Il segretario di Rifondazione, Franco Giordano: sul mercato del lavoro siamo pronti allo scontro
"La lotta al precariato non esiste più i riformisti hanno tradito i giovani"
di Luca Iezzi
Mani libere sul welfare. Non siamo stati consultati per il pacchetto sul welfare: sono proposte fuori dal programma e noi ci sentiamo liberi da vincoli Regalo agli industriali. E´ l´ennesimo favore alle imprese dopo il cuneo fiscale Non si potevano usare quei soldi per la previdenza?
ROMA - «Questo provvedimento deve essere cambiato, iniziamo uno scontro politico per riuscirci. Solo dopo decideremo come votare». Il segretario di Rifondazione Comunista, Franco Giordano, è di nuovo in prima linea. Alle critiche sulle pensioni, che rimangono, aggiunge, anche più forte, l´irritazione sul protocollo per il Welfare: «Sono proposte che colpiscono i lavoratori, favoriscono la precarietà, su cui non siamo stati consultati e che sono anni luce lontane dal programma. Ci sentiamo del tutto liberi da ogni vincolo rispetto a queste norme».
Però è una proposta del governo. Per di più, dice il ministro Damiano, "non emendabile".
«Fino a oggi pensavo anch´io di essere parte della coalizione di governo e invece mi trovo questo pacchetto di misure che non capisco a nome chi sia stata presentato. Vorrei ricordare che non esistono "soci di maggioranza" in questa coalizione, ma un programma da rispettare. Prodi deve chiarire se è il garante dell´Unione o è più interessato alle lotte intestine nel partito Democratico».
Le vostre proteste sono un modo per riportare l´asse del governo verso sinistra, dopo la vittoria dei "riformisti" sulle pensioni?
«No, le obiezioni sono sul merito di norme che colpiscono i lavoratori, specie i giovani. Mentre ai cosiddetti "riformisti" dico che ora si mostrerà tutta la strumentalità delle loro posizioni. Dopo aver passato mesi a parlare dei diritti dei "giovani" adesso sono spariti. Dove sono Veltroni e gli altri ora che serve combattere contro l´uso sistematico dei contratti precari».
Quali sono i punti per voi irricevibili?
«La parte sul superamento della legge Biagi non è in linea con il programma, la decontribuzione degli straordinari non era mai stata presa in considerazione, poi le norme sul lavoro precario dovevano ridurre l´uso di questi contratti e ciò non avviene. Anche sulle pensioni si scopre che c´è un tetto di 5 mila persone l´anno nelle esenzioni dall´aumento dell´età pensionabile: cosa significa? Se tra usuranti, turnisti e lavoratori con più di 40 anni di contributi si supera quel numero qualcuno rimane fuori? Sarebbe inaccettabile»
Però Cgil, Cisl e Uil hanno firmato il protocollo pur chiedendo delle modifiche.
«Guardi che stavolta a sinistra il giudizio è unanime: la Cgil espone critiche identiche alle nostre. Con i lavoratori si ha sempre un atteggiamento rigoroso: per mesi si dice che i soldi delle pensioni devono essere trovati all´interno del sistema, perché i conti non permettono altre scelte, poi di colpo escono i soldi per incentivare gli straordinari e per la contrattazione di secondo livello. È l´ennesimo favore alle imprese che hanno già ottenuto 5 miliardi dal cuneo fiscale. Perché quei soldi non si potevano usare per la previdenza? La verità è che il Partito Democratico vuole costruirsi un sindacato di riferimento meno conflittuale. Ma attenzione perché sui principi di fondo i lavoratori sono compatti».
Quali principi sono messi in pericolo dal protocollo?
«Viene modificata la struttura dei contratti e si ripropone un modello industriale secondo cui la competitività si ottiene con la riduzione del costo del lavoro. Il centrosinistra ha detto di voler superare questa visione favorendo gli investimenti in innovazione e qualità. Dove sta tutto questo nel documento del governo?».
Repubblica 25.7.07
L'amarezza del leader sindacale dopo la chiusura delle trattative sul Welfare
Lettera al premier: c'è un problema di metodo
"La concertazione è finita qui". Epifani rompe con il governo: "Da Prodi uno sgarbo alla Cgil"
di Roberto Mania
La svolta. Da settembre in avanti il confronto con l´esecutivo sarà assolutamente forte e serrato. Come disse Luciano Lama: i governi passano e le maggioranze cambiano, ma la Cgil resta Un patchwork. Quest´accordo è un patchwork , nel quale ogni pezzo risponde ad un gruppo di interessi Ecco il suo limite: è assente un´idea condivisa del Paese da parte di tutti gli attori sociali Duro scontro nella Confederazione "Firmeremo per senso di responsabilità"
ROMA - «È stato uno sgarbo alla Cgil che non possiamo far passare sotto silenzio», dice Guglielmo Epifani sfogliando tra le mani quel "Protocollo su previdenza, lavoro e competitività" che firmerà solo per senso di responsabilità e che sosterrà nella consultazione tra i lavoratori. Una scelta travagliata per la Cgil. Assunta a maggioranza (circa il 75 per cento) intorno alle quattro di notte, dopo una discussione tesa e asprissima nel Direttivo confederale, come non accadeva da molti anni. Perché su alcuni punti decisivi - e anche simbolici per la Cgil - il testo presentato dal governo non era quello concordato in precedenza. Due i vulnus: gli incentivi al lavoro straordinario e la fragilità dei vincoli ai contratti a termine. Oggi il leader di Corso d´Italia lo scriverà al presidente del Consiglio, Romano Prodi. E la lettera che arriverà a Palazzo Chigi segnerà l´inizio di una nuova stagione tra la Cgil e il governo di centrosinistra. Da settembre - dice Epifani - «il confronto sarà assolutamente forte e serrato». Conflittuale, insomma. Anche se è un aggettivo che si guarda bene dal pronunciare. L´appoggio della Cgil, comunque, non sarà mai scontato. Anzi. Epifani cita Luciano Lama per dire che ciascuno ora andrà per la sua strada: «I governi passano, le maggioranze cambiano, la Cgil resta».
Le distanze tra Epifani e Prodi sono diventate profonde, strategiche, non solo per ragioni di ruoli. Le misura anche il giudizio sul Protocollo: per il premier un risultato della concertazione tanto che ha voluto presentarlo lo stesso giorno (il 23 luglio) del "protocollo Ciampi" del ´93 sulla politica dei redditi; per il leader sindacale è invece «la dimostrazione che la concertazione, come l´abbiamo conosciuta, non c´è più». È finita esattamente dopo quattordici anni. «Allora - spiega Epifani - servì a ricreare coesione nel Paese, mentre si susseguivano i governi tecnici, e i vecchi partiti si ritiravano sotto la spinta anche dell´emergenza finanziaria. Oggi possiamo dire lo stesso? Oggi abbiamo un Paese molto più diviso, anche sul piano istituzionale. E poi quest´accordo è un patchwork , nel quale ogni pezzo risponde ad un gruppo di interessi. Questo è il limite del Protocollo: una somma di interessi parziali più che un interesse generale. È assente un´idea condivisa del Paese da parte di tutti gli attori sociali».
Certo, i risultati ci sono. Ed è anche per questo che Epifani firmerà: ci sono le misure per i giovani, c´è un assaggio di riforma degli ammortizzatori sociali, c´è il rafforzamento della contrattazione aziendale legata alla produttività, c´è l´aumento delle pensioni e c´è anche una via alternativa allo scalone per l´aumento dell´età pensionabile. Ma c´è un capitolo sul mercato del lavoro che Epifani è tentato di non firmare. «Perché per noi, per la nostra cultura, per un sindacato dei diritti, è molto più delicato il mercato del lavoro rispetto al nodo dello scalone. Sono in gioco diritti e tutele. Non è un problema di costi».
Nelle vicende sindacali contano anche i simboli. E i contratti a termine, per la Cgil, lo erano diventati. Da lì, nel 2001, cominciarono gli accordi separati fino al "Patto per l´Italia". Da lì, Epifani, avrebbe voluto far iniziare la risalita della Cgil. Invece no. Invece «all´ultimo momento» le proposte del governo sono cambiate. «Il governo ha sentito la Confindustria. Tutto legittimo, ma doveva aprire un confronto diretto, trasparente. Questo è stato uno sgarbo nei confronti della Cgil. Così l´ho avvertito io come segretario generale, così l´ha avvertito il Direttivo. Per i contratti a termine non ci sono le causali che li giustificano, né è chiara la base su cui definire i tetti sul totale degli addetti. Dopo 36 mesi si possono ancora reiterare a condizione che si rinnovino davanti alla Direzione provinciale del lavoro con il dipendente assistito da un sindacalista qualsiasi, anche di un "sindacato giallo"! Ma i contratti a termine sono il vero crocevia della precarietà. Passa tutto da lì. E poi lo staff leasing: la Confindustria ha chiesto di mantenerlo...». Ce l´ha con il ministro Damiano, ex Cgil? «Non credo che Damiano abbia responsabilità. È Palazzo Chigi che ha fatto questa scelta», risponde Epifani.
