venerdì 27 luglio 2007

Liberazione 27.7.07
Sì al modello tedesco, il Parlamento può trovare l'intesa
Legge elettorale, Bertinotti accelera: «Subito la riforma»
di Alessandro Antonelli


Questa legge elettorale è «inadeguata». E va cambiata subito. Ma in Parlamento, e con il più ampio consenso. Il modello tedesco? Sistema «efficace».
Non si può dire che Fausto Bertinotti abbia lasciato i cronisti a bocca asciutta. Il rituale saluto alla stampa nel corso della cerimonia del "Ventaglio" ieri a Montecitorio ha offerto anzi più di qualche spunto di riflessione. E il piatto forte è stato quello delle "regole del gioco": interpellato sulla raod map delle riforme, il presidente della Camera ha indicato nella modifica della legge elettorale la «priorità politica». Visto che l'attuale sistema di voto è «universalmente riconosciuto come inadeguato» è tempo per un'«accelerazione necessaria e matura» per un suo superamento. Ma la sede, avverte, deve essere il Parlamento: è quello il luogo dove sperimentare la più ampia convergenza e dove oggi ci sono le condizioni per raggiungere un accordo.
E' un chiaro invito, quello di Bertinotti, a resistere al canto delle sirene dei referendari, che giubilanti attendono il placet della Cassazione affinché il voto popolare si abbatta come una mannaia sui "partitini".
Nessuna polemica con l'esercito dei firmatari e neppure con i centurioni Guzzetta e Segni. Per la terza carica dello Stato, che si professa «referendario per vocazione», semplicemente lo strumento è inadeguato al fine: «Una buona legge elettorale deve essere condivisa. Il parlamento farebbe bene a guadagnare una sua autonomia».
Certo, non c'è solo questo. Non c'è solo la difesa d'ufficio delle prerogative dell'organo che preside. Nel trabocchetto delle urne l'ex segretario di Rifondazione probabilmente scorge il pericolo di un certo "fondamentalismo maggioritario" che indulge a derive plebiscitarie. Per questo Bertinotti ribadisce di essere un «partigiano del sistema tedesco»: «un modello efficace in grado di determinare stabilità e restituire ai partiti un ruolo importante e un contributo al dibattito parlamentare».
A Bertinotti non sfugge il fatto che molti referendari della prima ora si stiano ricredendo sulla bontà della consultazione, nè che gli sherpa di entrambi i poli stiano esplorando la possibilità di convergenze su un testo "proporzionalista". Eppure l'ottimismo del presidente della Camera si scontra con le chiusure di quanti guardano al sistema tedesco come una minaccia al bipolarismo. Anche Berlusconi, dopo l'atteso chiarimento con Fini, pare abbia ritrattato la sua disponibilità, indicando un orizzonte più ristretto: piccoli ritocchi al porcellum che salvaguardino il quadro bipolare.
In ogni caso, è la sollecitazione della terza carica dello Stato, bisogna fare presto. Accelerare sulla riforma.
Perché la nuova legge elettorale è il grimaldello per infrangere l'attuale paralisi politico-istituzionale. Ma anche il punto di partenza per intraprendere un vero superamento della «lunga fase di transizione» dalla caduta della Prima Repubblica («La seconda non è mai nata...»).
Per far questo, spiega Bertinotti, c'è bisogno di incoraggiare - o ricostruire, laddove sia lacerato - il rapporto di «assoluta correttezza» tra le istituzioni del paese. E' il mantra del presidente della Camera: «Il conflitto interisitutzionale sarebbe disastroso».
Difficile leggere questa sollecitazione al riparo dai veleni e delle tensioni degli ultimi giorni sul caso Unipol-Ds. Dopo aver incassato con qualche amarezza il crucifige di Fassino, Bertinotti è apparso sereno e non ha voluto soffiare sul fuoco: «Sono stato oggetto di una polemica, non voglio diventarne il soggetto». Ma sui "privilegi" dei parlamentari il primo inquilino di Montecitorio ha fatto capire che non intende arretrare di un millimetro: «Le istituzioni parlamentari per prime devono dare segnali di disponibilità».
Privilegi, sottolinea Bertinotti, e non prerogative. Che invece vanno difese per evitare che la politica e le istituzioni «finiscano sotto schiaffo». E qui il riferimento è alla questione dei costi della politica, declinazione di un malcontento civile che a tratti flirta con un populismo strisciante. «Abbiamo voluto dare un segnale di ascolto e di sobrietà - dice il presidente della Camera riferendosi al taglio dei vitalizi e dei benefit per gli "onorevoli"- per correggere le strutture e abbattere i costi patologici e non quelli fisiologici della democrazia».
Fatte salve queste premesse, si può (e si deve) avviare una razionalizzazione del sistema: superamento del bicameralismo perfetto e riduzione del numero dei parlamentari. Ma appunto, tutelando l'autonomia del Parlamento. Quella è la bussola. Non è un caso che l'altro monito lanciato ieri da Bertinotti - e raccolto dal ministro Chiti - riguardi la necessità di limitare il ricorso ai decreti legge da parte del governo e di restituire all'assemblea la potestà normativa ordinaria che le compete: «Bisogna ridurre l'accesso alla decretazione ad un limite indispensabile, dove l'urgenza sia invalicabile». Anche perché, riflette Bertinotti, l'ipoteca esercitata dall'esecutivo spesso è l'anticamera della radicalizzazione dello scontro parlamentare e del conseguente, disinvolto ricorso al voto di fiducia.
Fine luglio, vigilia del break estivo, tempo di bilanci. Bertinotti, cifre alla mano, spiega che la Camera ha lavorato di più rispetto allo stesso periodo della scorsa legislatura: 193 sedute (1113 ore) contro le 184 (1002 ore) del biennio 2001-2002. E' vero, sono state licenziate meno leggi, ma la produttività di Montecitorio, spiega il presidente, si misura su altri indicatori: come l'aumento degli atti di sindacato ispettivo e di indirizzo, segno di un'intensa «attività politica».
Il saluto, la consegna del ventaglio, i taccuini che si chiudono. Bertinotti si congeda augurando ai giornalisti di ottenere presto il rinnovo del contratto, raccogliendo il grido di dolore della categoria contro la sordità degli editori: «Le garanzie contrattuali per i giornalisti hanno un rapporto con la libertà di informazione e di pensiero».

il manifesto 27.7.07
Ds verso il patibolo, Berlusconi li difende
Fassino e D'Alema scrivono alla giunta per le autorizzazioni: accettiamo ogni decisione. Il cavaliere: voto no anche per loro. Mastella: basta con le intercettazioni
di Domenico Cirillo


Roma La giunta per le autorizzazioni della camera dei deputati comincerà martedì prossimo, primo giorno dell'ultima settimana di lavoro del parlamento, ad esaminare la richiesta di utilizzo delle intercettazioni telefoniche indirette di Fassino, D'Alema (e del forzista Cicu) firmata dalla gip Forleo nell'ambito dell'inchiesta Unipol-Bnl. Ieri sia Fassino che D'Alema hanno indirizzato ai componenti della giunta una lettera nella quelle spiegano di non volersi opporre all'autorizzazione. Anche se rivendicano un comportamento sempre corretto nei rapporti con l'ex numero uno della Unipol Giovanni Consorte. Silvio Berlusconi, invece, ha spiegato che i deputati di Forza Italia voteranno contro la richiesta della giudice milanese in nome di ragioni generali che prescindono dal fatto che gli accusati di oggi sono avversari politici.
Le forze in campo dunque sono tutte schierate, sul fronte del sì all'autorizzazione ci sono An e la Lega, più i partiti della sinistra radicale, Italia dei valori e, vista la presa di posizione dei ds, ci si dovrebbe aspettare anche il gruppo dell'Ulivo. Che resta decisivo sia in giunta (conta sette commissari) che naturalmente in aula. Sul fronte del no Forza Italia, l'Udeur di Mastella e l'Udc che ha lasciato libertà di voto (ma il presidente della giunta Giovanardi, che nel caso il suo voto dovesse essere decisivo dovrebbe astenersi, farebbe una gran fatica a salvare i due dirigenti della Quercia). Al senato, dove la giunta deve decidere per quanto riguarda il Ds Latorre e il forzista Comincioli, l'appuntamento è per mercoledì.
«Riservandomi naturalmente di presentare alla giunta una nota scritta con le mie valutazioni più dettagliate sull'intera vicenda - ha scritto Fassino al presidente Giovanardi - tengo in ogni caso a ribadirle, come già ho avuto modo di dichiarare alla stampa, di essere unicamente interessato ad un pieno accertamento dei fatti, da cui non potrà che emergere la piena correttezza dei miei comportamenti. Per questo condividerò ogni decisione che in questa direzione la giunta voglia assumere, ivi compreso l'accoglimento dell'istanza della dottoressa Forleo». Identico il tenore della lettera di D'Alema a Giovanardi: «Desidero dirle che sono turbato e preoccupato per accuse ampiamente diffuse a mezzo stampa nei giorni scorsi tanto gravi quanto palesemente infondate. Sono interessato più di ogni altro ad un pieno accertamento della verità dei fatti ed anche per questo ho già dichiarato la mia disponibilità a collaborare con la magistratura, indipendentemente dalle conclusioni cui giungeranno la giunta e il parlamento. In questo senso - conclude D'Alema - condividerò, come ha già dichiarato l'onorevole Fassino, ogni decisione che il parlamento intenda prendere, ivi compreso l'accoglimento dell'istanza della dottoressa Forleo».
Così, almeno ufficialmente, a difendere i leader della Quercia è rimasto solo Silvio Berlusconi. Che ieri ha confermato ai giornalisti la sua intenzione di far votare no alla delegazione di Forza Italia. «Voteremo no anche in aula - ha anticipato il cavaliere - abbiamo dei principi che restano fermi, che sono sempre quelli, indipendentemente dalle persone che sono coinvolte. Questo sistema delle intercettazioni è inaccettabile. Basta con uno stato di polizia fiscale e burocratico. In Italia - ha aggiunto Berlusconi - i cittadini sono sottoposti ad un sistema di controllo dei telefoni che non ha pari in nessuna democrazia del mondo». Opinione sostanzialmente condivisa dal ministro della giustizia Mastella, che ieri in aula alla camera durante la discussione sull'ordinamento giudiziario ha detto che «il problema delle intercettazioni è diventato una cosa seria, bisogna che il senato ponga mano a questa incompiuta parlamentare», approvando cioè la legge firmata da Mastella, che introduce pesanti limiti alla diffusione e all'utilizzo delle intercettazioni. Legge che sarà certamente modificata rispetto al testo approvato alla camera e che ha dovuto cedere il passo proprio alla riforma dell'ordinamento giudiziario. «Guai - ha avvertito Mastella - a giocare sulle convenienze o a essere garantisti o meno a seconda delle circostanze».

Rosso di Sera 26.7.07
Soccorso azzurro
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Repubblica 27.7.07
L’ex procuratore Borrelli: da Tangentopoli sembra non sia cambiato nulla...
"La Forleo non aveva altra strada sbagliati i toni, non la sostanza"
di Cinzia Sasso


La vera questione è: ci sono o no dei politici che hanno appoggiato questi avventurieri della finanza?
Tu indichi la luna, ma tutti guardano solo il dito. Il solito modo per distogliere l'attenzione dai problemi veri

MILANO - Francesco Saverio Borrelli, il procuratore della Repubblica di Milano degli anni di Mani Pulite, quindi del momento dello scontro più aspro tra la politica e la giustizia, adesso, da appassionato di musica, è solo il presidente del Conservatorio di Milano. Da cinque anni e mezzo ha lasciato la testa dell´ufficio giudiziario più potente d´Italia; è passato dall´ufficio indagini della Figc nel momento culminante dello scandalo del calcio, ma è sempre a lui, stimato da molti e amato da pochi, che vale la pena chiedere un giudizio su questa guerra infinita. E lui ripete quello che sempre detto: che se qualcuno indica la luna, il metodo per distrarre l´opinione pubblica è quello di focalizzare l´attenzione sul dito.
Dottor Borrelli, è un'estate rovente sul fronte della guerra mai sopita tra politica e giustizia. Un´altra. Come ai suoi tempi.
«Sì, sembra che il tempo non passi mai. Siamo sempre allo stesso punto».
Eppure è cambiato tutto. Il governo, il quadro politico...
«Che vuol fare? Si vede che sono gli italiani che non cambiano».
Ora al centro c´è il caso Forleo. Che cosa ne pensa?
«Io trovo che ancora una volta è successo che l´attenzione dell´opinione pubblica anziché essere portata sul merito del problema, sulla questione realmente importante, viene spostata sulle parole usate dal magistrato che sono un fatto del tutto marginale».
Qual è il merito del problema?
«A me sembra chiaro: se ci sono state delle spinte indebite, degli interessamenti o dei sostegni politici a determinate operazioni. Questo è il nocciolo della questione. E invece tutta l´Italia e tutto il mondo politico sono concentrati a discutere se la Forleo abbia fatto bene o male a usare la parola complicità - che poi a questo si riduce - piuttosto che a discutere se veramente alcuni appartenenti al Parlamento abbiano appoggiato questi avventurieri della Finanza».
Lei dice: questa è la sostanza. Ma in diritto la forma non è sostanza? Vero o no che il giudice Forleo si è comportata come un pm?
«Senta: c´erano quelle intercettazioni nel materiale probatorio e per l´utilizzo di quelle intercettazioni, indipendentemente dall´estensione delle imputazioni ai politici, era necessario che il Parlamento consentisse l´utilizzo e l´approfondimento di quel materiale. La Forleo non aveva altra strada se non quella di interpellare il Parlamento».
Dal ministro Mastella al presidente Napolitano, si contestano però le parole usate nell'ordinanza.
«Ma questa è una questione del tutto marginale! Io non mi pronuncio su quella frase della complicità perché bisognerebbe avere il quadro completo che io non ho. Ma se per avventura si ritiene che le parole con le quali il giudice ha investito il Parlamento fossero troppo pesanti, che in questo momento anticipavano una valutazione che non competeva ancora al giudice, ciò non invalida il suo atto sotto il profilo processuale».
Quindi chi ha sollevato critiche pesanti ha sbagliato?
«Perché, ci sono dubbi? Il nocciolo che interessa l´etica politica nel nostro Paese - ammesso che ancora si possa parlare di etica in Italia - è se ci siano stati dei personaggi politici che abbiano appoggiato questi avventurieri del mondo della finanza nella scalata all´una o all´altra parte».
Anche il senatore D´Ambrosio ha criticato l'ordinanza della dottoressa Forleo.
«D´Ambrosio mostra molto equilibrio, come ex magistrato si sforza di non estremizzare le questioni giudiziarie. Forse questo è anche bene: vuole svolgere una funzione equilibratrice, attenua i suoi giudizi...».
Lei conosce personalmente la dottoressa Forleo?
«Sì, non bene, ma la conosco. È certamente una ragazza coraggiosa, intelligente e preparata»

Aprile on line 26.7.07
Modello tedesco, c'è pure il sì di Bertinotti
di Andrea Scarchilli
qui

Aprile on line 26.7.07
Welfare, la Cgil non scherza
"Sulle questioni di principio non si vende l'anima per un piatto di lenticchie"
di Carla Ronga
qui

Aprile on line 26.7.07
Unità a sinistra, spingere sull’acceleratore
di Piero Di Siena
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l’Unità 27.7.07
Staminali, non ci siamo
di Carlo Flamigni


Le staminali sono potenzialmente capaci di diventare una qualsiasi delle molte cellule che compongono il nostro corpo. Per il medico sono una straordinaria promessa. Che può essere mantenuta

Chiedo ai compagni che leggono l’Unità e che non hanno particolare competenza sui problemi della biologia e della ricerca scientifica di fare un sacrificio e di prestare attenzione al problema delle cellule staminali: ci riguarda tutti personalmente, come uomini e come italiani, non possiamo ignorarlo. Capisco che temi come questo siano ostici e poco attraenti, ma io cercherò di spiegare il pasticcio nel quale ci siamo cacciati nel modo più semplice possibile e voi, per favore, metteteci la pazienza che ci vuole e anche un po’ di più.
Vi renderete conto che di queste cose non si possono occupare solo filosofi, scienziati e bioeticisti.
Come sapete, il nostro corpo è fatto di cellule, miliardi di cellule che rappresentano la componente fondamentale dei tessuti e degli organi. Ogni cellula ha un compito specifico, sa fare una cosa sola, è, si dice, specializzata: quella di una ghiandola sebacea produce sebo, quella della tiroide, ormoni. Eppure derivano tutte da cellule non specializzate, quelle dell’embrione, che sono state capaci di prendere, via via, tutte le direzioni possibili, attraverso una serie di cambiamenti che hanno fatto perdere loro progressivamente la totipotenza iniziale: erano cellule staminali, sono diventate cellule che sanno fare una cosa sola.
Ecco dunque cosa è una cellula staminale: una cellula potenzialmente capace di diventare una qualsiasi delle molte e differenti cellule che compongono il nostro corpo, che quando si divide produce una cellula uguale a se stessa e una cellula che si è specializzata o ha cominciato a farlo: alla fine di questo percorso la cellula ha scelto un mestiere e a quello si dedica, ma la totipotenza è rimasta dentro di lei come un ricordo che non si cancella e che può essere sperimentalmente riattivato. In fondo è la stessa storia che abbiamo vissuto tutti, se solo ricordate il vostro primo anno di scuola elementare.
Tra le cellule dei nostri tessuti ce ne sono alcune, generalmente poche, che non si sono differenziate al di là di una certa misura, hanno conservato quella che si chiama una multipotenza: ecco perché di cellule staminali ne esistono due tipi, quelle prelevate dall’embrione nei primissimi giorni di sviluppo e quelle adulte,che si possono prelevare dal midollo osseo, dal cordone ombelicale o da altri tessuti. Attualmente molti ricercatori stanno studiando il modo di far regredire le cellule staminali adulte fino a far recuperare loro la capacità di totipotenza che è propria delle staminali embrionali, che sono, è fuor di dubbio, le più ricche in assoluto di questa capacità.
Le cellule staminali sono, per il medico, una straordinaria promessa che ha molte probabilità di essere mantenuta. La teoria è semplice: se è possibile indirizzare lo sviluppo delle cellule staminali coltivandole in vitro, è evidente che possiamo ottenere da loro qualsiasi cellula, dallo spermatozoo alla cellula del fegato: ho visto cellule cardiache prodotte in coltura da cellule staminali che pulsavano, secondo la misteriosa logica e l’evidente buon senso di una cellula perbene. A questo punto potete lasciare andare la vostra fantasia e immaginare cosa potrà fare un giorno la medicina quando saprà maneggiare un po’ meglio questa materia: costruire pelle per un ustionato, globuli rossi per un anemico, cellule nervose per un malato di Parkinson e cellule del pancreas per un diabetico. Sono solo speranze, ma le probabilità che si possano realizzare sono altissime.
Esistono due linee di ricerca sulle cellule staminali, una sulle adulte e una sulle embrionali, presenti entrambe nella maggior parte dei laboratori del mondo. Come sempre accade in questi casi è ormai impossibile capire cosa solleciti il progresso delle conoscenze, questa informazione viene da uno studio sulle embrionali, quello lo abbiamo capito studiando le staminali adulte. Per la maggior parte di noi questo non è un problema; per i cattolici è un ostacolo insormontabile.
La chiesa cattolica romana considera l'embrione come una persona, uno di noi, e condanna ogni tipo di manipolazione che si possa proporre - anche a fini nobilissimi e per ricerche di indiscussa utilità- persino sugli embrioni congelati e abbandonati che, nel nostro paese, sono destinati a restare per un tempo non definibile quello che sono, un insignificante gruppetto di cellule (generalmente non più di otto). Non la pensano così gli ebrei; non sono d'accordo musulmani, protestanti, non credenti. Ma i cattolici italiani pretendono di conoscere la verità e sono altresì certi che le supposte verità degli altri sono, in realtà, menzogne. In un mondo civile e amministrato secondo buon senso, questa sarebbe considerata mania di grandezza e riferita a uno psicologo per le cure necessarie; in Italia, in omaggio a questa innocente (?) forma di presunzione si predispongono leggi specifiche.
Come sapete, la legge 40 proibisce la ricerca sugli embrioni, ma non impedisce che si studino le cellule staminali embrionali prodotte altrove e molti ricercatori italiani si sono organizzati in questo senso: nei loro laboratori sono attivate entrambe le linee di ricerca, con la differenza che quella sulle staminali embrionali non viene finanziata. Per di più, questi studiosi ricevono insulti e rampogne da parte dei cattolici più intransigenti, una attività nella quale si distinguono le associazioni giovanili cattoliche che stanno facendo esperienza sull’esercizio del potere che verrà certamente consegnato loro quando i ragazzi saranno grandi.
La condanna cattolica oltrepassa, e questo è il punto sul quale richiamo la vostra attenzione, i limiti che il buon senso dovrebbe porre a tutti : se la ricerca sulle cellula staminali adulte dovesse produrre una cura efficace per una malattia che oggi è inevitabilmente mortale, ebbene questa terapia non dovrebbe essere utilizzata in quanto frutto di una complicità tra le due linee di ricerca e pertanto illegittima. Visto il clima, ci possiamo aspettare l'approvazione di norme che vietino l'impiego di questi farmaci e di queste cure.
Ed eccoci al dunque. L’Unione Europea finanzia due grandi progetti di ricerca integrati, l’EuroStemCell e l’ESTOOLS sulle cellule staminali in 12 differenti paesi: si tratta complessivamente di una trentina di laboratori di ricerca ai quali si debbono significativi e importanti progressi nelle conoscenze sia nel campo della biologia di base che nel settore delle possibili applicazioni alla clinica. Nell’aprile di quest’anno, a Berlino, i ricercatori dei due progetti si sono riuniti per discutere sugli aspetti etici della ricerca sulle cellule staminali e hanno firmato un documento nel quale sottolineano le difficoltà che l’intero settore di ricerca incontra come conseguenza delle scelte politiche e legislative di alcuni paesi, in particolare di Germania e Italia.
Due ricercatori italiani, Giuseppe Testa e Elena Cattaneo hanno successivamente pubblicato un articolo su Cell Stem Cells nel quale sottolineano le difficoltà proposte dalla nostra legge e dalla mancanza di finanziamenti specifici per gli studi sulle cellule staminali embrionali non solo alla ricerca italiana ma a tutta quella europea.
Credo che tutti quelli che possono aver peso sulle decisioni del Governo dovrebbero leggere con attenzione questo articolo che riporta tra le altre cose le conclusioni del congresso della International Society of Stem Cell Research che si è tenuto a Sidney ne giugno scorso e che stabiliscono alcuni punti che non possiamo più fingere di ignorare e che riassumo:
- è artificioso e scorretto fare distinzioni tra le due linee di ricerca;
- non siamo in grado di stabilire, oggi, quali siano le cellule staminali più utili per la cura di specifiche malattie;
- è molto probabile che entrambe le linee di ricerca consentano successi specifici in differenti settori della clinica;
- il passaggio alla ricerca applicata richiede l’acquisizione di conoscenze nel settore della biologia cellulare che include inevitabilmente studi sulle cellule staminali embrionali e sulla loro differenziazione;
- la biologia delle cellule staminali è una scienza unica che comporta studi complementari e integrati nelle due linee di ricerca, entrambe indispensabili per conoscere la biologia di queste cellule e intuire le loro potenziali applicazioni in campo terapeutico.
Dunque, nessuna richiesta di cambiare o tantomeno di violare la legge, ma solo la richiesta di porre fine a una stupida, inutile e dannosa punizione e di finanziare anche le ricerche sulle staminali embrionali.
Credo che sia nostro diritto di cittadini chiedere al Governo questo cambiamento di rotta. La ricerca scientifica è il più grande investimento sociale che possa essere immaginato ed è un investimento dal quale ci attendiamo un miglioramento della qualità di vita di tutti gli uomini e in particolare di coloro che soffrono. Le regole di questo investimento non le stabiliscono le religioni, che rappresentano solo alcuni di noi e che si basano su principi etici ossificati e obsoleti (e ai quali potrebbe essere data nuova vitalità solo da una lettura moderna, da una interpretazione ridisegnata dai tempi e che qualcuno, fuori dalle mura vaticane, è pur in grado di proporre) le decide la nostra morale collettiva, la morale del nostro senso comune, una morale laica che ci rappresenta tutti. Scegliere di porre limiti alla ricerca secondo regole morali dettate da ideologie o da religioni è, prima ancora che ingiusto, profondamente disonesto.
Scrive Carlo Augusto Viano, in un articolo sulla "Libertà dalla religione" che la repressione religiosa si è spesso fondata su una dottrina del progresso, per la quale le religioni sono residui di culture superate e impedimenti alla vera libertà umana, sicchè le restrizioni al loro esercizio sarebbero non una forma di repressione, ma una autentica liberazione. È così? Eppure conosco tanti cattolici che sono profondamente e sinceramente laici e vivono la loro fede le mille miglia lontano da ogni forma di prevaricazione e di interferenza. Dove sono finiti? Perché la loro voce non si sente più? Non vorrei dover dare ragione a Alieto Tibuzzi, che era convinto che le ultime parole di Cavour, quelle che gli sono uscite dal cuore con l’ultimo respiro, sono in realtà state fraintese. Secondo Tibuzzi Cavour, in effetti avrebbe detto «libera chiesa in libero Stato, possibilmente confinante».

