lunedì 30 luglio 2007

Repubblica 30.7.07
Il potere della scienza
La democrazia di fronte all'imprevedibile sviluppo delle nuove scoperte
di Enrico Bellone


Oggi la scommessa è fare in modo che il progresso non sia un rischio da subire ma un bene pubblico globale
Riflessioni sul rapporto conflittuale ed aspro intercorso nei secoli tra politica e tecnica a partire dal "caso Galileo"
Le innovazioni sono sempre emerse al di là di inventori e uomini politici
Gallino sottolinea la nostra ignoranza dei possibili sviluppi di un'invenzione

Quale rapporto esiste tra scienza e democrazia, e, più in generale, tra scienza e politica? Se poniamo la domanda in sede storica, allora cogliamo subito che nell´età moderna il rapporto è stato sempre conflittuale e aspro. L´età moderna vede, come figura esemplare, Galilei. E Galilei, in qualche nota scritta solo per se stesso e in tarda età, medita sulla propria condanna e osserva come le innovazioni dovute alla scienza siano «potenti a rovinare le repubbliche e sovvertire gli stati». Coloro che s´insediano ai vertici della società, a suo avviso, temono dunque l´innovazione poiché incrina i loro poteri. Quindi agiscono come «giudici sopra gl´intelligenti», e li piegano. Il contrasto di cui parlava Galilei può tuttavia essere oggi percepito in forma opposta. Si può infatti sostenere che la figura del decisore politico in grado di piegare lo scienziato è scomparsa, e che, in realtà, la politica nulla decide in quanto è globalmente condizionata dallo strapotere della tecnoscienza.
Quest´ultima è innegabilmente diventata un potere forte, dopo i tempi galileiani, e in varie zone del pianeta si sta ulteriormente irrobustendo. S´assiste così ad una evoluzione rapida dei saperi e della tecnologia: una evoluzione imprevedibile, non guidata da un Disegno Intelligente e non valutabile come un progresso del tutto positivo e razionale. Ciò era chiaro, nei primi anni Settanta del Novecento, a Konrad Lorentz. Il quale, nella sua lezione Nobel, faceva notare come il trasferimento di informazioni tra le generazioni umane vedesse all´opera dei «processi che sono totalmente indipendenti da considerazioni d´ordine razionale». Una mutazione innovatrice nelle nostre teorie o nelle nostre tecniche deve insomma, per affermarsi, eliminare forme di tradizione, e suscitare di conseguenza forme conservatrici di rigetto: e il contrasto, come accade nell´evoluzione biologica, non obbedisce a logiche predefinite.
È buona cosa, allora, che si presti la dovuta attenzione a quanto sta accadendo nella rete mutevole delle correlazioni tra il sapere di base sui fenomeni naturali, la folla dilagante dei manufatti tecnologici e gli statuti stessi della politica. Non è detto a priori, infatti, che il trasformarsi rapido della rete garantisca un futuro migliore per gli umani e per il pianeta. E, nello stesso tempo, è ragionevole presumere che una più approfondita conoscenza della rete e dei suoi mutamenti attuali possa però aiutarci a collocare la scienza e la tecnica come beni pubblici in regimi democratici, senza cedere allo scetticismo di chi, dopo aver constatato il potere della tecnoscienza, vede a rischio sia la democrazia, sia la libertà.
Una forma di scetticismo mi sembra quella che Ernesto Galli Della Loggia ha esposto commentando, sul Corriere della Sera, il nuovo libro di Schiavone, Storia e destino, che è appena uscito da Einaudi. Nel commento si legge che la democrazia deve controllare il potere economico o quello delle maggioranze, e che, di conseguenza, le regole democratiche debbono rifarsi a valori non negoziabili con tali poteri: ma quali valori potranno mai tenere a bada "il dominio tecnico-scientifico"? Questo potere è ormai "immane", visto che siamo alle porte di una società in cui l´uomo sarà addirittura "padrone della propria forma biologica", grazie a una scienza che installa se stessa come dominio sia sulla natura, sia sul controllo evolutivo della specie e della stessa mente umana. Vi è dunque, a parere di Galli Della Loggia, un conflitto insanabile tra scienza e democrazia, in quanto la prima non è un sapere puro a disposizione dell´umanità, ma è un intreccio indomabile di interessi economici i cui promotori - gli scienziati - non accettano alcuna forma di controllo esterno. Stiamo allora per dover scegliere tra il sapere e la libertà.
Non penso che il bivio sia così drastico: l´evoluzione della scienza è talmente rapida e planetaria che la libertà e la democrazia già sarebbero dei residui fossili. Siamo invece nelle condizioni di ripensare l´intera questione con l´obiettivo di ricollocare le «conoscenze tecniche e scientifiche come beni pubblici», come sostiene Luciano Gallino nel suo volume che Einaudi ha distribuito in aprile con il titolo Tecnologia e democrazia. Il programma di analisi suggerito da Gallino richiede una chiave di lettura che è quanto mai diversa da quelle di tipo tradizionale, e che è formata da due parti interconnesse. La prima dice che, di fronte agli sviluppi della tecnologia e del sapere scientifico, dobbiamo ammettere che «non abbiamo mai saputo che cosa stessimo facendo, a noi stessi, alle generazioni future e all´intero pianeta», e che, dati i successi causati da tali sviluppi in talune aree del pianeta, siamo comunque stimolati a «insistere con maggior vigore in quel che, senza saperlo, stiamo facendo».
È accettabile questo argomento? Direi di sì. La storia della scienza e della tecnica mostra come la maggior parte delle innovazioni e delle scoperte sia emersa in forme indipendenti dai progetti, dalle aspettative o dalle previsioni degli innovatori, degli scopritori e degli attori politici. Ha ragione Gallino: non dobbiamo sottovalutare la "smisurata ignoranza" che sempre caratterizza i nostri tentativi di cogliere le conseguenze dello sviluppo scientifico e tecnologico. Stando così le cose, come impostare un progetto di democrazia che «sappia meglio sfruttare ai propri fini diversi aspetti della tecnologia»?
Ebbene, la seconda chiave di lettura delle pagine di Gallino entra proprio nel merito di questo problema, seguendo una linea argomentativa quanto mai originale e centrata sulla figura del "decisore tecnologico". Qui il mondo della tecnologia è rappresentato con una modalità neodarwiniana, ovvero come una popolazione di strutture materiali e non materiali che deriva dall´uso razionale di conoscenze scientifiche di base, e che punta alla soluzione di problemi pratici: un concetto di popolazione che viene esplicitamente pensato «in maniera omologa alla teoria dell´evoluzione dei sistemi viventi per selezione naturale». Da questo punto di vista, allora, ciò che di solito chiamiamo "tecnologia" diventa un elemento essenziale dell´evoluzione della nostra specie, una sorta di anello per la «coevoluzione di biologia e cultura». Secondo Gallino, infatti, «nell´evoluzione della nostra specie interagiscono tre ordini di popolazioni: organismi umani, sistemi tecnologici e sistemi socioculturali».
La nostra storia diventa, nelle righe di Gallino, il risultato mutevole di un circuito del tipo seguente. Gli esseri umani - organismi del primo ordine - usano in forme selettive gli organismi di secondo ordine - strumenti tecnologici - per riprodurre se stessi e quegli organismi di terzo ordine che sono i sistemi socioculturali. In accordo con la teoria dell´evoluzione, quindi, il circuito «non è stato finora il prodotto di un disegno intenzionale», e «non sussistono segni che lo stia diventando». Esso funziona per la sopravvivenza e la riproduzione, e, come accade in una cornice darwiniana, la nostra specie ne ricava sia i vantaggi, sia i rischi. Ed entrambi sono condizionati da una "smisurata ignoranza" di quale sarà l´evoluzione futura. Sappiamo soltanto che quest´ultima sarà il risultato imprevedibile e non intenzionale delle scelte che stiamo ora facendo: «Il rapporto tra tecnologia e società transita per stati di equilibrio intermittente, dall´esito ignoto, tra popolazioni umane e metaumane, irraggiantisi sul pianeta come espressione della coevoluzione di biologia e cultura». Ecco, a questo punto, la questione centrale. La coevoluzione di biologia e cultura diventa sempre più complicata in quanto osserviamo vere e proprie forme di «emancipazione di nuove popolazioni di sistemi tecnologici». Per i soggetti politici, di conseguenza, sorgono gravi difficoltà, dovute all´azione stessa della tecnologia sui sistemi socioculturali che danno forma all´intero campo dell´agire politico. Che fare, allora? La risposta di Gallino suggerisce un accrescimento delle conoscenze relative ai possibili orientamenti della ricerca scientifica e tecnologica, con la speranza di approdare, sia pure in tempi non brevi, ad una scienza intesa come bene pubblico globale. Ci rendiamo conto di vivere nelle trame di un progresso sulle cui direttrici di sviluppo non sappiamo incidere in modo saggio e realistico. Ma sappiamo anche che possiamo investire fondi e risorse umane nella ricerca delle leggi che regolano i rapporti tra tecnologia, cultura e politica. Detto in modo scarno: invece di subire un progresso a rischio, dobbiamo agire per capirne l´architettura e modificarla in modo da ottenere un sapere che sia davvero un bene pubblico globale. Inventare il progresso, insomma. Senza cedere le armi della ragione a sistemi politici - laici o religiosi - che si autolegittimano vantandosi di possedere regole e valori insindacabili e non negoziabili. Dobbiamo evitare questo esito, se non altro, perché la storia stessa ci insegna che quei sistemi politici hanno sempre manipolato la scienza riducendola a merce, negandole contenuti culturali veri e propri, e generando disastri e tragedie.

Corriere della Sera 30.7.07
Berlino, il terremoto Lafontaine scuote il «bipolarismo corretto»
Il sistema tedesco diventa una variabile a cinque partiti
di Paolo Valentino


«Die Linke» combina post-comunisti ed ex della Spd
Nella Spd infuria il dibattito su una possibile alleanza

BERLINO — Nel cielo della Germania è (ri)nata la stella di Oskar Lafontaine. E a conferma che la stabilità politica di un Paese dipende solo in parte dai suoi successi economici, il ritorno sulla scena dell'ex «Napoleone della Saar» annuncia una stagione di grandi rivolgimenti nella geografia dei partiti. Proprio nell'estate in cui i politici italiani, in perenne cerca d'autore, riscoprono le presunte virtù chiarificatrici del sistema elettorale tedesco, l'ennesima resurrezione di Lafontaine rischia invece di cortocircuitarlo. E di favorire una ridefinizione del paesaggio pubblico, caratterizzata da imprevedibilità e incertezza. «Si ha l'impressione — scrive Der Spiegel — che la politica tedesca stia per cambiare radicalmente ».
Ma andiamo con ordine. Nella sua ultima reincarnazione, Oskar Lafontaine è il nuovo presidente di «Die Linke», il partito sorto all'estrema sinistra, combinando i post-comunisti della Pds, con gli ex socialdemocratici delusi dalla svolta moderata della Spd, ingabbiata dalle esigenze della Grosse Koalition.
Die Linke è già una rivoluzione per sé: sdogana gli eredi della Germania Est e offre un riparo non imbarazzante allo scontento sociale in tutta la Germania. Ma soprattutto, grazie a sondaggi che la danno addirittura intorno al 14% delle preferenze di voto, consolida la realtà di un nuovo sistema a cinque partiti: Cdu-Csu, Spd, Verdi, liberali e Die Linke appunto. Con le tre formazioni minori non più tanto piccole, ma — come hanno confermato le elezioni federali del 2005 — stabilmente intorno o sopra la barra del 10% e dunque con la prospettiva molto concreta che in futuro per governare il primo Paese d'Europa saranno necessarie coalizioni a tre. Nessuno infatti ha voglia di ripetere l'esperienza della Grande Coalizione tra i due partiti maggiori, che già adesso, dopo due anni di buon lavoro, mostra segni d'usura.
In altre parole, il «bipolarismo corretto» conosciuto nell'ultimo mezzo secolo rischia di andare parzialmente in pensione. E se è vero che Cdu-Csu e Spd difficilmente torneranno insieme, la frenetica ricerca di nuove opzioni di governo vede già impegnati tutti i partiti e potrebbe dare esiti sorprendenti. Così, per esempio, chi vota i Grünen, potrebbe ritrovarsi con una coalizione «Giamaica» insieme alla Cdu-Csu (nero) e ai liberali della Fdp (giallo). Oppure potrebbe veder nascere una coalizione del «semaforo» con il rosso della Spd e il giallo della Fdp. Ma potrebbe anche dar vita a un governo frontista rosso-rosso-verde, con la Spd e Die Linke. Un elettore verde insomma rischia di dare carta bianca all'intero spettro della politica federale, dagli ultraliberali agli ultrastatalisti.
Nessuno in verità esclude più nulla. Il ministro degli Interni, Wolfgang Schäuble, sostiene che l'eventuale alleanza con i Verdi non è più un auspicio ma «una opzione concreta per la Cdu». Nella Spd, la più minacciata dalla nascita di Die Linke, infuria il dibattito se occorra o meno considerarla un alleato potenziale per il governo federale, visto che lo è già nei Länder e nei comuni.
Perfino i liberali hanno ora riscoperto questa versione teutonica della teoria dei due forni e, pur di tornare al potere dopo 10 anni all'opposizione, sono aperti a qualsiasi ipotesi.
Incredibile a dirsi, l'uomo che ha innescato questa bomba a tempo sotto il sistema tedesco, è proprio Oskar Lafontaine. Un ritorno in grande stile, il suo, sul quale pochi avrebbero scommesso. Ex nipotino di Willy Brandt, ex candidato socialdemocratico alla cancelleria macinato da Helmut Kohl nell'anno della riunificazione, ex presidente della Spd che nel 1998 portò Gerhard Schröder al potere, ex Superministro dell'Economia nel primo governo rosso-verde, prima di gettare la spugna nel marzo 1999, dimettendosi da tutto, partito, parlamento e governo, Lafontaine è sempre stato uomo di eccessi, passioni e scelte radicali. Ha pagato anche di persona, sfuggendo di poco alla morte, quando fu accoltellato da un pazzo durante la campagna elettorale del 1990.
Anche questa volta non si smentisce, confermandosi populista consumato e anche irresponsabile. Dalla sua nuova posizione, promette infatti qualsiasi cosa: un paradiso in terra, senza i tagli allo Stato sociale e alle pensioni, dove tutti lavorano col salario garantito, un mondo senza guerra, senza la Nato, senza il terrorismo, senza la globalizzazione. Nella foga oratoria, ogni tanto scivola e dice perfino senza immigrati.
Fatto è che la sua retorica mette all'angolo e manda in fibrillazione la Spd, già annichilita dalla popolarità della Supercancelliera Angela Merkel, al minimo storico nei sondaggi e incerta su come comportarsi di fronte all'incalzare della sua nemesi, lo stesso Oskar che fu una volta il beniamino della base. Nell'ufficio di Lafontaine al Bundestag, campeggia un ritratto di Willy Brandt: la lotta per accaparrarsi i padri e i simboli è appena cominciata.

