giovedì 26 luglio 2007

l’Unità 26.7.07
Il giornale di Rifondazione contro il sindaco di Roma
Il Manifesto: detesta il conflitto
. Liberazione lo attacca: «È un neogollista»


Per Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista, «Veltroni è un neogollista». Anche abbastanza pericoloso, perché in piena sintonia coi poteri forti. Per il Manifesto è uno che razzola bene, ma pratica male, perché delinea rimedi peggiori del male e sogna una società senza conflitto di classe, in cui «il proletariato non conta niente». È la stampa bellezza, e tu non ci puoi fare niente, direbbe il vecchio Humprey Bogart. Nemmeno Veltroni, che mediaticamente parlando non teme confronti. L’attacco simultaneo, anche se molto differente nei toni, non giunge inaspettato. Liberazione ha trattato malissimo Veltroni da subito, con un’escalation di imputazioni molto gravi dopo Torino, il Manifesto si è contenuto di più ma a quanto pare concorda con il giornale di Rifondazione sul ragionamento di fondo: il sindaco di Roma è l’alfiere subdolo di una modernizzazione targata Confindustria.
La cosa singolare è che l’attacco simultaneo è scattato dopo la pubblicazione sul Corriere del progetto istituzionale di Veltroni. Erano idee e proposte già esposte al Lingotto e un po’ rielaborate per il giornale di via Solferino ma evidentemente non se n’erano accorti. Scrive il direttore di Liberazione: «È un proclama essenzialmente gollista, nel senso che riprende tutte le suggestioni della democrazia autoritaria francese...delinea un annullamento del conflitto, della lotta sociale, del ruolo e dei diritti del sindacato...è un progetto perfettamente compatibile con le aspettative e i disegni dei gruppi dirigenti della borghesia italiana». Conclusione: il disegno di Veltroni è «correggere una democrazia malata con l’iniezione di una forte dose di autoritarismo». Per Liberazione il precedente c’è e si chiama («tanto nomine», direbbero i latini) Bettino Craxi.
Tutto questo perché Veltroni vuole una politica che decide? Perché vuole la riduzione dei parlamentari a un numero simile a quello delle altre democrazie europee? Perché vuole il federalismo, che la sinistra ha sempre chiesto? Perché vuole la fine del bicameralismo perfetto, un’anomalia solo italiana che tutti i giuristi considerano un ostacolo al funzionamento della democrazia? Perché vuole il voto ai sedicenni? Perché vuole una riforma elettorale che impedisca a un senatore irriducibile di tenere in scacco un governo eletto da venti milioni di cittadini? Insomma, magari sono proposte che piacciono anche agli elettori di Rifondazione. Criticarle è legittimo, ma che c’entra De Gaulle? Ecco, anche quando il vecchio generale non viene evocato, vedi il Manifesto, l’accusa è simile: «Dieci proposte senza base», scrive Valentino Parlato. Nel senso che sono «discutibili e di grande peso» ma sono «irrealizzabili, impossibili e incredibili» e per questo pericolose. Alla fin fine è Rossana Rossanda a chiudere il cerchio: Veltroni non va perché considera riprovevole il conflitto sociale. L’autunno sarà caldo, ma gli operai non c’entrano niente.

l’Unità 26.7.07
Epifani scrive a Prodi: così non va
«Testo sconosciuto e problema di merito sul mercato del lavoro». Si vota l’accordo a punti?
di Giampiero Rossi


Le scelte del governo sul mercato del lavoro aprono un «evidente problema di merito». Così il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani scrive in una lettera inviata ieri al presidente del Consiglio, Romano Prodi, nella quale chiede se sia possibile firmare l'accordo sul welfare «solo per parti» e non per intero. Il problema è serio, perché all’interno della Cgil ribollono malumori che il leader, oltre a dover gestire, condivide almeno in parte e lo ha detto subito, a chiare lettere, appena uscito da palazzo Chigi con in mano il testo definitivo del protocollo proposto dall’esecutivo.
Nella sua missiva a Prodi, infatti, Epifani sottolinea che il Comitato Direttivo della Cgil «ha approvato la scelta di sottoscrivere il Protocollo sul Welfare» ma che questa decisione «si accompagna ad una contrarietà sulla parte dell'accordo relativa al mercato del lavoro e alla decisione di azzerare ogni contribuzione aggiuntiva sullo straordinario. La scelta da parte del governo di presentare su tali punti un testo non visto in precedenza nella sua stesura definitiva, se non pochi minuti prima dell'incontro - aggiunge il dirigente sindacale - apre, per quello che riguarda la Cgil, un evidente problema di merito, trattandosi di materie strettamente attinenti alla dimensione contrattuale del sindacato dove, ad esempio, la cancellazione di un aggettivo determina il rovesciamento di un significato».
E non è tutto. Perché «c’è infine - scrive ancora il leader Cgil che conclude la lettera “con stima” - l'esigenza di un ultimo chiarimento: ferma restando la scelta della Cgil, il governo ritiene che l'accordo possa essere sottoscritto anche solo per parti o vada sottoscritto per intero? Si tratta ovviamente di due scelte non uguali». Non è soltanto una questione di forma, in gioco ci sono nodi che stanno a cuore al sindacato e sui quali si è giocata buona parte della campagna nei luoghi di lavoro quando si è trattato di sostenere il voto in favore del centrosinistra, dopo i cinque lunghi anni berlusconiani. E alle critiche del sindacato si aggiungono, con toni decisamente più aspri, quelle di Rifondazione comunista e Pdci che minacciano battaglia contro il protocollo.
Ma dalla maggioranza, e dai Ds in particolare, arrivano messaggi, rivolti più apertamente all’alla sinistra della coalizione, che sembrano voler respingere qualsiasi tentativo di rimettere mano all’accordo: secondo il leader della Quercia, Piero Fassino, infatti, l'accordo su welfare e pensioni siglato dal governo è «importante», di «grande valore sociale» e sono incomprensibili le critiche di alcuni partiti della maggioranza e di una parte del sindacato. «È la prima volta - spiega Fassino - che c'è un pacchetto di misure previdenziali che non contrappone padri e figli. È la più grande e significativa manovra sul mercato del lavoro e sulla previdenza degli ultimi anni», un intesa quindi che garantisce l'equilibrio dei conti, che si occupa del problema delle pensioni basse, che affronta la questione della previdenza per chi oggi è giovane, che implementa la previdenza integrativa. Un risultato che è merito in particolare del lavoro «paziente di mediazione del ministro Damiano» e anche della disponibilità di Tommaso Padoa-Schioppa «che ha messo in campo le risorse finanziarie disponibili». Per questo, secondo Fassino, le critiche devono essere lette come un «riflesso istintivo di conservazione». Il Pd, avverte, «sosterrà in Parlamento e nel paese» questo accordo «che rappresenta un fatto di innovazione e di riforma».
E a ribadire la linea di difesa totale all’operato di Damiano, interviene anche il responsabile delle politiche per il lavoro dei Ds, Pietro Gasperoni: «Gli aspetti giudicati insufficienti sul mercato del lavoro non possono oscurare la positività complessiva di un negoziato e del suo risultato finale che rappresenta un passo avanti molto importante per i lavoratori i giovani e i pensionati. Toccherà ora al parlamento - prosegue - fare la propria parte, valutandolo nel merito in ogni sua parte e trasformarlo in legge, sapendo che in caso contrario, ne subirebbero un danno proprio i lavoratori i pensionati e i giovani. Sono totalmente ingiuste - aggiunge il dirigente della Quercia - le accuse di incoerenza rivolte al ministro del lavoro, che si è invece distinto per l'equilibrio e la pazienza con cui ha tessuto la trama di un accordo con le parti sociali che solo pochi giorni fa sembrava impossibile».

l’Unità 26.7.07
Fiction, Mediaset vuole Basaglia
di Toni Jop


L’hanno capita a Mediaset: la gente, deprivata del vissuto da una virtualità che affoga nell’omologazione, vuole storie. La tv è come un nonno che non c’è più, quello che faceva sognare i nipotini nelle notti d’inverno e non c’è modo migliore per sostituirlo che incantare un immenso pubblico di bimbi cresciuti con sequenze di immagini fluttuanti in un mare di «sentimenti». Eccoli quindi, con una presunzione di programmare tempo e azioni teneramente sovietica, sbottigliare denaro, temi, interpreti e contenuti di un rosario di racconti che, in tv, vanno sotto il nome di fiction. Non cinema - anche se dà fastidio ai dirigenti Mediaset questa distinzione - ma film per la tv, e cioè un prodotto la cui qualità si misura quasi esclusivamente sul piano commerciale: se vende è buono, sennò puzza. Sennonché, pur sdraiata sulle innocenti bancarelle dell’offerta televisiva, questa non è materia inoffensiva, cioè è importante, tocca cuore e cervello di milioni di persone, tendenzialmente ne forma o assesta i comportamenti, i giudizi. Ci torniamo su. Intanto, hanno deciso di spendere 250 milioni l’anno per confezionare fiction. Gli va di abbandonare la miniserialità, due puntate e via, scegliendo la formula della botta unica, 100 minuti in una serata. Poi, hanno intenzione di setacciare la storia recente del paese per localizzare vicende particolarmente ricche di significato da tramandare ai posteri. Buona idea: fin qui ci hanno stramazzato con una sequela di papi ottimi e di santi commoventi; allarghiamo il campo, venga mai in mente, a qualcuno che può, di raccontare la storia di uno di quei tanti papi che hanno umiliato il Vangelo con le loro zozzerie. Intanto, notizia bomba, hanno annunciato che costruiranno tre eventi tv sulla vita di Franco Basaglia - lo psichiatra che ha fatto chiudere quella schifezza dei manicomi e ha liberato i reclusi - , sulla tragedia di Vermicino, sul G8 di Genova. Materia sensibile molto, una sorta di album morale del paese, una bella responsabilità. Alla domanda se abbiano in qualche modo affrontato preliminarmente la questione culturale nel suo complesso che scrivere di fatto la storia, anche se per la tv, comporta, Alessandro Salem, direttore generale dei contenuti Mediaset, ha risposto che non si sono posti il problema ideologico e che lavorano semplicemente a un buon prodotto che va venduto. Non sappiamo se rallegrarci o allarmarci per questa bella lievità di intenti. Anche perché lo spettro della fiction Mediaset è molto ampio e intende coprire i settori chiave dell’attenzione del pubblico: sociale, action-detection, commedia, universo femminile (magicamente ridotto da Salem al rosa-sentimenti), giovani (e dagli con i pruriti scolastici). Una fioritura di blocchi da sei puntate: su Buscetta (vedremo come se la cavano con gli stallieri di Arcore), sulla mafia della Squadra antimafia e una pioggia di ospedali e sale operatorie in cui tra un bacio e l’altro ti fanno a pezzi, una squadra di carabinieri ecologici, un tuffo nei servizi segreti (siamo tutt’orecchi); insomma, la vita è una caserma e soprattutto una divisa. Va capito se vogliono entrare nella vita reale o se invece riusciranno, forse loro malgrado, a oscurarla. Vanzina e Abatantuono scritturati per far ridere (sono bravi), Ferilli farà la spogliarellista che di giorno arrotonda accudendo bimbi (vorremmo Totò nella parte di un bimbo) etc. etc. È gente collaudata, ce l’abbiamo nel sangue la capacità raccontarcela su, funzionerà: venderemo anche all’estero e saremo tutti più ricchi e felici.

l’Unità 26.7.07
Così fan tutte in questo «Orlando Furioso»
di Giulio Ferroni


Ricostruita, sulla base delle dodici copie superstiti sparse in tutto il mondo, la prima edizione dell’opera di Ariosto, uscita nel 1516, e che, dopo un primo momento di straordinaria fama, scomparve dalle scene

Ugo Foscolo racconta che quel suo alter ego paradossale e umoristico che egli chiama Didimo Chierico, traduttore del Viaggio sentimentale di Sterne, «ventilava da sé» certe sue indefinite «controversie» con l’Ariosto, e un giorno, mostrando «dal molo di Dunkerque le lunghe onde con le quali l’Oceano rompea sulla spiaggia, gridò: Così vien poetando l’Ariosto». È forse la definizione più bella e sintetica che sia stata data dell’autore e del suo grande poema. L’Orlando furioso è davvero come il mare, con onde ora impetuose ora dolci che vanno e vengono: si avvolge attorno alla mente del lettore, si frange e si ricompone, non ha mai sosta in un movimento che da tutta la realtà estrae una sorta di schiuma luminosa, splendente, dai riflessi d’oro che nascondono pieghe oscure ed insondabili; trasporta i detriti più eterogenei, personaggi, vicende, immagini, modelli, forme, parole della tradizione letteraria classica e volgare, trasformandoli in un nuova originalissima narrazione, nello stesso tempo infinita e dai certi confini.
Proprio per la sua accecante luce, per la ferma inarrestabile sicurezza del suo ritmo, per la molteplicità degli elementi che lo compongono, l’Orlando furioso può lasciare inquieti ed esitanti anche lettori molto raffinati, suscitando questioni e «controversie». Manifestò ad esempio un vero e proprio fastidio nei suoi confronti Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che pure diede il nome ariostesco di Angelica alla fascinosa protagonista del suo Gattopardo. E in fondo il Furioso resta troppo trascurato e pochissimo letto nel nostro paese e nella scuola: sembrano molto lontani certi grandi rilanci degli anni ’60, dalla passione ariostesca di Italo Calvino (anche autore nel 1970 di una bellissima sintesi narrativa che è anche guida e percorso di interpretazione, Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino) al formidabile spettacolo di Luca Ronconi (che per il testo si avvaleva della collaborazione di Edoardo Sanguineti).
Ma se si prova oggi a percorrere il poema, magari ancora con la guida di Calvino, non si può non restare catturati dal gioco sempre mobile delle armi e degli amori, dagli scatti verso la più dispiegata evasione fantastica, dall’ironia che corrode la stessa consistenza dell’invenzione, dal prezioso ricamo di figure e di forme ricavate dalla tradizione classica. Tutto vi si fonde e si riavvolge in una incessante clausola di bellezza: volta per volta, alla fine di ognuna delle ottave di cui è fatto il poema, sembra giungere a termine qualcosa che non ha termine, il respiro stesso del tempo e del mondo, catturato e contemporaneamente fatto evaporare e disperdere. L’Ariosto muove verso una bellezza solare e fuggitiva, che ha un emblema nella rigogliosa, esuberante, indifferente, inafferrabile Angelica: la donna amata da Orlando e da tanti cavalieri, il cui fascino è proprio nel rivelarsi, offrirsi e poi sottrarsi in squarci improvvisi, tra quasi infantili timori e repentini capricci. Nella sua libera misura dello spazio e del tempo, il poema proietta i più vari riflessi della realtà, come distillandoli, privandoli della loro densità materiale; trasforma la stessa ripetitiva banalità degli scontri cavallereschi, infinite volte raccontati nella precedente letteratura, in giochi di concertanti simmetrie, in combinazioni che si cancellano nel momento stesso in cui si danno. È una bellezza che ingloba l’errore, il limite, la vanità delle esperienze e dei desideri, l’insufficienza del sapere e della vita sociale, l’impero dell’illusione, della simulazione e dell’inganno (fino al limite della follia); e insieme la fedeltà, la dolcezza dei sentimenti, il senso dell’onore e del coraggio. Bellezza trionfante e insieme amara, insidiata dalle contraddizioni infinite di cui è fatto il mondo, dalla stessa realtà storica contemporanea su cui apre molteplici squarci: una bellezza con cui sarebbe essenziale confrontarsi oggi, che siamo assaliti da un’esibizione di bello esteriore, da consumare e da violare, in una moltiplicazione translucida e plastificata, invasione pubblicitaria e turistica, che esclude ogni autentica esperienza.
Al risultato ultimo del suo capolavoro, nell’edizione in 46 canti stampata nel 1532, l’Ariosto giunse attraverso un lungo impegno di correzione e di ampliamento rispetto alla prima edizione in 40 canti apparsa nel 1516 (e replicata con minori modifiche nel 1521): i filologi sono da tempo abituati a studiare quella prima edizione, a mostrarne il carattere originale, l’interesse che va al di là dei pur necessari confronti con l’edizione definitiva. Attesa da tempo, risultato di grande importanza, uno degli esiti più essenziali degli studi di letteratura italiana degli ultimi anni, ne è da poco uscita un’elegantissima edizione moderna, costruita con rigorosi criteri filologici, con l’analisi di tutti i 12 esemplari superstiti della stampa del 1516, probabilmente equivalenti all’1% della tiratura totale (Orlando furioso secondo la princeps del 1516, edizione critica a cura di Marco Dorigatti, con la collaborazione di Gerarda Stimato, Olschki, novembre 2006, pp. CLXXX-1071, euro 88,00), con il patrocinio dell’Istituto di Studi Rinascimentale di Ferrara. E se proprio Ferrara ha visto apparire quella prima stampa, sotto il diretto controllo dell’autore (l’Orlando furioso è il primo grande capolavoro della letteratura mondiale concepito espressamente per essere destinato alla stampa), è significativo anche il fatto che la presente edizione sia sorta sotto l’insegna della moderna, vitalissima Ferrara. L’interesse di questo testo non sta soltanto nel suo porsi come una prima provvisoria forma del grande capolavoro, ma proprio nei suoi originali caratteri, che permettono di leggerlo quasi come un’opera a sé, qualche cosa di parzialmente diverso dall’esito finale. Anzitutto dal punto di vista linguistico: vi si impone la presenza di tante forme sia di tipo «lombardo» o «padano», che di tipo latineggiante: nella revisione l’Ariosto si uniformerà al modello del fiorentino classico proposto dal suo amico Pietro Bembo, che darà al poema una misura più pastosa, più preziosamente fusa, più elegantemente congruente con il suo ritmo e con il suo disegno di bellezza. Ma, al di là dei dati linguistici, è lo stesso orizzonte generale del poema a configurarsi, nel 1516, in un più stretto legame con Ferrara e con gli eventi che si stavano verificando in quegli anni, carichi di vicende con cui l’autore si confrontava anche con impegni e incarichi in prima persona. Gli anni della redazione del primo Furioso sono proprio quelli della fase più acuta e vorticosa delle guerre d’Italia, in cui i giochi tra i signori italiani e gli invasori spagnoli e francesi non sono ancora chiusi: la fase che tocca più da vicino i territori della Ferrara estense e vede il diretto impegno personale dei signori dell’Ariosto, il duca Alfonso e il cardinale Ippolito, in stretta alleanza con la monarchia francese. Sulle vicende cavalleresche e belliche dei paladini di Carlo Magno e dei loro nemici Saraceni si proietta esplicitamente, con diretti richiami, l’eco delle guerre contemporanee alla stesura del poema. Così il primo Orlando furioso dà anche un effetto di presa diretta su una storia e una vita sociale tutt’altro che armoniche; la sua scrittura si fa davvero strada tra il clamore delle battaglie, tra gli intrecci diplomatici, tra le missioni avventurose di cui l’Ariosto fu talvolta costretto a farsi carico. Questa bruciante realtà non viene affatto cancellata in una pura evasione fantastica, ma viene interrogata, seguita nei suoi precisi sviluppi, dalla guerra della lega di Cambrai del 1509 all’avvento al regno di Francia di Francesco I e alla sua vittoriosa discesa su Marignano (1515). Questo del 1516 è insomma un romanzo «ferrarese», segnato da un effetto di immediatezza e di violenta lacerazione, che non si perderà nella redazione definitiva, che espanderà la sua prospettiva in una chiave di modello italiano ed europeo, come proiettando in una piena maturità letteraria quell’inquieto presente e la condizione stessa dell’Italia ormai in mano al predominio spagnolo ed imperiale: l’opera si porrà allora come la cifra e il segno più essenziale di quell’identità letteraria in cui per secoli si riconoscerà il carattere unitario della cultura del nostro paese; e in ogni modo vi persisterà l’eco profonda di quella lacerazione, entro un’affermazione di vita e bellezza al di là del tempo e al di là dei disastri della storia.
Già pienamente all’opera sono comunque in questa redazione del 1516 tutti i caratteri determinanti dell’universo ariostesco: la forza dell’immaginazione, i dati simbolici e fantastici, l’ironia, il senso della contraddizione, dell’illusione e dell’errore, l’alternanza tra comico e tragico, e ancora i pungenti e ambivalenti sviluppi di certe novelle raccontate dentro il poema. Tra queste mi piace ricordare quella del canto XXVI (XXVIII nella redazione del 1532), sulla tematica dell’infedeltà femminile, che traccia una strada che condurrà fino a Così fan tutte di Mozart. Questa novella rivela anche rapporti e suggestioni con il vicino Oriente, riprendendo molti tratti (probabilmente attraverso la mediazione di un singolare avventuriero veneziano, Gianfrancesco Valier) dalla storia quadro delle Mille e una notte, che ora si può leggere nella versione originaria di un manoscritto siriano del secolo XIV o XV, tradotto per Donzelli da Roberta Denaro (con prefazione di Vincenzo Cerami, pp.XVII-605, euro 29,50). I personaggi della novella ariostesca partono alla ricerca impossibile della fedeltà femminile, dopo esser venuti a conoscenza dei tradimenti delle rispettive mogli, come i fratelli Shahriyar e Shahzaman nelle Mille e una notte; nella raccolta araba sarà Shahrazad a riscattare il mondo femminile, con la sua resistenza di narratrice che scalza l’efferata crudeltà vendicatrice di Shahriyar; nel Furioso sono i maschi stessi a prendere atto dell’inevitabilità dell’essere traditi e finiscono per evitare esiti violenti, accettando con spirito di disillusa tolleranza il fatto che «così fan tutte». Dietro i luoghi comuni della tradizione misogina si affaccia lo spirito ironico, il senso del limite, un barlume di femminismo, quella ragione illuminista di cui l’Occidente e l’Oriente hanno ancora tanto bisogno.

