Il giornale di Rifondazione contro il sindaco di Roma
Il Manifesto: detesta il conflitto. Liberazione lo attacca: «È un neogollista»
Per Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista, «Veltroni è un neogollista». Anche abbastanza pericoloso, perché in piena sintonia coi poteri forti. Per il Manifesto è uno che razzola bene, ma pratica male, perché delinea rimedi peggiori del male e sogna una società senza conflitto di classe, in cui «il proletariato non conta niente». È la stampa bellezza, e tu non ci puoi fare niente, direbbe il vecchio Humprey Bogart. Nemmeno Veltroni, che mediaticamente parlando non teme confronti. L’attacco simultaneo, anche se molto differente nei toni, non giunge inaspettato. Liberazione ha trattato malissimo Veltroni da subito, con un’escalation di imputazioni molto gravi dopo Torino, il Manifesto si è contenuto di più ma a quanto pare concorda con il giornale di Rifondazione sul ragionamento di fondo: il sindaco di Roma è l’alfiere subdolo di una modernizzazione targata Confindustria.
La cosa singolare è che l’attacco simultaneo è scattato dopo la pubblicazione sul Corriere del progetto istituzionale di Veltroni. Erano idee e proposte già esposte al Lingotto e un po’ rielaborate per il giornale di via Solferino ma evidentemente non se n’erano accorti. Scrive il direttore di Liberazione: «È un proclama essenzialmente gollista, nel senso che riprende tutte le suggestioni della democrazia autoritaria francese...delinea un annullamento del conflitto, della lotta sociale, del ruolo e dei diritti del sindacato...è un progetto perfettamente compatibile con le aspettative e i disegni dei gruppi dirigenti della borghesia italiana». Conclusione: il disegno di Veltroni è «correggere una democrazia malata con l’iniezione di una forte dose di autoritarismo». Per Liberazione il precedente c’è e si chiama («tanto nomine», direbbero i latini) Bettino Craxi.
Tutto questo perché Veltroni vuole una politica che decide? Perché vuole la riduzione dei parlamentari a un numero simile a quello delle altre democrazie europee? Perché vuole il federalismo, che la sinistra ha sempre chiesto? Perché vuole la fine del bicameralismo perfetto, un’anomalia solo italiana che tutti i giuristi considerano un ostacolo al funzionamento della democrazia? Perché vuole il voto ai sedicenni? Perché vuole una riforma elettorale che impedisca a un senatore irriducibile di tenere in scacco un governo eletto da venti milioni di cittadini? Insomma, magari sono proposte che piacciono anche agli elettori di Rifondazione. Criticarle è legittimo, ma che c’entra De Gaulle? Ecco, anche quando il vecchio generale non viene evocato, vedi il Manifesto, l’accusa è simile: «Dieci proposte senza base», scrive Valentino Parlato. Nel senso che sono «discutibili e di grande peso» ma sono «irrealizzabili, impossibili e incredibili» e per questo pericolose. Alla fin fine è Rossana Rossanda a chiudere il cerchio: Veltroni non va perché considera riprovevole il conflitto sociale. L’autunno sarà caldo, ma gli operai non c’entrano niente.
l’Unità 26.7.07
Epifani scrive a Prodi: così non va
«Testo sconosciuto e problema di merito sul mercato del lavoro». Si vota l’accordo a punti?
di Giampiero Rossi
Le scelte del governo sul mercato del lavoro aprono un «evidente problema di merito». Così il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani scrive in una lettera inviata ieri al presidente del Consiglio, Romano Prodi, nella quale chiede se sia possibile firmare l'accordo sul welfare «solo per parti» e non per intero. Il problema è serio, perché all’interno della Cgil ribollono malumori che il leader, oltre a dover gestire, condivide almeno in parte e lo ha detto subito, a chiare lettere, appena uscito da palazzo Chigi con in mano il testo definitivo del protocollo proposto dall’esecutivo.
Nella sua missiva a Prodi, infatti, Epifani sottolinea che il Comitato Direttivo della Cgil «ha approvato la scelta di sottoscrivere il Protocollo sul Welfare» ma che questa decisione «si accompagna ad una contrarietà sulla parte dell'accordo relativa al mercato del lavoro e alla decisione di azzerare ogni contribuzione aggiuntiva sullo straordinario. La scelta da parte del governo di presentare su tali punti un testo non visto in precedenza nella sua stesura definitiva, se non pochi minuti prima dell'incontro - aggiunge il dirigente sindacale - apre, per quello che riguarda la Cgil, un evidente problema di merito, trattandosi di materie strettamente attinenti alla dimensione contrattuale del sindacato dove, ad esempio, la cancellazione di un aggettivo determina il rovesciamento di un significato».
E non è tutto. Perché «c’è infine - scrive ancora il leader Cgil che conclude la lettera “con stima” - l'esigenza di un ultimo chiarimento: ferma restando la scelta della Cgil, il governo ritiene che l'accordo possa essere sottoscritto anche solo per parti o vada sottoscritto per intero? Si tratta ovviamente di due scelte non uguali». Non è soltanto una questione di forma, in gioco ci sono nodi che stanno a cuore al sindacato e sui quali si è giocata buona parte della campagna nei luoghi di lavoro quando si è trattato di sostenere il voto in favore del centrosinistra, dopo i cinque lunghi anni berlusconiani. E alle critiche del sindacato si aggiungono, con toni decisamente più aspri, quelle di Rifondazione comunista e Pdci che minacciano battaglia contro il protocollo.
Ma dalla maggioranza, e dai Ds in particolare, arrivano messaggi, rivolti più apertamente all’alla sinistra della coalizione, che sembrano voler respingere qualsiasi tentativo di rimettere mano all’accordo: secondo il leader della Quercia, Piero Fassino, infatti, l'accordo su welfare e pensioni siglato dal governo è «importante», di «grande valore sociale» e sono incomprensibili le critiche di alcuni partiti della maggioranza e di una parte del sindacato. «È la prima volta - spiega Fassino - che c'è un pacchetto di misure previdenziali che non contrappone padri e figli. È la più grande e significativa manovra sul mercato del lavoro e sulla previdenza degli ultimi anni», un intesa quindi che garantisce l'equilibrio dei conti, che si occupa del problema delle pensioni basse, che affronta la questione della previdenza per chi oggi è giovane, che implementa la previdenza integrativa. Un risultato che è merito in particolare del lavoro «paziente di mediazione del ministro Damiano» e anche della disponibilità di Tommaso Padoa-Schioppa «che ha messo in campo le risorse finanziarie disponibili». Per questo, secondo Fassino, le critiche devono essere lette come un «riflesso istintivo di conservazione». Il Pd, avverte, «sosterrà in Parlamento e nel paese» questo accordo «che rappresenta un fatto di innovazione e di riforma».
E a ribadire la linea di difesa totale all’operato di Damiano, interviene anche il responsabile delle politiche per il lavoro dei Ds, Pietro Gasperoni: «Gli aspetti giudicati insufficienti sul mercato del lavoro non possono oscurare la positività complessiva di un negoziato e del suo risultato finale che rappresenta un passo avanti molto importante per i lavoratori i giovani e i pensionati. Toccherà ora al parlamento - prosegue - fare la propria parte, valutandolo nel merito in ogni sua parte e trasformarlo in legge, sapendo che in caso contrario, ne subirebbero un danno proprio i lavoratori i pensionati e i giovani. Sono totalmente ingiuste - aggiunge il dirigente della Quercia - le accuse di incoerenza rivolte al ministro del lavoro, che si è invece distinto per l'equilibrio e la pazienza con cui ha tessuto la trama di un accordo con le parti sociali che solo pochi giorni fa sembrava impossibile».
l’Unità 26.7.07
Fiction, Mediaset vuole Basaglia
di Toni Jop
L’hanno capita a Mediaset: la gente, deprivata del vissuto da una virtualità che affoga nell’omologazione, vuole storie. La tv è come un nonno che non c’è più, quello che faceva sognare i nipotini nelle notti d’inverno e non c’è modo migliore per sostituirlo che incantare un immenso pubblico di bimbi cresciuti con sequenze di immagini fluttuanti in un mare di «sentimenti». Eccoli quindi, con una presunzione di programmare tempo e azioni teneramente sovietica, sbottigliare denaro, temi, interpreti e contenuti di un rosario di racconti che, in tv, vanno sotto il nome di fiction. Non cinema - anche se dà fastidio ai dirigenti Mediaset questa distinzione - ma film per la tv, e cioè un prodotto la cui qualità si misura quasi esclusivamente sul piano commerciale: se vende è buono, sennò puzza. Sennonché, pur sdraiata sulle innocenti bancarelle dell’offerta televisiva, questa non è materia inoffensiva, cioè è importante, tocca cuore e cervello di milioni di persone, tendenzialmente ne forma o assesta i comportamenti, i giudizi. Ci torniamo su. Intanto, hanno deciso di spendere 250 milioni l’anno per confezionare fiction. Gli va di abbandonare la miniserialità, due puntate e via, scegliendo la formula della botta unica, 100 minuti in una serata. Poi, hanno intenzione di setacciare la storia recente del paese per localizzare vicende particolarmente ricche di significato da tramandare ai posteri. Buona idea: fin qui ci hanno stramazzato con una sequela di papi ottimi e di santi commoventi; allarghiamo il campo, venga mai in mente, a qualcuno che può, di raccontare la storia di uno di quei tanti papi che hanno umiliato il Vangelo con le loro zozzerie. Intanto, notizia bomba, hanno annunciato che costruiranno tre eventi tv sulla vita di Franco Basaglia - lo psichiatra che ha fatto chiudere quella schifezza dei manicomi e ha liberato i reclusi - , sulla tragedia di Vermicino, sul G8 di Genova. Materia sensibile molto, una sorta di album morale del paese, una bella responsabilità. Alla domanda se abbiano in qualche modo affrontato preliminarmente la questione culturale nel suo complesso che scrivere di fatto la storia, anche se per la tv, comporta, Alessandro Salem, direttore generale dei contenuti Mediaset, ha risposto che non si sono posti il problema ideologico e che lavorano semplicemente a un buon prodotto che va venduto. Non sappiamo se rallegrarci o allarmarci per questa bella lievità di intenti. Anche perché lo spettro della fiction Mediaset è molto ampio e intende coprire i settori chiave dell’attenzione del pubblico: sociale, action-detection, commedia, universo femminile (magicamente ridotto da Salem al rosa-sentimenti), giovani (e dagli con i pruriti scolastici). Una fioritura di blocchi da sei puntate: su Buscetta (vedremo come se la cavano con gli stallieri di Arcore), sulla mafia della Squadra antimafia e una pioggia di ospedali e sale operatorie in cui tra un bacio e l’altro ti fanno a pezzi, una squadra di carabinieri ecologici, un tuffo nei servizi segreti (siamo tutt’orecchi); insomma, la vita è una caserma e soprattutto una divisa. Va capito se vogliono entrare nella vita reale o se invece riusciranno, forse loro malgrado, a oscurarla. Vanzina e Abatantuono scritturati per far ridere (sono bravi), Ferilli farà la spogliarellista che di giorno arrotonda accudendo bimbi (vorremmo Totò nella parte di un bimbo) etc. etc. È gente collaudata, ce l’abbiamo nel sangue la capacità raccontarcela su, funzionerà: venderemo anche all’estero e saremo tutti più ricchi e felici.