Corriere della Sera 30.7.07
Randal Keynes racconta gli ultimi anni di vita del grande scienziato
Quando Darwin malediva la natura
«L'evoluzione è orribilmente crudele, goffa e sperperatrice»
di Edoardo Boncinelli


Pare proprio che alla personalità di Charles Darwin, il padre della teoria dell'evoluzione, non si possa rimanere indifferenti. Egli suscita infatti grandi risentimenti e grande venerazione. Innumerevoli sono le opere dedicate direttamente o indirettamente a questo sommo scienziato e alla sua vita, fino al punto che si ha l'impressione che si tenti a volte di farne una specie di «santino», facendo in questo modo certamente un torto a lui ma soprattutto alla sua teoria, che resterebbe una grande teoria scientifica anche se il suo primo autore si dovesse rivelare una persona insopportabile.
È quindi particolarmente bene accetta una schietta e toccante biografia «di prima mano», quale quella scritta da Randal Keynes, il nipote di una nipote di Darwin stesso, che in Casa Darwin (Einaudi) racconta gli ultimi quaranta anni della sua vita, collocati in un grandioso affresco familiare e sociale, che regge secondo me il confronto con opere schiettamente letterarie come Quel che resta del giorno di Kazuo Ishiguro.
Questa non è e non vuole essere una biografia ufficiale e onnicomprensiva, quanto piuttosto una collezione di ritratti umani e di evocazioni di eventi, significativi e insignificanti. Due sono le cose che colpiscono di più in questo affresco di un'epoca: la vastità e la multiformità delle fonti alle quali il nostro autore attinge e il suo innegabile dono letterario. Ne deriva un romanzo familiare, quasi una saga familiare, di grande respiro e di grande spessore umano, che potrebbe essere a mio parere letto anche indipendentemente dalla personalità del protagonista. C'è nell'edizione inglese anche un piccolo «vezzo» letterario. Il titolo originale è infatti Annie's Box, «L'astuccio di Annie». Annie è la figlia secondogenita di Darwin che muore di tubercolosi a dieci anni, quando il padre ne ha quarantadue, lasciando un gran vuoto dietro di sé. E certamente una traccia nel corso dei pensieri del nostro naturalista con una propensione per l'elaborazione di grandi teorie. Non è che la storia di Annie sia il centro narrativo del libro, ma rappresenta certamente una delle più importanti fra le vicende che costituiscono il complesso affresco degli affetti familiari di Casa Darwin e del variegato mondo di personaggi che gli ruota intorno.
La morte a quei tempi era di casa in ogni famiglia. Un bambino su cinque non raggiungeva il primo anno di vita, anche in una città come Londra si facevano interventi chirurgici assolutamente senza anestesia. E si moriva appunto di tubercolosi, senza nemmeno saperlo. Occorre infatti aspettare ancora trenta anni perché se ne individui la natura infettiva e si arrivi a isolarne l'agente patogeno, poi chiamato bacillo di Koch, dal nome dello scopritore. È interessante sentire che cosa ebbe a dire Darwin ai tempi di queste scoperte: «Ricordo bene di aver detto a me stesso, venti o trent'anni fa, che, se fosse stato possibile dimostrare l'origine di una qualsiasi malattia infettiva, ciò avrebbe rappresentato il più grande trionfo della scienza: e adesso sono lieto di aver assistito a questo trionfo». Forse occorrerebbe riflettere su queste cose, quando ci si affanna ad affermare la natura assolutamente sfortunata e infausta dei nostri tempi!
L'abissale divario esistente fra quei tempi, pur vissuti in una città avanzata come Londra, e i nostri, è una delle cose che mi hanno maggiormente colpito nella lettura di questa biografia-ritratto di un'epoca. La seconda riguarda invece l'evoluzione del pensiero stesso di Darwin. Ero convinto, come molti altri assumo, che le riflessioni di Darwin fossero partite da osservazioni naturalistiche, di natura biologica o geologica, e fossero approdate solo molto più tardi alla considerazione del posto dell'uomo nel creato e del ruolo stesso del Creatore. La lettura degli scritti privati e il racconto dei familiari mostrano che non è così: a partire almeno dai suoi trent'anni, Darwin si pone il problema delle somiglianze e delle differenze fra l'uomo e i «bruti», prime fra tutte le grandi scimmie che facevano proprio a quell'epoca la loro prima apparizione nei giardini zoologici, ed è condotto a riflettere sull'origine di tutto il dolore presente nel mondo, naturale e civilizzato. Ne risulta una dimensione di Charles Darwin pensatore morale e civile, prima ancora che filosofo naturale.
Quando Henry James, giovane americano di belle speranze, andò a trovarlo a casa sua, ebbe a raccontare: «Darwin è il più dolce, il più semplice, il più gentile vecchio inglese che voi abbiate mai visto. Non disse nulla di straordinario, e fu straordinario proprio perché non lo fu». Eppure pochi anni prima questo gentile, dolce vecchio era stato capace di scrivere la celebre, terribile frase: «Quale libro un Cappellano del Diavolo potrebbe scrivere sulle goffe, sperperatrici, balordamente raffazzonate, meschine e orribilmente crudeli opere della natura!». Quella natura che amava così profondamente.

l’Unità 30.7.07
«Putin liberi la cronista russa rinchiusa in manicomio»


FIRENZE «Il caso di Larissa Arap è solo l’ultimo di un’escalation che pone la Federazione Russa al primo posto nella classifica mondiale dei Paesi più a rischio per i giornalisti». Lo afferma in una nota l’associazione Information Safety and Freedom che chiede al Governo russo la liberazione immediata della giornalista, membro del Fronte civico unito, «ricoverata a forza nell’ospedale psichiatrico di Murmansk». Isf spiega che «dal 2000 sono già più di venti i giornalisti assassinati in quel Paese» e, oltre a «omicidi e aggressioni, tutti non puniti» parla di «molte altre forme di intimidazione e vessazione nei confronti del giornalismo indipendente. Il 26 giugno scorso le associazioni per la libertà di stampa e i diritti umani sono insorte contro l’entrata in vigore delle nuove norme antiterrorismo che consentono ai servizi segreti russi di agire senza alcuna autorizzazione nei confronti di cittadini sospettati di agire o anche solo parlare di attività ritenute terroristiche. Se questa deregulation assoluta delle attività poliziesche faceva temere un’ondata repressiva verso i media e le Ong, già sotto pesante attacco, oggi il presidente dell’Associazione psichiatria indipendente di Mosca, Yuriy Sovenko, denuncia il ritorno della pratica staliniana degli internamenti come arma contro il dissenso». preoccupazione per la sorte della Arap è stata espressa anche dal parlamentare dell’Ulivo e portavoce dell’associazione Art. 21, Giuseppe Giulietti: «La sorte di Larissa Arap, la giornalista internata in un ospedale psichiatrico russo ci preoccupa molto». «Impossibile non vedere che fino a questo momento - dice Giulietti - non sia stata fornita nessuna rettifica formale dalle autorità istituzionali. Chiediamo risposte immediate altrimenti saranno necessari gli opportuni passi istituzionali».

Corriere della Sera 30.7.07
Madonna, la curia contro la procura
di Luigi Accattoli


BOLOGNA — Negli ambienti della Curia di Bologna c'è «sconcerto» per la motivazione con cui il magistrato competente ha chiuso la questione del «vilipendio» della religione legata all'annunciata — e poi soppressa— «performance» teatrale intitolata «La Madonna piange sperma»: non c'è una reazione ufficiale, ma ci si ripromette di studiare il caso con i propri giuristi per un eventuale «commento». Il procuratore capo di Bologna Enrico Di Nicola ha deciso infatti per l'archiviazione della denuncia avanzata dal deputato bolognese di Forza Italia Fabio Garagnani che accusava quella rappresentazione di «vilipendio» della religione.
Un'archiviazione perché «il fatto non sussiste», in quanto il Codice considera reato soltanto la «bestemmia» rivolta contro la «divinità», mentre quella «rappresentazione» — promossa dall'associazione gay «Carni scelte» — era rivolta contro la Madonna che non rientra nella categoria della «divinità». La Curia bolognese aveva bollato l'annuncio di quel programma teatrale come «bestemmia abominevole» e ora i collaboratori del cardinale Caffarra dicono che «certo la Madonna non è Dio ma per i cristiani è Madre di Dio e dunque la sua offesa offende i credenti». Per Franco Grillini della Sinistra democratica la decisione del magistrato è «obiettiva». Luca Volontè — capogruppo Udc alla Camera — ci vede invece la tendenza ad «assecondare il dileggio, l'insulto e la blasfemia».

domenica 29 luglio 2007

Rosso di Sera 27.7.07
La lotta alla precarietà obiettivo di tutta la sinistra
“Le proposte della maggioranza del governo su scalone e mercato del lavoro non sono condivisibili”. In autunno una grande mobilitazione,
di Alessandro Cardulli
qui

Rosso di Sera 27.7.07
Governo, a luglio parte un “caldo” settembre
I ministri della sinistra a colazione con Romano Prodi chiedono modifiche al protocollo sul welfare e mercato del lavoro. “Insoddisfacente” per la Cgil la risposta del premier a Epifani
qui

Corriere della Sera 29.7.07
Welfare, il governo frena. Sinistra all'assalto
Palazzo Chigi: no a modifiche, nessun passo indietro. Giordano: in autunno sarà conflitto politico e sociale
di Barbara Millucci


ROMA — Nessun dietrofront del governo. Il protocollo sul welfare
non è emendabile. Il portavoce del governo Silvio Sircana conferma quanto scritto nella lettera dal premier al segretario della Cgil, Guglielmo Epifani e ribadisce la sostanziale non emendabilità del documento. Un segnale rivolto alla Cgil, ma anche ai quattro ministri della sinistra radicale e dei Verdi, Fabio Mussi, Paolo Ferrero, Alessandro Bianchi e Alfonso Pecoraro Scanio, che ieri hanno incontrato Prodi per discutere le modiche sia sui contenuti che sui metodi dell'accordo.
Le parole di Sircana hanno fatto divampare un incendio. Il ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero annuncia un autunno caldo e spiega di non volersi rassegnare «all'idea che il programma con cui l'Unione è stata votata sia stravolto con il plauso di Confindustria ». Gli fa eco il segretario di Rifondazione Franco Giordano, secondo il quale «si apre un conflitto, una stagione di mobilitazione politica e sociale. Dall'esito di quel conflitto dipenderà il nostro voto in Parlamento». Ancora più dura la risposta di Manuela Palermi, capogruppo di Pdci-Verdi al Senato: «Impossibile sostenere un governo che fa queste politiche sociali». Promette battaglia in Parlamento il capogruppo alla Camera del Pdci, Pino Sgobio: «Il protocollo non va per bene. Lavoratori e pensionati hanno votato l'Unione perché nel programma era scritto che si sarebbe superato il precariato e che sulle pensioni non si sarebbe operato nessun innalzamento».
Alla base del braccio di ferro tra governo e l'ala radicale della coalizione (Rifondazione comunista, Comunisti italiani, Verdi e Sinistra democratica) c'è il superamento dello scalone previdenziale e le modifiche alla legge Biagi. La sinistra dell'Unione punta a modificare i termini dell'accordo durante l'iter in Parlamento. Mentre il ministro del Lavoro, Cesare Damiano, non chiude la porta a eventuali aggiustamenti: «Questo può essere considerato il miglior accordo sullo stato sociale da vent'anni. Un accordo è fatto di concertazione e lo si può scrivere meglio nel momento in cui si traduce in legge».