Repubblica 26.7.07
Prima e dopo la cesura del 1968
La Chiesa e il periodo della contestazione
di Edmondo Berselli


Non si riferiva alla rivolta antiautoritaria, ma alla soggettività posta al centro della società
Papa Ratzinger ha definito, a ragione, quegli anni "una fase di crisi della cultura in Occidente"

Il Sessantotto, ha detto papa Ratzinger, è una «cesura storica», e su questo sarebbe difficile dissentire. Ma poi ha aggiunto che rappresenta una fase di «crisi della cultura in Occidente», conferendogli un tratto di grandezza: anche perché lo ha affiancato a un´altra profonda cesura, «l´Ottantanove come crollo dei regimi comunisti». Ora, è vero che il pontefice si riferiva ai contraccolpi che la tempesta sessantottesca determinò sul cattolicesimo post-conciliare: ma è l´espressione «crisi della cultura» che sollecita una riflessione. E non soltanto perché ci troviamo a un passo dal quarantennale del Sessantotto, che scatenerà un fiume di reinterpretazioni, ma perché sembra di cogliere nelle parole di Benedetto XVI un giudizio che su quell´anno fatale proietta un alone intensamente negativo. Crisi della cultura, dunque. Non c´è dubbio che il Sessantotto ha rappresentato una frattura, e che quindi nella vicenda occidentale, nelle società democratiche sviluppate, si può osservare un «prima» e un «dopo». Soprattutto in Europa, il maggio francese è stato l´epicentro di una rivolta che ha investito tutta la sfera della società e della politica: rivolta che si è manifestata in primo luogo contro le strutture e i simboli del potere (o meglio del Potere, con la maiuscola che si addice ai totem).
Nel suo estendersi in Germania e in Italia, la «contestazione generale» ha assunto caratteri specifici: se il maggio parigino aveva un contenuto insurrezionale, messo in pratica con modalità che prediligevano l´aspetto creativo e ironico, «l´immaginazione al potere», nella Repubblica di Bonn la ribellione si nutriva dei fermenti instillati dalla teoria critica di Adorno e dei francofortesi. Con il suo ordine conformista, il Modell Deutschland rappresentava agli occhi degli studenti un perfetto esempio empirico della «tolleranza repressiva» esorcizzata da Herbert Marcuse: la stabilità tedesca, ai tempi della Grosse Koalition fra Cdu e Spd, era un «sistema» che andava smascherato e messo a nudo nella sua intrinseca durezza fondata sul dominio di classe. Dunque c´era una differenza sensibile con il movimento francese: gli scontri degli studenti con la polizia nel Quartiere Latino non nascondevano un atteggiamento in cui la lotta coinvolgeva euforicamente l´immaginario: lo stesso frasario del Sessantotto a Parigi rivelava il lato ludico-situazionista della rivolta. Slogan come «Una risata vi seppellirà», «Vietato vietare» e «Siamo realisti, vogliamo l´impossibile» mettevano in chiaro quale fosse lo spirito dell´insurrezione: «Una follia estremistica», come la definì il generale de Gaulle, ma in cui emergeva la volontà di mettere a soqquadro, con le istituzioni, l´intero spettro degli stili culturali della tradizione.
I bersagli del Sessantotto erano l´autoritarismo, il paternalismo delle classi dirigenti, l´ossificazione ideologica della sinistra classica. L´avvento dei baby boomer sulla scena pubblica imprimeva un forte contenuto generazionale all´azione politica. Venivano messi in discussione i meccanismi del consenso, ma soprattutto gli istituti sociali della «repressione», a cominciare dalla scuola e dalla famiglia. Proprio per questo la ribellione parigina assumeva un profilo culturalmente radicale; e in questo senso si chiariva la differenza con il "movement" americano, tutto tematico, legato alla protesta contro la guerra nel Vietnam e ai diritti civili. La contestazione francese e più generalmente europea si esprimeva come un attacco ai nessi fondamentali della società dei padri, in cui la tonalità sovversiva era dominante. In questo senso, l´espressione «crisi della cultura» non risulta affatto fuori luogo. I linguaggi del Sessantotto erano la spia spettacolare di una critica senza appello alla tradizione.
All´aspetto libertario o anarchico tipico di un leader come Daniel Cohn-Bendit si affiancava a Berlino la tagliente ideologia di Rudy Dutschke, fondata sulla triade Marx-Mao-Marcuse. La carica distruttiva prevaleva sull´intenzione politica, la «controcultura» era un possibile fine in sé, la sovversione anche estemporanea era incorporata nel movimento come orizzonte praticabile prima di qualsiasi progetto o di qualsiasi programma. Anche in Italia il Sessantotto divenne il laboratorio di tutte le sinistre possibili: ma per certi versi con un orientamento più esplicitamente politico, e con l´idea di portare la protesta studentesca a fondersi con segmenti di classe operaia, superando e contestando la rappresentanza del Pci e del sindacato.
Ma più che dagli «eventi» rivoluzionari prodotti storicamente dalla rivolta, la «crisi» del Sessantotto è sintetizzata dal suo impatto complessivo, ossia dai suoi effetti materiali e immateriali. Un possibile bilancio, oggi, porterebbe con ogni probabilità a privilegiarne i profili sociali e culturali, prima che le ripercussioni sulle istituzioni. Se, sulla scorta di Tocqueville e di Hannah Arendt (che non nascose la sua simpatia per il movimento americano nei campus), si pensa che le rivoluzioni riescono quando producono assetti istituzionali nuovi ed efficaci, il Sessantotto non fu una rivoluzione. Fu invece il motore di un cambiamento sociale profondissimo, realizzatosi direttamente negli atteggiamenti e nei comportamenti collettivi e individuali. La «crisi della cultura» di cui parla il papa fu una rottura di paradigma che travolse la tradizione, innescando mutamenti ingentissimi nella configurazione sociale e finanche nel costume. Queste trasformazioni vanno identificate nella fine della deferenza verso l´autorità, così come nello stravolgimento dei canoni «morali» che presiedevano al rapporto fra uomini e donne; nell´emergere di una coscienza femminile che progressivamente portò al rifiuto dei ruoli di genere prefissati; in una enfatizzazione della cultura e dell´arte come avanguardia espressiva del conflitto; nella relativizzazione di tutti i codici, religiosi ma non solo, che istituivano le regole della vita privata e pubblica.
Già, «il personale è politico»: e basterebbe questa frase per dimostrare come il Sessantotto costituì effettivamente un principio di secolarizzazione. Mentre a distanza di quattro decenni altre caratteristiche della rivolta sono passate in secondo piano (il terzomondismo, per esempio, o la critica alla «società dei consumi», liquidata a partire dagli anni Ottanta dalla riscossa del mercato), sembra di poter osservare che l´aspetto tellurico del pensiero sessantottesco è dato dalla convivenza di due dinamiche: una spinta tutta rivolta al collettivo, alle interazioni di massa, alla «felicità pubblica» di Albert Hirschman, e una fase invece individualistica, che pone la soggettività e le sue pulsioni al centro delle relazioni sociali. Forse è questo secondo aspetto che oggi assume pienamente il senso di una frattura radicale rispetto al passato, e che probabilmente Joseph Ratzinger, custode della continuità con la tradizione, segnala come momento della crisi culturale dell´Occidente. Perché in fondo comincia lì il relativismo. Oppure, a seconda dei punti di vista, comincia o, meglio, accelera in quella fase, con ritmi ineluttabili, quel processo indistinto, anonimo, tendenzialmente irresistibile che in tutte le società avanzate non si può descrivere se non con il termine di modernizzazione.

Liberazione 26.7.07
Il presidente dei deputati di Rifondazione accusa il premier: «Su pensioni e welfare non ci ha garantito e non ha garantito il programma»
Migliore: «Prodi così non va»
Il protocollo sul welfare è la goccia che ha fatto traboccare il vaso
di Angela Mauro


«Sul welfare si è aperto un problema di trasparenza con Rifondazione»
Migliore: «Prodi è ancora garante di tutta l'Unione?»

Il protocollo sul welfare è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Le modalità con cui è stato elaborato e presentato ai sindacati dal ministro Damiano innescano la reazione dura di Rifondazione Comunista che, dopo aver denunciato a più riprese in passato le tentazioni egemoniche del costituendo Pd, chiama in causa colui che dovrebbe essere il garante della coalizione premiata alle elezioni: Prodi, premier di un governo targato (fino a prova contraria) Unione. «Si è aperto un problema con il Presidente del Consiglio Prodi, un problema di trasparenza nei rapporti con Rifondazione», denuncia il capogruppo alla Camera Gennaro Migliore, invocando un chiarimento perchè, spiega, «non si può arrivare alla Finanziaria in queste condizioni».

Prodi non garantisce più l'intera Unione?
Noi abbiamo sempre considerato il presidente del Consiglio quale garante degli impegni assunti dall'intera coalizione e infatti in passato abbiamo criticato singoli ministri, come per esempio Padoa Schioppa. Ma nella trattativa sul welfare, il premier ha lasciato che fosse presentata ai sindacati una proposta del tutto ignota ad una parte della coalizione e poi per giunta dichiarata inemendabile. A questo punto, si pone un problema di rapporti: non si tratta solo di divergenze perchè le divergenze si affrontano. Si tratta della cancellazione del diritto di partecipazione alla formazione delle decisioni. Del resto, il problema è stato segnalato anche dalla Cgil nella lettera a Prodi, seguìta alla trattativa a Palazzo Chigi. Lo stesso sindacato rimarca sul metodo: un procedere a tappe che ha riservato in coda la parte peggiore.

Ricapitoliamo le questioni, pensioni e welfare.
Sulle pensioni Rifondazione ha un giudizio articolato: consideriamo importante l'esclusione della platea di lavori usuranti dall'aumento dell'età pensionabile, la libertà di andare in pensione per chi ha 40 anni di contributi e lo studio per garantire ai giovani un rendimento minimo delle pensioni pari al 60 per cento rispetto all'ultima retribuzione. Per noi è però molto negativa la soluzione trovata sullo "scalone" Maroni, fatta di quote più scalini. Come pure, è per noi inaccettabile il fatto che, per compatibilità di bilancio, si limiti la platea degli esclusi dall'aumento dell'età pensionabile a cinquemila unità all'anno: la clausola, tra l'altro, non era nota ai negoziatori dell'accordo. Infine, è arrivata la proposta sul mercato del lavoro che non va nella direzione del programma, cioè quella del superamento definitivo della legge 30. Avrei accettato una presa di posizione che fosse in linea con il programma, pur facendo a meno di una consultazione collegiale nel governo. Ma siccome non si rispetta il programma, non capisco che tipo di rapporto Prodi voglia avere con una parte considerevole della maggioranza.

La proposta?
Non consideriamo accettabile l'ipotesi di inemendabilità del testo. Ci batteremo a colpi di emendamenti in Parlamento e con la mobilitazione sociale nel Paese per garantire il rispetto del programma sia sullo "scalone" che sulla precarietà. La crisi della politica sta nel suo scollamento da alcuni settori sociali, dalla base materiale del consenso all'Unione e a Prodi. Il problema della precarietà è drammatico anche per questo, oltre che essere drammatico in sè. Se la risposta alla crisi della politica è cancellare queste istanze, vuol dire che c'è una cattiva interpretazione del mandato ricevuto dagli elettori.

Alla luce dei continui appelli di Rutelli, che parla di "alleanze di nuovo conio", e Fassino, che indica la necessità di "discutere di scenari più avanzati", sembra difficile a questo punto salvare l'Unione.
Trovo insaziabili le richeste di Fassino e Rutelli. Dopo che il Partito Democratico ha imposto il suo punto di vista, in principi e sostanza, su welfare e pensioni, adesso si arriva a dire che la stessa alleanza non risponde alle esigenze e necessità del costituendo Pd, si cerca così di cancellare l'evidente perdita di consensi. Noi siamo interessati a non cambiare l'ordine del ragionamento. Gli "scenari più avanzati" di cui parla Fassino verranno poi sottoposti al giudizio elettori, nel caso. Le maggioranze di nuovo conio di cui dice Rutelli rischiano di avere la valuta fuori corso perchè guardano solo al palazzo. Io vedo dissolta non tanto l'opposizione a Berlusconi, quanto lo spirito che ha condotto poco più della metà del paese a voler cambiare il governo delle destre: l'Unione appare prigioniera delle logiche di palazzo. Oggi, invece, c'è da dare risposte a chi ha votato, il problema è che fine faranno milioni di precari nel nostro paese. Non si tratta di dire "governo sì, governo no", ma di verificare la sua effettiva possibilità di realizzare il patto con gli elettori. Per questo ci rivolgiamo a Prodi.
Il governo deve avere la consapevolezza che noi vogliamo discutere punto per punto, a partire dal programma, di quali sono gli impegni con gli elettori e con tutto il paese per non arrivare alla Finanziaria in condizioni di reciproco non ascolto: bisogna affrontare i prossimi mesi a occhi aperti e con pieno riconoscimento reciproco.

Il Prc chiama Prodi, Mussi chiama Veltroni...
Non entro nel merito delle decisioni di Mussi. Noi dobbiamo iniziare a chiedere e proporre in Parlamento soluzioni che vadano a risolvere il problema creato dall'accordo del 23 luglio. Non mi sento di appellarmi a Veltroni: se sarà indicato come leader del Pd, a quel punto potremmo aprire un'interlocuzione, ma non mi appello a lui. Mi appello a milioni di persone, deluse dall'esito dell'accordo.

Le divergenze sulle pensioni inficiano il percorso unitario a sinistra?
Il forum di martedì scorso tra i leader di Rc, Sd, Pdci e Verdi è stato molto positivo, ci sono stati elementi di avanzamento, a partire dall'accoglimento della nostra proposta di manifestazione nazionale unitaria in autunno e poi il fatto che vi possa essere anche una forma più stabile di coordinamento. Proprio oggi (ieri per chi legge, ndr.) abbiamo rilanciato il patto per il clima siglato da tutti e quattro i partiti della sinistra e anche dallo Sdi: è una sfida della sinistra plurale al Partito Democratico in vista della Finanziaria 2008 sul terreno delle emergenze climatiche.

Per Rifondazione resta in piedi l'ipotesi di una consultazione autunnale del proprio popolo per verificare l'opportunità di rimanere al governo?
E' il percorso avviato nell'ultimo comitato politico nazionale perchè è giusto fare i conti con il proprio referente sociale quando si è ad un passaggio così stretto della democrazia. E' anche una cessione di sovranità. Detto questo, penso sia necessario procedere in modo spedito verso il soggetto unitario e plurale della sinistra, che può rappresentare una svolta e dare più forza alle battaglie sociali.

Oltre che affermare, come ha fatto con Liberazione, che la sinistra deve essere innanzitutto anticapitalista, la Rossanda, sul manifesto , accusa tutti gli attori del percorso unitario di fermarsi allo stadio della "insopportazione delle cose esistenti", nulla di più.
La sinistra deve avere una visione: unità non significa solo dare un contributo di efficacia all'azione politica dei singoli partiti, ma vuole dire anche avere una visione generale della società, qualcosa di paragonabile alla controffensiva della destra più estrema che lavorando sui fondamenti della cultura reazionaria riesce purtroppo a prevalere nel senso comune, entrando anche nel cuore del centrosinistra.
Dobbiamo riconquistare il primato delle idee per una società diversa e questo si fa mettendo insieme esperienze tra di loro diverse, tradizioni che fino ad oggi non avevano trovato altra sede che quella istituzionale per confrontarsi. Si tratta di seguire quella densità di emozioni e progetti politici che io ho riscontrato nell'esperienza del movimento dei movimenti, dove nessuno, come prima domanda, ti chiedeva "di che partito sei?", ma se eri stato a Genova o al Forum Sociale di Porto Alegre. Saper elaborare una visione della trasformazione della società serve a ricreare le condizioni perchè la sinistra possa continuare ad esistere politicamente.