Corriere della Sera 27.7.07
La ricerca di Mario Galzigna
Curare la follia è un paradosso?
di Giulio Giorello


Le sue tesi decenni dopo la legge Basaglia contro i manicomi

I matti «più o meno ragionano tutti», scriveva nel 1805 lo psichiatra francese Etienne-Dominique Esquirol. Aveva portato a termine una straordinaria analisi del comportamento della follia, sottolineando in particolare la profonda affinità tra le varie forme di mania e le passioni che agitano anche la mente delle persone che giudichiamo «sane»: è solo una differenza di intensità a distinguerle. Un tema che in terra tedesca verrà ripreso da Hegel — proprio lui, il teorico della «Astuzia della Ragione » — per cui un residuo di logica si ritrova persino nella più cupa manifestazione di pazzia. Ricordate l'Amleto di Shakespeare? C'è del metodo nella follia del pallido Principe di Danimarca, ed è proprio questo che fa tremare i potenti: cioè, fuor di metafora, le istituzioni preposte al contenimento e alla sorveglianza di tutti coloro che sono colpiti da una qualche «malattia dell'anima ». Come ha osservato Michel Foucault, sono constatazioni come quelle di Esquirol a far nascere il sospetto circa la possibilità di tracciare un netto confine tra Ragione e Follia, e di poter utilizzare la strategia del ricovero non tanto per guarire il «malato di mente», ma per difendere la società. Lo aveva già fatto intuire lo stesso Freud, quando, nel 1937, aveva confessato che i deliri del malato non gli parevano troppo diversi dalle «costruzioni che noi erigiamo durante i trattamenti analitici»!
Dunque, ha ancora senso pretendere di «curare» i matti? È la sfida raccolta da Mario Galzigna nella sua ultima fatica, Il mondo della mente (Marsilio, pp. 192, e 12). Storico della scienza e della medicina, l'autore sa bene di formulare le sue tesi decenni dopo che Franco Basaglia ha messo sotto accusa il manicomio come «macchina dispotica, struttura emarginante e apparato repressivo », e ha riconsegnato alla «città» tutti coloro che ivi erano «sequestrati». Ma tale liberazione è solo la premessa della cura. Quest'ultima, però, non va più intesa come repressione medica del comportamento deviante. Si tratta invece di comprendere che il mondo della mente che si pretende «malata» non è affatto incommensurabile con quello della mente «sana ». Proprio la sconcertante affinità messa in luce da Esquirol può indicare il cammino della cura! A lungo, sono rimasti separati in chi cura due atteggiamenti che potremmo chiamare conoscenza e comprensione. La prima è la distaccata osservazione dall'esterno, la seconda è la coinvolgente capacità di provare compassione (forma laica di pietà) per chi soffre. Solo se questi due poli tornano a interagire ci sarà una qualche speranza (e non più l'illusione) della guarigione. E a livello conoscitivo, si formerà una maggior consapevolezza della complessa architettura del-l'Io, che potrà rivelarsi non come una sostanza isolata dal resto del mondo ma un nodo di relazione e un insieme di vissuti che rimandano alla stessa realtà oggettiva indagata dalle scienze naturali.
Questa è una prospettiva esigente: ha radici antiche, non solo filosofiche. Ma nelle conseguenze guarda al futuro, non foss'altro perché le difficoltà non mancano in quanto non può che scontrarsi con stratificate tradizioni miranti a «liquidare» drasticamente lo scandalo della follia. Galzigna cita un eretico della psicoanalisi come Wilfred Bion che paragonava i grandi sistemi della psichiatria e della psicoanalisi stessa al Titanic, il bastimento «inaffondabile » che finì col cozzare contro un iceberg. Nel mare tempestoso delle passioni quotidiane abbiamo tutti bisogno — matti o sani — di qualche imbarcazione cui aggrapparci. Ma preferiamo la zattera del folli di Erasmo e di Bosch al transatlantico di una ragione repressiva.

Repubblica 27.7.07
"L’Islam rischio per l’Europa un errore non contrastarlo"
Il segretario del Papa riapre il caso: Ratzinger profetico
In un’intervista alla Sueddeutsche Zeitung torna sul discorso di Ratisbona
di Marco Politi


ROMA - Guai a ignorare per ingenuità i tentativi di islamizzare l´Europa! L´intervento sull´Islam di papa Ratzinger a Ratisbona è stato «profetico». Parola di don Georg Gaenswein, segretario di Benedetto XVI che in un´intervista a tutto campo al biografo ratzingeriano Peter Seewald rilancia l´allarme nei confronti dell´espansione musulmana. «I tentativi di islamizzare l´Occidente non si possono negare - afferma don Georg sul magazine della Sueddeutsche Zeitung di Monaco di Baviera - ed un falso rispetto non deve far ignorare il pericolo connesso per l´identità dell´Europa». Secondo il prelato, di cui in Italia si dimentica spesso che è stato docente negli atenei pontifici, e che riflette fedelmente le idee del pontefice, «la parte cattolica vede molto chiaramente (questo pericolo) e lo dice anche». Il discorso di Ratisbona, aggiunge, «dovrebbe servire a contrastare una certa ingenuità».
A Ratisbona nel settembre 2006 papa Ratzinger sollevò una tempesta internazionale perché aprì il suo discorso con una citazione di un imperatore medievale bizantino, secondo cui Maometto non aveva portato nulla di «buono e umano» perché esortava a diffondere la fede con la spada. Ratzinger pronunciò la citazione senza distanziarsi e ci vollero scuse vaticane a ripetizione e un´edizione aggiornata del discorso per ristabilire rapporti normali con il mondo islamico. In parecchi ambienti l´intervento però piacque. Kissinger ha confessato a Repubblica di apprezzarlo molto.
Don Georg sottolinea che non esiste «un» Islam e nemmeno un´«istanza impegnativa e vincolante per tutti i musulmani». Sotto il concetto di Islam, spiega, ci sono molte correnti, anche nemiche tra di loro, che arrivano «fino agli estremisti che si richiamano nella loro azione al Corano e scendono in campo con il fucile». In ogni caso la Santa Sede cerca di tessere contatti e colloqui attraverso il Consiglio per il dialogo interreligioso.
L´intervista descrive l´agenda principale di Benedetto XVI: rafforzare la fede, rilanciare la «questione Dio», il confronto con le forme diverse di relativismo, il dialogo con l´Islam, il rafforzamento dell´identità cristiana. «L´Europa non può vivere se le si tagliano le radici cristiane, perché così le si toglie l´anima». Egualmente all´ordine del giorno è la conduzione del dialogo con le Chiese ortodosse specialmente perché hanno la «successione apostolica» e quindi i loro ministeri episcopali e sacerdotali sono validi, mentre hanno anche i sette sacramenti come la Chiesa cattolica. Non mancano nel colloquio annotazioni più personali. Nel suo appartamento c´è a sua disposizione una cyclette. Quando in conclave apprese che era stato eletto - rivela don Georg - «diventò bianco com´e ora la sua veste». Esposto ai media per il suo bel fisico, don Georg non respinge nemmeno la domanda più impertinente. Riceve lettere d´amore? «Di tanto in tanto».

Repubblica 27.7.07
Venezia e Islam
Da domani a palazzo Ducale
Il millenario rapporto tra due civiltà visto attraverso duecento opere d'arte
di Renzo Gnuolo


Una miriade di oggetti rivela la persistenza di contaminazioni che sono ancora oggi assai visibili Dipinti, sculture miniature, vetri raccontano come e quando la città divenne il ponte tra due mondi

Tra il nono e l´undicesimo secolo Venezia si proietta lungo le rotte del Mediterraneo sud-orientale. L´incontro con il mondo islamico che, dal settimo secolo, avanza verso Occidente, è inevitabile. Da allora Venezia e la Mezzaluna saranno uniti, per secoli, in una sorta di comunità di destino. Lotteranno per il controllo del mare ma stabiliranno duraturi legami commerciali; si combatteranno aspramente ma si abbandoneranno alle reciproche influenze culturali; saranno protagoniste di efferate azioni belliche ma mostreranno, in tempo di pace, un inconsueto senso di ospitalità. Le potenze marittime sono pragmatiche e anche Venezia non sfugge alla legge che governa i rapporti tra terra e mare: assume, così, il ruolo di ponte tra l´Europa cristiana e il mondo islamico. Certo, le relazioni dello "stato da mar" con quel mondo non saranno facili. Ma, tranne che alla fine del Cinquecento, non saranno caratterizzate da ostilità assoluta. Nemmeno al tempo delle crociate, alle quali la Serenissima partecipa secondo logiche geopolitiche. Nelle prime tre spedizioni Venezia non fa molto per i Bizantini. Nella quarta, che dimentica Gerusalemme ma non Costantinopoli, Venezia ottiene il dominio sui traffici dell´Impero Latino d´Oriente e il controllo delle isole dell´Egeo e dello Ionio.
Nell´era dei Mamelucchi la Repubblica sviluppa rapporti con Siria, Egitto e altre aree islamiche del Mediterraneo. I contatti permettono contaminazioni visibili ancora oggi negli stili cittadini. L´influenza orientaleggiante sul gusto artistico veneziano, dalle maioliche ai vetri, dalle pergamene ai disegni, sino all´architettura, si accentua nei secoli successivi, quando Venezia volge il suo sguardo anche verso la Persia della dinastia Safavide, che all´inizio del XVI secolo si converte allo sciismo. La miriade di oggetti che entrano in questi secoli nelle case veneziane, oltre che la presenza di temi, tecniche, linguaggi, di chiara matrice islamica in campo artistico, rivelano la persistenza delle influenze. Anche le relazioni con il mondo turco sono talvolta mediate dall´arte: nel 1479 Gentile Bellini ritrae a Istanbul il sultano Maometto II.
Il conflitto con i turchi esplode con l´espansione dell´impero ottomano sotto la guida di Solimano il Magnifico. Dopo la guerra scoppiata nel 1537 e chiusa tre anni più tardi i rapporti paiono migliorare; ma nel 1566 Selim II riprende le ostilità nei confronti dei residui domini veneziani mediterranei. Venezia reagisce dando impulso alla Lega cristiana, i cui obiettivi coincidono largamente con quelli della Serenissima. Un´alleanza che non impedirà, qualche decennio più tardi, il riacutizzarsi delle tensioni con la Chiesa sfociate nell´Interdetto. Lepanto, nel 1571, è una cesura nei rapporti tra Venezia e il mondo islamico. Lo testimonia la Sala dello Scrutino del Palazzo Ducale, insieme al salone del Maggior Consiglio, cuore del potere della Repubblica. E´ nel suo luogo simbolo che Venezia fissa la memoria di quel conflitto. Alle pareti appaiono dipinti come La battaglia di Lepanto di Andrea Vicentino e La Vittoria dei Veneziani sui Turchi ai Dardanelli di Pietro Liberi, la Vittoria dei Veneziani sui Turchi in Albania di Pietro Bellotti e La conquista di Tiro di Antonio Aliense, oltre che la Vittoria navale dei Veneziani a Giaffa contro gli Egiziani di Sante Veranda. Sono realizzati tra il 1578 e il 1615, dopo che quell´ala del Palazzo, distrutta da un incendio, viene ricostruita. Lo scontro con i turchi è stato durissimo. A Famagosta Marcantonio Bragadin, comandante della fortezza locale, viene scorticato vivo davanti alla folla. La sua pelle è riempita di paglia e il manichino innalzato sulla galea di Mustafà Lala Pascià insieme alle teste di Alvise Martinengo e Gianantonio Querini. I macabri trofei sono esposti nelle strade di Costantinopoli.
I veneziani si vendicano a Lepanto. Qui è la testa dell´ammiraglio turco a essere issata sul pennone, dopo che le navi di Sebastiano Venier sbaragliano la flotta di Alì Mehemet Pascià. Una battaglia che si traduce in una duplice sconfitta politica per i contendenti. Se per i turchi è l´inizio del declino della loro potenza navale, anche Venezia non potrà più riprendere il largo. Troppo piccola la Serenissima per contrastare fenomeni come la nascita, o all´espansione, di potenti stati nazionali e imperi. Troppo diversi dal passato gli equilibri che Venezia è usa sfruttare per impedire egemonie. Lepanto non evita un trattato di pace che cede agli ottomani Cipro ed altri possedimenti nell´Egeo e marca l´avvio della decadenza militare e marittima veneziana. E´ finita un´epoca. Nonostante, mezzo secolo dopo, le audaci imprese belliche di Francesco Morosini, la cui nave a prua sfoggia una polena che raffigura un turco in catene, lascino ancora sperare. I cruenti episodi bellici non sembrano lasciare tracce indelebili: la cosmopolita Venezia sedimenta tutto e guarda al futuro.
E´ dopo Lepanto che nasce in città il Fondaco dei Turchi, adibito all´ospitalità dei mercanti ottomani. Un´istituzione unica nel panorama europeo del tempo: sarà chiusa solo nel 1838. A sua volta l´ambasciatore veneziano non lascia Istanbul nemmeno in caso di conflitto. Segni che rivelano un concetto non assoluto di Nemico e la speranza di poter sempre "mettere in forma" la guerra.
Questo complesso rapporto, letto attraverso le sue dimensioni culturali e artistiche, è ora oggetto della mostra Venezia e l´islam, che si apre a Palazzo Ducale a fine mese. Nonostante lo spirito dei tempi, Venezia e il mondo islamico continuano, infatti, a guardarsi in un gioco di specchi che rimanda a una precisa immagine: quella di un ponte tra due mondi che solo i fanatici vogliono veder crollare nelle agitate acque dello "scontro di civiltà".

Repubblica 27.7.07
Il fascino del Vicino Oriente
di Antonio Pinelli

A Palazzo Ducale il millennio che va dal trafugamento delle spoglie di San Marco alla caduta della Repubblica

Approda a Venezia, dopo Parigi e New York, la magnifica mostra dedicata al rapporto tra la Serenissima e il mondo islamico, nata dalla collaborazione tra il Metropolitan Museum, l´Institut du Monde arabe parigino e i Musei Civici veneziani.
Rispetto alle precedenti edizioni (con ben 250.000 visitatori Parigi e 170.000 New York), nulla è cambiato nell´impianto della rassegna e poco o nulla nella folta compagine di oltre 200 opere provenienti da ogni dove, sapientemente selezionate per offrire un ampio e rappresentativo ventaglio di testimonianze che documentano l´intensità degli scambi artistici e culturali intercorsi tra La Repubblica di San Marco e l´Oriente islamico lungo l´arco di un intero millennio. Quel che però cambia, a tutto vantaggio della pregnanza evocativa di questa edizione, è il contesto in cui quelle 200 opere sono convenute: non più le sale, inevitabilmente anonime, di un museo ubicato in due città che poco o niente hanno a che spartire con il Mediterraneo e l´Oriente islamico, bensì i magnifici saloni del Palazzo Ducale, forse il più levantino tra tutti gli edifici pubblici dell´Occidente europeo. Ma ha senso parlare di Occidente per una città che profuma d´Oriente in ogni sua calle e che ha fondato il suo impero marittimo proprio grazie al ruolo di secolare «cerniera» tra Europa ed Asia?
Assicurandosi il dominio delle rotte del Mediterraneo orientale e meridionale, Venezia divenne la principale mediatrice degli scambi tra l´Europa e il Levante. Di qui il suo rapporto peculiare con l´Islam, improntato ad un misto di attrazione e paura, fascino e rispetto, conditi però da un´abbondante dose di mercantile pragmatismo. A ben vedere, sono stati più lunghi i periodi in cui è regnata la pace tra Venezia e il mondo musulmano che quelli in cui è divampata la guerra. E d´altra parte, dopo ogni conflitto ci si affrettava a rinnovare gli accordi che garantivano privilegi commerciali, economici e diplomatici ai cittadini veneziani residenti nel Vicino Oriente. E con i rapporti d´affari, oliati da un abbondante flusso di donativi in cui è spesso arduo stabilire la linea di demarcazione che separa il regalo dalla tangente, crescevano anche la dimestichezza reciproca e gli scambi culturali ed artistici. Fu così che Venezia divenne, anche sotto il profilo urbanistico ed architettonico, una sorta di fiabesco crocicchio tra Oriente ed Occidente, due mondi che, a dispetto della loro eterna conflittualità, non hanno mai smesso di attrarsi e dipendere l´uno dall´altro.
Come abbiamo anticipato la mostra abbraccia l´arco temporale di un millennio. Si apre con l´828, che è la data del rocambolesco trafugamento da Alessandria d´Egitto, da parte di due mercanti veneziani, delle presunte spoglie dell´evangelista Marco, che secondo la leggenda non furono individuate dalle ispezioni dei doganieri locali perché occultate sotto pezzi di carne di maiale aborrita dalla loro religione. San Marco era destinato a sostituire San Todaro, cavaliere bizantino, nel ruolo di protettore e massimo emblema della Repubblica veneziana: di qui il valore simbolico dell´anno 828, come data che segna la volontà di affrancamento dalla tutela di Bisanzio di una città che era sorta sulla laguna solo un paio di secoli prima come avamposto nord-occidentale dell´Impero d´Oriente. Nel segno del Leone di San Marco Venezia coltivò anche la propria indipendenza da Roma e pose le basi della sua egemonia sulle rotte del Mediterraneo, dopo aver sbaragliato la concorrenza di Genova e di Pisa. Com´è noto, non saranno tanto le guerre di religione tra Oriente e Occidente a minare alle radici il suo impero marittimo, quanto la scoperta delle Americhe, con il conseguente profondo sconvolgimento degli equilibri geo-politici ed economici globali. Ma nonostante ciò, Venezia riuscì a rallentare il suo inesorabile declino, continuando a sfruttare la rendita di posizione acquisita in qualità di principale interfaccia dell´Europa con l´Asia, finché Napoleone non fece definitivamente ammainare la gloriosa e millenaria bandiera con il Leone di San Marco. Correva l´anno 1797, che è anche la data posta dai curatori a conclusione di una mostra che si articola in varie sezioni, passando in rassegna i principali snodi cronologici e tematici dei rapporti tra Venezia e l´Islam.
Si comincia con una sorta di prologo, in cui alcuni pezzi eccezionali introducono i temi principali che saranno poi sviluppati nel corso della mostra. C´è la cosiddetta Cattedra di San Pietro, enigmatico manufatto a forma di trono, che a dispetto dell´evidenza (lo schienale è una stele funeraria islamica, con tanto di iscrizioni coraniche) fu spacciata per secoli come trono del Principe degli Apostoli, in aperta competizione con Roma che ne possiede a sua volta una non meno improbabile (è la «cattedra» di epoca carolingia, custodita nella spettacolare macchina barocca allestita da Bernini nell´abside della basilica vaticana). Segue un dipinto affascinante, eseguito da un anonimo artista della cerchia di Gentile Bellini, in cui è rappresentata un´ambasceria veneziana ricevuta con tutti gli onori a Damasco negli ultimi anni del regno dei Mamelucchi. A suggerire che l´artista possa essere stato testimone oculare dell´evento è l´accurata descrizione non solo degli abiti orientali ma della skyline damascena con la cupola e i minareti della Grande Moschea degli Omayyadi, le cupole degli hammam e, in lontananza, il monte Qquasiyun. Seguono un astrolabio, prodotto nella Spagna islamica ma utilizzato da naviganti veneziani, e un portolano quattrocentesco, le memorie di viaggio di un nobile mercante e due esemplari del Corano, uno manoscritto in elegantissima calligrafia araba da un atelier persiano ma finito nella Biblioteca Marciana, l´altro spregiudicatamente stampato a Venezia in arabo, che, per una curiosa coincidenza, portano entrambi la data 1537.
Nelle sezioni che seguono, il visitatore s´imbatte in dipinti celeberrimi, come quel Ritratto del sultano Maometto II, per eseguire il quale il pittore Gentile Bellini fu inviato appositamente a Costantinopoli nel 1479.
Furono dipinti come questi che con il loro realismo e illusività prospettica provocarono quello sconvolgimento delle tradizionali e immutabili regole della figurazione orientale di cui narra il romanzo di Pamuk Il mio nome è Rosso, ambientato nei laboratori imperiali di miniatura della Istanbul di fine Cinquecento. Ma le relazioni tra i due mondi furono tutt´altro che a senso unico, come dimostrano ad abundantiam i tappeti, le ceramiche e le stoffe orientali avidamente importati dai Veneziani ed esibiti in mostra, ma soprattutto si svolsero sotto forma di un continuo e reciproco scambio di saperi tecnici ed artistici, da cui derivò quel curioso fenomeno di ibridazione produttiva che la mostra documenta in modo esemplare, per cui a volte è difficile stabilire se una stoffa, un vetro o un gioiello sono prodotti veneziani orientaleggianti o prodotti orientali importati. Un fenomeno in base al quale gli artigiani lagunari esportarono perfino lampade per moschee. Ma del resto, a definitiva sanzione di un intreccio inestricabile di scambi biunivoci, come non ricordare che la rinomatissima egemonia veneziana nel campo dell´arte vetraria affondava le radici nel Medioevo, quando gli artigiani veneziani erano riusciti ad acquisire la sofisticata tecnologia produttiva e la raffinatezza del decoro dei vetri siriani, fatimidi e mamelucchi, che le galere della Serenissima importavano sia interi che in minuti frammenti da riciclare?

