venerdì 7 settembre 2007

l’Unità 7.9.07
La Cosa Rossa insiste: meno tasse
Avviso al premier: no a una manovra dominata dal Pd, vogliamo contare
di Laura Matteucci


PROPOSTE Potrebbe essere presentato già oggi, nel corso della riunione di Romano Prodi con i leader dell’Unione per tracciare le prime linee della Finanziaria, il documento comune della sinistra del governo, caratterizzato dalla «riduzione delle tasse per lavoratori e pensionati, delle spese militari, e dagli “assegni sociali” agli incapienti». La sinistra radicale non vuole ridursi stavolta a fare solo la battaglia in Parlamento, presentando emendamenti alla Finanziaria.
Al di là della definizione dei dettagli, Prc, Verdi, Sd e Pdci hanno già chiare le linee guida. Il documento avrà una premessa politica sulla direzione che, secondo i partiti della «Cosa Rossa», dovrà imboccare la politica economica. Leit motiv sarà l’idea che la manovra 2008 debba puntare su innovazione e giustizia sociale, invece che su nuovi tagli alla spesa. La seconda parte del documento indicherà le proposte di intervento. Allo studio c’è l’ipotesi di riduzione dell’Ici per la prima casa entro una certa metratura. Una possibilità che, però, deve essere prevista anche per chi è in affitto con un’analoga detrazione dell’Irpef.
Prc, Pdci, Sd e Verdi ragionano inoltre sull’innalzamento della no tax area per i pensionati nella stessa misura prevista per i dipendenti.
Tra gli interventi, anche la richiesta di redistribuire le risorse ricavate dalla lotta all’evasione fiscale a vantaggio di chi le tasse le paga (lavoratori dipendenti, pensionati) e degli incapienti. Tra le richieste, anche quella di ridurre le spese militari e di ridiscutere, di conseguenza, i relativi trattati internazionali.
Il capitolo lavoro sarà tenuto fuori dal testo, su questo tema verrà presentato in Parlamento un disegno di legge ad hoc.
Discorso a parte, invece, sulla riforma delle pensioni: le proposte in tema saranno inserite nel documento.
Quanto alle risorse per finanziare gli interventi, tra le proposte c’è quella di usare le riserve auree della Banca d’Italia come hanno fatto altri Paesi europei.
Si chiederà inoltre l’aumento della tassazione delle rendite finanziarie in linea con l’Unione europea, e di continuare nella lotta all’evasione fiscale.
Infine, il taglio dei costi della politica potrebbe portare un risparmio che, per il capogruppo di Sd al Senato Cesare Salvi, andrebbe «dai 2 ai 6 miliardi di euro l’anno».

l’Unità 7.9.07
Arriva Ratzinger ma Vienna è gelida, l’82% «non è interessato alla visita»
di Roberto Monteforte


Il Papa in Austria dove i cattolici sono una minoranza che si assottiglia sempre di più. La crisi degli anni 90 sull’onda dello scandalo dei preti pedofili. Le critiche delle comunità di base

È già inverno a Vienna. Sarà una città fredda e grigia ad accogliere oggi papa Benedetto XVI nel suo pellegrinaggio al cuore della vecchia Europa per l’850° anniversario della fondazione del santuario mariano di Mariazell. Fredda e forse indifferente, almeno stando all’inchiesta pubblicata dal settimanale austriaco Profil per il quale ben l’82 per cento degli austriaci non si sente interessato a questa visita. Effetto della secolarizzazione che ha portato anche in Austria i cattolici ad essere una minoranza che si assottiglia sempre più. Lo dicono le cifre. Nel 2006 erano poco più di 5 milioni i cattolici «registrati», pari al 70 per cento della popolazione, ma di questi solo il 14 per cento, circa 800mila, erano coloro che frequentano regolarmente la messa domenicale. Calano le vocazioni. Lo scorso anno si sono contati soltanto 28 ordinazioni. L’età media dei sacerdoti è 64 anni. Tutti segni evidenti di una difficoltà che è anche difficoltà nel rapporto con la Chiesa di Roma.
Ma sul tappeto vi è anche altro. La crisi di credibilità vissuta dalla Chiesa austriaca negli anni ’90 per lo scandalo degli abusi sessuali che hanno visto protagonista il cardinale Hans Hermann Groer. Sono tempi non così lontani. Vi è stata una riflessione critica all’interno della Chiesa è da li che nel 1995 è nato proprio in Austria il movimento ecclesiale internazionale «Noi siamo Chiesa» con la sua piattaforma per una rinascita dal basso della Chiesa. La messa in discussione del celibato obbligatorio dei sacerdoti, l’ordinazione delle donne, il ruolo del laicato nella vita della Chiesa, l’ecumenismo. Una discussione aperta nella Chiesa austriaca che Roma ha voluto chiudere. Normalizzare: è stata la via imposta dall’allora cardinale Joseph Ratzinger. Ora torna a Vienna da Papa. «Sarà distante dalla gente» osserva il portavoce austriaco di Noi siamo Chiesa, Hans Peter Hurha. Come altre realtà ecclesiali di base aveva chiesto un confronto con il pontefice. Non vi saranno incontri. Al pontefice sarà consegnato un loro documento.

l’Unità 7.9.07
Embrioni e bioetica, la lezione inglese
di Carlo Flamigni


Sulla ricerca scientifica inglese siamo oramai alla diffamazione: si dice che dietro ci sono «enormi interessi economici». E se, invece, servisse a curare la leucemia dei bambini?

Vivo nell’illusione che il Paese in cui vivo sia laico e laici siano il partito al quale sono iscritto, il Comitato di Bioetica nel quale lavoro, gli amici che frequento, i lettori di questo giornale. So per certo che solo questi ultimi non tradiscono le mie attese, ma mentire a se stessi è l’unico atto di disonestà del quale non ci si deve vergognare, e del resto non faccio male a nessuno, lasciatemi vivere in pace. Questa premessa mi serve per giustificare quanto leggerete in questo articolo, che non avrei mai scritto, per esempio, se avessi la consapevolezza di vivere in un paese che è costretto a legiferare sotto l’influenza di una ideologia religiosa o per le pressioni di una potente agenzia illiberale .
Dunque, ci sono due luoghi comuni molto saggi che vengono generalmente usati quando si parla di libertà della scienza: il primo afferma che non tutto quello che è tecnicamente possibile è moralmente accettabile; il secondo asserisce che non tutto ciò che la natura cerca di ammannirci è compatibile con la nostra umanità. La conclusione è che è necessario stabilire regole e limiti per la scienza e per la ricerca scientifica, soprattutto quando questa cessa di essere un occhio che scruta per diventare una mano che fruga. Una ulteriore conclusione riguarda il fatto che la nostra società è consapevole di vivere nel disordine naturale, un disordine che è causa di dolore e di sofferenza e che chiede alla conoscenza di mettere ordine: perché questo è lo scopo ultimo della ricerca scientifica, conoscere per mettere ordine, per diminuire la sofferenza, per migliorare la qualità di vita degli uomini. La scienza è dunque un grande investimento sociale e gli scienziati hanno obblighi precisi nei confronti di chi ha tanto investito in loro. Si tratta di stabilire insieme che deve dettare le regole.
Per prima cosa mi viene in mente chi proprio non deve dettare queste regole: le religioni, per esempio, ideologie ossificate e obsolete, costruite sulla base di libri che hanno accumulato sciocchezze mitiche fin dal tempo in cui il fulmine era l’arma preferita dagli dei per percuotere i peccatori.
Penso invece alla morale di senso comune, una morale collettiva che si forma per l’influenza di molte differenti sollecitazioni, ma nella quale ha peso prevalente il buon senso. Una morale rigida, scettica, sospettosa, ma che può modificarsi se le vengono sottoposti con chiarezza e onestà i vantaggi che possono derivare dalle conoscenze possibili e dal loro uso controllato. Una morale, come potete capire, che ha bisogno soprattutto di conoscenza.
Ebbene, questo è quanto è successo in Inghilterra a proposito della formazione di embrioni ibridi (uomo-animale) allo scopo di ricerca. L’Autorità per la fertilizzazione umana e l’embriologia (HFEA) ha affrontato pubblicamente il problema, non inviando carte da compilare, ma organizzando dibattiti, sollecitando un dialogo intenso e proficuo al quale hanno partecipato migliaia di cittadini e centinaia di ricercatori e di studiosi, attuando pienamente quello che dovrebbe essere uno degli impegni primari degli scienziati, che è la promozione della cultura tra i cittadini: perché è impensabile chiedere a qualcuno di prendere una decisione se prima non gli si consegnano gli indispensabili strumenti di conoscenza. Quando l’Autorità ha registrato il 61% di consensi alla sua proposta, ha sollecitato il Governo inglese a farla propria. Laico, civile, intelligente, onesto.
Leggo, tra le prime reazioni apparse nei giornali italiani, due commenti che mi indignano. Il primo riguarda una supposta manipolazione dell’opinione pubblica, una critica che ci giunge da un onorevole rappresentante della Chiesa cattolica (che pulpito!). La seconda (stessa origine) afferma che dietro a queste iniziative pseudo-scientifiche ci sono immensi interessi economici. Credo di avere il diritto di chiedere spiegazioni, dettagli: anzi spero che li chiedano i miei amici inglesi. Perché se queste spiegazioni - diciamo pure, queste prove - non dovessero arrivare, avremmo tutti il diritto di dichiarare che questi due signori (anzi, un signore e un monsignore) sono due cialtroni. Anzi, due cialtroni bugiardi. Mi viene in mente un titolone dell’Avvenire un paio di giorni dopo l’annuncio della nascita della prima bambina nata concepita in vitro: «enormi e squallidi interessi dietro alla nuova tecnica», o qualcosa del genere. Ma la diffamazione come strumento di propaganda religiosa ha origini antiche.
Invito invece tutte le persone di buon senso a considerare con attenzione questo metodo inaugurato, non da ieri, dagli inglesi e di paragonarlo con quanto accade di solito: comportamenti - moralmente inaccettabili - imposti dalle ideologie politiche; comportamenti - altrettanto inaccettabili - imposti dalle ideologie religiose; e poi ipocrisie, compromessi, menzogne di ogni genere. Poiché vivo in una Paese laico e sono iscritto a un partito laico mi piacerebbe molto se questo metodo di dettare le regole diventasse anche il nostro.
Alcune osservazioni, non marginali. Leggo da varie parti che Monsignor Sgreccia ha dichiarato che si tratta di una scelta «mostruosa». Per carità, Monsignor Sgreccia dice quello che gli pare, viviamo in un Paese democratico (e laico), mi chiedo solo se non gli converrebbe fare un uso un po’ più cauto degli aggettivi. Poiché nella vita il peggio non ha mai fine, potremmo sbattere il naso (lo so, è poco probabile) in eventi ancora più esecrabili.
Poiché non mi vengono esempi concreti, ne scelgo uno di fantasia: come definirebbe il Monsignore un uomo che sodomizza i bambini? Cattivo? Brutale? Riprovevole? Un uomo nero? Lo so, è improbabile, ma è sempre bene essere preparati al peggio.
Il secondo punto che desidero trattare è abbastanza simile, riguarda l’intensità delle critiche rivolte a una ricerca scientifica che, a dire il vero, non mi sembra poi così «mostruosa». Ripensateci, amici cattolici: un esperimento in vitro, dal quale non nascerà mai altro che conoscenza, conoscenza che potrà rivelarsi estremamente utile in un settore di studi al quale tutti (anche voi, amici cattolici) guardate con grande speranza. E adesso rileggetevi le dichiarazioni, i titoli dei vostri giornali, le interviste dei vostri rappresentanti politici (senatrice Binetti, potrebbe star zitta, almeno una volta?). Non vi sembra tutto un po’ sopra le righe? Siete sicuri che la storia, domani, non riderà di voi?
Faccio un esempio. Ammettiamo che questa ricerca produca realmente nuove conoscenze (è possibile, anche soltanto perché Vescovi ha previsto il contrario); e ammettiamo che, anche grazie a queste nuove conoscenze, la ricerca sulle cellule staminali somatiche, quelle sulla cui moralità nessuno eccepisce, riesca a mettere a punto una terapia che guarisce la leucemia dei bambini. Sapete bene che, secondo il vostro Magistero, questa terapia sarebbe inquinata dalla cosiddetta complicità indiretta, la cooperatio ad malum, e che pertanto nessuno la dovrebbe utilizzare. Glielo dite voi al vostro confratello che non sta più nella pelle per la gioia, che purtroppo il suo bambino deve morire lo stesso perché la cooperatio ad malum... Gliele asciugate voi le lacrime che gli scenderanno inevitabilmente a rigargli il volto dal gran ridere?
È troppo audace raccomandarvi un po’ di buon senso?
Ultima precisazione. In Italia abbiamo un gran numero di oociti congelati e vitrificati che diventano inutili non appena le coppie sono riuscite a ottenere la loro gravidanza e vengono gettati via. Ce ne sono e ce ne saranno sempre perché il divieto di congelare embrioni ha sollecitato un grande numero di centri a prendere questa strada, che quasi nessun altro Paese percorre. Non sarebbe molto nobile offrirli ai ricercatori inglesi, che così non avrebbero bisogno di ricorrere alle mucche o alle coniglie? Potrebbe essere una iniziativa del Ministro Turco, o del Comitato di Bioetica, o dello stesso Monsignor Sgreccia. No, non voglio essere ringraziato.