l’Unità 26.7.07
Così fan tutte in questo «Orlando Furioso»
di Giulio Ferroni
Ricostruita, sulla base delle dodici copie superstiti sparse in tutto il mondo, la prima edizione dell’opera di Ariosto, uscita nel 1516, e che, dopo un primo momento di straordinaria fama, scomparve dalle scene
Ugo Foscolo racconta che quel suo alter ego paradossale e umoristico che egli chiama Didimo Chierico, traduttore del Viaggio sentimentale di Sterne, «ventilava da sé» certe sue indefinite «controversie» con l’Ariosto, e un giorno, mostrando «dal molo di Dunkerque le lunghe onde con le quali l’Oceano rompea sulla spiaggia, gridò: Così vien poetando l’Ariosto». È forse la definizione più bella e sintetica che sia stata data dell’autore e del suo grande poema. L’Orlando furioso è davvero come il mare, con onde ora impetuose ora dolci che vanno e vengono: si avvolge attorno alla mente del lettore, si frange e si ricompone, non ha mai sosta in un movimento che da tutta la realtà estrae una sorta di schiuma luminosa, splendente, dai riflessi d’oro che nascondono pieghe oscure ed insondabili; trasporta i detriti più eterogenei, personaggi, vicende, immagini, modelli, forme, parole della tradizione letteraria classica e volgare, trasformandoli in un nuova originalissima narrazione, nello stesso tempo infinita e dai certi confini.
Proprio per la sua accecante luce, per la ferma inarrestabile sicurezza del suo ritmo, per la molteplicità degli elementi che lo compongono, l’Orlando furioso può lasciare inquieti ed esitanti anche lettori molto raffinati, suscitando questioni e «controversie». Manifestò ad esempio un vero e proprio fastidio nei suoi confronti Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che pure diede il nome ariostesco di Angelica alla fascinosa protagonista del suo Gattopardo. E in fondo il Furioso resta troppo trascurato e pochissimo letto nel nostro paese e nella scuola: sembrano molto lontani certi grandi rilanci degli anni ’60, dalla passione ariostesca di Italo Calvino (anche autore nel 1970 di una bellissima sintesi narrativa che è anche guida e percorso di interpretazione, Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino) al formidabile spettacolo di Luca Ronconi (che per il testo si avvaleva della collaborazione di Edoardo Sanguineti).
Ma se si prova oggi a percorrere il poema, magari ancora con la guida di Calvino, non si può non restare catturati dal gioco sempre mobile delle armi e degli amori, dagli scatti verso la più dispiegata evasione fantastica, dall’ironia che corrode la stessa consistenza dell’invenzione, dal prezioso ricamo di figure e di forme ricavate dalla tradizione classica. Tutto vi si fonde e si riavvolge in una incessante clausola di bellezza: volta per volta, alla fine di ognuna delle ottave di cui è fatto il poema, sembra giungere a termine qualcosa che non ha termine, il respiro stesso del tempo e del mondo, catturato e contemporaneamente fatto evaporare e disperdere. L’Ariosto muove verso una bellezza solare e fuggitiva, che ha un emblema nella rigogliosa, esuberante, indifferente, inafferrabile Angelica: la donna amata da Orlando e da tanti cavalieri, il cui fascino è proprio nel rivelarsi, offrirsi e poi sottrarsi in squarci improvvisi, tra quasi infantili timori e repentini capricci. Nella sua libera misura dello spazio e del tempo, il poema proietta i più vari riflessi della realtà, come distillandoli, privandoli della loro densità materiale; trasforma la stessa ripetitiva banalità degli scontri cavallereschi, infinite volte raccontati nella precedente letteratura, in giochi di concertanti simmetrie, in combinazioni che si cancellano nel momento stesso in cui si danno. È una bellezza che ingloba l’errore, il limite, la vanità delle esperienze e dei desideri, l’insufficienza del sapere e della vita sociale, l’impero dell’illusione, della simulazione e dell’inganno (fino al limite della follia); e insieme la fedeltà, la dolcezza dei sentimenti, il senso dell’onore e del coraggio. Bellezza trionfante e insieme amara, insidiata dalle contraddizioni infinite di cui è fatto il mondo, dalla stessa realtà storica contemporanea su cui apre molteplici squarci: una bellezza con cui sarebbe essenziale confrontarsi oggi, che siamo assaliti da un’esibizione di bello esteriore, da consumare e da violare, in una moltiplicazione translucida e plastificata, invasione pubblicitaria e turistica, che esclude ogni autentica esperienza.
Al risultato ultimo del suo capolavoro, nell’edizione in 46 canti stampata nel 1532, l’Ariosto giunse attraverso un lungo impegno di correzione e di ampliamento rispetto alla prima edizione in 40 canti apparsa nel 1516 (e replicata con minori modifiche nel 1521): i filologi sono da tempo abituati a studiare quella prima edizione, a mostrarne il carattere originale, l’interesse che va al di là dei pur necessari confronti con l’edizione definitiva. Attesa da tempo, risultato di grande importanza, uno degli esiti più essenziali degli studi di letteratura italiana degli ultimi anni, ne è da poco uscita un’elegantissima edizione moderna, costruita con rigorosi criteri filologici, con l’analisi di tutti i 12 esemplari superstiti della stampa del 1516, probabilmente equivalenti all’1% della tiratura totale (Orlando furioso secondo la princeps del 1516, edizione critica a cura di Marco Dorigatti, con la collaborazione di Gerarda Stimato, Olschki, novembre 2006, pp. CLXXX-1071, euro 88,00), con il patrocinio dell’Istituto di Studi Rinascimentale di Ferrara. E se proprio Ferrara ha visto apparire quella prima stampa, sotto il diretto controllo dell’autore (l’Orlando furioso è il primo grande capolavoro della letteratura mondiale concepito espressamente per essere destinato alla stampa), è significativo anche il fatto che la presente edizione sia sorta sotto l’insegna della moderna, vitalissima Ferrara. L’interesse di questo testo non sta soltanto nel suo porsi come una prima provvisoria forma del grande capolavoro, ma proprio nei suoi originali caratteri, che permettono di leggerlo quasi come un’opera a sé, qualche cosa di parzialmente diverso dall’esito finale. Anzitutto dal punto di vista linguistico: vi si impone la presenza di tante forme sia di tipo «lombardo» o «padano», che di tipo latineggiante: nella revisione l’Ariosto si uniformerà al modello del fiorentino classico proposto dal suo amico Pietro Bembo, che darà al poema una misura più pastosa, più preziosamente fusa, più elegantemente congruente con il suo ritmo e con il suo disegno di bellezza. Ma, al di là dei dati linguistici, è lo stesso orizzonte generale del poema a configurarsi, nel 1516, in un più stretto legame con Ferrara e con gli eventi che si stavano verificando in quegli anni, carichi di vicende con cui l’autore si confrontava anche con impegni e incarichi in prima persona. Gli anni della redazione del primo Furioso sono proprio quelli della fase più acuta e vorticosa delle guerre d’Italia, in cui i giochi tra i signori italiani e gli invasori spagnoli e francesi non sono ancora chiusi: la fase che tocca più da vicino i territori della Ferrara estense e vede il diretto impegno personale dei signori dell’Ariosto, il duca Alfonso e il cardinale Ippolito, in stretta alleanza con la monarchia francese. Sulle vicende cavalleresche e belliche dei paladini di Carlo Magno e dei loro nemici Saraceni si proietta esplicitamente, con diretti richiami, l’eco delle guerre contemporanee alla stesura del poema. Così il primo Orlando furioso dà anche un effetto di presa diretta su una storia e una vita sociale tutt’altro che armoniche; la sua scrittura si fa davvero strada tra il clamore delle battaglie, tra gli intrecci diplomatici, tra le missioni avventurose di cui l’Ariosto fu talvolta costretto a farsi carico. Questa bruciante realtà non viene affatto cancellata in una pura evasione fantastica, ma viene interrogata, seguita nei suoi precisi sviluppi, dalla guerra della lega di Cambrai del 1509 all’avvento al regno di Francia di Francesco I e alla sua vittoriosa discesa su Marignano (1515). Questo del 1516 è insomma un romanzo «ferrarese», segnato da un effetto di immediatezza e di violenta lacerazione, che non si perderà nella redazione definitiva, che espanderà la sua prospettiva in una chiave di modello italiano ed europeo, come proiettando in una piena maturità letteraria quell’inquieto presente e la condizione stessa dell’Italia ormai in mano al predominio spagnolo ed imperiale: l’opera si porrà allora come la cifra e il segno più essenziale di quell’identità letteraria in cui per secoli si riconoscerà il carattere unitario della cultura del nostro paese; e in ogni modo vi persisterà l’eco profonda di quella lacerazione, entro un’affermazione di vita e bellezza al di là del tempo e al di là dei disastri della storia.