Non si può dire che la Cgil sia passata all´opposizione. Il lessico sindacale non contempla questa ipotesi perché c´è l´autonomia dalla politica. Però - dice Epifani - «c´è anche una situazione sociale delicata». «La protesta contro gli scalini non è amplissima, riguarda solo una parte dei lavoratori del nord, ma può legarsi a quella contro la precarietà con l´effetto di aumentare il distacco e la sfiducia verso la politica».
Corriere della Sera 25.7.07
Ultimi giorni di vacanza in Cadore. «Andare in Cina? Non posso parlare ora, è troppo complicato»
Il Papa e il '68: «Fu la crisi della cultura occidentale»
Question time del pontefice davanti ai sacerdoti: dopo il Concilio altri tempi difficili, come l'89
di Marisa Fumagalli
AURONZO (Belluno) — «È importante che il parroco non sia il burocrate del sacro, ma resti vicino alla sua gente. La segua nella preparazione ai sacramenti, favorisca tra i laici il senso della corresponsabilità ». Negli ultimi giorni di vacanza del Papa in Cadore, è l'ora del question time: i sacerdoti chiedono lumi, Benedetto XVI risponde, tracciando le linee guida. L'incontro (due ore, a porte chiuse) si è svolto ieri nella chiesa di Santa Giustina di Auronzo, dove, in mattinata, si erano dati appuntamento in 400, tra parroci e preti delle diocesi di Belluno e Treviso. La scaletta è stata preparata accuratamente. Niente sorprese, nessuna domanda estemporanea o di scottante attualità come il revival della messa in latino, secondo il rito Tridentino, o le «prove di dialogo» con la Chiesa cinese. Sul sagrato, rimedia un cronista. Che si lancia («Santità, andrà in Cina?»). Ma la risposta è laconica: «Non posso parlare in questo momento, è troppo complicato». Poi, Benedetto XVI sale sull'auto, acclamato dalla folla, per fare rientro a Lorenzago.
Ma torniamo ai preti, tra i banchi della navata della chiesa; qui, dieci intervistatori selezionati (rispettando la salomonica divisione fra le aree ecclesiastiche di appartenenza) pongono alcuni quesiti a Ratzinger. Il Pontefice risponde, ribadendo, in sostanza, concetti già espressi. I principali temi affrontati riguardano la formazione della coscienza dei giovani («occorre trovare una via laica e religiosa »), il confronto con gli immigrati, le priorità del ministero sacerdotale, il rapporto con i fedeli divorziati/ risposati, il senso della vita umana, il modo più consono di portare Dio tra gli uomini... «Pregate, curate, annunciate», esorta il Papa. Suggerisce di evitare dogmatismi, «diffondendo la parola di Cristo con semplicità, dentro una comunità parrocchiale viva e accogliente. La Chiesa non cresce nella statistica, ma nella vitalità che dimostra». «Il cattolicesimo — aggiunge — chiede che i sacerdoti tengano i piedi per terra, con gli occhi rivolti verso il cielo». Il nodo dei divorziati — osserva — va affrontato a monte, attraverso la prevenzione. Cioè la preparazione al matrimonio. E se l'unione fallisce, occorre valutare bene se c'era o no il matrimonio sacramentale, tenendo in considerazione anche la strada della «nullità». Sui rapporti con gli immigrati, esalta soprattutto i valori da condividere, il dialogo, affermando che «occorre vivere da prossimi, anche con i non cristiani».
Ai preti della generazione del Concilio, delusi nelle loro aspettative («avevamo sognato tante cose »), Benedetto XVI ricorda che i tempi successivi al Concilio non sono stati facili, citando due «cesure » storiche: il '68, periodo di «crisi della cultura occidentale» e il crollo dei regimi dell'Est dell'89.
Sul tema creazionismo/evoluzionismo, già trattato in un suo libro, il Papa si sofferma, ribadendo che il senso della vita li contiene entrambi. «L'evoluzione è un dato di fatto — asserisce — ma non basta per rispondere alle grandi domande. Dunque, non c'è alternativa assoluta tra l'evoluzione e il Dio creatore ». Esalta, poi, il valore della sofferenza («non c'è amore senza sofferenza e dolore») e della rinuncia.
Corriere della Sera 25.7.07
Un saggio di Nicholas Humphrey
Le origini delle emozioni
di Edoardo Boncinelli
La vista di una palla rossa può suggerire tante sensazioni. «Con il lancio di una rossa palla / di nuovo Eros dalle auree chiome / mi invita ora a giocare / con quella là dai sandali sgargianti », canta per esempio Anacreonte. Quando vedo una palla rossa, in verità, accadono in me almeno tre cose. Per prima cosa ho la sensazione di vedere una palla rossa; in secondo luogo apprendo che nel mio campo visivo c'è una palla rossa; in terzo luogo, infine, so che sto percependo la presenza di una palla rossa. Per quanto concerne la conduzione della mia vita, delle tre cose in fondo basterebbe che si realizzasse anche soltanto la seconda, ma un'attenta riflessione mostra anche la presenza delle altre due, seppure indissolubilmente fuse con quella. Sono considerazioni queste che hanno a che fare con il fenomeno della coscienza, il più enigmatico ed elusivo tra quelli concepibili, quello che ha fatto versare fiumi di inchiostro e che tiene tutt'ora impegnate le menti migliori, tra i filosofi come tra gli psicologi e i neuroscienziati. Come abbiamo detto, per la mia vita sarebbe sufficiente che in questa circostanza io prendessi coscienza della presenza di una palla rossa. Per vivere e sopravvivere ciò è più che sufficiente.
Accade però che accanto a questo tipo di coscienza, che ha un contenuto cognitivo dichiarabile, esiste una mia personale sensazione che accompagna tale presa di coscienza. Questa sensazione personale, piena di risonanze affettive e ricca di coloriture emotive è mia e solo mia. Non è probabilmente essenziale, ma accompagna invariabilmente e inesorabilmente ogni mia esperienza sensibile, o anche ogni mia rievocazione di ricordi. A questo lato sovranamente ineffabile della coscienza è stato dato il nome di coscienza fenomenica. Comprendere l'essenza e il ruolo della coscienza fenomenica sembra il problema più arduo della moderna riflessione filosofica intorno alle neuroscienze.
Il problema della coscienza fenomenica è anche l'oggetto del bel libretto di Nicholas Humphrey intitolato sibillinamente Rosso (Codice Edizioni, pp. 106, e 11). Le cento pagine del libro sono tutte centrate sull'effetto che ha su di noi la vista di uno schermo rosso, uno dei colori ai quali è più difficile restare indifferenti. Si tratta di una serie di semplici considerazioni accompagnate da qualche disegnino elementare. Ma l'aspetto dimesso e accattivante non deve trarre in inganno: si tratta di una riflessione molto approfondita su alcuni fenomeni quotidiani ma non per questo meno enigmatici, come chiarisce il sottotitolo Uno studio sulla coscienza.
Lo scopo dichiarato del nostro autore è quello di comprendere e farci comprendere perché accanto alla coscienza di qualcosa esiste l'insieme di sensazioni che l'accompagnano. Perché insomma una coscienza fenomenica va sempre di pari passo con la presa di coscienza di un fatto. Qual è l'origine e la funzione di tutto questo? E perché l'evoluzione biologica — Humphrey è di scuola inglese e non dubita nemmeno un istante che dietro ogni fenomeno vitale ci sia lo zampino della selezione naturale — ha favorito lo sviluppo di questa forma di coscienza?