Repubblica 7.9.07
Il ministro della solidarietà sociale: Prodi ha promesso collegialità ma resto preoccupato
"La ricetta di Amato è sbagliata ormai è succube della Lega"
Ferrero: la sicurezza non è decoro urbano
di Liana Milella


Due provvedimenti. Chiederò a Prodi di distinguere il tema della criminalità da quello della vivibilità delle città. Servono due provvedimenti distinti e separati
Giuliani. Mai avrei pensato che il centrosinistra italiano adottasse come modello l´ex sindaco di New York Giuliani. Così si insegue la destra

ROMA - Boccia la richiesta dei sindaci sui poteri di polizia («Chi dev´essere rieletto può cedere a pressioni arbitrarie»); accusa il Pd di subire, sulla sicurezza, «l´egemonia della Lega»; di Prodi si fida («Ha promesso di coinvolgermi»), ma il ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero fa una proposta che può non piacere ad Amato: «Facciamo provvedimenti distinti per criminalità e vivibilità urbana».
Ha visto che i sindaci vogliono le funzioni di polizia giudiziaria?
«È una richiesta molto sbagliata perché l´ordine pubblico deve essere gestito dallo Stato in modo omogeneo. Affidare a chi viene eletto su un territorio un simile potere può alimentare un esercizio arbitrario per favorire interessi di parte in vista di una nuova candidatura. Non a caso in Usa la struttura degli sceriffi non fu estranea al mantenimento negli stati del Sud di forme di razzismo contro i neri quando già c´erano le norme sulla parità dei diritti».
È un caso che la Lega si batta per la polizia locale?
«Purtroppo stiamo assistendo a un fenomeno preoccupantissimo di egemonia culturale e politica dell´estremismo della Lega su una parte significativa del Pd. Da un lato, si fa di tutt´erba un fascio, e si mettono assieme il contrasto alle rapine violente nelle ville e agli omicidi della ‘ndrangheta con la lotta ai lavavetri, criminalizzando la marginalità sociale e suggerendo soluzioni penali. Dall´altro, ha la meglio l´egemonia della destra per cui all´insicurezza dei cittadini, che è un fenomeno vero, si risponde solo sul terreno del decoro urbano e si vogliono togliere di mezzo lavavetri, accattoni, graffitari. Senza tener conto che l´insicurezza deriva soprattutto dalla precarietà e dalla rottura dei legami sociali».
Se passasse il piano Amato non cambierebbe niente?
«È dimostrato che la percezione d´insicurezza cresce anche quando calano i reati. Ma i sindaci e Amato cadono nella logica del capro espiatorio, con cui si dà un nome a una paura che ha cause diversificate. Quel nome è "immigrato". Così il centrosinistra rischia di adottare il modello usato per anni dalla destra. Ma l´insicurezza non scende e si creano emarginazioni urbane ancora più distruttive».
Cofferati si vanta di aver aperto un dialogo con An.
«Ciò aumenta le mie preoccupazioni perché conferma il rischio della subalternità del centrosinistra alla destra e la possibile produzione di veleni nel corpo sociale che impiegheremo anni a bonificare».
Da giorni il suo segretario Giordano diffida Prodi dal rincorrere la destra sulla sicurezza. Ma non si rischia il permissivismo?
«La sicurezza è un problema per tutti, ma se la destra criminalizza la marginalità sociale, la sinistra è tenuta a distinguere bene tra criminalità e marginalità, deve reprimere la prima e intervenire sulla seconda per recuperarla. Per questo la sinistra ha inventato il Welfare. I poveri non vanno messi in galera, ma aiutati a uscire dalla povertà. Com´è avvenuto a Pisa dove c´è una giunta di sinistra ma senza Rifondazione: 12 anni fa c´erano alcune centinaia di rom e solo due ragazzini andavano a scuola. Ora tutti i bambini rom frequentano la scuola dell´obbligo e qualcuno prosegue, la maggioranza dei 470 rom abita in casa e non più nei campi, e una buona fetta lavora».
Amato teme la deriva fascista se non protegge la moglie aggredita dal lavavetro.
«Il lavavetri che aggredisce va perseguito penalmente, ma ciò non giustifica il prendersela con tutti i lavavetri. Condivido la proposta di Chiamparino, se si regolarizza la loro attività la si controlla. Ma se centinaia di persone che vivono pulendo i vetri vengono cacciati non si rischiano guai peggiori per la sicurezza?».
Amato dice basta alla «sociologia d´accatto».
«È fuori bersaglio. Propongo soluzioni diverse da quelle annunciate perché sono convinto che siano sbagliate e controproducenti anche in termini di sicurezza».
E Mastella che parla della vecchietta scippata, senza pensione, e della gente che «non ne può più»?
«Bisogna commisurare tutto alla gravità del reato. Un omicidio è un omicidio, uno scippo è uno scippo. Da un lato ci sono la certezza della pena e il potenziamento dell´attività investigativa, dall´altro il recupero sociale. Molti furti in casa impuniti fanno sentire la gente in balia dei criminali quasi che la giustizia non ci fosse. Occorre intervenire qui, con nettezza, all´interno dell´ambito costituzionale. Ma non si può sbattere la gente in galera e basta, anche perché il carcere ha uno scarsissimo potere rieducativo».
A Roma la task force voluta da Veltroni vanta il sequestro di tonnellate di merci contraffatte. È di sinistra?
«Che ci sia anche questo nel capitolo sicurezza è indice dell´imbarbarimento. Non mi pare un´emergenza sociale, semmai ha a che fare con la tutela delle griffe, ma di fronte a un´evasione fiscale così alta lo stesso dispendio di forze potrebbe essere indirizzato lì e otterremo un maggiore risultato».
Entrando nel governo pensava che l´ex sindaco Giuliani sarebbe diventato un riferimento per palazzo Chigi?
«Francamente no».
Crede a Prodi che promette di coinvolgerla?
«Aspetto di essere convocato alla prossima riunione, anche se non nascondo di essere molto pessimista e molto preoccupato. Ma una cosa, per me, è decisiva: chiederò che i provvedimenti sulla criminalità e sul vivere urbano siano due cose ben distinte».

