domenica 29 luglio 2007

Rosso di Sera 27.7.07
La lotta alla precarietà obiettivo di tutta la sinistra
“Le proposte della maggioranza del governo su scalone e mercato del lavoro non sono condivisibili”. In autunno una grande mobilitazione,
di Alessandro Cardulli
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Rosso di Sera 27.7.07
Governo, a luglio parte un “caldo” settembre
I ministri della sinistra a colazione con Romano Prodi chiedono modifiche al protocollo sul welfare e mercato del lavoro. “Insoddisfacente” per la Cgil la risposta del premier a Epifani
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Corriere della Sera 29.7.07
Welfare, il governo frena. Sinistra all'assalto
Palazzo Chigi: no a modifiche, nessun passo indietro. Giordano: in autunno sarà conflitto politico e sociale
di Barbara Millucci


ROMA — Nessun dietrofront del governo. Il protocollo sul welfare
non è emendabile. Il portavoce del governo Silvio Sircana conferma quanto scritto nella lettera dal premier al segretario della Cgil, Guglielmo Epifani e ribadisce la sostanziale non emendabilità del documento. Un segnale rivolto alla Cgil, ma anche ai quattro ministri della sinistra radicale e dei Verdi, Fabio Mussi, Paolo Ferrero, Alessandro Bianchi e Alfonso Pecoraro Scanio, che ieri hanno incontrato Prodi per discutere le modiche sia sui contenuti che sui metodi dell'accordo.
Le parole di Sircana hanno fatto divampare un incendio. Il ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero annuncia un autunno caldo e spiega di non volersi rassegnare «all'idea che il programma con cui l'Unione è stata votata sia stravolto con il plauso di Confindustria ». Gli fa eco il segretario di Rifondazione Franco Giordano, secondo il quale «si apre un conflitto, una stagione di mobilitazione politica e sociale. Dall'esito di quel conflitto dipenderà il nostro voto in Parlamento». Ancora più dura la risposta di Manuela Palermi, capogruppo di Pdci-Verdi al Senato: «Impossibile sostenere un governo che fa queste politiche sociali». Promette battaglia in Parlamento il capogruppo alla Camera del Pdci, Pino Sgobio: «Il protocollo non va per bene. Lavoratori e pensionati hanno votato l'Unione perché nel programma era scritto che si sarebbe superato il precariato e che sulle pensioni non si sarebbe operato nessun innalzamento».
Alla base del braccio di ferro tra governo e l'ala radicale della coalizione (Rifondazione comunista, Comunisti italiani, Verdi e Sinistra democratica) c'è il superamento dello scalone previdenziale e le modifiche alla legge Biagi. La sinistra dell'Unione punta a modificare i termini dell'accordo durante l'iter in Parlamento. Mentre il ministro del Lavoro, Cesare Damiano, non chiude la porta a eventuali aggiustamenti: «Questo può essere considerato il miglior accordo sullo stato sociale da vent'anni. Un accordo è fatto di concertazione e lo si può scrivere meglio nel momento in cui si traduce in legge».

Corriere della Sera 29.7.07
Diliberto: nuova trattativa Se ci saranno «soperchierie» mani libere in Parlamento
Pdci, Prc, Sinistra democratica e Verdi: uniti abbiamo 150 parlamentari
di Sergio Rizzo


ROMA — Il segretario dei Comunisti italiani Oliviero Diliberto, a questo punto, non poteva fargliela passare liscia: «Romano Prodi apre alla trattativa e il suo portavoce Silvio Sircana dice che il protocollo sul welfare è inemendabile? Che si mettano d'accordo. In Italia, per fortuna, c'è la potestà legislativa del Parlamento».
È una minaccia?
«Una constatazione. Mi batterò perché cambino le cose. Niente di più ma niente di meno di quello che c'è nel programma».
E se non funziona?
«Vorrei ricordare che il governo è fatto anche da noi. Chiedo formalmente che a settembre ci si riunisca. Il profilo politico della trattativa deve vederci coinvolti. Per questo voglio esserci anch'io, visto che Alessandro Bianchi, che stimo e fa bene il ministro, è un indipendente ».
Ha detto trattativa? Un'altra?
«Ha capito bene. Il governo deve trovare nuovi punti d'intesa su pensioni e welfare prima di affrontare il Parlamento».
Insisto: se non si trovano?
«Si va in Parlamento e a quel punto mi ritengo libero di votare come credo».
Il famoso dodecalogo, firmato pure da voi, dice che a Prodi spetta l'ultima parola.
«Prodi è il premier, lui deve fare la sintesi. Ma la sintesi è tener conto di tutte le opinioni, anche della nostra. Diversamente...».
Diversamente?
«Sa come la chiamerebbe Alessandro Manzoni? Soperchieria».
Davvero crede di spuntarla?
«Vedrà. Pdci, Rifondazione, Sinistra democratica e Verdi: uniti abbiamo 150 parlamentari».
Un partito di tutto rispetto.
«Per questo credo che si deve andare più in fretta possibile a forme federative».
Ma se non siete riusciti nemmeno a sanare la frattura con Rifondazione comunista...
«Per quanto mi riguarda le ragioni che portarono alla scissione del 1998 sono venute meno. Ho notato che pure Rifondazione ha avviato un processo di riavvicinamento ».
E gli altri?
«Ci saranno. Abbiamo l'assoluta esigenza di bilanciare i conservatori dell'Unione».
Vuole dire i riformisti?
«Serve una confederazione della sinistra che impedisca che vada in porto il progetto delle maggioranze di nuovo conio».
Con l'Udc al vostro posto?
«Non basterebbe. Ma c'è chi sta lavorando a un centrosinistra che sia un centro con un pezzetto di sinistra subalterna».
Fuori i nomi.
«Il manifesto dei coraggiosi, coraggiosi si fa per dire, dice chiaramente che bisogna impedire il ritorno della destra ma soprattutto impedire che la sinistra fermi i progetti riformatori».
Non è forse vero che bloccate tutto?
«Veramente non vedo nulla di riformista in giro. Tutte le proposte mirano a colpire i diritti acquisiti ».
Mi faccia capire: per lei chi è riformista e chi conservatore?
«Conservatorismo non è voler conservare un diritto. E riformismo non è riformare un diritto per peggiorarlo. Quella si chiama controriforma ».
Andiamo... Se si allunga la vita media non si deve allungare anche l'età pensionabile?
«Questa retorica dell'aumento della vita non è uguale per tutti. Non è uguale l'intellettuale e chi sta alla catena di montaggio».
Infatti il protocollo salva i lavoratori usurati.
«Un imbroglio. Si parla di un milione e mezzo di persone e poi Tommaso Padoa-Schioppa ci dice che sono cinquemila all'anno. Cioè, in sette anni 35 mila persone. E questo per me è dirimente. Il fatto è che la vicenda delle pensioni la dice lunga».
Su che cosa?
«C'è chi pensa che la sinistra sia di ostacolo alla definitiva normalizzazione del Paese. Piano piano tutte le conquiste sono state smantellate. Prima l'abolizione della scala mobile. Poi la riforma Dini. Quindi la fine del lavoro a tempo indeterminato. Ora la pensione a 62 anni. E già mi aspetto il prossimo attacco».
Dove?
«Al contratto nazionale».
Rigiriamo la frittata. Abolendo la scala mobile si è sconfitta l'inflazione, con la riforma Dini sono stati messi a posto i conti previdenziali e con il lavoro flessibile si è bloccata la disoccupazione che prima galoppava. Come la mettiamo?
«E chi ha pagato tutto questo? Sempre i soliti, lavoratori e pensionati. Con l'ultima Finanziaria la Confindustria ha avuto una valanga di soldi, e si chiede al sindacato di accettare nuovi tagli. Sa cosa le dico? Adesso basta».
Significa che Prodi rischia?
«Le risponderò a settembre. Non ho alcuna voglia di far cadere il governo. Saremo responsabili, ma molto, molto determinati».

Repubblica 29.7.07
Breve lezione sulla felicità
di Eugenio Scalfari


Mi permetterete, cari lettori, di uscire oggi dal seminato e di trattare un tema che potrà sembrare non pertinente alla stretta attualità. L´ho già sfiorato più volte ma ora vorrei prenderlo di petto e vedrete che non è poi così lontano dalle tematiche quotidiane così noiosamente ripetitive.
Il mio tema coinvolge tre concetti: il tempo, il senso, la felicità, strettamente connessi tra loro nel nostro agire quotidiano. Ma forse non ce ne accorgiamo, eppure ogni nostro atto, desiderio, comportamento, sono motivati e determinati da quei tre elementi. Ciascuno di noi vuole anzitutto sentirsi felice o meno infelice di quanto non sia; questo suo obiettivo si colloca ad una certa distanza dall´attimo presente e promette una certa durata e qui interviene l´elemento temporale. Il percorso tra la decisione che ci procurerà felicità e il tempo necessario per realizzarla dà senso a quel percorso e poiché la vita altro non è che la ricerca continua di felicità che si ottiene e si perde un attimo dopo averla raggiunta, ecco che il senso viaggia senza soluzione di continuità a cavallo di quei percorsi che ci accompagnano in modi variabili fino al nostro ultimo appuntamento.
Incito i nostri attori, politici professionali economici culturali, a riflettere su queste considerazioni. Ne indico qualcuno, tanto per fornire concreti esempi, precisando che indico in questi casi risultati di felicità connessi a obiettivi di natura pubblica e non privata, che pure ci sono e per la maggior parte delle persone hanno anzi caratteristiche dominanti.
Mi viene in mente, tanto per dire, Luca Montezemolo. Quando la Ferrari vince una gara è felice e lo si vede. Così pure quando la Fiat di cui è presidente realizza risultati positivi. E ancora quando la Confindustria centra un suo obiettivo di politica economica. Queste sue attività plurime gli costano (anche questo si vede) molta fatica, ma è fatica appagante e dà senso alla sua vita fino a quando riuscirà a ghermire qualche brandello di felicità.
Me ne vengono in mente moltissimi altri. Per esempio Silvio Berlusconi. Che sia felice ogni volta che si trova in un bagno di folla plaudente è un fatto evidente. Traspira gioia da tutti i pori. Bacia volti di bambini, stringe centinaia di mani. Lancia battute eccitanti, divertenti, esalta entusiasmi. Non c´è niente di falso né di studiato in tutto questo.
Prima d´entrare in politica la sua felicità dipendeva dai bilanci delle sue aziende, dai contratti pubblicitari che riusciva ad ottenere dagli inserzionisti. Era una felicità di qualità minore rispetto al bagno di folla. Perciò sarà un triste giorno per lui quando dovrà rinunciarvi. Farà di tutto perché arrivi il più tardi possibile, di questo si può star certi.
Ma prendete anche (scelgo a casaccio dal mazzo dell´attualità) il giudice Clementina Forleo. Fa un mestiere difficile e anche avaro di felicità: chi giudica tra parti in causa e si asside come arbitro neutrale in mezzo a loro ricava felicità solo dal fatto di garantire un´applicazione appropriata della legge. Ha fatto il suo dovere e tanto dovrebbe bastarle. Ma i suoi provvedimenti passano poi al vaglio di successivi gradi di giurisdizione, possono essere confermati o cancellati. Ammetterete che la felicità arriva col contagocce. A meno che il giudice non si sporga e non sprema la spugna fino all´ultima goccia.
È ciò che ha fatto nel caso delle intercettazioni telefoniche su alcuni membri del Parlamento. Non entro nel merito della sua ordinanza perché non ne ho né titolo né voglia. Ma l´irruenza del giudizio che ha anticipato un´incriminazione prima ancora che la Procura della Repubblica la formulasse, non ha altra motivazione che una ricerca maggiore di felicità. Come il bagno di folla di Berlusconi. Il nostro presidente della Repubblica – ben prima che l´attualità facesse esplodere il caso Forleo – aveva indicato tra i malanni della giustizia anche quelli d´una eccessiva ricerca di visibilità. Ma parole sagge non riescono quasi mai a frenare una natura. Mi ha stupito invece la posizione di Borrelli, che fu procuratore a Milano all´epoca di Tangentopoli. Ha detto che il «sovrappiù» della Forleo è un elemento marginale rispetto al merito del problema che riguarda la possibilità di indagare presunti colpevoli. Ha ragione e torto nello stesso tempo. I sospettati siano al più presto indagati, ma chi si occuperà del «sovrappiù» di Clementina? Potrà ancora fare l´arbitro d´un procedimento nel corso del quale è scesa tra i giocatori calciando impropriamente la palla? Borrelli è stato anche procuratore della Federcalcio e ha sospeso fior di arbitri. Dovrebbe dunque avere ben presente quell´esperienza.
Tanti altri esempi potrei addurre per spiegar bene quanto pesi nelle azioni umane la ricerca di felicità. Ma spero d´aver chiarito a sufficienza e proseguo nel ragionamento.
* * *
La durata delle singole felicità ha un tempo breve. Ma esistono anche felicità collettive e la loro durata è più lunga. A volte molto più lunga.
Quando dico felicità collettiva penso a soggetti collettivi, comunità locali, comunità nazionali, comunità internazionali che si vivano anche come veri e propri soggetti e come tali siano vissuti dai popoli che ne fanno parte.
I percorsi necessari per dare durata e stabilità alla felicità che abbia soggetti collettivi come destinatari sono notevolmente lunghi. Di solito operano di rimbalzo, come le biglie del biliardo che spesso debbono fare il giro delle sponde per realizzare l´obiettivo di ottenere punti e lasciare l´avversario in posizione incomoda.
Anche qui qualche esempio, dal mazzo dell´attualità.
La sinistra radicale si sente a disagio; ha la sensazione che Prodi stia privilegiando la linea riformista e che questo spostamento la penalizzi. Perciò promette battaglia. È chiaro il perché: il soggetto che si riconosce nei partiti della sinistra radicale pensa che la felicità propria, dei movimenti che vorrebbe rappresentare, della classe operaia della quale rivendica la rappresentanza politica, si realizzi spostando a sinistra la politica del governo. Questo è il dichiarato obiettivo dei suoi leader. I quali tuttavia sanno (e lo dicono) che una crisi del governo penalizzerebbe fortemente i loro veri e presunti rappresentati.
I leader dei partiti di quella sinistra sostengono di costituire un terzo della coalizione, ed è vero. Perciò pongono la domanda: si può governare contro un terzo della maggioranza? A questa domanda i leader del centrosinistra oppongono la contro-domanda: si può governare contro i due terzi?
Rifarsi al programma è un puro alibi: un programma di 280 pagine è interpretabile e ognuno lo fa a suo modo. Sicché non c´è che affidarsi al capo del governo e della coalizione, Romano Prodi. Altro metodo non c´è. Ma i leader della sinistra radicale dovrebbero anche sapere che i loro continui strappi, che poi finiscono (finora) con il rientrare, provocano reazioni crescenti nei due terzi riformisti e disincanto ulteriore nel corpo elettorale.
Questa ricerca sussultoria di due felicità che si contrappongono configura una scomodissima situazione. Il solo risultato finora conseguito è stato quello – ottenuto principalmente dalla stessa sinistra radicale – di autoproporsi come capro espiatorio di tutto ciò che non va nella gestione della cosa pubblica.
Debbo dire: non è un gran risultato.
* * *
La classe dirigente di uno Stato deve proporsi come obiettivo quello di procurare felicità agli abitanti e assicurarla per quanto possibile ai loro figli e nipoti. Diciamo tre generazioni. Andare al di là mi sembra azzardato; starne al di qua denota corta vista ed è ciò che di solito caratterizza regimi populisti e demagogici.
La classe dirigente di uno Stato deve dunque avere una visione del paese dinanzi a sé e deve anche – anzi come primario obiettivo – attuare in corsa la riforma delle inefficienze dello Stato.
Si moltiplicano gli allarmi su questo punto, che viene chiamato di volta in volta questione settentrionale o questione meridionale, ma che più appropriatamente dovrebbe essere chiamata questione dello Stato.
La classe dirigente deve necessariamente darsi carico di tutto ciò. In una recente intervista al nostro giornale Giuliano Amato, per spiegare il suo punto di vista su alcuni temi d´attualità, ha avuto la cortesia di riprendere un´immagine da me usata un anno fa, quella dello specchio rotto. A terra sono rimasti i frammenti di quello specchio che non riflettono più l´intera realtà ma soltanto alcuni suoi parziali aspetti.
Bisogna dunque che la classe dirigente si dia carico di recuperare uno specchio capace di riflettere l´intera realtà nazionale e operi avendo di mira la felicità dei padri, dei figli e dei nipoti. Una felicità duratura, che dia sollievo subito ad alcuni bisogni impellenti ma nel contempo ponga le condizioni affinché speranze e attese che si proiettano nel futuro siano salvaguardate anche a prezzo di alcune rinunce oggi necessarie.
Una classe dirigente che sia capace di questo trova in questa visione e nel realizzarla, anche la propria felicità e il senso del proprio percorso e della propria funzione.
Post Scriptum. Rientro nel seminato (dal quale peraltro ho potuto allontanarmi assai poco) per spendere due parole sulla legge elettorale e sul referendum parzialmente abrogativo.
Stefano Rodotà segnala che la legge che dovesse uscire dal referendum sarebbe un mozzicone di legge, un dispositivo assai imperfetto che lascerebbe in piedi le liste bloccate senza preferenze e inciterebbe partiti e partitini a far blocco per intascare il premio di maggioranza.
Personalmente non do gran valore al sistema delle preferenze. Ricordo il trionfo del referendum Segni che restrinse le preferenze da quattro ad una soltanto e passò a furor di popolo.
Concordo invece con Giovanni Sartori che sul Corriere della Sera indica tra le soluzioni "buone" oltre al doppio turno alla francese anche la legge vigente in Germania. Purché sia conservata nel modello attuale e non ricucinata in salsa italiana, osserva Sartori. Anche su questo punto sono d´accordo con lui come pure sul gonfiarsi e sgonfiarsi dei partiti di centro, dovuto alla pressione moderata o esorbitante dei partiti estremi. In materia pensiamo e scriviamo le stesse cose, caro Sartori, sperando con scarsa fiducia di essere ascoltati.