Per continuare con la Rossanda, lei punta il dito anche sulle risposte di Rifondazione e Pdci sul fallimento del socialismo reale...
Con tutta la modestia del caso, devo dire che su questo punto stiamo cercando di lavorarci da molti anni. La critica non violenta al potere è una critica attraverso la quali si possono determinare gli strumenti di controllo e dominio nella società attuale. Quando diciamo "critica non violenta" parliamo di critica al potere in sè come finalità dell'esercizio del governo, della invasività della sfera del dominio violento, fin negli ambiti più reconditi. Una cultura violenta al servizio del mercato può distruggere i fondamenti della vita stessa: pensiamo a cosa sarebbe successo se l'innovazione tecnologica attuale fosse stata a disposizione dei nazisti. E poi parliamo di critica non violenta all'economia, come critica della neutralità sovraordinatrice dell'economia rispetto alla vita. Tradotta nelle vicende che interessano oggi il governo significa critica alle grandi strutture sovranazionali - la Bce, l'Fmi - cui questo governo è attento più che al suo stesso popolo.

Ultima domanda: legge elettorale. All'indomani della consegna delle firme in Cassazione, i leader del Pd sembrano frenare sul referendum. Sono cresciute le possibilità di intesa in Parlamento?
Si deve fare una proposta che coinvolga anche l'opposizione, che sia chiara e limpida per il paese e che sia costruita per via parlamentare. Noi non abbiamo partecipato alla raccolta delle firme anche perchè il referendum non manterrà la promessa di risolvere il problema della frammentazione politica. Gli italiani ci hanno dato mandato di cambiare la legge elettorale attuale e un guazzabuglio come quello referendario peggiorerebbe la situazione. Secondo noi, la soluzione più praticabile è il modello tedesco che ripropone il tema della rappresentanza delle forze politiche e della chiarezza.

Liberazione 26.7.07
Il leader di "Sinistra democratica": «Fermare lo strapotere del Pd e l'attacco centrista, ricontrattare programmi e composizione del governo»
Salvi: «E' un governo monocolore»
di Frida Nacinovich


«La sinistra, unita, deve chiedere un chiarimento politico»

Senatore Salvi, iniziamo dalla fine. Che ne pensa della proposta Prodi-Damiano sul welfare?
Scandalosa. Nei contenuti e per il modo in cui è stata presentata. Viene definita inemendabile una proposta che non è neppure passata dal Consiglio dei ministri.

Un'altra domanda di carattere generale: che succede a palazzo Chigi?
Il governo è diventato un monocolore del Partito democratico ed è in atto un'offensiva neocentrista, che tende a fare della sinistra il capro espiatorio politico, sociale e culturale della crisi di consenso che il governo attraversa.

Però Damiano e Prodi un merito l'hanno avuto, sono riusciti a rimettere insieme la sinistra, la "cosa rossa".
Il governo è in profonda crisi di consenso, anzitutto nel mondo del lavoro dipendente. Lo conferma la ricerca pubblicata domenica scorsa dal "Sole 24ore", può confermarlo chiunque si faccia un giro per strada. Il governo è in crisi per le politiche neocentriste che ha portato avanti e vuole addossare la responsabilità alla sinistra. Questo è il tema che abbiamo tutti di fronte oggi, che mi fa a dire che bisogna accelerare la costruzione del soggetto politico unitario della sinistra.

C'entra anche questo con il destino del governo Prodi?
Prima di tutto bisogna fare una riflessione sul rapporto con questo governo. Io non credo che le alternative siano: ripetere il '98, o alla fine votare per salvare il governo e far passare qualsiasi cosa. Io penso che debbano essere modificate, emendate le proposte sul pacchetto sociale del governo. Però dobbiamo anche guardare in faccia la realtà: questi emendamenti chi li approva in Parlamento? Non arrivo nemmeno al momento in cui il governo porrà la fiducia sulla Finanziaria, come già preannuncia Damiano. La Finanziaria comincia in Senato, noi faremo i nostri emendamenti. Poi? Secondo me la sinistra unita deve chiedere un chiarimento politico al governo.

Si potrebbe parlare di una "trattativa sindacale" tra sinistra e centro dell'Unione?
La sinistra deve ricontrattare il programma. Il programma dell'Unione viene quotidianamente stracciato. La proposta di Damiano sul lavoro è l'esatto opposto di quello che c'è scritto nel programma. In Senato i gruppi della sinistra stanno lavorando unitaraiamente, puntiamo ad ottenere risultati importanti, ma è evidente che c'è un tema politico generale al quale non ci si può sottrarre.

Di unità della sinistra se ne parla parecchio. Come la vede il senatore Salvi?
Bisogna decidere da subito che cosa fare insieme alla ripresa dei lavori. La verifica di programma, la revisione della struttura del governo. Bisogna ammettere che nella formazione del governo all'inizio c'è stata una sottovalutazione. Ho parlato di monocolore del Partito democratico perché in tutti i posti che contano ci sono esponenti del Pd.
La sinistra ha accettato - fra l'altro allora non eravamo ancora una forza autonoma - di essere marginalizzata. Questa è la condizione peggiore. Ci fosse stato un ministro del Lavoro di sinistra a colloquio con i sindacati, siamo sicuri che fino alle quattro di notte si sarebbe verificato quel che è successo? Un governo pletorico, scandaloso nella sua composizione, 102 membri - non è vero che è colpa della legge elettorale - di cui l'80% sono del Partito democratico che ha nove viceministri su dieci e la grande maggioranza dei sottosegretari. La sinistra ha accettato che il Partito democratico avesse tutte le leve di comando. Si protesta quando non viene riunita la coalizione, ma Prodi può sempre rispondere: io ho chiamato i due vicepresidenti, il ministro del Tesoro, il ministro del Lavoro...

Come si esce dal vicolo cieco del governo monocolore?
Credo che la sinistra debba porsi e porre il tema di un chiarimento politico. Anche per salvare la coalizione di centrosinistra. Se il governo si regge su due gambe - il Partito democratico e la sinistra - ci deve essere pari dignità. Invece ho l'impressione che ci sia in campo un progetto per logorare la sinistra. Lo ripeto, il problema non è: usciamo o restiamo nel governo. Il problema è ridiscutere all'interno della maggioranza, visto che al momento nessuno è in grado di individuare soluzioni di governo che facciano a meno della sinistra.

Intanto il Partito democratico va avanti a tappe forzate.
Il manifesto di Veltroni è inquietante, ma il disegno mi pare chiaro. Non escludo che nel Partito democratico ci sia chi pensa di cavalcare il referendum elettorale per poi andare a votare con quella legge. Ma anche su questo punto il piddì rivela un'arretratezza di pensiero. Singolare contemporaneità, il 3 luglio del 2007 si sono presentati alle rispettive Camere il governo francese e il nuovo governo britannico. Entrambi per dire: più potere al Parlamento. Sarkosy ha detto: introduciamo una quota proporzionale. Gordon Brown ha detto: il primo ministro deve restituire agli eletti del popolo una parte dei suoi poteri, a cominciare da quello di sciogliere il Parlamento. Perché lo fanno? Forse per bontà d'animo? Si rendono benissimo conto che in una democrazia moderna il decisionismo richiamato da Veltroni non funziona. Non funziona neppure con i tassisti. E quindi capiscono che la democrazia per decidere oggi ha bisogno di più partecipazione, di costruire consenso, di valorizzare il Parlamento. Invece qua vogliono far passare tutto a colpi di fiducia. E si progetta ancora di peggio. Il disegno mi pare chiaro: una democrazia para presidenzialista, un presidenzialismo casereccio che faccia fuori la sinistra.Naturalmente è un disegno molto miope, si illude di separare l'Udc e la Lega da Berlusconi e Fini, prepara un'altra sconfitta come già fu quella del 2001.

E la sinistra unita? Si sta muovendo?
Noi dobbiamo reagire senza scomporci. Con serietà, con attenzione, facendo le nostre proposte. Il primo anno di governo è andato malissimo. Sulle pensioni si è accumulato tutto il malcontento. Persino oltre il merito del provvedimento. Sono state viste come il condensato di tutto ciò che non va. Perchè, lo ripeto, il progetto politico di una parte della maggioranza è quello di scaricare sulla sinistra la perdita di consenso dovuta alle scelte monocolori del Partito democratico. E la sinistra è gravemente in ritardo, anche perché non affronta i nodi veri.

Cerchiamo di scioglierli, questi nodi.
C'è la questione del governo, su cui dobbiamo operare da subito insieme. C'è stato un momento in cui i quattro ministri si sono mossi all'unisono e hanno ottenuto un risultato. Ora i quattro ministri dicano che la proposta di Damiano è la proposta di Damiano e niente più, almeno finché non passa dal Consiglio dei ministri. Altro che inemendabile. Poi c'è una piattaforma da costruire. Faccio una proposta: l'"Associazione per il rinnovamento della sinistra" ha elaborato un documento. Non credo che siano le tavole della legge, ma offriamola a tutti e cinque i partiti della sinistra.

Chi oltre a Rifondazione, Comunisti italiani, Verdi e Sinistra democratica?
Non ci devono essere esclusioni preventive nei confronti di nessuno, se poi qualcuno si vuole autoescludere naturalmente se ne prende atto con rispetto. Ma torniamo al documento dell' "Associazione per il rinnovamento della sinistra": è una base programmatica, ideale, nella quale ci riconosciamo, si possiamo fare cambiamenti.

Quale sarà il minimo comun denominatore di questa sinistra?
Voglio affrontare in particolare due temi politici. Il primo: qual è il giudizio sul Partito democratico? Non è irrilevante. Spesso sento parlare di sinistra riformista e sinistra alternativa. Veltroni come Segolene? Non sono d'accordo. Noi siamo usciti, non siamo entrati nel piddì perché riteniamo che sia un partito neocentrista. Discutiamone. Sono evidenti le implicazioni: se pensiamo che Veltroni sia come Segolene, lo spazio che ci rimane è quello della sinistra alternativa. E segnalo che in Francia è già stata travolta. Se invece pensiamo che il piddì sia un partito neocentrista, l'esigenza che si pone alla sinistra italiana è di altro genere. E ancora: affrontiamo la questione del socialismo europeo. Non chiedo di aderire al Pse, ma di dare un giudizio politico sulle socialdemocrazie e sul Pse. Tutto da buttare? Ragioniamo. Io ho fatto una scelta socialista e socialdemocratica nell'89. Voglio che ci sia dibattito. Mezzo secolo di storia non è servito a niente? Cos'è oggi il Pse, come è cambiato? Tutto questo è importante, così come è importante fare un partito, perchè serve un partito della sinistra italiana. Certo, al nostro interno ci sono identità culturali diverse ed è giusto che ne sia tenuto conto, ma attenzione a parlare di federazione. Perché va tutto bene, ma se fare una federazione significa assemblare i ceti politici, non avremo ottenuto un grande risultato. E se ci dobbiamo provare, proviamoci fino in fondo.

Torniamo all'inizio: la proposta Damiano-Prodi.
Segnalo una particolarità: il teso proposto da Damiano è la fotocopia del disegno di legge di Forza Italia Sacconi ed altri, presentato il 13 giugno. Perché è identico? Forse Damiano l'ha preso da Forza Italia? Semplicemente l'hanno preso tutti e due da Confindustria. Ecco il testo, puoi fare il confronto. Come è possibile andare avanti così? Peggio di Sarkosy, che almeno le trentacinque ore le ha lasciate.Parliamo dei contratti a termine. Nel programma dell'Unione c'è scritto divieto di reiterazione, ci propongono un sistema che istituzionalizza il precariato. Invece la legge che noi della sinistra abbiamo proposto sul tempo determinato è a costo zero. Non possono dir nulla Padoa Schioppa, Triche, il fondo monetario, l'Oxe, Almunia. Anzi, ci dovrebbero ringraziare. Abbiamo diminuito i costi della politica, noi chiediamo che quei fondi siano messi in Finanziaria e usati a fini sociali.

Non sarà facile accordare i toni tra i firmatari del manifesto dei "coraggiosi" promosso da Francesco Rutelli e chi ancora pensa, crede e agisce a sinistra?
E chissà dove andranno a manifestare questa volta i "coraggiosi" di Rutelli. Ci vuole un certo coraggio per dire quello che dice Draghi nei suoi interventi.

Liberazione 26.7.07
Perché destra, sinistra, giornali, Tv ignorano la realtà e parlano d'altro?
C'è un problema gigantesco: il salario non basta a vivere
di Ritanna Armeni


Mi chiedo perché la sinistra non sollevi il problema del salario. Perché i sindacati non facciano una o più vertenze su questa questione. Perché i giornali di sinistra non organizzino campagne di denuncia per le retribuzione ormai vergognosamente basse delle lavoratrici e dei lavoratori italiani. Perché accanto a tante questioni politiche, culturali ed economiche non ci sia anche questa e su questa non dicano la loro tutti coloro - a destra e a sinistra - che non ci risparmiano la loro opinione su nulla.
I salari, gli stipendi, le pensioni oggi sono largamente insufficienti, il costo della vita è incredibilmente alto. La sinistra non dovrebbe ascoltare la società, i suoi bisogni più profondi anche quelli che non hanno la possibilità di essere espressi pubblicamente, di occupare le pagine dei giornali? Potremmo fornire dei dati che testimoniano sulle retribuzioni siamo i fanalini di coda dell'Europa. Potremmo dare altrettanti dati e numeri sui profitti che sono incredibilmente aumentati. Potremmo aggiungere quelli sull'aumento delle diseguaglianze anch'esse cresciute smisuratamente. Ma lascio tutto questo a qualche bravo sindacalista ed economista di sinistra. Loro i dati ce li hanno e li possono snocciolare con competenza in qualunque momento. Io mi limito a chiedere perché non si mette all'ordine del giorno questo problema.
A pensarci bene in Italia sulle retribuzioni c'è una rimozione che dura da oltre trent'anni. Il salario è diventata una cosa di cui non si discute, quasi fosse disdicevole e vergognoso, da quando con il referendum del 1984 è stato messo pesantemente in discussione e poi di fatto eliminato quel sistema di scala mobile che adeguava le retribuzioni al costo della vita. Una rimozione pericolosa nella quale a sinistra se ne è aggiunta un'altra. Oggi se si parla di retribuzione e di carovita si deve constatare che il divario è spaventosamente aumentato con l'introduzione dell'euro. E allora si potrebbe cadere nella campagna demagogica della destra che attribuisce all'euro e quindi a Prodi e quindi al governo di centro sinistra l'aumento del costo della vita.
Così si preferisce tacere. Tace il virtuoso difensore della nostra moneta, il presidente dalla Banca d'Italia Mario Draghi che fra i tanti numeri che fornisce, e le tante reprimende che propina, non insiste mai molto su questo punto. Tace Confindustria e si capisce perché. La questione non interessa né il fustigatore dei costumi professor Ichino, nè l'attento Francesco Giavazzi. Ma neppure Eugenio Scalfari. Né gli innumerevoli economisti di centro sinistra sempre più abili a trovare motivazioni di sinistra a scelte di destra.
Tacciono i partiti, quelli di destra perché pensano che va bene così, quelli di centro e di sinistra perché temono un'altra divisione interna. Tacciono i sindacati e davvero non se ne comprende il motivo. Tacciono i giornali. Mi piacerebbe che qualcuno facesse un calcolo. Quante volte hanno parlato negli ultimi anni delle retribuzioni? Quante inchieste sono state fatte sull'argomento? Ad occhio e croce solo quando qualche istituto di statistica ha fornito i dati sulla povertà. Poi silenzio.
Ma perché tace la sinistra che vuole rimanere sinistra? Perchè tace il sindacato? Credo che sia un errore. Credo che tra qualche tempo potrebbe anche avvenire che sia la destra a prendere in mano la questione, naturalmente a suo modo, come è avvenuto per le pensioni e come è avvenuto per il precariato. E che naturalmente costringa poi la sinistra ad una battaglia tutta in difesa, tutta di contestazione dei principi, in presenza di un'opinione pubblica già conquistata dalla ideologia dominante. Non è avvenuto questo per la trattativa sulle pensioni dove è passata l'assurda idea che gli anziani fossero contro i giovani? Non è avvenuto questo con la precarietà che è stata trasformata da moderna schiavitù ad una forma alta di libertà personale?
Qualche mese fa il presidente della Confindustria, della Fiat, della Ferrari ha detto che i lavoratori italiani sono dei fannulloni. Quella frase infelice e soprattutto la scarsa reazione che ha suscitato la dice lunga su che cosa si pensa dei salari.
Se i lavoratori italiani sono dei fannulloni pagarli da mille a mille e cinquecento euro al mese è anche troppo. Forse è arrivato il momento che i fannulloni e chi li vuole rappresentare facciano sentire la loro voce e chiedano che le retribuzioni vengano aumentate. Perché di una cosa sono sicura. Non si vincono quasi mai le battaglie sul terreno imposto dagli avversari. In quei casi si può fare solo testimonianza e si può spostare qualcosa, come la recente trattativa sulle pensioni ha dimostrato. Si vincono e si possono vincere le battaglie politiche e culturali quando si sceglie il terreno dello scontro. Allora per l'avversario diventa più difficile. Diventa più difficile per i partiti di destra il cui elettorato è largamente popolare dire che i salari vanno tenuti bassi. E' difficile per i moderati del centro sinistra definire estremista questa richiesta. Ed è difficile naturalmente, per i tecnocrati europei e per i loro sostenitori in casa nostra. In Europa i salari sono molto più alti che in Italia. E come può rispondere a questo problema un governo che consistentemente formato dalla sinistra, continua a fare scelte moderate e su altre nicchia?
Già, cosa pensa Romano Prodi dei salari dei lavoratori italiani? Ha una sua proposta? O pensa che vada bene così?