Liberazione 7.9.07
Cofferati e Domenici: "Vogliamo armarci"
Nascono le prime giunte militari...
di Davide Varì


Non si ferma la deriva di destra di alcuni rappresentanti del Piddì. I sindaci di Bologna e Firenze chiedono i "poteri di polizia" per poter controllare,
cacciare dalle loro città «le persone indesiderate». Ferrero: «Il controllo dell'ordine pubblico è una prerogativa dello Stato nazionale»

Tutto il potere ai sindaci. Timoroso di venir superato dal collega Domenici e dal di lui fedele vicesceriffo Cioni - gli ideatori della famigerata ordinanza antilavavetri - Sergio Cofferati ha rotto ogni indugio e spostato ancora più avanti la campagna per il decoro delle città del belPaese: «Ai sindaci - ha detto ieri - devono essere assegnate funzioni di polizia giudiziaria». «Una misura indispensabile - ha fatto eco lo stesso Domenici - per allontanare alcune presenze indesiderate». Tradotto: dateci subito nuovi poteri per cacciare senza troppe storie lavavetri, mendicati, zingari e poveracci d'ogni fatta.
Stavolta, seppur nella sua solita furia securitaria, bisogna almeno dar atto al sindaco di Bologna di averci risparmiato nuove esegesi del pensiero di Lenin e Gramsci, branditi come clave da Giuliano Amato e da Domenici stesso per legittimare e giustificare - giustificare da sinistra - la nuova caccia agli ultimi. Un po' come se Erode citasse Maria Montessori per spiegare la strage degli innocenti.
No, Cofferati non scomoda nessuno degli avi della sinistra, si limita a citare Tex Willer - «ricordo che Tex è amico degli indiani...», e non dei romeni verrebbe da aggiungere - ma trova comunque il tempo di scagliarsi contro la sinistra «benoltrista e benaltrista». Quella che, sempre secondo l'ex leader della Cgil, non ha la forza ed il coraggio di affrontare i problemi più scottanti. Emergenza writer e lavavetri per primi.
E mentre il primo cittadino di Bologna vagheggiava la nuova figura del sindaco-sceriffo del nuovo millennio, quello di Firenze annuiva e visibilmente soddisfatto aggiungeva: «Non sono contrario a interventi di polizia giudiziaria. Bisogna indicare i casi in cui la polizia municipale può intervenire con poteri analoghi a quelli delle forze dell'ordine».
Insomma, Firenze chiama e Bologna risponde. Del resto i due sindaci erano impegnati in un Forum organizzato in fretta e furia, l'emergenza incalza, sul tema del momento: sicurezza e degrado urbano. Un'occasione da non perdere per marcare ancor di più la distanza dagli atteggiamenti lassisti, o benaltrisi come direbbe Cofferati, di «certa sinistra».
Quella sinistra che ieri, per voce del ministro della solidarietà Paolo Ferrero, ha immediatamente rispedito ai mittenti la proposta dei sindaci-poliziotti: «Sono assolutamente contrario alla proposta avanzata oggi dal sindaco di Bologna Cofferati. Il controllo dell'ordine pubblico - ha spiegato il ministro - è una prerogativa dello Stato nazionale e credo sia bene che rimanga tale. Se dipendesse da chi viene eletto per amministrare una città si potrebbe rischiare che venga utilizzato a fini propagandistici o elettorali».
Ed ancora: «La gestione dell'ordine pubblico da parte degli sceriffi - ha chiuso duro Ferrero - ha avuto un ruolo determinante nel mantenimento del razzismo nel sud degli Stati Uniti».
Altrettanto netto il giudizio che arriva da Giovanni Russo Spena, capogruppo al Senato di Rifondazione: «C'è un tentativo di inseguire la destra sul suo terreno che sarà pure dettato, come assicura il ministro Amato, dall'intenzione di evitare una deriva a destra, ma purtroppo sortisce invece proprio quell'effetto. La proposta Cofferati - conclude Russo Spena - somiglia pericolosamente alle formule leghiste».
Ed è proprio la Lega ad uscire rafforzata, e legittimità nei suoi atteggiamenti più intolleranti, da questa storia. Una Lega, a dirla tutta, che se la ride nel vedersi superata a destra dai futuri piddini e apprendisti sarkozisti: «Cofferati, Penati, Domenici - ha commentato sarcastico il padano Maroni - sono tutti sceriffini, cioè discepoli di Gentilini. Noi abbiamo la primogenitura - ha aggiunto il deputato leghista - con la differenza che quando lo dicevamo noi eravamo scomunicati e accusati di essere razzisti».
Nel frattempo, dopo il vespaio sollevato da Giuliano Amato che ha liquidato come «sociologia d'accatto» ogni atteggiamento diverso dal tanto invocato pugno duro, è arrivato D'Alema a cercare di mettere una pezza: «Il ministro Amato è un grande giurista, un garantista, non è un forcaiolo nè un reazionario». (Bruto è uomo d'onore, diceva Marco Antonio). Sarà per questo che da Marco Minniti, delfino storico del ministro degli Esteri, arriva un tiepido dietrofront: «Non solo la sicurezza non è nè di destra nè di sinistra, ma non lasciamo questo tema alla destra perchè il centrosinistra ha più mezzi per affrontarlo perchè sicurezza significa politica sociale e politica dell'integrazione».
Ma la proposta Cofferati, almeno stavolta, non convince nè il sindaco di Torino Sergio Chiamparino - «Bisogna evitare di trasformare i Sindaci in Prefetti o in Questori» - nè gli uomini immagine di Veltroni che per bocca di Pino Battaglia fanno sapere che l'ipotesi sindaci-sceriffi va contro la Costituzione e le leggi che assegnano a Governo e Magistratura la competenza esclusiva dell' ordine pubblica e dell'attività giudiziaria». Infine Rosi Bindi, una delle poche voci critiche del piddì: «La sicurezza è un valore che va assolutamente perseguito con misure di ordine pubblico - ha detto il ministro a Mestre - ma anche con misure di solidarietà e integrazione sociale perchè sempre con persone abbiamo a che fare, che siano lavavetri, prostitute o clandestini. È necessario far applicare la legge e pretendere il rispetto dei doveri - ha aggiunto - ma al tempo stesso dobbiamo interessarci del loro destini. Ci liberiamo dai lavavetri se liberiamo i lavavetri dal fare i lavavetri».

Liberazione 7.9.07
Mastella: «Gli assassini di Gorgo al Monticano non erano indultati».
E Beppe Grillo lo attacca


Il comico genovese si adegua alla campagna scatenata dai giornali di destra contro il provvedimento arrivando ad offrire «i suoi legali» ai familiari delle vittime perché querelino il Guardasigilli

Poco importa che le cose non stanno esattamente come le raccontano. Poco importa che - se proprio si vuole andare a fare i pignoli - le responsabilità vanno cercate, ma non sembra fra le fila dei legislatori. Perché anche se i giornali di destra sono piene di dichiarazioni di anonimi «difensori dell'ordine» che sparano a zero contro l'indulto, ieri si è venuto a sapere che uno degli indagati per l'atroce delitto di Gorgo al Monticano - dove due custodi di una villa sono stati barbaramente uccisi -, quello che era fuori dal carcere grazie al provvedimento di clemenza, era stato consegnato alla polizia di Palermo. Perché lo estradasse nel suo paese, l'Albania. Provvedimento mai eseguito e non si sa bene perché.
Tutto questo, però, conta poco, perché la campagna di destra contro l'indulto è proseguita come se nulla fosse. E da qualche giorno a dar manforte a queste voci, si è unito anche il blog di Beppe Grillo. Da sempre paladino dei diritti degli utenti, ora dal suo blog tuona contro il provvedimento legislativo.
Al punto che l'altro giorno Beppe Grillo, nella sua home page, ha pubblicato la foto segnaletica di due delle persone coinvolte nell'omicidio accostandole a quella del Ministro di Giustizia, Mastella. Con un titolo che diceva "foto segnaletiche". Il contenuto era in sintonia con questa premessa: Grillo arriva ad offrire ai familiari delle vittime i suoi avvocati per far causa al Guardasigilli. «Il responsabile vero dell'indulto».
La replica è arrivata con lo stesso strumento, il blog. Questa volta quello del Ministro. Che interviene anche nel merito della questione. Ricordando a Beppe Grillo - che «evidentemente ha scarse nozioni legislative« - che il provvedimento di indulto non è di competenza del dicastero ma deve essere approvato da due terzi del Parlamento.
Ma tutto ciò per Mastella viene dopo. Al ministro, nel suo blog, interessa soprattutto spiegare qual è la filosofia che è dietro il provvedimento. Lo ha fatto ricordando le parole di Roberto Benigni che durante il suo tour ha fatto tappa anche alla Festa dell'Udeur, a Telese, pochi giorni fa. E qui, l'attore toscano ha ringraziato questo Parlamento «per essere riuscito a portare fino in fondo il provvedimento dell'indulto. Portando avanti un discorso di pietà che rende una società più giusta e più forte».
Una tesi che il ministro sposa appieno. Secondo Mastella, Beppe Grillo «non sa o finge di non sapere, cosa ancor più grave, che non è l'indulto che fa delinquere un delinquente. Non sa, ma è bene che sappia, che lo sciacallaggio qualunquista delle sue invettive non mi tange».
Non lo tocca, dice, ma la sfiora. Questo sì. Ed è qui che Mastella cita una parabola. Questa: «Un giorno che tre militari romani stavano picchiando un poveraccio per strada Gesù fermò il centurione che si accaniva e gli disse: "Fermati! Che cosa fai?" E quello gli rispose: "Ma che ti frega di questo disgraziato... questo è ...l'ultimo". "No-rispose Gesù - l'ultimo sei tu! Questo è il primo!"».
Fin qui lo scambio di battute fra il ministro e il popolare comico. Sulla cultura, sulla «filosofia» che ha ispirato il provvedimento di clemenza. Sullo sfondo restano però i problemi veri della giustizia. Problemi seri, drammatici come quelli evidenziati dal confronto tra i sistemi giudiziari, condotto dal Consiglio d'Europa e riportato dal Libro Verde del Tesoro sulla spesa pubblica italiana. Qui si sottolinea come proprio la giustizia sia stata nello scorso decennio «una delle voci in maggior crescita del bilancio dello Stato». E «tuttavia il nostro Paese arranca in termini di lunghezza dei processi, trascinati per anni». Servono 582 giorni per un divorzio, 1.210 per concludere un procedimento relativo ad un inadempimento contrattuale: in tutti e tre gli esempi l'Italia conquista il primo posto delle lungaggini.