Corriere della Sera 27.7.07
Islam in Laguna
Una mostra racconta il rapporto intenso tra la Serenissima e l'Oriente:
due mondi che non poterono fare a meno l'uno dell'altro

Venezia splendida e cinica. Ma rispettò sempre l'avversario
di Massimo Cacciari

Anche quando le potenze si affrontarono con metodi terroristici, non venne mai meno l'ammirazione reciproca. Nessun tentativo di rappresentare l'altro come una non-civiltà

È facile cadere in luoghi comuni, o dovremmo forse meglio dire «miti comuni», parlando delle secolari relazioni tra Venezia e i Paesi Islamici. Relazioni diverse, anzitutto, da Paese a Paese: la «lunga guerra» con l'Impero Ottomano non ha nulla a che fare con il rapporto tra Venezia e la Persia islamica o tra Venezia e i Mamelucchi egiziani, fino appunto alla loro caduta di fronte alla potenza turca. E poi, a rendere ancor più confuso il quadro, sono le «leggende» recenti e non solo, sullo spirito di tolleranza e di accoglienza che avrebbe abitato la Serenissima. Certo, è straordinaria la «cura» per la propria immagine e per il culto del suo mito. Venezia era «magnifica» nel ricevere ambasciatori e illustri stranieri. I grandi teleri dei suoi maestri ne danno splendide rappresentazioni. Ma tanta generosa magnificenza si accompagnava, com'era necessario, al più preciso calcolo dei propri interessi, al più rigoroso controllo sui propri commerci e sulla presenza economica a Venezia di ogni «foresto », sull'intransigente difesa dell'oligarchia aristocratica.
Certo, «alter mundus» è Venezia, come già diceva il Petrarca, ma non tanto da farci cadere in anacronismi insensati e credere in chissà quali «aperture» e curiosità intellettuali, culturali, teologiche da parte delle sue élites dirigenti.
Posti questi «saldi» limiti, il rapporto di Venezia con l'Islam e con l'Impero Ottomano in particolare è davvero determinante per la storia europea medievale-moderna.
L'intera politica mediterranea si struttura per secoli intorno a questa polarità.
Sia i documenti veneziani che quelli ottomani ne mostrano piena consapevolezza. E tale relazione viene da ancora più lontano, poiché, per comprenderla, essa va inquadrata nell'originario rapporto tra Venezia e l'Oriente bizantino. Mai dimenticare che l'Impero Ottomano si rappresenta anche come erede dell'Impero Romano d'Oriente, fino a chiamarsi «Roma»!
E anche con l'Impero di Bisanzio Venezia aveva conosciuto tutte le forme della relazione, tra le quali vi è quel «polemos», quella «guerra», che un antico sapiente diceva «padre di tutte le cose»! Basti ricordare quella quarta Crociata del 1204 che condusse, sotto la guida proprio di Venezia, alla conquista di... Bisanzio stessa, al suo saccheggio, alla caduta, per quanto momentanea, dell'Impero Romano d'Oriente. Questo significa che il destino di Venezia consisteva nel confronto continuo, a tutti i livelli, economico, commerciale e militare, con la potenza dominante il Mediterraneo d'Oriente, fosse questa cristiana, fosse questa musulmana.
Ma il confronto avviene anche sul piano culturale e artistico. Anche nei momenti in cui la lotta è senza quartiere e le potenze si affrontano con metodi che oggi diremmo terroristici, l'ammirazione degli uni per le «bellezze» degli altri è, malgrado tutto, incoercibile. Preziose stoffe e oggetti dell'oriente islamico popolano la «gloria» di Venezia, e nel Serraglio sono leggendarie la bellezza della città lagunare, la forza delle sue industrie, del suo Arsenale e la fama dei suoi maestri. Nessun miserevole tentativo di rappresentare l'avversario come una cultura inferiore, tanto meno una non-civiltà. L'avversario è sempre nella sostanza, per quanto «infedele», uno «iustus hostis», non un «inimicus» puro e semplice, meno ancora un «pirata». In queste relazioni si rivela sempre la «laicità» realista e pragmatica della politica e della diplomazia veneziana, quella virtù che ha realizzato il miracolo di conservare per secoli l'autonomia e in qualche modo anche la potenza della città in un contesto di formidabili Stati «nemici ».
Non va mai dimenticato, inoltre, che impostando la relazione tra l'Impero Ottomano e Venezia come si trattasse semplicemente di una relazione tra Stati, commettiamo un grosso errore di prospettiva. I loro rapporti si svolgevano anche, e dal punto di vista commerciale soprattutto, per la presenza nei grandi empori e porti medio-orientali di fondachi, mercanti, botteghe veneziani. I domini veneziani potevano anche cadere, ma ciò non significava affatto il venir meno di queste presenze. Così come l'avanzata islamica non aveva significato l'abbandono di quelle terre da parte di cristiani ed ebrei. Anzi, come quella avanzata fu favorita anche dall'opposizione di molte comunità cristiane al dominio dell'Impero di Bisanzio, così ora l'affermazione dell'Impero Ottomano veniva favorita dai sentimenti anti-latini di tanti cristiani d'Oriente.
Quello era un Mediterraneo di guerra, di conflitti, di concorrenza spietata; ma era certo anche un Mare di riconoscimento dei reciproci valori. Era un Mare nelle cui grandi città, a Istanbul come a Smirne, ad Antiochia come ad Aleppo, a Corfù come a Tunisi, convivevano e lavoravano insieme cristiani di diversa confessione, islamici ed ebrei. Le città mediterranee rappresentavano nella loro stessa «forma urbis» questo vitale intreccio di culture, religioni e fedi. Labirinti, dove certo era facile smarrirsi, ma impossibile separarsi. Oggi, questa «forma urbis» è ridotta a qualche rattrappita «medina», avvolta e soffocata da metropoli «cosmopolite». Essa sopravvive ormai forse soltanto a Venezia. Ma abitata da chi?

Corriere della Sera 27.7.07
1479: arte e politica
Ritratti e banchetti. Quel sogno europeo di Maometto II Venezia inviò il pittore Gentile Bellini alla corte del sultano
Il sovrano voleva un Islam laico, l'erede distruggerà i dipinti

di Carlo Bertelli

L'incontro preparato da Giovanni Dario che conosceva il debole dell'avversario per le «massime cose di lussuria»

Palazzo Dario, presso la Salute, sul Canal Grande. Sembra uscito da una storia di principesse, dipinta da Vittore Carpaccio, sullo sfondo di città immaginarie, profumate d'Oriente. Giovanni Dario era stato l'accorto diplomatico che aveva portato alla pace con la Sublime Porta dopo 16 anni di guerra. Venezia aveva pagato molto, ma ora i suoi mercanti potevano sentirsi liberi e sicuri a Costantinopoli. Presentando l'accordo di pace al Senato, Dario aveva insistito perché con un gesto distensivo la Repubblica si assicurasse la benevolenza del Sultano. Egli conosceva bene i punti deboli del terribile avversario. Lavorando dietro le quinte a Costantinopoli, Dario aveva preparato la strada ad un segnale positivo. Infatti arrivò a Venezia una lettera di Maometto II datata 1˚ agosto del 1479, nella quale il sultano chiedeva l'invio a Costantinopoli di un «bon depentor, chi sapia retrazer».
La richiesta fu accolta ai massimi livelli. Fu scelto il «depentor» incaricato di eseguire i ritratti dei dogi, Gentile Bellini, il figlio del celebre Jacopo, il fondatore della pittura veneziana.
Forse Gentile non sapeva bene quanto tempo sarebbe rimasto a Costantinopoli, ma sapeva molto bene che sarebbe stato alla corte di un signore potentissimo. Gli portò in dono il libro dei disegni di suo padre, che un giorno del diciottesimo secolo l'ambasciatore francese trovò e acquistò a Smirne.
Maometto si divertiva molto ad ascoltare il pittore veneziano e a provocarlo. Un giorno gli diceva: «Gentil, ti sarà menato un dervis, ritraelo» e un'altra volta voleva scommettere a proposito un San Giovanni decollato che, secondo lui, aveva il collo troppo lungo perché, quando si taglia un collo, quello si ritrae. Per togliere ogni dubbio, passò subito all'esperimento pratico, con spavento del povero pittore. Al quale, però, chiedeva anche pareri sui personaggi della corte, e soprattutto, «quando vedeva qualch'uno ch'aveva fama de essere un bell'uomo », di fargli il ritratto e di portarglielo.
Chi ci informa è un loquace vicentino, Giovanni Maria Angiolello, che, preso prigioniero in battaglia nel 1472, era salito fino a divenire tesoriere del Serraglio. E così è da Angiolello che sappiamo che Gentile dipinse «diversi belli quadri, massime di cose di lussuria».
Decisamente il Sultano stava rompendo con tutte le pie prescrizioni. Anche se nelle medaglie che lo ritraevano ancora giovane, coniate circa il 1460, aveva messo tra le pieghe del turbante un'invocazione ad Allah, con i suoi ritratti andava consapevolmente contro le tradizioni islamiche. Maometto, che aveva già occupato la Grecia, l'Asia Minore, una parte rilevante dei Balcani, intendeva essere un sovrano europeo, con tutte le prerogative dei signori d'Italia e dei re d'Europa. Poteva essere, il suo, il primo passo verso quell'Islam europeo che si realizzò in Bosnia e in Erzegovina e che è stato orrendamente distrutto dalla «pulizia etnica».
Le cose andarono diversamente. Mentre il papa si era affannato a cercare un figlio di Maometto da convertire, l'erede legittimo, Beyazid Osman, si irrigidì nella fede ortodossa e distrusse i dipinti di Gentile Bellini, comprese le «cose di lussuria», che sono ancora oggi ricercate da nugoli di antiquari. La conversazione tra Gentile e il sultano scorreva tra lokoum e kataiphi, spremute di melagrana e vino di Malvasia servito in trasparenti calici di Murano. Dalle finestre, i due si affacciavano a guardare il traffico di navi e di barche tra le due sponde del Bosforo e all'imbocco del Corno d'Oro. Erano vele turche e vele genovesi, napoletane e catalane. Gentile contava le vele veneziane. La patria era lontana, ma finché sventolava il vessillo di San Marco, si sentiva più ospite che ostaggio.
Il sultano faceva affidamento sull'eleganza e il garbo di Gentile per rinnovare la propria immagine. Certo non era più il giovanotto smilzo e ben sveglio della medaglia del 1460, che un francese, Jean Tricaudet, aveva fatto coniare di nuovo proprio quando Gentile si trovava a corte. Era però irritato per come l'aveva ritratto, senza indulgenza, un predecessore di Gentile, il pittore Costanzo da Ferrara, inviato dal re di Napoli. Costanzo l'aveva effigiato appesantito, ingolfato nel caftano col bavero di pelliccia come se avesse freddo. Gentile, invece, eseguì un ritratto in cui si era sforzato di ritrovare i segni che gli anni e la buona tavola avevano offuscato. Ne fece il quadro di un gentiluomo occidentale vestito all'orientale. Era buono e cortese, Gentile. Ma quando il sultano venne a mancare, un cronista francese, Philippe de Commines, scrisse, senza troppi riguardi, che l'avevano ucciso la «grande gourmandise» e l'eccesso nei «plaisirs du monde».

Corriere della Sera 27.7.07
Dai dipinti agli oggetti intarsiati, un feeling millenario

Parigi, New York e ora Venezia: la mostra che descrive i rapporti tra la Serenissima e il mondo islamico riparte delle origini, dal luogo in cui tutto ebbe inizio nell'828 d.C. «Venezia e l'islam» che apre domani a Palazzo Ducale racconta, con manufatti, gioielli, opere d'arte, oggetti e documenti, quanto le due culture, quella islamica e quella veneziana, si siano «compenetrate» in quasi un millennio di accordi politici, alleanze economiche e battaglie. «In realtà — dice Stefano Carboni, ideatore e curatore della rassegna — in questo arco di tempo è maggiore l'influenza islamica a Venezia piuttosto del contrario e si nota nella lavorazione dei metalli, intarsiati in oro e argento, nelle ceramiche e nella laccatura dei manufatti. La cultura veneziana in Oriente si manifesta nella pittura, nella stampa; invece, per quanto riguarda le stoffe, l'abbigliamento e la lavorazione del vetro l'influsso è stato reciproco».
Così, è possibile ammirare capolavori come la «cattedra di San Pietro» che la tradizione indica quale seggio dell'apostolo ad Antiochia, il ritratto di Maometto II del Bellini o la decorazione di poppa della nave di Francesco Morosini; il tutto malgrado la mostra Veneziana non sia la fotocopia di quelle che l'hanno preceduta. Qui, in più, c'è la magia della città ospitante che ha permesso di tracciare anche un itinerario nei luoghi in cui è maggiormente evidente l'influsso islamico. Non tutti i reperti di Parigi e New York sono presenti a Venezia: alcuni non erano in grado di affrontare un altro viaggio, altri sono stati restituiti ai proprietari. «Circa un quarto degli oggetti in mostra è specifico di questa edizione — conferma Carboni —. Le nuove opere d'arte sono di eguale valore storico, artistico e culturale».
La rassegna, nata dalla collaborazione scientifica tra gli studiosi dell'Institut du Monde Arabe di Parigi, del Metropolitan di New York e dei Musei Civici Veneziani ha ricevuto all'estero lusinghieri giudizi dai visitatori e, soprattutto è stata valutata positivamente anche dagli studiosi e dai media islamici. E se fra qualche secolo un ricercatore volesse «raccontare» le reciproche influenze tra islam e occidente odierno? «Non sarebbe possibile ripetere una mostra come questa, malgrado la globalizzazione. Oggi non c'è più uno scambio. E le icone dell'Occidente nel mondo musulmano sono quelle del McDonald's».

Corriere della Sera 27.7.07
Turcherie nei sotoporteghi
Mori, turbanti, sciabole: lo spirito ottomano aleggia nelle calli
di Francesca Bonazzoli

A campo san Tomà, San Marco guarisce San Aniano: un patto tra due alessandrini. E sulla facciata della Scuola degli Albanesi appare Maometto

Ci sono eventi cui bisogna presenziare: la mostra veneziana è uno di questi, un po' perché oggi non si parla che di Islam e un po' perché vuoi mica mancare un appuntamento che è passato per l'Institut du Monde Arabe di Parigi e il Metropolitan di New York. Però vederla nella fossa dei leoni del turismo di massa, il Palazzo Ducale, è anche una prova di virilità. Da superare fendendo la folla sulla riva assolata degli Schiavoni, lungo il serpentone di nastri blu, immersi in odori e rumori di ogni tipo, come in un Inferno dantesco dove ovunque si sentono risuonare «diverse lingue, orribili favelle».
Dopo tale bagno di folla non c'è alternativa: bisogna riprendere fiato. Anche l'eroe ha bisogno del suo riposo. E non c'è miglior modo per recuperare l'atmosfera ottomana che allontanarsi dalle Malebolge di piazza San Marco e mettersi a camminare per calli e sestieri romiti. C'è un orlo, nell'anima di Venezia, ancora intriso d'Oriente: la sua luminosa leggerezza da arabesco islamico; gli odori nauseabondi che salgono improvvisi da certi rii e sotoporteghi; i giardini segreti che si intravedono dai girali di cancelli in ferro battuto; le esili colonnine tortili e gli archi lobati; i negozietti angusti e storti con i vetri bisunti; il tanfo delle muffe; il bazar continuo per le calli dove si vende cibo e paccottiglia ad ogni ora del giorno e della notte; gli ambulanti che ti offrono la merce e i camerieri sull'uscio dei ristoranti che invitano a entrare, sono tutte «madeleine» da Paese musulmano.
Non è un caso che Venezia si identifichi con la ricchezza e la saggezza di Salomone, re donnaiolo, furbo, levantino e idolatra, rappresentato nel Palazzo Ducale mentre riceve l'omaggio e i doni esotici della regina di Saba, simbolo dei popoli orientali e pagani con i quali la Serenissima intratteneva i suoi lucrosi traffici, incurante del fatto che si trattasse di infedeli.
Per lunghi secoli, nonostante le Crociate cui parteciparono, i veneziani non temettero le «turcherie» e la città ne era disseminata. Se vi fermate a mangiare un gelato al fresco di campo San Tomà, per esempio, date un'occhiata al piccolo edificio col tetto a capanna. Oggi è una biblioteca comunale, ma nel XV secolo era la Scuola dei Calegheri, ovvero la sede della confraternita dei calzolai. Se vi avvicinate, nella lunetta scolpita nel 1478 da Pietro Lombardo sopra il portale, vedete un altorilievo con San Marco che guarisce San Aniano. Costui era un calzolaio che abitava ad Alessandria, come Marco, e si era ferito una mano lavorando. In cambio della conversione al cristianesimo l'evangelista lo curò e Aniano, dice l'agiografia, divenne vescovo di Alessandria alla morte di Marco. Dunque i calzolai veneziani avevano scelto per patrono un pagano orientale e non solo: coerentemente, sotto la lunetta, corre un fregio di marmo con tre babbucce (dall'arabo babush).
Altre «turcherie» sopravvivono in campo San Maurizio, dove sulla facciata della Scuola degli Albanesi i veneziani lasciarono scolpire un rilievo con Maometto II — munito di sciabola, turbante e caffettano (dall'arabo qaftan) — mentre lancia l'assedio alla fortezza di Scutari, avamposto veneziano in Albania. E poi ci sono i quattro mori, bamboloni di pietra con in testa turbanti esagerati, come nei fumetti, che decorano l'esterno del Palazzo Mastelli, detto anche del Cammello, in campo dei Mori, tranquilla oasi di pace nel sestiere di Cannaregio dove tutto è dedicato ai mori: le fondamenta, il vicolo, il ponte e il sotoportego sopra il quale sorge la casa natale del Tintoretto. Secondo la tradizione popolare i mori del Palazzo Mastelli erano fratelli commercianti di sete che nel 1112 si stabilirono a Venezia adottando il nome italiano. Uno, quello ad angolo, ha oggi un naso di ferro che gli fu aggiunto nel XIX secolo, ed è conosciuto come il «Signor Antonio Robia», il corrispondente del Pasquino romano, cui si attribuivano scherzi e satire. All'interno del cortile privato del palazzo (ma astenetevi dal citofonare perché i veneziani sopportano più i turchi dei turisti) c'è ancora la scultura di un cammello carico di merci guidato da un uomo vestito alla turca, in una ecumenica generalizzazione fra turchi, mori, musulmani, sudditi dell'impero ottomano. Inutile andare tanto per il sottile: sempre di merce orientale e di «sghei» si trattava.
Di ottomani con i soliti turbantoni se ne vedono anche in campo San Giovanni e Paolo, sulla facciata della ex Scuola di San Marco, oggi sede dell'Ospedale. Ai lati della porta d'ingresso secondaria, dove adesso si entra nella farmacia, riecco San Marco con il calzolaio Aniano, abbigliato all'orientale. Del resto fino al 1838, al Fondaco dei Turchi, il loro emporio sul Canal Grande, doveva essere un pullulare di caffetani, babbucce e turbanti, proprio là dove oggi si va invece per vedere i dinosauri del Sahara donati da Giancarlo Ligabue.