Liberazione 26.7.07
Il medico di Welby prosciolto, un passo avanti. Ma resta tanto da fare
Embrione e vita, le verità in tasca della chiesa
ma perché dobbiamo crederci tutti?
di Carlo Flamigni


Non ha ceduto alle pressioni della Chiesa il Gup che lunedì ha prosciolto definitivamente Mario Riccio, il medico di Welby che staccò la spina. Ma perché in Italia bisogna lottare anche per garantire norme elementari in un qualsiasi paese civile?
Diritto all'eutanasia, che pena aver bisogno di giudici coraggiosi

Il commento di Maurizio Mori alla decisione del Gup di chiudere definitivamente il procedimento nei confronti di Riccio, accusato, se non sbaglio, di omicidio del consenziente, è stato intitolato dall' Unità "Lode a un giudice che non ha avuto paura". Non ho capito subito quanto questo titolo mi dispiacesse, non so se accade anche a voi di arrivare alle conclusioni con ritardo, quando si tratta di cose sgradevoli, ho bisogno di rimuginarci un po'. Dunque, abbiamo bisogno di uomini coraggiosi, magari di eroi, persone delle quali un paese civile non deve, almeno in linea di principio, sentire la mancanza.
Siamo dunque un paese a civiltà limitata, un paese che vive sotto la dittatura dell'embrione, della sacralità della vita, delle verità rivelate, e che non riesce a far valere i fondamentali diritti dei suoi cittadini, quello all'autodeterminazione, ad esempio, o quello alla libertà di coscienza, o persino quello di poter godere dei privilegi considerati come assolutamente elementari in un qualsiasi stato laico. E tutto ciò per una ragione francamente assurda: le ipotesi, le speranze, i convincimenti di alcuni, pur essendo le mille miglia lontane da qualsiasi possibilità di essere dimostrati veri (non credo francamente che la fede sia una testimonianza attendibile in un qualsiasi tribunale civile minimamente "coraggioso") sono stati trasformati in leggi dello stato e costringono persone convinte di essere portatrici di differenti verità - o di nessuna verità - a ubbidire e a comportarsi in modi che queste stesse persone considerano indecorosi e sbagliati. Così si impone a cittadini che non credono nell'esistenza di dio di considerare la vita come un dono, uno strano dono invero visto che non possiamo disporne e dobbiamo risponderne a qualcuno.
Nello stesso modo viene imposto a persone che non credono in dio il principio secondo il quale la vita è sacra e inviolabile e deve essere accettata comunque, qualsiasi cosa ci faccia, qualsiasi sofferenza comporti, e che comunque il dolore è salvifico, e ci sono remunerazioni che ci aspettano, purchè…
Quali siano le conclusioni di questa anomalia - un convincimento personale che diviene norma di comportamento per tutti (e insisto nel dichiarami del tutto disinteressato al valore rivelatore della fede, pur essendo consapevole della sua utilità sociale) - è sotto gli occhi di tutti: non possiamo disporre della nostra esistenza; è praticamente inutile che predisponiamo un testamento biologico perché un qualsiasi medico potrebbe decidere di ignorarlo con la scusa dell'"obiezione di conoscenza" (cioè la convinzione che non conoscevamo abbastanza bene le conseguenze delle nostre scelte, secondo l'opinione del Comitato di Bioetica); che se accettiamo, in un momento di smarrimento, un qualsiasi tipo di supporto vitale, dopo non ce ne libereremo più, e così via. Pensate al ridicolo e squallido scempio che si riesce a fare dei corpi dei trapassati, gusci vuoti di persone che non li abitano più, ma che non hanno capito che il trasloco deve essere definitivo, guai a lasciare un cuore che batte ancora, qualche cretino che te lo infila in un macchinario complicato si trova sempre, così, tanto per nascondere per un po' il malato alla morte, far finta che la malattia non sappia più vincere.
Non v'è dubbio che credere in dio, in un qualsiasi dio, e persino aspirare a credere in dio, crea stranieri morali ed è origine di conflitti che possono rivelarsi disastrosi. Questi conflitti possono essere esacerbati da politiche religiose avventurose o da analisi sbagliate delle aspirazioni e dei comportamenti. E' avventuroso scegliere la strada dell'etica della verità, abbandonare la compassione in favore della pietà, ignorare le ragioni degli altri e cercare di umiliarli (ecco le chiese che diventano sette), come sta facendo da un paio di papi la chiesa cattolica. E' sbagliato
immaginare che i milioni di musulmani che vivono in Europa accetteranno per sempre di vivere la loro fede nell'intimità delle famiglie e non cercheranno piuttosto di viverla pubblicamente. Tutto ciò genera conflitti e sappiamo bene quale può essere il risultato dei contrasti che possono sorgere tra le religioni. E' per questo che abbiamo molto più bisogno di uomini saggi che di uomini coraggiosi. La convivenza degli stranieri morali è possibile solo se tutte le posizioni sono ugualmente rispettate e se lo stato si limita a questo rispetto e non interviene nei conflitti se non come mediatore. L'etica della verità dell'attuale pontefice entra in conflitto con le verità degli altri, anche perché ha bisogno che i suoi dogmi siano confermati dalle leggi (ecco la ragione per cui i cattolici si sono tanto battuti per la legge sulla procreazione assistita, a costo di doverne accettare le incongruenze) così come ha bisogno che lo stato non approvi norme che li contraddicano (ed ecco perché non verrà mai approvata una legge accettabile sulle famiglie di fatto). Sembra che nessuno ricordi più che Abbagnano affermava che uno Stato che legifera tenendo presenti gli interessi di una specifica ideologia a danno delle altre si macchia di immoralità.
Rispetto è una parola molto più complicata di quanto possa sembrare a prima vista: esige anzitutto laicità da parte di tutti, il che significa che, quali che siano le nostre convinzioni, dobbiamo accettare il fatto che esse non ci danno il diritto a considerarci gli unici a conoscere la verità, una forma di presunzione stupida, prima ancora che intollerabile. D'altra parte, di cose illuminate dalla verità ne esistono ben poche, e il nostro rapporto quotidiano è con realtà che vivacchiano nella penombra dell'incertezza o del momentaneo consenso. Stupisce tutti la violenza che è presente, senza alcun infingimento, nel pensiero dei fondamentalismi religiosi, che considera gli altri, i diversi, come infedeli che vivono nell'errore e che rappresentano una minaccia per il trionfo della verità. Questi sentimenti, e persino la decisione di considerare questi infedeli come fratelli che sbagliano e far scendere su di loro il peso intollerabile della pietà - il sentimento che scende dall'alto e prelude al perdono, non la disinteressata condivisione della sofferenza che chiamiamo compassione - sono la dimostrazione dell'assenza totale di rispetto.
Del resto, tutto ciò rappresenta la base del proselitismo, una violenza morale che non tiene in alcun conto la cultura, le opinioni e le scelte degli altri e che diventa addirittura violenza quando si verifica attraverso rapporti impropri e sbilanciati per ragioni economiche o psicologiche.
Dunque, non è civile una convivenza come quella attuale, che vede alcuni di noi costretti a vivere secondo ideologie che fondamentalmente disprezziamo. Mi sembra quindi necessario non frammentare la discussione, evitare di combattere battaglie parziali e di retroguardia che riguardano oggi la vita, domani la morte e dopo ancora chissà: il problema è complessivo e riguarda la laicità dello stato, i rapporti con le religioni, il confronto tra le differenti culture, e deve essere trattato come un unico soggetto. Penso che abbia ragione Mori: c'è bisogno, oggi, di uomini coraggiosi se vogliamo, domani, poter fare a meno di loro.

Liberazione 26.7.07
Il Gip milanese segue un percorso trasparente rigoroso e garantista
Indegne le accuse a Forleo
Dopo Tangentopoli scandali sempre più gravi
di Sergio Cusani


C'è solo l'imbarazzo della scelta nel fare l'elenco dei problemi antichi e attuali che attanagliano il paese e che ricadono sempre e solo sui ceti più deboli: le infrastrutture obsolete - quelle primarie per muoversi e vivere - l'acqua, l'aria irrespirabile delle città, l'evanescente attenzione verso il patrimonio artistico e culturale tra i più grandi e importanti al mondo, l'ambiente naturale deturpato in continuaziuone e infine - ma non ultimo - il tema centrale del lavoro, di quello dipendente e autonomo ma soprattutto del non-lavoro precario. I problemi materiali della vita quotidiana dei cittadini, in particolare di quelli più poveri e socialmente emarginati, non interessano alla politica dei palazzi del potere che preferisce creare e alimentare beghe da cortile per occupare spazi di visibilità, deteriore, che il sistema dell'informazione gli concede. Tutto ciò non fa altro che alimentare il disgusto per la politica e quindi l'indifferenza e quindi il qualunquismo. E tutto ciò prima o poi si paga, salato.
Per questi motivi trovo "incredibile" la vicenda del giudice Clementina Forleo fatta oggetto delle peggiori scostumatezze politico-istituzionali quando invece tutti i cittadini, i risparmiatori, i piccoli azionisti e i dipendenti delle imprese coinvolte hanno il diritto/dovere di conoscere tutta la verità sulle vicende relative alle scandalose recenti scalate finanziarie che hanno prodotto soltanto guasti, e figuracce anche a livello internazionale.
Posso testimoniare che negli anni 1992, 1993, 1994 e seguenti, prima da libero e poi da detenuto, ho assistito ad una ininterrotta quotidiana falcidia di singole persone e gruppi di persone sulla base di un semplice avviso di garanzia quasi sempre anticipato dai mezzi di comunicazione: tutti immediatamente messi alla gogna ed emarginati socialmente, molti perdendo subito il posto di lavoro, talvolta la salute e addirittura la vita.
E tutto ciò ben prima di un regolare processo che ne accertasse la colpevolezza e, tranne poche isolate voci dissonanti, nel totale silenzio e nella sospetta acquiescenza di gran parte, se non di tutta, la politica dei palazzi romani da parte di personaggi politici di allora che oggi ricoprono importanti incarichi politici e di governo.
Ora che un giudice come la Forleo con rigore segue un percorso trasparente, garantista e corretto, con l'attuale procura di Milano che è sulla stessa linea di rigore e correttezza, in più con una competenza, autorevolezza e professionalità indiscusse, si assiste da parte della politica dei soliti palazzi a scomposti attacchi, strali anche personali, pesanti denigrazioni e indebite ingerenze nel tentativo di bloccare ciò che tutti i cittadini hanno il diritto/dovere di sapere e cioè come si sono svolti realmente i fatti e su quali appoggi politici autorevoli hanno potuto contare i personaggi coinvolti nel grande scandalo delle recenti scalate finaziarie.
Non ha certamente il giudice Forleo bisogno della mia difesa d'ufficio, ma ciò che mi interessa rimarcare che tali comportamenti non fanno che allontanare sempre di più i cittadini da una partecipazione attiva alla vita politica e ne incrementano l'indifferenza e la distanza, perchè è sentire comune che la legge non deve avere riguardi privilegiati di alcun tipo verso alcuni ma deve essere davvero uguale per tutti: ieri, oggi, domani.
Con amarezza devo prendere atto che dalle indagini su tangentopoli ad oggi si sono susseguiti annualmente scandali sempre più grandi (per importi, per il numero enorme di risparmiatori colpiti e per i dipendenti espulsi dal lavoro) praticamente senza soluzione di continuità, nonostante sulla carta siano state introdotte norme che dovrebbero garantire più trasparenza, più tracciabilità e più informazione. Non è solo un problema giudiziario o normativo, è soprattutto un problema fondamentale di cultura politica. E ancora più incredibile, quindi, che la politica dei palazzi si indigni, inveisca, distorca messaggi e vada ben oltre il senso della misura, senza aver preso atto, culturalmente e politicamente, di cosa sia davvero avvenuto e di quale gravità in questi anni nella commistione tra affari e politica. Poco o nulla è cambiato nella realtà, per non voler di fatto cambiare niente.
*Fondatore Banca Solidarietà,
Consulente Fiom e Cgil

Liberazione 26.7.07
Mercato del lavoro, accordo a perdere
La Sinistra intervenga sulla Finanziaria
di Milziade Caprili


E' evidente che l'accordo sul welfare sottoscritto il 23 luglio scorso, a palazzo Chigi, dal governo e dalle parti sociali, non va bene. Non lo dice, e con forza, solo Rifondazione comunista. Lo dicono anche importanti aree e intere categorie del mondo sindacale confederale. In Cgil, ormai, la contrarietà della Fiom, che ha votato contro l'accordo nel direttivo di lunedì scorso, è un dato acclarato. Ma la stessa cosa dicono intere correnti organizzate, all'interno del più grande sindacato italiano, e lo dice anche il malumore diffuso, e in crescita, presente in tante categorie come in tante fabbriche, dove già si registrano scioperi e mobilitazioni spontanee, contro l'accordo.
La verità è che l'accordo firmato dal sindacato confederale con il governo - non solo quello sullo specifico della trasformazione dello "scalone" in uno "scalino" e tante "quote" ma anche e soprattutto quello più generale, che riguarda, appunto, il welfare e il mercato del lavoro - è un accordo tutto "a perdere". Lo dimostra anche il fatto che il nostro partito, con un atto che giudichiamo politicamente scorretto e molto grave, non è stato affatto coinvolto, nell'elaborazione tecnica delle proposte poi formulate dal governo, come ha denunciato, ieri, il segretario Franco Giordano. Senza dire di un altro dato politico per noi inaccettabile e cioè che tali misure non erano affatto previste, dal programma dell'Unione.
Il nostro voto in Parlamento, dunque, come ho già chiarito con una nota venerdì scorso, quando il primo accordo, quello sulle pensioni, era appena stato firmato, «dipenderà dall'esito della consultazione che apriremo con tutto il popolo della sinistra nel prossimo autunno come dal voto, per noi dal valore decisivo, dei lavoratori, che verranno chiamati a consultazione dal sindacato». Consultazione che, ci auguriamo, sarà la più larga e democratica possibile, coinvolgendo cioè "tutti" i lavoratori, dai giovani ai pensionati, e non solo gli iscritti, come pure qualche organizzazione sindacale (la Cisl, ad esempio) già chiede con insistenza. Ma il problema non è affatto sindacale, è - com'è evidente - tutto politico e investe la nostra stessa presenza e permanenza nel governo Prodi.
Del fatto che si tratti di un brutto accordo, cominciano a rendersene conto anche Verdi e Sinistra democratica, e cioè le forze che dovrebbero dar luogo a quel processo di aggregazione politica a sinistra su cui il nostro partito ha investito con coraggio da diversi mesi, processo di cui ancora sono in discussione le forme e le modalità ma che intanto ha, ai miei occhi, il pregio di aver preso avvio. Dopo le divisioni che si sono registrate, nei giorni passati, tra noi di Rifondazione e il Pdci da un lato, Verdi e Sd dall'altro, infatti, le ultime dichiarazioni rese sia da Pecoraro Scanio che da diversi esponenti di Sd parlano di «posizione arretrata», da parte del governo, su mercato del lavoro e competitività. Più o meno le stesse parole usate dal segretario della Cgil Guglielmo Epifani, che ha fortemente criticato la detassazione degli straordinari come la mancata abolizione di alcune delle parti più precarizzanti della legge Biagi. Abolizione cui, peraltro, proprio il ministro del Lavoro, Cesare Damiano, si era più volte impegnato a mettere mano. Ora, Sd - che pure ha "promosso" la parte dell'accordo che riguarda le pensioni - sembra intenzionata a bocciare il resto del protocollo. Un protocollo, quello di lunedì, contenente misure del tutto insufficienti a mitigare l'utilizzo dei contratti a termine, misura che pure il governo si era impegnato da tempo a promuovere per porvi un freno. Tutte norme che, assieme al mantenimento pressoché integrale della legge 30, comportano la sostanziale conferma di forme di precarietà drammatica per migliaia di giovani, nel loro lavoro.
Dal punto di vista della ricerca di una sempre maggiore unità a sinistra, queste ultime prese di posizione dei Verdi e di Sd ci confortano. Ma la prova del nove è vicina e arriverà in autunno: le valutazioni sulle scelte della legge Finanziaria devono essere comuni e devono essere fatte valere da un lato all'interno dell'Unione e dall'altro in rapporto ai movimenti, alle associazioni. In una parola, in rapporto al mondo a cui vogliamo dare voce nelle scelte politiche che ci apprestiamo a compiere. Chi, anche tra noi, pensava che l'unità della sinistra alternativa fosse cosa facile si deve ricredere: pesano anni nei quali la sinistra è stata divisa, pesa il fatto che una posizione comune come gli ambiti politici di una cultura della sinistra vanno ricostruiti, e proprio a partire dai temi del lavoro. Anche così, sui temi concreti, si aiuta l'unità, a sinistra.
*vicepresidente del Senato


il manifesto 26.7.07
Le radici oscure del pensiero conservatore europeo
Nel suo ultimo libro, «Contro l'Illuminismo», edito da Baldini Castoldi Dalai, lo storico Zeev Sternhell offre un'attenta analisi, che arriva ai nostri giorni, della rivolta contro i principi fondanti, i valori e le aperture politiche nate in seguito alla Rivoluzione francese
di Roberto Ciccarelli