Corriere della Sera 29.7.07
Diliberto: nuova trattativa Se ci saranno «soperchierie» mani libere in Parlamento
Pdci, Prc, Sinistra democratica e Verdi: uniti abbiamo 150 parlamentari
di Sergio Rizzo


ROMA — Il segretario dei Comunisti italiani Oliviero Diliberto, a questo punto, non poteva fargliela passare liscia: «Romano Prodi apre alla trattativa e il suo portavoce Silvio Sircana dice che il protocollo sul welfare è inemendabile? Che si mettano d'accordo. In Italia, per fortuna, c'è la potestà legislativa del Parlamento».
È una minaccia?
«Una constatazione. Mi batterò perché cambino le cose. Niente di più ma niente di meno di quello che c'è nel programma».
E se non funziona?
«Vorrei ricordare che il governo è fatto anche da noi. Chiedo formalmente che a settembre ci si riunisca. Il profilo politico della trattativa deve vederci coinvolti. Per questo voglio esserci anch'io, visto che Alessandro Bianchi, che stimo e fa bene il ministro, è un indipendente ».
Ha detto trattativa? Un'altra?
«Ha capito bene. Il governo deve trovare nuovi punti d'intesa su pensioni e welfare prima di affrontare il Parlamento».
Insisto: se non si trovano?
«Si va in Parlamento e a quel punto mi ritengo libero di votare come credo».
Il famoso dodecalogo, firmato pure da voi, dice che a Prodi spetta l'ultima parola.
«Prodi è il premier, lui deve fare la sintesi. Ma la sintesi è tener conto di tutte le opinioni, anche della nostra. Diversamente...».
Diversamente?
«Sa come la chiamerebbe Alessandro Manzoni? Soperchieria».
Davvero crede di spuntarla?
«Vedrà. Pdci, Rifondazione, Sinistra democratica e Verdi: uniti abbiamo 150 parlamentari».
Un partito di tutto rispetto.
«Per questo credo che si deve andare più in fretta possibile a forme federative».
Ma se non siete riusciti nemmeno a sanare la frattura con Rifondazione comunista...
«Per quanto mi riguarda le ragioni che portarono alla scissione del 1998 sono venute meno. Ho notato che pure Rifondazione ha avviato un processo di riavvicinamento ».
E gli altri?
«Ci saranno. Abbiamo l'assoluta esigenza di bilanciare i conservatori dell'Unione».
Vuole dire i riformisti?
«Serve una confederazione della sinistra che impedisca che vada in porto il progetto delle maggioranze di nuovo conio».
Con l'Udc al vostro posto?
«Non basterebbe. Ma c'è chi sta lavorando a un centrosinistra che sia un centro con un pezzetto di sinistra subalterna».
Fuori i nomi.
«Il manifesto dei coraggiosi, coraggiosi si fa per dire, dice chiaramente che bisogna impedire il ritorno della destra ma soprattutto impedire che la sinistra fermi i progetti riformatori».
Non è forse vero che bloccate tutto?
«Veramente non vedo nulla di riformista in giro. Tutte le proposte mirano a colpire i diritti acquisiti ».
Mi faccia capire: per lei chi è riformista e chi conservatore?
«Conservatorismo non è voler conservare un diritto. E riformismo non è riformare un diritto per peggiorarlo. Quella si chiama controriforma ».
Andiamo... Se si allunga la vita media non si deve allungare anche l'età pensionabile?
«Questa retorica dell'aumento della vita non è uguale per tutti. Non è uguale l'intellettuale e chi sta alla catena di montaggio».
Infatti il protocollo salva i lavoratori usurati.
«Un imbroglio. Si parla di un milione e mezzo di persone e poi Tommaso Padoa-Schioppa ci dice che sono cinquemila all'anno. Cioè, in sette anni 35 mila persone. E questo per me è dirimente. Il fatto è che la vicenda delle pensioni la dice lunga».
Su che cosa?
«C'è chi pensa che la sinistra sia di ostacolo alla definitiva normalizzazione del Paese. Piano piano tutte le conquiste sono state smantellate. Prima l'abolizione della scala mobile. Poi la riforma Dini. Quindi la fine del lavoro a tempo indeterminato. Ora la pensione a 62 anni. E già mi aspetto il prossimo attacco».
Dove?
«Al contratto nazionale».
Rigiriamo la frittata. Abolendo la scala mobile si è sconfitta l'inflazione, con la riforma Dini sono stati messi a posto i conti previdenziali e con il lavoro flessibile si è bloccata la disoccupazione che prima galoppava. Come la mettiamo?
«E chi ha pagato tutto questo? Sempre i soliti, lavoratori e pensionati. Con l'ultima Finanziaria la Confindustria ha avuto una valanga di soldi, e si chiede al sindacato di accettare nuovi tagli. Sa cosa le dico? Adesso basta».
Significa che Prodi rischia?
«Le risponderò a settembre. Non ho alcuna voglia di far cadere il governo. Saremo responsabili, ma molto, molto determinati».

Repubblica 29.7.07
Breve lezione sulla felicità
di Eugenio Scalfari


Mi permetterete, cari lettori, di uscire oggi dal seminato e di trattare un tema che potrà sembrare non pertinente alla stretta attualità. L´ho già sfiorato più volte ma ora vorrei prenderlo di petto e vedrete che non è poi così lontano dalle tematiche quotidiane così noiosamente ripetitive.
Il mio tema coinvolge tre concetti: il tempo, il senso, la felicità, strettamente connessi tra loro nel nostro agire quotidiano. Ma forse non ce ne accorgiamo, eppure ogni nostro atto, desiderio, comportamento, sono motivati e determinati da quei tre elementi. Ciascuno di noi vuole anzitutto sentirsi felice o meno infelice di quanto non sia; questo suo obiettivo si colloca ad una certa distanza dall´attimo presente e promette una certa durata e qui interviene l´elemento temporale. Il percorso tra la decisione che ci procurerà felicità e il tempo necessario per realizzarla dà senso a quel percorso e poiché la vita altro non è che la ricerca continua di felicità che si ottiene e si perde un attimo dopo averla raggiunta, ecco che il senso viaggia senza soluzione di continuità a cavallo di quei percorsi che ci accompagnano in modi variabili fino al nostro ultimo appuntamento.
Incito i nostri attori, politici professionali economici culturali, a riflettere su queste considerazioni. Ne indico qualcuno, tanto per fornire concreti esempi, precisando che indico in questi casi risultati di felicità connessi a obiettivi di natura pubblica e non privata, che pure ci sono e per la maggior parte delle persone hanno anzi caratteristiche dominanti.
Mi viene in mente, tanto per dire, Luca Montezemolo. Quando la Ferrari vince una gara è felice e lo si vede. Così pure quando la Fiat di cui è presidente realizza risultati positivi. E ancora quando la Confindustria centra un suo obiettivo di politica economica. Queste sue attività plurime gli costano (anche questo si vede) molta fatica, ma è fatica appagante e dà senso alla sua vita fino a quando riuscirà a ghermire qualche brandello di felicità.
Me ne vengono in mente moltissimi altri. Per esempio Silvio Berlusconi. Che sia felice ogni volta che si trova in un bagno di folla plaudente è un fatto evidente. Traspira gioia da tutti i pori. Bacia volti di bambini, stringe centinaia di mani. Lancia battute eccitanti, divertenti, esalta entusiasmi. Non c´è niente di falso né di studiato in tutto questo.
Prima d´entrare in politica la sua felicità dipendeva dai bilanci delle sue aziende, dai contratti pubblicitari che riusciva ad ottenere dagli inserzionisti. Era una felicità di qualità minore rispetto al bagno di folla. Perciò sarà un triste giorno per lui quando dovrà rinunciarvi. Farà di tutto perché arrivi il più tardi possibile, di questo si può star certi.
Ma prendete anche (scelgo a casaccio dal mazzo dell´attualità) il giudice Clementina Forleo. Fa un mestiere difficile e anche avaro di felicità: chi giudica tra parti in causa e si asside come arbitro neutrale in mezzo a loro ricava felicità solo dal fatto di garantire un´applicazione appropriata della legge. Ha fatto il suo dovere e tanto dovrebbe bastarle. Ma i suoi provvedimenti passano poi al vaglio di successivi gradi di giurisdizione, possono essere confermati o cancellati. Ammetterete che la felicità arriva col contagocce. A meno che il giudice non si sporga e non sprema la spugna fino all´ultima goccia.
È ciò che ha fatto nel caso delle intercettazioni telefoniche su alcuni membri del Parlamento. Non entro nel merito della sua ordinanza perché non ne ho né titolo né voglia. Ma l´irruenza del giudizio che ha anticipato un´incriminazione prima ancora che la Procura della Repubblica la formulasse, non ha altra motivazione che una ricerca maggiore di felicità. Come il bagno di folla di Berlusconi. Il nostro presidente della Repubblica – ben prima che l´attualità facesse esplodere il caso Forleo – aveva indicato tra i malanni della giustizia anche quelli d´una eccessiva ricerca di visibilità. Ma parole sagge non riescono quasi mai a frenare una natura. Mi ha stupito invece la posizione di Borrelli, che fu procuratore a Milano all´epoca di Tangentopoli. Ha detto che il «sovrappiù» della Forleo è un elemento marginale rispetto al merito del problema che riguarda la possibilità di indagare presunti colpevoli. Ha ragione e torto nello stesso tempo. I sospettati siano al più presto indagati, ma chi si occuperà del «sovrappiù» di Clementina? Potrà ancora fare l´arbitro d´un procedimento nel corso del quale è scesa tra i giocatori calciando impropriamente la palla? Borrelli è stato anche procuratore della Federcalcio e ha sospeso fior di arbitri. Dovrebbe dunque avere ben presente quell´esperienza.
Tanti altri esempi potrei addurre per spiegar bene quanto pesi nelle azioni umane la ricerca di felicità. Ma spero d´aver chiarito a sufficienza e proseguo nel ragionamento.
* * *
La durata delle singole felicità ha un tempo breve. Ma esistono anche felicità collettive e la loro durata è più lunga. A volte molto più lunga.
Quando dico felicità collettiva penso a soggetti collettivi, comunità locali, comunità nazionali, comunità internazionali che si vivano anche come veri e propri soggetti e come tali siano vissuti dai popoli che ne fanno parte.
I percorsi necessari per dare durata e stabilità alla felicità che abbia soggetti collettivi come destinatari sono notevolmente lunghi. Di solito operano di rimbalzo, come le biglie del biliardo che spesso debbono fare il giro delle sponde per realizzare l´obiettivo di ottenere punti e lasciare l´avversario in posizione incomoda.
Anche qui qualche esempio, dal mazzo dell´attualità.
La sinistra radicale si sente a disagio; ha la sensazione che Prodi stia privilegiando la linea riformista e che questo spostamento la penalizzi. Perciò promette battaglia. È chiaro il perché: il soggetto che si riconosce nei partiti della sinistra radicale pensa che la felicità propria, dei movimenti che vorrebbe rappresentare, della classe operaia della quale rivendica la rappresentanza politica, si realizzi spostando a sinistra la politica del governo. Questo è il dichiarato obiettivo dei suoi leader. I quali tuttavia sanno (e lo dicono) che una crisi del governo penalizzerebbe fortemente i loro veri e presunti rappresentati.
I leader dei partiti di quella sinistra sostengono di costituire un terzo della coalizione, ed è vero. Perciò pongono la domanda: si può governare contro un terzo della maggioranza? A questa domanda i leader del centrosinistra oppongono la contro-domanda: si può governare contro i due terzi?
Rifarsi al programma è un puro alibi: un programma di 280 pagine è interpretabile e ognuno lo fa a suo modo. Sicché non c´è che affidarsi al capo del governo e della coalizione, Romano Prodi. Altro metodo non c´è. Ma i leader della sinistra radicale dovrebbero anche sapere che i loro continui strappi, che poi finiscono (finora) con il rientrare, provocano reazioni crescenti nei due terzi riformisti e disincanto ulteriore nel corpo elettorale.
Questa ricerca sussultoria di due felicità che si contrappongono configura una scomodissima situazione. Il solo risultato finora conseguito è stato quello – ottenuto principalmente dalla stessa sinistra radicale – di autoproporsi come capro espiatorio di tutto ciò che non va nella gestione della cosa pubblica.
Debbo dire: non è un gran risultato.
* * *
La classe dirigente di uno Stato deve proporsi come obiettivo quello di procurare felicità agli abitanti e assicurarla per quanto possibile ai loro figli e nipoti. Diciamo tre generazioni. Andare al di là mi sembra azzardato; starne al di qua denota corta vista ed è ciò che di solito caratterizza regimi populisti e demagogici.
La classe dirigente di uno Stato deve dunque avere una visione del paese dinanzi a sé e deve anche – anzi come primario obiettivo – attuare in corsa la riforma delle inefficienze dello Stato.
Si moltiplicano gli allarmi su questo punto, che viene chiamato di volta in volta questione settentrionale o questione meridionale, ma che più appropriatamente dovrebbe essere chiamata questione dello Stato.
La classe dirigente deve necessariamente darsi carico di tutto ciò. In una recente intervista al nostro giornale Giuliano Amato, per spiegare il suo punto di vista su alcuni temi d´attualità, ha avuto la cortesia di riprendere un´immagine da me usata un anno fa, quella dello specchio rotto. A terra sono rimasti i frammenti di quello specchio che non riflettono più l´intera realtà ma soltanto alcuni suoi parziali aspetti.
Bisogna dunque che la classe dirigente si dia carico di recuperare uno specchio capace di riflettere l´intera realtà nazionale e operi avendo di mira la felicità dei padri, dei figli e dei nipoti. Una felicità duratura, che dia sollievo subito ad alcuni bisogni impellenti ma nel contempo ponga le condizioni affinché speranze e attese che si proiettano nel futuro siano salvaguardate anche a prezzo di alcune rinunce oggi necessarie.
Una classe dirigente che sia capace di questo trova in questa visione e nel realizzarla, anche la propria felicità e il senso del proprio percorso e della propria funzione.
Post Scriptum. Rientro nel seminato (dal quale peraltro ho potuto allontanarmi assai poco) per spendere due parole sulla legge elettorale e sul referendum parzialmente abrogativo.
Stefano Rodotà segnala che la legge che dovesse uscire dal referendum sarebbe un mozzicone di legge, un dispositivo assai imperfetto che lascerebbe in piedi le liste bloccate senza preferenze e inciterebbe partiti e partitini a far blocco per intascare il premio di maggioranza.
Personalmente non do gran valore al sistema delle preferenze. Ricordo il trionfo del referendum Segni che restrinse le preferenze da quattro ad una soltanto e passò a furor di popolo.
Concordo invece con Giovanni Sartori che sul Corriere della Sera indica tra le soluzioni "buone" oltre al doppio turno alla francese anche la legge vigente in Germania. Purché sia conservata nel modello attuale e non ricucinata in salsa italiana, osserva Sartori. Anche su questo punto sono d´accordo con lui come pure sul gonfiarsi e sgonfiarsi dei partiti di centro, dovuto alla pressione moderata o esorbitante dei partiti estremi. In materia pensiamo e scriviamo le stesse cose, caro Sartori, sperando con scarsa fiducia di essere ascoltati.