Repubblica 29.7.07
T.S. Eliot. Il poeta dei misteri svelato dalle lettere
di Enrico Franceschini


La vita privata dell´autore di "Terra desolata" è ancora un enigma chiuso negli armadi di un colossale archivio custodito dalla seconda moglie: carteggi e documenti che possono illuminare le molte zone d´ombra di un uomo controverso. Ma ora quell´archivio è stato aperto e chi ne ha visto i segreti scommette che cambierà il modo in cui questo Nobel per la letteratura "viene letto, studiato, compreso"
Vivien, la prima moglie, andava a letto con Bertrand Russell Lui, dicono i biografi, tollerava perché subiva a sua volta il fascino del filosofo

LONDRA. Chi era T.S. Eliot? Un illustre premio Nobel per la letteratura (1948), saprebbe rispondere ogni scolaretto del Regno Unito. Il più grande poeta in lingua inglese del Ventesimo secolo, uno dei fondatori del modernismo, la cui opera Terra desolata, apparsa nello stesso anno dell´Ulisse di Joyce, ne viene spesso considerata il corrispettivo in versi, sintetizzerebbe un critico. Ma no, è l´autore dei dialoghi del celebre Cats, obietterebbe, peraltro senza sbagliare, lo spettatore medio dei musical del West End. Senonché su Thomas Stearns Eliot, nato a St. Louis, Missouri, Stati Uniti d´America, il 26 settembre 1888, morto il 4 gennaio 1965 a Londra, nella nazione di cui acquisì la cittadinanza e in cui trascorse la maggior parte della vita, sono state dette, con minor certezza, tante altre cose: che era omosessuale, misogino, lunatico, e che la sua vita sentimentale fu un disastro, per esempio; che era fascista, razzista, antisemita, e che le sue idee politiche erano abominevoli. Il problema è che, nonostante una montagna di corrispondenza privata lasciata agli eredi, del "vero" Eliot si conosce ancora poco. Non è mai esistito un suo biografo ufficiale. A Peter Ackroyd, che scrisse uno dei migliori libri su di lui, fu persino negato di citare le sue poesie. Il materiale che poteva fare luce sulla sua vita privata è sotto chiave in un immenso archivio, dal quale è uscito, finora, soltanto un volume delle sue lettere, a cura della vedova, Valerie: ma riguarda esclusivamente gli anni tra il 1898, quando Eliot faceva lo scolaretto a St. Louis, e il 1922, quando uscì Terra desolata. Il poeta «misterioso» l´ha definito recentemente l´Independent di Londra. Ebbene, adesso il mistero potrebbe essere parzialmente svelato.
Con l´approssimarsi del centoventesimo anniversario della nascita, infatti, il lavoro sull´archivio Eliot ha accelerato. Faber&Faber, sua casa editrice originale (dove lui stesso lavorò a lungo come redattore), prepara una collezione in sette volumi di tutta la sua prosa. Intanto Hugh Haughton, docente di letteratura alla York University, ha ricevuto l´incarico di aiutare Valerie Eliot, la vedova, a creare un´edizione di un imprecisato numero di volumi delle sue lettere. L´aiuto è necessario perché il compito che sinora gravava esclusivamente sulle spalle della signora Eliot era immane, specie per una donna ultrasettantenne. Il poeta scriveva lettere a getto continuo. Soltanto nel 1923 la sua corrispondenza ammonta a 88.388 parole, la lunghezza di un romanzo breve. Nel 1926, scrisse 112.878 parole. Si calcola che, solamente per il periodo tra il 1922 e il 1940, esistano nell´archivio eliotiano due milioni di parole inedite: una mole in grado di disorientare il ricercatore più solerte.
«È un archivio straordinario», ha confidato Haughton, dopo avervi dato un´occhiata, all´Independent. «Eliot non era solo uno dei grandi poeti moderni, ma anche un grande critico, commentatore politico, redattore letterario, drammatista. Spalancare le porte del suo archivio cambierà il modo in cui viene letto, studiato e compreso». Le opinioni in proposito sono agli antipodi. C´è chi lo detesta, solitamente perché è stato obbligato a studiarlo a scuola, e chi lo considera il più grande, il primo, irraggiungibile. Questo per quanto riguarda il poeta. L´uomo è meno ammirato. Il professor Haughton assicura che la pubblicazione completa delle lettere «illuminerà le difficoltà della sua vita privata con la prima moglie, Vivien», che morì nel 1947 dopo lunghe nevrosi. Il matrimonio andò in crisi, secondo alcuni, per la prossimità con il circolo Bloomsbury, le cui libertà sessuali si insinuarono nella coppia: Vivien andava a letto con Bertrand Russell, e la biografa di lei sostiene che Eliot tollerava il tradimento perché Russell piaceva anche a lui.
Se fosse omosessuale, in realtà, non s´è mai saputo. Nel 1957, comunque, sposò la sua segretaria, di quasi quarant´anni più giovane: Valerie, la vedova che ora ha in mano l´archivio. Quanto alle sue idee politiche, anch´esse sono fonte di acceso dibattito. Che Eliot fosse razzista e fascista non è provato, ma non c´è dubbio che simpatizzasse per la destra. Il suo antisemitismo sembra più evidente, ma c´è chi lo nega: Ron Schuchard, docente di letteratura alla Emory University, che curerà la pubblicazione dei volumi di prosa per Faber&Faber, si dice certo che Eliot verrà assolto da questa accusa che lo perseguita, affermando di avere rinvenuto quattro anni fa un pacchetto di lettere del poeta a un accademico ebreo newyorchese, da cui si deduce che Eliot aiutava gli ebrei fuggiti dal nazismo a ristabilirsi in Gran Bretagna e negli Usa.
In realtà non è escluso che la valanga di nuovi libri e rivelazioni sia insufficiente a sollevare del tutto gli enigmi sul suo conto. T.S. Eliot, sostiene qualcuno, fu troppo grande, prolifico e complesso per venire etichettato in un senso o nell´altro. «Mi sento vecchio, vecchio», confessava il poeta ad Alberto Arbasino, che lo incontrò a metà degli anni Cinquanta negli uffici londinesi della Faber&Faber (e ci ha lasciato un delizioso resoconto del loro colloquio in Lettere da Londra). Il giovane Arbasino, che all´epoca schedava le politiche del dopoguerra al Royal Institute of International Affairs e nel tempo libero scriveva dalla capitale britannica per il Mondo di Pannunzio, trovò Eliot «accasciato al buio in una stanzettina scura al secondo piano, con una stufetta elettrica e un gatto, semisepolto da tanti mucchi disordinati di libri». Gli sentì dire: «Quanto più uno invecchia, tanto meno si sente sicuro dei propri giudizi critici». Ma appena qualche anno dopo ad Arbasino apparve un Eliot assai diverso, spumeggiante e ciarliero, forse ringalluzzito dalle seconde nozze con la segretaria: «Questa bronchitina mi andava avanti da mesi, ostinata, e allora siamo andati a Marrakech per cambiare aria. Ma poi capita improvvisamente quel terremoto di Agadir e allora abbiamo deciso di trasferirci in Giamaica. E naturalmente, già che eravamo lì, siamo passati a New York, per vedere un po´ cosa davano di nuovo a Broadway». Chi era T.S. Eliot?

Repubblica 29.7.07
T.S.Eliot. Quel ragazzo americano che aveva fame d’Europa
di Nadia Fusini


Nelle Onde, Virginia Woolf lo chiama Louis. Se gli dà quel nome, è perché T.S. Eliot è nato a St. Louis. Come lui. Il personaggio su di lui modellato è poeta, banchiere, e straniero. Parla con forte accento. E se ne vergogna. Prova umiliazione per la sua differenza. «Umiliazione» - Tom aveva sempre in bocca quella parola, quasi fosse la peggiore sventura. È Virginia Woolf a notarlo.
Spaesato, si è sempre sentito. Da St. Louis, Missouri, va a studiare in New England, ma non è del New England, è un ragazzo che viene da altrove. Non ha l´accento di Boston. In Francia, studia lettere e filosofia alla Sorbona, ma non è francese; anche se la Francia è culturalmente vicina a chi è di St. Louis, perché St. Louis è stata un tempo la capitale della Louisiana francese. Studia la lingua con Henri Alain-Fournier, segue le conferenze di Bergson al Collège de France. E in particolare si appassiona al dibattito che si solleva intorno alle posizioni protofasciste di Charles Maurras. Gli rimarrà nella mente la triade di classicismo, cattolicesimo e monarchia. Legge Laforgue, Gide, Claudel. Passeggia per Boulevard Sébastopole, si addentra nei quartieri malfamati delle prostitute e dei maquereaux, annusa, curiosa. Ma non è facile scrollarsi di dosso la profonda inibizione delle origini.
Torna a Harvard. Ma anche da lì, nel 1914, riparte. Va in Germania, vuole leggere Goethe. Scoppia la guerra. Non tornerà più a casa. Rimarrà in Europa. Si stabilirà a Londra, dove negli anni a venire si dedicherà a dissociarsi della terra natia e dalla sua letteratura. Quasi che la perfezione, il compimento di un americano fosse diventare europeo.
L´europeo per Eliot è uno che mantiene le distanze, votato a una «universale estraneità». Dalla lontananza europea Tom vede meglio l´America. Sì, certo in America c´erano scuole, alcune fondate dall´avo rettore, c´erano cattedre e cattedratici, case editrici e editori, ma erano tutti dei morti viventi. Anzi, «morti stecchiti». In America il deserto si stendeva a vista d´occhio.
La letteratura di quel paese non vantava scrittori e poeti del calibro di quelli europei. Con l´eccezione di Poe, Whitman, Hawthorne e James, la letteratura americana «n´était guère qu´un dérivé local de la littérature anglaise», scrisse in francese, perché già abitava in Francia. Era assolutamente d´accordo con Poe: l´America era ancora una colonia letteraria della Gran Bretagna. Negò addirittura che esistesse una lingua americana.
In Europa, il 22 settembre 1914, data epocale, incontrò l´altro illustre emigrato, Pound. In Europa c´erano James e Conrad. Certo, uno era americano, l´altro polacco, ma abitavano lì. Lui era disposto a fare altrettanto, e lo fece. Cercava una tradizione a cui sottomettersi, una tradizione non che fosse sua, ma di cui potesse appropriarsi. Ne scoprì la fonte a East Coker, nel Somersetshire; da dove nel 1669 i suoi antenati erano partiti - direzione America.
Ancora prima di ritrovare questa radice, a Londra T.S. Eliot si era accasato, e in molti si erano dati da fare per aiutarlo a vivere. Virginia Woolf con Ottoline Morrell e altri amici di Bloomsbury in particolare. Era un peccato mortale che un giovane di talento dovesse passare la giornata in banca a scrivere cifre, invece che versi. Venne istituito un Fondo Eliot, si cercarono giornali che lo rendessero responsabile delle pagine culturali, ci si dette da fare per lui in mille modi. I due Lupi, ovvero i Woolf, offrirono i servigi della loro casa editrice, la Hogarth Press, e pubblicarono le sue Poesie, nel 1919, e nel ‘23 La Terra desolata.
Non che «il povero caro Tom» ringraziasse. Né che dimostrasse speciale gratitudine. Semmai cincischiava, non si decideva: lasciava «colare le sue tormentate perplessità goccia a goccia». Così si esprime Virginia Woolf. La quale si accorse subito di quanto fosse vanitoso e insolente - il poeta. Notò la frase lenta, l´espressione controllata, il singolare contrasto tra i modi cauti e gli occhi penetranti.
L´impaccio in lui sgorga dal suo volere insieme amicizia e distacco, appartenenza e separatezza. Altrettanto evidente è che non vuole piacere a nessuno, se non a se stesso. È introverso, guardingo, ambizioso, arrogante, ansioso, angosciato, sardonico, preciso, sospettoso, malevolo e molto, molto consapevole del proprio valore.
Lo scrive alla madre già nel marzo 1919: qui in Inghilterra godo di un successo di stima da parte di un gruppo ristretto, ma scelto, che mi considera il miglior critico e il miglior poeta vivente. Sono sicuro, continua, di avere più influenza io sulle lettere inglesi di qualsiasi altro americano finora… Escluso James, ha la buona grazia di aggiungere. Conosce molta gente, ma ancora più gente conosce lui.
Ha un senso di sé inamovibile, pesante come un macigno. Ma lui così severo, poteva essere frivolo. Una volta Virginia rimase a bocca aperta, e al diario confessò il suo stupore: in faccia Tom aveva uno strato di cerone! Sì, di make-up!
Dopo la conversione con tanto di battesimo nella chiesa di Finstock e cresima il giorno dopo officiata dal vescovo di Oxford, sembra che si «pretifichi», o «pietrifichi». Per certi amici è la stessa cosa. Pare loro che il «povero Tom» si trasformi in marmoreo prete.
Rimase però, in quanto cristiano, europeo. Pur assistendo incredulo al «suicidio dell´Europa». E alla vittoria della «American way of life». Ovvero, di una società «negativa» da cui scompariva l´idea della tradizione, in ogni aspetto della quale l´alienazione trionfava.
E quando qualcuno gli fece presente che, come frutto della guerra e delle catastrofi accadute in Europa, la civiltà si sarebbe probabilmente spostata a occidente, e la creatività nel futuro sarebbe migrata in America, affermò in modo categorico che non si era mai dato il caso che la torcia della civiltà passasse da una società genitrice (per così dire) a una società coloniale. La sola idea che potesse accadere una cosa del genere dimostrava l´esistenza di un «insidioso disfattismo», aggiunse.

Corriere della Sera 29.7.07
Internata dopo un articolo di denuncia sul trattamento dei giovani pazienti
Giornalista scomoda chiusa in manicomio «In Russia torna la psichiatria repressiva»
di Fabrizio Dragosei


MOSCA — Il sospetto è concreto, oltre che terrificante. In Russia tornano gli ospedali psichiatrici per i dissidenti? La domanda nasce da quello che sta accadendo a una giornalista del movimento di opposizione dell'ex scacchista Garry Kasparov che aveva denunciato il trattamento di giovani pazienti in un istituto. È stata arrestata, trascinata in un manicomio criminale, sottoposta a cure forzose.
Una pratica che sembrava definitivamente tramontata con la perestrojka di Gorbaciov e poi con lo scioglimento dell'Urss. Quando erano stati definitivamente chiusi i centri che nel 1970 erano arrivati ad ospitare fino a 3.350 dissidenti. Una pratica denunciata da tutti gli esuli russi, a cominciare da Aleksandr Solzhenitsyn. All'inizio di giugno a Murmansk la giornalista Larisa Arap ha pubblicato sul giornale locale del movimento di Kasparov, che si oppone al presidente Vladimir Putin, un'inchiesta sul locale manicomio. In particolare Larisa aveva denunciato il trattamento dei ragazzi e degli adolescenti. Un mese dopo si è recata in ospedale per ritirare l'idoneità medica per rinnovare la patente, basata su un esame cui era stata sottoposta prima della pubblicazione dell'articolo. La stessa psichiatra che allora l'aveva ritenuta idonea, ha avuto con lei una discussione sull'articolo. Poi, sostenendo che Larisa aveva dato in escandescenze e che si era dimostrata violenta, ha chiamato la polizia che l'ha subito arrestata e trasferita al locale manicomio. Qui Larisa è stata imbottita di psicofarmaci. Un primo sciopero della fame non è servito. Così adesso ne ha iniziato un altro. Al marito Dmitrij non è stato nemmeno notificato il ricovero di Larisa, anche se questi ha già presentato numerosi ricorsi. Il 18 luglio un tribunale ha stabilito che la giornalista «ha bisogno di cure». Così ora la donna rischia di essere trasferita in un istituto per malati cronici, dal quale, probabilmente, non uscirà mai più.
Quello di Larisa «non è il primo caso del genere negli ultimi tempi — secondo lo scrittore Vladimir Bukovskij, che a sua volta fu una delle vittime più illustri dei ricoveri coatti —. L'uso della psichiatria a scopo repressivo sta tornando». Un dato confermato anche dal presidente dell'Associazione psichiatrica indipendente, Yurij Savenko, secondo il quale nella maggior parte dei casi sono i boss locali o i ricchi oligarchi a ricorrere a questa pratica per mettere a posto nemici personali. E Solzhenitsyn oggi cosa dice? Sul caso particolare nulla. Però nei giorni scorsi ha difeso Putin dagli attacchi dell'Occidente. Lui che fu vittima del Kgb, sostiene che lo spionaggio estero (di cui Putin faceva parte) era un'altra cosa. Ha addirittura sostenuto che non c'era differenza con quello che facevano i servizi segreti occidentali. Ognuno lottava per la sua patria.