Liberazione 27.7.07
Cile: nel luogo di torture e stupri diventato un giardino di pace
Rodrigo, il custode della memoria dei desaparecidos di Villa Grimaldi
di Giusto Catania


Poco prima della fine della dittatura fu distrutta completamente per cancellare le tracce della repressione.
«Vedi quel portone nero? Quello era l'ingresso principale di villa Grimaldi. Ci tappavano gli occhi con lo scotch, poi appena dentro lo tiravano via e ci ponevano delle bende scure. Dovevamo sempre tenere la benda e camminare con la testa bassa per evitare di guardare in faccia le guardie. Per loro era un motivo di sicurezza». Il suo racconto è incalzante mentre la pioggia comincia a battere fortissima ma né lui né noi abbiamo intenzione di ripararci. Sul pavimento, davanti al cancello nero adesso c'è una scultura imponente: una grande fiamma di pietra decorata da piccoli utensili e piastrelle colorate, che appartenevano originariamente alla casa di Villa Grimaldi, ritrovate tra le macerie: "questo è il fuoco della purificazione". La casa di Villa Grimaldi era la struttura di coordinamento di tutte le attività criminali pianificate da Pinochet e talvolta veniva usata anche per gli interrogatori. Ci conduce nel "patio dei bendati": ci sono delle grandi targhe di ceramica e pietra con scritte inquietanti: "sala di tortura con letti metallici" oppure "celle per le donne".
Adesso Rodrigo è il custode di Villa Grimaldi e senza pudore né reticenza racconta con una naturalezza impressionante le tecniche di tortura: «Ci mettevano in testa il sacchetto di plastica pieno di segatura, ci bruciavano con le sigarette, ci facevano passare un'asta tra i gomiti e le ginocchia e ci mettevano a testa in giù, ci calavano la testa in acqua a ritmi irregolari, ci facevano sdraiare nudi sui letti di metallo, ci bagnavano e ci scaricavano l'elettricità. Volevano informazioni, volevano i nomi dei nostri compagni. Qualcuno non ha resistito: ricordo due compagne che hanno collaborato. Tante non hanno parlato e hanno subito i peggiori soprusi fino al punto di essere violentate, davanti a figli e mariti».
«Tanti militari erano delle belve, ci trattavano in modo selvaggio. C'era qualcuno che aveva umanità e tentava in tutti i modi di dimostrarcelo. Vedi quell'albero enorme? Un militare raccontò alla mamma di un giovane detenuto a Villa Grimaldi che il figlio desaparecido era vivo. Quando fu scoperto dai generali lo hanno legato all'albero e i suoi stessi colleghi lo hanno ucciso a colpi di catene. Era un monito per tutti gli altri che avessero voluto aiutare i prigionieri. Malgrado ciò c'era un piccolo nucleo di militari che si comportava bene con noi».
I racconti di Rodrigo sono da groppo in gola e sono sempre preceduti da domande retoriche: «Vedi quella vasca rettangolare? Una notte mentre eravamo chiusi nella nostra cella, sentiamo la catena della porta scorrere violentemente, si affaccia un giovane militare e chiede se c'è qualcuno che vuole fare un bagno. Eravamo scettici, pensavamo fosse l'ennesima tecnica di tortura che volevano praticare sulla nostra pelle. Ma insisteva e dopo qualche minuto io e altri due detenuti abbiamo accettato. Eravamo sporchissimi: il sudore e il sangue si erano incatramati tra la pelle e gli abiti. Quella notte ci siamo buttati in quella vasca. Era buio, non lo so se l'acqua fosse sporca o pulita, ma è stato rinfrescante. Non ho dubbi ad affermare, ancora oggi, che è stato il più bel bagno della mia vita. Siamo tornati e abbiamo convinto anche gli altri amici… sì ci chiamavamo amici, perché nelle carceri di Pinochet era impedito usare la parola compagno».
L'acqua ricorre costantemente nei racconti di Rodrigo: racconta della sete terrificante che si pativa dentro le celle; descrive i figli dei militari che facevano il bagno nella piscina di Villa Grimaldi, a venti metri dalla torre di tre piani nelle cui celle microscopiche i detenuti venivano impilati.
«È la stessa piscina descritta nella relazione della Croce rossa internazionale, che annunziando con un mese d'anticipo una ispezione a Villa Grimaldi, trovò tutto tranquillo, nessun detenuto e una splendida vasca dove si poteva nuotare». Rodrigo diventa sarcastico quando racconta questa vicenda del 1975.
Il viaggio nella storia de Villa Grimaldi si chiude dentro una stanza a forma di cubo in equilibrio sullo spigolo, ci sono dentro una teca trasparente i resti di alcuni binari e brandelli di indumenti. «Questi sono stati recuperati dal mare e in questa stanza rivivono i nostri compagni uccisi da Pinochet».
Comprendiamo però che la visita non è ancora conclusa: Rodrigo vuole dire le ultime cose prima di salutarci. "L'unica presidente della Repubblica che è venuta qui è stata Michelle Bachelet. Prima di lei nessun Presidente è entrato a Villa Grimaldi, neanche Ricardo Lagos. Quando è venuta qui, ci siamo appartati e abbiamo parlato della nostra detenzione qui. Anche Michelle è stata detenuta a Villa Grimaldi. Io e la Presidenta ci diamo del tu perché siamo vivi e non possiamo dimenticare quello che è successo in questo Paese. Non sappiamo perché noi siamo rimasti vivi mentre altri non ci sono più. In questo Paese il confine tra la vita e la morte è stato quasi invisibile.
*Europarlamentare Prc-Se

Repubblica 27.7.07
Sindaco toscano "Iscrizioni all'asilo priorità agli italiani"


ALTOPASCIO (LUCCA) - I figli dei cittadini italiani dovranno avere un punteggio superiore rispetto a quelli degli extracomunitari nelle graduatorie per le liste d´attesa degli asili. Lo chiede ai vertici scolastici il sindaco di Altopascio, Maurizio Marchetti (Forza Italia). A suo parere è giusto inserire fra i criteri per l´assegnazione di punteggio, oltre alla residenza, anche la cittadinanza: a parità di condizioni, perciò, dovrebbero passare avanti i bambini italiani. «Non vogliamo discriminare gli extracomunitari, ma neanche gli altopascesi», dichiara il sindaco. L´amministrazione sta ampliando l´asilo nido per eliminare le liste d´attesa, ma intanto chiederà al consiglio d´istituto di rivedere secondo i nuovi parametri le graduatorie uscite una decina di giorni fa. Se la richiesta non sarà accolta, il sindaco è pronto a intervenire con un´ordinanza.
«Altopascio ha sempre trattato tutti allo stesso modo, attuando politiche di integrazione - sostiene Marchetti - ma ora bisogna far comprendere a chi è venuto da fuori che ad Altopascio si rispettano le regole, si tengono i crocifissi alle pareti, ci si comporta con educazione e buon senso». A ciò mira il progetto «Città sicura e moderna», che prevede un monitoraggio capillare del territorio.

La Rinascita della sinistra 26.7.07
La Chiesa non detti legge
Intervista a Umberto Veronesi.
di Raffaella Angelino


Il Paese è pronto, le istituzioni no: Umberto Veronesi riassu­me senza troppi giri di parole il dibattito in corso sul testamen­to biologico. E la vera ragione della paralisi decisionale sui temi che vengono definiti "eticamente sensibili" è il veto che dai palaz­zi d'Oltretevere riecheggia nelle stanze della politica.
Il professore, con la franchez­za che gli è propria, dice sostan­zialmente che nessuno, da una parte e dall'altra, vuole fare nulla «che non piaccia al Vaticano». Problema che, in verità, nel cen­trosinistra riguarda in particolar modo il Partito democratico di Walter Veltroni, leader invece apprezzato dall'ex ministro della Sanità che ha voluto, con altre personalità, sostenere l'appello "Fare un'Italia nuova". Quanto alla presenza nel Pd di un'ag­guerrita componente teodem, il "tecnico" Veronesi è drastico: «Sono contrario a tutte le limi­tazioni ideologiche delle grandi scelte individuali».
In Italia, sono maturi i tem­pi per discutere di una legge sul cosiddetto testamento biologico? E' -come sostie­ne il senatore Ignazio Ma­rino - un ar­gomento che appassiona la gente?
A giudica­re dalla quan­tità di italiani che mi hanno scritto – da quando due anni fa la mia Fondazione ha iniziato la campagna a favore del testamento biologi­co - direi di sì. La popolazione ha reagito immediatamente alla campagna di informazione e so­no molte migliaia le persone che continuano a rivolgersi alla Fon­dazione per avere informazioni e sapere che fare. Il Movimento che ne è nato, formato da giuri­sti, uomini di cultura e membri della società civile, è stato così forte da indurre appunto il Par­lamento alla discussione di una legge. Forse non possiamo dire che l'argomento "appassiona" , ma possiamo affermare che cer­tamente culturalmente i tempi sono maturi, anche perché il pro­blema dei trattamenti di fine vita è sempre più evidente e urgente. Oggi negli ospedali ci sono casi che vengono alla ribalta, come quello di Eluana Englaro, e ce ne sono molti altri che riman­gono silenti. Quanti? Decine o centinaia? E come vengono ge­stiti, ufficialmente non sempre si sa. E' dunque giunto il momento di affrontare il problema. A non essere pronta è piuttosto la poli­tica e le istituzioni in senso lato. Non è del resto il primo e unico esempio di un dibattito etico-scientifico affossato per ragioni ideologiche e partitiche.
Il testamento biologico è parte integrante del program­ma dell'Unione: cosa pensa del dibattito parlamentare in corso al Senato in Commissione Sa­nità: è possibile arrivare a un risultato?
Vi sono ormai una decina di proposte per una legge, tutte simili e tutte in linea con le legislazioni di molti altri Paesi. Ma il dibattito si perde in mille discus­sioni su dettagli che sembrano voler nascondere la vera ragione della paralisi decisionale: una legge sul testamento biologico non è gradita dalla Chiesa, e anche a sinistra, come prima a destra, non si vuole fare nulla che non piaccia al Vaticano.
Per alcuni la discussione po­litica sul testamento biologico è l'occasione per alzare il velo sul "fine vita", per altri è uno «spre­co di tempo» su una legge di importanza secondaria, o anco­ra un mezzo per introdurre un «abbandono terapeutico» non distante dall'eutanasia (Avve­nire). Perché è, invece, necessa­rio secondo lei colmare questa lacuna normativa?
Intanto va detto che il testa­mento biologico può ammettersi ed essere considerato valido, già oggi nel nostro ordinamento. In primo luogo per l'articolo 32 della Costituzione, sotto il profilo della liceità degli atti di disposi­zione del corpo e dell'integrità personale che rispettano i limiti di legge, così come della tutela della privacy e del potere di au­todeterminazione in una materia che tocca profondamente la li­bertà e il destino della persona. In secondo luogo perché è la logica estensione del consenso informato che è obbligatorio in Italia.
Ma a quanto pare non è suf­ficiente.
Una legge è opportuna per­ché oggi il testamento biologico come espressione di volontà ha la possibilità di essere preso in con­siderazione soltanto attraverso un passaggio ma deontologico, vale a dire se i medici curanti ravvi­sano nelle terapie che dovrebbe­ro essere praticate il carattere di "cure inappropriate", in quanto il malato è giunto alla fine della vita e non può guarire. Si tratta evidentemente di un criterio di­screzionale (la decisione di so­spendere le cure può cambiare da medico a medico ed è difficilissima da prendere) e quindi si avverte l'esigenza di una legge che tuteli l'inalienabile diritto del malato a prender parte alla deci­sione di come morire. Una legge sarebbe utile anche per i medici, perché li aiuterebbe a prendere le decisioni tenendo conto delle volontà del malato. Anzi dei valori del malato. Non dimentichiamo che il testamento biologico non esprime una decisione precisa del paziente (io voglio-non voglio quella cura) ma appunto un valo­re (io voglio-non voglio una vita artificiale). Dunque la decisione terapeutica vera e propria rimane al medico, che però, in presenza di un testamento biologico, deve tener conto anche del progetto di vita del malato.
La questione testamento biologico divide e crea tensioni anche nel costituendo Partito democratico in cui si incontra­no sensibilità differenti (mi rife­risco in particolare ai cosiddetti "teodem"): che effetti potrebbe avere?
In teoria non dovrebbe, per­ché la Chiesa è contro l'accani­mento terapeutico e non ha nulla contro il consenso informato. «Uno Stato laico non può ob­bligare un malato a vivere contro la sua volontà, attaccato a una macchina; per chi non l'accetta è un'imposizione che si avvicina alla tortura»: sono le parole, mol­to coraggiose, di Vito Mancuso, teologo del San Raffaele. Certo, il principio laico della "responsabilità della vita", che ispira il testamento biologico e gli altri atti a favore del­l'autodeterminazione del malato, non si concilia con il principio di "sacralità della vita" proprio della Chiesa cattolica: Dio da la vita e Dio la toglie. Tuttavia se pensia­mo che il testamento biologico altro non è che l'estensione logica del consenso informato alle cure, il quale, tra l'altro, ribadisce le centra­lità dell'uomo sofferente di fronte ai progressi della tecnologie e della scienza biomedica, si potrebbe, sulla base di questo principio fondamen­tale, trovare un consenso fra forze laiche e cattoliche. Occorre però evitare la "politicizzazione" delle idee, cioè la trasformazione in stru­mento politico del credo personale, sia esso fede in Dio o nella Ragione.
In tema di diritti, come do­vrebbe vincere, secondo lei, la sfi­da delle riforme una maggioranza che si definisce "riformista"?
Basterebbe rispettare quelli fondamentali, che formano la base della società civile: libertà, la tolle­ranza e la solidarietà. Sono convin­to del diritto/dovere all'autodeter­minazione: penso che dovremmo essere liberi di ricercare il nostro benessere, di amare, di avere figli, di formarci o non formarci una fa­miglia, di avere cure mediche, una giustizia equa, un'istruzione ade­guata agli standard mondiali, al la­voro, alla procreazione responsabi­le, alla scelta del proprio domicilio, alla programmazione consapevole della propria vita, compresa la sua fine. Sono contrario a tutte le limitazioni ideologiche delle gran­di scelte individuali. Ovvio che la libertà del singolo deve conciliarsi con quella degli altri e qui entrano in gioco la tolleranza e la solida­rietà.
A proposito di limitazioni ideologiche, i dati dell'Istituto superiore di Sanità relativi ai pri­mi tre anni di applicazione della legge 40 parlano chiaro: la nor­mativa sulla procreazione assi­stita non funziona. Cresce la per­centuale dei trattamenti con esito negativo, aumentano gli aborti, si diffonde il fenomeno delle "mi­grazioni". Cosa si aspetterebbe a questo punto?
Il problema è profondo e la fe­condazione assistita è solo la punta di un iceberg. Ciò che vorrei è che il mondo politico prendesse coscien­za che il nostro Paese si trova in una situazione di rischio non solo di non-sviluppo ma addirittura di regressione, soprattutto per il clima culturale che si respira diffusamen­te, in cui il pensiero scientifico è vi­sto con sospetto, se non con timore, o addirittura con ostilità, e in cui serpeggia, più o meno subdola­mente, un movimento antiscienti­fico che potrebbe oscurare il futuro dei nostri figli e già sta oscurando il presente, come dimostrano appun­to i dati sulla legge 40.
Addirittura oscurare il futuro?
I fatti: nell'area della genetica non possiamo fare ricerca sulle cel­lule staminali embrionali e neppure sperimentare le enormi potenzialità degli ogni in agricoltura per ragioni ideologiche. Nell'area della medici­na non possiamo praticare le tec­niche più avanzate di fecondazione assistita, per le quali si è creato un flusso migratorio, riservato ai più ricchi, verso i Paesi con una legisla­zione più evoluta. Sembra che l'Ita­lia stia chiudendo ideologicamente le frontiere alla scienza e il risultato è che i più ricchi non rinunciamo al progresso e vanno oltre le frontiere. Basta pensare a quanti giovani (non certo di famiglie povere) vanno a studiare all'estero dove la scuola è più innovativa. E' giusto aggiunge­re privilegi a privilegi condannando il resto del Paese a diventare, come ha scritto Enrico Bellone, «un'ap­pendice turistica del mondo civile»? Per questo ciò che c'è da aspettarsi veramente non è tanto, o non solo, una revisione della legge 40, ma un atteggiamento politico diverso nei confronti della scienza in generale.
Si fa un gran parlare dì an­tipolitica o nel migliore dei casi di insofferenza verso una classe politica poco in sintonia con la "gente". Il dibattito sui temi che riguardano la sfera dei diritti potrebbe essere un modo per ridare smalto e cre­dibilità alla politica?
Il Paese è dispera­tamente alla ricerca di una guida intellettuale e si avverte un grande biso­gno di un movimento che veda nella forza della ragione la guida e l'orientamento per il suo sviluppo. Certo il dibattito sui di­ritti civili potrebbe essere una via, ma dovrebbe essere libero dai con­dizionamenti ideologici e teologici che possano limitare l'espressione dei grandi valori di cui parlavamo prima: libertà, tolleranza e solida­rietà. La mia impressione, come ho già detto, e che il Paese è pronto, ma le istituzioni no.
Lei è stato per un non breve periodo ministro della Sanità, recentemente ha scritto (Repubbli­ca) che aveva elaborato un piano che non è mai stato realizzato. Cosa porta con sé di quell'espe­rienza trascorsa nei palazzi della politica?
Mi riferivo al piano per l'am­modernamento del sistema ospedaliero italiano, che prende spunto dal concetto di ricollocare il pa­ziente al centro della cura. La mia esperienza politica come ministro della Sanità per poco più di un anno è stata molto illuminante sulla necessità di continuare ad aumen­tare la consapevolezza della gen­te, di combattere l'immobilismo ideologico e di creare un cultura della scienza, non solo biomedica. Ho avuto conferma che è impor­tante parlare e far parlare delle ma­lattie, cioè saper comunicare con chi è malato e saper sensibilizzare chi non lo è. Anche per questo ho cercato di favorire l'introduzione di una materia che riguardasse la salute, gli stili di vita, nelle scuole. Quando ho steso la legge contro il fumo di sigaretta nei luoghi pub­blici, nel 2000, ce stata una note­vole reazione negativa da molte parti, ma con il dialogo e l'infor­mazione le cose sono cambiate e, quando la legge è stata approvata dal Parlamento alcuni anni do­po, la popolazione era maturata e l'applicazione è stata integrale e indiscussa.
Insomma, il primo mostro da combattere è la non conoscenza?
Credo sia fondamentale par­lare nelle scuole di tumori, Aids, droghe, alimentazione, attività fììisica. La vera prevenzione è la co­noscenza, l'informazione. Nozioni semplici, spiegate laddove risulti­no complesse, ma che creino nel giovane, adulto poi, l'interesse ver­so la prevenzione e la possibilità di conoscere le malattie, come evitar­le o procrastinarle. L'informazione è fondamentale per aiutare tutti i cittadini a comprendere e ad ascol­tare il linguaggio della scienza e a diventare così protagonisti consa­pevoli delle scelte che riguardano la propria salute e quella dei propri cari. Significa anche tenere vivo, a livello sociale, il dibattito cultura­le sui grandi dilemmi umani da sempre legati al progresso della scienza, senza il quale, l'abbiamo detto, non c'è futuro.