Repubblica 29.7.07
T.S. Eliot. Il poeta dei misteri svelato dalle lettere
di Enrico Franceschini


La vita privata dell´autore di "Terra desolata" è ancora un enigma chiuso negli armadi di un colossale archivio custodito dalla seconda moglie: carteggi e documenti che possono illuminare le molte zone d´ombra di un uomo controverso. Ma ora quell´archivio è stato aperto e chi ne ha visto i segreti scommette che cambierà il modo in cui questo Nobel per la letteratura "viene letto, studiato, compreso"
Vivien, la prima moglie, andava a letto con Bertrand Russell Lui, dicono i biografi, tollerava perché subiva a sua volta il fascino del filosofo

LONDRA. Chi era T.S. Eliot? Un illustre premio Nobel per la letteratura (1948), saprebbe rispondere ogni scolaretto del Regno Unito. Il più grande poeta in lingua inglese del Ventesimo secolo, uno dei fondatori del modernismo, la cui opera Terra desolata, apparsa nello stesso anno dell´Ulisse di Joyce, ne viene spesso considerata il corrispettivo in versi, sintetizzerebbe un critico. Ma no, è l´autore dei dialoghi del celebre Cats, obietterebbe, peraltro senza sbagliare, lo spettatore medio dei musical del West End. Senonché su Thomas Stearns Eliot, nato a St. Louis, Missouri, Stati Uniti d´America, il 26 settembre 1888, morto il 4 gennaio 1965 a Londra, nella nazione di cui acquisì la cittadinanza e in cui trascorse la maggior parte della vita, sono state dette, con minor certezza, tante altre cose: che era omosessuale, misogino, lunatico, e che la sua vita sentimentale fu un disastro, per esempio; che era fascista, razzista, antisemita, e che le sue idee politiche erano abominevoli. Il problema è che, nonostante una montagna di corrispondenza privata lasciata agli eredi, del "vero" Eliot si conosce ancora poco. Non è mai esistito un suo biografo ufficiale. A Peter Ackroyd, che scrisse uno dei migliori libri su di lui, fu persino negato di citare le sue poesie. Il materiale che poteva fare luce sulla sua vita privata è sotto chiave in un immenso archivio, dal quale è uscito, finora, soltanto un volume delle sue lettere, a cura della vedova, Valerie: ma riguarda esclusivamente gli anni tra il 1898, quando Eliot faceva lo scolaretto a St. Louis, e il 1922, quando uscì Terra desolata. Il poeta «misterioso» l´ha definito recentemente l´Independent di Londra. Ebbene, adesso il mistero potrebbe essere parzialmente svelato.
Con l´approssimarsi del centoventesimo anniversario della nascita, infatti, il lavoro sull´archivio Eliot ha accelerato. Faber&Faber, sua casa editrice originale (dove lui stesso lavorò a lungo come redattore), prepara una collezione in sette volumi di tutta la sua prosa. Intanto Hugh Haughton, docente di letteratura alla York University, ha ricevuto l´incarico di aiutare Valerie Eliot, la vedova, a creare un´edizione di un imprecisato numero di volumi delle sue lettere. L´aiuto è necessario perché il compito che sinora gravava esclusivamente sulle spalle della signora Eliot era immane, specie per una donna ultrasettantenne. Il poeta scriveva lettere a getto continuo. Soltanto nel 1923 la sua corrispondenza ammonta a 88.388 parole, la lunghezza di un romanzo breve. Nel 1926, scrisse 112.878 parole. Si calcola che, solamente per il periodo tra il 1922 e il 1940, esistano nell´archivio eliotiano due milioni di parole inedite: una mole in grado di disorientare il ricercatore più solerte.
«È un archivio straordinario», ha confidato Haughton, dopo avervi dato un´occhiata, all´Independent. «Eliot non era solo uno dei grandi poeti moderni, ma anche un grande critico, commentatore politico, redattore letterario, drammatista. Spalancare le porte del suo archivio cambierà il modo in cui viene letto, studiato e compreso». Le opinioni in proposito sono agli antipodi. C´è chi lo detesta, solitamente perché è stato obbligato a studiarlo a scuola, e chi lo considera il più grande, il primo, irraggiungibile. Questo per quanto riguarda il poeta. L´uomo è meno ammirato. Il professor Haughton assicura che la pubblicazione completa delle lettere «illuminerà le difficoltà della sua vita privata con la prima moglie, Vivien», che morì nel 1947 dopo lunghe nevrosi. Il matrimonio andò in crisi, secondo alcuni, per la prossimità con il circolo Bloomsbury, le cui libertà sessuali si insinuarono nella coppia: Vivien andava a letto con Bertrand Russell, e la biografa di lei sostiene che Eliot tollerava il tradimento perché Russell piaceva anche a lui.
Se fosse omosessuale, in realtà, non s´è mai saputo. Nel 1957, comunque, sposò la sua segretaria, di quasi quarant´anni più giovane: Valerie, la vedova che ora ha in mano l´archivio. Quanto alle sue idee politiche, anch´esse sono fonte di acceso dibattito. Che Eliot fosse razzista e fascista non è provato, ma non c´è dubbio che simpatizzasse per la destra. Il suo antisemitismo sembra più evidente, ma c´è chi lo nega: Ron Schuchard, docente di letteratura alla Emory University, che curerà la pubblicazione dei volumi di prosa per Faber&Faber, si dice certo che Eliot verrà assolto da questa accusa che lo perseguita, affermando di avere rinvenuto quattro anni fa un pacchetto di lettere del poeta a un accademico ebreo newyorchese, da cui si deduce che Eliot aiutava gli ebrei fuggiti dal nazismo a ristabilirsi in Gran Bretagna e negli Usa.
In realtà non è escluso che la valanga di nuovi libri e rivelazioni sia insufficiente a sollevare del tutto gli enigmi sul suo conto. T.S. Eliot, sostiene qualcuno, fu troppo grande, prolifico e complesso per venire etichettato in un senso o nell´altro. «Mi sento vecchio, vecchio», confessava il poeta ad Alberto Arbasino, che lo incontrò a metà degli anni Cinquanta negli uffici londinesi della Faber&Faber (e ci ha lasciato un delizioso resoconto del loro colloquio in Lettere da Londra). Il giovane Arbasino, che all´epoca schedava le politiche del dopoguerra al Royal Institute of International Affairs e nel tempo libero scriveva dalla capitale britannica per il Mondo di Pannunzio, trovò Eliot «accasciato al buio in una stanzettina scura al secondo piano, con una stufetta elettrica e un gatto, semisepolto da tanti mucchi disordinati di libri». Gli sentì dire: «Quanto più uno invecchia, tanto meno si sente sicuro dei propri giudizi critici». Ma appena qualche anno dopo ad Arbasino apparve un Eliot assai diverso, spumeggiante e ciarliero, forse ringalluzzito dalle seconde nozze con la segretaria: «Questa bronchitina mi andava avanti da mesi, ostinata, e allora siamo andati a Marrakech per cambiare aria. Ma poi capita improvvisamente quel terremoto di Agadir e allora abbiamo deciso di trasferirci in Giamaica. E naturalmente, già che eravamo lì, siamo passati a New York, per vedere un po´ cosa davano di nuovo a Broadway». Chi era T.S. Eliot?

Repubblica 29.7.07
T.S.Eliot. Quel ragazzo americano che aveva fame d’Europa
di Nadia Fusini