L'origine della grande offensiva conservatrice in atto dal settembre 2001 non è ancora stata messa debitamente a fuoco. Molti sono i suoi protagonisti, dalla neocon Gertrude Himmelfarb, recente autrice di una polemica all'ultimo sangue contro l'Illuminismo francese, colpevole a suo dire di avere distrutto la moralità della società occidentale, fino alla ex deputata somalo-olandese Hirshi Ali che, nella sua autobiografia apparsa anche in Italia col titolo Infedele (Rizzoli, pp. 393, euro 18,50), si è invece cimentata in una dura requisitoria contro la debolezza dell'Occidente nei confronti del montante odio «islamico». L'impressione è che, in ogni caso, lo scontro si giochi soprattutto sull'interpretazione della storia dell'Illuminismo - centro fondatore dei discorsi sulla tolleranza, la libertà individuale e la sovranità popolare -ma anche contro la critica che di questo Illuminismo fornirono Adorno e Horkheimer nella loro Dialettica dell'Illuminismo.
Sull'argomento è interessante la lettura dell'ultimo volume dello storico delle idee Zeev Sternhell, Contro l'illuminismo. Dal XVIII secolo alla guerra fredda (Baldini Castoldi Dalai, pp. 655, euro 20). A dispetto del titolo -che può trarre in inganno, dando l'idea di un pamphlet a favore del conservatorismo - il libro di Sternhell indaga i presupposti della reazione plurisecolare all'Illuminismo, in particolare quello francese e anglo-scozzese. Il titolo originale, Les anti-Lumières, rivela come l'oggetto del lavoro sia proprio il conservatorismo europeo che, nato con le Riflessioni sulla Rivoluzione Francese del liberale conservatore Edmund Burke, tocca la Francia con i reazionari alla De Maistre, attraversa l'Ottocento tedesco con lo storicismo di Herder e di Meinecke e infine sbarca nel Novecento, contagiando gli insospettabili (perché poco letti con una lente critica) liberal-conservatori come Isaiah Berlin o gli storici alla François Furet.
Ripercorrendo la storia delle idee - Sternhell lo fa con grande consapevolezza storica, oltre che con una vis polemica straripante - si scoprono, come si suol dire «segreti delle cose ovvie», o almeno di quelle ritenute tali. L'origine del nazismo, in particolare, risale ai luoghi oscuri della cultura liberale, nello specifico della cultura conservatrice tedesca. Sternhell ha pochi dubbi su questo: la tradizione anti-illuminista si è sempre scagliata contro i diritti dell'uomo e la democrazia liberale, ha negato il «diritto naturale» comune all'intera umanità, ha dichiarato la morte della «sovranità popolare» e ha sostenuto l'impossibilità della convivenza tra culture diverse.
Il nazifascismo è cresciuto nei paesi dell'anello debole del liberalismo continentale, l'Italia e la Germania, che avevano a loro tempo respinto l'illuminismo francese (il conflitto tra Vico e Cartesio e quello tra Herder e Rousseau). Nel liberalismo elitario europeo del XIX secolo, questi assunti hanno forgiato i più diversi nazionalismi culturali e politici, ponendo le basi per le politiche razziste dei vari imperialismi europei.
Nel XX secolo, dopo il tremendo monito del nazismo, questa aristocrazia del pensiero e dell'elitarismo politico si è attestata su posizioni più prudenti, ma non meno controverse. A questo punto arriva la durissima requisitoria di Sternhell contro Isaiah Berlin, un centinaio di pagine molto dure sullo studioso di Oxford che aprono uno squarcio sui paradossi costitutivi dell'attuale offensiva conservatrice. Viene rivelata così la guerra di Berlin contro il «monismo dei Lumi», contro il loro razionalismo e la loro pretesa «totalitaria» di affermare valori per l'intera umanità. Pur con vari e tormentati ripensamenti, Berlin giunge al controsenso di fare l'apologia del populismo (inteso come senso di appartenenza a un gruppo che si distingue per specificità etniche e culturali) partendo da premesse liberali classiche. La conclusione del ragionamento di Berlin è di matrice fichtiana ed è molto simile. Per lui, il pluralismo delle culture è da riconoscere perché le culture sono incompatibili. Solo il pluralismo, infatti, consentirebbe a tutti di vivere trovando negli altri il proprio centro di gravità. Relativizzare, storicizzare, dunque, perché il particolare è civile, mentre l'universale è il segno di una volontà di dominio che non cgenera altro che mostri.
Ma a quali impensabili estremi giunge lo storicismo depurato, com'è giusto, da ogni pretesa nazionalistica? Sternhell conduce la sua critica sino in fondo e vede quindi in Berlin il capostipite di un liberalismo elitario e conservatore, che ha fatto scuola anche nella destra liberale e liberista che predica oggi le virtù della cristianità e dei valori della vita, contro una presunta avanzata di altre civiltà che intendono spazzare via quanto rende unica la nostra cultura.
In realtà, come gran parte dei liberali del nostro tempo, Berlin ha equivocato sulla natura dell'illuminismo francese e kantiano. Gli illuministi, infatti, non erano dei laici fanatici che odiavano la religione e intendevano istituire il nuovo culto della Repubblica giacobina fondata sul terrore. Piuttosto, erano dei riformatori moderati che lottavano contro l'intolleranza, qualcuno timidamente protestava contro l'«eurocentrismo», ma tutti manifestavano un rispetto verso i fondamenti della cristianità. Per Sternhell, questo errore di prospettiva ha conseguenze tragiche arrivando a giustificare il nazionalismo radicale, negando ogni diritto di critica e di indipendenza dalla ragione del più forte. La grande campitura disegnata da Sternhell trascura tuttavia alcune questioni rilevanti. Innanzitutto il «diritto naturale» di cui gli illuministi sarebbero i difensori. Nozione alquanto equivoca non perché non esista una «natura» comune a tutti gli uomini, ma perché questa idea è stata usata per imporre un modello di razionalità universale nel mondo. E poi, c'è il problema dell'origine storica dell'illuminismo franco-kantiano. A tal proposito, è un vero peccato che non sia stato ancora tradotto in italiano il libro di Jonathan Israel Radical Enlightenment (Oxford University Press) che individua tali origini nel 1650, e non nel 1720 come invece ritiene Zeev Sternhell. È quella la data in cui Spinoza pone le vere premesse al movimento teorico e politico dell'illuminismo europeo: critica radicale della religione, della Chiesa, dello Stato; revisione dell'interpretazione delle Sacre Scritture in senso materialistico; attacco alle monarchie europee e affermazione di una democrazia radicale.
Un magma politicamente incontenibile che ha fatto il giro dell'Europa per mezzo secolo, prima di essere rielaborato, anche per timore di persecuzioni, dagli illuministi francesi e da Kant. L'analisi del «contro-illuminismo» andrebbe fatta a partire dal triangolo costituito proprio dall'illuminismo radicale. Per Jonathan Israel, infatti, il vero avversario della reazione liberale è il movimento spinozista che si è aggirato in Europa per poi essere depurato da Pierre Bayle e stravolto da Hegel.
Ma questa è un'altra storia sulla quale né i conservatori liberali, né i liberali democratici intendono, forse, ragioni.

il Riformista 26.7.07
Tra Fausto e Massimo Romano suda freddo
di Stefano Cappellini


Su un punto, e solo su quello, Romano Prodi è d'accordo con Fausto Bertinotti: quando il presidente della Camera dice, come ha detto ieri, «tutto possiamo permetterci tranne che uno scontro istituzionale». E Prodi, che ha assistito sempre più preoccupato alla disfida innescata dalle accuse del gup Clementina Forleo ai politici intercettati nell'ambito delle inchieste sulle scalate bancarie, ed esplosa con la censura di Giorgio Napolitano nei confronti del giudice milanese, ha già abbastanza grattacapi per aggiungere al quaderno delle doglianze anche una battaglia tra poteri dello Stato (il che, peraltro, potrebbe portare a ritenere che Prodi non sia entusiasta della mossa del capo dello Stato). Quanto al resto, l'ennesima fiammata della vicenda Unipol-Bnl conferma una volta di più il gelo sceso nei rapporti tra Bertinotti e Prodi. Il quale ha già giudicato negativamente il protagonismo della terza carica dello Stato in occasione di polemiche che investivano il centrosinistra e di cui il premier era bersaglio principale (Telecom-Rovati, caso Mastrogiacomo), e anche stavolta - sebbene tutte le fonti di palazzo Chigi si trincerino dietro un secco «no comment» - ha ritenuto inopportuno l'intervento dell'ex subcomandante («Niente privilegi per i parlamentari») che tanto ha fatto arrabbiare Piero Fassino. Ma il rapporto con Bertinotti è in questo momento, nella mente del Prof, una questione secondaria rispetto ai timori per il ciclone giudiziario che potrebbe investire il governo se, come tutto il mondo politico prevede, le accuse formulate da Forleo si trasformeranno nel futuro prossimo in avvisi di garanzia. Prodi sa quanto D'Alema sia stato puntello importante dell'esecutivo in alcuni momenti di difficoltà e nell'ultimo Consiglio dei ministri è rimasto impressionato dall'intervento del vicepremier a sostegno delle ragioni di un accordo tra le diverse anime della coalizione sulle pensioni. Proprio ora che l'offensiva di Rifondazione comunista sul welfare si fa più minacciosa («E noi non la sottovalutiamo», spiega Silvio Sircana), l'ultima cosa che il Prof si sarebbe augurato era che Bertinotti offrisse ulteriori motivi di fibrillazione.
E che la situazione sia più grave del previsto lo testimonia, paradossalmente, la solerzia con cui (a differenza di frangenti simili nel passato) Prodi si è precipitato a offrire la sua solidarietà ai vertici della Quercia. Un modo per evitare nuove tensioni con Fassino e D'Alema, certo, ma forse anche un tentativo di sfilarsi per un po' dal circo mediatico per assistere con meno pressioni agli sviluppi del caso. «Prudenza» è la parola d'ordine informale che arriva dall'entourage del Prof e spiega bene come la previsione del premier è che la vicenda sia ben lungi dall'esaurirsi in questi giorni. Il riposizionamento dei nemici dell'operazione Unipol dentro il Pd verso un silenzio cautelativo è totale e riguarda anche Francesco Rutelli, che conferma l'intenzione di non sollevare alcuna polemica interna (ma ai Ds non basta una moratoria, in mancanza di una difesa piena e di merito). Eppure Prodi, che nell'estate del risiko bancario fu sempre dall'altra parte della barricata rispetto alla Quercia, e che non fece una chiosa quando nel 2005 Arturo Parisi addebitò al Botteghino l'urgenza di una «questione morale», è probabilmente mosso anche dalla volontà, per dirla alla Di Pietro, di non mettere la mano sul fuoco prima che siano chiari i prossimi capitoli della vicenda.

mercoledì 25 luglio 2007

Repubblica 25.7.07
Il segretario di Rifondazione, Franco Giordano: sul mercato del lavoro siamo pronti allo scontro
"La lotta al precariato non esiste più i riformisti hanno tradito i giovani"
di Luca Iezzi


Mani libere sul welfare. Non siamo stati consultati per il pacchetto sul welfare: sono proposte fuori dal programma e noi ci sentiamo liberi da vincoli Regalo agli industriali. E´ l´ennesimo favore alle imprese dopo il cuneo fiscale Non si potevano usare quei soldi per la previdenza?

ROMA - «Questo provvedimento deve essere cambiato, iniziamo uno scontro politico per riuscirci. Solo dopo decideremo come votare». Il segretario di Rifondazione Comunista, Franco Giordano, è di nuovo in prima linea. Alle critiche sulle pensioni, che rimangono, aggiunge, anche più forte, l´irritazione sul protocollo per il Welfare: «Sono proposte che colpiscono i lavoratori, favoriscono la precarietà, su cui non siamo stati consultati e che sono anni luce lontane dal programma. Ci sentiamo del tutto liberi da ogni vincolo rispetto a queste norme».
Però è una proposta del governo. Per di più, dice il ministro Damiano, "non emendabile".
«Fino a oggi pensavo anch´io di essere parte della coalizione di governo e invece mi trovo questo pacchetto di misure che non capisco a nome chi sia stata presentato. Vorrei ricordare che non esistono "soci di maggioranza" in questa coalizione, ma un programma da rispettare. Prodi deve chiarire se è il garante dell´Unione o è più interessato alle lotte intestine nel partito Democratico».
Le vostre proteste sono un modo per riportare l´asse del governo verso sinistra, dopo la vittoria dei "riformisti" sulle pensioni?
«No, le obiezioni sono sul merito di norme che colpiscono i lavoratori, specie i giovani. Mentre ai cosiddetti "riformisti" dico che ora si mostrerà tutta la strumentalità delle loro posizioni. Dopo aver passato mesi a parlare dei diritti dei "giovani" adesso sono spariti. Dove sono Veltroni e gli altri ora che serve combattere contro l´uso sistematico dei contratti precari».
Quali sono i punti per voi irricevibili?
«La parte sul superamento della legge Biagi non è in linea con il programma, la decontribuzione degli straordinari non era mai stata presa in considerazione, poi le norme sul lavoro precario dovevano ridurre l´uso di questi contratti e ciò non avviene. Anche sulle pensioni si scopre che c´è un tetto di 5 mila persone l´anno nelle esenzioni dall´aumento dell´età pensionabile: cosa significa? Se tra usuranti, turnisti e lavoratori con più di 40 anni di contributi si supera quel numero qualcuno rimane fuori? Sarebbe inaccettabile»
Però Cgil, Cisl e Uil hanno firmato il protocollo pur chiedendo delle modifiche.
«Guardi che stavolta a sinistra il giudizio è unanime: la Cgil espone critiche identiche alle nostre. Con i lavoratori si ha sempre un atteggiamento rigoroso: per mesi si dice che i soldi delle pensioni devono essere trovati all´interno del sistema, perché i conti non permettono altre scelte, poi di colpo escono i soldi per incentivare gli straordinari e per la contrattazione di secondo livello. È l´ennesimo favore alle imprese che hanno già ottenuto 5 miliardi dal cuneo fiscale. Perché quei soldi non si potevano usare per la previdenza? La verità è che il Partito Democratico vuole costruirsi un sindacato di riferimento meno conflittuale. Ma attenzione perché sui principi di fondo i lavoratori sono compatti».
Quali principi sono messi in pericolo dal protocollo?
«Viene modificata la struttura dei contratti e si ripropone un modello industriale secondo cui la competitività si ottiene con la riduzione del costo del lavoro. Il centrosinistra ha detto di voler superare questa visione favorendo gli investimenti in innovazione e qualità. Dove sta tutto questo nel documento del governo?».

Repubblica 25.7.07
L'amarezza del leader sindacale dopo la chiusura delle trattative sul Welfare
Lettera al premier: c'è un problema di metodo

"La concertazione è finita qui". Epifani rompe con il governo: "Da Prodi uno sgarbo alla Cgil"
di Roberto Mania


La svolta. Da settembre in avanti il confronto con l´esecutivo sarà assolutamente forte e serrato. Come disse Luciano Lama: i governi passano e le maggioranze cambiano, ma la Cgil resta Un patchwork. Quest´accordo è un patchwork , nel quale ogni pezzo risponde ad un gruppo di interessi Ecco il suo limite: è assente un´idea condivisa del Paese da parte di tutti gli attori sociali Duro scontro nella Confederazione "Firmeremo per senso di responsabilità"

ROMA - «È stato uno sgarbo alla Cgil che non possiamo far passare sotto silenzio», dice Guglielmo Epifani sfogliando tra le mani quel "Protocollo su previdenza, lavoro e competitività" che firmerà solo per senso di responsabilità e che sosterrà nella consultazione tra i lavoratori. Una scelta travagliata per la Cgil. Assunta a maggioranza (circa il 75 per cento) intorno alle quattro di notte, dopo una discussione tesa e asprissima nel Direttivo confederale, come non accadeva da molti anni. Perché su alcuni punti decisivi - e anche simbolici per la Cgil - il testo presentato dal governo non era quello concordato in precedenza. Due i vulnus: gli incentivi al lavoro straordinario e la fragilità dei vincoli ai contratti a termine. Oggi il leader di Corso d´Italia lo scriverà al presidente del Consiglio, Romano Prodi. E la lettera che arriverà a Palazzo Chigi segnerà l´inizio di una nuova stagione tra la Cgil e il governo di centrosinistra. Da settembre - dice Epifani - «il confronto sarà assolutamente forte e serrato». Conflittuale, insomma. Anche se è un aggettivo che si guarda bene dal pronunciare. L´appoggio della Cgil, comunque, non sarà mai scontato. Anzi. Epifani cita Luciano Lama per dire che ciascuno ora andrà per la sua strada: «I governi passano, le maggioranze cambiano, la Cgil resta».
Le distanze tra Epifani e Prodi sono diventate profonde, strategiche, non solo per ragioni di ruoli. Le misura anche il giudizio sul Protocollo: per il premier un risultato della concertazione tanto che ha voluto presentarlo lo stesso giorno (il 23 luglio) del "protocollo Ciampi" del ´93 sulla politica dei redditi; per il leader sindacale è invece «la dimostrazione che la concertazione, come l´abbiamo conosciuta, non c´è più». È finita esattamente dopo quattordici anni. «Allora - spiega Epifani - servì a ricreare coesione nel Paese, mentre si susseguivano i governi tecnici, e i vecchi partiti si ritiravano sotto la spinta anche dell´emergenza finanziaria. Oggi possiamo dire lo stesso? Oggi abbiamo un Paese molto più diviso, anche sul piano istituzionale. E poi quest´accordo è un patchwork , nel quale ogni pezzo risponde ad un gruppo di interessi. Questo è il limite del Protocollo: una somma di interessi parziali più che un interesse generale. È assente un´idea condivisa del Paese da parte di tutti gli attori sociali».
Certo, i risultati ci sono. Ed è anche per questo che Epifani firmerà: ci sono le misure per i giovani, c´è un assaggio di riforma degli ammortizzatori sociali, c´è il rafforzamento della contrattazione aziendale legata alla produttività, c´è l´aumento delle pensioni e c´è anche una via alternativa allo scalone per l´aumento dell´età pensionabile. Ma c´è un capitolo sul mercato del lavoro che Epifani è tentato di non firmare. «Perché per noi, per la nostra cultura, per un sindacato dei diritti, è molto più delicato il mercato del lavoro rispetto al nodo dello scalone. Sono in gioco diritti e tutele. Non è un problema di costi».
Nelle vicende sindacali contano anche i simboli. E i contratti a termine, per la Cgil, lo erano diventati. Da lì, nel 2001, cominciarono gli accordi separati fino al "Patto per l´Italia". Da lì, Epifani, avrebbe voluto far iniziare la risalita della Cgil. Invece no. Invece «all´ultimo momento» le proposte del governo sono cambiate. «Il governo ha sentito la Confindustria. Tutto legittimo, ma doveva aprire un confronto diretto, trasparente. Questo è stato uno sgarbo nei confronti della Cgil. Così l´ho avvertito io come segretario generale, così l´ha avvertito il Direttivo. Per i contratti a termine non ci sono le causali che li giustificano, né è chiara la base su cui definire i tetti sul totale degli addetti. Dopo 36 mesi si possono ancora reiterare a condizione che si rinnovino davanti alla Direzione provinciale del lavoro con il dipendente assistito da un sindacalista qualsiasi, anche di un "sindacato giallo"! Ma i contratti a termine sono il vero crocevia della precarietà. Passa tutto da lì. E poi lo staff leasing: la Confindustria ha chiesto di mantenerlo...». Ce l´ha con il ministro Damiano, ex Cgil? «Non credo che Damiano abbia responsabilità. È Palazzo Chigi che ha fatto questa scelta», risponde Epifani.
Non si può dire che la Cgil sia passata all´opposizione. Il lessico sindacale non contempla questa ipotesi perché c´è l´autonomia dalla politica. Però - dice Epifani - «c´è anche una situazione sociale delicata». «La protesta contro gli scalini non è amplissima, riguarda solo una parte dei lavoratori del nord, ma può legarsi a quella contro la precarietà con l´effetto di aumentare il distacco e la sfiducia verso la politica».