Il Sole 24 Ore 26.7.07
I vertici del Partito democratico rompono il tabù delle alleanze
di Stefano Folli


«Gli alleati e le alleanze li scegliamo noi».Così Rutelli torna sull'ipotesi di un «centro-sinistra di nuovo conio», cioè non più legato al patto politicoelettorale con l'estrema sinistra ( Rifondazione, Pdci,forse Verdi).Non c'è da stupirsi che l'ispiratore del «manifesto dei coraggiosi» insista su uno dei punti cruciali che toccano la prospettiva del Partito democratico. Meraviglia piuttosto che ci sia qualcuno disposto ancora a sorprendersi. Come se non fosse chiaro che il partito nascituro ha due problemi: uno relativo ai contenuti riformatori,l'altro relativo alle alleanze. Né il manifesto rutelliano né il «decalogo» proposto da Veltroni, entrambi concepiti per impressionare il Nord, possono essere credibili se perdura l'intesa indissolubile con la sinistra radicale. Quindi il tabù delle alleanze, come lo definisce Marco Follini, è già incrinato ed è destinato a frantumarsi nei prossimi tempi. Il Partito democratico ha bisogno di presentarsi all'opinione pubblica libero da ipoteche. Altrimenti «il problema strutturale della sinistra al Nord» (parole di Massimo Cacciari) non potrà che aggravarsi.
È vero, peraltro, che Rosy Bindi, candidata alle primarie, si oppone a rimettere in gioco le alleanze: «Il Partito Democratico – afferma – nasce per consolidare il centro-sinistra, per rafforzare un'alleanza che accompagna a piena maturazione la scelta di governo della sinistra». Posizione politica ineccepibile: la Bindi è contraria non da oggi alla deriva moderata del Pd, così come alle tentazioni stile Tony Blair. E non è un caso che il ministro della Famiglia sia oggi, fra i candidati, la più vicina a Romano Prodi, il cui governo intende puntellare. Ma la sua è una posizione minoritaria. Gli altri architetti del Partito Democratico, in un modo o nell'altro, stanno rompendo il tabù. Il che non può non preoccupare il premier.
Rutelli a parte, nei giorni scorsi era stato Piero Fassino a parlare di nuove alleanze. Non subito, certo, ma nel prossimo futuro. Del resto, Veltroni evoca «un partito a vocazione maggioritaria» in grado di puntare al 40 per cento, fortemente innovativo nei contenuti: si arguisce che non si tratta di un partito vincolato alla sinistra radicale. Quanto a Enrico Letta, egli è a tutti gli effetti il più «centrista » dei candidati, sebbene il suo ruolo di sottosegretario a Palazzo Chigi gli imponga cautela sul punto delle alleanze.
Ma un amico di Letta come Bersani, il noncandidato diessino, dice con chiarezza quale dovrà essere la fisionomia del nuovo partito. «Il profilo programmatico si rivolge con nettezza al Paese e non incorpora le alleanze: le quali ci vogliono, ma un partito è a vocazione maggioritaria non se e quando diventa maggioritario, ma se e quando si mostra disposto ad attraversare il deserto in nome delle sue fondamentali idee».
Attraversare il deserto... Significa acconciarsi a un salto politico- culturale pur di uscire dalla gabbia attuale, fatta di alleanze insoddisfacenti e di contenuti troppo timidi. In vista di quella «democrazia che decide» citata come un miraggio da Veltroni. È evidente che sul piano strategico il Partito Democratico si prepara a separarsi da Rifondazione e Pdci. Ma perché il passo non sia un salto nel buio occorrono almeno tre condizioni: una legge elettorale che assecondi la «vocazione maggioritaria» del Pd; elezioni anticipate a breve scadenza; la capacità di modificare in fretta la Costituzione in un nuovo quadro di alleanze. S'intende, nella prossima legislatura. Forse non è un deserto, ma è una montagna da scalare.

il manifesto 28.7.07
Giovanni Pesce, antifascista
E' morto ieri a Milano l'uomo dei Gap, un simbolo della Resistenza


E' morto ieri al Policlinico di Milano Giovanni Pesce, comunista, partigiano, medaglia d'ora della Resistenza. Aveva 89 anni. Se ne va una figura mitica dell'antifascismo e della sinistra italiana. La camera ardente verrà aperta lunedì mattina alle 8 a Palazzo Marino, dove - alle 15 - si terranno i funerali.
Pesce era nato a Visone d'Acqui, in provincia di Alessandria nel 1918. Era ancora un bambino quando la sua famiglia emigrò in Francia. Minatore a soli 13 anni nella miniera della Grand'Combe, la zona mineraria delle Cévennes, nel '35 aderì al Partito comunista, diventando segretario della sezione giovanile. Un anno dopo, ascoltando a Parigi un discorso della «Pasionaria» Dolores Ibarruri, decise di andare a combattere in Spagna contro i militari di Franco e in difesa della Repubblica. Inquadrato, a soli diciotto anni nelle Brigata Garibaldi, fu ferito per tre volte: sul fronte di Saragozza, nella battaglia di Brunete e al passaggio dell'Ebro. Rientrato in Italia nel 1940, venne arrestato e inviato al confino a Ventotene. Liberato con la caduta del fascismo, nel settembre del 1943 fu tra gli organizzatori dei Gap (Gruppi di azione patriottica) a Torino, col nome di battaglia di «Visone»; dal maggio del 1944 sino alla Liberazione, comandò a Milano, la Gap «Rubini».
Il suo coraggio e la sua spregiudicatezza durante la clandestinità sono testimoniati dalla motivazione con cui fu decorato con la medaglia d'oro al valor militare: «Ferito a una gamba in un'audace e rischiosa impresa contro la radio trasmittente di Torino fortemente guardata da reparti tedeschi e fascisti, riusciva miracolosamente a sfuggire alla cattura portando in salvo un compagno ferito... In pieno giorno nel cuore di Torino affrontava da solo due ufficiali tedeschi, ne uccideva altri due accorsi in aiuto dei primi e sopraffatto e caduto a terra fronteggiava un gruppo di nazifascisti, riuscendo a porsi in salvo». Dal 1951 al 1964 è stato consigliere comunale del Pci a Milano, dalla costituzione dell'Anpi ne è stato consigliere nazionale. Allo scioglimento del Pci, Pesce aderì a Rifondazione comunista, cui era ancora iscritto. Scrisse «Senza tregua, la guerra dei Gap», libro-simbolo sull'attualità dell'antifascismo per la generazione del '68. Una delle sue azioni militari più importanti - quella contro la rappresaglia nazista in seguito allo sciopero degli operai della Caproni - costituisce la trama di una canzone scritta da Dario Fo che, ovviamente, si intitola «La Gap». Sulla figura di Giovanni Pesce ritorneremo domani sul manifesto con un articolo di Angelo D'Orsi.

giovedì 26 luglio 2007

l’Unità 26.7.07
Il giornale di Rifondazione contro il sindaco di Roma
Il Manifesto: detesta il conflitto
. Liberazione lo attacca: «È un neogollista»


Per Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista, «Veltroni è un neogollista». Anche abbastanza pericoloso, perché in piena sintonia coi poteri forti. Per il Manifesto è uno che razzola bene, ma pratica male, perché delinea rimedi peggiori del male e sogna una società senza conflitto di classe, in cui «il proletariato non conta niente». È la stampa bellezza, e tu non ci puoi fare niente, direbbe il vecchio Humprey Bogart. Nemmeno Veltroni, che mediaticamente parlando non teme confronti. L’attacco simultaneo, anche se molto differente nei toni, non giunge inaspettato. Liberazione ha trattato malissimo Veltroni da subito, con un’escalation di imputazioni molto gravi dopo Torino, il Manifesto si è contenuto di più ma a quanto pare concorda con il giornale di Rifondazione sul ragionamento di fondo: il sindaco di Roma è l’alfiere subdolo di una modernizzazione targata Confindustria.
La cosa singolare è che l’attacco simultaneo è scattato dopo la pubblicazione sul Corriere del progetto istituzionale di Veltroni. Erano idee e proposte già esposte al Lingotto e un po’ rielaborate per il giornale di via Solferino ma evidentemente non se n’erano accorti. Scrive il direttore di Liberazione: «È un proclama essenzialmente gollista, nel senso che riprende tutte le suggestioni della democrazia autoritaria francese...delinea un annullamento del conflitto, della lotta sociale, del ruolo e dei diritti del sindacato...è un progetto perfettamente compatibile con le aspettative e i disegni dei gruppi dirigenti della borghesia italiana». Conclusione: il disegno di Veltroni è «correggere una democrazia malata con l’iniezione di una forte dose di autoritarismo». Per Liberazione il precedente c’è e si chiama («tanto nomine», direbbero i latini) Bettino Craxi.
Tutto questo perché Veltroni vuole una politica che decide? Perché vuole la riduzione dei parlamentari a un numero simile a quello delle altre democrazie europee? Perché vuole il federalismo, che la sinistra ha sempre chiesto? Perché vuole la fine del bicameralismo perfetto, un’anomalia solo italiana che tutti i giuristi considerano un ostacolo al funzionamento della democrazia? Perché vuole il voto ai sedicenni? Perché vuole una riforma elettorale che impedisca a un senatore irriducibile di tenere in scacco un governo eletto da venti milioni di cittadini? Insomma, magari sono proposte che piacciono anche agli elettori di Rifondazione. Criticarle è legittimo, ma che c’entra De Gaulle? Ecco, anche quando il vecchio generale non viene evocato, vedi il Manifesto, l’accusa è simile: «Dieci proposte senza base», scrive Valentino Parlato. Nel senso che sono «discutibili e di grande peso» ma sono «irrealizzabili, impossibili e incredibili» e per questo pericolose. Alla fin fine è Rossana Rossanda a chiudere il cerchio: Veltroni non va perché considera riprovevole il conflitto sociale. L’autunno sarà caldo, ma gli operai non c’entrano niente.

l’Unità 26.7.07
Epifani scrive a Prodi: così non va
«Testo sconosciuto e problema di merito sul mercato del lavoro». Si vota l’accordo a punti?
di Giampiero Rossi


Le scelte del governo sul mercato del lavoro aprono un «evidente problema di merito». Così il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani scrive in una lettera inviata ieri al presidente del Consiglio, Romano Prodi, nella quale chiede se sia possibile firmare l'accordo sul welfare «solo per parti» e non per intero. Il problema è serio, perché all’interno della Cgil ribollono malumori che il leader, oltre a dover gestire, condivide almeno in parte e lo ha detto subito, a chiare lettere, appena uscito da palazzo Chigi con in mano il testo definitivo del protocollo proposto dall’esecutivo.
Nella sua missiva a Prodi, infatti, Epifani sottolinea che il Comitato Direttivo della Cgil «ha approvato la scelta di sottoscrivere il Protocollo sul Welfare» ma che questa decisione «si accompagna ad una contrarietà sulla parte dell'accordo relativa al mercato del lavoro e alla decisione di azzerare ogni contribuzione aggiuntiva sullo straordinario. La scelta da parte del governo di presentare su tali punti un testo non visto in precedenza nella sua stesura definitiva, se non pochi minuti prima dell'incontro - aggiunge il dirigente sindacale - apre, per quello che riguarda la Cgil, un evidente problema di merito, trattandosi di materie strettamente attinenti alla dimensione contrattuale del sindacato dove, ad esempio, la cancellazione di un aggettivo determina il rovesciamento di un significato».
E non è tutto. Perché «c’è infine - scrive ancora il leader Cgil che conclude la lettera “con stima” - l'esigenza di un ultimo chiarimento: ferma restando la scelta della Cgil, il governo ritiene che l'accordo possa essere sottoscritto anche solo per parti o vada sottoscritto per intero? Si tratta ovviamente di due scelte non uguali». Non è soltanto una questione di forma, in gioco ci sono nodi che stanno a cuore al sindacato e sui quali si è giocata buona parte della campagna nei luoghi di lavoro quando si è trattato di sostenere il voto in favore del centrosinistra, dopo i cinque lunghi anni berlusconiani. E alle critiche del sindacato si aggiungono, con toni decisamente più aspri, quelle di Rifondazione comunista e Pdci che minacciano battaglia contro il protocollo.
Ma dalla maggioranza, e dai Ds in particolare, arrivano messaggi, rivolti più apertamente all’alla sinistra della coalizione, che sembrano voler respingere qualsiasi tentativo di rimettere mano all’accordo: secondo il leader della Quercia, Piero Fassino, infatti, l'accordo su welfare e pensioni siglato dal governo è «importante», di «grande valore sociale» e sono incomprensibili le critiche di alcuni partiti della maggioranza e di una parte del sindacato. «È la prima volta - spiega Fassino - che c'è un pacchetto di misure previdenziali che non contrappone padri e figli. È la più grande e significativa manovra sul mercato del lavoro e sulla previdenza degli ultimi anni», un intesa quindi che garantisce l'equilibrio dei conti, che si occupa del problema delle pensioni basse, che affronta la questione della previdenza per chi oggi è giovane, che implementa la previdenza integrativa. Un risultato che è merito in particolare del lavoro «paziente di mediazione del ministro Damiano» e anche della disponibilità di Tommaso Padoa-Schioppa «che ha messo in campo le risorse finanziarie disponibili». Per questo, secondo Fassino, le critiche devono essere lette come un «riflesso istintivo di conservazione». Il Pd, avverte, «sosterrà in Parlamento e nel paese» questo accordo «che rappresenta un fatto di innovazione e di riforma».
E a ribadire la linea di difesa totale all’operato di Damiano, interviene anche il responsabile delle politiche per il lavoro dei Ds, Pietro Gasperoni: «Gli aspetti giudicati insufficienti sul mercato del lavoro non possono oscurare la positività complessiva di un negoziato e del suo risultato finale che rappresenta un passo avanti molto importante per i lavoratori i giovani e i pensionati. Toccherà ora al parlamento - prosegue - fare la propria parte, valutandolo nel merito in ogni sua parte e trasformarlo in legge, sapendo che in caso contrario, ne subirebbero un danno proprio i lavoratori i pensionati e i giovani. Sono totalmente ingiuste - aggiunge il dirigente della Quercia - le accuse di incoerenza rivolte al ministro del lavoro, che si è invece distinto per l'equilibrio e la pazienza con cui ha tessuto la trama di un accordo con le parti sociali che solo pochi giorni fa sembrava impossibile».

l’Unità 26.7.07
Fiction, Mediaset vuole Basaglia
di Toni Jop


L’hanno capita a Mediaset: la gente, deprivata del vissuto da una virtualità che affoga nell’omologazione, vuole storie. La tv è come un nonno che non c’è più, quello che faceva sognare i nipotini nelle notti d’inverno e non c’è modo migliore per sostituirlo che incantare un immenso pubblico di bimbi cresciuti con sequenze di immagini fluttuanti in un mare di «sentimenti». Eccoli quindi, con una presunzione di programmare tempo e azioni teneramente sovietica, sbottigliare denaro, temi, interpreti e contenuti di un rosario di racconti che, in tv, vanno sotto il nome di fiction. Non cinema - anche se dà fastidio ai dirigenti Mediaset questa distinzione - ma film per la tv, e cioè un prodotto la cui qualità si misura quasi esclusivamente sul piano commerciale: se vende è buono, sennò puzza. Sennonché, pur sdraiata sulle innocenti bancarelle dell’offerta televisiva, questa non è materia inoffensiva, cioè è importante, tocca cuore e cervello di milioni di persone, tendenzialmente ne forma o assesta i comportamenti, i giudizi. Ci torniamo su. Intanto, hanno deciso di spendere 250 milioni l’anno per confezionare fiction. Gli va di abbandonare la miniserialità, due puntate e via, scegliendo la formula della botta unica, 100 minuti in una serata. Poi, hanno intenzione di setacciare la storia recente del paese per localizzare vicende particolarmente ricche di significato da tramandare ai posteri. Buona idea: fin qui ci hanno stramazzato con una sequela di papi ottimi e di santi commoventi; allarghiamo il campo, venga mai in mente, a qualcuno che può, di raccontare la storia di uno di quei tanti papi che hanno umiliato il Vangelo con le loro zozzerie. Intanto, notizia bomba, hanno annunciato che costruiranno tre eventi tv sulla vita di Franco Basaglia - lo psichiatra che ha fatto chiudere quella schifezza dei manicomi e ha liberato i reclusi - , sulla tragedia di Vermicino, sul G8 di Genova. Materia sensibile molto, una sorta di album morale del paese, una bella responsabilità. Alla domanda se abbiano in qualche modo affrontato preliminarmente la questione culturale nel suo complesso che scrivere di fatto la storia, anche se per la tv, comporta, Alessandro Salem, direttore generale dei contenuti Mediaset, ha risposto che non si sono posti il problema ideologico e che lavorano semplicemente a un buon prodotto che va venduto. Non sappiamo se rallegrarci o allarmarci per questa bella lievità di intenti. Anche perché lo spettro della fiction Mediaset è molto ampio e intende coprire i settori chiave dell’attenzione del pubblico: sociale, action-detection, commedia, universo femminile (magicamente ridotto da Salem al rosa-sentimenti), giovani (e dagli con i pruriti scolastici). Una fioritura di blocchi da sei puntate: su Buscetta (vedremo come se la cavano con gli stallieri di Arcore), sulla mafia della Squadra antimafia e una pioggia di ospedali e sale operatorie in cui tra un bacio e l’altro ti fanno a pezzi, una squadra di carabinieri ecologici, un tuffo nei servizi segreti (siamo tutt’orecchi); insomma, la vita è una caserma e soprattutto una divisa. Va capito se vogliono entrare nella vita reale o se invece riusciranno, forse loro malgrado, a oscurarla. Vanzina e Abatantuono scritturati per far ridere (sono bravi), Ferilli farà la spogliarellista che di giorno arrotonda accudendo bimbi (vorremmo Totò nella parte di un bimbo) etc. etc. È gente collaudata, ce l’abbiamo nel sangue la capacità raccontarcela su, funzionerà: venderemo anche all’estero e saremo tutti più ricchi e felici.

l’Unità 26.7.07
Così fan tutte in questo «Orlando Furioso»
di Giulio Ferroni


Ricostruita, sulla base delle dodici copie superstiti sparse in tutto il mondo, la prima edizione dell’opera di Ariosto, uscita nel 1516, e che, dopo un primo momento di straordinaria fama, scomparve dalle scene

Ugo Foscolo racconta che quel suo alter ego paradossale e umoristico che egli chiama Didimo Chierico, traduttore del Viaggio sentimentale di Sterne, «ventilava da sé» certe sue indefinite «controversie» con l’Ariosto, e un giorno, mostrando «dal molo di Dunkerque le lunghe onde con le quali l’Oceano rompea sulla spiaggia, gridò: Così vien poetando l’Ariosto». È forse la definizione più bella e sintetica che sia stata data dell’autore e del suo grande poema. L’Orlando furioso è davvero come il mare, con onde ora impetuose ora dolci che vanno e vengono: si avvolge attorno alla mente del lettore, si frange e si ricompone, non ha mai sosta in un movimento che da tutta la realtà estrae una sorta di schiuma luminosa, splendente, dai riflessi d’oro che nascondono pieghe oscure ed insondabili; trasporta i detriti più eterogenei, personaggi, vicende, immagini, modelli, forme, parole della tradizione letteraria classica e volgare, trasformandoli in un nuova originalissima narrazione, nello stesso tempo infinita e dai certi confini.
Proprio per la sua accecante luce, per la ferma inarrestabile sicurezza del suo ritmo, per la molteplicità degli elementi che lo compongono, l’Orlando furioso può lasciare inquieti ed esitanti anche lettori molto raffinati, suscitando questioni e «controversie». Manifestò ad esempio un vero e proprio fastidio nei suoi confronti Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che pure diede il nome ariostesco di Angelica alla fascinosa protagonista del suo Gattopardo. E in fondo il Furioso resta troppo trascurato e pochissimo letto nel nostro paese e nella scuola: sembrano molto lontani certi grandi rilanci degli anni ’60, dalla passione ariostesca di Italo Calvino (anche autore nel 1970 di una bellissima sintesi narrativa che è anche guida e percorso di interpretazione, Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino) al formidabile spettacolo di Luca Ronconi (che per il testo si avvaleva della collaborazione di Edoardo Sanguineti).
Ma se si prova oggi a percorrere il poema, magari ancora con la guida di Calvino, non si può non restare catturati dal gioco sempre mobile delle armi e degli amori, dagli scatti verso la più dispiegata evasione fantastica, dall’ironia che corrode la stessa consistenza dell’invenzione, dal prezioso ricamo di figure e di forme ricavate dalla tradizione classica. Tutto vi si fonde e si riavvolge in una incessante clausola di bellezza: volta per volta, alla fine di ognuna delle ottave di cui è fatto il poema, sembra giungere a termine qualcosa che non ha termine, il respiro stesso del tempo e del mondo, catturato e contemporaneamente fatto evaporare e disperdere. L’Ariosto muove verso una bellezza solare e fuggitiva, che ha un emblema nella rigogliosa, esuberante, indifferente, inafferrabile Angelica: la donna amata da Orlando e da tanti cavalieri, il cui fascino è proprio nel rivelarsi, offrirsi e poi sottrarsi in squarci improvvisi, tra quasi infantili timori e repentini capricci. Nella sua libera misura dello spazio e del tempo, il poema proietta i più vari riflessi della realtà, come distillandoli, privandoli della loro densità materiale; trasforma la stessa ripetitiva banalità degli scontri cavallereschi, infinite volte raccontati nella precedente letteratura, in giochi di concertanti simmetrie, in combinazioni che si cancellano nel momento stesso in cui si danno. È una bellezza che ingloba l’errore, il limite, la vanità delle esperienze e dei desideri, l’insufficienza del sapere e della vita sociale, l’impero dell’illusione, della simulazione e dell’inganno (fino al limite della follia); e insieme la fedeltà, la dolcezza dei sentimenti, il senso dell’onore e del coraggio. Bellezza trionfante e insieme amara, insidiata dalle contraddizioni infinite di cui è fatto il mondo, dalla stessa realtà storica contemporanea su cui apre molteplici squarci: una bellezza con cui sarebbe essenziale confrontarsi oggi, che siamo assaliti da un’esibizione di bello esteriore, da consumare e da violare, in una moltiplicazione translucida e plastificata, invasione pubblicitaria e turistica, che esclude ogni autentica esperienza.
Al risultato ultimo del suo capolavoro, nell’edizione in 46 canti stampata nel 1532, l’Ariosto giunse attraverso un lungo impegno di correzione e di ampliamento rispetto alla prima edizione in 40 canti apparsa nel 1516 (e replicata con minori modifiche nel 1521): i filologi sono da tempo abituati a studiare quella prima edizione, a mostrarne il carattere originale, l’interesse che va al di là dei pur necessari confronti con l’edizione definitiva. Attesa da tempo, risultato di grande importanza, uno degli esiti più essenziali degli studi di letteratura italiana degli ultimi anni, ne è da poco uscita un’elegantissima edizione moderna, costruita con rigorosi criteri filologici, con l’analisi di tutti i 12 esemplari superstiti della stampa del 1516, probabilmente equivalenti all’1% della tiratura totale (Orlando furioso secondo la princeps del 1516, edizione critica a cura di Marco Dorigatti, con la collaborazione di Gerarda Stimato, Olschki, novembre 2006, pp. CLXXX-1071, euro 88,00), con il patrocinio dell’Istituto di Studi Rinascimentale di Ferrara. E se proprio Ferrara ha visto apparire quella prima stampa, sotto il diretto controllo dell’autore (l’Orlando furioso è il primo grande capolavoro della letteratura mondiale concepito espressamente per essere destinato alla stampa), è significativo anche il fatto che la presente edizione sia sorta sotto l’insegna della moderna, vitalissima Ferrara. L’interesse di questo testo non sta soltanto nel suo porsi come una prima provvisoria forma del grande capolavoro, ma proprio nei suoi originali caratteri, che permettono di leggerlo quasi come un’opera a sé, qualche cosa di parzialmente diverso dall’esito finale. Anzitutto dal punto di vista linguistico: vi si impone la presenza di tante forme sia di tipo «lombardo» o «padano», che di tipo latineggiante: nella revisione l’Ariosto si uniformerà al modello del fiorentino classico proposto dal suo amico Pietro Bembo, che darà al poema una misura più pastosa, più preziosamente fusa, più elegantemente congruente con il suo ritmo e con il suo disegno di bellezza. Ma, al di là dei dati linguistici, è lo stesso orizzonte generale del poema a configurarsi, nel 1516, in un più stretto legame con Ferrara e con gli eventi che si stavano verificando in quegli anni, carichi di vicende con cui l’autore si confrontava anche con impegni e incarichi in prima persona. Gli anni della redazione del primo Furioso sono proprio quelli della fase più acuta e vorticosa delle guerre d’Italia, in cui i giochi tra i signori italiani e gli invasori spagnoli e francesi non sono ancora chiusi: la fase che tocca più da vicino i territori della Ferrara estense e vede il diretto impegno personale dei signori dell’Ariosto, il duca Alfonso e il cardinale Ippolito, in stretta alleanza con la monarchia francese. Sulle vicende cavalleresche e belliche dei paladini di Carlo Magno e dei loro nemici Saraceni si proietta esplicitamente, con diretti richiami, l’eco delle guerre contemporanee alla stesura del poema. Così il primo Orlando furioso dà anche un effetto di presa diretta su una storia e una vita sociale tutt’altro che armoniche; la sua scrittura si fa davvero strada tra il clamore delle battaglie, tra gli intrecci diplomatici, tra le missioni avventurose di cui l’Ariosto fu talvolta costretto a farsi carico. Questa bruciante realtà non viene affatto cancellata in una pura evasione fantastica, ma viene interrogata, seguita nei suoi precisi sviluppi, dalla guerra della lega di Cambrai del 1509 all’avvento al regno di Francia di Francesco I e alla sua vittoriosa discesa su Marignano (1515). Questo del 1516 è insomma un romanzo «ferrarese», segnato da un effetto di immediatezza e di violenta lacerazione, che non si perderà nella redazione definitiva, che espanderà la sua prospettiva in una chiave di modello italiano ed europeo, come proiettando in una piena maturità letteraria quell’inquieto presente e la condizione stessa dell’Italia ormai in mano al predominio spagnolo ed imperiale: l’opera si porrà allora come la cifra e il segno più essenziale di quell’identità letteraria in cui per secoli si riconoscerà il carattere unitario della cultura del nostro paese; e in ogni modo vi persisterà l’eco profonda di quella lacerazione, entro un’affermazione di vita e bellezza al di là del tempo e al di là dei disastri della storia.
Già pienamente all’opera sono comunque in questa redazione del 1516 tutti i caratteri determinanti dell’universo ariostesco: la forza dell’immaginazione, i dati simbolici e fantastici, l’ironia, il senso della contraddizione, dell’illusione e dell’errore, l’alternanza tra comico e tragico, e ancora i pungenti e ambivalenti sviluppi di certe novelle raccontate dentro il poema. Tra queste mi piace ricordare quella del canto XXVI (XXVIII nella redazione del 1532), sulla tematica dell’infedeltà femminile, che traccia una strada che condurrà fino a Così fan tutte di Mozart. Questa novella rivela anche rapporti e suggestioni con il vicino Oriente, riprendendo molti tratti (probabilmente attraverso la mediazione di un singolare avventuriero veneziano, Gianfrancesco Valier) dalla storia quadro delle Mille e una notte, che ora si può leggere nella versione originaria di un manoscritto siriano del secolo XIV o XV, tradotto per Donzelli da Roberta Denaro (con prefazione di Vincenzo Cerami, pp.XVII-605, euro 29,50). I personaggi della novella ariostesca partono alla ricerca impossibile della fedeltà femminile, dopo esser venuti a conoscenza dei tradimenti delle rispettive mogli, come i fratelli Shahriyar e Shahzaman nelle Mille e una notte; nella raccolta araba sarà Shahrazad a riscattare il mondo femminile, con la sua resistenza di narratrice che scalza l’efferata crudeltà vendicatrice di Shahriyar; nel Furioso sono i maschi stessi a prendere atto dell’inevitabilità dell’essere traditi e finiscono per evitare esiti violenti, accettando con spirito di disillusa tolleranza il fatto che «così fan tutte». Dietro i luoghi comuni della tradizione misogina si affaccia lo spirito ironico, il senso del limite, un barlume di femminismo, quella ragione illuminista di cui l’Occidente e l’Oriente hanno ancora tanto bisogno.