Liberazione 7.9.07
De Oliveira, che tesi: Colombo era portoghese
A 99 anni presenta "O enigma"
di Davide Turrini


Alla veneranda età di quasi novantanove anni, alla mostra del cinema di Venezia è salito in cattedra Manoel De Oliveira. Lezione di storia, peraltro. Provoca: Cristoforo Colombo è nato a Cuba, un paese dell'Alentejo portoghese. Tanto che, sostiene De Oliveira, appena il navigatore ha messo piede sulla terraferma delle americhe, ha battezzato il suolo calpestato con il nome di Cuba. Ironia della sorte: più che colpire il fiacco e inutile nazionalismo italiota, la rivelazione deoliveriana rende piuttosto imbarazzante il Columbus Day statunitense con tanto di relativo gigantesco tacchino farcito. Fidel Castro riderà sotto baffi e barba.
Intanto, al Lido, De Oliveira e signora si sono premurati di accompagnare di persona i settanta minuti più intensi e struggenti della cinematografia del nostro. Cristovao Colombo. O enigma fonde mirabilmente pacatezza dell'esposizione di una roboante tesi storica, con l'epica del viaggio e della scoperta. In mezzo a tanti giovinetti che dietro la macchina da presa stanno fingendo di rischiare carriera e attributi nel Concorso veneziano, De Oliveira (di diritto nel Fuori Concorso, sezione Maestri) sembra il più agguerrito e lucido dei realizzatori. Dietro e davanti la macchina da presa il regista portoghese mette in scena la scoperta del nuovo mondo in versione riveduta, corretta e personalissima.
Una New York notturna e nebbiosa, meta negli anni '50 di Manuel Luciano (Ricardo Trepa, il Tom Cruise lusitano), che ha seguito il padre emigrato in Usa. Dopo la laurea in medicina a Coimbra ha ripreso conferenze e professione medica nell'est coast, mantenendo sempre la sua passione: la storia delle scoperte marittime portoghesi. Balzo temporale in avanti ed ecco Manuel Luciano e Silvia nel 1960, appena sposati, in viaggio di nozze verso il sud del Portogallo con relativa visita a quelle città costiere da dove sono salpati numerosi navigatori portoghesi. Altro salto in avanti fino ai giorni nostri dove Manuel e Silvia (interpretati teneramente da De Oliveira e dalla moglie Isabel) viaggiano negli Stati Uniti rintracciando monumenti statunitensi che statunitensi non sono (tra cui la statua della libertà) e la torre di Newport ritenuta opera di artisti portoghesi. La chiosa è nella casa di Porto Santo, nell'arcipelago di Madeira dove Colombo visse per molto tempo dopo i viaggi atlantici.
La storia, pare dirci De Oliveira, è scritta da presunti, prepotenti, maleducati vincitori. Ma nulla è spiegato: tutto è suggerito. Cristovao Colombo. O enigma non è quindi un pamphlet storico-scientifico, ma un resoconto romanzato delle magnifiche imprese e scoperte degli esploratori portoghesi (Colombo le Americhe, De Gama le Indie, Cabral il Brasile, Pinto il Giappone, Magellano il giro del mondo). Con in aggiunta una grazia. Sul finale la signora Isabel guarda il mare e dice: «il divenire è nostalgia». Arrivederci al prossimo film, maestro.

Liberazione 7.9.07
Embrioni uomo-animale, alcune verità e molte promesse avventate
di Sabina Morandi


Il via libera in Gran Bretagna di dare il via libera alla ricerca ha sollevato
molto clamore ma la realtà scentifica è più complessa e difficile

La decisione dell'Autorità britannica per la fertilizzazione e l'embriologia (Hfea) di dare il via libera all'utilizzo dei cosiddetti "embrioni-chimera", riservandosi però di valutare caso per caso, ha provocato la solita levata di scudi. Anche in questo caso la polarizzazione fra fautori della libertà di ricerca e difensori dell'embrione - il presidente della Pontificia accademia per la vita si è affrettato a definirlo un «atto mostruoso» - è stata occasione per sparare una raffica di stupidaggini, prima fra tutte il fatto che la creazione di un organismo ibrido con le tecniche di manipolazione genetica, sia una prima assoluta. In realtà il primo "organismo-chimera", definizione che richiama la figura mitologica con corpo di capra, testa di leone e coda di serpente, risale addirittura al 1973, quando alla Stanford University School of Medicine venne clonato un gene di rana all'interno di un batterio. Poi arrivò Dolly, la cui clonazione serviva proprio a inserire geni umani per ottenere una proteina necessaria alla coagulazione per gli emofiliaci.
Negli anni recenti la pratica di fabbricare organismi-chimera a scopo di ricerca si è così estesa che ormai i ricercatori non possono fare più a meno delle cavie con geni umani per le loro ricerche - basti citare l'"oncotopo" ingegnerizzato per sviluppare il cancro che è stato brevettato e commercializzato con successo dalla Du Pont e sul quale sono stati testati molti nuovi farmaci. Nel caso attualmente in discussione gli embrioni-chimera verrebbero creati trasferendo materiale genetico umano dentro un ovulo di bovino o di coniglio privato del suo Dna, allo scopo di ottenere cellule staminali per la ricerca. Inutile dire che la precisazione riportata da alcuni giornali nazionali, sul fatto che non sarà consentito «impiantare in utero tali embrioni» è una follia: nessun ricercatore ha mai manifestato l'intenzione di impiantare in un utero umano un ovulo di bovino o di coniglio... Dovrebbe far riflettere invece la motivazione che ha spinto l'Hfea ad autorizzare questo tipo di pratica ovvero la scarsità di ovuli umani da utilizzare per la ricerca, che in Gran Bretagna normalmente provengono dai trattamenti di fertilizzazione in vitro. La qualcosa dovrebbe spingere a interrogarsi sulle possibilità che una terapia basata sulle staminali possa venire utilizzata su larga scala visto che, appunto, non ci sono abbastanza ovuli nemmeno per la ricerca pura.
Ma cosa sono le cellule staminali di cui tanto si parla? Ogni cellula del nostro corpo proviene da un'unica cellula fecondata, l'ovocita, e contiene in sé lo stesso materiale genetico presente in origine. Nell'adulto ogni cellula si è differenziata per eseguire un compito preciso, segno che a un certo punto dello sviluppo dell'organismo ha imparato a "leggere" solo un certo frammento del genoma complessivo. Con i primi esperimenti di trasferimento del nucleo di una cellula adulta in un embrione, che furono condotti sugli anfibi negli anni '50, si è cominciato a indagare sul meccanismo della differenziazione e, soprattutto, sulle possibilità della riprogrammazione. La riprogrammazione del nucleo apre, almeno a livello teorico, possibilità infinite nella produzione dei tessuti, delle cellule e di organi interi. Cinquant'anni e migliaia di esperimenti dopo, però, il meccanismo di differenziazione cellulare non è ancora chiaro e le sorprese sono state talmente numerose da mettere in crisi alcuni dogmi fondamentali della genetica e della biologia.
Allo stato attuale si è dimostrato che molte cellule staminali possono essere coltivate e venire indotte a differenziarsi, ma le uniche applicazioni che hanno avuto un certo successo sono quelle relative al trapianto della cornea, dove le staminali vengono utilizzate quasi di routine. Ma le domande senza risposta sono ancora moltissime: perché solo alcune staminali si convertono nel tessuto desiderato? Perché quello che funziona con un organismo non funziona con un altro? E perché, a volte, le cellule trasformate non attecchiscono nell'organismo adulto? Se la ricerca deve fare ancora molta strada siamo anni luce lontani dalla definizione di una terapia standard, che richiederebbe milioni di cellule staminali per curare ogni singolo paziente e quindi, milioni di ovuli. Proprio per questo ci si chiede se la terapia con le staminali potrà mai diventare un intervento terapeutico riproducibile a basso costo, ovvero sostenibile nell'ambito di un sistema sanitario nazionale, oppure tutta la tecnologia - prelievo e coltura delle cellule staminali dal paziente, differenziazione e reimpianto - è talmente costosa che non è pensabile di riprodurla su larga scala.
E' raro che si discuta di questi problemi quando si affronta l'aspetto etico della questione, monopolizzato dal pesante veto dei cattolici sull'utilizzazione per la ricerca degli embrioni sovrannumerari, cioè quelli avanzati dalla fecondazione artificiale, veto tanto più inaccettabile in quanto gli embrioni sono destinati a morire in ogni caso. Viene fuori però che in Gran Bretagna, dove i soprannumerari possono venire utilizzati a scopo di ricerca (così come in molti altri paesi) non sono sufficienti nemmeno per la ricerca. Non ha senso quindi nemmeno gridare alla cura miracolosa perché siamo all'inizio della comprensione di questo tipo di meccanismi, ed è davvero crudele strumentalizzare la comprensibile angoscia dei malati per rispondere alle strumentalizzazioni della Santa Sede. Il problema è che, sulle biotecnologie, i giornalisti hanno la memoria davvero corta se riescono ancora a prendere sul serio un avventuriero come Craig Venter, che si rese famoso per aver più volte annunciato di avere vinto la corsa alla mappatura del genoma umano e ha mantenuto gli onori della cronaca veleggiando verso le Galapagos con l'intenzione di brevettare ogni organismo incontrato sulla sua strada. E' di ieri l'ennesima boutade: lo scienziato-manager avrebbe decifrato un intero genoma - il proprio - e sarebbe già in grado di mettere in circolazione un apposito test che, alla modica spesa di mille dollari, può leggerti il futuro nei tuoi cromosomi. Alla faccia della scienza.