Dopo una lunga serie di ragionamenti ed esempi, tutti in sé e per sé estremamente semplici, l'autore giunge ad una conclusione interessante e abbastanza inusitata, che chiama in causa il terzo dei fatti ai quali abbiamo accennato all'inizio. Provare un'intensa sensazione alla vista di una palla rossa, o di qualsiasi altra cosa, mi rimanda indirettamente ma irresistibilmente a me come soggetto cosciente. Ogni mia sensazione riafferma la mia esistenza e la centralità del mio io. Insomma mi fa sentire importante, certo più importante di qualcuno o qualcosa che non avesse sensazioni coscienti. E mi fa pensare di avere un Sé, magari immateriale. «Io propongo che nel corso dell'evoluzione umana i nostri antenati — i quali ritenevano le proprie coscienze metafisicamente notevoli (esistenti fuori dallo spazio e dal tempo normali) — si sarebbero presi più sul serio come Sé». Nel libro si può riscontrare qua e là qualche ambiguità terminologica e l'autore non ci dice a che punto della scala evolutiva pone gli eventi che prende in considerazione: parla di uomini direttamente o anche di scimmiotti o di cani? Ciononostante, leggerlo è piacevolissimo e certamente molto istruttivo. È un libro fatto per chi ama pensare. E che... non disdegna il rosso. A proposito di rosso, abbiamo iniziato con Anacreonte; finiamo con Saffo: «Come la mela dolce che rosseggia del ramo alto / sulla parte più alta; l'hanno lasciata li i coglitori,/ certo non la scartarono, ma non poterono raggiungerla».
Liberazione 25.7.07
Forum con Mussi, Giordano, Diliberto e Bonelli
La Sinistra unita incalza il governo e organizza una manifestazione a ottobre
di Angela Mauro
Le divergenze sulla riforma previdenziale (Prc e Pdci da una parte, Verdi e Sinistra Democratica dall'altra) non fermano il percorso unitario a sinistra. L'occasione per un chiarimento, non definitivo ma che prova a spingere il processo in avanti, è stato il forum organizzato ieri pomeriggio dagli organi delle quattro forze interessate: Liberazione, Aprileonline, Rinascita, Notizie Verdi (in versione integrale la settimana prossima, in contemporanea sui 4 giornali). Il segretario del Prc Franco Giordano, il segretario del Pdci Oliviero Diliberto, il leader di Sd Fabio Mussi, il capogruppo alla Camera Angelo Bonelli per i Verdi si sono confrontati sui passi da compiere nel governo Prodi, in Parlamento e nella società, di fronte ad un Partito Democratico che pretende di essere timone unico dell'Unione.
Per tutti, un punto di incontro forte, fresco fresco di questi giorni: il protocollo sul welfare, presentato dal ministro Damiano alle parti sociali, sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil (seppur con distinguo da parte dell'organizzazione di Epifani) e criticato da tutta la sinistra dell'Unione che promette battaglia in Parlamento. Sulla riforma previdenziale, singolo atto di un'unica partita politica sul lavoro, restano le differenze di giudizio, ma il forum di ieri ha partorito una novità, positiva per l'unità a sinistra. Infatti, pur confermando la buona valutazione dell'accordo raggiunto la scorsa settimana tra governo e sindacati, Mussi condivide le criticità del Prc e del Pdci sulla clausola che limita ad un massimo di cinquemila unità annue gli esentati dall'innalzamento dell'età pensionabile (sarebbe un'ulteriore scrematura della platea dei lavori usuranti interessati, dettata dai tetti di spesa, secondo i calcoli dei riformisti al governo). E dà un giudizio decisamente negativo sulle proposte del governo per il welfare.
Al di là delle questioni specifiche, il vero punto di unità attuale per Prc, Pdci, Verdi e Sd è l'idea di una mobilitazione unitaria in autunno. Il forum si conclude con l'annuncio che prima dell'estate i rappresentanti delle quattro forze politiche si riuniranno per mettere a punto uno schema di proposte da avanzare al governo. Un governo, quello guidato da Prodi, in crisi di consensi, minacciato da forze (anche interne all'Unione) che vorrebbero vederne la fine, ma che tutti nella sinistra radicale vogliono difendere. Gli accenti della discussione al riguardo sono però diversi e sembrerebbero disegnare due assi principali, che rispecchiano un po' quelli emersi dai giudizi sulle pensioni: da un lato, Prc e Pdci decisi a non perdonare più nulla a questo governo per riconquistare la sua base sociale e salvaguardare l'alleanza e il programma premiati dalle elezioni; dall'altro, Verdi ed Sd attenti a non aprire conflitti nel governo, pur contestando le sue tentazioni e torsioni riformiste. Ci si mobiliterà insieme in autunno, ma Giordano va oltre, propone una «manifestazione unitaria a ottobre» e aggiunge: «Il mio partito è pronto a costruire un soggetto unitario e plurale della sinistra. Lanciamone gli stati generali a settembre». Mussi non dice né sì né no alla proposta e fornisce la sua idea sulla mobilitazione d'autunno: «Ragioniamo su un evento partecipativo, capillare di massa perchè chi non fa l'inchiesta non ha diritto di parola, diceva Mao». Il segretario del Prc risponde con Marcos: «Camminare domandando». Spiega il leader di Sd: «Abbiamo litigato sulle pensioni e forse continueremo ma non rinuncio al progetto di unità della sinistra. Ma dobbiamo rinnovarci tutti: non possiamo restare naufraghi del passato».
Il passato è il '98, la fine del primo governo Prodi, un'esperienza che nessuno dei quattro è interessato a ripetere. Dice ancora Mussi che mentre «l'accordo sulle pensioni non è malaccio, tranne la "clausola sui 5mila"», su lavoro e welfare «siamo molto lontani dal programma dell'Unione». Il parere è dunque «assolutamente negativo», ma al «che fare?» evocato da Diliberto, l'ex diesse risponde: «Calibrare i giudizi, compiere dei passi, ma muovere il paese contro il governo di cui si fa parte sarebbe un atto di originalità italiana». Dunque, «bene l'iniziativa comune delle sinistre, ma sono contrario ad aprire da sinistra una crisi di governo». Al Partito Democratico che «procede verso nuove ipotesi di alleanza», bisogna replicare «rimettendo sul tavolo il programma dell'Unione».
Giordano rilancia, battendo sulle pretese di autosufficienza del Partito Democratico. Sulle pensioni, dice, Rifondazione «non ha invaso la sfera del sindacato. Il punto rilevante è chi fa le scelte, a nome di chi, con quale mandato: è possibile che il governo proceda ad una riforma del mondo del lavoro senza che i ministri della sinistra radicale sappiano nulla?». Dunque, «se c'è un programma che non è più attuale, perchè non ricontrattarlo punto per punto con tutti?». E' anche una risposta a Bonelli, esplicito nella critica alla strategia di Rifondazione sulle pensioni. «Mi convince però la mobilitazione d'autunno per trovare punti di contatto e creare un clima di partecipazione - aggiunge il Verde - ma se lo dobbiamo fare, dobbiamo evitare ulteriori conflitti nel governo. Io immagino una stagione con capacità riformiste, con una sinistra che sappia modernizzarsi e fare proposte».
A Bonelli e Mussi replica anche Diliberto: «Ogni volta che viene toccato un diritto, alla sinistra viene chiesto il senso di responsabilità, ma così si rischia di smarrire il senso della missione sociale della sinistra, cioè lo stare dalla parte dei subalterni». Quindi, «continueremo ad esercitare il senso di responsabilità, ma lo chiediamo anche agli altri. Siamo d'accordo sul fatto che aprire una crisi di governo da sinistra vorrebbe dire fare un regalo a chi vuol far cadere il governo, ma non vedo contraddizione tra l'essere al governo e lottare contro i provvedimenti che non condivido». Perciò la battaglia si dispiegherà su due fronti: «A colpi di emendamenti in Aula su welfare e pensioni e con la mobilitazione sociale fuori dal Parlamento per dare un educato e positivo scossone al governo per il suo bene: sennò potrà anche durare, ma senza consensi». L'autunno «sarà di lotta e di governo».
«Non uso la stessa espressione per scaramanzia», scherza Giordano che sottolinea la necessità di un'operazione culturale a sinistra, riprendendo e rovesciando il ragionamento di Mussi sull'opportunità per la sinistra di concentrarsi sulla qualità del lavoro più che sulla sua fine (pensioni ed età pensionabile). «Dobbiamo discutere del rapporto tra tempo di vita e tempo di lavoro - dice il segretario del Prc - perchè una maggiore aspettativa di vita non sia consegnata automaticamente al lavoro, altrimenti la politica rischia di diventare l'ancella dei processi di valorizzazione del capitale». Il punto per Giordano è che questo governo, sotto la pressione dell'imprenditoria, «rischia di posizionarsi negativamente sia sul tempo del lavoro che sulla sua fine». Come dimostra il protocollo Damiano sul welfare: «E' caduta la foglia di fico: chi sbandierava gli interessi dei giovani sulle pensioni, adesso non li difende dalla precarietà e dalla legge 30». C'è materia per battaglie comuni.