Repubblica 26.7.07
Prima e dopo la cesura del 1968
La Chiesa e il periodo della contestazione
di Edmondo Berselli


Non si riferiva alla rivolta antiautoritaria, ma alla soggettività posta al centro della società
Papa Ratzinger ha definito, a ragione, quegli anni "una fase di crisi della cultura in Occidente"

Il Sessantotto, ha detto papa Ratzinger, è una «cesura storica», e su questo sarebbe difficile dissentire. Ma poi ha aggiunto che rappresenta una fase di «crisi della cultura in Occidente», conferendogli un tratto di grandezza: anche perché lo ha affiancato a un´altra profonda cesura, «l´Ottantanove come crollo dei regimi comunisti». Ora, è vero che il pontefice si riferiva ai contraccolpi che la tempesta sessantottesca determinò sul cattolicesimo post-conciliare: ma è l´espressione «crisi della cultura» che sollecita una riflessione. E non soltanto perché ci troviamo a un passo dal quarantennale del Sessantotto, che scatenerà un fiume di reinterpretazioni, ma perché sembra di cogliere nelle parole di Benedetto XVI un giudizio che su quell´anno fatale proietta un alone intensamente negativo. Crisi della cultura, dunque. Non c´è dubbio che il Sessantotto ha rappresentato una frattura, e che quindi nella vicenda occidentale, nelle società democratiche sviluppate, si può osservare un «prima» e un «dopo». Soprattutto in Europa, il maggio francese è stato l´epicentro di una rivolta che ha investito tutta la sfera della società e della politica: rivolta che si è manifestata in primo luogo contro le strutture e i simboli del potere (o meglio del Potere, con la maiuscola che si addice ai totem).
Nel suo estendersi in Germania e in Italia, la «contestazione generale» ha assunto caratteri specifici: se il maggio parigino aveva un contenuto insurrezionale, messo in pratica con modalità che prediligevano l´aspetto creativo e ironico, «l´immaginazione al potere», nella Repubblica di Bonn la ribellione si nutriva dei fermenti instillati dalla teoria critica di Adorno e dei francofortesi. Con il suo ordine conformista, il Modell Deutschland rappresentava agli occhi degli studenti un perfetto esempio empirico della «tolleranza repressiva» esorcizzata da Herbert Marcuse: la stabilità tedesca, ai tempi della Grosse Koalition fra Cdu e Spd, era un «sistema» che andava smascherato e messo a nudo nella sua intrinseca durezza fondata sul dominio di classe. Dunque c´era una differenza sensibile con il movimento francese: gli scontri degli studenti con la polizia nel Quartiere Latino non nascondevano un atteggiamento in cui la lotta coinvolgeva euforicamente l´immaginario: lo stesso frasario del Sessantotto a Parigi rivelava il lato ludico-situazionista della rivolta. Slogan come «Una risata vi seppellirà», «Vietato vietare» e «Siamo realisti, vogliamo l´impossibile» mettevano in chiaro quale fosse lo spirito dell´insurrezione: «Una follia estremistica», come la definì il generale de Gaulle, ma in cui emergeva la volontà di mettere a soqquadro, con le istituzioni, l´intero spettro degli stili culturali della tradizione.
I bersagli del Sessantotto erano l´autoritarismo, il paternalismo delle classi dirigenti, l´ossificazione ideologica della sinistra classica. L´avvento dei baby boomer sulla scena pubblica imprimeva un forte contenuto generazionale all´azione politica. Venivano messi in discussione i meccanismi del consenso, ma soprattutto gli istituti sociali della «repressione», a cominciare dalla scuola e dalla famiglia. Proprio per questo la ribellione parigina assumeva un profilo culturalmente radicale; e in questo senso si chiariva la differenza con il "movement" americano, tutto tematico, legato alla protesta contro la guerra nel Vietnam e ai diritti civili. La contestazione francese e più generalmente europea si esprimeva come un attacco ai nessi fondamentali della società dei padri, in cui la tonalità sovversiva era dominante. In questo senso, l´espressione «crisi della cultura» non risulta affatto fuori luogo. I linguaggi del Sessantotto erano la spia spettacolare di una critica senza appello alla tradizione.
All´aspetto libertario o anarchico tipico di un leader come Daniel Cohn-Bendit si affiancava a Berlino la tagliente ideologia di Rudy Dutschke, fondata sulla triade Marx-Mao-Marcuse. La carica distruttiva prevaleva sull´intenzione politica, la «controcultura» era un possibile fine in sé, la sovversione anche estemporanea era incorporata nel movimento come orizzonte praticabile prima di qualsiasi progetto o di qualsiasi programma. Anche in Italia il Sessantotto divenne il laboratorio di tutte le sinistre possibili: ma per certi versi con un orientamento più esplicitamente politico, e con l´idea di portare la protesta studentesca a fondersi con segmenti di classe operaia, superando e contestando la rappresentanza del Pci e del sindacato.
Ma più che dagli «eventi» rivoluzionari prodotti storicamente dalla rivolta, la «crisi» del Sessantotto è sintetizzata dal suo impatto complessivo, ossia dai suoi effetti materiali e immateriali. Un possibile bilancio, oggi, porterebbe con ogni probabilità a privilegiarne i profili sociali e culturali, prima che le ripercussioni sulle istituzioni. Se, sulla scorta di Tocqueville e di Hannah Arendt (che non nascose la sua simpatia per il movimento americano nei campus), si pensa che le rivoluzioni riescono quando producono assetti istituzionali nuovi ed efficaci, il Sessantotto non fu una rivoluzione. Fu invece il motore di un cambiamento sociale profondissimo, realizzatosi direttamente negli atteggiamenti e nei comportamenti collettivi e individuali. La «crisi della cultura» di cui parla il papa fu una rottura di paradigma che travolse la tradizione, innescando mutamenti ingentissimi nella configurazione sociale e finanche nel costume. Queste trasformazioni vanno identificate nella fine della deferenza verso l´autorità, così come nello stravolgimento dei canoni «morali» che presiedevano al rapporto fra uomini e donne; nell´emergere di una coscienza femminile che progressivamente portò al rifiuto dei ruoli di genere prefissati; in una enfatizzazione della cultura e dell´arte come avanguardia espressiva del conflitto; nella relativizzazione di tutti i codici, religiosi ma non solo, che istituivano le regole della vita privata e pubblica.
Già, «il personale è politico»: e basterebbe questa frase per dimostrare come il Sessantotto costituì effettivamente un principio di secolarizzazione. Mentre a distanza di quattro decenni altre caratteristiche della rivolta sono passate in secondo piano (il terzomondismo, per esempio, o la critica alla «società dei consumi», liquidata a partire dagli anni Ottanta dalla riscossa del mercato), sembra di poter osservare che l´aspetto tellurico del pensiero sessantottesco è dato dalla convivenza di due dinamiche: una spinta tutta rivolta al collettivo, alle interazioni di massa, alla «felicità pubblica» di Albert Hirschman, e una fase invece individualistica, che pone la soggettività e le sue pulsioni al centro delle relazioni sociali. Forse è questo secondo aspetto che oggi assume pienamente il senso di una frattura radicale rispetto al passato, e che probabilmente Joseph Ratzinger, custode della continuità con la tradizione, segnala come momento della crisi culturale dell´Occidente. Perché in fondo comincia lì il relativismo. Oppure, a seconda dei punti di vista, comincia o, meglio, accelera in quella fase, con ritmi ineluttabili, quel processo indistinto, anonimo, tendenzialmente irresistibile che in tutte le società avanzate non si può descrivere se non con il termine di modernizzazione.

Liberazione 26.7.07
Il presidente dei deputati di Rifondazione accusa il premier: «Su pensioni e welfare non ci ha garantito e non ha garantito il programma»
Migliore: «Prodi così non va»
Il protocollo sul welfare è la goccia che ha fatto traboccare il vaso
di Angela Mauro


«Sul welfare si è aperto un problema di trasparenza con Rifondazione»
Migliore: «Prodi è ancora garante di tutta l'Unione?»

Il protocollo sul welfare è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Le modalità con cui è stato elaborato e presentato ai sindacati dal ministro Damiano innescano la reazione dura di Rifondazione Comunista che, dopo aver denunciato a più riprese in passato le tentazioni egemoniche del costituendo Pd, chiama in causa colui che dovrebbe essere il garante della coalizione premiata alle elezioni: Prodi, premier di un governo targato (fino a prova contraria) Unione. «Si è aperto un problema con il Presidente del Consiglio Prodi, un problema di trasparenza nei rapporti con Rifondazione», denuncia il capogruppo alla Camera Gennaro Migliore, invocando un chiarimento perchè, spiega, «non si può arrivare alla Finanziaria in queste condizioni».

Prodi non garantisce più l'intera Unione?
Noi abbiamo sempre considerato il presidente del Consiglio quale garante degli impegni assunti dall'intera coalizione e infatti in passato abbiamo criticato singoli ministri, come per esempio Padoa Schioppa. Ma nella trattativa sul welfare, il premier ha lasciato che fosse presentata ai sindacati una proposta del tutto ignota ad una parte della coalizione e poi per giunta dichiarata inemendabile. A questo punto, si pone un problema di rapporti: non si tratta solo di divergenze perchè le divergenze si affrontano. Si tratta della cancellazione del diritto di partecipazione alla formazione delle decisioni. Del resto, il problema è stato segnalato anche dalla Cgil nella lettera a Prodi, seguìta alla trattativa a Palazzo Chigi. Lo stesso sindacato rimarca sul metodo: un procedere a tappe che ha riservato in coda la parte peggiore.

Ricapitoliamo le questioni, pensioni e welfare.
Sulle pensioni Rifondazione ha un giudizio articolato: consideriamo importante l'esclusione della platea di lavori usuranti dall'aumento dell'età pensionabile, la libertà di andare in pensione per chi ha 40 anni di contributi e lo studio per garantire ai giovani un rendimento minimo delle pensioni pari al 60 per cento rispetto all'ultima retribuzione. Per noi è però molto negativa la soluzione trovata sullo "scalone" Maroni, fatta di quote più scalini. Come pure, è per noi inaccettabile il fatto che, per compatibilità di bilancio, si limiti la platea degli esclusi dall'aumento dell'età pensionabile a cinquemila unità all'anno: la clausola, tra l'altro, non era nota ai negoziatori dell'accordo. Infine, è arrivata la proposta sul mercato del lavoro che non va nella direzione del programma, cioè quella del superamento definitivo della legge 30. Avrei accettato una presa di posizione che fosse in linea con il programma, pur facendo a meno di una consultazione collegiale nel governo. Ma siccome non si rispetta il programma, non capisco che tipo di rapporto Prodi voglia avere con una parte considerevole della maggioranza.

La proposta?
Non consideriamo accettabile l'ipotesi di inemendabilità del testo. Ci batteremo a colpi di emendamenti in Parlamento e con la mobilitazione sociale nel Paese per garantire il rispetto del programma sia sullo "scalone" che sulla precarietà. La crisi della politica sta nel suo scollamento da alcuni settori sociali, dalla base materiale del consenso all'Unione e a Prodi. Il problema della precarietà è drammatico anche per questo, oltre che essere drammatico in sè. Se la risposta alla crisi della politica è cancellare queste istanze, vuol dire che c'è una cattiva interpretazione del mandato ricevuto dagli elettori.

Alla luce dei continui appelli di Rutelli, che parla di "alleanze di nuovo conio", e Fassino, che indica la necessità di "discutere di scenari più avanzati", sembra difficile a questo punto salvare l'Unione.
Trovo insaziabili le richeste di Fassino e Rutelli. Dopo che il Partito Democratico ha imposto il suo punto di vista, in principi e sostanza, su welfare e pensioni, adesso si arriva a dire che la stessa alleanza non risponde alle esigenze e necessità del costituendo Pd, si cerca così di cancellare l'evidente perdita di consensi. Noi siamo interessati a non cambiare l'ordine del ragionamento. Gli "scenari più avanzati" di cui parla Fassino verranno poi sottoposti al giudizio elettori, nel caso. Le maggioranze di nuovo conio di cui dice Rutelli rischiano di avere la valuta fuori corso perchè guardano solo al palazzo. Io vedo dissolta non tanto l'opposizione a Berlusconi, quanto lo spirito che ha condotto poco più della metà del paese a voler cambiare il governo delle destre: l'Unione appare prigioniera delle logiche di palazzo. Oggi, invece, c'è da dare risposte a chi ha votato, il problema è che fine faranno milioni di precari nel nostro paese. Non si tratta di dire "governo sì, governo no", ma di verificare la sua effettiva possibilità di realizzare il patto con gli elettori. Per questo ci rivolgiamo a Prodi.
Il governo deve avere la consapevolezza che noi vogliamo discutere punto per punto, a partire dal programma, di quali sono gli impegni con gli elettori e con tutto il paese per non arrivare alla Finanziaria in condizioni di reciproco non ascolto: bisogna affrontare i prossimi mesi a occhi aperti e con pieno riconoscimento reciproco.

Il Prc chiama Prodi, Mussi chiama Veltroni...
Non entro nel merito delle decisioni di Mussi. Noi dobbiamo iniziare a chiedere e proporre in Parlamento soluzioni che vadano a risolvere il problema creato dall'accordo del 23 luglio. Non mi sento di appellarmi a Veltroni: se sarà indicato come leader del Pd, a quel punto potremmo aprire un'interlocuzione, ma non mi appello a lui. Mi appello a milioni di persone, deluse dall'esito dell'accordo.

Le divergenze sulle pensioni inficiano il percorso unitario a sinistra?
Il forum di martedì scorso tra i leader di Rc, Sd, Pdci e Verdi è stato molto positivo, ci sono stati elementi di avanzamento, a partire dall'accoglimento della nostra proposta di manifestazione nazionale unitaria in autunno e poi il fatto che vi possa essere anche una forma più stabile di coordinamento. Proprio oggi (ieri per chi legge, ndr.) abbiamo rilanciato il patto per il clima siglato da tutti e quattro i partiti della sinistra e anche dallo Sdi: è una sfida della sinistra plurale al Partito Democratico in vista della Finanziaria 2008 sul terreno delle emergenze climatiche.

Per Rifondazione resta in piedi l'ipotesi di una consultazione autunnale del proprio popolo per verificare l'opportunità di rimanere al governo?
E' il percorso avviato nell'ultimo comitato politico nazionale perchè è giusto fare i conti con il proprio referente sociale quando si è ad un passaggio così stretto della democrazia. E' anche una cessione di sovranità. Detto questo, penso sia necessario procedere in modo spedito verso il soggetto unitario e plurale della sinistra, che può rappresentare una svolta e dare più forza alle battaglie sociali.

Oltre che affermare, come ha fatto con Liberazione, che la sinistra deve essere innanzitutto anticapitalista, la Rossanda, sul manifesto , accusa tutti gli attori del percorso unitario di fermarsi allo stadio della "insopportazione delle cose esistenti", nulla di più.
La sinistra deve avere una visione: unità non significa solo dare un contributo di efficacia all'azione politica dei singoli partiti, ma vuole dire anche avere una visione generale della società, qualcosa di paragonabile alla controffensiva della destra più estrema che lavorando sui fondamenti della cultura reazionaria riesce purtroppo a prevalere nel senso comune, entrando anche nel cuore del centrosinistra.
Dobbiamo riconquistare il primato delle idee per una società diversa e questo si fa mettendo insieme esperienze tra di loro diverse, tradizioni che fino ad oggi non avevano trovato altra sede che quella istituzionale per confrontarsi. Si tratta di seguire quella densità di emozioni e progetti politici che io ho riscontrato nell'esperienza del movimento dei movimenti, dove nessuno, come prima domanda, ti chiedeva "di che partito sei?", ma se eri stato a Genova o al Forum Sociale di Porto Alegre. Saper elaborare una visione della trasformazione della società serve a ricreare le condizioni perchè la sinistra possa continuare ad esistere politicamente.

Per continuare con la Rossanda, lei punta il dito anche sulle risposte di Rifondazione e Pdci sul fallimento del socialismo reale...
Con tutta la modestia del caso, devo dire che su questo punto stiamo cercando di lavorarci da molti anni. La critica non violenta al potere è una critica attraverso la quali si possono determinare gli strumenti di controllo e dominio nella società attuale. Quando diciamo "critica non violenta" parliamo di critica al potere in sè come finalità dell'esercizio del governo, della invasività della sfera del dominio violento, fin negli ambiti più reconditi. Una cultura violenta al servizio del mercato può distruggere i fondamenti della vita stessa: pensiamo a cosa sarebbe successo se l'innovazione tecnologica attuale fosse stata a disposizione dei nazisti. E poi parliamo di critica non violenta all'economia, come critica della neutralità sovraordinatrice dell'economia rispetto alla vita. Tradotta nelle vicende che interessano oggi il governo significa critica alle grandi strutture sovranazionali - la Bce, l'Fmi - cui questo governo è attento più che al suo stesso popolo.

Ultima domanda: legge elettorale. All'indomani della consegna delle firme in Cassazione, i leader del Pd sembrano frenare sul referendum. Sono cresciute le possibilità di intesa in Parlamento?
Si deve fare una proposta che coinvolga anche l'opposizione, che sia chiara e limpida per il paese e che sia costruita per via parlamentare. Noi non abbiamo partecipato alla raccolta delle firme anche perchè il referendum non manterrà la promessa di risolvere il problema della frammentazione politica. Gli italiani ci hanno dato mandato di cambiare la legge elettorale attuale e un guazzabuglio come quello referendario peggiorerebbe la situazione. Secondo noi, la soluzione più praticabile è il modello tedesco che ripropone il tema della rappresentanza delle forze politiche e della chiarezza.