Repubblica Firenze 29.7.07
«Fanciullacci assassino»
Totaro esercitò "un diritto di critica politica"
di Franca Selvatici


Le sorprendenti motivazioni con cui il giudice Rocchi ha assolto il senatore di An dall´accusa di diffamazione
Totaro? Diritto di critica politica
Assassino vigliacco a Fanciullacci: offesa non punibile
La Procura non depone le armi ed ha deciso di ricorrere in appello contro la sentenza
"Un giudizio adeguato alla gravità del delitto Gentile: critica il fatto non l´eroe partigiano"

Achille Totaro, ex consigliere comunale a Firenze e oggi senatore di An, esercitò il diritto di critica politica quando definì Bruno Fanciullacci, medaglia d´oro della Resistenza, un «assassino vigliacco» in relazione all´uccisione del filosofo Giovanni Gentile, il massimo intellettuale del fascismo. Lo afferma il giudice Giacomo Rocchi nelle motivazioni della sentenza con la quale il 29 giugno ha assolto dall´accusa di diffamazione il senatore Totaro e altri cinque esponenti di An che solidarizzarono con lui nel gennaio del 2000, al culmine di un´aspra polemica politica.
Gentile fu ucciso il 15 aprile 1944 da un Gap (Gruppo di azione partigiana) guidato da Bruno Fanciullacci mentre rientrava in casa, al Salviatino, con l´autista, senza scorta e disarmato. Fanciullacci morì eroicamente tre mesi più tardi, il 17 luglio 1944, a 24 anni, gettandosi da una finestra di Villa Triste dopo essere stato orribilmente torturato. Definirlo «vigliacco assassino» significa travolgere l´intera sua reputazione, sostengono il pm Angela Pietroiusti, che presenterà appello, e l´avvocato di parte civile Pier Matteo Lucibello. Non è così, secondo il giudice Rocchi. A suo avviso chi esegue un assassinio è un assassino anche se in altre circostanze è un eroe, e Totaro è stato ben attento ad agganciare il suo aspro giudizio su Fanciullacci al delitto Gentile che fu, secondo lui, un «assassinio vigliacco» perché commesso contro una persona indifesa.
Un giudizio «indubitabilmente offensivo» ma che va inquadrato - afferma Rocchi - all´interno di una rovente e attuale polemica politica, nel corso della quale Totaro ha parlato come rappresentante eletto dal popolo e ha esercitato un diritto di critica politica. Per questo, in base all´articolo 51 del codice penale, non è punibile. Fanciullacci - ricorda il giudice - è morto per garantire a tutti gli italiani la libertà. Ma l´articolo 21 della Costituzione, conquistato con il sangue dei combattenti della Resistenza, stabilisce che «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero». Tutti, dunque anche «i portatori di idealità e opinioni diverse o radicalmente contrapposte alle proprie». Questo non significa legittimare qualunque giudizio. Ma sono leciti quelli, anche durissimi, che rispecchiano «la assoluta gravità oggettiva della situazione». E sulla gravità del delitto Gentile non ci sono dubbi - secondo il giudice - sia per la sua «indiscussa grandezza di filosofo» che per la sua condizione di persona disarmata e indifesa: perciò le espressioni di Totaro «sono sì aspre, ma adeguate alla gravità del fatto», che fu condannato anche da alcune componenti della Resistenza (mentre Indro Montanelli nell´81 arrivò a definire gli esecutori «criminali assetati di sangue»).
Il giudice ricorda che «nell´aprile del ´44 Firenze era occupata dai tedeschi e terrorizzata dalla Banda Carità, mentre era in corso la guerra di liberazione». Totaro, prima di parlare, avrebbe dovuto calarsi in quel clima? «Sicuramente sì» se fosse stato uno storico, ma «sicuramente no» dato che intendeva svolgere un ragionamento politico. La polemica è immediata: può un politico ignorare la storia?

Repubblica Firenze 29.7.07
Fanciullacci. La storia ignorata
di Ivan Tognarini
L'autore è presidente dell'Istituto storico della Resistenza in Toscana


Il commento di Ivan Tognarini, presidente dell´Istituto storico della Resistenza
Ma si può davvero ignorare la storia?

Le motivazioni del giudice per la sentenza di assoluzione del senatore Totaro, giudicato per le ingiurie rivolte al partigiano Bruno Fanciullacci, medaglia d´oro al valor militare, suscitano non poche perplessità. I presupposti fondamentali di questa sentenza sembrano essenzialmente due: la presentazione di Giovanni Gentile come un "vecchio filosofo", un anziano innocuo e, sostanzialmente, irresponsabile e inconsapevole dei propri atti e dei rischi derivanti; il diritto, da parte del "politico", di ignorare il significato, il senso degli eventi storici di cui parla.
Credo che si faccia un torto gravissimo al filosofo, alla sua intelligenza ed alla sua personalità poiché sono convinto che egli fosse pienamente consapevole delle proprie scelte, ne percepisse esattamente la gravità e privilegiasse la coerenza delle proprie scelte. Solo partendo da qui possiamo rendere l´onore delle armi al filosofo caduto in una guerra terribile, in cui riteneva doveroso prendere posizione. Una posizione coerente con la propria storia, con il proprio passato, con le proprie convinzioni, però sbagliata, tragicamente sbagliata, gravida di terribili conseguenze per sé e per tutti quei giovani che, dopo un ventennio di propaganda di regime e di dittatura, guardavano a lui con ammirazione ed ascoltavano i suoi appelli ad accorrere sotto le insegne della svastica e del fascio littorio per farsi macellare in guerra.
La giustificazione dell´ignoranza della storia per chi pretende di parlarne, mi pare un esempio lampante di teorizzazione dell´uso politico della storia. Non ha più importanza se ciò che si dice ha un fondamento storico; è importante solo la strumentalizzazione purché efficace. La scissione o peggio ancora la contrapposizione tra conoscenza storica e critica politica, non può essere giustificata neppure se chi ne fa uso è stato "eletto dal popolo". E´ forse questo che il popolo chiede agli eletti?
Ancora dubbi se leggiamo altri passi della sentenza (ammesso che ne abbiamo letto una versione esatta). Si chiede, ad esempio, il giudice: "Chi esegue un assassinio è un assassino?". Stupisce che si dia per acquisito che ci troviamo davanti ad un assassinio, escludendo a priori e pregiudizialmente, che possa trattarsi di una azione di guerra. Ancora più preoccupante il fatto che questo giudizio sembra avere origine nelle valutazioni soggettive dell´imputato, se è vero che il giudice ha scritto: "L´uccisione di un uomo (ritenuta) non legittima null´altro è che un assassinio; il termine usato è quindi adeguato e corretto". Ma chi è che ritiene "non legittima" l´uccisione, l´imputato o il giudice? E chi è che considera "adeguato e corretto" il termine?
Un´ultima considerazione. Si evoca il "diritto di critica" e la libertà di espressione. Principi sacrosanti per cui Fanciullacci e tanti altri come lui hanno dato la vita (di certo non Giovanni Gentile). Ma ciò significa che non si è responsabili delle proprie parole e delle loro conseguenze? Diviene legittimo anche fare apologia del fascismo, o calpestare valori fondamentali della Costituzione e della Repubblica, non limitandosi a considerazioni di principio ma giungendo a provocare ferite a chi ha sofferto e pagato così tanto? Infine sorprende che vengano utilizzati solo alcuni passaggi del giudizio sull´uccisione di Gentile formulato dal Partito d´Azione fiorentino (diverso da quello fatto proprio a livello nazionale), mentre non si ricorda che sul filosofo, sulla sua azione nella repubblichina di Salò, sulle sue responsabilità, il giudizio degli antifascisti era unanime ed irriducibilmente negativo.
Si è avuta notizia dell´intenzione della procura della Repubblica di impugnare il procedimento. Auguriamoci che la riflessione possa essere più ampia e distesa, tenendo conto della complessità e delicatezza di una vicenda che sta al cuore della democrazia e della libertà nel nostro paese.

Corriere della Sera 29.7.07
Rignano
Giovanni Bollea. «Questi interrogatori fanno solo del male È meglio avere i colpevoli in libertà»
di Mario Porqueddu


MILANO — «Preferisco pensare che un colpevole non venga condannato, che se ne vada libero, piuttosto che vedere dei bambini sottoposti a una simile violenza». Per tutto il tempo Giovanni Bollea, l'uomo che a partire dal dopoguerra ha rivoluzionato la neuropsichiatria infantile in Italia, continua a ripetere quella parola che odia: «Violenza, ancora violenza».
Il pensiero del grande studioso è rivolto alla bambina di cinque anni che ieri è stata ascoltata per ore nel Tribunale di Tivoli e ha parlato di «streghe» e «castelli cattivi», mimando i giochi ai quali sarebbe stata sottoposta. Bollea ascolta i commenti degli avvocati, di quelli che difendono gli adulti sospettati di aver commesso abusi sessuali e sottolineano le «tante incongruenze » nel racconto della bimba, e dei legali di parte civile, convinti che «le cose che ha mimato sono devastanti, con un impatto duro per chi ha ascoltato». E alla fine il vecchio professore sbotta: «Io tremo di rabbia: quello che stanno facendo è una nuova, grave violenza nei confronti dei bambini ».
Bollea ha 93 anni, è in vacanza in Sardegna, ma continua a seguire la vicenda degli alunni della scuola Olga Rovere di Rignano Flaminio. «Ne parlavo proprio ieri sera — racconta —. Provavo a immaginarmeli quando saranno grandi».
E che cosa ha visto nel loro futuro?
«Temo che la loro vita sessuale possa essere contaminata, alterata a causa di quello che gli sta capitando».
Si riferisce a quello che sta capitando anche adesso, in tribunale?
«Sì. Perché i veri condannati in questo processo non saranno gli eventuali colpevoli. Quelli che stiamo condannando fin da adesso sono ancora una volta i bambini. Saranno loro a patire le conseguenze più gravi».
Ma le loro parole potrebbero servire a stabilire la verità...
«Io preferirei che un colpevole sfuggisse alla condanna, pur di non vedere dei bambini costretti a subire interrogatori del genere. Noi dovremmo preoccuparci di aiutarli a dimenticare quello che è successo. Invece vogliamo sapere e allora gli chiediamo di ricordare tutto, di raccontarlo di nuovo. Per farne strumenti di condanna li costringiamo a rivivere un dramma. Ma non abbiamo il diritto di fare questo: stiamo tutti quanti diventando colpevoli».
Non crede che questo possa servire a fare giustizia?
«Secondo me non è utile ai fini di un processo. E non è giustificato. Ma insomma: li hanno interrogati mille volte, davanti a periti, medici, magistrati. Io mi domando cosa vogliano ottenere, che valore possa avere la testimonianza dei bambini in queste condizioni, quale codice possa dare tanto valore al racconto di un bimbo?».
Lei non si fiderebbe?
«Non darei troppe garanzie di attendibilità. O almeno credo che farlo sia molto difficile, problematico. Chissà, magari i bambini hanno finito per dire cose che non pensavano».
Ritiene che possano inventare qualcosa?
«Non lo so se inventano».
Ma sembra quasi che di questi aspetti le importi poco...
«Quello a cui penso, quello che so per certo, è che il ricordo di questa ulteriore violenza subita rimarrà nella loro memoria».
Insomma, è contrario a quello che sta succedendo sia pensando al benessere dei bambini sia per quanto riguarda il possibile esito del processo?
«Sono contrario a interrogarli e, per così dire, contrario a quello che loro dichiareranno».
Chi doveva preoccuparsi di tutelare questi bambini?
«Chi difende il bimbo: i suoi genitori. Le madri e i padri non avrebbero dovuto permettere di fare interrogare i loro figli così piccoli. Che cosa proveranno fra qualche anno, quando saranno cresciuti, ricordando cosa gli hanno fatto fare? Perché non li lasciamo finalmente in pace?».

Corriere della Sera 29.7.07
«Il consumismo non va demonizzato»: Liberazione divide
di Andrea Garibaldi


Sanguineti: ma prima la rivoluzione. Curzi: meglio frenare il Pd

ROMA — «Il consumismo è libertà, la politica deve ripartire da qui». Lo scrive Liberazione, quotidiano di Rifondazione comunista, mica Il Giornale della libertà di Michela Brambilla. «Quanti gradi fanno a Roma?» è il primo commento del professor Luciano Canfora, ordinario di filologia greca e latina, «comunista senza partito». Liberazione dedica all'elogio del consumismo la pagina della cultura, con un articolo di Massimo Ilardi, che insegna Sociologia urbana a Camerino e dirige la rivista
Gomorra. Sostiene Ilardi che il desiderio di consumare e l'impossibilità di soddisfarlo producono rivolte metropolitane su cui la sinistra può lavorare. «Ma no! — dice Canfora —. I vestiti lussuosi di via Montenapoleone sono appetibili, come altri segni di ricchezza. Ma appropriarsi di quei beni non è un atto di rivoluzione ». Né un gesto di libertà... «Citerò Stalin di cui si parla ormai così poco: prima le strutture pesanti, poi i beni di consumo». Professore, cosa stava facendo? «Ero al tavolino, a studiare».
Il poeta, e comunista, Edoardo Sanguineti, dice che «l'uomo è desiderante». Quindi il consumismo può essere libertà? «L'uomo desidera, ma è anche bisognoso». E allora? «Allora solo in una società "rivoluzionata", dove ci sia equità e soddisfazione dei bisogni, si può pensare alla libertà di consumare». Ma la voglia generalizzata di consumare non può generare rivolta? «Non sono i desideri di beni materiali a causare la rivoluzione. Al contrario: la brame umane dovrebbero essere tutte soddisfatte, ma dopo la rivoluzione». Altrimenti si sogna... «Sì, mi viene in mente quel film di Bertolucci, The Dreamers, che parla anche di marginalità rivoltosa giovanile, quella del "tutto e subito"». Professore, l'abbiamo disturbata durante uno shopping? «Veramente stavo riposando ».
Insomma, almeno sul consumismo la formazione marxista non tradisce. Il gusto per i beni materiali resta al bando. O no? «Veramente consumare può essere libertà...» dice Valentino Parlato, fondatore ed editorialista del manifesto. Come, quando? «Consumando ciò che non ci dice la pubblicità. Comprando merci contro il mercato». Ah, ecco. «Noi crediamo di fare delle scelte, ma sono le scelte imposte da marketing, tv, imprese». Soluzione? «Acquistare ciò che non rovina le risorse ». Vetro e carta, e niente plastica? «Per esempio. E poi farsi guidare dalle regole della buona salute». Cibi biologici? «Per esempio». Valentino, stava consumando qualcosa? «Sto a casa, leggendo».
Rina Gagliardi, senatrice di Rifondazione ed editorialista di Liberazione, non è per nulla d'accordo con quell'articolone sul suo giornale: «Niente supporta l'idea che attraverso il consumo legale o illegale di beni, i popoli possano emanciparsi». Ci sono consumi che danno il senso della libertà? «Forse quando si comprano beni che costano così poco, come i telefonini: la libertà di cambiarli continuamente... Ma io penso ad altro». A cosa? «Penso che la libertà è boicottare, come è stato fatto con i farmaci della multinazionale Glaxo. O ai beni che vengono da commercio equo e solidale. Caffè, lana, ceramiche, giochi...». Lei è in giro a consumare? «Veramente stavo scrivendo un articolo».
E Sandro Curzi, ex direttore di Liberazione, consigliere di amministrazione Rai, uomo che ama essere elegante, è d'accordo con l'assunto: «Consumismo è anche libertà»? «Mi sembra un pensiero troppo difficile, con questo caldo. Vorrei parlare di cose più basse ». Tipo? «L'esigenza per la sinistra, quella a sinistra del Partito democratico, di stare fortemente unita e di rimettere al centro della società il problema del lavoro. Altro che consumismo! ». Lei è impegnato a consumare qualcosa, in questo preciso momento? «Stavo scopa».

Corriere della Sera 29.7.07
Bologna, decisione di Enrico Di Nicola: «Per documentarmi ho studiato anche nei fine settimana». Trasmessi gli atti al prefetto
«La Madonna non è divinità. Non c'è bestemmia»
di Giulia Zino


Il procuratore capo di Bologna, Enrico Di Nicola ha chiesto l'archiviazione della denuncia per vilipendio della religione presentata da un deputato di FI, Fabio Garagnani: obiettivo del politico una performance, «La Madonna piange sperma», promossa da un club gay. Dice Di Nicola: «Per il codice la bestemmia è tale se indirizzata alla divinità. La Madonna non lo è».