Liberazione 25.7.07
Il progetto neogollista illustrato da Veltroni al "Corriere"
La democrazia è in crisi: aboliamola...
di Piero Sansonetti
Ieri Walter Veltroni ha pubblicato sul Corriere della Sera un proclama che riassume la sostanza del suo pensiero e del suo progetto politico. Indica la via da seguire al Partito democratico, e delinea un abbozzo di "Italia del futuro", come piace a lui, come l'immagina. E' un proclama essenzialmente gollista (nel senso che riprende tutte le suggestioni della democrazia autoritaria francese, fondata dal generale Charles de Gaulle negli anni '50), prevede un grande rafforzamento del potere esecutivo e della premiership , con una consistente riduzione del potere rappresentativo del parlamento e dei partiti. Delinea un annullamento del conflitto, della lotta sociale, del ruolo e dei diritti del sindacato. Sostituiti dall'efficienza e dall'ordine della decisione. Disegna una società molto gerarchizzata, la cui riuscita dipende dalla capacità di chi la governa, con metodi forti, autorevoli, certi. Il Corriere della Sera ha dedicato una pagina intera a questo saggio del Sindaco di Roma, che è corredato da 10 proposte, semplici e concrete, di correzioni delle leggi e della Costituzione, che dovrebbero essere i dieci pilastri della terza Repubblica.
Il progetto di Veltroni ha due pregi, indiscutibili: il primo è quello di essere chiarissimo, netto, di rovesciare il luogo comune del Veltroni generico e unanimista. Il secondo pregio è quello di essere perfettamente compatibile con le aspettative e i disegni dei gruppi dirigenti della borghesia italiana. Veltroni offre ai gruppi dirigenti del nostro capitalismo uno schema politico che - per la prima volta dai tempi della Dc - possa ricostruire l'unità tra il potere politico e il potere economico. In che modo? Sfrondando il potere politico dalle sue implicazioni sociali, di classe, di ceto, diciamo dalle sue "radici di massa", e trasformandolo in una macchina funzionante, neutra, capace di adattarsi alle prospettive e agli interessi della "classe vincente". L'Italia di Veltroni è in grado di ricomporre le fratture che in questi anni hanno diviso la borghesia italiana, indebolendone le capacità di governo.
Per questo è fortemente attuale. Ha moltissimo a che vedere con quello che leggete nell'articolo di Andrea Colombo, qui accanto, e cioè con la controffensiva delle classi dirigenti che - quattordici anni dopo la vittoria del 1992 e la normalizzazione sindacale del 1993 - rilanciano, chiedono una nuova affermazione, la resa dei sindacati e il "contenimento" della politica e delle resistenze che esercita.
Le dieci proposte di Veltroni possono essere riassunte così: riduzione del Parlamento; aumento del potere del presidente del Consiglio; bipolarismo, o meglio bipartitismo; sistema maggioritario; corsie preferenziali per le leggi del governo; emarginazione e forte ridimensionamento, anche finanziario, dei partiti (e persino dei giornali di partito); federalismo fiscale e quindi spostamento di ricchezze verso il nord, cioè verso la parte più efficiente del paese. Poi due proposte che si misurano con la questione del consenso: voto ai sedicenni per le amministrative e quote rosa per legge.
L'analisi di Veltroni parte da una constatazione: la crisi della democrazia. Però questa constatazione non è accompagnata da una analisi. Qual è la ragione di questa crisi? Veltroni scrive solo qualche frase un po' vaga sulla globalizzazione e l'internazionalizzazione del potere. Se invece avesse preso in considerazione le elaborazioni di qualche anno fa di due suoi compagni di partito come Alfredo Reichlin e Giorgio Ruffolo, avrebbe potuto ragionare sulla loro teoria che riguarda la separazione tra "potenza e potere". Dicevano Reichlin e Ruffolo che potenza e potere sono le due particelle che compongono l'"atomo" denominato governo. "Appartengono" alla politica. Scindendosi, creano una deflagrazione che rende impossibile il governo. La globalizzazione capitalista ha portato a questa scissione: l'economia ha sottratto alla politica la "potenza", lasciandole solo il potere formale, cioè i riti e la burocrazia del potere ma non più la sua funzionalità. Per questo - dicevano Reichlin e Ruffolo - la democrazia soffre, perché le decisioni vengono prese altrove.
Ora voi capite che se le cose stanno così, ci sono due possibilità: la prima è aiutare la politica a riprendersi il potere, e quindi la democrazia a vivere. L'altra soluzione è quella di rinunciare alla democrazia e consegnare all'economia, che già detiene la potenza, anche il potere, permettendole di esercitare la sua dittatura, finalmente completa e libera dagli ostacoli costituiti dalla democrazia politica, dal libero conflitto sociale, dalla legittimità del sindacato.
Questo secondo è il disegno di Veltroni. Correggere una democrazia malata con l'iniezione di una forte dose di autoritarismo. Risolvere la sempre più difficile convivenza tra democrazia come rappresentanza e democrazia come governabilità, a favore di quest'ultima.
C'è un illustre precedente, in questa storia. Si chiamava Bettino Craxi. Sebbene la Grande Riforma che lui propose alla fine degli anni '70 (tra gli artefici di quella riforma, in un ruolo importantissimo, c'era Giuliano Amato) fosse assai meno drastica, e lasciasse in vita una parte assai più grande della democrazia politica, tuttavia la Grande Riforma Craxiana assomigliava a questo proclama di Veltroni per una ragione essenziale. Era stata concepita come una via d'uscita dalla crisi e un modo per rifondare una sinistra che intendeva recidere tutte le sue radici storiche e di classe e riproporsi come alternativa alla destra, più stabile, più affidabile, con più capacità di governo.
Nell'idea di Craxi, però, questa sinistra avrebbe garantito la mediazione tra borghesia e ceti deboli. E avrebbe anche garantito il primato della politica e la sua piena autonomia. Veltroni, oggi, ritiene che questo non sia possibile: che la politica, per sopravvivere, deve cedere lo scettro all'economia e accontentarsi degli onori del secondo posto. E che, per questa ragione, non sia più possibile una funzione di mediazione tra gli interessi: il compito che deve essere assunto dalla politica è quello dell'organizzazione del consenso che consenta la prevalenza degli interessi dello sviluppo e del profitto sugli interessi dei ceti più deboli. Gli interessi dei ceti più deboli, in questa costruzione teorica, vengono definiti "frammentari" e corporativi. E proprio perché frammentari devono essere "sterilizzati" e trasformati in una variabile dipendente dell'interesse generale che coincide con l'interesse della Classe dirigente. E alla politica spetta la conquista e l'organizzazione del consenso, per conto terzi, cioè per conto di quella Classe dirigente alla quale è restituito il ruolo di guida della nazione.
il manifesto 25.7.07
Sinistra al bivio: o si cambia o è la fine
La «Cosa rossa» si ricompatta contro il protocollo sul welfare. Oltre a Rifondazione e Pdci critici anche Verdi e Sd. Pecoraro Scanio: «Un accordo che sa tanto di muffa». Giordano promette battaglia e Manuela Palermi avverte: «Siamo arrivati al capolinea»
di Alessandro Braga
Roma. In un incontro di pugilato, un «uno-due» così ravvicinato, repentino, preciso, è di quelli che ti mette al tappeto. O, perlomeno, ti costringe alle corde, all'angolo. A quel punto o reagisci d'orgoglio e inizi a tirar fendenti all'avversario, o getti la spugna, o cadi a terra in attesa che l'arbitro conti fino a dieci.
In pochi giorni, il governo e l'ala riformista dell'Unione hanno sferrato un duplice uppercut alla parte sinistra della maggioranza. Venerdì scorso, con l'accordo firmato tra governo e sindacati sulla riforma delle pensioni. L'altra notte, con la firma del protocollo d'intesa sul welfare. L'esito finale della trattativa sulla riforma previdenziale, con l'aut aut di Romano Prodi ai sindacati, in particolare alla Cgil («o firmate, o cade l'esecutivo e vi tenete la legge Maroni e lo scalone») aveva diviso i partiti alla sinistra del nascituro partito democratico: Rifondazione comunista e Pdci a dire che non ci stavano, che avrebbero fatto di tutto per cambiare un accordo che non andava bene. Verdi e Sinistra democratica, dal canto loro, avevano apprezzato nel complesso il documento, sebbene ne sottolineassero alcuni punti di criticità.
Ieri almeno i quattro partiti della sinistra alternativa erano su una posizione comune che, spiegata con termini non propriamente politichesi, era: questo accordo fa schifo. Il ministro Fabio Mussi ieri ha detto che «il protocollo del governo contiene tre parti: previdenza, competitività e mercato del lavoro». Se c'è l'ok da parte di Sinistra democratica alla prima parte, sugli altri punti Mussi avverte che il suo gruppo proporrà, quando il consiglio dei ministri sarà chiamato a discutere e il parlamento a decidere, «soluzioni diverse, più coerenti con il programma dell'Unione». E anche il verde Alfonso Pecoraro Scanio parla di «un accordo che sa di muffa, che non guarda al futuro».