Liberazione 7.9.07
Cortocircuito Italia sugli schermi della Mostra


Fischi e proteste accolgono "L'ora di punta" di Vincenzo Marra, dopo Porporati e Franchi ultimo dei nostri registi in concorso
Tre film, tre buchi nell'acqua. Quali sono i criteri di scelta del festival? Certo è che il cinema italiano migliore non corre per il Leone

Vincenzo Marra ieri era a Venezia, ultimo italiano in concorso. Vincenzo Marra, e i titoli dei giornali già da giorni gridavano all'ultima spiaggia, dopo le delusioni di Franchi e Porporati. Vincenzo Marra, bella speranza del nostro cinema migliore.
In queste ultime ore il regista napoletano di Tornando a casa e Vento di terra ha avuto un bel peso sulle spalle, non c'è dubbio. I fischi e le risate (non richieste dalla sceneggiatura) con cui è stato accolto il suo L'ora di punta (da oggi in sala con 100 copie, 01 Distribution) lo hanno comprensibilmente infastidito. Ma anche noi - critici e spettatori - abbiamo ricevuto una bella botta. I selezionatori, mettendo ben tre film italiani in concorso, ci avevano riempito di aspettative, andate una alla volta tutte e tre in fumo.
Cose che possono succedere, ma che avrebbero bisogno anche di qualche spiegazione. Perché qui a Venezia, di cinema italiano buono ne abbiamo visto (il Molaioli della Settimana della Critica, Zanasi e Guzzanti delle Giornate degli Autori, il giovanissimo Pietro Marcello e Barbara Cupisti degli Orizzonti doc), ma fuori dal circuito principale del concorso. Dove invece sono arrivati tre film che, per ragioni anche simili, non sono riusciti.
L'ora di punta di Vincenzo Marra soffre degli stessi errori di fondo del Il dolce e l'amaro di Andrea Porporati. La parabola del giovane picciotto del secondo, nel primo si traduce nella discesa agli inferi di un giovane finanziere, che per compiere la sua scalata sociale svende mutande e anima.
Il problema però non sono i temi scelti, quanto gli svolgimenti. Marra, come Porporati, cade in uno stile di racconto tra la fiction tv e il fotoromanzo d'epoca. Zoomate sulle facce dei cattivi con gli occhi serrati e il sopracciglio alzato, battute di imbarazzante banalità, trame da Reader's Digest, attori trasformati in macchiette. Protagonista, nel caso specifico di Marra, un attore quasi sconosciuto (e fin qui niente di male), Michele Lastella, che mastica e male le battute e una co-protagonista, la bella Fanny Ardant, trasformata dal trucco in una specie di strega di Biancaneve. Il pubblico non ha potuto fare a meno di ridere davanti a salti di montaggio (del pure bravissimo Luca Benedetti) che ci scaraventano da una stretta di mano a una scopata e a riprese (del pure bravissimo Luca Bigazzi. Ma che è successo?) di imbarazzante piattezza televisiva. Marra pensa che la critica lo accusi di aver fatto un film troppo sgradevole nei confronti della Guardia di Finanza. Lo vogliamo dissuadere dal prendere questo abbaglio: la critica lo accusa solo di aver fatto un brutto film.
Sono parole dure, lo sappiamo, da rivolgere a qualcuno che ha passato tre anni della propria vita a lavorare ad un progetto in cui crede. E gli auguriamo che la sala e gli spettatori gli diano comunque più soddisfazione di quanto non gliene daremo noi. Ma i festival si nutrono di questa brutalità: vedo il film e ne do un giudizio. Tento - da critico e da spettatore - di tenere in conto il lavoro duro di tutti, ma non mi tiro indietro. Se è necessario, se sono in grado di motivartelo, se ho la passione per dirtelo, lo dico: hai fatto un film non riuscito.
Ma qui a Venezia, luogo deputato alla scarnificazione del prodotto cinematografico, ci poniamo anche altre domande: chi sono i responsabili delle scelte del concorso? I selezionatori, il direttore Müller, i distributori che gestiscono il mercato? Ognuno ha una parte in commedia? E quale?
Sono domande rese legittime da un evidente cortocircuito, che ha fatto deflagrare la presenza italiana al più importante festival nazionale e non solo. E ancora più legittimate dalla discussione in atto su giornali e televisioni sulla qualità del nostro cinema, la sua capacità di rappresentare la realtà e di fare un buon prodotto. Venezia mette sul piatto la contraddizione: il cinema italiano buono c'è, ma non sta in prima fila.
E magari non riesce nemmeno ad arrivare in sala. Speriamo non sia il caso de Il passaggio della linea , piccolo documentario di Pietro Marcello, un ragazzo che non arriverà nemmeno a 25 anni, che in una sessantina di minuti ci racconta un'Italia che nessuno vede più. L'Italia dei treni espressi, quelli che percorrono centinaia di chilometri nella notte, quelli che non conoscono l'alta velocità ma solo un lento degrado, che sferragliano, cadono a pezzi, distruggono l'udito dei passeggeri con i loro maledetti cigolii. Quelli che ancora oggi trasportano centinaia di uomini da sud a nord, da nord a sud, maghrebini e operai interinali, senza più sogni da costruire in un altrove lontano da casa, ma solo alla ricerca di qualche ora di lavoro da qualche parte. Tra loro, Pietro Marcello scopre Arturo Nicolodi, uno che cinquanta anni fa fondò il partito della Nuova Europa a Bolzano, uno dei firmatari del manifesto di Ventotene, un anarchico cittadino del mondo che un giorno viene cacciato dal lavoro perché non sta alle regole. Uno che gli avvocati in tribunale dichiarano pazzo e lasciano senza uno straccio di rimborso. Arturo allora fa il suo "passaggio della linea" e decide di farsi barbone, viandante notturno di treni. L'espresso Bolzano-Roma per trent'anni è la sua casa. Fiero della sua assoluta libertà, forte solo delle sue convinzioni, Arturo è il re del mondo degli abissi, notturni e oscuri, in cui vive un'Italia che nessuno vede mai. E che vecchi treni accolgono e proteggono come antiche e acciaccate mamme.
Senza nessuna concessione televisiva, con rigore di immagine e di sguardo, Pietro Marcello (prodotto dalla coraggiosa Indigo film) ci dice del nostro paese più di quanto non facciano i tre film in concorso messi insieme. Speriamo che questo giovanissimo autore abbia in futuro lo spazio per crescere e sperimentare. Ma non è detto.

Corriere della Sera 7.9.07
Diffide legali ai medici: così le coppie aggirano la legge 40 e l'obbligo del triplice impianto
Fecondazione, si torna a congelare gli embrioni
di Simona Ravizza e Monica Ricci Sargentini


In tutta Italia casi di coppie che rifiutano l'obbligo delle norme sul triplice impianto
Fecondazione, legge aggirata: si torna a congelare embrioni
Diffide legali ai medici per evitare gravidanze plurigemellari

MILANO — Coppie in rivolta contro la normativa sulla fecondazione assistita. Sono sempre più numerosi, infatti, i rifiuti (notificati per iscritto ai direttori sanitari dei più importanti ospedali italiani) all'impianto di tutti gli embrioni ottenuti. L'obiettivo è di evitare gravidanze plurigemellari che aumentano del 40% i rischi di aborti prematuri e gravi malformazioni dei neonati. Sta crollando così nei fatti uno dei cardini della legge 40. Cresce l'imbarazzo nel mondo medico, stretto fra il rispetto della normativa e quello del volere della donna.
Crolla di fatto uno dei punti cardine della legge 40 sulla procreazione assistita. L'obbligo di mettere nell'utero tutti gli embrioni — parificati dalle norme del 2004 a vite umane — adesso vacilla sotto i colpi delle lettere di rifiuto che le coppie cominciano a presentare nei più importanti ospedali d'Italia. Testi, per lo più scritti a mano, con frasi del tipo: «I sottoscritti (...) diffidano il direttore sanitario dal trasferire tutti gli embrioni ottenuti». Quelli che rimangono tornano, dunque, a essere congelati.
«L'utero è mio e me lo gestisco io», era lo slogan ai tempi della battaglia per la legalizzazione dell'aborto: paradossalmente, a tre anni di distanza dalle normative sulla fecondazione in vitro, la musica è la stessa. Chi ricorre alla diffida vuole evitare gravidanze plurigemellari che, secondo le stime dei medici, aumentano del 40% il pericolo di aborti prematuri o di malformazioni dei neonati. Le donne che rifiutano di farsi impiantare tutti gli ovociti fertilizzati svuotano di significato uno degli articoli
clou della legge 40, il 14, comma 2: «Le tecniche di produzione (...) non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario a un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre». È la norma, per intendersi, approvata con l'intento dei sostenitori della «vita umana anche se ancora in provetta», ma da subito duramente contestata dai promotori del referendum del giugno 2005 per i suoi rischi. Non solo: la crioconservazione degli embrioni è tassativamente vietata, nello stesso articolo, al comma 1.
La rivolta contro il trasferimento degli embrioni a tutti i costi fa leva sull'articolo 13 delle linee guida approvate dal ministero della Salute nel giugno 2004 («Il transfer non è coercibile »).
Ma i medici sono in difficoltà. Ammette Guido Ragni, direttore del Centro di sterilità della Mangiagalli: «Noi dobbiamo rispettare il volere della donna che non può essere obbligata a un triplice impianto. Il problema è che la legge 40 prescrive il contrario ». Per cautelarsi, la Mangiagalli si è impegnata — caso per caso — ad avvisare la magistratura. «Il problema è serio — conferma Guglielmo Ragusa, responsabile del Centro di riproduzione assistita dell'ospedale San Paolo —. Il transfer di solo due ovociti fecondati è offerto, comunque, in situazioni particolari, soprattutto per pazienti sui 30 anni. Per il terzo embrione si procede, poi, a un programma di congelamento ovocitario». Nelle ultime settimane il Cecos, che raggruppa 28 centri privati specializzati nella fecondazione in vitro, ha diffuso un questionario per sondare l'applicazione dei punti controversi della legge 40. Tra questi il segretario nazionale dell'associazione Claudia Livi ha inserito l'articolo 14.
Ci sono donne che rifiutano anche l'impianto di un embrione che presenta gravi anomalie. «All'inizio la coppia dichiara che si farà trasferire tutti gli ovociti fertilizzati, come dice la legge — spiega Emanuele Levi Setti, primario di Medicina della riproduzione all'Humanitas di Rozzano —. Ma nessuno, poi, vieta loro di cambiare idea, anche perché non sono sanzionabili. In questo caso scatta il congelamento. Da noi non ci sono ancora stati casi del genere, ma sappiamo che ci troveremmo davanti a un vizio di legge». Allarga le braccia il ginecologo Stefano Venturoli, tra gli autori delle linee guida, direttore dell'unità operativa di fisiopatologia della riproduzione dell'ospedale Sant'Orsola di Bologna: «Non c'è dubbio che il regolamento attuativo sul punto in questione modifichi lo spirito della legge. Però è stato approvato da una commissione con membri di diverso orientamento politico. Alla fine siamo stati tutti d'accordo sul fatto che nessuno può fare un atto di violenza contro la donna». Il risultato è una legge considerata in contraddizione con se stessa.