Nelle Onde, Virginia Woolf lo chiama Louis. Se gli dà quel nome, è perché T.S. Eliot è nato a St. Louis. Come lui. Il personaggio su di lui modellato è poeta, banchiere, e straniero. Parla con forte accento. E se ne vergogna. Prova umiliazione per la sua differenza. «Umiliazione» - Tom aveva sempre in bocca quella parola, quasi fosse la peggiore sventura. È Virginia Woolf a notarlo.
Spaesato, si è sempre sentito. Da St. Louis, Missouri, va a studiare in New England, ma non è del New England, è un ragazzo che viene da altrove. Non ha l´accento di Boston. In Francia, studia lettere e filosofia alla Sorbona, ma non è francese; anche se la Francia è culturalmente vicina a chi è di St. Louis, perché St. Louis è stata un tempo la capitale della Louisiana francese. Studia la lingua con Henri Alain-Fournier, segue le conferenze di Bergson al Collège de France. E in particolare si appassiona al dibattito che si solleva intorno alle posizioni protofasciste di Charles Maurras. Gli rimarrà nella mente la triade di classicismo, cattolicesimo e monarchia. Legge Laforgue, Gide, Claudel. Passeggia per Boulevard Sébastopole, si addentra nei quartieri malfamati delle prostitute e dei maquereaux, annusa, curiosa. Ma non è facile scrollarsi di dosso la profonda inibizione delle origini.
Torna a Harvard. Ma anche da lì, nel 1914, riparte. Va in Germania, vuole leggere Goethe. Scoppia la guerra. Non tornerà più a casa. Rimarrà in Europa. Si stabilirà a Londra, dove negli anni a venire si dedicherà a dissociarsi della terra natia e dalla sua letteratura. Quasi che la perfezione, il compimento di un americano fosse diventare europeo.
L´europeo per Eliot è uno che mantiene le distanze, votato a una «universale estraneità». Dalla lontananza europea Tom vede meglio l´America. Sì, certo in America c´erano scuole, alcune fondate dall´avo rettore, c´erano cattedre e cattedratici, case editrici e editori, ma erano tutti dei morti viventi. Anzi, «morti stecchiti». In America il deserto si stendeva a vista d´occhio.
La letteratura di quel paese non vantava scrittori e poeti del calibro di quelli europei. Con l´eccezione di Poe, Whitman, Hawthorne e James, la letteratura americana «n´était guère qu´un dérivé local de la littérature anglaise», scrisse in francese, perché già abitava in Francia. Era assolutamente d´accordo con Poe: l´America era ancora una colonia letteraria della Gran Bretagna. Negò addirittura che esistesse una lingua americana.
In Europa, il 22 settembre 1914, data epocale, incontrò l´altro illustre emigrato, Pound. In Europa c´erano James e Conrad. Certo, uno era americano, l´altro polacco, ma abitavano lì. Lui era disposto a fare altrettanto, e lo fece. Cercava una tradizione a cui sottomettersi, una tradizione non che fosse sua, ma di cui potesse appropriarsi. Ne scoprì la fonte a East Coker, nel Somersetshire; da dove nel 1669 i suoi antenati erano partiti - direzione America.
Ancora prima di ritrovare questa radice, a Londra T.S. Eliot si era accasato, e in molti si erano dati da fare per aiutarlo a vivere. Virginia Woolf con Ottoline Morrell e altri amici di Bloomsbury in particolare. Era un peccato mortale che un giovane di talento dovesse passare la giornata in banca a scrivere cifre, invece che versi. Venne istituito un Fondo Eliot, si cercarono giornali che lo rendessero responsabile delle pagine culturali, ci si dette da fare per lui in mille modi. I due Lupi, ovvero i Woolf, offrirono i servigi della loro casa editrice, la Hogarth Press, e pubblicarono le sue Poesie, nel 1919, e nel ‘23 La Terra desolata.
Non che «il povero caro Tom» ringraziasse. Né che dimostrasse speciale gratitudine. Semmai cincischiava, non si decideva: lasciava «colare le sue tormentate perplessità goccia a goccia». Così si esprime Virginia Woolf. La quale si accorse subito di quanto fosse vanitoso e insolente - il poeta. Notò la frase lenta, l´espressione controllata, il singolare contrasto tra i modi cauti e gli occhi penetranti.
L´impaccio in lui sgorga dal suo volere insieme amicizia e distacco, appartenenza e separatezza. Altrettanto evidente è che non vuole piacere a nessuno, se non a se stesso. È introverso, guardingo, ambizioso, arrogante, ansioso, angosciato, sardonico, preciso, sospettoso, malevolo e molto, molto consapevole del proprio valore.
Lo scrive alla madre già nel marzo 1919: qui in Inghilterra godo di un successo di stima da parte di un gruppo ristretto, ma scelto, che mi considera il miglior critico e il miglior poeta vivente. Sono sicuro, continua, di avere più influenza io sulle lettere inglesi di qualsiasi altro americano finora… Escluso James, ha la buona grazia di aggiungere. Conosce molta gente, ma ancora più gente conosce lui.
Ha un senso di sé inamovibile, pesante come un macigno. Ma lui così severo, poteva essere frivolo. Una volta Virginia rimase a bocca aperta, e al diario confessò il suo stupore: in faccia Tom aveva uno strato di cerone! Sì, di make-up!
Dopo la conversione con tanto di battesimo nella chiesa di Finstock e cresima il giorno dopo officiata dal vescovo di Oxford, sembra che si «pretifichi», o «pietrifichi». Per certi amici è la stessa cosa. Pare loro che il «povero Tom» si trasformi in marmoreo prete.
Rimase però, in quanto cristiano, europeo. Pur assistendo incredulo al «suicidio dell´Europa». E alla vittoria della «American way of life». Ovvero, di una società «negativa» da cui scompariva l´idea della tradizione, in ogni aspetto della quale l´alienazione trionfava.
E quando qualcuno gli fece presente che, come frutto della guerra e delle catastrofi accadute in Europa, la civiltà si sarebbe probabilmente spostata a occidente, e la creatività nel futuro sarebbe migrata in America, affermò in modo categorico che non si era mai dato il caso che la torcia della civiltà passasse da una società genitrice (per così dire) a una società coloniale. La sola idea che potesse accadere una cosa del genere dimostrava l´esistenza di un «insidioso disfattismo», aggiunse.

Corriere della Sera 29.7.07
Internata dopo un articolo di denuncia sul trattamento dei giovani pazienti
Giornalista scomoda chiusa in manicomio «In Russia torna la psichiatria repressiva»
di Fabrizio Dragosei


MOSCA — Il sospetto è concreto, oltre che terrificante. In Russia tornano gli ospedali psichiatrici per i dissidenti? La domanda nasce da quello che sta accadendo a una giornalista del movimento di opposizione dell'ex scacchista Garry Kasparov che aveva denunciato il trattamento di giovani pazienti in un istituto. È stata arrestata, trascinata in un manicomio criminale, sottoposta a cure forzose.
Una pratica che sembrava definitivamente tramontata con la perestrojka di Gorbaciov e poi con lo scioglimento dell'Urss. Quando erano stati definitivamente chiusi i centri che nel 1970 erano arrivati ad ospitare fino a 3.350 dissidenti. Una pratica denunciata da tutti gli esuli russi, a cominciare da Aleksandr Solzhenitsyn. All'inizio di giugno a Murmansk la giornalista Larisa Arap ha pubblicato sul giornale locale del movimento di Kasparov, che si oppone al presidente Vladimir Putin, un'inchiesta sul locale manicomio. In particolare Larisa aveva denunciato il trattamento dei ragazzi e degli adolescenti. Un mese dopo si è recata in ospedale per ritirare l'idoneità medica per rinnovare la patente, basata su un esame cui era stata sottoposta prima della pubblicazione dell'articolo. La stessa psichiatra che allora l'aveva ritenuta idonea, ha avuto con lei una discussione sull'articolo. Poi, sostenendo che Larisa aveva dato in escandescenze e che si era dimostrata violenta, ha chiamato la polizia che l'ha subito arrestata e trasferita al locale manicomio. Qui Larisa è stata imbottita di psicofarmaci. Un primo sciopero della fame non è servito. Così adesso ne ha iniziato un altro. Al marito Dmitrij non è stato nemmeno notificato il ricovero di Larisa, anche se questi ha già presentato numerosi ricorsi. Il 18 luglio un tribunale ha stabilito che la giornalista «ha bisogno di cure». Così ora la donna rischia di essere trasferita in un istituto per malati cronici, dal quale, probabilmente, non uscirà mai più.
Quello di Larisa «non è il primo caso del genere negli ultimi tempi — secondo lo scrittore Vladimir Bukovskij, che a sua volta fu una delle vittime più illustri dei ricoveri coatti —. L'uso della psichiatria a scopo repressivo sta tornando». Un dato confermato anche dal presidente dell'Associazione psichiatrica indipendente, Yurij Savenko, secondo il quale nella maggior parte dei casi sono i boss locali o i ricchi oligarchi a ricorrere a questa pratica per mettere a posto nemici personali. E Solzhenitsyn oggi cosa dice? Sul caso particolare nulla. Però nei giorni scorsi ha difeso Putin dagli attacchi dell'Occidente. Lui che fu vittima del Kgb, sostiene che lo spionaggio estero (di cui Putin faceva parte) era un'altra cosa. Ha addirittura sostenuto che non c'era differenza con quello che facevano i servizi segreti occidentali. Ognuno lottava per la sua patria.

Repubblica Firenze 29.7.07
«Fanciullacci assassino»
Totaro esercitò "un diritto di critica politica"
di Franca Selvatici


Le sorprendenti motivazioni con cui il giudice Rocchi ha assolto il senatore di An dall´accusa di diffamazione
Totaro? Diritto di critica politica
Assassino vigliacco a Fanciullacci: offesa non punibile
La Procura non depone le armi ed ha deciso di ricorrere in appello contro la sentenza
"Un giudizio adeguato alla gravità del delitto Gentile: critica il fatto non l´eroe partigiano"

Achille Totaro, ex consigliere comunale a Firenze e oggi senatore di An, esercitò il diritto di critica politica quando definì Bruno Fanciullacci, medaglia d´oro della Resistenza, un «assassino vigliacco» in relazione all´uccisione del filosofo Giovanni Gentile, il massimo intellettuale del fascismo. Lo afferma il giudice Giacomo Rocchi nelle motivazioni della sentenza con la quale il 29 giugno ha assolto dall´accusa di diffamazione il senatore Totaro e altri cinque esponenti di An che solidarizzarono con lui nel gennaio del 2000, al culmine di un´aspra polemica politica.
Gentile fu ucciso il 15 aprile 1944 da un Gap (Gruppo di azione partigiana) guidato da Bruno Fanciullacci mentre rientrava in casa, al Salviatino, con l´autista, senza scorta e disarmato. Fanciullacci morì eroicamente tre mesi più tardi, il 17 luglio 1944, a 24 anni, gettandosi da una finestra di Villa Triste dopo essere stato orribilmente torturato. Definirlo «vigliacco assassino» significa travolgere l´intera sua reputazione, sostengono il pm Angela Pietroiusti, che presenterà appello, e l´avvocato di parte civile Pier Matteo Lucibello. Non è così, secondo il giudice Rocchi. A suo avviso chi esegue un assassinio è un assassino anche se in altre circostanze è un eroe, e Totaro è stato ben attento ad agganciare il suo aspro giudizio su Fanciullacci al delitto Gentile che fu, secondo lui, un «assassinio vigliacco» perché commesso contro una persona indifesa.
Un giudizio «indubitabilmente offensivo» ma che va inquadrato - afferma Rocchi - all´interno di una rovente e attuale polemica politica, nel corso della quale Totaro ha parlato come rappresentante eletto dal popolo e ha esercitato un diritto di critica politica. Per questo, in base all´articolo 51 del codice penale, non è punibile. Fanciullacci - ricorda il giudice - è morto per garantire a tutti gli italiani la libertà. Ma l´articolo 21 della Costituzione, conquistato con il sangue dei combattenti della Resistenza, stabilisce che «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero». Tutti, dunque anche «i portatori di idealità e opinioni diverse o radicalmente contrapposte alle proprie». Questo non significa legittimare qualunque giudizio. Ma sono leciti quelli, anche durissimi, che rispecchiano «la assoluta gravità oggettiva della situazione». E sulla gravità del delitto Gentile non ci sono dubbi - secondo il giudice - sia per la sua «indiscussa grandezza di filosofo» che per la sua condizione di persona disarmata e indifesa: perciò le espressioni di Totaro «sono sì aspre, ma adeguate alla gravità del fatto», che fu condannato anche da alcune componenti della Resistenza (mentre Indro Montanelli nell´81 arrivò a definire gli esecutori «criminali assetati di sangue»).
Il giudice ricorda che «nell´aprile del ´44 Firenze era occupata dai tedeschi e terrorizzata dalla Banda Carità, mentre era in corso la guerra di liberazione». Totaro, prima di parlare, avrebbe dovuto calarsi in quel clima? «Sicuramente sì» se fosse stato uno storico, ma «sicuramente no» dato che intendeva svolgere un ragionamento politico. La polemica è immediata: può un politico ignorare la storia?

Repubblica Firenze 29.7.07
Fanciullacci. La storia ignorata
di Ivan Tognarini
L'autore è presidente dell'Istituto storico della Resistenza in Toscana


Il commento di Ivan Tognarini, presidente dell´Istituto storico della Resistenza
Ma si può davvero ignorare la storia?