Magra consolazione, questa nuova unità a sinistra, visto che ora si tratta comunque di decidere che fare nel prossimo futuro. Se si ingoia il rospo, l'ennesimo, si può dire che la sinistra di governo sia finita. Nel senso che non esisterebbe in quanto tale all'interno della maggioranza. In questo primo anno di vita dell'esecutivo Prodi, da sinistra, si è cavato poco o nulla: sui diritti civili si era partiti dai Pacs, poi trasformati in Dico, ora Cus; in politica estera, a parte il ritiro delle nostre truppe dall'Iraq, dovuto più a una contingenza storica che a una vera concessione dell'ala riformista alla sinistra, quasi nulla. In Afghanistan i nostri soldati ci stanno ancora, e anzi la scorsa primavera il nostro contingente era stato rafforzato con l'invio di altri elicotteri e mezzi corazzati, oltre a un aumento del numero degli uomini impegnati nella missione.
Se non lo si ingoia, d'altra parte, a non esistere più sarebbe il governo. Che resterebbe senza una maggioranza politica a sostenerlo, a meno di accordi con una parte dell'opposizione, magari proprio quella che citava l'altroieri il diessino Maurizio Migliavacca quando parlava di dialogare con quelle forze del centrodestra «che manifestano posizioni autonome rispetto a chi va alla ricerca ossessiva della spallata al governo».
Il documento sul welfare, che mantiene sostanzialmente intatta la legge Biagi e non elimina la precarietà, così com'è non può essere in alcun modo digerito a sinistra. Ma possibilità di cambiamento si scontrano con la dichiarazione del ministro Damiano, che lo ha blidato: «Non è emendabile». Il fatto di non essere stati parte in causa durante la discussione permette alla sinistra maggior libertà di azione, e il segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano su questo punto è stato chiaro: «Non ci sentiamo legati al rispetto di nulla visto che siamo lontani anni luce dal programma. Sulla proposta si apre un conflitto, e il nostro voto dipenderà dall'esito del conflitto». Conflitto in cui il Prc avrà come alleati anche gli altri partiti della sinistra alternativa, se si tiene fede alle dichiarazioni di ieri. «Il protocollo è inaccettabile, così non si può continuare», ha detto il capogruppo alla camera del Pdci Pino Sgobio. La battaglia è aperta, il rischio è che, come afferma Manuela Palermi, si sia «arrivati al capolinea».
il manifesto 25.7.07
Bertinotti processa D'Alema e Latorre
«No ai privilegi dei parlamentari e allo scontro istituzionale» I Ds non hanno ancora sciolto il nodo dell'autorizzazione
Roma. Più di tutto, a convincere il presidente della camera sono state le parole di Giorgio Napolitano. Quell'intervento sulla gip milanese Clementina Forleo, considerata colpevole di aver espresso giudizi «non pertinenti e chiaramente eccedenti», a lui non è piaciuto e anche se sa che il Prc ha scelto di tenere un profilo basso, lasciando che siano i Ds a fare la prima mossa, Fausto Bertinotti ha scelto la propria. Complici i microfoni di Otto e mezzo ha spiegato che davanti alle intercettazioni scaturite dalle indagini su Unipol, gli onorevoli coinvolti dovranno accettare di sottoporsi al giudizio dei magistrati come chiunque altro: «In questa fase i parlamentari devono dimostrare non solo di essere al di sopra dei sospetti ma di non avere nessun privilegio, nemmeno un'apparenza di privilegio, in modo che la discussione politica possa essere avviata senza elementi che la turbino». Ha accompagnato l'esternazione a un paio di commenti circa la massima stima verso i dirigenti Ds coinvolti dalla vicenda, ma poi ha proseguito criticando le parole venute dal Quirinale: «Bisogna evitare il rischio di un conflitto interistituzionale. Siamo in un momento di crisi politica ma un conflitto tra le istituzioni è un serio rumore di fondo a questa crisi».
La mossa del presidente della camera stringe i Democratici di sinistra in un angolo persino più stretto di quello in cui si trovavano. Qualcuno, nel partito e fuori, si aspettava che nella giornata di oggi avrebbero sciolto il nodo e preso esplicitamente posizione sull'autorizzazione all'uso delle intercettazioni. E invece il dado non è tratto. Marina Sereni, vicecapogruppo alla Camera dell'Ulivo, ha fatto la prima apertura spiegando che i Ds non hanno nulla da nascondere: «Non siamo mai stati né pregiudizialmente a favore né pregiudizialmente contro le autorizzazioni. Si tratta di guardare le carte e diciamo che non abbiamo nulla da nascondere. Ci orienteremo di conseguenza». Ma non è ancora la linea della massima trasparenza che qualcuno attendeva. Anche perché più o meno mentre la vicecapogruppo della Camera spiegava la propria opinione, il virtualmente indagato Nicola Latorre ai microfoni di Radio24 spiegava che sì, lui è «a disposizione della magistratura», ma «prima la giunta e poi l'aula devono valutare con estrema serenità e rigore la documentazione oggetto di questa richiesta, posto che di questo materiale non c'è ancora traccia». Un modo, neanche velato, per evitare il punto che lo tocca più da vicino.
Pur non avendo ottenuto le dimissioni del rivale Antonio Di Pietro, il ministro Clemente Mastella ha dato mandato al suo ispettorato perché acquisisca le ordinanze firmate a Milano, in particolare quella che tira in ballo D'Alema e Latorre. Non una ispezione, dunque, ma una valutazione degli atti passata la quale il guardasigilli deciderà se archiviare il caso, inviare gli ispettori nel capoluogo meneghino oppure inviare la propria segnalazione al procuratore generale della cassazione Mario Delli Priscoli che, attraverso una procedura tutta interna al Csm, ha ricevuto tutto ieri tramite il presidente della corte d'appello di Milano, Giuseppe Grechi.
Tutte mosse che piacciono poco al ministro per le infrastrutture Antonio Di Pietro. Incurante delle proteste del collega ha insistito anche ieri: «Nessuno tenti di fermare le indagini e il parlamento dia la possibilità al giudice di decidere con tutte le carte in mano».
il manifesto 25.7.07
I concetti di Gramsci al filtro delle lingue straniere
Primo di una serie di annali che intendono offrire una rassegna delle ricerche su Gramsci fuori d'Italia, il volume «Studi gramsciani nel mondo 2000-2005» a cura di Giuseppe Vacca e Giancarlo Schirru rivela l'attenzione internazionale rivolta ai «Quaderni». Anche se, come nota nel suo contributo Marcus Green, non mancano letture incomplete e fraintendimenti
di Guido Liguori
La fortuna di Gramsci nel mondo, e la rilevanza numerica dei contributi su Gramsci in lingua inglese (dovuta ai cultural studies e ai subaltern studies, per i quali egli è forse il massimo autore di riferimento), è un dato acquisito, come è stato dimostrato - in questo settimo decennale della morte - anche dal convegno internazionale organizzato dalla Fondazione Gramsci in collaborazione con l'International Gramsci Society su «Gramsci, le culture e il mondo» lo scorso aprile; e dal convegno della stessa Igs su «Antonio Gramsci, un sardo nel "mondo grande e terribile"», che si è svolto a maggio in Sardegna con la partecipazione di oltre sessanta studiosi, di cui la metà provenienti dall'estero (una decina dagli Stati Uniti, sei dall'Australia, cinque dal Brasile; e altri dal Regno Unito, dal Canada, dalla Romania, dalla Francia, dal Messico, dal Giappone).
Se si va al di là del dato quantitativo, quali sono i temi gramsciani che più hanno diffusione al di fuori del nostro paese? Un contributo di conoscenza è dato da una pubblicazione della stessa Fondazione Gramsci, Studi gramsciani nel mondo 2000-2005, a cura di Giuseppe Vacca e Giancarlo Schirru (il Mulino 2007, pp. 345, euro 24,50), primo di una serie di annali che si prefiggono di offrire una rassegna degli studi su Gramsci scritti fuori d'Italia. Un comitato scientifico quale quello che presiede alla pubblicazione - con studiosi che operano in Francia, Giappone, Stati Uniti, Russia, Messico, Germania, oltre che in Italia - può monitorare l'evolversi degli studi su scala internazionale e operare una selezione di qualità. L'osservazione che si può fare è solo quella della necessità di allargarlo a esponenti di altre aree geoculturali: l'assenza di rappresentanti di realtà come quella brasiliana e quella australiana sono pecche alle quali non sarà difficile porre rimedio.