LA TESTIMONIANZA
Daria: così ho costretto i dottori a trasgredire la regola dei 3 ovociti
«Temevo le complicazioni di una gravidanza trigemina»

MILANO — Il 2007 era appena arrivato quando Daria (il nome è di fantasia) ha preso carta e penna per impedire che i medici di un noto centro pubblico milanese le trasferissero tre embrioni nell'utero. «L'ho scritto a mano — racconta al Corriere —, furibonda e spaventata. "Noi sottoscritti diffidiamo il direttore sanitario ecc.". Sono stata fortunata perché il medico che mi seguiva mi ha fatto capire che c'era questa possibilità. E ora vorrei che lo sapessero anche tutte le altre donne». Daria ha 27 anni e un marito gravemente infertile. Il suo sogno è una famiglia numerosa. Per coronarlo l'unica strada è la Icsi, la tecnica di fecondazione assistita in cui un singolo spermatozoo viene iniettato direttamente nell'ovocita. Così lei e suo marito, qualche mese fa, decidono di compiere il grande passo. Dopo gli esami di rito lei inizia la stimolazione. «È stato allora, durante un controllo ecografico, che mi è venuto il dubbio — racconta —. Stavo producendo molti follicoli e, come un incubo, ho pensato ai tre embrioni. Sapevo che non volevo correre quel rischio. Una mia amica aveva appena avuto una gravidanza trigemina sfociata in un parto prematuro. Un bimbo era morto, due erano stati per mesi in rianimazione e non si sa ancora se abbiano ritardi mentali».
La ragazza esprime i suoi dubbi al medico. «Lui ha ammesso subito che poteva essere un problema e mi ha detto che alcune pazienti lo avevano risolto scrivendo una lettera. Non mi ha proposto di fecondare solo due ovociti in modo da non produrre tre embrioni perché le mie possibilità di rimanere incinta sarebbero diminuite drasticamente». Ma il centro non fornisce dettagli sulla lettera e trovare informazioni non è facile. Daria è un architetto, come suo marito, e naviga quotidianamente su Internet. «È stata la mia salvezza. Mi hanno aiutata i siti delle associazioni dei pazienti come Mamme online o Cerco un bimbo.
Lì nei forum ho potuto comunicare in via privata con varie donne che l'avevano fatto». Quando il centro le ha comunicato i risultati del pick up (il prelievo degli ovociti), Daria era già pronta. «Mi hanno detto che si erano formati tre embrioni belli e vitali. Sono corsa al centro con la diffida in mano. I medici ne hanno preso atto, anzi sembravano quasi sollevati, e mi hanno trasferito solo due embrioni. L'altro è stato congelato». Purtroppo poi è arrivata la delusione. «Non sono rimasta incinta — spiega la ragazza — ma non mi pento della mia scelta. Ho preferito così piuttosto che correre il rischio. So di gente che in questi casi ricorre all'aborto selettivo. Ora sapere di avere un embrione che mi aspetta mi dà tranquillità. Spero di andare a riprendermelo entro l'anno».

Corriere della Sera 7.9.07
Canfora contro Holland sulla idea di «guerra santa»


MANTOVA Non uno scontro, come forse qualcuno si aspettava, ma neppure un dibattito: a un certo punto Luciano Canfora ha paragonato Tom Holland a un «anacoreta nel deserto», per evidenziare una certa attitudine dello scrittore inglese a lunghi monologhi che non favorivano il contraddittorio («faccio un piccolo intervento per vivacizzare un po' questa densa dottrina» ha detto ironicamente lo storico a sottolineare una certa stanchezza del pubblico). In ogni caso l'incontro (che soffriva della mancanza di un moderatore) sul tema della «guerra infinita», evento numero 20 ieri al Festivaletteratura, ha rivelato l'inconciliabilità delle interpretazioni storiche dei due protagonisti. Canfora, che mercoledì sera con Gian Antonio Stella e Giovanni Sartori aveva tenuto desta l'attenzione di circa mille persone sul tema della democrazia, ieri ha faticato non poco a trascinare Holland in quello che doveva essere il cuore della discussione e cioè se, come sostiene lo scrittore inglese nel suo libro «Fuoco persiano» (Il Saggiatore), il primo scontro di civiltà tra Oriente e Occidente sia avvenuto 2500 anni fa con le guerre persiane («Il re Dario che incita a distruggere i nemici è il primo esempio di guerra santa», ha esemplificato Holland).
Una tesi che Canfora ha ribadito di non condividere, perché basata su «concetti senza fondamento» come il fatto che la tirannide sia un modello politico tipico dell'Oriente «invece l'hanno inventata i Greci, e Sparta per Hitler era lo Stato razziale perfetto »). A Holland, che ammette di rielaborare le fonti storiche per vivacizzare il racconto, Canfora ha rimproverato una certa genericità, contraddicendo quasi ogni sua affermazione. «A me piace citare gli episodi storici, le date, i luoghi. Invece si torna sempre su quella dicotomia perché funziona da un punto di vista ideologico. Lo sforzo da compiere è liberarsi dai cliché».

Repubblica Firenze 7.9.07
Il desiderio ultima scoperta
di Luce Irigaray


La filosofa e psicanalista, pioniera delle pari opportunità, sarà domani a Carrara al festival "Con-vivere". I temi di questo intervento sono sviluppati nel libro "Oltre i propri confini" che uscirà il 2 ottobre per Baldini Castoldi Dalai

