) dispute teologiche non avessero come posta in gioco equilibri ecclesiastici di potere e progetti di egemonia assai materiali? Raramente bisogna concedere credito alle modalità di autointerpretazione di un'impresa intellettuale e organizzativa, ma in questo caso, come suggerisce Alessandro Dal Lago (Il business del pensiero. La consulenza filosofica tra cura di sé e terapia degli altri, manifestolibri, pp. 136, euro 14), l'autointerpretazione è dotata di potenza performativa.
La consulenza filosofica offre risposte a persone che hanno problemi esistenziali ma si intende come un'alternativa alla psicoterapia, di cui non vuole invadere il territorio né ereditare lo statuto; non ha la pretesa di insegnare la filosofia, ma quella di disporsi su un terreno dialogico-maieutico-socratico, costellato di meditazioni a due (consulente e consultante) ma immune dalla trasmissione dall'alto di un sapere preconfezionato; non ha un assetto autoritario ma paritario, e si sforza di recepire il consultante come ospite e non come paziente; non è esosa ma neanche gratuita, anche se somiglia talvolta alla chiacchierata con l'amico del cuore, più equilibrato e più attrezzato a prestare ascolto alle nostre paturnie esistenziali.
Ora, siamo tutti alla ricerca di un orizzonte di senso, benvenuto chi offre un farmaco anche solo lenitivo. Non è in questione la buona fede di chi vuole valorizzare un approccio anomalo a questioni filosofiche. Tuttavia, di fronte a una domanda di orientamento filosofico che, si dice, non può essere soddisfatta nelle sedi canoniche, è lecito chiedersi: se questa domanda è tanto forte, perché le briciole di un così grande interesse non ricadono a beneficio delle istituzioni preposte all'insegnamento di discipline filosofiche e non producono un significativo aumento di iscritti universitari? Perché molti dipartimenti di filosofia registrano un calo di popolarità e di iscrizioni e si logorano in campagne pubblicitarie condite da pratiche di adescamento degne dei viali di periferia?
Curatore di opere di Hannah Arendt, Dal Lago non ha difficoltà a sospettare la presenza di un invito alla fuga nell'introspezione, massicce dosi di «rinuncia al mondo» e una sostanziale propensione ad adattarsi allo stesso, secondo i termini della sociologia weberiana della religione. Il sospetto, anzi, è che nella consulenza filosofica si riaffacci quel filone carsico della cultura occidentale che è l'eresia gnostica.
Ma i guai seri, più terreni, cominciano quando si decide di varcare la soglia del mondo e si entra nel suo reparto più aggressivo, quello dell'azienda. A quel punto non basta più un'aura irenico-conciliativa e nemmeno il piglio sportivo e manageriale del problem solving: occorre che il consultante sia profondamente imbevuto di ideologia aziendalistica perché riversi nel settore della gestione delle cosiddette risorse umane (un'espressione da mercato degli schiavi o da videogioco truculento, a scelta) e nella soluzione di conflitti professionali quanto ha appreso e tesaurizzato «consultandosi» con un filosofo. Annullate le ragioni di attrito con il mondo, che cosa osta alla rappacificazione con il mondo del lavoro?
La verità è che Dal Lago coglie nel segno sin dalle prime pagine: ci si può ingegnare a neutralizzare la spocchia specialistica semplificando qua e là, si possono demarcare accuratamente i confini rispetto alla psicoanalisi, ci si può affannare magari a smussare le asperità del lessico filosofico e ad ammorbidire l'ovvia e naturale gerarchia tra chi offre consulenza e chi la accetta, ma è difficile eliminare il tratto pedagogico di tutta l'operazione. Ora, se c'è una vicenda umana e intellettuale sulla quale, per pudore, bisognerebbe preventivamente tacere (e comminare sanzioni pecuniarie a chi non lo fa), è l'educazione: una parola quasi impraticabile, e la cui complessità è pari al tasso di disinvolta circolazione che la vede comparire ai più svariati propositi.
Basti pensare ai cipigliosi carcerieri travestiti da pedagogisti che si aggirano nei territori della pubblica istruzione italiana parlando a ogni pié sospinto di «meritocrazia»: sarebbero traumatizzati se sapessero che la più sgarrupata delle enciclopedie teologiche dedica al lemma merito decine di pagine, e senza offrire scorciatoie di giustizia distributiva.
L'odierno, ossessivo invito a migliorare la propria formazione non solo è totalmente estraneo al pur ammuffito ideale classico di Bildung, ma rivela un'ansia manipolativa, correttiva e paternalistica che è imparentata con un percorso di modellamento della persona: a fronte del quale, onestamente, una pur burocratica e poco partecipe indicazione bibliografica sarà pure professorale, ma è totalmente innocua e priva di pretese. Il fatto grave è che in questo modo siamo ormai usciti dalla sfera privata e interiore, perché da tempo il counseling indirizzato a clientes e consumers viene caricandosi, anzitutto nella scuola, di valenze normative e di vincoli istituzionali, quando non legislativi.
Scritto in modo ironico e brillante, il libro tradisce in realtà un fondo di preoccupata tristezza. Con un pizzico di civetteria, Dal Lago si dichiara non filosofo e condannato a più umili bassure intellettuali, ma ci sarà bisogno anche di lui per venire a capo dei fenomeni - tra i quali è da annoverare, nella veste di sintomo e non di causa, la consulenza filosofica - che denunciano l'attuale impotenza non dico politica, ma più modestamente civile del sapere filosofico.
Le guerre scoppiano perché l'attenzione polemologica dei filosofi è affetta da erudizione libresca? Magari: basterebbe correggere il tiro e fare un po' di tara sull'acribia filologica. Il peggio, per ora, lo si può solo intravvedere. Come sosteneva Niklas Luhmann, il welfare eredita su scala ingigantita e organizzata le pratiche tribali dell'«aiuto». Ebbene, il suo ritrarsi e il discredito che accumula ogni giorno di più alimentano surrogati assistenziali e variegate forme di supplenza e di imprenditorialità psico-relazionale che hanno appena cominciato ad invaderci e hanno un denominatore comune: l'emarginazione della cultura dei diritti, questa zavorra difesa ormai solo dai fissati e dai poco elastici.