Il volume in questione è composto da undici saggi, scelti con un duplice criterio: alcuni per il valore di rappresentatività dei contesti culturali dai quali provengono; altri quali contributi specialistici di oggettiva rilevanza. Sul primo versante, gli scritti di Michaelle Browers su «società civile» e «intellettuale» nel mondo arabo, di Markus Bouillon sul declino del processo di pace in Medio Oriente, di Rupe Simms sulla Black Theology in Sud Africa e di Claire Cutler sulla concezione gramsciana del diritto globale hanno un valore soprattutto documentario.
Indubbiamente interessante è lo scritto di Amartya Sen sui rapporti di Sraffa con Gramsci e con Wittgenstein: il premio Nobel ricorda come Sraffa abbia influenzato la svolta teorica tra il Tractatus e le Ricerche (il fatto era noto), ma anche mette in rilievo come le idee sul linguaggio dell'economista italiano fossero quelle del suo amico Gramsci. Tesi affascinante anche se un po' aleatoria.
Certo la collocazione di Gramsci in un consesso di tale livello - tra Wittgenstein e Sraffa - già di per sé aiuta a spiegarne la statura e l'enorme influenza del lascito intellettuale, rispetto alla quale persino l'accademia italiana inizia a mostrare qualche crepa: il successo del Centro interuniversitario di studi gramsciani, promosso dalla Igs Italia e presieduto da Pasquale Voza, ne è un chiaro sintomo.
Altri autori presenti nel volume sono nomi molto noti nel panorama degli studi gramsciani - da Joseph Buttigieg, curatore dell'edizione inglese dei Notebooks, a Juan Carlos Portantiero, da poco scomparso, antesignano con Aricó degli studi gramsciani in Argentina; da Dora Kanoussi, che in Messico ha portato a termine la traduzione in spagnolo dell'edizione critica dei Quaderni e poi le Lettere, al newyorkese Benedetto Fontana, uno dei migliori studiosi di teoria politica che si occupano di Gramsci. Accanto a essi, alcuni dei più promettenti studiosi delle nuove leve, quali lo statunitense Marcus Green e l'inglese Adam Morton. Il ventaglio dei temi è ampio: si va dal Gramsci lettore di Machiavelli di Portantiero al Filosofo democratico: retorica come egemonia di Fontana, dalla Introduzione alle Lettere della Kanoussi alla teoria della nascita dello Stato moderno tentata da Morton con una strumentazione marxiana e gramsciana. Sono però gli scritti di Buttigieg e di Green a riportarci maggiormente alle considerazioni dalle quali siamo partiti: quali sono i concetti gramsciani oggi più usati nel mondo? I saggi dei due autori sono imperniati sulle due architravi di questa fortuna, che essi sottopongono ad argomentata critica, opponendovisi dall'interno: il concetto di «società civile» e quello di «subalterno». Buttigieg critica la concezione di società civile attribuita a Gramsci prevalente nel mondo anglofono, fondata sulla visione binaria Stato/non Stato tipica della tradizione liberale ma - sottolinea Buttigieg - estranea a Gramsci, che col concetto di «Stato integrale» vede invece come un unico filo di potere attraversi e unisca dialetticamente entrambi.
Non solo, Buttigieg mostra come l'analisi gramsciana trovi una riprova proprio negli Stati Uniti di oggi, dove le forze conservatrici agiscono per formare l'opinione pubblica nella società civile in tutt'uno con la loro azione nelle amministrazioni repubblicane. Analogamente fa Green per il concetto molto diffuso di «subalterno», che viene da Gramsci e che grande fortuna ha avuto a partire dall'uso che ne ha fatto la scuola indiana cui appartengono fra gli esponenti più noti Ranajit Guha e Gayatri Spivak. Proprio con la Spivak polemizza l'autore fin dal titolo inglese del saggio - purtroppo non conservato nella traduzione italiana - Gramsci cannot speak, contrapposto al celebre scritto della Spivak Can the subaltern speak? L'accusa che egli rivolge alla celebre studiosa di Derrida è quella di aver stravolto il concetto gramsciano, astraendolo dal contesto di lotta per l'egemonia in cui era immesso. Green ci fa capire come Gramsci sia stato letto in modo incompleto, e spesso frainteso, specie dagli studiosi che, non conoscendo l'italiano, spesso non possono leggerlo e studiarlo integralmente.
Insomma, il panorama degli studi gramsciani fuori d'Italia è variegato. Non è solo nel nostro paese che è viva l'attenzione al testo e al contesto storico-culturale, anche se è soprattutto da noi gli studi gramsciani hanno fortemente privilegiato questo versante: penso alle iniziative della Igs Italia - un seminario interdisciplinare sul lessico dei Quaderni che va avanti da diversi anni e che ha già prodotto un libro apprezzato come Le parole di Gramsci (Carocci) e il primo, grande Dizionario gramsciano di prossima pubblicazione; e a quelle della Fondazione Gramsci, come l'edizione nazionale delle opere, di cui è uscito quest'anno il primo volume dei finora inediti Quaderni di traduzione a cura di Giuseppe Cospito e Gianni Francioni per i tipi dell'Istituto della Enciclopedia Italiana; e come l'impegnativo convegno in programma in autunno su «Gramsci nel suo tempo», nonché la grande Bibliografia Gramsciana Ragionata (BGR) a cui sta lavorando un gruppo di studiosi guidato da Angelo D'Orsi.
Non necessariamente questi «due mondi» (quello dello scavo storico-filologico e quello soprattutto volto all'uso di Gramsci) devono essere intesi come contrapposti: il reciproco ascolto è anzi necessario perché si impari da una parte a usare Gramsci senza tradirlo, e dall'altra a studiare Gramsci senza farne un fossile, un «classico» del tutto estraneo alla politica e alla lotta per l'egemonia che egli non solo teorizzò, ma cercò anche sempre di portare avanti in prima persona.
il Riformista 25.7.07
Rifondazione. La proposta
A sinistra più che un referendum servono primarie sui contenuti
di Pietro Folena
L'articolo di Paolo Franchi sul referendum che Rifondazione intenderebbe tenere per decidere se rimanere al governo è pieno di contenuti condivisibili e anche intessuto di un rispetto per l'interlocutore che è purtroppo merce rara tra i riformisti. Anche per questo merita una riflessione da parte di chi, come me, pur non essendo iscritto a quel partito, condivide con esso un percorso politico, quello di Sinistra europea.
Nella mia valutazione ci sono due elementi. Il primo è la condivisione del principio per cui un partito, il suo gruppo dirigente, non decide in solitudine sulle scelte più importanti. Qualcuno sostiene che il leader, quando decide, è solo. Io penso che quando il leader è solo prende le decisioni sbagliate e si condanna a rimanere in solitudine. Quando invece un partito cede il suo potere ai propri elettori, questo è un fatto da salutare come la rottura di un paradigma e il possibile inizio di una stagione differente nel rapporto tra politica e cittadini. Ben venga quindi che il Prc chiami i cittadini e gli elettori a scegliere. Se lo facessero tutti i partiti oggi non parleremmo di crisi della politica, almeno nei termini attuali.
I problemi, però, sono due, uno a monte e uno a valle. Quello a monte è che a una decisione del genere si poteva non arrivare affatto, se la sinistra, non solo il Prc, avesse raccolto per davvero l'appello di Fausto Bertinotti all'unità. Invece ci siamo incartati in discussioni interne, riflessi identitari, esegesi a volte ridicole sul vero significato delle parole del presidente della Camera. Malgrado lo sforzo generoso che Franco Giordano e il gruppo dirigente hanno condotto sulla strada dell'unità, evidentemente questo sforzo non è stato ancora sufficiente.
Per non parlare dei ritardi, colpevoli anche se non dolosi, nel percorso. Uno per tutti: dopo l'assemblea dei parlamentari, non ci siamo più riuniti. Questo ha portato a far saltare nei fatti il patto di unità di azione che davanti al primo banco di prova non è riuscito a produrre non dico l'azione, ma neppure la valutazione comune.
Ora pare che le forze di sinistra siano unite contro le proposte del governo sulla revisione della legge 30. Speriamo che almeno su questo la massa critica si faccia sentire. Il referendum del Prc, insomma, non avrebbe avuto neppure ragione, a mio parere, se la sinistra avesse marciato unita nella trattativa interna alla maggioranza sulle pensioni. Gli equilibri sarebbero stati differenti e l'esito pure. Del resto occorre dire che quel buono che c'è nell'accordo lo si deve al fatto che Rifondazione ha puntato i piedi.