MILANO — Era cominciata e finita nel giro di pochi giorni. Una polemica estiva ma di quelle che toccano gli animi: la prevista messa in scena, a Bologna, di uno spettacolo dal titolo «La Madonna piange sperma». Ora, la parola «fine», arrivata dopo poco più di un mese dagli eventi, rischia di riaccendere la miccia: perché a chi gridò alla bestemmia, il procuratore capo di Bologna risponde che così non fu. Il motivo? Tecnicamente, bestemmia solo chi offende una divinità, «e la Madonna non lo è».
Partiamo dall'inizio: a metà giugno nel quartiere San Vitale, compare sui muri delle case il programma di una manifestazione estiva ospitata negli spazi di vicolo Bolognetti.
Tra gli spettacoli in cartellone c'è una performance, promossa dall'associazione gay «Carni scelte », dal titolo «La Madonna piange sperma». Scoppia il caso: la curia cittadina parla di «bestemmia abominevole», il sindaco Cofferati di «inaccettabile volgarità che offende credenti e non credenti», l'arcivescovo Carlo Caffarra celebra una messa «riparatrice» nel santuario di San Luca. La polemica cresce — l'evento, tra l'altro, è patrocinato dal ministero delle politiche giovanili, dalla Regione e dal Comune — e non si placa finché gli organizzatori non decidono di cancellare lo spettacolo (previsto in scena per il 29 giugno scorso).
Storia finita per tutti, ma non per Fabio Garagnani, deputato bolognese di Forza Italia, che denuncia per vilipendio gli organizzatori della performance incriminata. La pratica va avanti e finisce sotto gli occhi del procuratore capo di Bologna Enrico Di Nicola. Che ora, a un mese e mezzo di distanza, rende nota la sua decisione, maturata — dice — dopo lunghe riflessioni e in una lettera, inviata al gip di Bologna pochi giorni fa, fa richiesta di archiviazione per la denuncia di Garagnani. Motivo: in questo caso, il reato di vilipendio alla religione non sussiste. «Perché — dice oggi Di Nicola al Corriere di Bologna — per il codice la bestemmia è tale solo se indirizzata a santità o divinità e la Madonna, per i teologi, non rientra in nessuna di queste categorie».
Per dirimere il caso, Di Nicola si è appellato alla sentenza della Corte costituzionale del 18 ottobre 1995, che dichiara l'illegittimità costituzionale del primo comma dell'articolo 724 del codice penale («Bestemmia e manifestazioni oltraggiose verso i defunti ») che considera colpevole di bestemmia chi offende «i simboli o le persone venerati nella religione dello Stato». Dopo quella sentenza, il reato di bestemmia è limitato a chi oltraggia la «divinità». E se la Madonna divinità non è (ma «simbolo» o «persona ») bestemmia non c'è stata.
Ineccepibile dal punto di vista giuridico. Da quello teologico, Di Nicola dichiara di essersi documentato per settimane, «studiando anche nei weekend». Ma non cita le sue fonti. Vedremo cosa ne penseranno curia e fedeli che, dopo aver vinto la battaglia di metà giugno, ora si vedono non offendere, ma addirittura negare la natura divina della Vergine. E dopo le scuse in tv (le fece, tra gli altri, un ospite a cui scappò una bestemmia durante una trasmissione di Maria De Filippi, nel '99) e le più varie proteste di innocenza («Invocavo Zizou, non Gesù» disse una volta Tullio Solenghi) vedremo se la vicenda di Bologna farà scuola.
Il caso, comunque, non è ancora chiuso: Di Nicola ha inviato gli atti al prefetto Vincenzo Grimaldi che dovrà valutare se, pur non essendo una bestemmia, la performance bolognese fu comunque offensiva per la pubblica decenza, dunque punibile con una sanzione amministrativa.

l'Unità 29.7.07
Gianni Rinaldini. Il segretario Fiom critica l’accordo e attende la replica della Cgil alla lettera del premier
«Epifani risponda al governo e non firmi»
di Laura Matteucci


Milano. «A fronte della durissima lettera di Prodi, la Cgil dovrebbe prendere una posizione altrettanto netta e non firmare l’accordo. È tempo che il sindacato torni a giocare il proprio ruolo. Pesa troppo la minaccia che aprire un conflitto può determinare una crisi di governo. Non è affatto così, dobbiamo liberarci da questo spettro». Parla il segretario generale della Fiom-Cgil, Gianni Rinaldini, che boccia senza riserve il protocollo su lavoro, welfare e previdenza. E definisce «ineludibile» l’aprirsi della discussione sul futuro della Cgil.
Rinaldini, al direttivo sull’accordo lei però si è astenuto.
«Ma la mia astensione non riguardava il merito. Figuriamoci, sono contrario anche alla parte sulle pensioni... È che sono stati presentati documenti contrapposti, e a fronte di questo mi sono rimesso alla consultazione dei lavoratori, a settembre. Parentesi: anche il comitato centrale della Fiom, come gli altri, voterà, sia sull’accordo che sul contratto, il 10 e 11 settembre. Nella mia dichiarazione di voto, l’altro giorno, ho anche sottolineato che da questa vicenda emerge chiaramente il problema del ruolo del sindacato, tanto più con un governo di centrosinistra».
Significa che ne è stato troppo “ostaggio”?
«Il sindacato ha due principali strumenti: la partecipazione e la mobilitazione dei lavoratori. Se abdica alle sue funzioni, tutto finisce per svolgersi solamente tra forze politiche. Io dico che il confronto sindacale viene troppo spesso subordinato al mantenimento dell’equilibrio politico. E così peraltro si corre il rischio di aprire una frattura profonda con i lavoratori».
È chiaro che in questo momento la Cgil è in difficoltà. Qual è lo scenario più plausibile?
«Il punto è che, dopo aver già incassato l’accordo sullo scalone, la Cgil ha pure dovuto subìre un atto deliberato di umiliazione da parte di Prodi: non può certo far finta di non sapere che su lavoro e straordinari le scelte del governo sono antitetiche a quelle che la Cgil ha sempre espresso. Dico: qui la scelta è di incentivare gli straordinari, come propone Sarkozy in Francia. E il precariato: con la storia del timbro può finire che uno si fa tre anni da interinale, e altri tre con contratti a termine. Gli scenari aperti sono diversi. Credo che la Cgil non dovrebbe firmare del tutto, ma penso sia possibile firmi solo una parte, il che però la lascerebbe con un accordo separato su temi così rilevanti. Molto complicato sarebbe firmare integralmente, e delegare di fatto alle forze politiche ogni possibilità di miglioramento».
In tutto questo, si parla anche di ridiscutere il modello contrattuale. L’altro giorno il responsabile Industria per la Cgil Guzzonato si è detto disponibile al confronto, e ieri è tornato in tema anche il ministro Damiano, favorevole al rinnovo triennale.
«Chiacchiere. Dichiarazioni sbagliate. Se ne discute dopo aver chiuso i contratti aperti, a partire da quello dei meccanici. Guzzonato è responsabile dell’Industria? Io considero la sua l’opinione personale di uno dei sei milioni di iscritti della Cgil».


l'Unità 29.7.07
I tanti volti di Calatrava
di p.p.p.


Scuderie del Quirinale. Si va pensando di vedere solo grafici, progetti e planimetrie ed invece si trovano soprattutto disegni, dipinti e sculture. È quanto avviene recandosi alle Scuderie del Quirinale per la mostra dedicata a Santiago Calatrava (a cura di Tomás Llorens e Boye Llorens Peters) che, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, piuttosto che riferire unicamente dell’attività dell’autore in campo architettonico - egli ha firmato, tra l’altro, il complesso olimpico di Atene, la Città delle Arti e delle Scienze di Valencia… - pone l’accento sull’interdisciplinarietà dei suoi interessi e la costante ricerca di forme espressive differenti che caratterizza la sua ricerca. Oltre al plastico della Città dello Sport pensata in vista dei campionati mondiali di nuoto che si terranno a Roma nel 2009, che insieme al Ponte sul Canal Grande a Venezia in via di completamento costituisce una delle testimonianze più dirette degli interventi di Calatrava (nato a Benimamet nei pressi di Valencia nel 1951) in Italia, gli spazi delle Scuderie ospitano infatti una selezione di prove plastiche e pittoriche, le ultime delle quali sviluppate in vari materiali dal marmo al legno, dal metallo alla ceramica. Che, nel loro complesso, riflettono le varie anime che alimentano contemporaneamente la sua vena creativa, da quella del tutto rivolta verso la contemporaneità ed i sistemi tecnologici che essa offre a quella che guarda al passato, specialmente al Rinascimento, età alla quale Calatrava si accosta idealmente per la sua capacità di eccellere in uno specifico territorio operativo e, al tempo stesso, di applicarsi in molti altri, come testimonia ampiamente la mostra.

il manifesto 29.7.07
«In autunno sarà battaglia sociale»
Gennaro Migliore (Prc) avvisa i riformisti dell'Unione: «O si cambia o ci mobiliteremo. Votare contro il governo? Non sarebbe un dramma per noi»
intervista di Alessandro Braga


Roma La battaglia sarà in autunno. E non dovrà essere solo nei palazzi, ma nelle piazze, perché l'importante è recuperare un rapporto più profondo con la società. Ne è convinto Gennaro Migliore, capogruppo alla camera di Rifondazione comunista.
Sircana ha detto che il governo non torna indietro. Il protocollo sul welfare è inemendabile.
Mi sembra che la dichiarazione di Sircana faccia parte del balletto dei chiacchiericci estivi. Il testo dell'accordo lo conosciamo tutti. E tutti sappiamo che il parlamento può emendare qualsiasi cosa. Noi abbiamo già pronti i nostri emendamenti e in autunno li presenteremo in aula.
Nello specifico, quali saranno?
Dovranno andare a toccare la parte normativa: alla base non ci deve essere una logica redistributiva, ma l'idea del modello di società che vogliamo costruire. Noi vogliamo mettere in discussione la logica che sottende la legge 30, ossia che il lavoratore è una variabile dipendente dall'azienda e che deve essere distrutta la sua capacità contrattuale. Chiederemo che i contratti a tempo determinato e quelli di apprendistato non vengano considerati una pratica usuale. E riproporremo il testo della legge Alleva, di cui sono uno dei primi firmatari (che prevede, tra le altre cose, assunzione a tempo indeterminato per chi nell'arco di tre anni abbia lavorato almeno diciotto mesi a tempo determinato nella stessa azienda, l'abolizione del lavoro parasubordinato e una restrizione delle possibilità di esternalizzazione del lavoro ndr).
Pensioni e welfare. Centrosinistra di nuovo conio e scenari più avanzati. Sembra una strategia dei riformisti per sostituire la sinistra alternativa con nuovi alleati centristi. Che ne pensi?
Penso sia una strategia suicida. Questo governo sta vivendo una crisi di credibilità mai visto prima e si giustifica dicendo che finché sono alleati al Prc non possono far nulla. Ho accolto con favore l'uscita di Dario Franceschini che ha smentito ipotesi di nuove alleanze. Anche perché questo nuovo conio rischia di essere una moneta fuori corso.
In che senso?
Dini, Rutelli, lo stesso Prodi parlano il linguaggio del palazzo. Non si rivolgono alla base. Hanno capito che così non si può andare avanti e, con la scusa dell'instabilità dell'esecutivo che sarebbe causata da noi, cercano di fare nel minor tempo possibile quello che vogliono. Noi vogliamo invece recuperare un rapporto più profondo con la società, rimettere la piramide sociale sulla sua base.
Una sinistra unita può aiutare questo processo?
Si, se porta in piazza le persone rimotivandone la partecipazione. Sennò la politica si riduce alle primarie del partito democratico. Dobbiamo rimettere insieme le forze migliori della società. E' da aprile che diciamo che serve una sinistra unita ma abbiamo avuto una carenza di iniziativa politica e abbiamo puntato troppo sull'istituzionale. Cose positive, come la lettera dei quattro ministri, ma adesso è il momento di riportare in piazza il nostro popolo, e per farlo abbiamo bisogno anche del sindacato. Prepariamo insieme la mobilitazione. Dobbiamo fare una battaglia di popolo.
Poi però in autunno ci sarà da votare in aula.
Non voglio ridurre la battaglia della sinistra solo in ambito istituzionale. Ripeto, serve una battaglia sociale. Poi, sia chiaro, noi non votiamo cose invotabili: un voto negativo non è un dramma.

il manifesto 29.7.07
La lunga guerra del partigiano Visone
Resistenza tradita Nella lenta evoluzione del Partito comunista vide il fallimento storico del ceto politico nato dalla lotta partigiana Linea d'azione Contro repubblichini e nazisti l'opzione militare era per Giovanni Pesce l'unica via d'uscita da attendismo e incertezze
di Angelo d'Orsi


Aveva quasi novant'anni, Giovanni Pesce, scomparso a Milano il 27 luglio: era nato il 22 febbraio 1918, in provincia di Alessandria, nell'Acquese, a Visone, località di cui egli avrebbe assunto il nome quando indossò i panni del comandante partigiano: panni che a lui si attagliavano forse meglio che a chiunque altri. Sì, perché «Visone» incarnò la linea dell'azione diretta, contro i repubblichini e i nazisti: insomma, l'opzione militare, come unica via d'uscita dall'attendismo, dalle incertezze, e, diciamolo, dalle chiacchiere della politica dei partiti che disegnavano organigrammi, che delineavano il futuro di quel Paese che intanto si trattava di liberare. E Pesce è stato davvero un liberatore, anzi, un libertador, in quanto, come Simon Bolivar, univa nel suo pensiero l'istanza della libertà dall'oppressione dei tedeschi e dei loro alleati succubi italiani, alla necessità di una vera liberazione sociale.
Non poteva che essere comunista, e lo fu, tutto d'un pezzo, come qualcuno ebbe a dire spesso in passato, come qualcuno ha ripetuto ora nei commenti alla notizia del decesso. È stato un comandante partigiano italiano. Alle spalle, dietro la militanza nel Partito comunista, e prima della milizia partigiana, c'è la storia di un ragazzetto che emigra in Francia con la famiglia, cercando di aiutare a sbarcare il lunario facendo di tutto, dal guardiano di vacche al minatore. Si iscrisse perciò prima alla Gioventù comunista francese, divenendo segretario della Sezione della località dove viveva, nel Gard, sull'Oltralpe. Erano i mitici, terribili anni Trenta: e la Guerra di Spagna attirava tutti i cuori nobili a combattere dalla parte dei repubblicani. Anche il diciottenne piemontese (avrebbe raccontato egli stesso che decisivo fu aver assistito a Parigi a un comizio della Pasionaria Dolores Ibarruri) non seppe resistere a quell'appello. Ne ricavò ferite varie, e un'esperienza bellica (raccontata in Un garibaldino in Spagna, del 1955) che avrebbe messo a frutto negli anni seguenti nella guerra antifascista in Italia.
Rimpatriato forzosamente nel 1940, dalla Francia di Vichy, fu incarcerato e condannato dal Tribunale Speciale, condanna che scontò a Torino, e quindi inviato al confino a Ventotene, dove ebbe modo di conoscere, fra gli altri, Pertini e Terracini. Ne uscì alla fine di agosto 1943, e fu di nuovo a Torino, con il preciso compito di organizzare i primi Gap. I Gruppi di Azione Partigiana - la risposta urbana, per così, dire alle bande di montagna: la guerra di movimento affficancata alla guerra di posizione, per dirla gramscianamente - avevano da allora trovato il loro capo: un uomo coraggioso, fino alla temerarietà, dotato di grandi doti di stratega e capace, anche, di sottrarsi alle pressioni dei partiti. Lo strano caso di un militare che non aveva mai fatto la naja (si raccontò nel libro Soldati senza uniforme, 1950), insomma; un militare che lottava per ideali politici, perdipiù progressisti. Questo fu da allora Giovanni Pesce, che divenne il nemico numero uno dei nazifascisti.Ferito, braccato, dovette lasciare Torino per Milano, dove ebbe il difficile incarico di riorganizzare la III Brigata Garibaldi «Rubini», dei Gap, duramente provata dalla repressione di tedeschi e repubblichini.
In una delle azioni cadde prigioniera delle SS Onorina Brambilla, staffetta partigiana («Nori», per gli amici; «Sandra», il nome da combattimento), l'unica che aveva il privilegio di avvicinarlo per consegna di ordini del Cln e del Pci: Nori sarebbe divenuta la sua fedele compagna di vita nel dopoguerra. Il problema, allora, per la Resistenza, al di là delle questioni di strategia e di tattica militare, era far sentire agli operai delle grandi fabbriche - posti sotto ricatto dai nazifascisti, che li trasferivano a centinaia nei lager, con un clima di paura che si valeva di spie assoldate - che i partigiani erano con loro, erano dalla loro parte.
Fu allora che nacque «Visone», e quel nome si ammantò di un'aura di leggenda, che incuteva paura ai nemici e massimo rispetto al variegato fronte antifascista. Svolse, nei mesi seguenti, un'intensissima opera di sabotaggio e di attacchi a convogli militari sulla linea sia ferroviaria, sia stradale, Torino-Milano, prima di essere di nuovo incaricato di una delle tante missioni impossibili: riorganizzare le forze gappiste milanesi, decimate e provate dalla fucilazione del comandante Luigi Campegi. Visone riuscì nell'intento e guidò la III Gap sino alla smobilitazione post 25 aprile.
Ma «smobilitazione» era un concetto estraneo alla mentalità e agli ideali di Giovanni Pesce, e la medaglia d'oro al valor militare, ottenuta per la sua azione nella Resistenza, non fu per lui una sinecura. La battaglia continuava, e la sede era il Pci, per il quale fu a lungo consigliere comunale a Milano (dal 1951 al 1964), vivendo non senza ambasce e turbamenti la lunga e lenta trasformazione del partito che sarebbe poi proseguita a tappe accelerate nell'era post-togliattiana. La casa comunista gli stava ormai stretta, non perché comunista, ma perché, semmai, troppo poco comunista: era l'idea di Pietro Secchia della «Resistenza tradita» e del fallimento storico del ceto politico nato dalla lotta partigiana. Una specie di oasi non solo reducistica fu per lui in tal senso, l'Anpi di cui fu eletto consigliere nazionale sin dalla fondazione dell'Associazione, dopo che il Comando generale delle Brigate Garibaldi lo aveva proclamato «eroe nazionale».
Proprio alla vigilia della «contestazione», nel 1967, diede alle stampe un libro intenso che costituì, a prescindere dall'autore, un testo di riferimento di molta parte del movimento sessanttottino, e anche delle frange che videro negli anni Settanta la soluzione politica nella ripresa della lotta armata. Senza tregua, si chiamava quel libro; e il titolo divenne una parola d'ordine per qualcuno dei teorici della nuova «lotta armata», a dispetto degli sforzi che l'autore, preoccupato della deriva terroristica, fu costretto a compiere, volti a distinguere l'azione dei Gap, da lui incarnati, nel biennio di ferro e fuoco del '43-45, da quella delirante dei loro emuli trent'anni dopo.
Certo, lui aveva insegnato che al terrore si risponde col terrore: ma il nemico era Hitler, il nemico era Mussolini, il nemico era il fascismo internazionale, da Madrid a Berlino, da Roma a Tokyo. Il terrore teorizzato e praticato dai «nuovi partigiani» era tutt'altra cosa, e Pesce-Visone ne era convinto: il che non toglie che le ultime evoluzioni di quello che era stato il suo partito lo lasciarono freddissimo. Sicché, post Bolognina, egli entrò in Rifondazione Comunista; era il 1991 e Pesce era ormai politicamente emarginato da tempo. La campagna che ogni tanto si fece perché una nomina a senatore desse pubblico, solenne riconoscimento ai suoi meriti, cadde nel vuoto; ed era ovvio.
In fondo, Visone era diventato un compagno scomodo, una presenza ingombrante, a dispetto del silenzio e del riserbo di cui si circondava. Con lo stesso riserbo, ora si è spento, togliendo l'incomodo. Nell'Italia di oggi, tentata da impossibili quanto imposte «riconciliazioni», Visone era di troppo.