Corriere della Sera 25.7.07
Ultimi giorni di vacanza in Cadore. «Andare in Cina? Non posso parlare ora, è troppo complicato»
Il Papa e il '68: «Fu la crisi della cultura occidentale»
Question time del pontefice davanti ai sacerdoti: dopo il Concilio altri tempi difficili, come l'89
di Marisa Fumagalli


AURONZO (Belluno) — «È importante che il parroco non sia il burocrate del sacro, ma resti vicino alla sua gente. La segua nella preparazione ai sacramenti, favorisca tra i laici il senso della corresponsabilità ». Negli ultimi giorni di vacanza del Papa in Cadore, è l'ora del question time: i sacerdoti chiedono lumi, Benedetto XVI risponde, tracciando le linee guida. L'incontro (due ore, a porte chiuse) si è svolto ieri nella chiesa di Santa Giustina di Auronzo, dove, in mattinata, si erano dati appuntamento in 400, tra parroci e preti delle diocesi di Belluno e Treviso. La scaletta è stata preparata accuratamente. Niente sorprese, nessuna domanda estemporanea o di scottante attualità come il revival della messa in latino, secondo il rito Tridentino, o le «prove di dialogo» con la Chiesa cinese. Sul sagrato, rimedia un cronista. Che si lancia («Santità, andrà in Cina?»). Ma la risposta è laconica: «Non posso parlare in questo momento, è troppo complicato». Poi, Benedetto XVI sale sull'auto, acclamato dalla folla, per fare rientro a Lorenzago.
Ma torniamo ai preti, tra i banchi della navata della chiesa; qui, dieci intervistatori selezionati (rispettando la salomonica divisione fra le aree ecclesiastiche di appartenenza) pongono alcuni quesiti a Ratzinger. Il Pontefice risponde, ribadendo, in sostanza, concetti già espressi. I principali temi affrontati riguardano la formazione della coscienza dei giovani («occorre trovare una via laica e religiosa »), il confronto con gli immigrati, le priorità del ministero sacerdotale, il rapporto con i fedeli divorziati/ risposati, il senso della vita umana, il modo più consono di portare Dio tra gli uomini... «Pregate, curate, annunciate», esorta il Papa. Suggerisce di evitare dogmatismi, «diffondendo la parola di Cristo con semplicità, dentro una comunità parrocchiale viva e accogliente. La Chiesa non cresce nella statistica, ma nella vitalità che dimostra». «Il cattolicesimo — aggiunge — chiede che i sacerdoti tengano i piedi per terra, con gli occhi rivolti verso il cielo». Il nodo dei divorziati — osserva — va affrontato a monte, attraverso la prevenzione. Cioè la preparazione al matrimonio. E se l'unione fallisce, occorre valutare bene se c'era o no il matrimonio sacramentale, tenendo in considerazione anche la strada della «nullità». Sui rapporti con gli immigrati, esalta soprattutto i valori da condividere, il dialogo, affermando che «occorre vivere da prossimi, anche con i non cristiani».
Ai preti della generazione del Concilio, delusi nelle loro aspettative («avevamo sognato tante cose »), Benedetto XVI ricorda che i tempi successivi al Concilio non sono stati facili, citando due «cesure » storiche: il '68, periodo di «crisi della cultura occidentale» e il crollo dei regimi dell'Est dell'89.
Sul tema creazionismo/evoluzionismo, già trattato in un suo libro, il Papa si sofferma, ribadendo che il senso della vita li contiene entrambi. «L'evoluzione è un dato di fatto — asserisce — ma non basta per rispondere alle grandi domande. Dunque, non c'è alternativa assoluta tra l'evoluzione e il Dio creatore ». Esalta, poi, il valore della sofferenza («non c'è amore senza sofferenza e dolore») e della rinuncia.

Corriere della Sera 25.7.07
Un saggio di Nicholas Humphrey
Le origini delle emozioni
di Edoardo Boncinelli


La vista di una palla rossa può suggerire tante sensazioni. «Con il lancio di una rossa palla / di nuovo Eros dalle auree chiome / mi invita ora a giocare / con quella là dai sandali sgargianti », canta per esempio Anacreonte. Quando vedo una palla rossa, in verità, accadono in me almeno tre cose. Per prima cosa ho la sensazione di vedere una palla rossa; in secondo luogo apprendo che nel mio campo visivo c'è una palla rossa; in terzo luogo, infine, so che sto percependo la presenza di una palla rossa. Per quanto concerne la conduzione della mia vita, delle tre cose in fondo basterebbe che si realizzasse anche soltanto la seconda, ma un'attenta riflessione mostra anche la presenza delle altre due, seppure indissolubilmente fuse con quella. Sono considerazioni queste che hanno a che fare con il fenomeno della coscienza, il più enigmatico ed elusivo tra quelli concepibili, quello che ha fatto versare fiumi di inchiostro e che tiene tutt'ora impegnate le menti migliori, tra i filosofi come tra gli psicologi e i neuroscienziati. Come abbiamo detto, per la mia vita sarebbe sufficiente che in questa circostanza io prendessi coscienza della presenza di una palla rossa. Per vivere e sopravvivere ciò è più che sufficiente.
Accade però che accanto a questo tipo di coscienza, che ha un contenuto cognitivo dichiarabile, esiste una mia personale sensazione che accompagna tale presa di coscienza. Questa sensazione personale, piena di risonanze affettive e ricca di coloriture emotive è mia e solo mia. Non è probabilmente essenziale, ma accompagna invariabilmente e inesorabilmente ogni mia esperienza sensibile, o anche ogni mia rievocazione di ricordi. A questo lato sovranamente ineffabile della coscienza è stato dato il nome di coscienza fenomenica. Comprendere l'essenza e il ruolo della coscienza fenomenica sembra il problema più arduo della moderna riflessione filosofica intorno alle neuroscienze.
Il problema della coscienza fenomenica è anche l'oggetto del bel libretto di Nicholas Humphrey intitolato sibillinamente Rosso (Codice Edizioni, pp. 106, e 11). Le cento pagine del libro sono tutte centrate sull'effetto che ha su di noi la vista di uno schermo rosso, uno dei colori ai quali è più difficile restare indifferenti. Si tratta di una serie di semplici considerazioni accompagnate da qualche disegnino elementare. Ma l'aspetto dimesso e accattivante non deve trarre in inganno: si tratta di una riflessione molto approfondita su alcuni fenomeni quotidiani ma non per questo meno enigmatici, come chiarisce il sottotitolo Uno studio sulla coscienza.
Lo scopo dichiarato del nostro autore è quello di comprendere e farci comprendere perché accanto alla coscienza di qualcosa esiste l'insieme di sensazioni che l'accompagnano. Perché insomma una coscienza fenomenica va sempre di pari passo con la presa di coscienza di un fatto. Qual è l'origine e la funzione di tutto questo? E perché l'evoluzione biologica — Humphrey è di scuola inglese e non dubita nemmeno un istante che dietro ogni fenomeno vitale ci sia lo zampino della selezione naturale — ha favorito lo sviluppo di questa forma di coscienza?
Dopo una lunga serie di ragionamenti ed esempi, tutti in sé e per sé estremamente semplici, l'autore giunge ad una conclusione interessante e abbastanza inusitata, che chiama in causa il terzo dei fatti ai quali abbiamo accennato all'inizio. Provare un'intensa sensazione alla vista di una palla rossa, o di qualsiasi altra cosa, mi rimanda indirettamente ma irresistibilmente a me come soggetto cosciente. Ogni mia sensazione riafferma la mia esistenza e la centralità del mio io. Insomma mi fa sentire importante, certo più importante di qualcuno o qualcosa che non avesse sensazioni coscienti. E mi fa pensare di avere un Sé, magari immateriale. «Io propongo che nel corso dell'evoluzione umana i nostri antenati — i quali ritenevano le proprie coscienze metafisicamente notevoli (esistenti fuori dallo spazio e dal tempo normali) — si sarebbero presi più sul serio come Sé». Nel libro si può riscontrare qua e là qualche ambiguità terminologica e l'autore non ci dice a che punto della scala evolutiva pone gli eventi che prende in considerazione: parla di uomini direttamente o anche di scimmiotti o di cani? Ciononostante, leggerlo è piacevolissimo e certamente molto istruttivo. È un libro fatto per chi ama pensare. E che... non disdegna il rosso. A proposito di rosso, abbiamo iniziato con Anacreonte; finiamo con Saffo: «Come la mela dolce che rosseggia del ramo alto / sulla parte più alta; l'hanno lasciata li i coglitori,/ certo non la scartarono, ma non poterono raggiungerla».

Liberazione 25.7.07
Forum con Mussi, Giordano, Diliberto e Bonelli
La Sinistra unita incalza il governo e organizza una manifestazione a ottobre
di Angela Mauro


Le divergenze sulla riforma previdenziale (Prc e Pdci da una parte, Verdi e Sinistra Democratica dall'altra) non fermano il percorso unitario a sinistra. L'occasione per un chiarimento, non definitivo ma che prova a spingere il processo in avanti, è stato il forum organizzato ieri pomeriggio dagli organi delle quattro forze interessate: Liberazione, Aprileonline, Rinascita, Notizie Verdi (in versione integrale la settimana prossima, in contemporanea sui 4 giornali). Il segretario del Prc Franco Giordano, il segretario del Pdci Oliviero Diliberto, il leader di Sd Fabio Mussi, il capogruppo alla Camera Angelo Bonelli per i Verdi si sono confrontati sui passi da compiere nel governo Prodi, in Parlamento e nella società, di fronte ad un Partito Democratico che pretende di essere timone unico dell'Unione.
Per tutti, un punto di incontro forte, fresco fresco di questi giorni: il protocollo sul welfare, presentato dal ministro Damiano alle parti sociali, sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil (seppur con distinguo da parte dell'organizzazione di Epifani) e criticato da tutta la sinistra dell'Unione che promette battaglia in Parlamento. Sulla riforma previdenziale, singolo atto di un'unica partita politica sul lavoro, restano le differenze di giudizio, ma il forum di ieri ha partorito una novità, positiva per l'unità a sinistra. Infatti, pur confermando la buona valutazione dell'accordo raggiunto la scorsa settimana tra governo e sindacati, Mussi condivide le criticità del Prc e del Pdci sulla clausola che limita ad un massimo di cinquemila unità annue gli esentati dall'innalzamento dell'età pensionabile (sarebbe un'ulteriore scrematura della platea dei lavori usuranti interessati, dettata dai tetti di spesa, secondo i calcoli dei riformisti al governo). E dà un giudizio decisamente negativo sulle proposte del governo per il welfare.
Al di là delle questioni specifiche, il vero punto di unità attuale per Prc, Pdci, Verdi e Sd è l'idea di una mobilitazione unitaria in autunno. Il forum si conclude con l'annuncio che prima dell'estate i rappresentanti delle quattro forze politiche si riuniranno per mettere a punto uno schema di proposte da avanzare al governo. Un governo, quello guidato da Prodi, in crisi di consensi, minacciato da forze (anche interne all'Unione) che vorrebbero vederne la fine, ma che tutti nella sinistra radicale vogliono difendere. Gli accenti della discussione al riguardo sono però diversi e sembrerebbero disegnare due assi principali, che rispecchiano un po' quelli emersi dai giudizi sulle pensioni: da un lato, Prc e Pdci decisi a non perdonare più nulla a questo governo per riconquistare la sua base sociale e salvaguardare l'alleanza e il programma premiati dalle elezioni; dall'altro, Verdi ed Sd attenti a non aprire conflitti nel governo, pur contestando le sue tentazioni e torsioni riformiste. Ci si mobiliterà insieme in autunno, ma Giordano va oltre, propone una «manifestazione unitaria a ottobre» e aggiunge: «Il mio partito è pronto a costruire un soggetto unitario e plurale della sinistra. Lanciamone gli stati generali a settembre». Mussi non dice né sì né no alla proposta e fornisce la sua idea sulla mobilitazione d'autunno: «Ragioniamo su un evento partecipativo, capillare di massa perchè chi non fa l'inchiesta non ha diritto di parola, diceva Mao». Il segretario del Prc risponde con Marcos: «Camminare domandando». Spiega il leader di Sd: «Abbiamo litigato sulle pensioni e forse continueremo ma non rinuncio al progetto di unità della sinistra. Ma dobbiamo rinnovarci tutti: non possiamo restare naufraghi del passato».
Il passato è il '98, la fine del primo governo Prodi, un'esperienza che nessuno dei quattro è interessato a ripetere. Dice ancora Mussi che mentre «l'accordo sulle pensioni non è malaccio, tranne la "clausola sui 5mila"», su lavoro e welfare «siamo molto lontani dal programma dell'Unione». Il parere è dunque «assolutamente negativo», ma al «che fare?» evocato da Diliberto, l'ex diesse risponde: «Calibrare i giudizi, compiere dei passi, ma muovere il paese contro il governo di cui si fa parte sarebbe un atto di originalità italiana». Dunque, «bene l'iniziativa comune delle sinistre, ma sono contrario ad aprire da sinistra una crisi di governo». Al Partito Democratico che «procede verso nuove ipotesi di alleanza», bisogna replicare «rimettendo sul tavolo il programma dell'Unione».
Giordano rilancia, battendo sulle pretese di autosufficienza del Partito Democratico. Sulle pensioni, dice, Rifondazione «non ha invaso la sfera del sindacato. Il punto rilevante è chi fa le scelte, a nome di chi, con quale mandato: è possibile che il governo proceda ad una riforma del mondo del lavoro senza che i ministri della sinistra radicale sappiano nulla?». Dunque, «se c'è un programma che non è più attuale, perchè non ricontrattarlo punto per punto con tutti?». E' anche una risposta a Bonelli, esplicito nella critica alla strategia di Rifondazione sulle pensioni. «Mi convince però la mobilitazione d'autunno per trovare punti di contatto e creare un clima di partecipazione - aggiunge il Verde - ma se lo dobbiamo fare, dobbiamo evitare ulteriori conflitti nel governo. Io immagino una stagione con capacità riformiste, con una sinistra che sappia modernizzarsi e fare proposte».
A Bonelli e Mussi replica anche Diliberto: «Ogni volta che viene toccato un diritto, alla sinistra viene chiesto il senso di responsabilità, ma così si rischia di smarrire il senso della missione sociale della sinistra, cioè lo stare dalla parte dei subalterni». Quindi, «continueremo ad esercitare il senso di responsabilità, ma lo chiediamo anche agli altri. Siamo d'accordo sul fatto che aprire una crisi di governo da sinistra vorrebbe dire fare un regalo a chi vuol far cadere il governo, ma non vedo contraddizione tra l'essere al governo e lottare contro i provvedimenti che non condivido». Perciò la battaglia si dispiegherà su due fronti: «A colpi di emendamenti in Aula su welfare e pensioni e con la mobilitazione sociale fuori dal Parlamento per dare un educato e positivo scossone al governo per il suo bene: sennò potrà anche durare, ma senza consensi». L'autunno «sarà di lotta e di governo».
«Non uso la stessa espressione per scaramanzia», scherza Giordano che sottolinea la necessità di un'operazione culturale a sinistra, riprendendo e rovesciando il ragionamento di Mussi sull'opportunità per la sinistra di concentrarsi sulla qualità del lavoro più che sulla sua fine (pensioni ed età pensionabile). «Dobbiamo discutere del rapporto tra tempo di vita e tempo di lavoro - dice il segretario del Prc - perchè una maggiore aspettativa di vita non sia consegnata automaticamente al lavoro, altrimenti la politica rischia di diventare l'ancella dei processi di valorizzazione del capitale». Il punto per Giordano è che questo governo, sotto la pressione dell'imprenditoria, «rischia di posizionarsi negativamente sia sul tempo del lavoro che sulla sua fine». Come dimostra il protocollo Damiano sul welfare: «E' caduta la foglia di fico: chi sbandierava gli interessi dei giovani sulle pensioni, adesso non li difende dalla precarietà e dalla legge 30». C'è materia per battaglie comuni.

Liberazione 25.7.07
Il progetto neogollista illustrato da Veltroni al "Corriere"
La democrazia è in crisi: aboliamola...
di Piero Sansonetti


Ieri Walter Veltroni ha pubblicato sul Corriere della Sera un proclama che riassume la sostanza del suo pensiero e del suo progetto politico. Indica la via da seguire al Partito democratico, e delinea un abbozzo di "Italia del futuro", come piace a lui, come l'immagina. E' un proclama essenzialmente gollista (nel senso che riprende tutte le suggestioni della democrazia autoritaria francese, fondata dal generale Charles de Gaulle negli anni '50), prevede un grande rafforzamento del potere esecutivo e della premiership , con una consistente riduzione del potere rappresentativo del parlamento e dei partiti. Delinea un annullamento del conflitto, della lotta sociale, del ruolo e dei diritti del sindacato. Sostituiti dall'efficienza e dall'ordine della decisione. Disegna una società molto gerarchizzata, la cui riuscita dipende dalla capacità di chi la governa, con metodi forti, autorevoli, certi. Il Corriere della Sera ha dedicato una pagina intera a questo saggio del Sindaco di Roma, che è corredato da 10 proposte, semplici e concrete, di correzioni delle leggi e della Costituzione, che dovrebbero essere i dieci pilastri della terza Repubblica.
Il progetto di Veltroni ha due pregi, indiscutibili: il primo è quello di essere chiarissimo, netto, di rovesciare il luogo comune del Veltroni generico e unanimista. Il secondo pregio è quello di essere perfettamente compatibile con le aspettative e i disegni dei gruppi dirigenti della borghesia italiana. Veltroni offre ai gruppi dirigenti del nostro capitalismo uno schema politico che - per la prima volta dai tempi della Dc - possa ricostruire l'unità tra il potere politico e il potere economico. In che modo? Sfrondando il potere politico dalle sue implicazioni sociali, di classe, di ceto, diciamo dalle sue "radici di massa", e trasformandolo in una macchina funzionante, neutra, capace di adattarsi alle prospettive e agli interessi della "classe vincente". L'Italia di Veltroni è in grado di ricomporre le fratture che in questi anni hanno diviso la borghesia italiana, indebolendone le capacità di governo.
Per questo è fortemente attuale. Ha moltissimo a che vedere con quello che leggete nell'articolo di Andrea Colombo, qui accanto, e cioè con la controffensiva delle classi dirigenti che - quattordici anni dopo la vittoria del 1992 e la normalizzazione sindacale del 1993 - rilanciano, chiedono una nuova affermazione, la resa dei sindacati e il "contenimento" della politica e delle resistenze che esercita.
Le dieci proposte di Veltroni possono essere riassunte così: riduzione del Parlamento; aumento del potere del presidente del Consiglio; bipolarismo, o meglio bipartitismo; sistema maggioritario; corsie preferenziali per le leggi del governo; emarginazione e forte ridimensionamento, anche finanziario, dei partiti (e persino dei giornali di partito); federalismo fiscale e quindi spostamento di ricchezze verso il nord, cioè verso la parte più efficiente del paese. Poi due proposte che si misurano con la questione del consenso: voto ai sedicenni per le amministrative e quote rosa per legge.
L'analisi di Veltroni parte da una constatazione: la crisi della democrazia. Però questa constatazione non è accompagnata da una analisi. Qual è la ragione di questa crisi? Veltroni scrive solo qualche frase un po' vaga sulla globalizzazione e l'internazionalizzazione del potere. Se invece avesse preso in considerazione le elaborazioni di qualche anno fa di due suoi compagni di partito come Alfredo Reichlin e Giorgio Ruffolo, avrebbe potuto ragionare sulla loro teoria che riguarda la separazione tra "potenza e potere". Dicevano Reichlin e Ruffolo che potenza e potere sono le due particelle che compongono l'"atomo" denominato governo. "Appartengono" alla politica. Scindendosi, creano una deflagrazione che rende impossibile il governo. La globalizzazione capitalista ha portato a questa scissione: l'economia ha sottratto alla politica la "potenza", lasciandole solo il potere formale, cioè i riti e la burocrazia del potere ma non più la sua funzionalità. Per questo - dicevano Reichlin e Ruffolo - la democrazia soffre, perché le decisioni vengono prese altrove.
Ora voi capite che se le cose stanno così, ci sono due possibilità: la prima è aiutare la politica a riprendersi il potere, e quindi la democrazia a vivere. L'altra soluzione è quella di rinunciare alla democrazia e consegnare all'economia, che già detiene la potenza, anche il potere, permettendole di esercitare la sua dittatura, finalmente completa e libera dagli ostacoli costituiti dalla democrazia politica, dal libero conflitto sociale, dalla legittimità del sindacato.
Questo secondo è il disegno di Veltroni. Correggere una democrazia malata con l'iniezione di una forte dose di autoritarismo. Risolvere la sempre più difficile convivenza tra democrazia come rappresentanza e democrazia come governabilità, a favore di quest'ultima.
C'è un illustre precedente, in questa storia. Si chiamava Bettino Craxi. Sebbene la Grande Riforma che lui propose alla fine degli anni '70 (tra gli artefici di quella riforma, in un ruolo importantissimo, c'era Giuliano Amato) fosse assai meno drastica, e lasciasse in vita una parte assai più grande della democrazia politica, tuttavia la Grande Riforma Craxiana assomigliava a questo proclama di Veltroni per una ragione essenziale. Era stata concepita come una via d'uscita dalla crisi e un modo per rifondare una sinistra che intendeva recidere tutte le sue radici storiche e di classe e riproporsi come alternativa alla destra, più stabile, più affidabile, con più capacità di governo.
Nell'idea di Craxi, però, questa sinistra avrebbe garantito la mediazione tra borghesia e ceti deboli. E avrebbe anche garantito il primato della politica e la sua piena autonomia. Veltroni, oggi, ritiene che questo non sia possibile: che la politica, per sopravvivere, deve cedere lo scettro all'economia e accontentarsi degli onori del secondo posto. E che, per questa ragione, non sia più possibile una funzione di mediazione tra gli interessi: il compito che deve essere assunto dalla politica è quello dell'organizzazione del consenso che consenta la prevalenza degli interessi dello sviluppo e del profitto sugli interessi dei ceti più deboli. Gli interessi dei ceti più deboli, in questa costruzione teorica, vengono definiti "frammentari" e corporativi. E proprio perché frammentari devono essere "sterilizzati" e trasformati in una variabile dipendente dell'interesse generale che coincide con l'interesse della Classe dirigente. E alla politica spetta la conquista e l'organizzazione del consenso, per conto terzi, cioè per conto di quella Classe dirigente alla quale è restituito il ruolo di guida della nazione.