Il problema a valle, invece, riguarda le forme di questa consultazione. Un referendum su un tema tanto importante non può risolversi in un semplice sì o no. Più che di referendum bisognerebbe pensare a «primarie di contenuto», non solo sulla permanenza al governo, ma sul programma e sul «come» agire nel governo. Personalmente, se mi chiedessero: «Vuoi che la sinistra rimanga al governo nelle condizioni attuali» la mia risposta sarebbe difficilmente un «sì». Rimanere come adesso è impossibile, perché o Rifondazione, Sinistra democratica, Pdci, Verdi, associazioni e movimenti si uniscono e fanno massa critica oppure la loro presenza al governo sarà sempre più ininfluente. A quel punto essere dentro o fuori poco cambia per i lavoratori, i giovani e i pensionati. Se invece la domanda fosse: «Vuoi che la sinistra rimanga nel governo, si unisca e ottenga scelte sociali differenti», allora la mia risposta sarebbe un «sì» convinto.
Ancora. Chi parteciperà a questo referendum e dove si voterà? È una questione decisiva. A Genova, alla riunione della Sinistra europea, ho posto con chiarezza questo problema. La quantità dei coinvolti fa la qualità della consultazione. Se si trattasse - e ancora non è chiaro - di un referendum tra i soli iscritti sarebbe una scelta sbagliata e deflagrante per l'intera sinistra. Non credo che i soli iscritti e militanti di un partito abbiano la piena disponibilità della permanenza di quel partito nel governo. Una forza politica, presente in parlamento e nell'esecutivo, lo è perché è stata votata da centinaia di migliaia o milioni di elettori. E allora questo referendum, per avere un senso e anche una validità, deve essere aperto a tutti gli elettori, svolto per strada, nelle piazze, non nelle sezioni o nelle Feste di Liberazione (lo dico con rispetto per le une e le altre). Insisto: questo è un punto che ancora non è stato sufficientemente chiarito. Ed è un punto dirimente, per ragioni sin troppo evidenti. Da questa scelta dipenderebbe anche l'esito del percorso di unità, oltre che le scelte di Uniti a Sinistra.
Insomma, non vedo nulla di male, anzi, nel fatto che il Prc decida di fare questa chiamata del proprio popolo. Io stesso nelle settimane passate avevo auspicato le primarie di progetto e di xxx. A patto che sia vera, partecipata e che qualsiasi sia l'esito - non ho paura a confrontarmi su questo - essa sia capace di cambiare in profondità la strategia. Se il referendum - che preferirei pensare come primarie sui contenuti - si farà e mi sarà data la possibilità di parteciparvi, farò campagna per una decisa virata nelle linee sinora adottate tanto verso il governo che verso l'unità a sinistra, per cambiare la prima nel senso di una maggiore incisività e l'altra nel senso dell'abbandono di ogni reticenza e ritardo. Che poi, a ben vedere, sono la stessa cosa.
portavoce di Uniti a sinistra
www.pietrofolena.net
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Repubblica 25.7.07
Wajda e l'eccidio di Katyn
I Russi in Polonia
L'uscita è prevista per il 17 settembre anniversario dell'aggressione sovietica
Il regista racconta il massacro in un film dai risvolti autobiografici
"Mio padre fu trovato nelle fosse, anche se allora credemmo che la responsabilità fosse dei nazisti. Negli anni '50 ho saputo la verità"
"Stalin voleva eliminare le élites intellettuali più influenti e tutti quelli che avevano partecipato alla guerra del 1920"
VARSAVIA. Per chi si dedica oggi al triste esercizio di voler stabilire se sia stato il nazismo oppure lo stalinismo ad avere raggiunto il più alto grado di atrocità del ventesimo secolo, il caso di Katyn appare emblematico. Nel rimbalzarsi la responsabilità dell´esecuzione segreta, perpetrata nella primavera del 1940, di decine di migliaia di ufficiali polacchi prigionieri di guerra, in una foresta russa non lontana da Smolensk, sovietici e nazisti rivelano, infatti, al di là delle loro ideologie, la potenziale interscambiabiltà dei loro crimini e delle loro menzogne.
E´ solo nel 1992, quando ormai l´URSS non esisteva più, che il presidente russo Boris Elstin offriva al presidente polacco Lech Walesa l´ordine scritto dato da Stalin alla NKVD di sopprimere 27.700 cittadini polacchi - colpevoli di combattere contro l´invasione nazista e «nemici incorreggibili «del potere sovietico». Ammissione tardiva di una verità di cui i polacchi, nonostante la censura comunista, erano al corrente da molto tempo. Era infatti in nome non già della razza ma della lotta di classe e di un preciso calcolo politico che un´intera élite era stata seppellita nelle fosse comuni di Katyn, privando così la Polonia della guida di buona parte della sua classe dirigente tradizionale.
Per più di mezzo secolo, dunque, la Polonia sovietica ha dovuto vivere questo immenso lutto nazionale sotto il segno della censura e della menzogna, ed ora che la verità su Katyn ha smesso di essere un argomento tabù ed è entrata nei libri di storia, vi era bisogno di un drammaturgo capace di evocarne l´intera tragedia, consentendone la catarsi collettiva.
Non è sorprendente che sia Andrzej Wajda ad avere raccolto la sfida con Post Mortem. Storia di Katyn, un film (tratto dal libro di Andrzej Mularczyk) la cui preparazione ha impegnato il regista per anni e di cui, non a caso, è prevista l´uscita il 17 settembre, ricorrenza dell´anniversario dell´aggressione della Russia alla Polonia del 1939. Chi, in effetti, più del maggiore e più famoso cineasta polacco aveva le carte in regola per affrontare la vicenda di Katyn? Nel corso della sua vastissima opera costellata di capolavori Wajda non ha forse raccontato in modo esemplare tanto gli avvenimenti tragici dell´ultima guerra - l´occupazione e la resistenza in Generazione e in I dannati di Varsavia, il ghetto in Il dottor Korczak - , quanto la lotta condotta nel dopoguerra dal suo popolo per la libertà con film come L´uomo di marmo e L´uomo di ferro?
Ma è a Wajda stesso che abbiamo chiesto di illustrarci le ragioni della sua scelta. E se la drammaticità e la delicatezza dell´argomento affrontato e la grande aspettativa che incombe sul film non sembrano apparentemente fare breccia nella corazza di cortese riserbo del grande regista, si avverte molta tensione nelle sue risposte. Seduto su una poltrona davanti a me, l´elegante, fragile signore ottantenne che è da tempo entrato nella leggenda del cinema, soppesa le parole, come se ne bastasse una sbagliata per rendere la verità di Katyn indicibile.
Signor Wajda, perché un film su Katyn oggi?
«Per due ragioni. In primo luogo perché fino ad oggi la cinematografia polacca non aveva realizzato un film su questo avvenimento. Un avvenimento che ritengo capitale per noi, non solo dal punto di vista storico ma dal punto di vista dell´esperienza spirituale di tutta la nazione e che, dunque, doveva assolutamente trovare la sua traduzione nel cinema. In secondo luogo per una ragione personale: mio padre faceva parte degli ufficiali che furono vittime del massacro».
All´epoca di Katyn lei aveva diciott´anni. Quando e in che modo è venuto a conoscenza di quel che era successo e come ricorda di avere vissuto personalmente la tragedia?
«La mia famiglia ed io l´abbiamo saputo esattamente come tutti gli altri, vale a dire durante l´occupazione. I tedeschi pubblicarono le prime informazioni sui loro giornali subito dopo la scoperta delle fosse di Katyn nel 1943. Ed è su questa lista tedesca che la mia famiglia ha trovato il nome di mio padre.
Personalmente ho vissuto l´eccidio di Katyn attraverso la tragedia di mia madre che, fino a qualche anno prima di morire, non ha mai potuto credere che suo marito non sarebbe più ritornato».
Allora si sapeva già che erano i sovietici ad essere responsabili del massacro?
«Debbo riconoscere che noi stessi, vista l´esperienza di mia madre, della mia famiglia e, in generale, dei polacchi, abbiamo creduto alla responsabilità dei nazisti. Conoscendo già il loro comportamento da assassini in Polonia, sapendo di cosa erano capaci, abbiamo pensato di trovarci davanti a una manipolazione tedesca. E´ soltanto negli anni Cinquanta, nel corso di un mio soggiorno a Parigi, che per la prima volta ho avuto modo di venire a conoscenza dei documenti riguardanti Katyn pubblicati da Kultura, la rivista dei dissidenti polacchi in esilio. Ed è allora che mi sono reso chiaramente conto che si trattava di un massacro sovietico».