Le motivazioni del giudice per la sentenza di assoluzione del senatore Totaro, giudicato per le ingiurie rivolte al partigiano Bruno Fanciullacci, medaglia d´oro al valor militare, suscitano non poche perplessità. I presupposti fondamentali di questa sentenza sembrano essenzialmente due: la presentazione di Giovanni Gentile come un "vecchio filosofo", un anziano innocuo e, sostanzialmente, irresponsabile e inconsapevole dei propri atti e dei rischi derivanti; il diritto, da parte del "politico", di ignorare il significato, il senso degli eventi storici di cui parla.
Credo che si faccia un torto gravissimo al filosofo, alla sua intelligenza ed alla sua personalità poiché sono convinto che egli fosse pienamente consapevole delle proprie scelte, ne percepisse esattamente la gravità e privilegiasse la coerenza delle proprie scelte. Solo partendo da qui possiamo rendere l´onore delle armi al filosofo caduto in una guerra terribile, in cui riteneva doveroso prendere posizione. Una posizione coerente con la propria storia, con il proprio passato, con le proprie convinzioni, però sbagliata, tragicamente sbagliata, gravida di terribili conseguenze per sé e per tutti quei giovani che, dopo un ventennio di propaganda di regime e di dittatura, guardavano a lui con ammirazione ed ascoltavano i suoi appelli ad accorrere sotto le insegne della svastica e del fascio littorio per farsi macellare in guerra.
La giustificazione dell´ignoranza della storia per chi pretende di parlarne, mi pare un esempio lampante di teorizzazione dell´uso politico della storia. Non ha più importanza se ciò che si dice ha un fondamento storico; è importante solo la strumentalizzazione purché efficace. La scissione o peggio ancora la contrapposizione tra conoscenza storica e critica politica, non può essere giustificata neppure se chi ne fa uso è stato "eletto dal popolo". E´ forse questo che il popolo chiede agli eletti?
Ancora dubbi se leggiamo altri passi della sentenza (ammesso che ne abbiamo letto una versione esatta). Si chiede, ad esempio, il giudice: "Chi esegue un assassinio è un assassino?". Stupisce che si dia per acquisito che ci troviamo davanti ad un assassinio, escludendo a priori e pregiudizialmente, che possa trattarsi di una azione di guerra. Ancora più preoccupante il fatto che questo giudizio sembra avere origine nelle valutazioni soggettive dell´imputato, se è vero che il giudice ha scritto: "L´uccisione di un uomo (ritenuta) non legittima null´altro è che un assassinio; il termine usato è quindi adeguato e corretto". Ma chi è che ritiene "non legittima" l´uccisione, l´imputato o il giudice? E chi è che considera "adeguato e corretto" il termine?
Un´ultima considerazione. Si evoca il "diritto di critica" e la libertà di espressione. Principi sacrosanti per cui Fanciullacci e tanti altri come lui hanno dato la vita (di certo non Giovanni Gentile). Ma ciò significa che non si è responsabili delle proprie parole e delle loro conseguenze? Diviene legittimo anche fare apologia del fascismo, o calpestare valori fondamentali della Costituzione e della Repubblica, non limitandosi a considerazioni di principio ma giungendo a provocare ferite a chi ha sofferto e pagato così tanto? Infine sorprende che vengano utilizzati solo alcuni passaggi del giudizio sull´uccisione di Gentile formulato dal Partito d´Azione fiorentino (diverso da quello fatto proprio a livello nazionale), mentre non si ricorda che sul filosofo, sulla sua azione nella repubblichina di Salò, sulle sue responsabilità, il giudizio degli antifascisti era unanime ed irriducibilmente negativo.
Si è avuta notizia dell´intenzione della procura della Repubblica di impugnare il procedimento. Auguriamoci che la riflessione possa essere più ampia e distesa, tenendo conto della complessità e delicatezza di una vicenda che sta al cuore della democrazia e della libertà nel nostro paese.

Corriere della Sera 29.7.07
Rignano
Giovanni Bollea. «Questi interrogatori fanno solo del male È meglio avere i colpevoli in libertà»
di Mario Porqueddu


MILANO — «Preferisco pensare che un colpevole non venga condannato, che se ne vada libero, piuttosto che vedere dei bambini sottoposti a una simile violenza». Per tutto il tempo Giovanni Bollea, l'uomo che a partire dal dopoguerra ha rivoluzionato la neuropsichiatria infantile in Italia, continua a ripetere quella parola che odia: «Violenza, ancora violenza».
Il pensiero del grande studioso è rivolto alla bambina di cinque anni che ieri è stata ascoltata per ore nel Tribunale di Tivoli e ha parlato di «streghe» e «castelli cattivi», mimando i giochi ai quali sarebbe stata sottoposta. Bollea ascolta i commenti degli avvocati, di quelli che difendono gli adulti sospettati di aver commesso abusi sessuali e sottolineano le «tante incongruenze » nel racconto della bimba, e dei legali di parte civile, convinti che «le cose che ha mimato sono devastanti, con un impatto duro per chi ha ascoltato». E alla fine il vecchio professore sbotta: «Io tremo di rabbia: quello che stanno facendo è una nuova, grave violenza nei confronti dei bambini ».
Bollea ha 93 anni, è in vacanza in Sardegna, ma continua a seguire la vicenda degli alunni della scuola Olga Rovere di Rignano Flaminio. «Ne parlavo proprio ieri sera — racconta —. Provavo a immaginarmeli quando saranno grandi».
E che cosa ha visto nel loro futuro?
«Temo che la loro vita sessuale possa essere contaminata, alterata a causa di quello che gli sta capitando».
Si riferisce a quello che sta capitando anche adesso, in tribunale?
«Sì. Perché i veri condannati in questo processo non saranno gli eventuali colpevoli. Quelli che stiamo condannando fin da adesso sono ancora una volta i bambini. Saranno loro a patire le conseguenze più gravi».
Ma le loro parole potrebbero servire a stabilire la verità...
«Io preferirei che un colpevole sfuggisse alla condanna, pur di non vedere dei bambini costretti a subire interrogatori del genere. Noi dovremmo preoccuparci di aiutarli a dimenticare quello che è successo. Invece vogliamo sapere e allora gli chiediamo di ricordare tutto, di raccontarlo di nuovo. Per farne strumenti di condanna li costringiamo a rivivere un dramma. Ma non abbiamo il diritto di fare questo: stiamo tutti quanti diventando colpevoli».
Non crede che questo possa servire a fare giustizia?
«Secondo me non è utile ai fini di un processo. E non è giustificato. Ma insomma: li hanno interrogati mille volte, davanti a periti, medici, magistrati. Io mi domando cosa vogliano ottenere, che valore possa avere la testimonianza dei bambini in queste condizioni, quale codice possa dare tanto valore al racconto di un bimbo?».
Lei non si fiderebbe?
«Non darei troppe garanzie di attendibilità. O almeno credo che farlo sia molto difficile, problematico. Chissà, magari i bambini hanno finito per dire cose che non pensavano».
Ritiene che possano inventare qualcosa?
«Non lo so se inventano».
Ma sembra quasi che di questi aspetti le importi poco...
«Quello a cui penso, quello che so per certo, è che il ricordo di questa ulteriore violenza subita rimarrà nella loro memoria».
Insomma, è contrario a quello che sta succedendo sia pensando al benessere dei bambini sia per quanto riguarda il possibile esito del processo?
«Sono contrario a interrogarli e, per così dire, contrario a quello che loro dichiareranno».
Chi doveva preoccuparsi di tutelare questi bambini?
«Chi difende il bimbo: i suoi genitori. Le madri e i padri non avrebbero dovuto permettere di fare interrogare i loro figli così piccoli. Che cosa proveranno fra qualche anno, quando saranno cresciuti, ricordando cosa gli hanno fatto fare? Perché non li lasciamo finalmente in pace?».

Corriere della Sera 29.7.07
«Il consumismo non va demonizzato»: Liberazione divide
di Andrea Garibaldi


Sanguineti: ma prima la rivoluzione. Curzi: meglio frenare il Pd

ROMA — «Il consumismo è libertà, la politica deve ripartire da qui». Lo scrive Liberazione, quotidiano di Rifondazione comunista, mica Il Giornale della libertà di Michela Brambilla. «Quanti gradi fanno a Roma?» è il primo commento del professor Luciano Canfora, ordinario di filologia greca e latina, «comunista senza partito». Liberazione dedica all'elogio del consumismo la pagina della cultura, con un articolo di Massimo Ilardi, che insegna Sociologia urbana a Camerino e dirige la rivista
Gomorra. Sostiene Ilardi che il desiderio di consumare e l'impossibilità di soddisfarlo producono rivolte metropolitane su cui la sinistra può lavorare. «Ma no! — dice Canfora —. I vestiti lussuosi di via Montenapoleone sono appetibili, come altri segni di ricchezza. Ma appropriarsi di quei beni non è un atto di rivoluzione ». Né un gesto di libertà... «Citerò Stalin di cui si parla ormai così poco: prima le strutture pesanti, poi i beni di consumo». Professore, cosa stava facendo? «Ero al tavolino, a studiare».
Il poeta, e comunista, Edoardo Sanguineti, dice che «l'uomo è desiderante». Quindi il consumismo può essere libertà? «L'uomo desidera, ma è anche bisognoso». E allora? «Allora solo in una società "rivoluzionata", dove ci sia equità e soddisfazione dei bisogni, si può pensare alla libertà di consumare». Ma la voglia generalizzata di consumare non può generare rivolta? «Non sono i desideri di beni materiali a causare la rivoluzione. Al contrario: la brame umane dovrebbero essere tutte soddisfatte, ma dopo la rivoluzione». Altrimenti si sogna... «Sì, mi viene in mente quel film di Bertolucci, The Dreamers, che parla anche di marginalità rivoltosa giovanile, quella del "tutto e subito"». Professore, l'abbiamo disturbata durante uno shopping? «Veramente stavo riposando ».
Insomma, almeno sul consumismo la formazione marxista non tradisce. Il gusto per i beni materiali resta al bando. O no? «Veramente consumare può essere libertà...» dice Valentino Parlato, fondatore ed editorialista del manifesto. Come, quando? «Consumando ciò che non ci dice la pubblicità. Comprando merci contro il mercato». Ah, ecco. «Noi crediamo di fare delle scelte, ma sono le scelte imposte da marketing, tv, imprese». Soluzione? «Acquistare ciò che non rovina le risorse ». Vetro e carta, e niente plastica? «Per esempio. E poi farsi guidare dalle regole della buona salute». Cibi biologici? «Per esempio». Valentino, stava consumando qualcosa? «Sto a casa, leggendo».
Rina Gagliardi, senatrice di Rifondazione ed editorialista di Liberazione, non è per nulla d'accordo con quell'articolone sul suo giornale: «Niente supporta l'idea che attraverso il consumo legale o illegale di beni, i popoli possano emanciparsi». Ci sono consumi che danno il senso della libertà? «Forse quando si comprano beni che costano così poco, come i telefonini: la libertà di cambiarli continuamente... Ma io penso ad altro». A cosa? «Penso che la libertà è boicottare, come è stato fatto con i farmaci della multinazionale Glaxo. O ai beni che vengono da commercio equo e solidale. Caffè, lana, ceramiche, giochi...». Lei è in giro a consumare? «Veramente stavo scrivendo un articolo».
E Sandro Curzi, ex direttore di Liberazione, consigliere di amministrazione Rai, uomo che ama essere elegante, è d'accordo con l'assunto: «Consumismo è anche libertà»? «Mi sembra un pensiero troppo difficile, con questo caldo. Vorrei parlare di cose più basse ». Tipo? «L'esigenza per la sinistra, quella a sinistra del Partito democratico, di stare fortemente unita e di rimettere al centro della società il problema del lavoro. Altro che consumismo! ». Lei è impegnato a consumare qualcosa, in questo preciso momento? «Stavo scopa».

Corriere della Sera 29.7.07
Bologna, decisione di Enrico Di Nicola: «Per documentarmi ho studiato anche nei fine settimana». Trasmessi gli atti al prefetto
«La Madonna non è divinità. Non c'è bestemmia»
di Giulia Zino


Il procuratore capo di Bologna, Enrico Di Nicola ha chiesto l'archiviazione della denuncia per vilipendio della religione presentata da un deputato di FI, Fabio Garagnani: obiettivo del politico una performance, «La Madonna piange sperma», promossa da un club gay. Dice Di Nicola: «Per il codice la bestemmia è tale se indirizzata alla divinità. La Madonna non lo è».

MILANO — Era cominciata e finita nel giro di pochi giorni. Una polemica estiva ma di quelle che toccano gli animi: la prevista messa in scena, a Bologna, di uno spettacolo dal titolo «La Madonna piange sperma». Ora, la parola «fine», arrivata dopo poco più di un mese dagli eventi, rischia di riaccendere la miccia: perché a chi gridò alla bestemmia, il procuratore capo di Bologna risponde che così non fu. Il motivo? Tecnicamente, bestemmia solo chi offende una divinità, «e la Madonna non lo è».
Partiamo dall'inizio: a metà giugno nel quartiere San Vitale, compare sui muri delle case il programma di una manifestazione estiva ospitata negli spazi di vicolo Bolognetti.
Tra gli spettacoli in cartellone c'è una performance, promossa dall'associazione gay «Carni scelte », dal titolo «La Madonna piange sperma». Scoppia il caso: la curia cittadina parla di «bestemmia abominevole», il sindaco Cofferati di «inaccettabile volgarità che offende credenti e non credenti», l'arcivescovo Carlo Caffarra celebra una messa «riparatrice» nel santuario di San Luca. La polemica cresce — l'evento, tra l'altro, è patrocinato dal ministero delle politiche giovanili, dalla Regione e dal Comune — e non si placa finché gli organizzatori non decidono di cancellare lo spettacolo (previsto in scena per il 29 giugno scorso).
Storia finita per tutti, ma non per Fabio Garagnani, deputato bolognese di Forza Italia, che denuncia per vilipendio gli organizzatori della performance incriminata. La pratica va avanti e finisce sotto gli occhi del procuratore capo di Bologna Enrico Di Nicola. Che ora, a un mese e mezzo di distanza, rende nota la sua decisione, maturata — dice — dopo lunghe riflessioni e in una lettera, inviata al gip di Bologna pochi giorni fa, fa richiesta di archiviazione per la denuncia di Garagnani. Motivo: in questo caso, il reato di vilipendio alla religione non sussiste. «Perché — dice oggi Di Nicola al Corriere di Bologna — per il codice la bestemmia è tale solo se indirizzata a santità o divinità e la Madonna, per i teologi, non rientra in nessuna di queste categorie».
Per dirimere il caso, Di Nicola si è appellato alla sentenza della Corte costituzionale del 18 ottobre 1995, che dichiara l'illegittimità costituzionale del primo comma dell'articolo 724 del codice penale («Bestemmia e manifestazioni oltraggiose verso i defunti ») che considera colpevole di bestemmia chi offende «i simboli o le persone venerati nella religione dello Stato». Dopo quella sentenza, il reato di bestemmia è limitato a chi oltraggia la «divinità». E se la Madonna divinità non è (ma «simbolo» o «persona ») bestemmia non c'è stata.
Ineccepibile dal punto di vista giuridico. Da quello teologico, Di Nicola dichiara di essersi documentato per settimane, «studiando anche nei weekend». Ma non cita le sue fonti. Vedremo cosa ne penseranno curia e fedeli che, dopo aver vinto la battaglia di metà giugno, ora si vedono non offendere, ma addirittura negare la natura divina della Vergine. E dopo le scuse in tv (le fece, tra gli altri, un ospite a cui scappò una bestemmia durante una trasmissione di Maria De Filippi, nel '99) e le più varie proteste di innocenza («Invocavo Zizou, non Gesù» disse una volta Tullio Solenghi) vedremo se la vicenda di Bologna farà scuola.
Il caso, comunque, non è ancora chiuso: Di Nicola ha inviato gli atti al prefetto Vincenzo Grimaldi che dovrà valutare se, pur non essendo una bestemmia, la performance bolognese fu comunque offensiva per la pubblica decenza, dunque punibile con una sanzione amministrativa.