Già pienamente all’opera sono comunque in questa redazione del 1516 tutti i caratteri determinanti dell’universo ariostesco: la forza dell’immaginazione, i dati simbolici e fantastici, l’ironia, il senso della contraddizione, dell’illusione e dell’errore, l’alternanza tra comico e tragico, e ancora i pungenti e ambivalenti sviluppi di certe novelle raccontate dentro il poema. Tra queste mi piace ricordare quella del canto XXVI (XXVIII nella redazione del 1532), sulla tematica dell’infedeltà femminile, che traccia una strada che condurrà fino a Così fan tutte di Mozart. Questa novella rivela anche rapporti e suggestioni con il vicino Oriente, riprendendo molti tratti (probabilmente attraverso la mediazione di un singolare avventuriero veneziano, Gianfrancesco Valier) dalla storia quadro delle Mille e una notte, che ora si può leggere nella versione originaria di un manoscritto siriano del secolo XIV o XV, tradotto per Donzelli da Roberta Denaro (con prefazione di Vincenzo Cerami, pp.XVII-605, euro 29,50). I personaggi della novella ariostesca partono alla ricerca impossibile della fedeltà femminile, dopo esser venuti a conoscenza dei tradimenti delle rispettive mogli, come i fratelli Shahriyar e Shahzaman nelle Mille e una notte; nella raccolta araba sarà Shahrazad a riscattare il mondo femminile, con la sua resistenza di narratrice che scalza l’efferata crudeltà vendicatrice di Shahriyar; nel Furioso sono i maschi stessi a prendere atto dell’inevitabilità dell’essere traditi e finiscono per evitare esiti violenti, accettando con spirito di disillusa tolleranza il fatto che «così fan tutte». Dietro i luoghi comuni della tradizione misogina si affaccia lo spirito ironico, il senso del limite, un barlume di femminismo, quella ragione illuminista di cui l’Occidente e l’Oriente hanno ancora tanto bisogno.
Repubblica 26.7.07
Prima e dopo la cesura del 1968
La Chiesa e il periodo della contestazione
di Edmondo Berselli
Non si riferiva alla rivolta antiautoritaria, ma alla soggettività posta al centro della società
Papa Ratzinger ha definito, a ragione, quegli anni "una fase di crisi della cultura in Occidente"
Il Sessantotto, ha detto papa Ratzinger, è una «cesura storica», e su questo sarebbe difficile dissentire. Ma poi ha aggiunto che rappresenta una fase di «crisi della cultura in Occidente», conferendogli un tratto di grandezza: anche perché lo ha affiancato a un´altra profonda cesura, «l´Ottantanove come crollo dei regimi comunisti». Ora, è vero che il pontefice si riferiva ai contraccolpi che la tempesta sessantottesca determinò sul cattolicesimo post-conciliare: ma è l´espressione «crisi della cultura» che sollecita una riflessione. E non soltanto perché ci troviamo a un passo dal quarantennale del Sessantotto, che scatenerà un fiume di reinterpretazioni, ma perché sembra di cogliere nelle parole di Benedetto XVI un giudizio che su quell´anno fatale proietta un alone intensamente negativo. Crisi della cultura, dunque. Non c´è dubbio che il Sessantotto ha rappresentato una frattura, e che quindi nella vicenda occidentale, nelle società democratiche sviluppate, si può osservare un «prima» e un «dopo». Soprattutto in Europa, il maggio francese è stato l´epicentro di una rivolta che ha investito tutta la sfera della società e della politica: rivolta che si è manifestata in primo luogo contro le strutture e i simboli del potere (o meglio del Potere, con la maiuscola che si addice ai totem).
Nel suo estendersi in Germania e in Italia, la «contestazione generale» ha assunto caratteri specifici: se il maggio parigino aveva un contenuto insurrezionale, messo in pratica con modalità che prediligevano l´aspetto creativo e ironico, «l´immaginazione al potere», nella Repubblica di Bonn la ribellione si nutriva dei fermenti instillati dalla teoria critica di Adorno e dei francofortesi. Con il suo ordine conformista, il Modell Deutschland rappresentava agli occhi degli studenti un perfetto esempio empirico della «tolleranza repressiva» esorcizzata da Herbert Marcuse: la stabilità tedesca, ai tempi della Grosse Koalition fra Cdu e Spd, era un «sistema» che andava smascherato e messo a nudo nella sua intrinseca durezza fondata sul dominio di classe. Dunque c´era una differenza sensibile con il movimento francese: gli scontri degli studenti con la polizia nel Quartiere Latino non nascondevano un atteggiamento in cui la lotta coinvolgeva euforicamente l´immaginario: lo stesso frasario del Sessantotto a Parigi rivelava il lato ludico-situazionista della rivolta. Slogan come «Una risata vi seppellirà», «Vietato vietare» e «Siamo realisti, vogliamo l´impossibile» mettevano in chiaro quale fosse lo spirito dell´insurrezione: «Una follia estremistica», come la definì il generale de Gaulle, ma in cui emergeva la volontà di mettere a soqquadro, con le istituzioni, l´intero spettro degli stili culturali della tradizione.
I bersagli del Sessantotto erano l´autoritarismo, il paternalismo delle classi dirigenti, l´ossificazione ideologica della sinistra classica. L´avvento dei baby boomer sulla scena pubblica imprimeva un forte contenuto generazionale all´azione politica. Venivano messi in discussione i meccanismi del consenso, ma soprattutto gli istituti sociali della «repressione», a cominciare dalla scuola e dalla famiglia. Proprio per questo la ribellione parigina assumeva un profilo culturalmente radicale; e in questo senso si chiariva la differenza con il "movement" americano, tutto tematico, legato alla protesta contro la guerra nel Vietnam e ai diritti civili. La contestazione francese e più generalmente europea si esprimeva come un attacco ai nessi fondamentali della società dei padri, in cui la tonalità sovversiva era dominante. In questo senso, l´espressione «crisi della cultura» non risulta affatto fuori luogo. I linguaggi del Sessantotto erano la spia spettacolare di una critica senza appello alla tradizione.
All´aspetto libertario o anarchico tipico di un leader come Daniel Cohn-Bendit si affiancava a Berlino la tagliente ideologia di Rudy Dutschke, fondata sulla triade Marx-Mao-Marcuse. La carica distruttiva prevaleva sull´intenzione politica, la «controcultura» era un possibile fine in sé, la sovversione anche estemporanea era incorporata nel movimento come orizzonte praticabile prima di qualsiasi progetto o di qualsiasi programma. Anche in Italia il Sessantotto divenne il laboratorio di tutte le sinistre possibili: ma per certi versi con un orientamento più esplicitamente politico, e con l´idea di portare la protesta studentesca a fondersi con segmenti di classe operaia, superando e contestando la rappresentanza del Pci e del sindacato.
Ma più che dagli «eventi» rivoluzionari prodotti storicamente dalla rivolta, la «crisi» del Sessantotto è sintetizzata dal suo impatto complessivo, ossia dai suoi effetti materiali e immateriali. Un possibile bilancio, oggi, porterebbe con ogni probabilità a privilegiarne i profili sociali e culturali, prima che le ripercussioni sulle istituzioni. Se, sulla scorta di Tocqueville e di Hannah Arendt (che non nascose la sua simpatia per il movimento americano nei campus), si pensa che le rivoluzioni riescono quando producono assetti istituzionali nuovi ed efficaci, il Sessantotto non fu una rivoluzione. Fu invece il motore di un cambiamento sociale profondissimo, realizzatosi direttamente negli atteggiamenti e nei comportamenti collettivi e individuali. La «crisi della cultura» di cui parla il papa fu una rottura di paradigma che travolse la tradizione, innescando mutamenti ingentissimi nella configurazione sociale e finanche nel costume. Queste trasformazioni vanno identificate nella fine della deferenza verso l´autorità, così come nello stravolgimento dei canoni «morali» che presiedevano al rapporto fra uomini e donne; nell´emergere di una coscienza femminile che progressivamente portò al rifiuto dei ruoli di genere prefissati; in una enfatizzazione della cultura e dell´arte come avanguardia espressiva del conflitto; nella relativizzazione di tutti i codici, religiosi ma non solo, che istituivano le regole della vita privata e pubblica.
Già, «il personale è politico»: e basterebbe questa frase per dimostrare come il Sessantotto costituì effettivamente un principio di secolarizzazione. Mentre a distanza di quattro decenni altre caratteristiche della rivolta sono passate in secondo piano (il terzomondismo, per esempio, o la critica alla «società dei consumi», liquidata a partire dagli anni Ottanta dalla riscossa del mercato), sembra di poter osservare che l´aspetto tellurico del pensiero sessantottesco è dato dalla convivenza di due dinamiche: una spinta tutta rivolta al collettivo, alle interazioni di massa, alla «felicità pubblica» di Albert Hirschman, e una fase invece individualistica, che pone la soggettività e le sue pulsioni al centro delle relazioni sociali. Forse è questo secondo aspetto che oggi assume pienamente il senso di una frattura radicale rispetto al passato, e che probabilmente Joseph Ratzinger, custode della continuità con la tradizione, segnala come momento della crisi culturale dell´Occidente. Perché in fondo comincia lì il relativismo. Oppure, a seconda dei punti di vista, comincia o, meglio, accelera in quella fase, con ritmi ineluttabili, quel processo indistinto, anonimo, tendenzialmente irresistibile che in tutte le società avanzate non si può descrivere se non con il termine di modernizzazione.
Liberazione 26.7.07
Il presidente dei deputati di Rifondazione accusa il premier: «Su pensioni e welfare non ci ha garantito e non ha garantito il programma»
Migliore: «Prodi così non va»
Il protocollo sul welfare è la goccia che ha fatto traboccare il vaso
di Angela Mauro
«Sul welfare si è aperto un problema di trasparenza con Rifondazione»
Migliore: «Prodi è ancora garante di tutta l'Unione?»
Il protocollo sul welfare è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Le modalità con cui è stato elaborato e presentato ai sindacati dal ministro Damiano innescano la reazione dura di Rifondazione Comunista che, dopo aver denunciato a più riprese in passato le tentazioni egemoniche del costituendo Pd, chiama in causa colui che dovrebbe essere il garante della coalizione premiata alle elezioni: Prodi, premier di un governo targato (fino a prova contraria) Unione. «Si è aperto un problema con il Presidente del Consiglio Prodi, un problema di trasparenza nei rapporti con Rifondazione», denuncia il capogruppo alla Camera Gennaro Migliore, invocando un chiarimento perchè, spiega, «non si può arrivare alla Finanziaria in queste condizioni».
Prodi non garantisce più l'intera Unione?
Noi abbiamo sempre considerato il presidente del Consiglio quale garante degli impegni assunti dall'intera coalizione e infatti in passato abbiamo criticato singoli ministri, come per esempio Padoa Schioppa. Ma nella trattativa sul welfare, il premier ha lasciato che fosse presentata ai sindacati una proposta del tutto ignota ad una parte della coalizione e poi per giunta dichiarata inemendabile. A questo punto, si pone un problema di rapporti: non si tratta solo di divergenze perchè le divergenze si affrontano. Si tratta della cancellazione del diritto di partecipazione alla formazione delle decisioni. Del resto, il problema è stato segnalato anche dalla Cgil nella lettera a Prodi, seguìta alla trattativa a Palazzo Chigi. Lo stesso sindacato rimarca sul metodo: un procedere a tappe che ha riservato in coda la parte peggiore.