Liberazione 29.07
Il governo è diventato un triunvirato (Prodi, Padoa e Rutelli) più D'Alema ospite di riguardo. Risponde alla borghesia che vuole la sinistra all'opposizione
e una società organizzata in modo totalitario sulla sola superiorità etica del mercato. Come uscire dalla trappola? Rilanciando la lotta sociale
Prodi e Montez. cercano un nuovo '98: costringere la sinistra a rompere o cedere
di Rina Gagliardi


Dunque, il portavoce di Romano Prodi, Silvio Sircana, dice che il protocollo d'intesa tra governo e sindacati - su pensioni, Welfare e precarietà del lavoro - è "sostanzialmente inemendabile". Lo dice in un torrido sabato di mezz'estate, quando la metà, o giù di lì, della popolazione italiana si sta inerpicando sulle autostrade, per la meta di una o due settimane di ferie, e pensa, se mai, alla "inemendabilità" della politica - di questa politica. Lo dice all'indomani di un incontro-pranzo, tra il premier e i quattro ministri della sinistra, che pareva essersi concluso sì un po' vagamente, ma senza termini perentori. Ora, per chi si fosse illuso sulla disponibilità dell'esecutivo ad ascoltare ancora, ad avere un supplemento di confronto con le forze della coalizione che rappresentano almeno sei o sette milioni di elettori, è tempo di prender atto, appunto, che si è trattato soltanto di un'illusione. La parola passa al Parlamento, ma soprattutto alla battaglia sociale, che preannuncia un autunno molto più bollente dell'estate, e denso di conflitti contro i protocolli e i pacchetti "inemendabili". Non discussi, se non in parte, nemmeno da normali riunioni del Consiglio dei ministri. Non trattati, se non in parte, con la più grande organizzazione sindacale del paese. E, per di più, alla fine scritti da una penna della quale il minimo che si possa dire è che si trattava di una penna di facili costumi.
Ma che cosa sta davvero succedendo? Tre cose molto chiare, e strettamente connesse l'una con l'altra. La prima è la "nascita virtuale" del Partito Democratico: un partito che (ancora) non c'è ma opera come se ci fosse. E che si è già dotato di un leader e di un impianto politico-ideologico non solo di esplicita caratterizzazione centrista, ma di stretta sintonia con Confindustria e i massimi poteri forti del paese (Bankitalia). Questa nascita ha inferto un colpo quasi mortale all'Unione e ai suoi equilibri interni: il programma della coalizione, quello su cui pur a stento si era vinto il 10 aprile 2006, è stato nei fatti derubricato a mera "chiacchiera elettoralistica", e la sua componente di sinistra viene tendenzialmente ridotta ad "intendenza". Forza e forze di complemento che devono, né più né meno, accodarsi alle decisioni prese dal Governo Vero - quel quartetto formato da Prodi, dai vicepremier e dal ministro Padoa Schioppa nel quale a volte perfino il ministro degli esteri appare solo un ospite di riguardo. A questa scelta strategica, si aggiunge la partita tutta legata alla lotta dei poteri interni. Prodi (ma non solo) sa bene che, dopo il 14 ottobre, il giorno in cui Veltroni sarà incoronato capo del Piddì, avrà formalmente inizio una fase di accentuato "dualismo", appunto, di poteri e di instabilità ulteriore per un Governo che di stabilità non è finora scoppiato. Sa cioè che rischia di cadere per gli effetti di un processo "inevitabile" (l'accelerazione impressa al cammino del Pd), che egli stesso ha tentato invano di contrastare come ha potuto e che nei fatti contribuirà a delegittimarlo. Perciò, gioca il tutto per tutto: per un verso, cerca di scaricare addosso alla sinistra l'eventuale responsabilità della crisi ("Se cado io, cadono anche loro"), per l'altro verso, tenta di "sterilizzarla" e di guadagnarsi, agli occhi dei poteri forti, un merito strategico non piccolo (un terzo scenario, quello in cui l'attuale premier potrebbe succedere a se stesso e gestire una maggioranza diversa appare, allo stato, alquanto improbabile). In ogni caso, il paradosso è che il nemico principale del governo dell'Unione sta diventando proprio lui, Romano Prodi.
La seconda cosa che sta succedendo è la possente offensiva, mediaticamente supersostenuta, della borghesia nazionale - ed europea. Sul terreno che più direttamente la interessa, cioè le scelte di politica economica e sociale, la borghesia ha decretato che è venuto il tempo in cui la sinistra deve essere cacciata dal Governo - da questo governo. Non perché esso stia scivolando su posizioni bolsceviche, ma perché, comunque, tende ad essere, e a rimanere, un terreno aperto di conflitto, contrattazione, lotta politica. Non perché esso abbia realizzato politiche antiborghesi (anzi), ma perché non soddisfa l'istanza oggi fondamentale della borghesia stessa: quel primato sovraordinatore della logica dell'impresa e del mercato che, nelle vesti (Montez.) dell'antipolitica o in quelle (Draghi) della stabilità monetaria e del veto a ogni politica espansiva, si pone oggi come un paradigma sostanzialmente neo-totalitario, insofferente di ogni mediazione, ma anche di ogni compromesso sociale. Le ragioni di questa svolta seccamente a-democratica, o del divorzio tendenziale tra capitalismo e democrazia liberale, sono certo complesse, non limitate all'ambito nazionale e andranno prima o poi seriamente indagate. Intanto, è evidente che si sono irrobustite dopo la vittoria di Sarkozy in Francia e la débacle della sinistra: l'attacco diretto alla sinistra, il pesante interventismo nella trattativa previdenziale e sull'intero pacchetto Welfare e mercato del lavoro, la discesa in campo proreferendaria ne sono soltanto i segni più visibili. In concreto: sono soprattutto loro, i poteri forti, a lanciare la sfida. Vogliono che cada questo governo, e pretendono un governo, diretto da chiunque - da Montez. in persona a Lamberto Dini - che non comprenda al suo interno le sinistre - o una sinistra capace di affermare le proprie ragioni.
La terza e ultima cosa consegue alle altre due: stanno preparando la riedizione, riveduta e aggiornata, del '98. Si tratta di costringere Rifondazione, comunisti italiani, Verdi e anche Sinistra Democratica, a scegliere tra un'alternativa micidiale: o rompere o cedere. Nel primo caso, assumendosi la responsabilità di precipitare il paese in una crisi al buio, di esporlo alla minaccia più che corposa del ritorno berlusconiano, comunque di farlo arretrare pesantemente nel proprio asse politico, data l'insussistenza di un'alternativa di governo più avanzata dell'attuale. Nel secondo caso, assumendo sulle proprie spalle tutto il peso, e il sacrificio, di una politica che ha già logorato in profondità il rapporto di fiducia tra questo governo e un'amplissima porzione del popolo di sinistra. Insomma, la tagliola è chiarissima: sinistre dannate o all'inaffidabilità o all'impotenza, nel migliore dei casi. Alla perdita della loro capacità non solo di rappresentare ma di far valere le ragioni e le speranze di milioni di persone - non le proprie medie o piccole botteghe.
Se queste tre cose sono sufficientemente fondate, la quarta ne viene di conseguenza: la necessità di una grande battaglia politica, nella società e nelle istituzioni, capace di imporre quei risultati - sulla previdenza, sullo Stato sociale, sulla precarietà - che non siamo stati capaci di raggiungere nelle sfere separate della politica di palazzo. Non ritocchi, non piccoli aggiustamenti, ma concreti segnali di rispetto del programma originario dell'Unione. E non un esercizio di mobilitazione "muscolare", ma una ripresa a tutto campo del protagonismo di forze - la sinistra - che sanno di essere determinanti, anzi necessarie. Se ci sarà un autunno degno di questo nome, difficilmente Romano Prodi potrà fare orecchie da mercante. Ma se non ci sarà...non voglio neanche pensarci ai guai che ci aspettano.

sabato 28 luglio 2007

Repubblica 28.7.07
Sinistra radicale all'attacco "Il piano welfare va cambiato in Parlamento"
Improvviso incontro con Prodi dei ministri di Prc, Pdci, Sd e Verdi sul protocollo d'intesa. Pecoraro e Mussi: "Le Camere sono sovrane, bisogna rimediare a decisioni sbagliate". Dalla Cgil arriva la reazione alla lettera con cui Palazzo Chigi chiedeva di firmare: "Non ci è piaciuta"
di Luisa Grion e Vincenzo La Manna


Vertice a Palazzo Chigi con Ferrero, Bianchi, Pecoraro e Mussi: " Modificare il piano in Parlamento". Il premier: è andata bene. Gelo con la Cgil
Braccio di ferro sul Welfare
La Sinistra a Prodi:"Duri, se ci ascolti".
"Scontentato un terzo della maggioranza". Cgil: la lettera del premier non ci piace
Pressing congiunto di Mussi, Ferrero, Bianchi e Pecoraro Scanio su Palazzo Chigi

ROMA - Ci è voluto un pranzo a Palazzo Chigi per stemperare il clima. E ci è voluto un chiarimento, da parte del premier, sulla disponibilità del governo a dialogare, a meglio definire nel corso del dibattito parlamentare alcuni punti del tanto discusso Protocollo sul welfare.
Ma riguardo a quelle norme su lavoro e competitività ieri la maggioranza ha rischiato un altro scontro: dopo il polemico scambio di messaggi fra Prodi e il leader della Cgil Epifani sulla firma di tutta, o di una sola parte, dell´intesa, anche la sinistra radicale ha fatto pesare il suo dissenso. In mattinata, proprio durante il Consiglio dei ministri, ha chiesto un urgente incontro con il premier.
Detto, fatto: a pranzo, fra pennette e filetto, Prodi, il ministro del Lavoro Damiano e il sottosegretario a Palazzo Chigi Enrico Letta da una parte, i quattro ministri della sinistra radicale dall´altra (Ferrero, Pecoraro Scanio, Bianchi e Mussi) hanno discusso sia sui contenuti che sui metodi dell´accordo.
Durante l´incontro - che si è svolto nell´appartamento del premier a Palazzo Chigi e al quale, quindi, era presente anche la moglie Flavia - pare che un ruolo di mediazione fra i ministri «dissidenti» lo abbia svolto soprattutto il leader dei Verdi Pecoraro Scanio che si è speso per evitare che dal tavolo della sinistra estrema partisse un nuovo strappo dopo quello, consumato qualche settimana fa, con la lettera dei ministri "estremi" su previdenza e tesoretto. Il ministro dell´Ambiente ha fatto notare che «un problema ci deve essere se il Protocollo accontenta la Confindustria e scontenta la Cgil». Il premier ha fatto presente ai rappresentanti dell´ala radicale che «è da un anno che mi fanno martire con la storia che sono vicino a voi, ma io sono in realtà il garante del programma».
Alla fine, però lo scontro è rientrato: il premier non ha chiuso a possibili modifiche del testo, ma ha avvertito che a decidere sarà il Parlamento. Modifiche e emendamenti che smussino i temi più caldi, dunque saranno ammessi, ma la partita è rimandata a settembre. Al prossimo Consiglio dei ministri (quello del 3 agosto) il Protocollo passerà così com´è , poi arriverà il dibattito e le eventuali modifiche.
Ma la partita, si sa, non sarà facile. Il ministro della Solidarietà sociale Ferrero è stato chiaro: «C´è un terzo della maggioranza che sostiene che quell´accordo va modificato - ha detto - in autunno si dovrà arrivare ad un´intesa in Parlamento. La nostra richiesta discussione non mi sembra esagerata, anzi è il minimo». E il collega dell´Università Fabio Mussi precisa: «Durante l´incontro c´è stata una mia obiezione condivisa da tutti sul capitolo della competitività. Il fatto che i contenuti siano tutti relativi al costo del lavoro è una cosa poco evoluta».
Ma se sul piano di governo la polemica si è al momento smussata, resta aperta quella con la Cgil. Alla missiva del premier - che il sindacato avrebbe giudicato priva di riferimenti concreti - Epifani risponderà con una nuova lettera la prossima settimana: ci sarà il sì al Protocollo, ma anche la forte riserva già espressa riguardo alla parte sul mercato del lavoro. L´intenzione della Cgil, dunque, è quella di tenere in qualche modo le mani libere, per agire in ogni sede e modo per modificare i punti controversi.

Corriere della Sera 28.7.07
Rifondazione e Pdci non si fidano: l'ipotesi di far rimettere il mandato E Diliberto: ora Romano mi chiami
L’altolà di Mussi: «Al capo del governo ho ricordato che abbiamo 150 parlamentari, non poca cosa: se poi lui vuol stare con i coraggiosi di Rutelli questa è un'altra storia...»


ROMA — «Io ormai ho una certa diffidenza... sono mesi che sento chiacchiere a cui non seguono i fatti, quindi aspetto di verificare quel che accadrà a settembre. Ma se pensano di metterci all'angolo in autunno, allora la situazione diventerà veramente molto complicata». Così Franco Giordano, segretario di Rifondazione comunista, qualche ora dopo l'incontro dei ministri della sinistra con Romano Prodi. E qualche minuto più in là, con i suoi, il leader del Prc è ancora più esplicito: «Se viene farfugliata qualche disponibilità in un pranzo, io, a questo punto, non prendo niente per buono: bisogna che si apra una vera conflittualità sociale, sennò non si otterrà nulla. Solo in questo modo, forse, riusciremo ad aprire uno spiraglio, anche perché sarà pur vero che il Partito democratico non cerca la rottura con noi, ma sicuramente è nato per farsi portatore dei disegni di Confindustria e dei poteri forti...».
Negli altri partiti della cosiddetta "Cosa rossa" non si ragiona in modo molto diverso. Oliviero Diliberto, segretario del Pdci, è chiaro: «Io non mi sento impegnato o vincolato a niente. Prodi alzi il telefono e parli con me, mi spieghi quello che vuole fare, perché io di fronte al fatto compiuto non mi ci voglio più trovare». E Fabio Mussi, ministro dell'Università nonché leader della Sinistra democratica, ieri lo ha detto chiaro e tondo al premier: «Noi abbiamo centocinquanta parlamentari... che non è che non contino proprio nulla, se poi tu vuoi stare con i coraggiosi di Rutelli, questa è un'altra storia...». Un'altra storia, o, meglio, la Storia con la S maiuscola, che la sinistra radicale soffre l'offensiva dell'ala più moderata dell'Unione e non ha ancora bene capito dove vada a parare. Ma, soprattutto, non ha capito da che parte stia veramente il premier. Prodi lo ha ribadito anche ieri: «Volete farmi cadere? Io non sono attaccato alla poltrona...». Quasi una sfida. A cui, però, la "Cosa rossa" non sa rispondere anche perché il maggior partito della sinistra dell'Unione, ossia Rifondazione comunista, sconta ancora il peccato originale del '98, quando Bertinotti, allora leader del Prc, fece cadere Prodi.
Di ingoiare tutto, ma proprio tutto, comunque, i rifondatori non hanno voglia. Capiscono che bisogna premere sull'acceleratore e poi allentare e, alle volte, usare persino il freno a mano, ma non possono fermare la loro auto e regalarla, chiavi in mano, all'area riformista dell'Unione. In queste ore, quindi, si medita sulla controffensiva. Magari la stessa che si studiò all'epoca del braccio di ferro sulle pensioni e che, però, non venne poi adottata. Una mossa traumatica, uno "strappo": i ministro Università e Ricerca quattro ministri della sinistra, gli stessi che ieri, chez Prodi, hanno mangiato fiele e miele, potrebbero rimettere il loro mandato nelle mani del premier. Loro ci avevano pensato ancor prima che lo facesse Emma Bonino. Poi hanno preferito soprassedere, nella speranza che, dopo le pensioni, sulla successiva trattativa sul Welfare, avrebbero strappato qualcosa. Ma niente. Quando Mussi ha parlato con un Epifani furibondo perché «mi hanno fatto il gioco delle tre carte, facendomi vedere una bozza e facendomene firmare un'altra », i partiti della sinistra dell'Unione hanno capito che lo spazio di manovra era quantomai esiguo. E la risposta di Prodi alla lettera del segretario della Cgil li ha confermati nella loro opinione. Tanto che è stato anche per "coprire" Epifani, così duramente trattato dal premier, che i quattro ministri hanno chiesto l'incontro. Lo hanno ottenuto, condito con una mezza disponibilità. A cui non credono più di tanto. Per questo a settembre potrebbero mettere in atto ciò che pensavano di fare già a luglio. E quando rimetteranno i loro mandati sarà Prodi che dovrà decidere che cosa fare. Senza poter dire quel che sussurra a mezza bocca adesso: «I miei partner sembrano non capire che se cado io, cadono anche loro...».

l’Unità 28.7.07
Il grande freddo tra Prodi ed Epifani
Il segretario della Cgil «deluso» dalla lettera del premier
di Marco Tedeschi