l'Unità 29.7.07
Gianni Rinaldini. Il segretario Fiom critica l’accordo e attende la replica della Cgil alla lettera del premier
«Epifani risponda al governo e non firmi»
di Laura Matteucci


Milano. «A fronte della durissima lettera di Prodi, la Cgil dovrebbe prendere una posizione altrettanto netta e non firmare l’accordo. È tempo che il sindacato torni a giocare il proprio ruolo. Pesa troppo la minaccia che aprire un conflitto può determinare una crisi di governo. Non è affatto così, dobbiamo liberarci da questo spettro». Parla il segretario generale della Fiom-Cgil, Gianni Rinaldini, che boccia senza riserve il protocollo su lavoro, welfare e previdenza. E definisce «ineludibile» l’aprirsi della discussione sul futuro della Cgil.
Rinaldini, al direttivo sull’accordo lei però si è astenuto.
«Ma la mia astensione non riguardava il merito. Figuriamoci, sono contrario anche alla parte sulle pensioni... È che sono stati presentati documenti contrapposti, e a fronte di questo mi sono rimesso alla consultazione dei lavoratori, a settembre. Parentesi: anche il comitato centrale della Fiom, come gli altri, voterà, sia sull’accordo che sul contratto, il 10 e 11 settembre. Nella mia dichiarazione di voto, l’altro giorno, ho anche sottolineato che da questa vicenda emerge chiaramente il problema del ruolo del sindacato, tanto più con un governo di centrosinistra».
Significa che ne è stato troppo “ostaggio”?
«Il sindacato ha due principali strumenti: la partecipazione e la mobilitazione dei lavoratori. Se abdica alle sue funzioni, tutto finisce per svolgersi solamente tra forze politiche. Io dico che il confronto sindacale viene troppo spesso subordinato al mantenimento dell’equilibrio politico. E così peraltro si corre il rischio di aprire una frattura profonda con i lavoratori».
È chiaro che in questo momento la Cgil è in difficoltà. Qual è lo scenario più plausibile?
«Il punto è che, dopo aver già incassato l’accordo sullo scalone, la Cgil ha pure dovuto subìre un atto deliberato di umiliazione da parte di Prodi: non può certo far finta di non sapere che su lavoro e straordinari le scelte del governo sono antitetiche a quelle che la Cgil ha sempre espresso. Dico: qui la scelta è di incentivare gli straordinari, come propone Sarkozy in Francia. E il precariato: con la storia del timbro può finire che uno si fa tre anni da interinale, e altri tre con contratti a termine. Gli scenari aperti sono diversi. Credo che la Cgil non dovrebbe firmare del tutto, ma penso sia possibile firmi solo una parte, il che però la lascerebbe con un accordo separato su temi così rilevanti. Molto complicato sarebbe firmare integralmente, e delegare di fatto alle forze politiche ogni possibilità di miglioramento».
In tutto questo, si parla anche di ridiscutere il modello contrattuale. L’altro giorno il responsabile Industria per la Cgil Guzzonato si è detto disponibile al confronto, e ieri è tornato in tema anche il ministro Damiano, favorevole al rinnovo triennale.
«Chiacchiere. Dichiarazioni sbagliate. Se ne discute dopo aver chiuso i contratti aperti, a partire da quello dei meccanici. Guzzonato è responsabile dell’Industria? Io considero la sua l’opinione personale di uno dei sei milioni di iscritti della Cgil».


l'Unità 29.7.07
I tanti volti di Calatrava
di p.p.p.


Scuderie del Quirinale. Si va pensando di vedere solo grafici, progetti e planimetrie ed invece si trovano soprattutto disegni, dipinti e sculture. È quanto avviene recandosi alle Scuderie del Quirinale per la mostra dedicata a Santiago Calatrava (a cura di Tomás Llorens e Boye Llorens Peters) che, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, piuttosto che riferire unicamente dell’attività dell’autore in campo architettonico - egli ha firmato, tra l’altro, il complesso olimpico di Atene, la Città delle Arti e delle Scienze di Valencia… - pone l’accento sull’interdisciplinarietà dei suoi interessi e la costante ricerca di forme espressive differenti che caratterizza la sua ricerca. Oltre al plastico della Città dello Sport pensata in vista dei campionati mondiali di nuoto che si terranno a Roma nel 2009, che insieme al Ponte sul Canal Grande a Venezia in via di completamento costituisce una delle testimonianze più dirette degli interventi di Calatrava (nato a Benimamet nei pressi di Valencia nel 1951) in Italia, gli spazi delle Scuderie ospitano infatti una selezione di prove plastiche e pittoriche, le ultime delle quali sviluppate in vari materiali dal marmo al legno, dal metallo alla ceramica. Che, nel loro complesso, riflettono le varie anime che alimentano contemporaneamente la sua vena creativa, da quella del tutto rivolta verso la contemporaneità ed i sistemi tecnologici che essa offre a quella che guarda al passato, specialmente al Rinascimento, età alla quale Calatrava si accosta idealmente per la sua capacità di eccellere in uno specifico territorio operativo e, al tempo stesso, di applicarsi in molti altri, come testimonia ampiamente la mostra.

il manifesto 29.7.07
«In autunno sarà battaglia sociale»
Gennaro Migliore (Prc) avvisa i riformisti dell'Unione: «O si cambia o ci mobiliteremo. Votare contro il governo? Non sarebbe un dramma per noi»
intervista di Alessandro Braga


Roma La battaglia sarà in autunno. E non dovrà essere solo nei palazzi, ma nelle piazze, perché l'importante è recuperare un rapporto più profondo con la società. Ne è convinto Gennaro Migliore, capogruppo alla camera di Rifondazione comunista.
Sircana ha detto che il governo non torna indietro. Il protocollo sul welfare è inemendabile.
Mi sembra che la dichiarazione di Sircana faccia parte del balletto dei chiacchiericci estivi. Il testo dell'accordo lo conosciamo tutti. E tutti sappiamo che il parlamento può emendare qualsiasi cosa. Noi abbiamo già pronti i nostri emendamenti e in autunno li presenteremo in aula.
Nello specifico, quali saranno?
Dovranno andare a toccare la parte normativa: alla base non ci deve essere una logica redistributiva, ma l'idea del modello di società che vogliamo costruire. Noi vogliamo mettere in discussione la logica che sottende la legge 30, ossia che il lavoratore è una variabile dipendente dall'azienda e che deve essere distrutta la sua capacità contrattuale. Chiederemo che i contratti a tempo determinato e quelli di apprendistato non vengano considerati una pratica usuale. E riproporremo il testo della legge Alleva, di cui sono uno dei primi firmatari (che prevede, tra le altre cose, assunzione a tempo indeterminato per chi nell'arco di tre anni abbia lavorato almeno diciotto mesi a tempo determinato nella stessa azienda, l'abolizione del lavoro parasubordinato e una restrizione delle possibilità di esternalizzazione del lavoro ndr).
Pensioni e welfare. Centrosinistra di nuovo conio e scenari più avanzati. Sembra una strategia dei riformisti per sostituire la sinistra alternativa con nuovi alleati centristi. Che ne pensi?
Penso sia una strategia suicida. Questo governo sta vivendo una crisi di credibilità mai visto prima e si giustifica dicendo che finché sono alleati al Prc non possono far nulla. Ho accolto con favore l'uscita di Dario Franceschini che ha smentito ipotesi di nuove alleanze. Anche perché questo nuovo conio rischia di essere una moneta fuori corso.
In che senso?
Dini, Rutelli, lo stesso Prodi parlano il linguaggio del palazzo. Non si rivolgono alla base. Hanno capito che così non si può andare avanti e, con la scusa dell'instabilità dell'esecutivo che sarebbe causata da noi, cercano di fare nel minor tempo possibile quello che vogliono. Noi vogliamo invece recuperare un rapporto più profondo con la società, rimettere la piramide sociale sulla sua base.
Una sinistra unita può aiutare questo processo?
Si, se porta in piazza le persone rimotivandone la partecipazione. Sennò la politica si riduce alle primarie del partito democratico. Dobbiamo rimettere insieme le forze migliori della società. E' da aprile che diciamo che serve una sinistra unita ma abbiamo avuto una carenza di iniziativa politica e abbiamo puntato troppo sull'istituzionale. Cose positive, come la lettera dei quattro ministri, ma adesso è il momento di riportare in piazza il nostro popolo, e per farlo abbiamo bisogno anche del sindacato. Prepariamo insieme la mobilitazione. Dobbiamo fare una battaglia di popolo.
Poi però in autunno ci sarà da votare in aula.
Non voglio ridurre la battaglia della sinistra solo in ambito istituzionale. Ripeto, serve una battaglia sociale. Poi, sia chiaro, noi non votiamo cose invotabili: un voto negativo non è un dramma.

il manifesto 29.7.07
La lunga guerra del partigiano Visone
Resistenza tradita Nella lenta evoluzione del Partito comunista vide il fallimento storico del ceto politico nato dalla lotta partigiana Linea d'azione Contro repubblichini e nazisti l'opzione militare era per Giovanni Pesce l'unica via d'uscita da attendismo e incertezze
di Angelo d'Orsi