Ricapitoliamo le questioni, pensioni e welfare.
Sulle pensioni Rifondazione ha un giudizio articolato: consideriamo importante l'esclusione della platea di lavori usuranti dall'aumento dell'età pensionabile, la libertà di andare in pensione per chi ha 40 anni di contributi e lo studio per garantire ai giovani un rendimento minimo delle pensioni pari al 60 per cento rispetto all'ultima retribuzione. Per noi è però molto negativa la soluzione trovata sullo "scalone" Maroni, fatta di quote più scalini. Come pure, è per noi inaccettabile il fatto che, per compatibilità di bilancio, si limiti la platea degli esclusi dall'aumento dell'età pensionabile a cinquemila unità all'anno: la clausola, tra l'altro, non era nota ai negoziatori dell'accordo. Infine, è arrivata la proposta sul mercato del lavoro che non va nella direzione del programma, cioè quella del superamento definitivo della legge 30. Avrei accettato una presa di posizione che fosse in linea con il programma, pur facendo a meno di una consultazione collegiale nel governo. Ma siccome non si rispetta il programma, non capisco che tipo di rapporto Prodi voglia avere con una parte considerevole della maggioranza.
La proposta?
Non consideriamo accettabile l'ipotesi di inemendabilità del testo. Ci batteremo a colpi di emendamenti in Parlamento e con la mobilitazione sociale nel Paese per garantire il rispetto del programma sia sullo "scalone" che sulla precarietà. La crisi della politica sta nel suo scollamento da alcuni settori sociali, dalla base materiale del consenso all'Unione e a Prodi. Il problema della precarietà è drammatico anche per questo, oltre che essere drammatico in sè. Se la risposta alla crisi della politica è cancellare queste istanze, vuol dire che c'è una cattiva interpretazione del mandato ricevuto dagli elettori.
Alla luce dei continui appelli di Rutelli, che parla di "alleanze di nuovo conio", e Fassino, che indica la necessità di "discutere di scenari più avanzati", sembra difficile a questo punto salvare l'Unione.
Trovo insaziabili le richeste di Fassino e Rutelli. Dopo che il Partito Democratico ha imposto il suo punto di vista, in principi e sostanza, su welfare e pensioni, adesso si arriva a dire che la stessa alleanza non risponde alle esigenze e necessità del costituendo Pd, si cerca così di cancellare l'evidente perdita di consensi. Noi siamo interessati a non cambiare l'ordine del ragionamento. Gli "scenari più avanzati" di cui parla Fassino verranno poi sottoposti al giudizio elettori, nel caso. Le maggioranze di nuovo conio di cui dice Rutelli rischiano di avere la valuta fuori corso perchè guardano solo al palazzo. Io vedo dissolta non tanto l'opposizione a Berlusconi, quanto lo spirito che ha condotto poco più della metà del paese a voler cambiare il governo delle destre: l'Unione appare prigioniera delle logiche di palazzo. Oggi, invece, c'è da dare risposte a chi ha votato, il problema è che fine faranno milioni di precari nel nostro paese. Non si tratta di dire "governo sì, governo no", ma di verificare la sua effettiva possibilità di realizzare il patto con gli elettori. Per questo ci rivolgiamo a Prodi.
Il governo deve avere la consapevolezza che noi vogliamo discutere punto per punto, a partire dal programma, di quali sono gli impegni con gli elettori e con tutto il paese per non arrivare alla Finanziaria in condizioni di reciproco non ascolto: bisogna affrontare i prossimi mesi a occhi aperti e con pieno riconoscimento reciproco.
Il Prc chiama Prodi, Mussi chiama Veltroni...
Non entro nel merito delle decisioni di Mussi. Noi dobbiamo iniziare a chiedere e proporre in Parlamento soluzioni che vadano a risolvere il problema creato dall'accordo del 23 luglio. Non mi sento di appellarmi a Veltroni: se sarà indicato come leader del Pd, a quel punto potremmo aprire un'interlocuzione, ma non mi appello a lui. Mi appello a milioni di persone, deluse dall'esito dell'accordo.
Le divergenze sulle pensioni inficiano il percorso unitario a sinistra?
Il forum di martedì scorso tra i leader di Rc, Sd, Pdci e Verdi è stato molto positivo, ci sono stati elementi di avanzamento, a partire dall'accoglimento della nostra proposta di manifestazione nazionale unitaria in autunno e poi il fatto che vi possa essere anche una forma più stabile di coordinamento. Proprio oggi (ieri per chi legge, ndr.) abbiamo rilanciato il patto per il clima siglato da tutti e quattro i partiti della sinistra e anche dallo Sdi: è una sfida della sinistra plurale al Partito Democratico in vista della Finanziaria 2008 sul terreno delle emergenze climatiche.
Per Rifondazione resta in piedi l'ipotesi di una consultazione autunnale del proprio popolo per verificare l'opportunità di rimanere al governo?
E' il percorso avviato nell'ultimo comitato politico nazionale perchè è giusto fare i conti con il proprio referente sociale quando si è ad un passaggio così stretto della democrazia. E' anche una cessione di sovranità. Detto questo, penso sia necessario procedere in modo spedito verso il soggetto unitario e plurale della sinistra, che può rappresentare una svolta e dare più forza alle battaglie sociali.
Oltre che affermare, come ha fatto con Liberazione, che la sinistra deve essere innanzitutto anticapitalista, la Rossanda, sul manifesto , accusa tutti gli attori del percorso unitario di fermarsi allo stadio della "insopportazione delle cose esistenti", nulla di più.
La sinistra deve avere una visione: unità non significa solo dare un contributo di efficacia all'azione politica dei singoli partiti, ma vuole dire anche avere una visione generale della società, qualcosa di paragonabile alla controffensiva della destra più estrema che lavorando sui fondamenti della cultura reazionaria riesce purtroppo a prevalere nel senso comune, entrando anche nel cuore del centrosinistra.
Dobbiamo riconquistare il primato delle idee per una società diversa e questo si fa mettendo insieme esperienze tra di loro diverse, tradizioni che fino ad oggi non avevano trovato altra sede che quella istituzionale per confrontarsi. Si tratta di seguire quella densità di emozioni e progetti politici che io ho riscontrato nell'esperienza del movimento dei movimenti, dove nessuno, come prima domanda, ti chiedeva "di che partito sei?", ma se eri stato a Genova o al Forum Sociale di Porto Alegre. Saper elaborare una visione della trasformazione della società serve a ricreare le condizioni perchè la sinistra possa continuare ad esistere politicamente.
Per continuare con la Rossanda, lei punta il dito anche sulle risposte di Rifondazione e Pdci sul fallimento del socialismo reale...
Con tutta la modestia del caso, devo dire che su questo punto stiamo cercando di lavorarci da molti anni. La critica non violenta al potere è una critica attraverso la quali si possono determinare gli strumenti di controllo e dominio nella società attuale. Quando diciamo "critica non violenta" parliamo di critica al potere in sè come finalità dell'esercizio del governo, della invasività della sfera del dominio violento, fin negli ambiti più reconditi. Una cultura violenta al servizio del mercato può distruggere i fondamenti della vita stessa: pensiamo a cosa sarebbe successo se l'innovazione tecnologica attuale fosse stata a disposizione dei nazisti. E poi parliamo di critica non violenta all'economia, come critica della neutralità sovraordinatrice dell'economia rispetto alla vita. Tradotta nelle vicende che interessano oggi il governo significa critica alle grandi strutture sovranazionali - la Bce, l'Fmi - cui questo governo è attento più che al suo stesso popolo.
Ultima domanda: legge elettorale. All'indomani della consegna delle firme in Cassazione, i leader del Pd sembrano frenare sul referendum. Sono cresciute le possibilità di intesa in Parlamento?
Si deve fare una proposta che coinvolga anche l'opposizione, che sia chiara e limpida per il paese e che sia costruita per via parlamentare. Noi non abbiamo partecipato alla raccolta delle firme anche perchè il referendum non manterrà la promessa di risolvere il problema della frammentazione politica. Gli italiani ci hanno dato mandato di cambiare la legge elettorale attuale e un guazzabuglio come quello referendario peggiorerebbe la situazione. Secondo noi, la soluzione più praticabile è il modello tedesco che ripropone il tema della rappresentanza delle forze politiche e della chiarezza.
Liberazione 26.7.07
Il leader di "Sinistra democratica": «Fermare lo strapotere del Pd e l'attacco centrista, ricontrattare programmi e composizione del governo»
Salvi: «E' un governo monocolore»
di Frida Nacinovich
«La sinistra, unita, deve chiedere un chiarimento politico»
Senatore Salvi, iniziamo dalla fine. Che ne pensa della proposta Prodi-Damiano sul welfare?
Scandalosa. Nei contenuti e per il modo in cui è stata presentata. Viene definita inemendabile una proposta che non è neppure passata dal Consiglio dei ministri.
Un'altra domanda di carattere generale: che succede a palazzo Chigi?
Il governo è diventato un monocolore del Partito democratico ed è in atto un'offensiva neocentrista, che tende a fare della sinistra il capro espiatorio politico, sociale e culturale della crisi di consenso che il governo attraversa.
Però Damiano e Prodi un merito l'hanno avuto, sono riusciti a rimettere insieme la sinistra, la "cosa rossa".
Il governo è in profonda crisi di consenso, anzitutto nel mondo del lavoro dipendente. Lo conferma la ricerca pubblicata domenica scorsa dal "Sole 24ore", può confermarlo chiunque si faccia un giro per strada. Il governo è in crisi per le politiche neocentriste che ha portato avanti e vuole addossare la responsabilità alla sinistra. Questo è il tema che abbiamo tutti di fronte oggi, che mi fa a dire che bisogna accelerare la costruzione del soggetto politico unitario della sinistra.
C'entra anche questo con il destino del governo Prodi?
Prima di tutto bisogna fare una riflessione sul rapporto con questo governo. Io non credo che le alternative siano: ripetere il '98, o alla fine votare per salvare il governo e far passare qualsiasi cosa. Io penso che debbano essere modificate, emendate le proposte sul pacchetto sociale del governo. Però dobbiamo anche guardare in faccia la realtà: questi emendamenti chi li approva in Parlamento? Non arrivo nemmeno al momento in cui il governo porrà la fiducia sulla Finanziaria, come già preannuncia Damiano. La Finanziaria comincia in Senato, noi faremo i nostri emendamenti. Poi? Secondo me la sinistra unita deve chiedere un chiarimento politico al governo.