CONTRASTI La lettera di Romano Prodi («Caro Epifani, l’accordo va firmato per intero...») non è piaciuta al destinatario e alla Cgil tutta e lo scambio espistolare tra il capo del governo e il segretario generale della Cgil continuerà, ci si augura in toni meno
gelidi rispetto a quelli che si sono fin qui manifestati. La prossima missiva sarà di quest’ultimo, che non firmerà il famoso e contestato protocollo d’intesa su lavoro, welfare e previdenza, ma spiegherà il consenso (e il dissenso) suo e dell’organizzazione per iscritto, dettagliando dunque, per quanto sarà possibile, i punti critici. Così come farà Confindustria. Mentre Angeletti ha già firmato per la Uil e Bonanni si appresta a farlo.
Guglielmo Epifani non ha commentato pubblicamente la risposta di Prodi. Ma si sa della sua insoddisfazione, perchè il capo del governo non avrebbe risposto agli interrogativi posti e alla contestazione che continua a riguardare soprattutto il pacchetto lavoro e quindi il cambiamento di alcune “voci” della legge 30 e la decisione di «azzerare ogni contribuzione aggiuntiva sullo straordinario». Una «risposta ecumenica quella di Prodi», avrebbe giudicato il sindacato di Corso d’Italia. Epifani aveva accusato l’esecutivo di aver cambiato, a sorpresa, pochi minuti prima dell'incontro con il sindacato, il testo del protocollo d’intesa. Con una conclusione: la Cgil si intende libera di agire in ogni sede e modo per modificare quei punti contestati, alcuni dei quali rappresenterebbero una vera «aberrazione». Non è rottura, non è scontro, ma è un accentuare il ruolo tutt’altro che accomodante, tutt’altro che “passivo” del primo sindacato italiano.
La posizione di Epifani, raccolta dal Comitato direttivo della Cgil di lunedì scorso dopo un’estenuante discusssione, ha incontrato un consenso diffuso nell’organizzazione, come ha sintetizzato il segretario confederale Carla Cantone: «Il dibattito e le conclusioni dei direttivi e degli attivi territoriali confederali, nell'apprezzare le valutazioni e le argomentazioni politiche di merito e metodo avanzate dal segretario generale Guglielmo Epifani a nome della maggioranza della Segreteria nazionale, hanno sottolineato la irrinunciabile necessità di avviare unitariamente la più ampia consultazione certificata e vincolante dei lavoratori e dei pensionati». Cioè, da quasi tutte le regioni e dai capoluoghi più importanti, dal Piemonte alla Sardegna, da Milano a Palermo, è giunto appoggio alla linea di Epifani. Ma nella stessa Cgil sono apparse posizioni di dissenso radicali, dalla Fiom di Rinaldini in particolare e non solo dalla Fiom: ancora ieri la segreteria dei metalmeccanici di Brescia si esprimeva nel segno della forte contrarietà ai contenuti dell’intesa.
Diverso l’atteggiamento di Uil e Cisl. Luigi Angeletti, segretario della Uil, dopo la firma, ha confermato un «giudizio complessivamente positivo». Ma ha anche ricordato che l'ultima parola spetta comunque ai lavoratori: «Il loro giudizio sarà vincolante». Bonanni, segretario della Cisl, ha apprezzato la lettera di Prodi e l’ha definita un intervento «appropriato, puntuale ed efficace». Anche Bonanni ha rinviato il giudizio definitivo alla consultazione con i lavorator, «sulla base - ha puntualizzato - delle risposte del protocollo del Governo al documento unitario di Cgil, Cisl e Uil di febbraio, testo nel quale però, proprio per mantenere l'unità tra i sindacati, non venivano menzionati nè la legge 30 (la legge Biagi, ndr) nè la possibile revisione dell'accordo del 1993».

l’Unità 28.7.07
Cesare Salvi. «Fiducia o non fiducia» dichiara il senatore della sinistra «non si può accettare»
Il pacchetto Damiano così non lo voto
di Roberto Rossi


«Se il pacchetto Damiano dovesse trasformarsi in legge così com’è io non lo voto. Fiducia o non fiducia». E con il senatore Cesare Salvi, ex ministro del Lavoro, tutta la sinistra della maggioranza.
Eppure il ministro del Lavoro Damiano l’ha dichiarato “chiuso”?
«Ha fatto un errore. Ha diviso il sindacato e isolato la Cgil. Non solo non c’è niente di inemendabile ma se non lo si fa si finisce male. Sulle pensioni siamo stati responsabili. Lì c’era un problema di soldi. Qui no».
L’incontro tra Prodi con i ministri di sinistra non è l’inizio di un dialogo?
«Sì, ma vorrei essere molto chiaro: non si pensi che portando il pacchetto welfare in Finanziaria e mettendo la fiducia noi lo voteremo».
A quali modifiche state pensando?
«Sulla questione del lavoro abbiano indicato una soluzione che riprende quella del programma elettorale. Noi avevamo detto di superare alcuni aspetti della Legge 30 e di introdurre il divieto di reiterazione del lavoro temporaneo. In questo protocollo c’è l’esatto contrario. Non a caso il maggior entusiasmo Confindustria l’ha mostrato proprio su questo punto. Nel pacchetto si elimina solo il job on call, mentre resta particolarmente grave la disciplina del tempo determinato».
Perché la considera grave?
«L’Europa ha una direttiva nella quale c’è il divieto di reiterazione del contratto a termine. Damiano non l’ha recepita. Punto primo: considera solo il tempo determinato mentre nel lavoro temporaneo c’è anche il lavoro interinale. Punto secondo: prevede la possibilità di reiterare il contratto a tempo determinato per un arco di 36 mesi. Punto terzo: successivamente prevede anche una nuova reiterazione con il solo elemento burocratico di un timbro dell’ispettore del lavoro. Secondo lei che cosa sceglie un giovane tra la prospettiva di perdere un contratto, anche se a tempo determinato, e andarsene a casa, e la possibilità di andare a mettere un timbro?
Quale altro punto del protocollo non vi è piaciuto?
«La decontribuzione salariale è sbagliata fatta in quel modo. Oltre tutto è una misura che costa. Fare una legge di tipo europeo non si spende nulla, questa misura Damiano invece costa».
Quanto secondo lei?
«Non quanto il cuneo fiscale, ma comunque cifre rilevanti. Tutte a vantaggio delle imprese. I custodi del rigore non hanno nulla da dire?».
Voi avete sempre puntato ad abbattere i costi della politica. A che punto siamo?
«Noi abbiamo ottenuto che nel Dpef fossero inserite misure di risparmio da recepire in Finanziaria. Tra queste un ritorno alla legge Bassanini con una riduzione dei ministri. Servirebbe un governo con la struttura di quello francese (15, ndr). Adottando questa misura risparmieremmo fino a 150 milioni».
In Italia i ministri sono 25. Chi dovrebbe abbandonare?
«Noi di Sinistra democratica siamo disposti anche a fare un passo indietro. Faccio notare però che il futuro Partito democratico su 25 ne ha 18».

l’Unità 28.7.07
Tutti in Cantiere, la sinistra dell’Unione punta sulla conoscenza
di Gabriella Gallozzi


La conoscenza senza se e senza ma. Al di là della «mercificazione che riduce gli spazi della libertà». E come «occasione di uguaglianza e liberazione». Così come era stata «concepita» nel programma dell’Unione, insomma. A fronte, invece, di «un impoverimento» degli spazi che vanno dalla cultura alla scuola, dalla ricerca all’università. È questo il punto di partenza del «Cantiere della conoscenza», l’iniziativa lanciata da Rifondazione comunista, Sinistra democratica, Verdi e Comunisti italiani che ieri, alla presentazione in Senato, poteva già contare su una lunga lista di adesioni da parte di personaggi del mondo della cultura, dello spettacolo, dell’Università, della politica: Sabina Guzzanti, Sandro Curzi, Citto Maselli, Wilma Labate, la sottosegretaria ai Beni culturali Danielle Mazzonis, il critico Bruno Torri, Massimo Ranieri, Giovanni Berlinguer, Benedetta Buccellato e tanti altri, oltre ad associazioni e movimenti della società civile. Insomma, un «luogo unitario di iniziativa e azione», per «portare nelle Istituzioni il frutto del lavoro comune, insieme ad artisti, intellettuali ed associazioni».
«Si dimentica che nel programma dell’Unione tradito quotidianamente - dice Alba Sasso della Sinistra democratica - si riportava la formazione come centrale. A quell’idea, invece, si è sostituita l’ossessione del risanamento del debito con politiche orribili su scuola, università, ricerca». Questo per quanto riguarda la scuola, ma non diversamente è accaduto al mondo del cinema e della cultura. Il primo appuntamento, dunque, è in Finanziaria, sottolinea la senatrice Maria Agostina Pellegatta, «in questa sede si deve chiedere il risarcimento verso la scuola, l’investimento del governo nella cultura, l’abbassamento dell’Iva al 4% per tutte le attività culturali». Ma sopratto, prosegue la senatrice, si «deve contrastare la deriva centrista dell’Unione nel suo tentativo di governo monocolore». Affinché la cultura torni ad essere centrale e si blocchi «la privatizzazione del sapere». Temi questi, già tutti presenti al tavolo programmatico dell’Unione, ribadisce Loredana Fraleone di Rifondazione, «è in quella sede, in realtà, che ha preso il via il Cantiere». Ma è oggi che i lavori entrano nel vivo. Per ribadire, come sottolinea Stefania Brai, responsabile cultura di Rifondazione, «che la cultura è uno strumento di sviluppo, un valore sociale in sé, indipendentemente dall’utile economico che produce. È strumento per capire e cambiare il mondo. Non dimentichiamo, infatti, che Berlusconi vinse soprattutto culturalmente». Da qui l’invito alla «mobilitazione», alla partecipazione nel «Cantiere della conoscenza» aperto a tutti e che dà appuntamento al prossimo 6 ottobre con una giornata di «lavori».

l’Unità 28.7.07
Ruffolo: «Siamo tutti riformisti»
di Bruno Gravagnuolo


«Quel che mi riesce impossibile da capire, è la distinzione tra sinistra riformista e sinistra radicale. Nessuno propugna più la rivoluzione contro le riforme, o sbaglio?». Comincia con una domanda dell’intervistato, l’intervento di Giorgio Ruffolo - uomo della cultura di programma socialista - nel dibattito sulla «sinistra smarrita». Replica alla domanda: Lei sa bene che tutto dipende dalla parola stessa: riformismo. C’è chi la tira di qua e chi di là. Da destra da sinistra, e magari in termini di schieramenti di “nuovo conio”, vedi Rutelli...». «Vero - dice Ruffolo - e allora chiariamo. Riformismo, da sinistra, non è certo assecondare gli equilibri esistenti. Bensì farli evolvere in avanti. Modificando i rapporti di forza tra i ceti sociali». Non significa perciò assecondare il capitalismo? «No, vuol dire fare avanzare tutti. Introdurre giustizia democrazia, regole per l’ambiente. E promuovere i bisogni sociali. E poi il capitalismo non è una forza naturale eterna. Benché si sia rivelato imbattibile nel produrre ricchezza, fino ad oggi».
Dunque Professore, la sinistra ha una missione specifica? «Sì, emancipativa! Opposta alla subalternità rispetto agli assetti dati, pur dentro compatibilità realistiche. È su questo che si misurano la destra e la sinistra. Non in relazione a criteri ideologici o topografici. Tipo: a sinistra contro l’America, a destra a favore. A sinistra con gli arabi, a destra contro...». Bene, ma facciamo qualche esempio concreto. La sinistra deve difendere uno stato sociale universalistico, o modellarlo secondo le esigenze dell’impresa privata? «Lo stato sociale universalistico - per la sinistra - è irrinunciabile. Tutti hanno diritto ai servizi fondamentali, senza i quali non ci sono né persone né diritti. Né eguaglianza, né libertà. Ben per questo Jospin diceva: economia di mercato sì, società di mercato no. Slogan ancora buono, da sottoscrivere. Il problema è come trovare le risorse, in una situazione in cui la pressione fiscale è avvertita come intollerabile». Giusto, ma evasione fiscale a parte, non è certo di sinistra togliere ai poveri... per dare ai poveri. Come si vuol fare con le pensioni: diminuendo i rendimenti e alzando l’età pensionabile. Ai danni dei lavoratori che versano i contributi, e col pretesto di voler finanziare formazione e ammortizzatori sociali. «Le rispondo così. Sulle pensioni s’è fatto dell’allarmismo, visto che l’età media effettiva del pensionamento in Italia non è lontana da quella europea. Tuttavia un problema di riequilibrio, tra base contributiva e allungamento della vita media, esiste. E in fondo quello trovato dal centrosinistra al governo mi pare un buon compromesso: allungamento dell’età lavorativa, spalmato gradualmente. Che rispetta i diritti acquisiti, e guarda agli equilibri di bilancio. Il punto però resta: come finanziare il nuovo welfare, oltre alle pensioni?». Già, come? «Credo che la soluzione stia nel “welfare market”, cioè nell’adottare una modalità cooperativa e associativa nel campo dei servizi. Insomma: l’impresa sociale-privata. Che può scaricare lo stato da molti oneri, e integrarlo». La prendo in parola, Professore. Ma perché allora non estendere lo schema anche all’economia privata? Magari senza illudersi di dover fare finanza cooperativa, sganciata da fini mutualistici... «Credo che il movimento cooperativo resti un’idea-forza della sinistra, oltre che una grande realtà economica figlia della tradizione socialista. Ma va detto che l’impresa privata classica ha un motore più forte, senza i vincoli di quella cooperativa. Ottima quest’ultima sul territorio, nella distribuzione, ma ancor più promettente nel campo chiave della solidarietà: i servizi sociali. È in questa direzione che va spinta, non in quella di un’improbabile competizione sul piano finanziario, che rischia di snaturare la mutualità e di renderla irriconoscibile. Aggiungo: inutile voler entrare nel salotto buono della finanza. Si finisce col confondere le regole dell’economia con il ruolo della politica. E una politica di sinistra non deve mescolarsi con l’economia, bensì guidarla e regolarla».
Veniamo a un tema classico, keynesiano e di sinistra: la piena occupazione. La sinistra deve promuoverla, o contentarsi di un lavoro perennemente flessibile e precario, da plasmare e «formare» alla bisogna? «No, la piena e buona occupazione deve essere obiettivo primario per una vera sinistra. Altrimenti facciamo del lavoro una merce come un’altra. Mentre è una questione di dignità, di identità. Che non tocca solo la sfera dello scambio e della prestazione materiale, ma l’intero arco delle relazioni umane. Sicché il mio criterio è il seguente: graduare la flessibilità a seconda delle età della vita. Vi sarà quindi un periodo di apprendimento e di flessibilità, nella vita di ciascuno. Che alla fine culminerà, o dovrebbe culminare, in un lavoro stabile, frutto di esperienze diversificate. Oltretutto un lavoro perennemente precario, non aiuta un’economia di qualità». Torniamo al capitalismo. Tra i suoi Mantra c’è la «concorrenza». E però c’è chi come Sarkozy - da destra! - espunge quell’imperativo dalla Costituzione europea. Che ne pensa? «Sarkozy, uomo abilissimo ed egemonico, fa benissimo a demistificarne l’aura sacrale. Anche da sinistra si può, e si deve dire: la concorrenza è un mezzo. Un vincolo di cui tener conto. Non l’obiettivo supremo di una società giusta».
E ora parliamo del Partito democratico, verso il quale parte della sinistra si avvia. Lei - che all’inizio fece parte del Comitato dei tredici per il manifesto inaugurale - ne è uscito subito. Come mai? «Perché mi sono accorto che su temi chiave il Pd era elusivo. Il primo è quello della collocazione internazionale del nuovo partito. Un problema esistenziale, rimasto inevaso. Chiedo: dove si schiererà il Pd in Europa? Non basta dire che si muoverà tra i demo-liberali e i socialisti. Che allargherà le frontiere. No, la sinistra europea che conta è il socialismo europeo. E senza tale ancoraggio, la nuova creatura sarà fragile e incerta. Il secondo punto di dissenso concerne la mancanza di un vero orizzonte progettuale. Che tipo di società propugna il Pd? Quali finalità generali? Quale economia? Tutto questo non è chiaro, benché la nuova leadership di Veltroni abbia reso più credibile questa scommessa, infondendole maggiore autorevolezza e incisività». Scusi Professore, ma il Pd non inclina verso un forte ridimensionamento del ruolo del lavoro, come asse del blocco sociale di riferimento? Massimo Cacciari per esempio, dice che privilegiare il lavoro dipendente è «reazionario», a fronte delle nuove figure sociali emergenti... «Guardi, sappiamo bene che la geografia sociale si è arricchita e che il lavoro è mutato! Ma Cacciari sbaglia, se pensa che il profilo del lavoro coincida con quello dell’individualismo di mercato, fatto di tante figure che scambiano le loro prestazioni. Ciò non corrisponde al peso maggioritario del lavoro dipendente. E non è nemmeno accettabile come paradigma etico». Ultima questione, l’Europa. La si è magnificata, caro Ruffolo. Ma appare sempre più come un recinto di scambi, finanza e regole monetarie. Domanda: che cosa ha fatto il socialismo europeo per fare dell’Europa una potenza democratica sovranazionale? «Senza dubbio pochissimo. E se consideriamo che fino a pochi anni fa erano 13 i governi a guida socialista su 15, allora il Pse deve prendersela solo con se stesso». Il Pse avrebbe dovuto contrastare gli alti tassi della Bce e promuovere così politiche di piena occupazione? «No, la Banca centrale fa il suo mestiere: controlla il tasso di inflazione. Il punto è un altro. Ci sarebbe voluta una politica economica in grado di attrarre capitali, per farne il volano di uno sviluppo forte. Parlo di grandi progetti infrastrutturali, per canalizzare risorse e farle fruttare in termini di indotto e opportunità di investimento. Era l’idea di Jacques Delors: del tutto dimenticata! E poi non è questione di Euro forte o meno. Semmai di come usare l’Euro forte. E qui che l’Europa e la sinistra sono mancate. Totale assenza di politiche industrali ed economiche...».
E la laicità, professore, non è un altro dei punti dolenti del Pd? «Giusto, quasi ce ne dimenticavamo. È un altro dei punti inevasi del Pd. E anche qui, è questione di dignità. Dignità del lavoro, della vecchiaia, delle donne, dei giovani, dei deboli. E dignità dei non credenti. Non mi pare che sia risultata centrale, negli intenti del Pd. E si tratta di una questione non negoziabile sul piano dei principi». Insomma professor Ruffolo, malgrado i suoi «paletti», il Pd sembra averla delusa per ora, o no? «Io gli auguri a Veltroni li ho fatti. Lui può farcela, a prescindere dalla ridda dei conflitti interni ed esterni sulla strada del Pd. Quanto all’essere deluso, non posso esserlo... Perché è da tanto tempo che non mi illudo più».