il manifesto 25.7.07
Sinistra al bivio: o si cambia o è la fine
La «Cosa rossa» si ricompatta contro il protocollo sul welfare. Oltre a Rifondazione e Pdci critici anche Verdi e Sd. Pecoraro Scanio: «Un accordo che sa tanto di muffa». Giordano promette battaglia e Manuela Palermi avverte: «Siamo arrivati al capolinea»
di Alessandro Braga


Roma. In un incontro di pugilato, un «uno-due» così ravvicinato, repentino, preciso, è di quelli che ti mette al tappeto. O, perlomeno, ti costringe alle corde, all'angolo. A quel punto o reagisci d'orgoglio e inizi a tirar fendenti all'avversario, o getti la spugna, o cadi a terra in attesa che l'arbitro conti fino a dieci.
In pochi giorni, il governo e l'ala riformista dell'Unione hanno sferrato un duplice uppercut alla parte sinistra della maggioranza. Venerdì scorso, con l'accordo firmato tra governo e sindacati sulla riforma delle pensioni. L'altra notte, con la firma del protocollo d'intesa sul welfare. L'esito finale della trattativa sulla riforma previdenziale, con l'aut aut di Romano Prodi ai sindacati, in particolare alla Cgil («o firmate, o cade l'esecutivo e vi tenete la legge Maroni e lo scalone») aveva diviso i partiti alla sinistra del nascituro partito democratico: Rifondazione comunista e Pdci a dire che non ci stavano, che avrebbero fatto di tutto per cambiare un accordo che non andava bene. Verdi e Sinistra democratica, dal canto loro, avevano apprezzato nel complesso il documento, sebbene ne sottolineassero alcuni punti di criticità.
Ieri almeno i quattro partiti della sinistra alternativa erano su una posizione comune che, spiegata con termini non propriamente politichesi, era: questo accordo fa schifo. Il ministro Fabio Mussi ieri ha detto che «il protocollo del governo contiene tre parti: previdenza, competitività e mercato del lavoro». Se c'è l'ok da parte di Sinistra democratica alla prima parte, sugli altri punti Mussi avverte che il suo gruppo proporrà, quando il consiglio dei ministri sarà chiamato a discutere e il parlamento a decidere, «soluzioni diverse, più coerenti con il programma dell'Unione». E anche il verde Alfonso Pecoraro Scanio parla di «un accordo che sa di muffa, che non guarda al futuro».
Magra consolazione, questa nuova unità a sinistra, visto che ora si tratta comunque di decidere che fare nel prossimo futuro. Se si ingoia il rospo, l'ennesimo, si può dire che la sinistra di governo sia finita. Nel senso che non esisterebbe in quanto tale all'interno della maggioranza. In questo primo anno di vita dell'esecutivo Prodi, da sinistra, si è cavato poco o nulla: sui diritti civili si era partiti dai Pacs, poi trasformati in Dico, ora Cus; in politica estera, a parte il ritiro delle nostre truppe dall'Iraq, dovuto più a una contingenza storica che a una vera concessione dell'ala riformista alla sinistra, quasi nulla. In Afghanistan i nostri soldati ci stanno ancora, e anzi la scorsa primavera il nostro contingente era stato rafforzato con l'invio di altri elicotteri e mezzi corazzati, oltre a un aumento del numero degli uomini impegnati nella missione.
Se non lo si ingoia, d'altra parte, a non esistere più sarebbe il governo. Che resterebbe senza una maggioranza politica a sostenerlo, a meno di accordi con una parte dell'opposizione, magari proprio quella che citava l'altroieri il diessino Maurizio Migliavacca quando parlava di dialogare con quelle forze del centrodestra «che manifestano posizioni autonome rispetto a chi va alla ricerca ossessiva della spallata al governo».
Il documento sul welfare, che mantiene sostanzialmente intatta la legge Biagi e non elimina la precarietà, così com'è non può essere in alcun modo digerito a sinistra. Ma possibilità di cambiamento si scontrano con la dichiarazione del ministro Damiano, che lo ha blidato: «Non è emendabile». Il fatto di non essere stati parte in causa durante la discussione permette alla sinistra maggior libertà di azione, e il segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano su questo punto è stato chiaro: «Non ci sentiamo legati al rispetto di nulla visto che siamo lontani anni luce dal programma. Sulla proposta si apre un conflitto, e il nostro voto dipenderà dall'esito del conflitto». Conflitto in cui il Prc avrà come alleati anche gli altri partiti della sinistra alternativa, se si tiene fede alle dichiarazioni di ieri. «Il protocollo è inaccettabile, così non si può continuare», ha detto il capogruppo alla camera del Pdci Pino Sgobio. La battaglia è aperta, il rischio è che, come afferma Manuela Palermi, si sia «arrivati al capolinea».

il manifesto 25.7.07
Bertinotti processa D'Alema e Latorre
«No ai privilegi dei parlamentari e allo scontro istituzionale» I Ds non hanno ancora sciolto il nodo dell'autorizzazione


Roma. Più di tutto, a convincere il presidente della camera sono state le parole di Giorgio Napolitano. Quell'intervento sulla gip milanese Clementina Forleo, considerata colpevole di aver espresso giudizi «non pertinenti e chiaramente eccedenti», a lui non è piaciuto e anche se sa che il Prc ha scelto di tenere un profilo basso, lasciando che siano i Ds a fare la prima mossa, Fausto Bertinotti ha scelto la propria. Complici i microfoni di Otto e mezzo ha spiegato che davanti alle intercettazioni scaturite dalle indagini su Unipol, gli onorevoli coinvolti dovranno accettare di sottoporsi al giudizio dei magistrati come chiunque altro: «In questa fase i parlamentari devono dimostrare non solo di essere al di sopra dei sospetti ma di non avere nessun privilegio, nemmeno un'apparenza di privilegio, in modo che la discussione politica possa essere avviata senza elementi che la turbino». Ha accompagnato l'esternazione a un paio di commenti circa la massima stima verso i dirigenti Ds coinvolti dalla vicenda, ma poi ha proseguito criticando le parole venute dal Quirinale: «Bisogna evitare il rischio di un conflitto interistituzionale. Siamo in un momento di crisi politica ma un conflitto tra le istituzioni è un serio rumore di fondo a questa crisi».
La mossa del presidente della camera stringe i Democratici di sinistra in un angolo persino più stretto di quello in cui si trovavano. Qualcuno, nel partito e fuori, si aspettava che nella giornata di oggi avrebbero sciolto il nodo e preso esplicitamente posizione sull'autorizzazione all'uso delle intercettazioni. E invece il dado non è tratto. Marina Sereni, vicecapogruppo alla Camera dell'Ulivo, ha fatto la prima apertura spiegando che i Ds non hanno nulla da nascondere: «Non siamo mai stati né pregiudizialmente a favore né pregiudizialmente contro le autorizzazioni. Si tratta di guardare le carte e diciamo che non abbiamo nulla da nascondere. Ci orienteremo di conseguenza». Ma non è ancora la linea della massima trasparenza che qualcuno attendeva. Anche perché più o meno mentre la vicecapogruppo della Camera spiegava la propria opinione, il virtualmente indagato Nicola Latorre ai microfoni di Radio24 spiegava che sì, lui è «a disposizione della magistratura», ma «prima la giunta e poi l'aula devono valutare con estrema serenità e rigore la documentazione oggetto di questa richiesta, posto che di questo materiale non c'è ancora traccia». Un modo, neanche velato, per evitare il punto che lo tocca più da vicino.
Pur non avendo ottenuto le dimissioni del rivale Antonio Di Pietro, il ministro Clemente Mastella ha dato mandato al suo ispettorato perché acquisisca le ordinanze firmate a Milano, in particolare quella che tira in ballo D'Alema e Latorre. Non una ispezione, dunque, ma una valutazione degli atti passata la quale il guardasigilli deciderà se archiviare il caso, inviare gli ispettori nel capoluogo meneghino oppure inviare la propria segnalazione al procuratore generale della cassazione Mario Delli Priscoli che, attraverso una procedura tutta interna al Csm, ha ricevuto tutto ieri tramite il presidente della corte d'appello di Milano, Giuseppe Grechi.
Tutte mosse che piacciono poco al ministro per le infrastrutture Antonio Di Pietro. Incurante delle proteste del collega ha insistito anche ieri: «Nessuno tenti di fermare le indagini e il parlamento dia la possibilità al giudice di decidere con tutte le carte in mano».

il manifesto 25.7.07
I concetti di Gramsci al filtro delle lingue straniere
Primo di una serie di annali che intendono offrire una rassegna delle ricerche su Gramsci fuori d'Italia, il volume «Studi gramsciani nel mondo 2000-2005» a cura di Giuseppe Vacca e Giancarlo Schirru rivela l'attenzione internazionale rivolta ai «Quaderni». Anche se, come nota nel suo contributo Marcus Green, non mancano letture incomplete e fraintendimenti
di Guido Liguori


La fortuna di Gramsci nel mondo, e la rilevanza numerica dei contributi su Gramsci in lingua inglese (dovuta ai cultural studies e ai subaltern studies, per i quali egli è forse il massimo autore di riferimento), è un dato acquisito, come è stato dimostrato - in questo settimo decennale della morte - anche dal convegno internazionale organizzato dalla Fondazione Gramsci in collaborazione con l'International Gramsci Society su «Gramsci, le culture e il mondo» lo scorso aprile; e dal convegno della stessa Igs su «Antonio Gramsci, un sardo nel "mondo grande e terribile"», che si è svolto a maggio in Sardegna con la partecipazione di oltre sessanta studiosi, di cui la metà provenienti dall'estero (una decina dagli Stati Uniti, sei dall'Australia, cinque dal Brasile; e altri dal Regno Unito, dal Canada, dalla Romania, dalla Francia, dal Messico, dal Giappone).
Se si va al di là del dato quantitativo, quali sono i temi gramsciani che più hanno diffusione al di fuori del nostro paese? Un contributo di conoscenza è dato da una pubblicazione della stessa Fondazione Gramsci, Studi gramsciani nel mondo 2000-2005, a cura di Giuseppe Vacca e Giancarlo Schirru (il Mulino 2007, pp. 345, euro 24,50), primo di una serie di annali che si prefiggono di offrire una rassegna degli studi su Gramsci scritti fuori d'Italia. Un comitato scientifico quale quello che presiede alla pubblicazione - con studiosi che operano in Francia, Giappone, Stati Uniti, Russia, Messico, Germania, oltre che in Italia - può monitorare l'evolversi degli studi su scala internazionale e operare una selezione di qualità. L'osservazione che si può fare è solo quella della necessità di allargarlo a esponenti di altre aree geoculturali: l'assenza di rappresentanti di realtà come quella brasiliana e quella australiana sono pecche alle quali non sarà difficile porre rimedio.
Il volume in questione è composto da undici saggi, scelti con un duplice criterio: alcuni per il valore di rappresentatività dei contesti culturali dai quali provengono; altri quali contributi specialistici di oggettiva rilevanza. Sul primo versante, gli scritti di Michaelle Browers su «società civile» e «intellettuale» nel mondo arabo, di Markus Bouillon sul declino del processo di pace in Medio Oriente, di Rupe Simms sulla Black Theology in Sud Africa e di Claire Cutler sulla concezione gramsciana del diritto globale hanno un valore soprattutto documentario.
Indubbiamente interessante è lo scritto di Amartya Sen sui rapporti di Sraffa con Gramsci e con Wittgenstein: il premio Nobel ricorda come Sraffa abbia influenzato la svolta teorica tra il Tractatus e le Ricerche (il fatto era noto), ma anche mette in rilievo come le idee sul linguaggio dell'economista italiano fossero quelle del suo amico Gramsci. Tesi affascinante anche se un po' aleatoria.
Certo la collocazione di Gramsci in un consesso di tale livello - tra Wittgenstein e Sraffa - già di per sé aiuta a spiegarne la statura e l'enorme influenza del lascito intellettuale, rispetto alla quale persino l'accademia italiana inizia a mostrare qualche crepa: il successo del Centro interuniversitario di studi gramsciani, promosso dalla Igs Italia e presieduto da Pasquale Voza, ne è un chiaro sintomo.
Altri autori presenti nel volume sono nomi molto noti nel panorama degli studi gramsciani - da Joseph Buttigieg, curatore dell'edizione inglese dei Notebooks, a Juan Carlos Portantiero, da poco scomparso, antesignano con Aricó degli studi gramsciani in Argentina; da Dora Kanoussi, che in Messico ha portato a termine la traduzione in spagnolo dell'edizione critica dei Quaderni e poi le Lettere, al newyorkese Benedetto Fontana, uno dei migliori studiosi di teoria politica che si occupano di Gramsci. Accanto a essi, alcuni dei più promettenti studiosi delle nuove leve, quali lo statunitense Marcus Green e l'inglese Adam Morton. Il ventaglio dei temi è ampio: si va dal Gramsci lettore di Machiavelli di Portantiero al Filosofo democratico: retorica come egemonia di Fontana, dalla Introduzione alle Lettere della Kanoussi alla teoria della nascita dello Stato moderno tentata da Morton con una strumentazione marxiana e gramsciana. Sono però gli scritti di Buttigieg e di Green a riportarci maggiormente alle considerazioni dalle quali siamo partiti: quali sono i concetti gramsciani oggi più usati nel mondo? I saggi dei due autori sono imperniati sulle due architravi di questa fortuna, che essi sottopongono ad argomentata critica, opponendovisi dall'interno: il concetto di «società civile» e quello di «subalterno». Buttigieg critica la concezione di società civile attribuita a Gramsci prevalente nel mondo anglofono, fondata sulla visione binaria Stato/non Stato tipica della tradizione liberale ma - sottolinea Buttigieg - estranea a Gramsci, che col concetto di «Stato integrale» vede invece come un unico filo di potere attraversi e unisca dialetticamente entrambi.
Non solo, Buttigieg mostra come l'analisi gramsciana trovi una riprova proprio negli Stati Uniti di oggi, dove le forze conservatrici agiscono per formare l'opinione pubblica nella società civile in tutt'uno con la loro azione nelle amministrazioni repubblicane. Analogamente fa Green per il concetto molto diffuso di «subalterno», che viene da Gramsci e che grande fortuna ha avuto a partire dall'uso che ne ha fatto la scuola indiana cui appartengono fra gli esponenti più noti Ranajit Guha e Gayatri Spivak. Proprio con la Spivak polemizza l'autore fin dal titolo inglese del saggio - purtroppo non conservato nella traduzione italiana - Gramsci cannot speak, contrapposto al celebre scritto della Spivak Can the subaltern speak? L'accusa che egli rivolge alla celebre studiosa di Derrida è quella di aver stravolto il concetto gramsciano, astraendolo dal contesto di lotta per l'egemonia in cui era immesso. Green ci fa capire come Gramsci sia stato letto in modo incompleto, e spesso frainteso, specie dagli studiosi che, non conoscendo l'italiano, spesso non possono leggerlo e studiarlo integralmente.
Insomma, il panorama degli studi gramsciani fuori d'Italia è variegato. Non è solo nel nostro paese che è viva l'attenzione al testo e al contesto storico-culturale, anche se è soprattutto da noi gli studi gramsciani hanno fortemente privilegiato questo versante: penso alle iniziative della Igs Italia - un seminario interdisciplinare sul lessico dei Quaderni che va avanti da diversi anni e che ha già prodotto un libro apprezzato come Le parole di Gramsci (Carocci) e il primo, grande Dizionario gramsciano di prossima pubblicazione; e a quelle della Fondazione Gramsci, come l'edizione nazionale delle opere, di cui è uscito quest'anno il primo volume dei finora inediti Quaderni di traduzione a cura di Giuseppe Cospito e Gianni Francioni per i tipi dell'Istituto della Enciclopedia Italiana; e come l'impegnativo convegno in programma in autunno su «Gramsci nel suo tempo», nonché la grande Bibliografia Gramsciana Ragionata (BGR) a cui sta lavorando un gruppo di studiosi guidato da Angelo D'Orsi.
Non necessariamente questi «due mondi» (quello dello scavo storico-filologico e quello soprattutto volto all'uso di Gramsci) devono essere intesi come contrapposti: il reciproco ascolto è anzi necessario perché si impari da una parte a usare Gramsci senza tradirlo, e dall'altra a studiare Gramsci senza farne un fossile, un «classico» del tutto estraneo alla politica e alla lotta per l'egemonia che egli non solo teorizzò, ma cercò anche sempre di portare avanti in prima persona.

il Riformista 25.7.07
Rifondazione. La proposta
A sinistra più che un referendum servono primarie sui contenuti
di Pietro Folena