Si potrebbe parlare di una "trattativa sindacale" tra sinistra e centro dell'Unione?
La sinistra deve ricontrattare il programma. Il programma dell'Unione viene quotidianamente stracciato. La proposta di Damiano sul lavoro è l'esatto opposto di quello che c'è scritto nel programma. In Senato i gruppi della sinistra stanno lavorando unitaraiamente, puntiamo ad ottenere risultati importanti, ma è evidente che c'è un tema politico generale al quale non ci si può sottrarre.
Di unità della sinistra se ne parla parecchio. Come la vede il senatore Salvi?
Bisogna decidere da subito che cosa fare insieme alla ripresa dei lavori. La verifica di programma, la revisione della struttura del governo. Bisogna ammettere che nella formazione del governo all'inizio c'è stata una sottovalutazione. Ho parlato di monocolore del Partito democratico perché in tutti i posti che contano ci sono esponenti del Pd.
La sinistra ha accettato - fra l'altro allora non eravamo ancora una forza autonoma - di essere marginalizzata. Questa è la condizione peggiore. Ci fosse stato un ministro del Lavoro di sinistra a colloquio con i sindacati, siamo sicuri che fino alle quattro di notte si sarebbe verificato quel che è successo? Un governo pletorico, scandaloso nella sua composizione, 102 membri - non è vero che è colpa della legge elettorale - di cui l'80% sono del Partito democratico che ha nove viceministri su dieci e la grande maggioranza dei sottosegretari. La sinistra ha accettato che il Partito democratico avesse tutte le leve di comando. Si protesta quando non viene riunita la coalizione, ma Prodi può sempre rispondere: io ho chiamato i due vicepresidenti, il ministro del Tesoro, il ministro del Lavoro...
Come si esce dal vicolo cieco del governo monocolore?
Credo che la sinistra debba porsi e porre il tema di un chiarimento politico. Anche per salvare la coalizione di centrosinistra. Se il governo si regge su due gambe - il Partito democratico e la sinistra - ci deve essere pari dignità. Invece ho l'impressione che ci sia in campo un progetto per logorare la sinistra. Lo ripeto, il problema non è: usciamo o restiamo nel governo. Il problema è ridiscutere all'interno della maggioranza, visto che al momento nessuno è in grado di individuare soluzioni di governo che facciano a meno della sinistra.
Intanto il Partito democratico va avanti a tappe forzate.
Il manifesto di Veltroni è inquietante, ma il disegno mi pare chiaro. Non escludo che nel Partito democratico ci sia chi pensa di cavalcare il referendum elettorale per poi andare a votare con quella legge. Ma anche su questo punto il piddì rivela un'arretratezza di pensiero. Singolare contemporaneità, il 3 luglio del 2007 si sono presentati alle rispettive Camere il governo francese e il nuovo governo britannico. Entrambi per dire: più potere al Parlamento. Sarkosy ha detto: introduciamo una quota proporzionale. Gordon Brown ha detto: il primo ministro deve restituire agli eletti del popolo una parte dei suoi poteri, a cominciare da quello di sciogliere il Parlamento. Perché lo fanno? Forse per bontà d'animo? Si rendono benissimo conto che in una democrazia moderna il decisionismo richiamato da Veltroni non funziona. Non funziona neppure con i tassisti. E quindi capiscono che la democrazia per decidere oggi ha bisogno di più partecipazione, di costruire consenso, di valorizzare il Parlamento. Invece qua vogliono far passare tutto a colpi di fiducia. E si progetta ancora di peggio. Il disegno mi pare chiaro: una democrazia para presidenzialista, un presidenzialismo casereccio che faccia fuori la sinistra.Naturalmente è un disegno molto miope, si illude di separare l'Udc e la Lega da Berlusconi e Fini, prepara un'altra sconfitta come già fu quella del 2001.
E la sinistra unita? Si sta muovendo?
Noi dobbiamo reagire senza scomporci. Con serietà, con attenzione, facendo le nostre proposte. Il primo anno di governo è andato malissimo. Sulle pensioni si è accumulato tutto il malcontento. Persino oltre il merito del provvedimento. Sono state viste come il condensato di tutto ciò che non va. Perchè, lo ripeto, il progetto politico di una parte della maggioranza è quello di scaricare sulla sinistra la perdita di consenso dovuta alle scelte monocolori del Partito democratico. E la sinistra è gravemente in ritardo, anche perché non affronta i nodi veri.
Cerchiamo di scioglierli, questi nodi.
C'è la questione del governo, su cui dobbiamo operare da subito insieme. C'è stato un momento in cui i quattro ministri si sono mossi all'unisono e hanno ottenuto un risultato. Ora i quattro ministri dicano che la proposta di Damiano è la proposta di Damiano e niente più, almeno finché non passa dal Consiglio dei ministri. Altro che inemendabile. Poi c'è una piattaforma da costruire. Faccio una proposta: l'"Associazione per il rinnovamento della sinistra" ha elaborato un documento. Non credo che siano le tavole della legge, ma offriamola a tutti e cinque i partiti della sinistra.
Chi oltre a Rifondazione, Comunisti italiani, Verdi e Sinistra democratica?
Non ci devono essere esclusioni preventive nei confronti di nessuno, se poi qualcuno si vuole autoescludere naturalmente se ne prende atto con rispetto. Ma torniamo al documento dell' "Associazione per il rinnovamento della sinistra": è una base programmatica, ideale, nella quale ci riconosciamo, si possiamo fare cambiamenti.
Quale sarà il minimo comun denominatore di questa sinistra?
Voglio affrontare in particolare due temi politici. Il primo: qual è il giudizio sul Partito democratico? Non è irrilevante. Spesso sento parlare di sinistra riformista e sinistra alternativa. Veltroni come Segolene? Non sono d'accordo. Noi siamo usciti, non siamo entrati nel piddì perché riteniamo che sia un partito neocentrista. Discutiamone. Sono evidenti le implicazioni: se pensiamo che Veltroni sia come Segolene, lo spazio che ci rimane è quello della sinistra alternativa. E segnalo che in Francia è già stata travolta. Se invece pensiamo che il piddì sia un partito neocentrista, l'esigenza che si pone alla sinistra italiana è di altro genere. E ancora: affrontiamo la questione del socialismo europeo. Non chiedo di aderire al Pse, ma di dare un giudizio politico sulle socialdemocrazie e sul Pse. Tutto da buttare? Ragioniamo. Io ho fatto una scelta socialista e socialdemocratica nell'89. Voglio che ci sia dibattito. Mezzo secolo di storia non è servito a niente? Cos'è oggi il Pse, come è cambiato? Tutto questo è importante, così come è importante fare un partito, perchè serve un partito della sinistra italiana. Certo, al nostro interno ci sono identità culturali diverse ed è giusto che ne sia tenuto conto, ma attenzione a parlare di federazione. Perché va tutto bene, ma se fare una federazione significa assemblare i ceti politici, non avremo ottenuto un grande risultato. E se ci dobbiamo provare, proviamoci fino in fondo.
Torniamo all'inizio: la proposta Damiano-Prodi.
Segnalo una particolarità: il teso proposto da Damiano è la fotocopia del disegno di legge di Forza Italia Sacconi ed altri, presentato il 13 giugno. Perché è identico? Forse Damiano l'ha preso da Forza Italia? Semplicemente l'hanno preso tutti e due da Confindustria. Ecco il testo, puoi fare il confronto. Come è possibile andare avanti così? Peggio di Sarkosy, che almeno le trentacinque ore le ha lasciate.Parliamo dei contratti a termine. Nel programma dell'Unione c'è scritto divieto di reiterazione, ci propongono un sistema che istituzionalizza il precariato. Invece la legge che noi della sinistra abbiamo proposto sul tempo determinato è a costo zero. Non possono dir nulla Padoa Schioppa, Triche, il fondo monetario, l'Oxe, Almunia. Anzi, ci dovrebbero ringraziare. Abbiamo diminuito i costi della politica, noi chiediamo che quei fondi siano messi in Finanziaria e usati a fini sociali.
Non sarà facile accordare i toni tra i firmatari del manifesto dei "coraggiosi" promosso da Francesco Rutelli e chi ancora pensa, crede e agisce a sinistra?
E chissà dove andranno a manifestare questa volta i "coraggiosi" di Rutelli. Ci vuole un certo coraggio per dire quello che dice Draghi nei suoi interventi.
Liberazione 26.7.07
Perché destra, sinistra, giornali, Tv ignorano la realtà e parlano d'altro?
C'è un problema gigantesco: il salario non basta a vivere
di Ritanna Armeni
Mi chiedo perché la sinistra non sollevi il problema del salario. Perché i sindacati non facciano una o più vertenze su questa questione. Perché i giornali di sinistra non organizzino campagne di denuncia per le retribuzione ormai vergognosamente basse delle lavoratrici e dei lavoratori italiani. Perché accanto a tante questioni politiche, culturali ed economiche non ci sia anche questa e su questa non dicano la loro tutti coloro - a destra e a sinistra - che non ci risparmiano la loro opinione su nulla.
I salari, gli stipendi, le pensioni oggi sono largamente insufficienti, il costo della vita è incredibilmente alto. La sinistra non dovrebbe ascoltare la società, i suoi bisogni più profondi anche quelli che non hanno la possibilità di essere espressi pubblicamente, di occupare le pagine dei giornali? Potremmo fornire dei dati che testimoniano sulle retribuzioni siamo i fanalini di coda dell'Europa. Potremmo dare altrettanti dati e numeri sui profitti che sono incredibilmente aumentati. Potremmo aggiungere quelli sull'aumento delle diseguaglianze anch'esse cresciute smisuratamente. Ma lascio tutto questo a qualche bravo sindacalista ed economista di sinistra. Loro i dati ce li hanno e li possono snocciolare con competenza in qualunque momento. Io mi limito a chiedere perché non si mette all'ordine del giorno questo problema.
A pensarci bene in Italia sulle retribuzioni c'è una rimozione che dura da oltre trent'anni. Il salario è diventata una cosa di cui non si discute, quasi fosse disdicevole e vergognoso, da quando con il referendum del 1984 è stato messo pesantemente in discussione e poi di fatto eliminato quel sistema di scala mobile che adeguava le retribuzioni al costo della vita. Una rimozione pericolosa nella quale a sinistra se ne è aggiunta un'altra. Oggi se si parla di retribuzione e di carovita si deve constatare che il divario è spaventosamente aumentato con l'introduzione dell'euro. E allora si potrebbe cadere nella campagna demagogica della destra che attribuisce all'euro e quindi a Prodi e quindi al governo di centro sinistra l'aumento del costo della vita.