Repubblica 28.7.07
La dolce utopia di un mondo dove esiste una sola razza
di Timothy Garton Ash


Qualche tempo fa in occasione di un censimento fu chiesto ai brasiliani di specificare il proprio colore di pelle. Vennero fuori 134 diversi termini, tra cui alva-rosada (carnagione bianco-rosata), branca-sardenta (bianca con macchie brune), café-com-leite (caffèlatte), morena-canelada (bruno-cannella), polaca (fisionomia polacca), quase-negra (quasi nera) e tostada (tostata). Queste descrizioni spesso gioiosamente poetiche sono specchio di una realtà ben visibile soprattutto nelle aree più povere delle metropoli brasiliane. Girando per la Città di Dio, un quartiere povero di edilizia popolare nell´immediata periferia di Rio de Janeiro (dove è stato girato il film omonimo), ho visto ogni possibile sfumatura di colore e varietà di fisionomie talvolta all´interno di una stessa famiglia. Alba Zaluar, esimio antropologo che da anni lavora tra gli abitanti della Città di Dio, mi ha raccontato che la gente ironizza su questa cosa dandosi nomignoli come "latticino" o "moretto". E questa eterogenea miscela di tratti somatici risulta spesso di grande bellezza.
Il Brasile è un paese in cui la mescolanza delle razze è considerata una delle ricchezze della nazione e il termine "meticciato", brutta parola inappropriata assume qui una connotazione positiva. Ma c´è un rovescio della medaglia. Dall´inizio del Ventesimo secolo il Brasile si dipinge come una "Democrazia razziale" in contrapposizione alla segregazione razziale all´epoca vigente negli Stati Uniti. Ma la realtà ancora oggi è che la maggioranza dei non-bianchi è in condizione di inferiorità sotto il profilo economico sociale e dell´istruzione rispetto alla maggioranza dei bianchi. E questa disuguaglianza è in parte frutto di discriminazione razziale.
Ero in Brasile per porre domande sulla povertà, l´esclusione e l´ineguaglianza sociale. Nel giro di pochi minuti il discorso andava sulla razza. E´ accaduto regolarmente, anche a colloquio con l´ex presidente brasiliano, Fernando Henrique Cardoso.
In un vivace memoriale, Presidente del Brasile per caso , Cardoso ricorda la ricerca condotta quand´era un giovane sociologo nelle baraccopoli. Pur registrando l´ampia mescolanza di razze giunse alla conclusione che «in via generale essere nero in Brasile equivaleva ad essere povero».
Per affrontare il problema il suo governo diede avvio a progetti anti-discriminazione, incrementati sotto il presidente Lula. Oggi in molte università sono previste quote di ammissione per gli aspiranti provenienti dalle scuole statali e per i neri. Sulle quote per i neri si è aperta una feroce diatriba. I critici ne fanno innanzitutto una questione di principio. Stando alle cronache Maria-Tereza Moreira de Jesus, poetessa e scrittrice nera ha commentato: «Il razzismo esiste, dal modo in cui ti trattano nei negozi ai colloqui di lavoro, ma basare l´ammissione sulla razza è un´altra forma di razzismo». Un rapper nero che ho conosciuto in una favela di San Paolo, "MC Magus", si è detto contrario alle quote perché «siamo tutti uguali».
Esiste poi un ostacolo di ordine pratico: come stabilire chi è "nero" in una società così miscelata e multicolore? Il problema è emerso con chiarezza nel recente caso dei due gemelli identici Alex e Alan Teixera da Cunha, che avevano entrambi presentato domanda di ammissione all´Università di Brasilia in base al sistema delle quote. Alan è stato ammesso come nero, Alex respinto come non nero. L´ Università di Brasilia dispone in realtà di una commissione che determina la razza in base alle foto dei candidati considerando fenotipi come capigliatura, colore della pelle e tratti somatici. A raccontarmi questo episodio è stato un ebreo. «Puoi immaginare che cosa ne penso», ha detto.
Alcuni degli attivissimi movimenti neri preferiscono il termine "oriundi africani". Ma in base alle stime di un recente studio scientifico condotto sul Dna nucleare e mitocondriale fino all´85 per cento della popolazione, inclusi decine di milioni di brasiliani che si considerano bianchi, hanno nel loro genoma una componente africana superiore al 10 per cento. (I primi coloni portoghesi in genere non portavano le mogli con sé).
Resta valido quindi il sistema di definizione soggettiva tradizionalmente utilizzato in Brasile. I dati ufficiali più recenti forniti dall´istituto geografico e statistico indicano che circa il 50 per cento dei brasiliani si definisce "bianco", poco più del 40 per cento "bruno", poco più del 6 per cento "nero" e meno dell´un per cento "giallo" (cioè oriundo asiatico, soprattutto giapponese) o "indigeno" (traduzione letterale delle cinque categorie specificate). Con un´audace iniziativa i rappresentanti dei movimenti neri, alcuni dei quali finanziati da fondazioni americane hanno proposto che l´intera popolazione non-bianca venga classificata come nera. Tutto si semplificherebbe: o bianchi o neri.
Altri inorriditi gridano che una soluzione simile equivarrebbe ad importare il peggio della classificazione razziale all´americana negando la specificità dell´ibrido razziale brasiliano. Se proprio servono quote di ammissione all´università in base al colore della pelle (prassi giudicata discriminatoria dai tribunali negli Stati Uniti) che almeno si fondino sul metodo tradizionale brasiliano dell´autoidentificazione. In passato i brasiliani tendevano a collocarsi entro la sezione più chiara dello spettro, soprattutto con il migliorare della loro posizione economica ("il denaro sbianca" osserva senza tanti complimenti un sociologo). Se ora per via delle quote c´è qualcuno in più che preferisce essere nero, ben venga. Dopo tanti secoli in cui è stato molto più vantaggioso essere bianchi – la schiavitù è stata abolita in Brasile solo nel 1888 – è giusto mescolare un po´ le carte. E se questo significa che un giorno una ragazza generalmente considerata bianca farà domanda di ammissione all´università come nera, beh, buona fortuna.
Non essendo brasiliano non sono in condizione di esprimere un giudizio sull´argomento.Capisco le forti motivazioni contro le quote in base al colore della pelle e capisco anche che la dura realtà di discriminazione retaggio del passato va affrontata. La decisione spetta i brasiliani. Ma spero con tutto il cuore che il Brasile si avvicini a realizzare il suo antico mito di "democrazia razziale" invece che allontanarsene chiudendosi in classificazioni razziali anacronistiche e riducendo complesse identità ad un´unica caratteristica. Perché la realtà brasiliana apre una finestra sul futuro di noi tutti in un mondo che vedrà una sempre maggiore mescolanza di popoli.
Mi rendo ovviamente conto che posso dare l´idea del ricco straniero bianco ( più che bianco in realtà alva-rosada, soprattutto dopo quindici giorni trascorsi sotto il sole brasiliano) che fa una gita di un paio di giorni nelle favela ed esclama "com´è bella questa gente". Ma lo dico lo stesso: in Brasile anche in mezzo alla miseria e alla violenza, frutto della droga, della Città di Dio ho avuto modo di cogliere la bellezza della miscela di razze. E´ proprio questo ibrido che ha contribuito a fare dei brasiliani gli esseri umani più belli della terra. Se e ripeto, solo se, il Brasile saprà correggere i suoi spaventosi squilibri sociali ed economici, incluso il retaggio di discriminazione, qui si prefigura la possibilità di un mondo in cui il colore della pelle non è nulla più che una caratteristica fisica come il colore degli occhi o la forma del naso, un attributo da ammirare, di cui prendere pacatamente atto o su cui ironizzare. E di un mondo in cui l´unica razza che conta è la razza umana.

Repubblica 28.7.07
Stalin ingegnere del male
Settant'anni fa l’apogeo del terrore sovietico
di Maria Ferretti


La macabra gara tra signori locali
Confessioni estorte con la tortura
Al 30 luglio del 1937 risale l´azione repressiva più sanguinaria, portata alla luce solo dopo l’apertura degli archivi

Il 30 luglio 1937, il Politbjuro del partito comunista sovietico approvava il segretissimo ordine operativo 00447, stilato alla vigilia da Eov, il capo del Ministero degli interni (NKVD): prendeva così avvio l´ondata repressiva più sanguinaria del Terrore staliniano, responsabile, da sola, di più della metà delle vittime. Secondo le stime più recenti, ma non ancora definitive, le repressioni scatenate il 5 agosto in base all´ordine 00447 portarono alla condanna di 818.000 persone, di cui 436.000 furono fucilate, su un totale di 1.440.000 condannati e 725.000 giustiziati nel 1936-1938. Tenuta segreta, questa operazione terroristica di massa, ricostruita soltanto dopo l´apertura degli archivi, getta una luce nuova sul Terrore e sulla sua funzione nella società sovietica degli anni Trenta. Tradizionalmente considerato, come suggerivano i processi di Mosca in cui era stata sterminata la vecchia guardia bolscevica, il punto culminante delle purghe rivolte contro le élites politiche, militari e intellettuali con lo scopo non solo di eliminare gli oppositori a Stalin, ma anche di promuovere giovani quadri legati da un vincolo di fedeltà personale al dittatore, il grande Terrore appare oggi anzitutto il frutto di un preciso disegno di ingegneria sociale, volto a estirpare dal corpo sociale tutti quegli elementi che, per ragioni sociali o etniche, erano considerati "estranei" o "nocivi" per la nuova società socialista.
Questa logica è del resto esplicita nel preambolo dell´ordine 00447, che invitava la polizia politica a "farla finita una volta per tutte" con gli "elementi socialmente pericolosi", cioè con tutta quella schiera di figure del passato, di "uomini-ex" - ex-kulaki, i contadini benestanti già spodestati da Stalin con la collettivizzazione, ex religiosi, ex militanti di partiti soppressi dopo la rivoluzione e via dicendo - che, per via della loro stessa natura, erano sospetti di nutrire scarse simpatie per il regime. Per primi erano presi di mira i kulaki già deportati che, fuggiti dal confino o liberati allo scadere dei termini, avevano fatto ritorno ai villaggi, quando non avevano trovato lavoro nei cantieri dei primi piani quinquennali. Oltre ai kulaki, ai "banditi" e a sabotatori di ogni genere e tipo, finiva sotto la scure dell´ordine 00447 chiunque fosse tacciato di "attività antisovietica", un´etichetta, questa, affibbiata tanto al contadino che, per quanto povero, osava rimpiangere la sua fattoria, quanto all´operaio che si azzardava a protestare per le decurtazioni salariali o per l´aumento forsennato dei ritmi di lavoro imposto con l´industrializzazione forzata.
Gli "elementi antisovietici" andavano suddivisi, secondo l´ordine 00447, in due categorie. Per quelli di prima categoria, i più pericolosi, era prevista la fucilazione immediata. La condanna era pronunciata, dopo una sommaria istruttoria, dalle trojke, organi extragiudiziari formati dal segretario regionale del partito, il capo del NKVD locale e il pubblico ministero. L´inchiesta era rapida, per non allungare i tempi della campagna repressiva, che, come tutte le campagne del paese dei soviet, avanzava a tempi di record. La prova di colpevolezza principale era la confessione, estorta spesso agli imputati con la tortura, che proprio sul finire di luglio 1937 era tornata in auge nelle carceri sovietiche. La condanna a morte era segreta, anche per gli interessati. Segreto era pure il luogo dell´esecuzione. Per i condannati meno pericolosi - la seconda categoria - erano previsti invece 8-10 anni di lavoro forzato nei campi dell´arcipelago Gulag.
L´ordine 00447 stabiliva anche le "quote" di nemici del popolo da sradicare regione per regione e precisava quanti andavano fucilati - la "I categoria" - e quanti dovevano finire nei lager. Le quote erano fissate in base alle stime inviate al Cremlino, su richiesta del Politbjuro, dai responsabili regionali. La quota più elevata fu attribuita a Mosca, allora feudo di Chrušcev, che ottenne 35.000 vittime, di cui 5.000 di I categoria. Seguivano le terre di confino, la Siberia occidentale (17.000, di cui 5.000 di I) e gli Urali del sud (16.000, con 5.500 in I); un tributo meno esorbitante era chiamata a pagare Leningrado (14.000, di cui 4.000 in I), già martoriata dalle purghe degli anni precedenti. Fuori dalla Russia, la più colpita era l´Ucraina, con 28.800 arrestati e 8.000 fucilati. Macabro segno del fascino esercitato, negli anni dell´industrializzazione, da cifre e diagrammi, le quote non erano una novità assoluta. Già durante la collettivizzazione Mosca aveva assegnato alle regioni le quote di contadini da spodestare, specificando quanti andavano arrestati e quanti deportati. La differenza, nel 1937-1938, fu che ora la morte veniva decisa a tavolino, con un tratto di penna, una cifra nero su bianco in base a cui si sarebbero poi selezionati gli uomini.
Le cifre proposte dall´ordine 00447 - 75.950 fucilati e 193.500 internati - erano ben inferiori a quelli che saranno i risultati finali dell´operazione. In breve volgere di tempo, le quote assegnate da Mosca vennero esaurite e molti zelanti gerarchi locali, ansiosi di far bella figura davanti ai superiori, cominciarono a chiedere assegnazioni supplementari. Dalle province lontane giungevano al Cremlino telegrammi con richieste di aumentare le quote, perfino di 8 o 9 volte. E il Cremlino, compiacente, autorizzava, aizzando la macabra gara fra i signorotti locali. Invece che i 4 mesi previsti, l´operazione finì per durare più di un anno. A mano a mano che il tempo passava, gli aumenti di quote si facevano sempre più vorticosi. Nella primavera del 1938, Stalin concesse all´Ucraina l´aumento più elevato accordato a una sola regione: 30.000 vittime, e tutte di I categoria. Per realizzare le quote, gli agenti del NKVD, una volta esaurite le liste degli schedati, si lanciavano a caccia d´uomini circondando mercati e stazioni, dove si riuniva la povera gente in cerca di espedienti per sbarcare il lunario: chi era senza passaporto finiva nel mucchio. Con le retate e gli arresti notturni, le prigioni si riempivano fino a scoppiare. Per decongestionarle, Berija, futuro capo del NKVD, escogitò presto la soluzione: promuovere i prigionieri più pericolosi di categoria, passandoli in prima.
L´"operazione kulak", come era detta dagli uomini del NKVD, fu l´ondata repressiva più importante, ma non la sola, che si abbatté sulla società sovietica nel 1937-1938 per "purificarla" dagli "elementi estranei". Pochi giorni prima dell´ordine 00447, il 25 luglio, era stato diramato l´ordine 00439, che ingiungeva di arrestare, nel giro di 5 giorni, tutti i tedeschi impiegati in settori strategici (industrie legate alla difesa, ferrovie) e i sovietici che avevano un qualche rapporto con loro, tutti considerati spioni al soldo della Gestapo. Dopo i tedeschi, fu la volta dei polacchi (che pagarono il tributo più elevato: 143.810 condannati, di di cui quasi l´80% a morte), seguiti da lettoni e finlandesi, greci e rumeni, estoni e coreani. Fra luglio 1937 e novembre 1938 vennero condannate, nel quadro delle operazioni nazionali, 335.513 persone, di cui quasi i tre quarti alla pena capitale (247.157, cioè 73,6%), una percentuale ancora maggiore che per l´operazione kulak.
Che cosa scatenò la spaventosa mattanza del 1937-1938? Ci fu certo la personalità di Stalin, la paranoia del dittatore, incline a vedere ovunque tradimenti e complotti. Ci fu la psicosi di una guerra imminente, scatenata dal deteriorasi della situazione internazionale e dall´aggressività tedesca. Ma ci fu anche la volontà di stroncare sul nascere ogni possibilità di protesta sociale nel momento in cui si temevano nuove, gravi difficoltà economiche e, con l´adozione, nel 1936, della nuova Costituzione staliniana, il paese si apprestava ad andare alle urne, per quelle elezioni che la propaganda decantava come le più libere del mondo: da questo punto di vista, il Terrore fu un´operazione repressiva preventiva volta a terrorizzare la società e a privarla dei suoi possibili leader. Per dirla con Nicolas Werth, uno dei maggiori specialisti delle repressioni staliniane, il Terrore del 1937-1938 fu il culmine parossistico di quella gestione poliziesca del sociale che era stata inaugurata con la collettivizzazione e proseguita negli anni successivi con una serie di politiche volte a espellere dal corpo sociale, e soprattutto dai luoghi sensibili, come le grandi città e le regioni di frontiera, gli "elementi socialmente nocivi". Perché nulla potesse ostacolare il trionfo dello Stato che si era proclamato costruttore del socialismo.