Liberazione 26.7.07
Il leader di "Sinistra democratica": «Fermare lo strapotere del Pd e l'attacco centrista, ricontrattare programmi e composizione del governo»
Salvi: «E' un governo monocolore»
di Frida Nacinovich


«La sinistra, unita, deve chiedere un chiarimento politico»

Senatore Salvi, iniziamo dalla fine. Che ne pensa della proposta Prodi-Damiano sul welfare?
Scandalosa. Nei contenuti e per il modo in cui è stata presentata. Viene definita inemendabile una proposta che non è neppure passata dal Consiglio dei ministri.

Un'altra domanda di carattere generale: che succede a palazzo Chigi?
Il governo è diventato un monocolore del Partito democratico ed è in atto un'offensiva neocentrista, che tende a fare della sinistra il capro espiatorio politico, sociale e culturale della crisi di consenso che il governo attraversa.

Però Damiano e Prodi un merito l'hanno avuto, sono riusciti a rimettere insieme la sinistra, la "cosa rossa".
Il governo è in profonda crisi di consenso, anzitutto nel mondo del lavoro dipendente. Lo conferma la ricerca pubblicata domenica scorsa dal "Sole 24ore", può confermarlo chiunque si faccia un giro per strada. Il governo è in crisi per le politiche neocentriste che ha portato avanti e vuole addossare la responsabilità alla sinistra. Questo è il tema che abbiamo tutti di fronte oggi, che mi fa a dire che bisogna accelerare la costruzione del soggetto politico unitario della sinistra.

C'entra anche questo con il destino del governo Prodi?
Prima di tutto bisogna fare una riflessione sul rapporto con questo governo. Io non credo che le alternative siano: ripetere il '98, o alla fine votare per salvare il governo e far passare qualsiasi cosa. Io penso che debbano essere modificate, emendate le proposte sul pacchetto sociale del governo. Però dobbiamo anche guardare in faccia la realtà: questi emendamenti chi li approva in Parlamento? Non arrivo nemmeno al momento in cui il governo porrà la fiducia sulla Finanziaria, come già preannuncia Damiano. La Finanziaria comincia in Senato, noi faremo i nostri emendamenti. Poi? Secondo me la sinistra unita deve chiedere un chiarimento politico al governo.

Si potrebbe parlare di una "trattativa sindacale" tra sinistra e centro dell'Unione?
La sinistra deve ricontrattare il programma. Il programma dell'Unione viene quotidianamente stracciato. La proposta di Damiano sul lavoro è l'esatto opposto di quello che c'è scritto nel programma. In Senato i gruppi della sinistra stanno lavorando unitaraiamente, puntiamo ad ottenere risultati importanti, ma è evidente che c'è un tema politico generale al quale non ci si può sottrarre.

Di unità della sinistra se ne parla parecchio. Come la vede il senatore Salvi?
Bisogna decidere da subito che cosa fare insieme alla ripresa dei lavori. La verifica di programma, la revisione della struttura del governo. Bisogna ammettere che nella formazione del governo all'inizio c'è stata una sottovalutazione. Ho parlato di monocolore del Partito democratico perché in tutti i posti che contano ci sono esponenti del Pd.
La sinistra ha accettato - fra l'altro allora non eravamo ancora una forza autonoma - di essere marginalizzata. Questa è la condizione peggiore. Ci fosse stato un ministro del Lavoro di sinistra a colloquio con i sindacati, siamo sicuri che fino alle quattro di notte si sarebbe verificato quel che è successo? Un governo pletorico, scandaloso nella sua composizione, 102 membri - non è vero che è colpa della legge elettorale - di cui l'80% sono del Partito democratico che ha nove viceministri su dieci e la grande maggioranza dei sottosegretari. La sinistra ha accettato che il Partito democratico avesse tutte le leve di comando. Si protesta quando non viene riunita la coalizione, ma Prodi può sempre rispondere: io ho chiamato i due vicepresidenti, il ministro del Tesoro, il ministro del Lavoro...

Come si esce dal vicolo cieco del governo monocolore?
Credo che la sinistra debba porsi e porre il tema di un chiarimento politico. Anche per salvare la coalizione di centrosinistra. Se il governo si regge su due gambe - il Partito democratico e la sinistra - ci deve essere pari dignità. Invece ho l'impressione che ci sia in campo un progetto per logorare la sinistra. Lo ripeto, il problema non è: usciamo o restiamo nel governo. Il problema è ridiscutere all'interno della maggioranza, visto che al momento nessuno è in grado di individuare soluzioni di governo che facciano a meno della sinistra.

Intanto il Partito democratico va avanti a tappe forzate.
Il manifesto di Veltroni è inquietante, ma il disegno mi pare chiaro. Non escludo che nel Partito democratico ci sia chi pensa di cavalcare il referendum elettorale per poi andare a votare con quella legge. Ma anche su questo punto il piddì rivela un'arretratezza di pensiero. Singolare contemporaneità, il 3 luglio del 2007 si sono presentati alle rispettive Camere il governo francese e il nuovo governo britannico. Entrambi per dire: più potere al Parlamento. Sarkosy ha detto: introduciamo una quota proporzionale. Gordon Brown ha detto: il primo ministro deve restituire agli eletti del popolo una parte dei suoi poteri, a cominciare da quello di sciogliere il Parlamento. Perché lo fanno? Forse per bontà d'animo? Si rendono benissimo conto che in una democrazia moderna il decisionismo richiamato da Veltroni non funziona. Non funziona neppure con i tassisti. E quindi capiscono che la democrazia per decidere oggi ha bisogno di più partecipazione, di costruire consenso, di valorizzare il Parlamento. Invece qua vogliono far passare tutto a colpi di fiducia. E si progetta ancora di peggio. Il disegno mi pare chiaro: una democrazia para presidenzialista, un presidenzialismo casereccio che faccia fuori la sinistra.Naturalmente è un disegno molto miope, si illude di separare l'Udc e la Lega da Berlusconi e Fini, prepara un'altra sconfitta come già fu quella del 2001.

E la sinistra unita? Si sta muovendo?
Noi dobbiamo reagire senza scomporci. Con serietà, con attenzione, facendo le nostre proposte. Il primo anno di governo è andato malissimo. Sulle pensioni si è accumulato tutto il malcontento. Persino oltre il merito del provvedimento. Sono state viste come il condensato di tutto ciò che non va. Perchè, lo ripeto, il progetto politico di una parte della maggioranza è quello di scaricare sulla sinistra la perdita di consenso dovuta alle scelte monocolori del Partito democratico. E la sinistra è gravemente in ritardo, anche perché non affronta i nodi veri.

Cerchiamo di scioglierli, questi nodi.
C'è la questione del governo, su cui dobbiamo operare da subito insieme. C'è stato un momento in cui i quattro ministri si sono mossi all'unisono e hanno ottenuto un risultato. Ora i quattro ministri dicano che la proposta di Damiano è la proposta di Damiano e niente più, almeno finché non passa dal Consiglio dei ministri. Altro che inemendabile. Poi c'è una piattaforma da costruire. Faccio una proposta: l'"Associazione per il rinnovamento della sinistra" ha elaborato un documento. Non credo che siano le tavole della legge, ma offriamola a tutti e cinque i partiti della sinistra.

Chi oltre a Rifondazione, Comunisti italiani, Verdi e Sinistra democratica?
Non ci devono essere esclusioni preventive nei confronti di nessuno, se poi qualcuno si vuole autoescludere naturalmente se ne prende atto con rispetto. Ma torniamo al documento dell' "Associazione per il rinnovamento della sinistra": è una base programmatica, ideale, nella quale ci riconosciamo, si possiamo fare cambiamenti.

Quale sarà il minimo comun denominatore di questa sinistra?
Voglio affrontare in particolare due temi politici. Il primo: qual è il giudizio sul Partito democratico? Non è irrilevante. Spesso sento parlare di sinistra riformista e sinistra alternativa. Veltroni come Segolene? Non sono d'accordo. Noi siamo usciti, non siamo entrati nel piddì perché riteniamo che sia un partito neocentrista. Discutiamone. Sono evidenti le implicazioni: se pensiamo che Veltroni sia come Segolene, lo spazio che ci rimane è quello della sinistra alternativa. E segnalo che in Francia è già stata travolta. Se invece pensiamo che il piddì sia un partito neocentrista, l'esigenza che si pone alla sinistra italiana è di altro genere. E ancora: affrontiamo la questione del socialismo europeo. Non chiedo di aderire al Pse, ma di dare un giudizio politico sulle socialdemocrazie e sul Pse. Tutto da buttare? Ragioniamo. Io ho fatto una scelta socialista e socialdemocratica nell'89. Voglio che ci sia dibattito. Mezzo secolo di storia non è servito a niente? Cos'è oggi il Pse, come è cambiato? Tutto questo è importante, così come è importante fare un partito, perchè serve un partito della sinistra italiana. Certo, al nostro interno ci sono identità culturali diverse ed è giusto che ne sia tenuto conto, ma attenzione a parlare di federazione. Perché va tutto bene, ma se fare una federazione significa assemblare i ceti politici, non avremo ottenuto un grande risultato. E se ci dobbiamo provare, proviamoci fino in fondo.

Torniamo all'inizio: la proposta Damiano-Prodi.
Segnalo una particolarità: il teso proposto da Damiano è la fotocopia del disegno di legge di Forza Italia Sacconi ed altri, presentato il 13 giugno. Perché è identico? Forse Damiano l'ha preso da Forza Italia? Semplicemente l'hanno preso tutti e due da Confindustria. Ecco il testo, puoi fare il confronto. Come è possibile andare avanti così? Peggio di Sarkosy, che almeno le trentacinque ore le ha lasciate.Parliamo dei contratti a termine. Nel programma dell'Unione c'è scritto divieto di reiterazione, ci propongono un sistema che istituzionalizza il precariato. Invece la legge che noi della sinistra abbiamo proposto sul tempo determinato è a costo zero. Non possono dir nulla Padoa Schioppa, Triche, il fondo monetario, l'Oxe, Almunia. Anzi, ci dovrebbero ringraziare. Abbiamo diminuito i costi della politica, noi chiediamo che quei fondi siano messi in Finanziaria e usati a fini sociali.

Non sarà facile accordare i toni tra i firmatari del manifesto dei "coraggiosi" promosso da Francesco Rutelli e chi ancora pensa, crede e agisce a sinistra?
E chissà dove andranno a manifestare questa volta i "coraggiosi" di Rutelli. Ci vuole un certo coraggio per dire quello che dice Draghi nei suoi interventi.

Liberazione 26.7.07
Perché destra, sinistra, giornali, Tv ignorano la realtà e parlano d'altro?
C'è un problema gigantesco: il salario non basta a vivere
di Ritanna Armeni


Mi chiedo perché la sinistra non sollevi il problema del salario. Perché i sindacati non facciano una o più vertenze su questa questione. Perché i giornali di sinistra non organizzino campagne di denuncia per le retribuzione ormai vergognosamente basse delle lavoratrici e dei lavoratori italiani. Perché accanto a tante questioni politiche, culturali ed economiche non ci sia anche questa e su questa non dicano la loro tutti coloro - a destra e a sinistra - che non ci risparmiano la loro opinione su nulla.
I salari, gli stipendi, le pensioni oggi sono largamente insufficienti, il costo della vita è incredibilmente alto. La sinistra non dovrebbe ascoltare la società, i suoi bisogni più profondi anche quelli che non hanno la possibilità di essere espressi pubblicamente, di occupare le pagine dei giornali? Potremmo fornire dei dati che testimoniano sulle retribuzioni siamo i fanalini di coda dell'Europa. Potremmo dare altrettanti dati e numeri sui profitti che sono incredibilmente aumentati. Potremmo aggiungere quelli sull'aumento delle diseguaglianze anch'esse cresciute smisuratamente. Ma lascio tutto questo a qualche bravo sindacalista ed economista di sinistra. Loro i dati ce li hanno e li possono snocciolare con competenza in qualunque momento. Io mi limito a chiedere perché non si mette all'ordine del giorno questo problema.
A pensarci bene in Italia sulle retribuzioni c'è una rimozione che dura da oltre trent'anni. Il salario è diventata una cosa di cui non si discute, quasi fosse disdicevole e vergognoso, da quando con il referendum del 1984 è stato messo pesantemente in discussione e poi di fatto eliminato quel sistema di scala mobile che adeguava le retribuzioni al costo della vita. Una rimozione pericolosa nella quale a sinistra se ne è aggiunta un'altra. Oggi se si parla di retribuzione e di carovita si deve constatare che il divario è spaventosamente aumentato con l'introduzione dell'euro. E allora si potrebbe cadere nella campagna demagogica della destra che attribuisce all'euro e quindi a Prodi e quindi al governo di centro sinistra l'aumento del costo della vita.
Così si preferisce tacere. Tace il virtuoso difensore della nostra moneta, il presidente dalla Banca d'Italia Mario Draghi che fra i tanti numeri che fornisce, e le tante reprimende che propina, non insiste mai molto su questo punto. Tace Confindustria e si capisce perché. La questione non interessa né il fustigatore dei costumi professor Ichino, nè l'attento Francesco Giavazzi. Ma neppure Eugenio Scalfari. Né gli innumerevoli economisti di centro sinistra sempre più abili a trovare motivazioni di sinistra a scelte di destra.
Tacciono i partiti, quelli di destra perché pensano che va bene così, quelli di centro e di sinistra perché temono un'altra divisione interna. Tacciono i sindacati e davvero non se ne comprende il motivo. Tacciono i giornali. Mi piacerebbe che qualcuno facesse un calcolo. Quante volte hanno parlato negli ultimi anni delle retribuzioni? Quante inchieste sono state fatte sull'argomento? Ad occhio e croce solo quando qualche istituto di statistica ha fornito i dati sulla povertà. Poi silenzio.
Ma perché tace la sinistra che vuole rimanere sinistra? Perchè tace il sindacato? Credo che sia un errore. Credo che tra qualche tempo potrebbe anche avvenire che sia la destra a prendere in mano la questione, naturalmente a suo modo, come è avvenuto per le pensioni e come è avvenuto per il precariato. E che naturalmente costringa poi la sinistra ad una battaglia tutta in difesa, tutta di contestazione dei principi, in presenza di un'opinione pubblica già conquistata dalla ideologia dominante. Non è avvenuto questo per la trattativa sulle pensioni dove è passata l'assurda idea che gli anziani fossero contro i giovani? Non è avvenuto questo con la precarietà che è stata trasformata da moderna schiavitù ad una forma alta di libertà personale?
Qualche mese fa il presidente della Confindustria, della Fiat, della Ferrari ha detto che i lavoratori italiani sono dei fannulloni. Quella frase infelice e soprattutto la scarsa reazione che ha suscitato la dice lunga su che cosa si pensa dei salari.
Se i lavoratori italiani sono dei fannulloni pagarli da mille a mille e cinquecento euro al mese è anche troppo. Forse è arrivato il momento che i fannulloni e chi li vuole rappresentare facciano sentire la loro voce e chiedano che le retribuzioni vengano aumentate. Perché di una cosa sono sicura. Non si vincono quasi mai le battaglie sul terreno imposto dagli avversari. In quei casi si può fare solo testimonianza e si può spostare qualcosa, come la recente trattativa sulle pensioni ha dimostrato. Si vincono e si possono vincere le battaglie politiche e culturali quando si sceglie il terreno dello scontro. Allora per l'avversario diventa più difficile. Diventa più difficile per i partiti di destra il cui elettorato è largamente popolare dire che i salari vanno tenuti bassi. E' difficile per i moderati del centro sinistra definire estremista questa richiesta. Ed è difficile naturalmente, per i tecnocrati europei e per i loro sostenitori in casa nostra. In Europa i salari sono molto più alti che in Italia. E come può rispondere a questo problema un governo che consistentemente formato dalla sinistra, continua a fare scelte moderate e su altre nicchia?
Già, cosa pensa Romano Prodi dei salari dei lavoratori italiani? Ha una sua proposta? O pensa che vada bene così?

Liberazione 26.7.07
Il medico di Welby prosciolto, un passo avanti. Ma resta tanto da fare
Embrione e vita, le verità in tasca della chiesa
ma perché dobbiamo crederci tutti?
di Carlo Flamigni


Non ha ceduto alle pressioni della Chiesa il Gup che lunedì ha prosciolto definitivamente Mario Riccio, il medico di Welby che staccò la spina. Ma perché in Italia bisogna lottare anche per garantire norme elementari in un qualsiasi paese civile?
Diritto all'eutanasia, che pena aver bisogno di giudici coraggiosi

Il commento di Maurizio Mori alla decisione del Gup di chiudere definitivamente il procedimento nei confronti di Riccio, accusato, se non sbaglio, di omicidio del consenziente, è stato intitolato dall' Unità "Lode a un giudice che non ha avuto paura". Non ho capito subito quanto questo titolo mi dispiacesse, non so se accade anche a voi di arrivare alle conclusioni con ritardo, quando si tratta di cose sgradevoli, ho bisogno di rimuginarci un po'. Dunque, abbiamo bisogno di uomini coraggiosi, magari di eroi, persone delle quali un paese civile non deve, almeno in linea di principio, sentire la mancanza.
Siamo dunque un paese a civiltà limitata, un paese che vive sotto la dittatura dell'embrione, della sacralità della vita, delle verità rivelate, e che non riesce a far valere i fondamentali diritti dei suoi cittadini, quello all'autodeterminazione, ad esempio, o quello alla libertà di coscienza, o persino quello di poter godere dei privilegi considerati come assolutamente elementari in un qualsiasi stato laico. E tutto ciò per una ragione francamente assurda: le ipotesi, le speranze, i convincimenti di alcuni, pur essendo le mille miglia lontane da qualsiasi possibilità di essere dimostrati veri (non credo francamente che la fede sia una testimonianza attendibile in un qualsiasi tribunale civile minimamente "coraggioso") sono stati trasformati in leggi dello stato e costringono persone convinte di essere portatrici di differenti verità - o di nessuna verità - a ubbidire e a comportarsi in modi che queste stesse persone considerano indecorosi e sbagliati. Così si impone a cittadini che non credono nell'esistenza di dio di considerare la vita come un dono, uno strano dono invero visto che non possiamo disporne e dobbiamo risponderne a qualcuno.
Nello stesso modo viene imposto a persone che non credono in dio il principio secondo il quale la vita è sacra e inviolabile e deve essere accettata comunque, qualsiasi cosa ci faccia, qualsiasi sofferenza comporti, e che comunque il dolore è salvifico, e ci sono remunerazioni che ci aspettano, purchè…
Quali siano le conclusioni di questa anomalia - un convincimento personale che diviene norma di comportamento per tutti (e insisto nel dichiarami del tutto disinteressato al valore rivelatore della fede, pur essendo consapevole della sua utilità sociale) - è sotto gli occhi di tutti: non possiamo disporre della nostra esistenza; è praticamente inutile che predisponiamo un testamento biologico perché un qualsiasi medico potrebbe decidere di ignorarlo con la scusa dell'"obiezione di conoscenza" (cioè la convinzione che non conoscevamo abbastanza bene le conseguenze delle nostre scelte, secondo l'opinione del Comitato di Bioetica); che se accettiamo, in un momento di smarrimento, un qualsiasi tipo di supporto vitale, dopo non ce ne libereremo più, e così via. Pensate al ridicolo e squallido scempio che si riesce a fare dei corpi dei trapassati, gusci vuoti di persone che non li abitano più, ma che non hanno capito che il trasloco deve essere definitivo, guai a lasciare un cuore che batte ancora, qualche cretino che te lo infila in un macchinario complicato si trova sempre, così, tanto per nascondere per un po' il malato alla morte, far finta che la malattia non sappia più vincere.
Non v'è dubbio che credere in dio, in un qualsiasi dio, e persino aspirare a credere in dio, crea stranieri morali ed è origine di conflitti che possono rivelarsi disastrosi. Questi conflitti possono essere esacerbati da politiche religiose avventurose o da analisi sbagliate delle aspirazioni e dei comportamenti. E' avventuroso scegliere la strada dell'etica della verità, abbandonare la compassione in favore della pietà, ignorare le ragioni degli altri e cercare di umiliarli (ecco le chiese che diventano sette), come sta facendo da un paio di papi la chiesa cattolica. E' sbagliato
immaginare che i milioni di musulmani che vivono in Europa accetteranno per sempre di vivere la loro fede nell'intimità delle famiglie e non cercheranno piuttosto di viverla pubblicamente. Tutto ciò genera conflitti e sappiamo bene quale può essere il risultato dei contrasti che possono sorgere tra le religioni. E' per questo che abbiamo molto più bisogno di uomini saggi che di uomini coraggiosi. La convivenza degli stranieri morali è possibile solo se tutte le posizioni sono ugualmente rispettate e se lo stato si limita a questo rispetto e non interviene nei conflitti se non come mediatore. L'etica della verità dell'attuale pontefice entra in conflitto con le verità degli altri, anche perché ha bisogno che i suoi dogmi siano confermati dalle leggi (ecco la ragione per cui i cattolici si sono tanto battuti per la legge sulla procreazione assistita, a costo di doverne accettare le incongruenze) così come ha bisogno che lo stato non approvi norme che li contraddicano (ed ecco perché non verrà mai approvata una legge accettabile sulle famiglie di fatto). Sembra che nessuno ricordi più che Abbagnano affermava che uno Stato che legifera tenendo presenti gli interessi di una specifica ideologia a danno delle altre si macchia di immoralità.
Rispetto è una parola molto più complicata di quanto possa sembrare a prima vista: esige anzitutto laicità da parte di tutti, il che significa che, quali che siano le nostre convinzioni, dobbiamo accettare il fatto che esse non ci danno il diritto a considerarci gli unici a conoscere la verità, una forma di presunzione stupida, prima ancora che intollerabile. D'altra parte, di cose illuminate dalla verità ne esistono ben poche, e il nostro rapporto quotidiano è con realtà che vivacchiano nella penombra dell'incertezza o del momentaneo consenso. Stupisce tutti la violenza che è presente, senza alcun infingimento, nel pensiero dei fondamentalismi religiosi, che considera gli altri, i diversi, come infedeli che vivono nell'errore e che rappresentano una minaccia per il trionfo della verità. Questi sentimenti, e persino la decisione di considerare questi infedeli come fratelli che sbagliano e far scendere su di loro il peso intollerabile della pietà - il sentimento che scende dall'alto e prelude al perdono, non la disinteressata condivisione della sofferenza che chiamiamo compassione - sono la dimostrazione dell'assenza totale di rispetto.
Del resto, tutto ciò rappresenta la base del proselitismo, una violenza morale che non tiene in alcun conto la cultura, le opinioni e le scelte degli altri e che diventa addirittura violenza quando si verifica attraverso rapporti impropri e sbilanciati per ragioni economiche o psicologiche.
Dunque, non è civile una convivenza come quella attuale, che vede alcuni di noi costretti a vivere secondo ideologie che fondamentalmente disprezziamo. Mi sembra quindi necessario non frammentare la discussione, evitare di combattere battaglie parziali e di retroguardia che riguardano oggi la vita, domani la morte e dopo ancora chissà: il problema è complessivo e riguarda la laicità dello stato, i rapporti con le religioni, il confronto tra le differenti culture, e deve essere trattato come un unico soggetto. Penso che abbia ragione Mori: c'è bisogno, oggi, di uomini coraggiosi se vogliamo, domani, poter fare a meno di loro.