Così si preferisce tacere. Tace il virtuoso difensore della nostra moneta, il presidente dalla Banca d'Italia Mario Draghi che fra i tanti numeri che fornisce, e le tante reprimende che propina, non insiste mai molto su questo punto. Tace Confindustria e si capisce perché. La questione non interessa né il fustigatore dei costumi professor Ichino, nè l'attento Francesco Giavazzi. Ma neppure Eugenio Scalfari. Né gli innumerevoli economisti di centro sinistra sempre più abili a trovare motivazioni di sinistra a scelte di destra.
Tacciono i partiti, quelli di destra perché pensano che va bene così, quelli di centro e di sinistra perché temono un'altra divisione interna. Tacciono i sindacati e davvero non se ne comprende il motivo. Tacciono i giornali. Mi piacerebbe che qualcuno facesse un calcolo. Quante volte hanno parlato negli ultimi anni delle retribuzioni? Quante inchieste sono state fatte sull'argomento? Ad occhio e croce solo quando qualche istituto di statistica ha fornito i dati sulla povertà. Poi silenzio.
Ma perché tace la sinistra che vuole rimanere sinistra? Perchè tace il sindacato? Credo che sia un errore. Credo che tra qualche tempo potrebbe anche avvenire che sia la destra a prendere in mano la questione, naturalmente a suo modo, come è avvenuto per le pensioni e come è avvenuto per il precariato. E che naturalmente costringa poi la sinistra ad una battaglia tutta in difesa, tutta di contestazione dei principi, in presenza di un'opinione pubblica già conquistata dalla ideologia dominante. Non è avvenuto questo per la trattativa sulle pensioni dove è passata l'assurda idea che gli anziani fossero contro i giovani? Non è avvenuto questo con la precarietà che è stata trasformata da moderna schiavitù ad una forma alta di libertà personale?
Qualche mese fa il presidente della Confindustria, della Fiat, della Ferrari ha detto che i lavoratori italiani sono dei fannulloni. Quella frase infelice e soprattutto la scarsa reazione che ha suscitato la dice lunga su che cosa si pensa dei salari.
Se i lavoratori italiani sono dei fannulloni pagarli da mille a mille e cinquecento euro al mese è anche troppo. Forse è arrivato il momento che i fannulloni e chi li vuole rappresentare facciano sentire la loro voce e chiedano che le retribuzioni vengano aumentate. Perché di una cosa sono sicura. Non si vincono quasi mai le battaglie sul terreno imposto dagli avversari. In quei casi si può fare solo testimonianza e si può spostare qualcosa, come la recente trattativa sulle pensioni ha dimostrato. Si vincono e si possono vincere le battaglie politiche e culturali quando si sceglie il terreno dello scontro. Allora per l'avversario diventa più difficile. Diventa più difficile per i partiti di destra il cui elettorato è largamente popolare dire che i salari vanno tenuti bassi. E' difficile per i moderati del centro sinistra definire estremista questa richiesta. Ed è difficile naturalmente, per i tecnocrati europei e per i loro sostenitori in casa nostra. In Europa i salari sono molto più alti che in Italia. E come può rispondere a questo problema un governo che consistentemente formato dalla sinistra, continua a fare scelte moderate e su altre nicchia?
Già, cosa pensa Romano Prodi dei salari dei lavoratori italiani? Ha una sua proposta? O pensa che vada bene così?
Liberazione 26.7.07
Il medico di Welby prosciolto, un passo avanti. Ma resta tanto da fare
Embrione e vita, le verità in tasca della chiesa
ma perché dobbiamo crederci tutti?
di Carlo Flamigni
Non ha ceduto alle pressioni della Chiesa il Gup che lunedì ha prosciolto definitivamente Mario Riccio, il medico di Welby che staccò la spina. Ma perché in Italia bisogna lottare anche per garantire norme elementari in un qualsiasi paese civile?
Diritto all'eutanasia, che pena aver bisogno di giudici coraggiosi
Il commento di Maurizio Mori alla decisione del Gup di chiudere definitivamente il procedimento nei confronti di Riccio, accusato, se non sbaglio, di omicidio del consenziente, è stato intitolato dall' Unità "Lode a un giudice che non ha avuto paura". Non ho capito subito quanto questo titolo mi dispiacesse, non so se accade anche a voi di arrivare alle conclusioni con ritardo, quando si tratta di cose sgradevoli, ho bisogno di rimuginarci un po'. Dunque, abbiamo bisogno di uomini coraggiosi, magari di eroi, persone delle quali un paese civile non deve, almeno in linea di principio, sentire la mancanza.
Siamo dunque un paese a civiltà limitata, un paese che vive sotto la dittatura dell'embrione, della sacralità della vita, delle verità rivelate, e che non riesce a far valere i fondamentali diritti dei suoi cittadini, quello all'autodeterminazione, ad esempio, o quello alla libertà di coscienza, o persino quello di poter godere dei privilegi considerati come assolutamente elementari in un qualsiasi stato laico. E tutto ciò per una ragione francamente assurda: le ipotesi, le speranze, i convincimenti di alcuni, pur essendo le mille miglia lontane da qualsiasi possibilità di essere dimostrati veri (non credo francamente che la fede sia una testimonianza attendibile in un qualsiasi tribunale civile minimamente "coraggioso") sono stati trasformati in leggi dello stato e costringono persone convinte di essere portatrici di differenti verità - o di nessuna verità - a ubbidire e a comportarsi in modi che queste stesse persone considerano indecorosi e sbagliati. Così si impone a cittadini che non credono nell'esistenza di dio di considerare la vita come un dono, uno strano dono invero visto che non possiamo disporne e dobbiamo risponderne a qualcuno.
Nello stesso modo viene imposto a persone che non credono in dio il principio secondo il quale la vita è sacra e inviolabile e deve essere accettata comunque, qualsiasi cosa ci faccia, qualsiasi sofferenza comporti, e che comunque il dolore è salvifico, e ci sono remunerazioni che ci aspettano, purchè…
Quali siano le conclusioni di questa anomalia - un convincimento personale che diviene norma di comportamento per tutti (e insisto nel dichiarami del tutto disinteressato al valore rivelatore della fede, pur essendo consapevole della sua utilità sociale) - è sotto gli occhi di tutti: non possiamo disporre della nostra esistenza; è praticamente inutile che predisponiamo un testamento biologico perché un qualsiasi medico potrebbe decidere di ignorarlo con la scusa dell'"obiezione di conoscenza" (cioè la convinzione che non conoscevamo abbastanza bene le conseguenze delle nostre scelte, secondo l'opinione del Comitato di Bioetica); che se accettiamo, in un momento di smarrimento, un qualsiasi tipo di supporto vitale, dopo non ce ne libereremo più, e così via. Pensate al ridicolo e squallido scempio che si riesce a fare dei corpi dei trapassati, gusci vuoti di persone che non li abitano più, ma che non hanno capito che il trasloco deve essere definitivo, guai a lasciare un cuore che batte ancora, qualche cretino che te lo infila in un macchinario complicato si trova sempre, così, tanto per nascondere per un po' il malato alla morte, far finta che la malattia non sappia più vincere.
Non v'è dubbio che credere in dio, in un qualsiasi dio, e persino aspirare a credere in dio, crea stranieri morali ed è origine di conflitti che possono rivelarsi disastrosi. Questi conflitti possono essere esacerbati da politiche religiose avventurose o da analisi sbagliate delle aspirazioni e dei comportamenti. E' avventuroso scegliere la strada dell'etica della verità, abbandonare la compassione in favore della pietà, ignorare le ragioni degli altri e cercare di umiliarli (ecco le chiese che diventano sette), come sta facendo da un paio di papi la chiesa cattolica. E' sbagliato
immaginare che i milioni di musulmani che vivono in Europa accetteranno per sempre di vivere la loro fede nell'intimità delle famiglie e non cercheranno piuttosto di viverla pubblicamente. Tutto ciò genera conflitti e sappiamo bene quale può essere il risultato dei contrasti che possono sorgere tra le religioni. E' per questo che abbiamo molto più bisogno di uomini saggi che di uomini coraggiosi. La convivenza degli stranieri morali è possibile solo se tutte le posizioni sono ugualmente rispettate e se lo stato si limita a questo rispetto e non interviene nei conflitti se non come mediatore. L'etica della verità dell'attuale pontefice entra in conflitto con le verità degli altri, anche perché ha bisogno che i suoi dogmi siano confermati dalle leggi (ecco la ragione per cui i cattolici si sono tanto battuti per la legge sulla procreazione assistita, a costo di doverne accettare le incongruenze) così come ha bisogno che lo stato non approvi norme che li contraddicano (ed ecco perché non verrà mai approvata una legge accettabile sulle famiglie di fatto). Sembra che nessuno ricordi più che Abbagnano affermava che uno Stato che legifera tenendo presenti gli interessi di una specifica ideologia a danno delle altre si macchia di immoralità.
Rispetto è una parola molto più complicata di quanto possa sembrare a prima vista: esige anzitutto laicità da parte di tutti, il che significa che, quali che siano le nostre convinzioni, dobbiamo accettare il fatto che esse non ci danno il diritto a considerarci gli unici a conoscere la verità, una forma di presunzione stupida, prima ancora che intollerabile. D'altra parte, di cose illuminate dalla verità ne esistono ben poche, e il nostro rapporto quotidiano è con realtà che vivacchiano nella penombra dell'incertezza o del momentaneo consenso. Stupisce tutti la violenza che è presente, senza alcun infingimento, nel pensiero dei fondamentalismi religiosi, che considera gli altri, i diversi, come infedeli che vivono nell'errore e che rappresentano una minaccia per il trionfo della verità. Questi sentimenti, e persino la decisione di considerare questi infedeli come fratelli che sbagliano e far scendere su di loro il peso intollerabile della pietà - il sentimento che scende dall'alto e prelude al perdono, non la disinteressata condivisione della sofferenza che chiamiamo compassione - sono la dimostrazione dell'assenza totale di rispetto.
Del resto, tutto ciò rappresenta la base del proselitismo, una violenza morale che non tiene in alcun conto la cultura, le opinioni e le scelte degli altri e che diventa addirittura violenza quando si verifica attraverso rapporti impropri e sbilanciati per ragioni economiche o psicologiche.