Quali sono i motivi che hanno indotto i sovietici a perpetrare questo immenso crimine?
«A mio avviso ci sono delle ragioni precise per cui l´Unione Sovietica ha agito in questo modo. Innanzitutto Stalin voleva privare la Polonia delle sue élites intellettuali più attive e influenti. Non bisogna dimenticare che la maggior parte degli ufficiali assassinati erano militari di riserva e non di mestiere - medici, avvocati, professori, oltre a numerosi preti e rabbini - e né Stalin, né i suoi accoliti ritenevano possibile «convertire» questo tipo di persone al nuovo sistema ideologico. Inoltre i militari che hanno trovato la morte a Katyn avevano partecipato alla guerra del 1920. Erano loro che avevano difeso vittoriosamente Varsavia dall´offensiva dell´armata rossa. E questo smacco si era impresso a caratteri di fuoco nella memoria di Stalin, condizionando psicologicamente tutto il suo comportamento successivo. Vi era in lui la volontà di sopprimere i colpevoli della sua precedente disfatta. D´altronde, di per sé, il massacro di Katyn non è un avvenimento senza precedenti nella storia dell´URSS. Esattamente negli stessi luoghi erano già state sepolte un gran numero di altre vittime - in questo caso russi che si opponevano allo stalinismo - massacrate nel 1935, nel 1936, nel 1937».
Sovente, nei suoi film - penso, ad esempio, a L´uomo di marmo (1976), o a Sotto anestesia (1978) - lei ha affrontato il tema della manipolazione della verità da parte del potere. Il modo in cui il delitto di Katyn è stato dissimulato non ne costituisce un terribile esempio? Gli alleati, che pure sapevano chi erano i veri colpevoli, non vollero denunciare i russi per non compromettere l´alleanza con Stalin contro Hitler, e la Polonia comunista del dopoguerra, sotto la pressione della dittatura sovietica, fece di Katyn un argomento tabù grazie anche al sostegno di un certo numero di intellettuali che si rifiutavano di considerare Stalin alla stregua di Hitler. Non è così?
«In effetti, sì. Durante tutto il periodo della repubblica popolare polacca non vi è stato un solo momento in cui il potere sia stato disposto a dire la verità su Katyn. Nessun film sull´argomento ha potuto vedere la luce. Le autorità ritenevano comunque che nessuna produzione cinematografica pro - sovietica sarebbe stata in grado di convincere il pubblico e che di conseguenza era meglio evitare di affrontare la questione. Dunque niente libri, niente film, niente articoli, niente dibattiti. Di fatto il silenzio su Katyn ha costituito un ostacolo gravissimo per le relazioni polacco-sovietiche e ha continuato a pesare drammaticamente sul corso degli ultimi cinquant´anni della nostra storia.
Ricordiamoci che subito dopo la vittoria del 1945, Mosca ebbe la diabolica idea di istruire in Polonia un processo in cui si faceva ricadere la responsabilità di Katyn sui tedeschi. Le amministrazioni competenti incominciarono a raccogliere la documentazione necessaria, ma l´idea venne poi abbandonata perché Stalin decise di portare il caso davanti al tribunale di Norimberga per mondare davanti all´opinione internazionale l´URSS da ogni sospetto.
Oggi sappiamo che il procuratore sovietico che aveva osato suggerire a Stalin di astenersi dal presentare il dossier a Norimberga, venne assassinato il giorno dopo dal KGB, anche se poi il dittatore finì per rinunciare al suo progetto.
Qualche anno fa, al momento dell´uscita di Enigma, molte personalità polacche hanno protestato contro il film che raccontava, per l´appunto, della scoperta fatta dagli alleati della colpevolezza russa del massacro di Katyn grazie al lavoro di decodificazione degli ascolti radio svolto dagli ingegneri polacchi. Nel film uno dei tecnici polacchi era talmente sconvolto dalla decisione delle autorità britanniche di occultare la notizia per non lasciare trapelare di avere scoperto il codice usato dai nemici da decidere di passare dalla parte dei tedeschi. Le sembra una storia plausibile?
«Le proteste - che mostrano quanto questa storia continui ad essere dolorosa e importante per i polacchi - dipendevano dal fatto che i miei compatrioti pensavano che quel film tradisse la verità tanto sul ruolo avuto dai polacchi nella scoperta della chiave di decodificazione di Enigma quanto sulle conseguenze che ne erano derivate nel corso della guerra.
Una cosa va detta: l´atteggiamento degli alleati davanti al massacro di Katyn ha gettato un´ombra fra la Polonia e le democrazie occidentali, perché il loro atteggiamento è stato percepito come un autentico tradimento. Questa è, d´altronde, una delle ragioni per cui, a partire dal 1945, quando già si sapeva chi erano i veri responsabili del massacro, una parte della élite intellettuale polacca ha optato per il comunismo».
Ma non era una scelta contraddittoria?
«Non necessariamente. I polacchi avevano capito che gli alleati li avevano abbandonati in balia di Stalin. Di colpo, rimasti soli a fronteggiarlo, profondamente delusi dall´Occidente, alcuni di loro si erano rassegnati a considerare il sistema come l´unica realtà possibile».
E lei come ha deciso di raccontare questa terribile storia nel suo film?
«La sceneggiatura doveva prendere in considerazione due fattori: il crimine di Katyn e la menzogna di Katyn. Ora, mentre l´evocazione del crimine richiedeva un film d´azione, la ricostruzione della menzogna doveva avvalersi delle modalità narrative proprie di un film psicologico. Ed è così che è stato costruito il film.
L´inizio mostra gli ufficiali polacchi presi prigionieri dai sovietici e la loro vita nel campo di internamento; la fine è la ricostruzione del massacro nella foresta di Katyn nella primavera del 1940. Invece la parte centrale del film si svolge nel 1945, a Cracovia, sotto l´occupazione dell´esercito sovietico, e mostra le famiglie delle vittime di Katyn in preda all´angoscia che indagano e si interrogano sulla credibilità della versione ufficiale russa che sosteneva che il massacro era stato commesso dai nazisti nel 1941. Che cercano, insomma, in tutti i modi di scoprire la verità».
Che cosa rappresenta Katyn per la Polonia di oggi?
«La memoria della strage è radicata nel popolo polacco e gli anni di menzogne hanno contribuito a trasmetterla intatta alle generazioni successive al 1945. Tuttavia, da quando, nel 1989, la Polonia ha ritrovato la libertà il suo ricordo è meno vivo nei giovani. Di qui la necessità di rinvigorirlo puntando sulle date più importanti di quel periodo, a cominciare dal 17 settembre 1939, la data dell´invasione delle forze armate russe in Polonia in virtù del patto Rebentropp-Molotov».
Tempo fa lei ha dichiarato: "non ho cercato di evocare gratuitamente delle epoche trascorse, delle grandi figure, delle battaglie, insomma tutto ciò che chiamano storia. Ho tentato, al contrario, di descrivere degli esseri di carne e di sangue travolti dal corso della storia. Sono piuttosto i loro destini a darci il senso della storia".
«Questa affermazione vale anche per Post Mortem. Storia di Katym. Ancora una volta non si tratta di una ricostruzione cinematografica di eventi storici ma di una trascrizione di destini umani. E tra questi destini c´è anche il ricordo di quello di mia madre che non ha mai voluto accettare la verità ed ha continuato a sperare nel ritorno di mio padre».
Nel corso degli anni, per definire il suo stile, i critici hanno via via fatto ricorso ai termini di realismo, neorealismo, barocco, preziosismo, simbolismo. Quale le sembra oggi il più appropriato?
«La mia evoluzione è andata di pari passo con il cinema europeo di cui faccio parte. Nel corso di questi cinquant´anni ho sperimentato stili e correnti diverse. A cominciare dal neorealismo italiano di Rossellini. Ho cercato di trovarvi di volta in volta il mio posto man mano che apparivano nuovi temi e nuovi stili e che il pubblico cambiava. Tuttavia mi sono sempre sentito «al servizio» dei temi e degli autori che volevo evocare nei miei film».
Si può parlare, al di là di tutte queste metamorfosi, di uno «stile Wajda»?
«Quello che potrei indicare come elemento caratteristico di tutti i miei film e l´importanza delle immagini. Faccio un uso relativamente ridotto dei dialoghi per consentire una maggiore «visualità». Eppure anche le immagini, non meno delle parole, possono trasformarsi in ostacoli, costrizioni. Faccio dunque sempre molta attenzione a far sì che ciò non avvenga e sono sempre alla ricerca di immagini comprensibili a tutti, di immagini universali».