Ci troviamo oggi, come all´origine della nostra cultura, a doverci misurare con l´impegno di ripensare che cos´è l´umanità in quanto tale. Dobbiamo ormai considerare l´umanità come una specie vivente capace di desiderio. Dobbiamo dunque preoccuparci di sopravvivenza dell´umanità - in particolare preoccupandoci dello squilibrio del nostro ambito vivente, del nostro pianeta - e dobbiamo entrare in un´epoca storica in cui non sono solo i bisogni che regolano i rapporti fra cittadini, fra cittadini e cittadine, ma il desiderio.
Provvedere a una cittadinanza basata non solo sui bisogni, ma sui desideri, significa pensarla a partire dalla stessa umanità e con la sua crescita in vista. L´umanità si distingue da altri regni, in particolare dall´animalità, grazie a un certo modo di entrare in relazione che non è determinato solo dall´istinto, tutte le forme d´istinto: sessuale in senso stretto, ma anche di riproduzione, di possessione, di dominazione o sottomissione. Dobbiamo scoprire un modo di essere in relazione che non sia basato sulla soddisfazione dell´istinto, né su un piacere perverso.
Rispettare l´altro in quanto altro dovrebbe rappresentare il primo impegno per compiere la stessa umanità. Non voglio dire con questo che dobbiamo tornare a una sorta di dovere astratto imposto a noi da una morale universale. In questo caso restiamo senza relazioni vive fra di noi, ubbidendo ad una legge, civile o religiosa, imposta a noi dall´esterno. Parlo piuttosto della scoperta di un divenire umano come relazione all´altro in cui si mantiene il due che diviene così fonte di una nuova cultura e di una nuova cittadinanza, di una nuova fonte di vita per l´umanità. Ripartire sempre da due, nel rispetto l´uno dell´altro, è un modo di cominciare a risolvere concretamente i problemi di coesistenza fra le culture, le generazioni, i sessi. Certo si può pensare direttamente qui alla differenza fra i sessi, perché sono solo due, questi due rappresentano la sola differenza realmente universale, che ci costringe ogni momento ad articolare le relazioni fra natura e cultura, naturalezza e civiltà. Quando ho dedicato il mio libro "Amo a te" a Renzo Imbeni, e quando, tante volte, l´ho presentato con lui ad un pubblico misto, la mia intenzione era di offrire alla gente l´esperienza di un nuovo paradigma democratico.
Ho voluto non solo parlare di questa possibilità, ma praticarla pubblicamente attraverso sia la pubblicazione di un libro, sia la messinscena della sua presentazione in due, nel rispetto della nostra differenza. Questa differenza non era solo sessuale, e non era solo una. Eravamo differenti per via della nostra appartenenza nazionale e linguistica, per via della nostra formazione intellettuale e anche delle nostre scelte politiche.
La reazione della gente ha confermato che la differenza sessuale era la più fondamentale, quella a cui la gente era più attenta. Ma molti e molte si sono sbagliati quando hanno considerato la mia relazione con Renzo Imbeni come una tradizionale relazione amorosa. Certo, esistevano rispetto, amicizia e stima fra di noi, ma la dimensione che regolava la nostra relazione era prima di tutto una coesistenza civile rispettosa delle nostre differenze. Non siamo mai stati l´uno per l´altro individui neutri e astratti, e nemmeno individui sottoposti soltanto a differenze secondarie come sono l´appartenenza ad un paese, una lingua, un partito, eccetera. Questa verità della nostra relazione è servita sia al suo lavoro sia al mio, ma ci ha anche resi più fecondi verso il pubblico, in particolare il pubblico giovanile. La differenza fra i sessi è il cardine fra la vita privata e la vita pubblica e ne assicura il collegamento. A partire da essa possiamo cambiare sia l´una che l´altra allo scopo di raggiungere una nuova tappa del nostro divenire umano, verso una maggiore giustizia e felicità. La differenza sessuale non concerne solo aspetti un po´ vergognosi del nostro essere umani, da nascondere nella casa di famiglia e da riscattare grazie alla riproduzione dei figli. E´ tutt´altro. Essa è la base reale, vivente e dinamica di ogni relazione umana. Oltre al fatto che la differenza sessuale ci permette di compiere una nuova tappa nella conquista della nostra identità umana. Una tappa orizzontale in cui uomo e donna si aiutano a proseguire nella loro individuazione grazie alla loro relazione nella differenza. Rimanendo fedeli ciascuno e ciascuna a se stessi, e rispettando la differenza dell´altro, uomini e donne acquistano poco a poco la propria identità, un´identità ormai differenziata dalla semplice genealogia: da parte dell´uomo rispetto alla madre, da parte della donna rispetto al figlio (per alludere in modo un po´ caricaturale alle rispettive posizioni). E´ una nuova tappa nel compimento dell´umanità in rapporto a culture e regimi politici, di fatto basati sull´istinto, sessuale o procreativo, e i loro sostituti. Questa tappa necessita che esista una cultura del desiderio. Abbiamo bisogno di questa tappa per proseguire nel divenire della nostra umanità. La soluzione dell´individuo neutro e astratto non può essere d´aiuto per questo compito e la soluzione del separatismo fra i sessi neppure. Forse esse hanno rappresentato un periodo di transizione, di ripiegamento su se stessi, utile per potersi confrontare con l´impegno di entrare in relazione con l´altro/a nel rispetto della differenza fra i due, in particolare della differenza sessuale - sessuata - che è allo stesso tempo naturale e culturale. Questo atteggiamento richiede una crescita nel rapporto con noi stessi e con l´altro, gli altri. Richiede pure un cambiamento del nostro essere, dei nostri valori.
Una simile crescita ci è imposta oggi per diversi motivi. Certo l´uscita della donna dall´ambito familiare, la sua emancipazione dalla tutela statale, religiosa, familiare è uno di questi. Ma ci sono anche altri motivi: solo grazie al nostro desiderio nella differenza potremo usare tecnologie senza diventare loro schiavi. Abbiamo bisogno di disporre di una logica diversa rispetto a quella delle macchine, compreso il computer. Abbiamo bisogno di una logica che non sia definita fuori da noi, ma che si crei nella stessa relazione fra di noi. Una logica, un linguaggio in cui entrino il mistero, il silenzio, la creazione, l´imprevisto. Una logica e un linguaggio in cui l´arte sia più importante delle regole, comprese le regole morali, imposte dall´esterno. Una logica che ci regali energia invece di prendercene. Oltre al fatto di assicurare la nostra sopravvivenza, il desiderio ci dà un supplemento di vitalità che possiamo utilizzare per fare un passo di più nella conquista della nostra umanità al posto di scaricarla in un fare l´amore tanto più irrispettoso delle persone, del due, quanto infelice, e il cui unico scopo valido diviene fare figli e non quello di entrare in relazioni più intime, direi più personali e umane con l´altro.
Abbiamo bisogno di una cultura del desiderio anche per accedere a una società multiculturale democratica. Questo non può realizzarsi solo grazie a congressi fra i politici. Dipende innanzitutto da nostri gesti quotidiani nei confronti di ogni altro che incontriamo ad ogni momento della giornata, e anche della notte. Dipende dalla nostra capacità di rispettare il due, cioè di essere attenti alla differenza dell´altro rimanendo pure fedeli a noi stessi. A poco a poco creiamo così fra di noi un nuovo mondo, una nuova cittadinanza e cultura, un nuovo essere umani.
Come strumento a nostra disposizione abbiamo il nostro desiderio. Il desiderio nasce nella e dalla differenza. Dobbiamo coltivarcela con ogni altro per sostenere il nostro desiderio. E´ un modo nuovo di con-vivere di cui necessitiamo oggi.

giovedì 6 settembre 2007

Liberazione 6.9.07
In una intervista a Repubblica il ministro degli Interni sposa la nuova deriva di "law and order" che pervade ormai tutto il Piddì. Obbiettivo: tranquilizzare i futuri possibili elettori che ogni elemento di sinistra è stata estirpato e che l'Ordine, quello illusorio e finto, regnerà nel paese
Il ministro Amato sbeffeggia la sinistra cavalcando la destra e la repressione
di Rina Gagliardi


Al contrario di parecchi suoi colleghi del Pd, Giuliano Amato è una persona colta e intelligente. Ma in certi casi l'intelligenza e la cultura sono un'aggravante: come nell'intervista che il ministro dell'Interno ha concesso ieri alla Repubblica. Sollecitato da un intervistatore, se possibile, più a destra di lui, Amato spara a zero sulla sinistra, la riempie di insulti arroganti, insomma la fustiga - mentre, naturalmente, si guarda bene dal dire qualche cosa di sensato nel merito, cioè sui temi in discussione. I temi agostani della "lotta alla microcriminalità" e all'illegalità, della "sicurezza", del così detto "degrado urbano" e del "pacchetto" di provvedimenti che il governo presenterà, pare, tra qualche settimana. Una volta di più, si conferma il carattere fortissimamente ideologico, ma anche e soprattutto strumentale e bassamente demagogico, della linea sicuritaria imboccata dal nuovo partito in fieri: di qui al 14 ottobre, non faranno altro che "accarezzare" le pance dell'elettore medio, solleticarlo nelle sue paure e nel suo bisogno di messaggi simbolici forti, garantirgli che nel Partito democratico la pianta della sinistra è stata estirpata per sempre. E poi? E poi, si può star certi, tutto resterà come prima, a parte qualche lavavetri o graffitaro in galera.
Forse consapevole del fatto che sono loro - governo, Pd, sindaci-sceriffi - i veri venditori di "merce contraffatta", Amato tenta di passare al contrattacco e alza i toni. Se il Leonardo fiorentino aveva agitato Lenin, come ispiratore storico della caccia ai lavavetri romeni, il Dottor sottile estrae dal suo zaino di citazioni nientemeno che Antonio Gramsci, come massimo teorico del "diritto e della legalità" (ndr. intanto i due grandi dirigenti rivoluzionari si stanno rivoltando nelle loro tombe). Poi, taccia le posizioni critiche, e perfino le perplessità sulla scelta del "law and order", di essere il frutto di un "dibattito burattinesco", di "banalizzazioni sociologiche", di "irresponsabilità". Infine, si mette a polemizzare con i fantasmi della sociologia, cioè con chi (chi?) avrebbe detto che "la colpa (dei crimini) è sempre della società" . Qui, davvero, sembra proprio di tornare all'Ottocento, ma nel senso che Amato, che sarebbe un socialista, si sdraia sulle posizioni dei conservatori (di allora e di oggi) per spiegare che, quando una persona commette un crimine o un reato, la colpa è indiscutibilmente sua - di quella persona, di quell'individuo. Altro che banalità sociologiche: siamo alle banalità reazionarie, alla propaganda d'accatto. E alla malafede. Nessuno, a sinistra, oggi, giustifica o glorifica la "microcriminalità", nessuno fa apologia dei comportamenti illegali, nessuno si è sognato di dire o di proporre un'amnistia generalizzata, o un trattamento di favore, per i poveri "che delinquono", come si usa dire. La questione è tutt'altra e l'ha ben detta il ministro Ferrero: buttare in un unico calderone criminale i mafiosi e i graffitari, le lucciole e i gestori di racket, i ladri incalliti e i mendicanti, gli alcolisti e i camorristi "significa alzare un polverone", e nient'altro. Significa - diciamo noi - una bestialità culturale, politica, umana. Significa leggere il mondo, e pensare di governarlo o anche semplicemente di amministrarlo, sotto una sola ottica: l'Ordine con la O maiuscola, che è poi per larga parte una finzione, un'illusione. Dietro il culto dell'ordine, c'è notoriamente l'indifferenza radicale alla soluzione effettiva dei problemi: l'importante è non vederli, sottrarli alla percezione e al fastidio dei cittadini perbene, come quando si mette la mondezza sotto i tappeti - o si confina il Male (il Disordine) da qualche altra parte, nelle catacombe di Metropolis o nelle città sotterranee del crimine della Francia di Angelica.
Secondo: e la macrocriminalità? Quella vera, delle multinazionali mafiose della droga, del commercio di esseri umani, delle armi che seminano morte e guerre, del traffico di organi, dei mille racket che strozzano il Sud, dell'illegalità finanziaria, delle faide a colpi di morti ammazzati, del sudiciume in cui sprofonda la civilissima città di Napoli? Quella di cui parlava, accorato e inascoltato, il governatore della Calabria Loiero? Quella che fa fatturati da centinaia di miliardi di euro, da fare invidia al bancarellaro pakistano sotto casa mia? Alla questione della scelta delle priorità - che in politica è una questione principe - Amato risponde infastidito: fa le spallucce, e sparge un sarcasmo francamente del tutto fuori luogo. Non può dire, certo, che su questi fronti, la questione è "difficile, complessa, di lungo periodo" - potrebbe agevolmente essere accusato di parlar d'altro, o di fare troppa sociologia. Non può ammettere che l'impegno del governo non appare alla fin fine così prioritario - neppure sul terreno della lotta ai racket, visibilmente ritenuta del tutto secondaria, al punto che non si capisce a chi spetti davvero questo compito. Non può dire neppure la verità: che è tanto più facile, ed elettoralmente redditizio, cacciare in galera uno che sporca i muri, piuttosto che un boss della ‘ndrangheta. Perciò un po' si arrampica sugli specchi, un po' se la piglia con la "criminalità romena", un po', ancora, con i migranti, infine conclude che è la sinistra, in ogni caso, a non capire niente.
La sinistra moderata, che malinconia. Siamo passati da un dibattito in cui ci si misurava sulla dose necessaria, possibile e auspicabile di trasformazione sociale, sui mezzi da mettere in campo, "riformisti" o "rivoluzionari", sui compromessi accettabili e sulle "compatibilità" invalicabili, a un confronto, giust'appunto ottocentesco, sull'esistenza stessa di questa nozione. Inutile che Amato ci giri intorno: non la singola vicenda della "sicurezza", non idee assurde (speriamo decadute) della "questua molesta" da punire mandando i questuanti in un campo di lavoro, non la voluttà di città "ordinate" e "tranquille" dove nessuno disturba, ma l'idea generale di società e di Stato che sta dietro queste specifiche campagne è quella che contiene uno slittamento culturale profondo, verso la destra - verso l'antica prassi del "sorvegliare e punire" soltanto i più sfortunati. Stato minimo nell'economia e nella protezione sociale, Stato massimo nelle politiche d'ordine, forte con i deboli e debole con i forti. Società civile come "natura", dove si compete per vincere, e qualcuno ce la fa, mentre i più restano sul tappeto. La destra, oggi, cos'altro è?