Dunque, non è civile una convivenza come quella attuale, che vede alcuni di noi costretti a vivere secondo ideologie che fondamentalmente disprezziamo. Mi sembra quindi necessario non frammentare la discussione, evitare di combattere battaglie parziali e di retroguardia che riguardano oggi la vita, domani la morte e dopo ancora chissà: il problema è complessivo e riguarda la laicità dello stato, i rapporti con le religioni, il confronto tra le differenti culture, e deve essere trattato come un unico soggetto. Penso che abbia ragione Mori: c'è bisogno, oggi, di uomini coraggiosi se vogliamo, domani, poter fare a meno di loro.
Liberazione 26.7.07
Il Gip milanese segue un percorso trasparente rigoroso e garantista
Indegne le accuse a Forleo
Dopo Tangentopoli scandali sempre più gravi
di Sergio Cusani
C'è solo l'imbarazzo della scelta nel fare l'elenco dei problemi antichi e attuali che attanagliano il paese e che ricadono sempre e solo sui ceti più deboli: le infrastrutture obsolete - quelle primarie per muoversi e vivere - l'acqua, l'aria irrespirabile delle città, l'evanescente attenzione verso il patrimonio artistico e culturale tra i più grandi e importanti al mondo, l'ambiente naturale deturpato in continuaziuone e infine - ma non ultimo - il tema centrale del lavoro, di quello dipendente e autonomo ma soprattutto del non-lavoro precario. I problemi materiali della vita quotidiana dei cittadini, in particolare di quelli più poveri e socialmente emarginati, non interessano alla politica dei palazzi del potere che preferisce creare e alimentare beghe da cortile per occupare spazi di visibilità, deteriore, che il sistema dell'informazione gli concede. Tutto ciò non fa altro che alimentare il disgusto per la politica e quindi l'indifferenza e quindi il qualunquismo. E tutto ciò prima o poi si paga, salato.
Per questi motivi trovo "incredibile" la vicenda del giudice Clementina Forleo fatta oggetto delle peggiori scostumatezze politico-istituzionali quando invece tutti i cittadini, i risparmiatori, i piccoli azionisti e i dipendenti delle imprese coinvolte hanno il diritto/dovere di conoscere tutta la verità sulle vicende relative alle scandalose recenti scalate finanziarie che hanno prodotto soltanto guasti, e figuracce anche a livello internazionale.
Posso testimoniare che negli anni 1992, 1993, 1994 e seguenti, prima da libero e poi da detenuto, ho assistito ad una ininterrotta quotidiana falcidia di singole persone e gruppi di persone sulla base di un semplice avviso di garanzia quasi sempre anticipato dai mezzi di comunicazione: tutti immediatamente messi alla gogna ed emarginati socialmente, molti perdendo subito il posto di lavoro, talvolta la salute e addirittura la vita.
E tutto ciò ben prima di un regolare processo che ne accertasse la colpevolezza e, tranne poche isolate voci dissonanti, nel totale silenzio e nella sospetta acquiescenza di gran parte, se non di tutta, la politica dei palazzi romani da parte di personaggi politici di allora che oggi ricoprono importanti incarichi politici e di governo.
Ora che un giudice come la Forleo con rigore segue un percorso trasparente, garantista e corretto, con l'attuale procura di Milano che è sulla stessa linea di rigore e correttezza, in più con una competenza, autorevolezza e professionalità indiscusse, si assiste da parte della politica dei soliti palazzi a scomposti attacchi, strali anche personali, pesanti denigrazioni e indebite ingerenze nel tentativo di bloccare ciò che tutti i cittadini hanno il diritto/dovere di sapere e cioè come si sono svolti realmente i fatti e su quali appoggi politici autorevoli hanno potuto contare i personaggi coinvolti nel grande scandalo delle recenti scalate finaziarie.
Non ha certamente il giudice Forleo bisogno della mia difesa d'ufficio, ma ciò che mi interessa rimarcare che tali comportamenti non fanno che allontanare sempre di più i cittadini da una partecipazione attiva alla vita politica e ne incrementano l'indifferenza e la distanza, perchè è sentire comune che la legge non deve avere riguardi privilegiati di alcun tipo verso alcuni ma deve essere davvero uguale per tutti: ieri, oggi, domani.
Con amarezza devo prendere atto che dalle indagini su tangentopoli ad oggi si sono susseguiti annualmente scandali sempre più grandi (per importi, per il numero enorme di risparmiatori colpiti e per i dipendenti espulsi dal lavoro) praticamente senza soluzione di continuità, nonostante sulla carta siano state introdotte norme che dovrebbero garantire più trasparenza, più tracciabilità e più informazione. Non è solo un problema giudiziario o normativo, è soprattutto un problema fondamentale di cultura politica. E ancora più incredibile, quindi, che la politica dei palazzi si indigni, inveisca, distorca messaggi e vada ben oltre il senso della misura, senza aver preso atto, culturalmente e politicamente, di cosa sia davvero avvenuto e di quale gravità in questi anni nella commistione tra affari e politica. Poco o nulla è cambiato nella realtà, per non voler di fatto cambiare niente.
*Fondatore Banca Solidarietà,
Consulente Fiom e Cgil
Consulente Fiom e Cgil
Liberazione 26.7.07
Mercato del lavoro, accordo a perdere
La Sinistra intervenga sulla Finanziaria
di Milziade Caprili
E' evidente che l'accordo sul welfare sottoscritto il 23 luglio scorso, a palazzo Chigi, dal governo e dalle parti sociali, non va bene. Non lo dice, e con forza, solo Rifondazione comunista. Lo dicono anche importanti aree e intere categorie del mondo sindacale confederale. In Cgil, ormai, la contrarietà della Fiom, che ha votato contro l'accordo nel direttivo di lunedì scorso, è un dato acclarato. Ma la stessa cosa dicono intere correnti organizzate, all'interno del più grande sindacato italiano, e lo dice anche il malumore diffuso, e in crescita, presente in tante categorie come in tante fabbriche, dove già si registrano scioperi e mobilitazioni spontanee, contro l'accordo.
La verità è che l'accordo firmato dal sindacato confederale con il governo - non solo quello sullo specifico della trasformazione dello "scalone" in uno "scalino" e tante "quote" ma anche e soprattutto quello più generale, che riguarda, appunto, il welfare e il mercato del lavoro - è un accordo tutto "a perdere". Lo dimostra anche il fatto che il nostro partito, con un atto che giudichiamo politicamente scorretto e molto grave, non è stato affatto coinvolto, nell'elaborazione tecnica delle proposte poi formulate dal governo, come ha denunciato, ieri, il segretario Franco Giordano. Senza dire di un altro dato politico per noi inaccettabile e cioè che tali misure non erano affatto previste, dal programma dell'Unione.
Il nostro voto in Parlamento, dunque, come ho già chiarito con una nota venerdì scorso, quando il primo accordo, quello sulle pensioni, era appena stato firmato, «dipenderà dall'esito della consultazione che apriremo con tutto il popolo della sinistra nel prossimo autunno come dal voto, per noi dal valore decisivo, dei lavoratori, che verranno chiamati a consultazione dal sindacato». Consultazione che, ci auguriamo, sarà la più larga e democratica possibile, coinvolgendo cioè "tutti" i lavoratori, dai giovani ai pensionati, e non solo gli iscritti, come pure qualche organizzazione sindacale (la Cisl, ad esempio) già chiede con insistenza. Ma il problema non è affatto sindacale, è - com'è evidente - tutto politico e investe la nostra stessa presenza e permanenza nel governo Prodi.
Del fatto che si tratti di un brutto accordo, cominciano a rendersene conto anche Verdi e Sinistra democratica, e cioè le forze che dovrebbero dar luogo a quel processo di aggregazione politica a sinistra su cui il nostro partito ha investito con coraggio da diversi mesi, processo di cui ancora sono in discussione le forme e le modalità ma che intanto ha, ai miei occhi, il pregio di aver preso avvio. Dopo le divisioni che si sono registrate, nei giorni passati, tra noi di Rifondazione e il Pdci da un lato, Verdi e Sd dall'altro, infatti, le ultime dichiarazioni rese sia da Pecoraro Scanio che da diversi esponenti di Sd parlano di «posizione arretrata», da parte del governo, su mercato del lavoro e competitività. Più o meno le stesse parole usate dal segretario della Cgil Guglielmo Epifani, che ha fortemente criticato la detassazione degli straordinari come la mancata abolizione di alcune delle parti più precarizzanti della legge Biagi. Abolizione cui, peraltro, proprio il ministro del Lavoro, Cesare Damiano, si era più volte impegnato a mettere mano. Ora, Sd - che pure ha "promosso" la parte dell'accordo che riguarda le pensioni - sembra intenzionata a bocciare il resto del protocollo. Un protocollo, quello di lunedì, contenente misure del tutto insufficienti a mitigare l'utilizzo dei contratti a termine, misura che pure il governo si era impegnato da tempo a promuovere per porvi un freno. Tutte norme che, assieme al mantenimento pressoché integrale della legge 30, comportano la sostanziale conferma di forme di precarietà drammatica per migliaia di giovani, nel loro lavoro.
Dal punto di vista della ricerca di una sempre maggiore unità a sinistra, queste ultime prese di posizione dei Verdi e di Sd ci confortano. Ma la prova del nove è vicina e arriverà in autunno: le valutazioni sulle scelte della legge Finanziaria devono essere comuni e devono essere fatte valere da un lato all'interno dell'Unione e dall'altro in rapporto ai movimenti, alle associazioni. In una parola, in rapporto al mondo a cui vogliamo dare voce nelle scelte politiche che ci apprestiamo a compiere. Chi, anche tra noi, pensava che l'unità della sinistra alternativa fosse cosa facile si deve ricredere: pesano anni nei quali la sinistra è stata divisa, pesa il fatto che una posizione comune come gli ambiti politici di una cultura della sinistra vanno ricostruiti, e proprio a partire dai temi del lavoro. Anche così, sui temi concreti, si aiuta l'unità, a sinistra.
*vicepresidente del Senato
il manifesto 26.7.07
Le radici oscure del pensiero conservatore europeo
Nel suo ultimo libro, «Contro l'Illuminismo», edito da Baldini Castoldi Dalai, lo storico Zeev Sternhell offre un'attenta analisi, che arriva ai nostri giorni, della rivolta contro i principi fondanti, i valori e le aperture politiche nate in seguito alla Rivoluzione francese
di Roberto Ciccarelli
L'origine della grande offensiva conservatrice in atto dal settembre 2001 non è ancora stata messa debitamente a fuoco. Molti sono i suoi protagonisti, dalla neocon Gertrude Himmelfarb, recente autrice di una polemica all'ultimo sangue contro l'Illuminismo francese, colpevole a suo dire di avere distrutto la moralità della società occidentale, fino alla ex deputata somalo-olandese Hirshi Ali che, nella sua autobiografia apparsa anche in Italia col titolo Infedele (Rizzoli, pp. 393, euro 18,50), si è invece cimentata in una dura requisitoria contro la debolezza dell'Occidente nei confronti del montante odio «islamico». L'impressione è che, in ogni caso, lo scontro si giochi soprattutto sull'interpretazione della storia dell'Illuminismo - centro fondatore dei discorsi sulla tolleranza, la libertà individuale e la sovranità popolare -ma anche contro la critica che di questo Illuminismo fornirono Adorno e Horkheimer nella loro Dialettica dell'Illuminismo.