Liberazione 26.7.07
Il Gip milanese segue un percorso trasparente rigoroso e garantista
Indegne le accuse a Forleo
Dopo Tangentopoli scandali sempre più gravi
di Sergio Cusani


C'è solo l'imbarazzo della scelta nel fare l'elenco dei problemi antichi e attuali che attanagliano il paese e che ricadono sempre e solo sui ceti più deboli: le infrastrutture obsolete - quelle primarie per muoversi e vivere - l'acqua, l'aria irrespirabile delle città, l'evanescente attenzione verso il patrimonio artistico e culturale tra i più grandi e importanti al mondo, l'ambiente naturale deturpato in continuaziuone e infine - ma non ultimo - il tema centrale del lavoro, di quello dipendente e autonomo ma soprattutto del non-lavoro precario. I problemi materiali della vita quotidiana dei cittadini, in particolare di quelli più poveri e socialmente emarginati, non interessano alla politica dei palazzi del potere che preferisce creare e alimentare beghe da cortile per occupare spazi di visibilità, deteriore, che il sistema dell'informazione gli concede. Tutto ciò non fa altro che alimentare il disgusto per la politica e quindi l'indifferenza e quindi il qualunquismo. E tutto ciò prima o poi si paga, salato.
Per questi motivi trovo "incredibile" la vicenda del giudice Clementina Forleo fatta oggetto delle peggiori scostumatezze politico-istituzionali quando invece tutti i cittadini, i risparmiatori, i piccoli azionisti e i dipendenti delle imprese coinvolte hanno il diritto/dovere di conoscere tutta la verità sulle vicende relative alle scandalose recenti scalate finanziarie che hanno prodotto soltanto guasti, e figuracce anche a livello internazionale.
Posso testimoniare che negli anni 1992, 1993, 1994 e seguenti, prima da libero e poi da detenuto, ho assistito ad una ininterrotta quotidiana falcidia di singole persone e gruppi di persone sulla base di un semplice avviso di garanzia quasi sempre anticipato dai mezzi di comunicazione: tutti immediatamente messi alla gogna ed emarginati socialmente, molti perdendo subito il posto di lavoro, talvolta la salute e addirittura la vita.
E tutto ciò ben prima di un regolare processo che ne accertasse la colpevolezza e, tranne poche isolate voci dissonanti, nel totale silenzio e nella sospetta acquiescenza di gran parte, se non di tutta, la politica dei palazzi romani da parte di personaggi politici di allora che oggi ricoprono importanti incarichi politici e di governo.
Ora che un giudice come la Forleo con rigore segue un percorso trasparente, garantista e corretto, con l'attuale procura di Milano che è sulla stessa linea di rigore e correttezza, in più con una competenza, autorevolezza e professionalità indiscusse, si assiste da parte della politica dei soliti palazzi a scomposti attacchi, strali anche personali, pesanti denigrazioni e indebite ingerenze nel tentativo di bloccare ciò che tutti i cittadini hanno il diritto/dovere di sapere e cioè come si sono svolti realmente i fatti e su quali appoggi politici autorevoli hanno potuto contare i personaggi coinvolti nel grande scandalo delle recenti scalate finaziarie.
Non ha certamente il giudice Forleo bisogno della mia difesa d'ufficio, ma ciò che mi interessa rimarcare che tali comportamenti non fanno che allontanare sempre di più i cittadini da una partecipazione attiva alla vita politica e ne incrementano l'indifferenza e la distanza, perchè è sentire comune che la legge non deve avere riguardi privilegiati di alcun tipo verso alcuni ma deve essere davvero uguale per tutti: ieri, oggi, domani.
Con amarezza devo prendere atto che dalle indagini su tangentopoli ad oggi si sono susseguiti annualmente scandali sempre più grandi (per importi, per il numero enorme di risparmiatori colpiti e per i dipendenti espulsi dal lavoro) praticamente senza soluzione di continuità, nonostante sulla carta siano state introdotte norme che dovrebbero garantire più trasparenza, più tracciabilità e più informazione. Non è solo un problema giudiziario o normativo, è soprattutto un problema fondamentale di cultura politica. E ancora più incredibile, quindi, che la politica dei palazzi si indigni, inveisca, distorca messaggi e vada ben oltre il senso della misura, senza aver preso atto, culturalmente e politicamente, di cosa sia davvero avvenuto e di quale gravità in questi anni nella commistione tra affari e politica. Poco o nulla è cambiato nella realtà, per non voler di fatto cambiare niente.
*Fondatore Banca Solidarietà,
Consulente Fiom e Cgil

Liberazione 26.7.07
Mercato del lavoro, accordo a perdere
La Sinistra intervenga sulla Finanziaria
di Milziade Caprili


E' evidente che l'accordo sul welfare sottoscritto il 23 luglio scorso, a palazzo Chigi, dal governo e dalle parti sociali, non va bene. Non lo dice, e con forza, solo Rifondazione comunista. Lo dicono anche importanti aree e intere categorie del mondo sindacale confederale. In Cgil, ormai, la contrarietà della Fiom, che ha votato contro l'accordo nel direttivo di lunedì scorso, è un dato acclarato. Ma la stessa cosa dicono intere correnti organizzate, all'interno del più grande sindacato italiano, e lo dice anche il malumore diffuso, e in crescita, presente in tante categorie come in tante fabbriche, dove già si registrano scioperi e mobilitazioni spontanee, contro l'accordo.
La verità è che l'accordo firmato dal sindacato confederale con il governo - non solo quello sullo specifico della trasformazione dello "scalone" in uno "scalino" e tante "quote" ma anche e soprattutto quello più generale, che riguarda, appunto, il welfare e il mercato del lavoro - è un accordo tutto "a perdere". Lo dimostra anche il fatto che il nostro partito, con un atto che giudichiamo politicamente scorretto e molto grave, non è stato affatto coinvolto, nell'elaborazione tecnica delle proposte poi formulate dal governo, come ha denunciato, ieri, il segretario Franco Giordano. Senza dire di un altro dato politico per noi inaccettabile e cioè che tali misure non erano affatto previste, dal programma dell'Unione.
Il nostro voto in Parlamento, dunque, come ho già chiarito con una nota venerdì scorso, quando il primo accordo, quello sulle pensioni, era appena stato firmato, «dipenderà dall'esito della consultazione che apriremo con tutto il popolo della sinistra nel prossimo autunno come dal voto, per noi dal valore decisivo, dei lavoratori, che verranno chiamati a consultazione dal sindacato». Consultazione che, ci auguriamo, sarà la più larga e democratica possibile, coinvolgendo cioè "tutti" i lavoratori, dai giovani ai pensionati, e non solo gli iscritti, come pure qualche organizzazione sindacale (la Cisl, ad esempio) già chiede con insistenza. Ma il problema non è affatto sindacale, è - com'è evidente - tutto politico e investe la nostra stessa presenza e permanenza nel governo Prodi.
Del fatto che si tratti di un brutto accordo, cominciano a rendersene conto anche Verdi e Sinistra democratica, e cioè le forze che dovrebbero dar luogo a quel processo di aggregazione politica a sinistra su cui il nostro partito ha investito con coraggio da diversi mesi, processo di cui ancora sono in discussione le forme e le modalità ma che intanto ha, ai miei occhi, il pregio di aver preso avvio. Dopo le divisioni che si sono registrate, nei giorni passati, tra noi di Rifondazione e il Pdci da un lato, Verdi e Sd dall'altro, infatti, le ultime dichiarazioni rese sia da Pecoraro Scanio che da diversi esponenti di Sd parlano di «posizione arretrata», da parte del governo, su mercato del lavoro e competitività. Più o meno le stesse parole usate dal segretario della Cgil Guglielmo Epifani, che ha fortemente criticato la detassazione degli straordinari come la mancata abolizione di alcune delle parti più precarizzanti della legge Biagi. Abolizione cui, peraltro, proprio il ministro del Lavoro, Cesare Damiano, si era più volte impegnato a mettere mano. Ora, Sd - che pure ha "promosso" la parte dell'accordo che riguarda le pensioni - sembra intenzionata a bocciare il resto del protocollo. Un protocollo, quello di lunedì, contenente misure del tutto insufficienti a mitigare l'utilizzo dei contratti a termine, misura che pure il governo si era impegnato da tempo a promuovere per porvi un freno. Tutte norme che, assieme al mantenimento pressoché integrale della legge 30, comportano la sostanziale conferma di forme di precarietà drammatica per migliaia di giovani, nel loro lavoro.
Dal punto di vista della ricerca di una sempre maggiore unità a sinistra, queste ultime prese di posizione dei Verdi e di Sd ci confortano. Ma la prova del nove è vicina e arriverà in autunno: le valutazioni sulle scelte della legge Finanziaria devono essere comuni e devono essere fatte valere da un lato all'interno dell'Unione e dall'altro in rapporto ai movimenti, alle associazioni. In una parola, in rapporto al mondo a cui vogliamo dare voce nelle scelte politiche che ci apprestiamo a compiere. Chi, anche tra noi, pensava che l'unità della sinistra alternativa fosse cosa facile si deve ricredere: pesano anni nei quali la sinistra è stata divisa, pesa il fatto che una posizione comune come gli ambiti politici di una cultura della sinistra vanno ricostruiti, e proprio a partire dai temi del lavoro. Anche così, sui temi concreti, si aiuta l'unità, a sinistra.
*vicepresidente del Senato


il manifesto 26.7.07
Le radici oscure del pensiero conservatore europeo
Nel suo ultimo libro, «Contro l'Illuminismo», edito da Baldini Castoldi Dalai, lo storico Zeev Sternhell offre un'attenta analisi, che arriva ai nostri giorni, della rivolta contro i principi fondanti, i valori e le aperture politiche nate in seguito alla Rivoluzione francese
di Roberto Ciccarelli


L'origine della grande offensiva conservatrice in atto dal settembre 2001 non è ancora stata messa debitamente a fuoco. Molti sono i suoi protagonisti, dalla neocon Gertrude Himmelfarb, recente autrice di una polemica all'ultimo sangue contro l'Illuminismo francese, colpevole a suo dire di avere distrutto la moralità della società occidentale, fino alla ex deputata somalo-olandese Hirshi Ali che, nella sua autobiografia apparsa anche in Italia col titolo Infedele (Rizzoli, pp. 393, euro 18,50), si è invece cimentata in una dura requisitoria contro la debolezza dell'Occidente nei confronti del montante odio «islamico». L'impressione è che, in ogni caso, lo scontro si giochi soprattutto sull'interpretazione della storia dell'Illuminismo - centro fondatore dei discorsi sulla tolleranza, la libertà individuale e la sovranità popolare -ma anche contro la critica che di questo Illuminismo fornirono Adorno e Horkheimer nella loro Dialettica dell'Illuminismo.
Sull'argomento è interessante la lettura dell'ultimo volume dello storico delle idee Zeev Sternhell, Contro l'illuminismo. Dal XVIII secolo alla guerra fredda (Baldini Castoldi Dalai, pp. 655, euro 20). A dispetto del titolo -che può trarre in inganno, dando l'idea di un pamphlet a favore del conservatorismo - il libro di Sternhell indaga i presupposti della reazione plurisecolare all'Illuminismo, in particolare quello francese e anglo-scozzese. Il titolo originale, Les anti-Lumières, rivela come l'oggetto del lavoro sia proprio il conservatorismo europeo che, nato con le Riflessioni sulla Rivoluzione Francese del liberale conservatore Edmund Burke, tocca la Francia con i reazionari alla De Maistre, attraversa l'Ottocento tedesco con lo storicismo di Herder e di Meinecke e infine sbarca nel Novecento, contagiando gli insospettabili (perché poco letti con una lente critica) liberal-conservatori come Isaiah Berlin o gli storici alla François Furet.
Ripercorrendo la storia delle idee - Sternhell lo fa con grande consapevolezza storica, oltre che con una vis polemica straripante - si scoprono, come si suol dire «segreti delle cose ovvie», o almeno di quelle ritenute tali. L'origine del nazismo, in particolare, risale ai luoghi oscuri della cultura liberale, nello specifico della cultura conservatrice tedesca. Sternhell ha pochi dubbi su questo: la tradizione anti-illuminista si è sempre scagliata contro i diritti dell'uomo e la democrazia liberale, ha negato il «diritto naturale» comune all'intera umanità, ha dichiarato la morte della «sovranità popolare» e ha sostenuto l'impossibilità della convivenza tra culture diverse.
Il nazifascismo è cresciuto nei paesi dell'anello debole del liberalismo continentale, l'Italia e la Germania, che avevano a loro tempo respinto l'illuminismo francese (il conflitto tra Vico e Cartesio e quello tra Herder e Rousseau). Nel liberalismo elitario europeo del XIX secolo, questi assunti hanno forgiato i più diversi nazionalismi culturali e politici, ponendo le basi per le politiche razziste dei vari imperialismi europei.
Nel XX secolo, dopo il tremendo monito del nazismo, questa aristocrazia del pensiero e dell'elitarismo politico si è attestata su posizioni più prudenti, ma non meno controverse. A questo punto arriva la durissima requisitoria di Sternhell contro Isaiah Berlin, un centinaio di pagine molto dure sullo studioso di Oxford che aprono uno squarcio sui paradossi costitutivi dell'attuale offensiva conservatrice. Viene rivelata così la guerra di Berlin contro il «monismo dei Lumi», contro il loro razionalismo e la loro pretesa «totalitaria» di affermare valori per l'intera umanità. Pur con vari e tormentati ripensamenti, Berlin giunge al controsenso di fare l'apologia del populismo (inteso come senso di appartenenza a un gruppo che si distingue per specificità etniche e culturali) partendo da premesse liberali classiche. La conclusione del ragionamento di Berlin è di matrice fichtiana ed è molto simile. Per lui, il pluralismo delle culture è da riconoscere perché le culture sono incompatibili. Solo il pluralismo, infatti, consentirebbe a tutti di vivere trovando negli altri il proprio centro di gravità. Relativizzare, storicizzare, dunque, perché il particolare è civile, mentre l'universale è il segno di una volontà di dominio che non cgenera altro che mostri.
Ma a quali impensabili estremi giunge lo storicismo depurato, com'è giusto, da ogni pretesa nazionalistica? Sternhell conduce la sua critica sino in fondo e vede quindi in Berlin il capostipite di un liberalismo elitario e conservatore, che ha fatto scuola anche nella destra liberale e liberista che predica oggi le virtù della cristianità e dei valori della vita, contro una presunta avanzata di altre civiltà che intendono spazzare via quanto rende unica la nostra cultura.
In realtà, come gran parte dei liberali del nostro tempo, Berlin ha equivocato sulla natura dell'illuminismo francese e kantiano. Gli illuministi, infatti, non erano dei laici fanatici che odiavano la religione e intendevano istituire il nuovo culto della Repubblica giacobina fondata sul terrore. Piuttosto, erano dei riformatori moderati che lottavano contro l'intolleranza, qualcuno timidamente protestava contro l'«eurocentrismo», ma tutti manifestavano un rispetto verso i fondamenti della cristianità. Per Sternhell, questo errore di prospettiva ha conseguenze tragiche arrivando a giustificare il nazionalismo radicale, negando ogni diritto di critica e di indipendenza dalla ragione del più forte. La grande campitura disegnata da Sternhell trascura tuttavia alcune questioni rilevanti. Innanzitutto il «diritto naturale» di cui gli illuministi sarebbero i difensori. Nozione alquanto equivoca non perché non esista una «natura» comune a tutti gli uomini, ma perché questa idea è stata usata per imporre un modello di razionalità universale nel mondo. E poi, c'è il problema dell'origine storica dell'illuminismo franco-kantiano. A tal proposito, è un vero peccato che non sia stato ancora tradotto in italiano il libro di Jonathan Israel Radical Enlightenment (Oxford University Press) che individua tali origini nel 1650, e non nel 1720 come invece ritiene Zeev Sternhell. È quella la data in cui Spinoza pone le vere premesse al movimento teorico e politico dell'illuminismo europeo: critica radicale della religione, della Chiesa, dello Stato; revisione dell'interpretazione delle Sacre Scritture in senso materialistico; attacco alle monarchie europee e affermazione di una democrazia radicale.
Un magma politicamente incontenibile che ha fatto il giro dell'Europa per mezzo secolo, prima di essere rielaborato, anche per timore di persecuzioni, dagli illuministi francesi e da Kant. L'analisi del «contro-illuminismo» andrebbe fatta a partire dal triangolo costituito proprio dall'illuminismo radicale. Per Jonathan Israel, infatti, il vero avversario della reazione liberale è il movimento spinozista che si è aggirato in Europa per poi essere depurato da Pierre Bayle e stravolto da Hegel.
Ma questa è un'altra storia sulla quale né i conservatori liberali, né i liberali democratici intendono, forse, ragioni.

il Riformista 26.7.07
Tra Fausto e Massimo Romano suda freddo
di Stefano Cappellini


Su un punto, e solo su quello, Romano Prodi è d'accordo con Fausto Bertinotti: quando il presidente della Camera dice, come ha detto ieri, «tutto possiamo permetterci tranne che uno scontro istituzionale». E Prodi, che ha assistito sempre più preoccupato alla disfida innescata dalle accuse del gup Clementina Forleo ai politici intercettati nell'ambito delle inchieste sulle scalate bancarie, ed esplosa con la censura di Giorgio Napolitano nei confronti del giudice milanese, ha già abbastanza grattacapi per aggiungere al quaderno delle doglianze anche una battaglia tra poteri dello Stato (il che, peraltro, potrebbe portare a ritenere che Prodi non sia entusiasta della mossa del capo dello Stato). Quanto al resto, l'ennesima fiammata della vicenda Unipol-Bnl conferma una volta di più il gelo sceso nei rapporti tra Bertinotti e Prodi. Il quale ha già giudicato negativamente il protagonismo della terza carica dello Stato in occasione di polemiche che investivano il centrosinistra e di cui il premier era bersaglio principale (Telecom-Rovati, caso Mastrogiacomo), e anche stavolta - sebbene tutte le fonti di palazzo Chigi si trincerino dietro un secco «no comment» - ha ritenuto inopportuno l'intervento dell'ex subcomandante («Niente privilegi per i parlamentari») che tanto ha fatto arrabbiare Piero Fassino. Ma il rapporto con Bertinotti è in questo momento, nella mente del Prof, una questione secondaria rispetto ai timori per il ciclone giudiziario che potrebbe investire il governo se, come tutto il mondo politico prevede, le accuse formulate da Forleo si trasformeranno nel futuro prossimo in avvisi di garanzia. Prodi sa quanto D'Alema sia stato puntello importante dell'esecutivo in alcuni momenti di difficoltà e nell'ultimo Consiglio dei ministri è rimasto impressionato dall'intervento del vicepremier a sostegno delle ragioni di un accordo tra le diverse anime della coalizione sulle pensioni. Proprio ora che l'offensiva di Rifondazione comunista sul welfare si fa più minacciosa («E noi non la sottovalutiamo», spiega Silvio Sircana), l'ultima cosa che il Prof si sarebbe augurato era che Bertinotti offrisse ulteriori motivi di fibrillazione.
E che la situazione sia più grave del previsto lo testimonia, paradossalmente, la solerzia con cui (a differenza di frangenti simili nel passato) Prodi si è precipitato a offrire la sua solidarietà ai vertici della Quercia. Un modo per evitare nuove tensioni con Fassino e D'Alema, certo, ma forse anche un tentativo di sfilarsi per un po' dal circo mediatico per assistere con meno pressioni agli sviluppi del caso. «Prudenza» è la parola d'ordine informale che arriva dall'entourage del Prof e spiega bene come la previsione del premier è che la vicenda sia ben lungi dall'esaurirsi in questi giorni. Il riposizionamento dei nemici dell'operazione Unipol dentro il Pd verso un silenzio cautelativo è totale e riguarda anche Francesco Rutelli, che conferma l'intenzione di non sollevare alcuna polemica interna (ma ai Ds non basta una moratoria, in mancanza di una difesa piena e di merito). Eppure Prodi, che nell'estate del risiko bancario fu sempre dall'altra parte della barricata rispetto alla Quercia, e che non fece una chiosa quando nel 2005 Arturo Parisi addebitò al Botteghino l'urgenza di una «questione morale», è probabilmente mosso anche dalla volontà, per dirla alla Di Pietro, di non mettere la mano sul fuoco prima che siano chiari i prossimi capitoli della vicenda.