L'articolo di Paolo Franchi sul referendum che Rifondazione intenderebbe tenere per decidere se rimanere al governo è pieno di contenuti condivisibili e anche intessuto di un rispetto per l'interlocutore che è purtroppo merce rara tra i riformisti. Anche per questo merita una riflessione da parte di chi, come me, pur non essendo iscritto a quel partito, condivide con esso un percorso politico, quello di Sinistra europea.
Nella mia valutazione ci sono due elementi. Il primo è la condivisione del principio per cui un partito, il suo gruppo dirigente, non decide in solitudine sulle scelte più importanti. Qualcuno sostiene che il leader, quando decide, è solo. Io penso che quando il leader è solo prende le decisioni sbagliate e si condanna a rimanere in solitudine. Quando invece un partito cede il suo potere ai propri elettori, questo è un fatto da salutare come la rottura di un paradigma e il possibile inizio di una stagione differente nel rapporto tra politica e cittadini. Ben venga quindi che il Prc chiami i cittadini e gli elettori a scegliere. Se lo facessero tutti i partiti oggi non parleremmo di crisi della politica, almeno nei termini attuali.
I problemi, però, sono due, uno a monte e uno a valle. Quello a monte è che a una decisione del genere si poteva non arrivare affatto, se la sinistra, non solo il Prc, avesse raccolto per davvero l'appello di Fausto Bertinotti all'unità. Invece ci siamo incartati in discussioni interne, riflessi identitari, esegesi a volte ridicole sul vero significato delle parole del presidente della Camera. Malgrado lo sforzo generoso che Franco Giordano e il gruppo dirigente hanno condotto sulla strada dell'unità, evidentemente questo sforzo non è stato ancora sufficiente.
Per non parlare dei ritardi, colpevoli anche se non dolosi, nel percorso. Uno per tutti: dopo l'assemblea dei parlamentari, non ci siamo più riuniti. Questo ha portato a far saltare nei fatti il patto di unità di azione che davanti al primo banco di prova non è riuscito a produrre non dico l'azione, ma neppure la valutazione comune.
Ora pare che le forze di sinistra siano unite contro le proposte del governo sulla revisione della legge 30. Speriamo che almeno su questo la massa critica si faccia sentire. Il referendum del Prc, insomma, non avrebbe avuto neppure ragione, a mio parere, se la sinistra avesse marciato unita nella trattativa interna alla maggioranza sulle pensioni. Gli equilibri sarebbero stati differenti e l'esito pure. Del resto occorre dire che quel buono che c'è nell'accordo lo si deve al fatto che Rifondazione ha puntato i piedi.
Il problema a valle, invece, riguarda le forme di questa consultazione. Un referendum su un tema tanto importante non può risolversi in un semplice sì o no. Più che di referendum bisognerebbe pensare a «primarie di contenuto», non solo sulla permanenza al governo, ma sul programma e sul «come» agire nel governo. Personalmente, se mi chiedessero: «Vuoi che la sinistra rimanga al governo nelle condizioni attuali» la mia risposta sarebbe difficilmente un «sì». Rimanere come adesso è impossibile, perché o Rifondazione, Sinistra democratica, Pdci, Verdi, associazioni e movimenti si uniscono e fanno massa critica oppure la loro presenza al governo sarà sempre più ininfluente. A quel punto essere dentro o fuori poco cambia per i lavoratori, i giovani e i pensionati. Se invece la domanda fosse: «Vuoi che la sinistra rimanga nel governo, si unisca e ottenga scelte sociali differenti», allora la mia risposta sarebbe un «sì» convinto.
Ancora. Chi parteciperà a questo referendum e dove si voterà? È una questione decisiva. A Genova, alla riunione della Sinistra europea, ho posto con chiarezza questo problema. La quantità dei coinvolti fa la qualità della consultazione. Se si trattasse - e ancora non è chiaro - di un referendum tra i soli iscritti sarebbe una scelta sbagliata e deflagrante per l'intera sinistra. Non credo che i soli iscritti e militanti di un partito abbiano la piena disponibilità della permanenza di quel partito nel governo. Una forza politica, presente in parlamento e nell'esecutivo, lo è perché è stata votata da centinaia di migliaia o milioni di elettori. E allora questo referendum, per avere un senso e anche una validità, deve essere aperto a tutti gli elettori, svolto per strada, nelle piazze, non nelle sezioni o nelle Feste di Liberazione (lo dico con rispetto per le une e le altre). Insisto: questo è un punto che ancora non è stato sufficientemente chiarito. Ed è un punto dirimente, per ragioni sin troppo evidenti. Da questa scelta dipenderebbe anche l'esito del percorso di unità, oltre che le scelte di Uniti a Sinistra.
Insomma, non vedo nulla di male, anzi, nel fatto che il Prc decida di fare questa chiamata del proprio popolo. Io stesso nelle settimane passate avevo auspicato le primarie di progetto e di xxx. A patto che sia vera, partecipata e che qualsiasi sia l'esito - non ho paura a confrontarmi su questo - essa sia capace di cambiare in profondità la strategia. Se il referendum - che preferirei pensare come primarie sui contenuti - si farà e mi sarà data la possibilità di parteciparvi, farò campagna per una decisa virata nelle linee sinora adottate tanto verso il governo che verso l'unità a sinistra, per cambiare la prima nel senso di una maggiore incisività e l'altra nel senso dell'abbandono di ogni reticenza e ritardo. Che poi, a ben vedere, sono la stessa cosa.
portavoce di Uniti a sinistra
www.pietrofolena.net


Repubblica 25.7.07
Wajda e l'eccidio di Katyn
I Russi in Polonia


L'uscita è prevista per il 17 settembre anniversario dell'aggressione sovietica
Il regista racconta il massacro in un film dai risvolti autobiografici
"Mio padre fu trovato nelle fosse, anche se allora credemmo che la responsabilità fosse dei nazisti. Negli anni '50 ho saputo la verità"
"Stalin voleva eliminare le élites intellettuali più influenti e tutti quelli che avevano partecipato alla guerra del 1920"

VARSAVIA. Per chi si dedica oggi al triste esercizio di voler stabilire se sia stato il nazismo oppure lo stalinismo ad avere raggiunto il più alto grado di atrocità del ventesimo secolo, il caso di Katyn appare emblematico. Nel rimbalzarsi la responsabilità dell´esecuzione segreta, perpetrata nella primavera del 1940, di decine di migliaia di ufficiali polacchi prigionieri di guerra, in una foresta russa non lontana da Smolensk, sovietici e nazisti rivelano, infatti, al di là delle loro ideologie, la potenziale interscambiabiltà dei loro crimini e delle loro menzogne.
E´ solo nel 1992, quando ormai l´URSS non esisteva più, che il presidente russo Boris Elstin offriva al presidente polacco Lech Walesa l´ordine scritto dato da Stalin alla NKVD di sopprimere 27.700 cittadini polacchi - colpevoli di combattere contro l´invasione nazista e «nemici incorreggibili «del potere sovietico». Ammissione tardiva di una verità di cui i polacchi, nonostante la censura comunista, erano al corrente da molto tempo. Era infatti in nome non già della razza ma della lotta di classe e di un preciso calcolo politico che un´intera élite era stata seppellita nelle fosse comuni di Katyn, privando così la Polonia della guida di buona parte della sua classe dirigente tradizionale.
Per più di mezzo secolo, dunque, la Polonia sovietica ha dovuto vivere questo immenso lutto nazionale sotto il segno della censura e della menzogna, ed ora che la verità su Katyn ha smesso di essere un argomento tabù ed è entrata nei libri di storia, vi era bisogno di un drammaturgo capace di evocarne l´intera tragedia, consentendone la catarsi collettiva.
Non è sorprendente che sia Andrzej Wajda ad avere raccolto la sfida con Post Mortem. Storia di Katyn, un film (tratto dal libro di Andrzej Mularczyk) la cui preparazione ha impegnato il regista per anni e di cui, non a caso, è prevista l´uscita il 17 settembre, ricorrenza dell´anniversario dell´aggressione della Russia alla Polonia del 1939. Chi, in effetti, più del maggiore e più famoso cineasta polacco aveva le carte in regola per affrontare la vicenda di Katyn? Nel corso della sua vastissima opera costellata di capolavori Wajda non ha forse raccontato in modo esemplare tanto gli avvenimenti tragici dell´ultima guerra - l´occupazione e la resistenza in Generazione e in I dannati di Varsavia, il ghetto in Il dottor Korczak - , quanto la lotta condotta nel dopoguerra dal suo popolo per la libertà con film come L´uomo di marmo e L´uomo di ferro?
Ma è a Wajda stesso che abbiamo chiesto di illustrarci le ragioni della sua scelta. E se la drammaticità e la delicatezza dell´argomento affrontato e la grande aspettativa che incombe sul film non sembrano apparentemente fare breccia nella corazza di cortese riserbo del grande regista, si avverte molta tensione nelle sue risposte. Seduto su una poltrona davanti a me, l´elegante, fragile signore ottantenne che è da tempo entrato nella leggenda del cinema, soppesa le parole, come se ne bastasse una sbagliata per rendere la verità di Katyn indicibile.
Signor Wajda, perché un film su Katyn oggi?
«Per due ragioni. In primo luogo perché fino ad oggi la cinematografia polacca non aveva realizzato un film su questo avvenimento. Un avvenimento che ritengo capitale per noi, non solo dal punto di vista storico ma dal punto di vista dell´esperienza spirituale di tutta la nazione e che, dunque, doveva assolutamente trovare la sua traduzione nel cinema. In secondo luogo per una ragione personale: mio padre faceva parte degli ufficiali che furono vittime del massacro».
All´epoca di Katyn lei aveva diciott´anni. Quando e in che modo è venuto a conoscenza di quel che era successo e come ricorda di avere vissuto personalmente la tragedia?
«La mia famiglia ed io l´abbiamo saputo esattamente come tutti gli altri, vale a dire durante l´occupazione. I tedeschi pubblicarono le prime informazioni sui loro giornali subito dopo la scoperta delle fosse di Katyn nel 1943. Ed è su questa lista tedesca che la mia famiglia ha trovato il nome di mio padre.
Personalmente ho vissuto l´eccidio di Katyn attraverso la tragedia di mia madre che, fino a qualche anno prima di morire, non ha mai potuto credere che suo marito non sarebbe più ritornato».
Allora si sapeva già che erano i sovietici ad essere responsabili del massacro?
«Debbo riconoscere che noi stessi, vista l´esperienza di mia madre, della mia famiglia e, in generale, dei polacchi, abbiamo creduto alla responsabilità dei nazisti. Conoscendo già il loro comportamento da assassini in Polonia, sapendo di cosa erano capaci, abbiamo pensato di trovarci davanti a una manipolazione tedesca. E´ soltanto negli anni Cinquanta, nel corso di un mio soggiorno a Parigi, che per la prima volta ho avuto modo di venire a conoscenza dei documenti riguardanti Katyn pubblicati da Kultura, la rivista dei dissidenti polacchi in esilio. Ed è allora che mi sono reso chiaramente conto che si trattava di un massacro sovietico».
Quali sono i motivi che hanno indotto i sovietici a perpetrare questo immenso crimine?
«A mio avviso ci sono delle ragioni precise per cui l´Unione Sovietica ha agito in questo modo. Innanzitutto Stalin voleva privare la Polonia delle sue élites intellettuali più attive e influenti. Non bisogna dimenticare che la maggior parte degli ufficiali assassinati erano militari di riserva e non di mestiere - medici, avvocati, professori, oltre a numerosi preti e rabbini - e né Stalin, né i suoi accoliti ritenevano possibile «convertire» questo tipo di persone al nuovo sistema ideologico. Inoltre i militari che hanno trovato la morte a Katyn avevano partecipato alla guerra del 1920. Erano loro che avevano difeso vittoriosamente Varsavia dall´offensiva dell´armata rossa. E questo smacco si era impresso a caratteri di fuoco nella memoria di Stalin, condizionando psicologicamente tutto il suo comportamento successivo. Vi era in lui la volontà di sopprimere i colpevoli della sua precedente disfatta. D´altronde, di per sé, il massacro di Katyn non è un avvenimento senza precedenti nella storia dell´URSS. Esattamente negli stessi luoghi erano già state sepolte un gran numero di altre vittime - in questo caso russi che si opponevano allo stalinismo - massacrate nel 1935, nel 1936, nel 1937».
Sovente, nei suoi film - penso, ad esempio, a L´uomo di marmo (1976), o a Sotto anestesia (1978) - lei ha affrontato il tema della manipolazione della verità da parte del potere. Il modo in cui il delitto di Katyn è stato dissimulato non ne costituisce un terribile esempio? Gli alleati, che pure sapevano chi erano i veri colpevoli, non vollero denunciare i russi per non compromettere l´alleanza con Stalin contro Hitler, e la Polonia comunista del dopoguerra, sotto la pressione della dittatura sovietica, fece di Katyn un argomento tabù grazie anche al sostegno di un certo numero di intellettuali che si rifiutavano di considerare Stalin alla stregua di Hitler. Non è così?
«In effetti, sì. Durante tutto il periodo della repubblica popolare polacca non vi è stato un solo momento in cui il potere sia stato disposto a dire la verità su Katyn. Nessun film sull´argomento ha potuto vedere la luce. Le autorità ritenevano comunque che nessuna produzione cinematografica pro - sovietica sarebbe stata in grado di convincere il pubblico e che di conseguenza era meglio evitare di affrontare la questione. Dunque niente libri, niente film, niente articoli, niente dibattiti. Di fatto il silenzio su Katyn ha costituito un ostacolo gravissimo per le relazioni polacco-sovietiche e ha continuato a pesare drammaticamente sul corso degli ultimi cinquant´anni della nostra storia.
Ricordiamoci che subito dopo la vittoria del 1945, Mosca ebbe la diabolica idea di istruire in Polonia un processo in cui si faceva ricadere la responsabilità di Katyn sui tedeschi. Le amministrazioni competenti incominciarono a raccogliere la documentazione necessaria, ma l´idea venne poi abbandonata perché Stalin decise di portare il caso davanti al tribunale di Norimberga per mondare davanti all´opinione internazionale l´URSS da ogni sospetto.
Oggi sappiamo che il procuratore sovietico che aveva osato suggerire a Stalin di astenersi dal presentare il dossier a Norimberga, venne assassinato il giorno dopo dal KGB, anche se poi il dittatore finì per rinunciare al suo progetto.
Qualche anno fa, al momento dell´uscita di Enigma, molte personalità polacche hanno protestato contro il film che raccontava, per l´appunto, della scoperta fatta dagli alleati della colpevolezza russa del massacro di Katyn grazie al lavoro di decodificazione degli ascolti radio svolto dagli ingegneri polacchi. Nel film uno dei tecnici polacchi era talmente sconvolto dalla decisione delle autorità britanniche di occultare la notizia per non lasciare trapelare di avere scoperto il codice usato dai nemici da decidere di passare dalla parte dei tedeschi. Le sembra una storia plausibile?
«Le proteste - che mostrano quanto questa storia continui ad essere dolorosa e importante per i polacchi - dipendevano dal fatto che i miei compatrioti pensavano che quel film tradisse la verità tanto sul ruolo avuto dai polacchi nella scoperta della chiave di decodificazione di Enigma quanto sulle conseguenze che ne erano derivate nel corso della guerra.
Una cosa va detta: l´atteggiamento degli alleati davanti al massacro di Katyn ha gettato un´ombra fra la Polonia e le democrazie occidentali, perché il loro atteggiamento è stato percepito come un autentico tradimento. Questa è, d´altronde, una delle ragioni per cui, a partire dal 1945, quando già si sapeva chi erano i veri responsabili del massacro, una parte della élite intellettuale polacca ha optato per il comunismo».
Ma non era una scelta contraddittoria?
«Non necessariamente. I polacchi avevano capito che gli alleati li avevano abbandonati in balia di Stalin. Di colpo, rimasti soli a fronteggiarlo, profondamente delusi dall´Occidente, alcuni di loro si erano rassegnati a considerare il sistema come l´unica realtà possibile».
E lei come ha deciso di raccontare questa terribile storia nel suo film?
«La sceneggiatura doveva prendere in considerazione due fattori: il crimine di Katyn e la menzogna di Katyn. Ora, mentre l´evocazione del crimine richiedeva un film d´azione, la ricostruzione della menzogna doveva avvalersi delle modalità narrative proprie di un film psicologico. Ed è così che è stato costruito il film.
L´inizio mostra gli ufficiali polacchi presi prigionieri dai sovietici e la loro vita nel campo di internamento; la fine è la ricostruzione del massacro nella foresta di Katyn nella primavera del 1940. Invece la parte centrale del film si svolge nel 1945, a Cracovia, sotto l´occupazione dell´esercito sovietico, e mostra le famiglie delle vittime di Katyn in preda all´angoscia che indagano e si interrogano sulla credibilità della versione ufficiale russa che sosteneva che il massacro era stato commesso dai nazisti nel 1941. Che cercano, insomma, in tutti i modi di scoprire la verità».
Che cosa rappresenta Katyn per la Polonia di oggi?
«La memoria della strage è radicata nel popolo polacco e gli anni di menzogne hanno contribuito a trasmetterla intatta alle generazioni successive al 1945. Tuttavia, da quando, nel 1989, la Polonia ha ritrovato la libertà il suo ricordo è meno vivo nei giovani. Di qui la necessità di rinvigorirlo puntando sulle date più importanti di quel periodo, a cominciare dal 17 settembre 1939, la data dell´invasione delle forze armate russe in Polonia in virtù del patto Rebentropp-Molotov».
Tempo fa lei ha dichiarato: "non ho cercato di evocare gratuitamente delle epoche trascorse, delle grandi figure, delle battaglie, insomma tutto ciò che chiamano storia. Ho tentato, al contrario, di descrivere degli esseri di carne e di sangue travolti dal corso della storia. Sono piuttosto i loro destini a darci il senso della storia".
«Questa affermazione vale anche per Post Mortem. Storia di Katym. Ancora una volta non si tratta di una ricostruzione cinematografica di eventi storici ma di una trascrizione di destini umani. E tra questi destini c´è anche il ricordo di quello di mia madre che non ha mai voluto accettare la verità ed ha continuato a sperare nel ritorno di mio padre».
Nel corso degli anni, per definire il suo stile, i critici hanno via via fatto ricorso ai termini di realismo, neorealismo, barocco, preziosismo, simbolismo. Quale le sembra oggi il più appropriato?
«La mia evoluzione è andata di pari passo con il cinema europeo di cui faccio parte. Nel corso di questi cinquant´anni ho sperimentato stili e correnti diverse. A cominciare dal neorealismo italiano di Rossellini. Ho cercato di trovarvi di volta in volta il mio posto man mano che apparivano nuovi temi e nuovi stili e che il pubblico cambiava. Tuttavia mi sono sempre sentito «al servizio» dei temi e degli autori che volevo evocare nei miei film».
Si può parlare, al di là di tutte queste metamorfosi, di uno «stile Wajda»?
«Quello che potrei indicare come elemento caratteristico di tutti i miei film e l´importanza delle immagini. Faccio un uso relativamente ridotto dei dialoghi per consentire una maggiore «visualità». Eppure anche le immagini, non meno delle parole, possono trasformarsi in ostacoli, costrizioni. Faccio dunque sempre molta attenzione a far sì che ciò non avvenga e sono sempre alla ricerca di immagini comprensibili a tutti, di immagini universali».