Sull'argomento è interessante la lettura dell'ultimo volume dello storico delle idee Zeev Sternhell, Contro l'illuminismo. Dal XVIII secolo alla guerra fredda (Baldini Castoldi Dalai, pp. 655, euro 20). A dispetto del titolo -che può trarre in inganno, dando l'idea di un pamphlet a favore del conservatorismo - il libro di Sternhell indaga i presupposti della reazione plurisecolare all'Illuminismo, in particolare quello francese e anglo-scozzese. Il titolo originale, Les anti-Lumières, rivela come l'oggetto del lavoro sia proprio il conservatorismo europeo che, nato con le Riflessioni sulla Rivoluzione Francese del liberale conservatore Edmund Burke, tocca la Francia con i reazionari alla De Maistre, attraversa l'Ottocento tedesco con lo storicismo di Herder e di Meinecke e infine sbarca nel Novecento, contagiando gli insospettabili (perché poco letti con una lente critica) liberal-conservatori come Isaiah Berlin o gli storici alla François Furet.
Ripercorrendo la storia delle idee - Sternhell lo fa con grande consapevolezza storica, oltre che con una vis polemica straripante - si scoprono, come si suol dire «segreti delle cose ovvie», o almeno di quelle ritenute tali. L'origine del nazismo, in particolare, risale ai luoghi oscuri della cultura liberale, nello specifico della cultura conservatrice tedesca. Sternhell ha pochi dubbi su questo: la tradizione anti-illuminista si è sempre scagliata contro i diritti dell'uomo e la democrazia liberale, ha negato il «diritto naturale» comune all'intera umanità, ha dichiarato la morte della «sovranità popolare» e ha sostenuto l'impossibilità della convivenza tra culture diverse.
Il nazifascismo è cresciuto nei paesi dell'anello debole del liberalismo continentale, l'Italia e la Germania, che avevano a loro tempo respinto l'illuminismo francese (il conflitto tra Vico e Cartesio e quello tra Herder e Rousseau). Nel liberalismo elitario europeo del XIX secolo, questi assunti hanno forgiato i più diversi nazionalismi culturali e politici, ponendo le basi per le politiche razziste dei vari imperialismi europei.
Nel XX secolo, dopo il tremendo monito del nazismo, questa aristocrazia del pensiero e dell'elitarismo politico si è attestata su posizioni più prudenti, ma non meno controverse. A questo punto arriva la durissima requisitoria di Sternhell contro Isaiah Berlin, un centinaio di pagine molto dure sullo studioso di Oxford che aprono uno squarcio sui paradossi costitutivi dell'attuale offensiva conservatrice. Viene rivelata così la guerra di Berlin contro il «monismo dei Lumi», contro il loro razionalismo e la loro pretesa «totalitaria» di affermare valori per l'intera umanità. Pur con vari e tormentati ripensamenti, Berlin giunge al controsenso di fare l'apologia del populismo (inteso come senso di appartenenza a un gruppo che si distingue per specificità etniche e culturali) partendo da premesse liberali classiche. La conclusione del ragionamento di Berlin è di matrice fichtiana ed è molto simile. Per lui, il pluralismo delle culture è da riconoscere perché le culture sono incompatibili. Solo il pluralismo, infatti, consentirebbe a tutti di vivere trovando negli altri il proprio centro di gravità. Relativizzare, storicizzare, dunque, perché il particolare è civile, mentre l'universale è il segno di una volontà di dominio che non cgenera altro che mostri.
Ma a quali impensabili estremi giunge lo storicismo depurato, com'è giusto, da ogni pretesa nazionalistica? Sternhell conduce la sua critica sino in fondo e vede quindi in Berlin il capostipite di un liberalismo elitario e conservatore, che ha fatto scuola anche nella destra liberale e liberista che predica oggi le virtù della cristianità e dei valori della vita, contro una presunta avanzata di altre civiltà che intendono spazzare via quanto rende unica la nostra cultura.
In realtà, come gran parte dei liberali del nostro tempo, Berlin ha equivocato sulla natura dell'illuminismo francese e kantiano. Gli illuministi, infatti, non erano dei laici fanatici che odiavano la religione e intendevano istituire il nuovo culto della Repubblica giacobina fondata sul terrore. Piuttosto, erano dei riformatori moderati che lottavano contro l'intolleranza, qualcuno timidamente protestava contro l'«eurocentrismo», ma tutti manifestavano un rispetto verso i fondamenti della cristianità. Per Sternhell, questo errore di prospettiva ha conseguenze tragiche arrivando a giustificare il nazionalismo radicale, negando ogni diritto di critica e di indipendenza dalla ragione del più forte. La grande campitura disegnata da Sternhell trascura tuttavia alcune questioni rilevanti. Innanzitutto il «diritto naturale» di cui gli illuministi sarebbero i difensori. Nozione alquanto equivoca non perché non esista una «natura» comune a tutti gli uomini, ma perché questa idea è stata usata per imporre un modello di razionalità universale nel mondo. E poi, c'è il problema dell'origine storica dell'illuminismo franco-kantiano. A tal proposito, è un vero peccato che non sia stato ancora tradotto in italiano il libro di Jonathan Israel Radical Enlightenment (Oxford University Press) che individua tali origini nel 1650, e non nel 1720 come invece ritiene Zeev Sternhell. È quella la data in cui Spinoza pone le vere premesse al movimento teorico e politico dell'illuminismo europeo: critica radicale della religione, della Chiesa, dello Stato; revisione dell'interpretazione delle Sacre Scritture in senso materialistico; attacco alle monarchie europee e affermazione di una democrazia radicale.
Un magma politicamente incontenibile che ha fatto il giro dell'Europa per mezzo secolo, prima di essere rielaborato, anche per timore di persecuzioni, dagli illuministi francesi e da Kant. L'analisi del «contro-illuminismo» andrebbe fatta a partire dal triangolo costituito proprio dall'illuminismo radicale. Per Jonathan Israel, infatti, il vero avversario della reazione liberale è il movimento spinozista che si è aggirato in Europa per poi essere depurato da Pierre Bayle e stravolto da Hegel.
Ma questa è un'altra storia sulla quale né i conservatori liberali, né i liberali democratici intendono, forse, ragioni.
il Riformista 26.7.07
Tra Fausto e Massimo Romano suda freddo
di Stefano Cappellini
Su un punto, e solo su quello, Romano Prodi è d'accordo con Fausto Bertinotti: quando il presidente della Camera dice, come ha detto ieri, «tutto possiamo permetterci tranne che uno scontro istituzionale». E Prodi, che ha assistito sempre più preoccupato alla disfida innescata dalle accuse del gup Clementina Forleo ai politici intercettati nell'ambito delle inchieste sulle scalate bancarie, ed esplosa con la censura di Giorgio Napolitano nei confronti del giudice milanese, ha già abbastanza grattacapi per aggiungere al quaderno delle doglianze anche una battaglia tra poteri dello Stato (il che, peraltro, potrebbe portare a ritenere che Prodi non sia entusiasta della mossa del capo dello Stato). Quanto al resto, l'ennesima fiammata della vicenda Unipol-Bnl conferma una volta di più il gelo sceso nei rapporti tra Bertinotti e Prodi. Il quale ha già giudicato negativamente il protagonismo della terza carica dello Stato in occasione di polemiche che investivano il centrosinistra e di cui il premier era bersaglio principale (Telecom-Rovati, caso Mastrogiacomo), e anche stavolta - sebbene tutte le fonti di palazzo Chigi si trincerino dietro un secco «no comment» - ha ritenuto inopportuno l'intervento dell'ex subcomandante («Niente privilegi per i parlamentari») che tanto ha fatto arrabbiare Piero Fassino. Ma il rapporto con Bertinotti è in questo momento, nella mente del Prof, una questione secondaria rispetto ai timori per il ciclone giudiziario che potrebbe investire il governo se, come tutto il mondo politico prevede, le accuse formulate da Forleo si trasformeranno nel futuro prossimo in avvisi di garanzia. Prodi sa quanto D'Alema sia stato puntello importante dell'esecutivo in alcuni momenti di difficoltà e nell'ultimo Consiglio dei ministri è rimasto impressionato dall'intervento del vicepremier a sostegno delle ragioni di un accordo tra le diverse anime della coalizione sulle pensioni. Proprio ora che l'offensiva di Rifondazione comunista sul welfare si fa più minacciosa («E noi non la sottovalutiamo», spiega Silvio Sircana), l'ultima cosa che il Prof si sarebbe augurato era che Bertinotti offrisse ulteriori motivi di fibrillazione.
E che la situazione sia più grave del previsto lo testimonia, paradossalmente, la solerzia con cui (a differenza di frangenti simili nel passato) Prodi si è precipitato a offrire la sua solidarietà ai vertici della Quercia. Un modo per evitare nuove tensioni con Fassino e D'Alema, certo, ma forse anche un tentativo di sfilarsi per un po' dal circo mediatico per assistere con meno pressioni agli sviluppi del caso. «Prudenza» è la parola d'ordine informale che arriva dall'entourage del Prof e spiega bene come la previsione del premier è che la vicenda sia ben lungi dall'esaurirsi in questi giorni. Il riposizionamento dei nemici dell'operazione Unipol dentro il Pd verso un silenzio cautelativo è totale e riguarda anche Francesco Rutelli, che conferma l'intenzione di non sollevare alcuna polemica interna (ma ai Ds non basta una moratoria, in mancanza di una difesa piena e di merito). Eppure Prodi, che nell'estate del risiko bancario fu sempre dall'altra parte della barricata rispetto alla Quercia, e che non fece una chiosa quando nel 2005 Arturo Parisi addebitò al Botteghino l'urgenza di una «questione morale», è probabilmente mosso anche dalla volontà, per dirla alla Di Pietro, di non mettere la mano sul fuoco prima che siano chiari i prossimi capitoli della vicenda.