Repubblica 28.7.07
Un'opera di pulizia "razionale"
La verità e le tre bugie di Krusciov
Massacro preventivo e differenze con la Shoah
di Andrea Graziosi


Nel giugno 1937, quando Stalin liquidò i vertici militari, l´opinione pubblica internazionale aveva già identificato il terrore con lo sterminio dell´élite sovietica. Questa identificazione, causata dalla risonanza dei processi e dalla notorietà degli imputati e poi favorita dalle memorie dei sopravvissuti nonché da romanzi come Buio a mezzogiorno, fu consacrata da Krusciov nel 1956. Malgrado il suo significato liberatorio e le verità che esso conteneva, il rapporto segreto si basava però su tre falsificazioni. La prima era che le sofferenze erano cominciate dopo il 1934, salvando con l´industrializzazione e la collettivizzazione l´essenza del sistema staliniano. Vi era poi la presentazione del partito come martire innocente, che nascondeva le responsabilità tanto dei vecchi bolscevichi vittime delle purghe ma protagonisti della guerra alla popolazione del 1929-33, quanto dei "compagni di Stalin", Krusciov compreso, che ammise di avere "le braccia immerse nel sangue fino ai gomiti". Soprattutto, il terrore era ridotto a quello contro i quadri dello stato e del partito.
Proprio alla fine del giugno 1937 Stalin decise però di effettuare, in tempo di pace, un intervento di chirurgia etnico-sociale sul corpo della popolazione attraverso "operazioni di massa" affidate alla polizia politica. La prima fu lanciata a luglio col decreto 00447 (vedi riquadro in alto a destra) che elencava le categorie da colpire e indicava le quote per regione delle persone da arrestare, divise in due categorie, quelle da giustiziare e quelle da deportare nei lager. Tra loro vi erano i membri dei vecchi partiti socialisti, religiosi ecc., ma la maggioranza era composta da contadini ("ex kulak") e piccoli criminali.
Lo 00447 fu seguito ad agosto dallo 00485, diretto contro "i membri dell´organizzazione militare polacca in Urss", vale a dire i cittadini sovietici di origine polacca. Esso servì da modello a decreti rivolti contro le altre nazionalità ritenute inaffidabili perché "soggette a governo straniero", benché risiedessero nel paese da lungo tempo: gli arrestati nel corso delle "operazioni nazionali" furono più di 330.000, di cui circa 250.000 fucilati.
Proseguiva intanto, estendendosi agli apparati locali, la purga dei quadri del partito e dello stato. In totale nel 1937 la polizia politica arrestò 937.000 persone, condannandone 791.000, di cui 353.000 a morte, quasi tutte dopo luglio. Nel 1938 vi furono invece 639.000 arresti e 554.000 condanne, di cui 329.000 a morte. Le esecuzioni di massa furono in genere condotte da piccoli gruppi di boia professionali che, facendo uso di vodka, giustiziavano i condannati singolarmente e in rapida successione con un colpo alla nuca di fronte a grandi buche scavate nelle foreste.
Nel 1936 le condanne a morte erano state invece circa 1.200 e ridiventarono 2.600 del 1939. Il terrore ebbe quindi un inizio e una fine precisi, e fu scandito da operazioni dirette da Stalin, che ne mantenne sempre il controllo.
In loco, però, il terrore ebbe un andamento caotico, prodotto da tre fattori. Ricevute le quote, i dirigenti della polizia politica controllavano quante persone delle categorie da colpire erano nei loro schedari. Il numero di regola non coincideva con quello indicato da Mosca. Ciò rendeva necessario "procurarsi" le persone mancanti. Poiché inoltre i decreti invitavano a eccedere le quote, chi si voleva distinguere si affannava a trovare altri colpevoli.
Il terrore che si innestò sulla purga dell´élite fu quindi insieme categoriale e preventivo: esso procedette cioè per categorie, ritenute pericolose e che quindi si decideva di liquidare preventivamente, in modo da rimuovere alla radice problemi futuri.
Questa essenza restò però segreta. L´ignoranza dei meccanismi del terrore ha influenzato anche le sue interpretazioni, che lo hanno a lungo presentato come un fenomeno casuale, teso ad atterrire, "atomizzandola", la popolazione. Ma se visto dall´esterno e cogli occhi delle sue vittime il terrore sembra cieco, una volta penetrata la sua logica esso ci appare come una opera "razionale" di pulizia, che procedette lungo due direzioni: l´eliminazione dei "detriti" ostili lasciati dalla costruzione del socialismo, proclamata dalla Costituzione del 1936, e quella di ogni quinta colonna potenziale in vista della guerra.
Il terrore del 1937-38 si ricollega perciò alla decosacchizzazione della guerra civile e alla dekulakizzazione del 1929-30. Esso è però anche la virulenta manifestazione di un fenomeno più generale, rappresentato dai tanti tentativi di manipolare la popolazione sulla base della sua suddivisione in categorie sociali, etniche o religiose, contrassegnate da un supposto maggiore o minore tasso di fedeltà o ostilità al potere. In epoca moderna tali pratiche sono state rafforzate dalla costruzione di stati in condizioni d´insicurezza, estremizzate dalle esperienze coloniali e poi generalizzate dalla prima guerra mondiale, quando raggiunsero il loro culmine con lo sterminio degli armeni. C´è a questo proposito da chiedersi se l´unicità della Shoah non consista anche nel suo essere slegata da ogni razionale, ancorché paranoica, preoccupazione di sicurezza, a meno di non voler ritenere tale la paura della contaminazione razziale. Anche in questo caso saremmo però lontani dal comportamento dei Giovani turchi del 1915 o dello Stalin del 1937-38, la cui lucida follia ci appare come un episodio estremo di quel terrorismo del potere che, come capì Burckhardt, stermina "gli avversari per categorie scelte secondo principi generali".

Repubblica 28.7.07
Il decreto n° 00477 che diede avvio allo sterminio
Sgominare senza pietà


Pubblichiamo parte del "Decreto operativo n° 00477 sulle operazioni di repressione degli ex kukak, dei criminali e degli altri elementi antisovietici", approvato il 30 luglio 1937

Dagli atti istruttori relativi alle formazioni antisovietiche trova conferma che nelle campagne si è rifugiato un gran numero di ex kulak, già repressi in passato, che si sottraggono alla repressione, fuggiti dai lager, dal confino e dalle colonie di lavoro. Vi si sono stabiliti molti degli ecclesiastici e dei membri delle sette, nonché degli ex partecipanti alle insurrezioni armate antisovietiche che in passato sono stati oggetto di repressione. Non sono stati pressoché colpiti nelle campagne i quadri principali dei partiti politici antisovietici (…) Una parte degli elementi su indicati, fuggendo dalle campagne verso le città, si è infiltrata nelle fabbriche, nei trasporti e nelle imprese edilizie. Inoltre, nelle campagne e nelle città hanno ancora il loro nido un numero considerevole di delinquenti comuni, di ladri di cavalli e di bestiame, di ladri recidivi, di rapinatori e di altri elementi che hanno scontato la pena, sono fuggiti dai luoghi di detenzione o hanno trovato scampo dalle repressioni. (...) Come è stato accertato, tutti questi elementi antisovietici sono i principali responsabili di ogni sorta di crimine antisovietico. Gli organi di Sicurezza hanno il compito di sgominare senza pietà questa banda di elementi antisovietici. In considerazione di ciò decreto di dare inizio il 5 agosto 1937 in tutte le Repubbliche e le regioni all´operazione di repressione degli ex kulak, degli elementi attivi antisovietici e dei criminali (…).
Per l´organizzazione e la direzione delle operazioni attenersi a quanto segue:
I. Categorie che soggiacciono alla repressione.
1. Gli ex kulak che hanno scontato la pena e continuano a condurre attività antisovietiche. 2. Gli ex kulak fuggiti dai lager o dalle colonie di lavoro, nonché quelli sfuggiti alla dekulakizzazione, che conducono attività antisovietiche. 3. Gli ex kulak e i soggetti socialmente pericolosi membri di formazioni insurrezionali fasciste, terroristiche e dedite al brigantaggio che hanno scontato la pena, sono scampati alle repressioni o fuggiti dai luoghi di detenzione e di nuovo impegnati in attività antisovietiche. 4. I membri dei partiti antisovietici, le ex guardie bianche, i gendarmi, i funzionari, i membri delle squadre punitive, i banditi e o loro complici, i favoreggiatori di fuggiaschi, i rimpatriati, coloro che sono scampati alle repressioni, gli elementi fuggiti dai luoghi di detenzione e tuttora dediti ad attività antisovietiche. (...)
II. Sulle misure punitive da adottare nei confronti degli elementi da reprimere e sul numero di coloro che soggiacciono alla repressione.
1. Tutti i kulak, i criminali comuni e gli altri elementi antisovietici contro cui dirigere la repressione vanno divisi in due categorie: a) nella prima categoria sono da annoverare tutti i soggetti più pericolosi tra quelli sopra nominati; costoro sono passibili di arresto immediato e di fucilazione; b) nella seconda categoria sono da annoverare tutti gli altri elementi meno attivi, ma ostili. Costoro sono punibili con l´arresto e la reclusione nei lager per un periodo da 8 a 10 anni (…)
Il Commissario del popolo agli Interni dell´Urss, N. Eov


il manifesto 28.7.07
Intervista a Cesare Salvi (Sd):
«Stanno tentando di farci fuori, dobbiamo unirci al più presto»

«E' in atto un'operazione che mira a sostituire la sinistra con nuovi alleati centristi». Sul protocollo sul welfare: «Se non vengono accettati i nostri emendamenti non lo votiamo, neppure se mettono la fiducia»
di Alessandro Braga


Roma. «Ci vogliono fare fuori». E quando dice «ci» Cesare Salvi, capogruppo al senato di Sinistra democratica, intende tutta la sinistra alternativa. I «killer» sarebbero il partito democratico e i moderati dell'Unione. Ma, avverte Salvi, «venderemo cara la pelle».

Senatore, sul protocollo sul welfare la tensione resta alta tra il governo e la sinistra alternativa.
Certo, perché a noi questo protocollo proprio non piace. Istituzionalizza di fatto il precariato a vita, non tiene conto del lavoro interinale. Se dovesse passare così com'è avrebbe effetti negativi incredibili.

Il ministro del lavoro Cesare Damiano ha detto che il documento è «inemendabile».
E già qui c'è un problema metodologico. Non è mai successo che un ministro abbia presentato un protocollo definendolo inemendabile, intoccabile.

Quindi che farete?
Abbiamo già pronti i nostri emendamenti, e li presenteremo. Devono essere discussi in parlamento.

E se non dovessero essere accettati?
Allora noi non voteremo il documento, in nessun caso.

Neppure se dovesse essere posta la fiducia?
No, neppure in quel caso. I provvedimenti che noi presentiamo non prevedono costi aggiuntivi e sono conformi con le direttive europee. Veniamo definiti estremisti, ma in realtà siamo solo coerenti con il programma dell'Unione. Per questo potremmo chiedere una verifica del programma di governo. Se ne tiene conto solo quando riguarda i moderati della coalizione, diventa invece carta straccia se siamo noi della sinistra a chiedere che venga rispettato.

La Cgil sta vivendo ultimamente una grossa crisi.
Il protocollo aggiuntivo è stato un grosso colpo alla Cgil. Un colpo basso a chi ha cercato di difendere l'unità sindacale e dei lavoratori. Noi come sinistra dobbiamo in qualche modo aiutarla e fare la nostra parte.

Negli ultimi tempi questi attacchi all'ala sinistra della coalizione sembrano essersi moltiplicati. Perché?
Faccio un'analisi politica del momento: Damiano ha riproposto una logica identica a quella di Berlusconi; Francesco Rutelli con il suo «manifesto dei coraggiosi» ha parlato di «centrosinistra di nuovo conio»; Piero Fassino parla di «scenari più avanzati» in fatto di alleanze e dice che bisogna aprire a Lega e Udc. Mi sembra siano tutti elementi che fanno parte di un unico grande piano.

Quale?
Quello di far fuori la sinistra. Mi sembra si stia cercando di logorarla, sperando in un suo scatto di nervi che faccia cadere il governo, riproponendo il problema del '98, oppure trovare nuovi alleati per rendersi autosufficienti da questa stessa sinistra e liberarsene.

Cosa deve fare allora la sinistra per difendersi da questi attacchi?
Accelerare il suo processo di unificazione. Tutti insieme dobbiamo portare avanti iniziative comuni. Ma è importante rivolgersi a tutti, dallo Sdi a Rifondazione comunista, senza esclusioni. Poi, se qualcuno si autoesclude, è un'altra questione.

Però sulla questione delle pensioni non siete stati uniti. Voi e i Verdi avete dato un giudizio positivo sull'accordo, Prc e Pdci si sono opposti.
E' vero, ma ora sul protocollo siamo uniti. Il passo successivo è quello di non ricompattarci solo sui No, ma proporre posizioni alternative nostre. Che devono essere il più possibile comuni, senza per questo rinunciare alle diverse identità che ognuno di noi ha. Io personalmente credo ancora che sia possibile rimanere in un ambito di socialismo europeo, rinnovato e nuovo, ma pur sempre socialismo.

Uno spazio lasciato libero dai Ds dopo la nascita del Pd. Qual è il tuo giudizio sul Pd?
Credo sia un partito neocentrista. Se rappresentasse davvero la sinistra riformista non lo avrei certo abbandonato. Non si ripresenta il problema delle due sinistre, perché il Pd non sarà di sinistra. E sarà, paradossalmente, il più vecchio nel panorama politico italiano perché si rifà a schemi degli anni '90: il neoliberismo, l'idea di un governo forte, presidenzialista. I dirigenti del partito democratico sono in ritardo. Anche quando parlano di democrazia che decide. Questa va costruita sul consenso, non con tentazioni presidenzialiste, che sono superate dai tempi.

A proposito di tempi, quando vedremo la sinistra unita? Qualcuno parla delle amministrative del prossimo anno.
Abituato al senato, dove si vive alla giornata, non ragiono in una dimensione temporale così lunga. Credo che già in autunno, con la discussione sulla finanziaria, ci sarà una sinsitra unita. Che deve smetterla di stare sulla difensiva e essere propositiva e aggressiva. Se altri nel centrosinistra credono di farci fuori, anche utilizzando il referendum sulla legge elettorale, si illudono.

il Riformista 28.7.07
Van Gogh, genio a prescindere (dalla sregolatezza)
Una nuova teoria contro il binomio creatività/follia
Secondo la psichiatra Annelore Homberg bisogna distinguere la dimensione artistica dalla malattia mentale
di Livia Profeti


Van Gogh muore il 29 luglio del 1890, due giorni dopo essersi sparato su un fianco. Tra gli ultimi dipinti quel Campo di grano con corvi dove un cielo tormentato e nero invade minaccioso il giallo solare di ben altri campi, dipinti solo un anno prima. Al fianco il fratello Theo, al quale era molto legato e che non gli sopravviverà a lungo, morendo anch’egli sei mesi dopo in una clinica psichiatrica, in preda a misteriosi sensi di colpa.
Figlio di un pastore protestante, Van Gogh diventa pittore relativamente tardi, a 26 anni, dopo il tentativo fallito di intraprendere la carriera ecclesiastica e la rottura del rapporto con i genitori. Theo, che si era schierato dalla sua parte, gli suggerì di guadagnarsi da vivere facendo il litografo o il bibliotecario, ma fortunatamente Vincent non accettò il consiglio. Si isolò per un anno nell’insopprimibile «necessità di conoscere più profondamente se stesso», racconta al fratello nel luglio 1880 in una lettera piena d’inquietudine: «se non faccio nulla, se non studio, se smetto di cercare, sono perduto (…) c’è qualcosa in me, ma cos’é? ». Troverà la risposta un mese dopo, quando, nel farsi inviare le stampe di Jean-François Millet per copiare i dipinti sui contadini, gli scriverà: «fino a quando riuscirò a lavorare supererò in un modo o nell’altro tutto quanto». Aveva compreso di essere un artista.
Nel 1885 con I mangiatori di patate il primo capolavoro, ma nel 1888 non aveva ancora venduto un solo quadro, conservava comunque un certo ottimismo che scomparirà invece a dicembre, dopo la lite con Paul Gauguin, l’automutilazione dell’orecchio sinistro e l’inizio della malattia, che lo accompagnerà a fasi alterne sino alla tragica fine.
La malattia del genio olandese è stata sempre presentata come un emblema del binomio arte e follia, tanto misterioso quanto indissolubile, e del prezzo che un genio pagherebbe per la propria “diversità”. Solo recentemente è stata osservata da un nuovo punto di vista secondo il quale gli artisti non sarebbero in realtà così diversi dagli altri, nel senso che la loro capacità corrisponde ad una condizione universale di creatività, esclusivamente e “sanamente” umana. Ne ha parlato la psichiatra Annelore Homberg in un recente intervento in Cina, presso la Facoltà di architettura e l’Accademia di arte contemporanea di Tianjin, riportato sul n. 2/07 de Il sogno della farfalla (NER).
Per la Homberg la dimensione artistica è un’esigenza che «esprime l’identità umana», tant’é che «non esiste consorzio umano in cui non si canti, non si faccia musica, non si balli o non si rappresenti con il corpo. In cui non si creino immagini: dipingendo, decorando, scolpendo o costruendo case». Un’identità che però in Occidente è stata ostacolata da 2500 anni di razionalismo, che con la filosofia greca ha dapprima condannato l’irrazionale come residuo animale e poi, con la fusione di elementi ebraico-cristiani, lo ha trasformato in nucleo congenito di malvagità, male originario e radicale. Un solco sul quale la psicanalisi, la psichiatria e la filosofia moderne si sono inserite senza grosse variazioni, associando ambiguamente l’irrazionale artistico al termine “follia” e finendo con il confondere la creatività umana con la malattia mentale.
Diversamente, gli artisti del secolo scorso hanno avuto il coraggio di fare una ricerca originale sulla creatività inconscia, abbandonando la rappresentazione della figura definita, troppo legata alla memoria cosciente. Una ricerca il cui pioniere è stato proprio Van Gogh, che nel dipingere faceva emergere l’immagine direttamente dal colore senza prima disegnarne i contorni. Secondo la Homberg - che confessa anche un proprio passato artistico - con l’olandese è venuta alla luce la possibilità di «ricreare e rappresentare, con tela e colori, una realtà umana molto nascosta e lontana nel tempo». Van Gogh, precisa la psichiatra tedesca facendo riferimento alla teoria fagioliana della nascita, «allude ad un’uguaglianza di tutti: perché tutti hanno un inizio della vita che si nutre di luce e colore». La sofferenza psichica o l’autodistruzione nelle quali spesso un artista cade fanno parte di una problematica molto complessa, ma non è a loro che si deve la riuscita di un’opera d’arte.
Laurence Madeline, ex curatrice del museo Picasso di Parigi, ha sostenuto che la vicenda di Van Gogh è stata sempre presente nello spagnolo, con una drammatica domanda esistenziale: «fino a che punto un artista deve mettere se stesso e la sua vita nella sua opera? Fino alla pazzia, fino alla morte? » (Van Gogh Picasso, Reliè). Un corpo a corpo con il suo geniale predecessore durato un’intera lunghissima vita, compiuta sul filo della regressione nel non cosciente forse ancora maggiore, senza però pagare alcun dazio a quella malattia nella quale era invece caduto il grande olandese. Un parallelo affascinante senza alcuna risposta facile, solo le due vicende umane di due geni straordinari, da studiare con calma, senza credenze di origine antica che negano all’arte il suo coraggioso contributo alla conoscenza.