Aveva quasi novant'anni, Giovanni Pesce, scomparso a Milano il 27 luglio: era nato il 22 febbraio 1918, in provincia di Alessandria, nell'Acquese, a Visone, località di cui egli avrebbe assunto il nome quando indossò i panni del comandante partigiano: panni che a lui si attagliavano forse meglio che a chiunque altri. Sì, perché «Visone» incarnò la linea dell'azione diretta, contro i repubblichini e i nazisti: insomma, l'opzione militare, come unica via d'uscita dall'attendismo, dalle incertezze, e, diciamolo, dalle chiacchiere della politica dei partiti che disegnavano organigrammi, che delineavano il futuro di quel Paese che intanto si trattava di liberare. E Pesce è stato davvero un liberatore, anzi, un libertador, in quanto, come Simon Bolivar, univa nel suo pensiero l'istanza della libertà dall'oppressione dei tedeschi e dei loro alleati succubi italiani, alla necessità di una vera liberazione sociale.
Non poteva che essere comunista, e lo fu, tutto d'un pezzo, come qualcuno ebbe a dire spesso in passato, come qualcuno ha ripetuto ora nei commenti alla notizia del decesso. È stato un comandante partigiano italiano. Alle spalle, dietro la militanza nel Partito comunista, e prima della milizia partigiana, c'è la storia di un ragazzetto che emigra in Francia con la famiglia, cercando di aiutare a sbarcare il lunario facendo di tutto, dal guardiano di vacche al minatore. Si iscrisse perciò prima alla Gioventù comunista francese, divenendo segretario della Sezione della località dove viveva, nel Gard, sull'Oltralpe. Erano i mitici, terribili anni Trenta: e la Guerra di Spagna attirava tutti i cuori nobili a combattere dalla parte dei repubblicani. Anche il diciottenne piemontese (avrebbe raccontato egli stesso che decisivo fu aver assistito a Parigi a un comizio della Pasionaria Dolores Ibarruri) non seppe resistere a quell'appello. Ne ricavò ferite varie, e un'esperienza bellica (raccontata in Un garibaldino in Spagna, del 1955) che avrebbe messo a frutto negli anni seguenti nella guerra antifascista in Italia.
Rimpatriato forzosamente nel 1940, dalla Francia di Vichy, fu incarcerato e condannato dal Tribunale Speciale, condanna che scontò a Torino, e quindi inviato al confino a Ventotene, dove ebbe modo di conoscere, fra gli altri, Pertini e Terracini. Ne uscì alla fine di agosto 1943, e fu di nuovo a Torino, con il preciso compito di organizzare i primi Gap. I Gruppi di Azione Partigiana - la risposta urbana, per così, dire alle bande di montagna: la guerra di movimento affficancata alla guerra di posizione, per dirla gramscianamente - avevano da allora trovato il loro capo: un uomo coraggioso, fino alla temerarietà, dotato di grandi doti di stratega e capace, anche, di sottrarsi alle pressioni dei partiti. Lo strano caso di un militare che non aveva mai fatto la naja (si raccontò nel libro Soldati senza uniforme, 1950), insomma; un militare che lottava per ideali politici, perdipiù progressisti. Questo fu da allora Giovanni Pesce, che divenne il nemico numero uno dei nazifascisti.Ferito, braccato, dovette lasciare Torino per Milano, dove ebbe il difficile incarico di riorganizzare la III Brigata Garibaldi «Rubini», dei Gap, duramente provata dalla repressione di tedeschi e repubblichini.
In una delle azioni cadde prigioniera delle SS Onorina Brambilla, staffetta partigiana («Nori», per gli amici; «Sandra», il nome da combattimento), l'unica che aveva il privilegio di avvicinarlo per consegna di ordini del Cln e del Pci: Nori sarebbe divenuta la sua fedele compagna di vita nel dopoguerra. Il problema, allora, per la Resistenza, al di là delle questioni di strategia e di tattica militare, era far sentire agli operai delle grandi fabbriche - posti sotto ricatto dai nazifascisti, che li trasferivano a centinaia nei lager, con un clima di paura che si valeva di spie assoldate - che i partigiani erano con loro, erano dalla loro parte.
Fu allora che nacque «Visone», e quel nome si ammantò di un'aura di leggenda, che incuteva paura ai nemici e massimo rispetto al variegato fronte antifascista. Svolse, nei mesi seguenti, un'intensissima opera di sabotaggio e di attacchi a convogli militari sulla linea sia ferroviaria, sia stradale, Torino-Milano, prima di essere di nuovo incaricato di una delle tante missioni impossibili: riorganizzare le forze gappiste milanesi, decimate e provate dalla fucilazione del comandante Luigi Campegi. Visone riuscì nell'intento e guidò la III Gap sino alla smobilitazione post 25 aprile.
Ma «smobilitazione» era un concetto estraneo alla mentalità e agli ideali di Giovanni Pesce, e la medaglia d'oro al valor militare, ottenuta per la sua azione nella Resistenza, non fu per lui una sinecura. La battaglia continuava, e la sede era il Pci, per il quale fu a lungo consigliere comunale a Milano (dal 1951 al 1964), vivendo non senza ambasce e turbamenti la lunga e lenta trasformazione del partito che sarebbe poi proseguita a tappe accelerate nell'era post-togliattiana. La casa comunista gli stava ormai stretta, non perché comunista, ma perché, semmai, troppo poco comunista: era l'idea di Pietro Secchia della «Resistenza tradita» e del fallimento storico del ceto politico nato dalla lotta partigiana. Una specie di oasi non solo reducistica fu per lui in tal senso, l'Anpi di cui fu eletto consigliere nazionale sin dalla fondazione dell'Associazione, dopo che il Comando generale delle Brigate Garibaldi lo aveva proclamato «eroe nazionale».
Proprio alla vigilia della «contestazione», nel 1967, diede alle stampe un libro intenso che costituì, a prescindere dall'autore, un testo di riferimento di molta parte del movimento sessanttottino, e anche delle frange che videro negli anni Settanta la soluzione politica nella ripresa della lotta armata. Senza tregua, si chiamava quel libro; e il titolo divenne una parola d'ordine per qualcuno dei teorici della nuova «lotta armata», a dispetto degli sforzi che l'autore, preoccupato della deriva terroristica, fu costretto a compiere, volti a distinguere l'azione dei Gap, da lui incarnati, nel biennio di ferro e fuoco del '43-45, da quella delirante dei loro emuli trent'anni dopo.
Certo, lui aveva insegnato che al terrore si risponde col terrore: ma il nemico era Hitler, il nemico era Mussolini, il nemico era il fascismo internazionale, da Madrid a Berlino, da Roma a Tokyo. Il terrore teorizzato e praticato dai «nuovi partigiani» era tutt'altra cosa, e Pesce-Visone ne era convinto: il che non toglie che le ultime evoluzioni di quello che era stato il suo partito lo lasciarono freddissimo. Sicché, post Bolognina, egli entrò in Rifondazione Comunista; era il 1991 e Pesce era ormai politicamente emarginato da tempo. La campagna che ogni tanto si fece perché una nomina a senatore desse pubblico, solenne riconoscimento ai suoi meriti, cadde nel vuoto; ed era ovvio.
In fondo, Visone era diventato un compagno scomodo, una presenza ingombrante, a dispetto del silenzio e del riserbo di cui si circondava. Con lo stesso riserbo, ora si è spento, togliendo l'incomodo. Nell'Italia di oggi, tentata da impossibili quanto imposte «riconciliazioni», Visone era di troppo.

Liberazione 29.07
Il governo è diventato un triunvirato (Prodi, Padoa e Rutelli) più D'Alema ospite di riguardo. Risponde alla borghesia che vuole la sinistra all'opposizione
e una società organizzata in modo totalitario sulla sola superiorità etica del mercato. Come uscire dalla trappola? Rilanciando la lotta sociale
Prodi e Montez. cercano un nuovo '98: costringere la sinistra a rompere o cedere
di Rina Gagliardi


Dunque, il portavoce di Romano Prodi, Silvio Sircana, dice che il protocollo d'intesa tra governo e sindacati - su pensioni, Welfare e precarietà del lavoro - è "sostanzialmente inemendabile". Lo dice in un torrido sabato di mezz'estate, quando la metà, o giù di lì, della popolazione italiana si sta inerpicando sulle autostrade, per la meta di una o due settimane di ferie, e pensa, se mai, alla "inemendabilità" della politica - di questa politica. Lo dice all'indomani di un incontro-pranzo, tra il premier e i quattro ministri della sinistra, che pareva essersi concluso sì un po' vagamente, ma senza termini perentori. Ora, per chi si fosse illuso sulla disponibilità dell'esecutivo ad ascoltare ancora, ad avere un supplemento di confronto con le forze della coalizione che rappresentano almeno sei o sette milioni di elettori, è tempo di prender atto, appunto, che si è trattato soltanto di un'illusione. La parola passa al Parlamento, ma soprattutto alla battaglia sociale, che preannuncia un autunno molto più bollente dell'estate, e denso di conflitti contro i protocolli e i pacchetti "inemendabili". Non discussi, se non in parte, nemmeno da normali riunioni del Consiglio dei ministri. Non trattati, se non in parte, con la più grande organizzazione sindacale del paese. E, per di più, alla fine scritti da una penna della quale il minimo che si possa dire è che si trattava di una penna di facili costumi.
Ma che cosa sta davvero succedendo? Tre cose molto chiare, e strettamente connesse l'una con l'altra. La prima è la "nascita virtuale" del Partito Democratico: un partito che (ancora) non c'è ma opera come se ci fosse. E che si è già dotato di un leader e di un impianto politico-ideologico non solo di esplicita caratterizzazione centrista, ma di stretta sintonia con Confindustria e i massimi poteri forti del paese (Bankitalia). Questa nascita ha inferto un colpo quasi mortale all'Unione e ai suoi equilibri interni: il programma della coalizione, quello su cui pur a stento si era vinto il 10 aprile 2006, è stato nei fatti derubricato a mera "chiacchiera elettoralistica", e la sua componente di sinistra viene tendenzialmente ridotta ad "intendenza". Forza e forze di complemento che devono, né più né meno, accodarsi alle decisioni prese dal Governo Vero - quel quartetto formato da Prodi, dai vicepremier e dal ministro Padoa Schioppa nel quale a volte perfino il ministro degli esteri appare solo un ospite di riguardo. A questa scelta strategica, si aggiunge la partita tutta legata alla lotta dei poteri interni. Prodi (ma non solo) sa bene che, dopo il 14 ottobre, il giorno in cui Veltroni sarà incoronato capo del Piddì, avrà formalmente inizio una fase di accentuato "dualismo", appunto, di poteri e di instabilità ulteriore per un Governo che di stabilità non è finora scoppiato. Sa cioè che rischia di cadere per gli effetti di un processo "inevitabile" (l'accelerazione impressa al cammino del Pd), che egli stesso ha tentato invano di contrastare come ha potuto e che nei fatti contribuirà a delegittimarlo. Perciò, gioca il tutto per tutto: per un verso, cerca di scaricare addosso alla sinistra l'eventuale responsabilità della crisi ("Se cado io, cadono anche loro"), per l'altro verso, tenta di "sterilizzarla" e di guadagnarsi, agli occhi dei poteri forti, un merito strategico non piccolo (un terzo scenario, quello in cui l'attuale premier potrebbe succedere a se stesso e gestire una maggioranza diversa appare, allo stato, alquanto improbabile). In ogni caso, il paradosso è che il nemico principale del governo dell'Unione sta diventando proprio lui, Romano Prodi.
La seconda cosa che sta succedendo è la possente offensiva, mediaticamente supersostenuta, della borghesia nazionale - ed europea. Sul terreno che più direttamente la interessa, cioè le scelte di politica economica e sociale, la borghesia ha decretato che è venuto il tempo in cui la sinistra deve essere cacciata dal Governo - da questo governo. Non perché esso stia scivolando su posizioni bolsceviche, ma perché, comunque, tende ad essere, e a rimanere, un terreno aperto di conflitto, contrattazione, lotta politica. Non perché esso abbia realizzato politiche antiborghesi (anzi), ma perché non soddisfa l'istanza oggi fondamentale della borghesia stessa: quel primato sovraordinatore della logica dell'impresa e del mercato che, nelle vesti (Montez.) dell'antipolitica o in quelle (Draghi) della stabilità monetaria e del veto a ogni politica espansiva, si pone oggi come un paradigma sostanzialmente neo-totalitario, insofferente di ogni mediazione, ma anche di ogni compromesso sociale. Le ragioni di questa svolta seccamente a-democratica, o del divorzio tendenziale tra capitalismo e democrazia liberale, sono certo complesse, non limitate all'ambito nazionale e andranno prima o poi seriamente indagate. Intanto, è evidente che si sono irrobustite dopo la vittoria di Sarkozy in Francia e la débacle della sinistra: l'attacco diretto alla sinistra, il pesante interventismo nella trattativa previdenziale e sull'intero pacchetto Welfare e mercato del lavoro, la discesa in campo proreferendaria ne sono soltanto i segni più visibili. In concreto: sono soprattutto loro, i poteri forti, a lanciare la sfida. Vogliono che cada questo governo, e pretendono un governo, diretto da chiunque - da Montez. in persona a Lamberto Dini - che non comprenda al suo interno le sinistre - o una sinistra capace di affermare le proprie ragioni.
La terza e ultima cosa consegue alle altre due: stanno preparando la riedizione, riveduta e aggiornata, del '98. Si tratta di costringere Rifondazione, comunisti italiani, Verdi e anche Sinistra Democratica, a scegliere tra un'alternativa micidiale: o rompere o cedere. Nel primo caso, assumendosi la responsabilità di precipitare il paese in una crisi al buio, di esporlo alla minaccia più che corposa del ritorno berlusconiano, comunque di farlo arretrare pesantemente nel proprio asse politico, data l'insussistenza di un'alternativa di governo più avanzata dell'attuale. Nel secondo caso, assumendo sulle proprie spalle tutto il peso, e il sacrificio, di una politica che ha già logorato in profondità il rapporto di fiducia tra questo governo e un'amplissima porzione del popolo di sinistra. Insomma, la tagliola è chiarissima: sinistre dannate o all'inaffidabilità o all'impotenza, nel migliore dei casi. Alla perdita della loro capacità non solo di rappresentare ma di far valere le ragioni e le speranze di milioni di persone - non le proprie medie o piccole botteghe.
Se queste tre cose sono sufficientemente fondate, la quarta ne viene di conseguenza: la necessità di una grande battaglia politica, nella società e nelle istituzioni, capace di imporre quei risultati - sulla previdenza, sullo Stato sociale, sulla precarietà - che non siamo stati capaci di raggiungere nelle sfere separate della politica di palazzo. Non ritocchi, non piccoli aggiustamenti, ma concreti segnali di rispetto del programma originario dell'Unione. E non un esercizio di mobilitazione "muscolare", ma una ripresa a tutto campo del protagonismo di forze - la sinistra - che sanno di essere determinanti, anzi necessarie. Se ci sarà un autunno degno di questo nome, difficilmente Romano Prodi potrà fare orecchie da mercante. Ma se non ci sarà...non voglio neanche pensarci ai guai che ci aspettano.