Liberazione 6.9.07
I continui attacchi alla legge e i calcoli politici
Aborto e 194: sono ipocrite le affermazioni di Ruini
di Ritanna Armeni


Il cardinale Ruini l'ha detto a chiare lettere: è doveroso modificare la legge 194. Non è il solo. Periodicamente in Italia la legge che ha sconfitto l'aborto clandestino e che è stata confermata da un referendum, viene attaccata e se ne chiede la modifica. Naturalmente tutti parlano e auspicano un miglioramento e tutti sanno, invece, che ogni modifica non può che essere un peggioramento. E allora, a scanso di equivoci e di ipocrisie, precisiamo alcune poche cose.
La legge 194 ha un grande merito. In trent'anni ha ridotto di quasi il 50 per cento gli aborti. La fuoriuscita dalla clandestinità, i consultori, la discussione politica e culturale di quegli anni hanno portato ad una consapevolezza e ad una cultura femminile che ha drasticamente ridotto quello che viene ritenuto ed è un dramma e una violenza. Una modifica migliorativa, se davvero tale, non può che essere nel senso di una ulteriore riduzione degli aborti e nel senso di un ulteriore aiuto e protezione della donna che è costretta o ha scelto di abortire. Altrimenti siamo di fronte ad un peggioramento.
In questi giorni nelle sale cinematografiche si può vedere un film bello e durissimo. Si chiama: "Quattro mesi, tre settimane, due giorni". Racconta dell'aborto clandestino di una giovane donna alla fine degli anni '80 nella Romania di Ceaucescu. Alla fine del film la macchina da presa si ferma per lunghi secondi sul feto espulso. Un'immagine cruda, irreggibile su cui si è concentrato gran parte del dibattito sul film, ma che è solo la conclusione di una storia di violenza che si abbatte sulle due protagoniste. Quel film non è un film sul feto, ma ricrea perfettamente l'angoscia, la durezza, la sensazione di non aver scampo, di non avere altra scelta se non la distruzione di sé e degli altri che l'aborto inevitabilmente provoca. Siamo nella Romania di Ceaucescu, ma protremmo essere nell'Italia degli anni '50 o, per molte immigrate, che non conoscono le leggi, nell'Italia di oggi. Consiglio la visione di quel film per avere le idee chiare quando in futuro parleremo ancora della modifica della legge 194. Deve essere chiaro che una donna non si deve mai più trovare, per nessuna ragione, nella condizione in cui si trovano le protagoniste di quel film e in cui si sono trovate molte donne italiane prima della legge che ha consentito loro la fuoriuscita dalla clandestinità.
Invece chi chiede la modifica della 194 e parla di un suo miglioramento perché la legge è vecchia, vuole far tornare le donne in quella condizione o in una condizione molto simile a quella. Perché non eliminiamo l'ipocrisia e non diciamo le cose come stanno? Perché si preferisce parlare di miglioramenti o adeguamento alle tecnologie? Chi vuole cambiare la legge che trent'anni fa legalizzò l'aborto chiedendo una revisione dei tempi e di nuove norme sull'aborto terapeutico, intende ripristinare un controllo, attuare una repressione, cancellare la scelta della donna. Se davvero oggi si ritenesse opportuno usare gli strumenti che la scienza mette a disposizione si potrebbero evitare alcuni aborti terapeutici intervenendo sull'embrione malato. La legge 40 che il centrodestra ha approvato e che la chiesa ha sostenuto non lo ammette. E allora? Perché lamentarsi, criticare e attaccare il ricorso all'aborto?
La verità è un'altra. Chi è pronto a sferrare il suo attacco alla legge 194 pensa di avere in mano un'arma che trentanni fa non aveva. E pensa di poterla usare. Oggi chi ha meno di 40 anni non ha vissuto le angosce della clandestinità. L'interruzione di gravidanza negli ospedali pubblici in Italia è fortunatamente una dato acquisito. Ma proprio questo potrebbe creare un'indifferenza e un'ignoranza. Il fatto poi che l'aborto oggi riguardi sempre di più le donne meno istruite e soprattutto le immigrate, nel clima di "caccia agli ultimi" che dilaga in questa fine estate potrebbe aggravare la situazione. Su questo punta il cardinale Ruini e chi la pensa come lui. Del resto un politica simile ha già dato i suoi frutti poco più di due anni fa al referendum sulla legge 40, quando lo stesso Ruini invitò a disertare il voto puntando proprio sull'indifferenza e sull'ignoranza. Si può ricreare una situazione simile? Sì, si può ricreare se non si smaschera l'ipocrisia di certe affermazioni e se si dimentica troppo facilmente.

Liberazione 6.9.07
Spinoza, gioia e libero pensiero contro il fondamentalismo
Nei Meridiani di Mondadori il volume delle opere complete del filosofo olandese. Al centro del suo pensiero c'è un Dio che non gode delle sofferenze umane e una esaltazione della vita a discapito della morte
di Roberto Gigliucci


In questi tempi di fondamentalismo, di dileggio della laicità autentica, in questi tempi di nostalgia della supremazia religiosa, in questi tempi di furia teologica e smania impositiva dell'assoluto, in questi tempi di mitografie del relativismo e calcografie del divino, in questi tempi in cui le chiese occidentali odiano e invidiano le franche e brutali teocrazie orientali, in questi tempi di fustigazioni in piazza dove l'uomo viene umiliato anche mediaticamente, in questi tempi di crociate contro la libertà dello stato, contro il diritto alla salute alla vita e infine alla morte, in questi tempi in cui l'essere fuori di una chiesa torna ad essere sinonimo strisciante di empietà, in questi tempi soprattutto di teocon, teodem e laici devoti, in questi tempi in cui la religione è uno strumento ideologico in mano alla politica e in cui la religione vuole fare ed essere politica, in questi tempi di imposizione di Dio a Cesare e di Cesare a Dio e di vortici furibondi di Dio e Mammona, in questi tempi in cui un severo porporato e un fegatoso padano possono trovarsi paradossalmente uniti nell'esigenza di non pagare le tasse allo Stato, in questi tempi in cui si è liberi di essere atei e omosessuali, ma a prezzo del disprezzo di gran parte della comunità, in questi tempi in cui l'invocazione di radici cristiane serve solo a sradicare altre presunte male piante, in questi tempi in cui l'occidente è maggiormente anticristiano spesso proprio dove rivendica il suo essere cristiano e l'oriente è anti divino e antiumano proprio dove crede di percorrere con la sofferenza altrui la scala al paradiso, in questi tempi in cui la religione è più scontro tra l'identico e il diverso che non amore per gli uomini e itinerario della mente a dio, in questi tempi che viviamo è di grande rilievo leggere o rileggere Spinoza.
Ce lo permette ora magnificamente un "Meridiano" Mondadori della serie "Classici dello Spirito", dove possiamo avere in un unico volume peraltro di estrema eleganza tutte le Opere del filosofo di Amsterdam, curate da Filippo Mignini, con traduzioni e note dello stesso e di Omero Proietti. Gli apparati sono straricchi, di indubbia perspicuità e di un livello di specializzazione rimarchevole. L'introduzione, un saggio dal titolo "Un segno di contraddizione", definisce l'articolazione del pensiero spinoziano e riassume la ricezione dello stesso in modo esemplare. La cronologia, come spesso nei "Meridiani", è una ricostruzione biografica e speculativa minuziosa, e si legge con un piacere narrativo-intellettuale fortissimo. La cura filologica è puntigliosa, anche in assenza dei testi in lingua originale, con una discussione dei termini chiave e dei luoghi testualmente infidi sempre piena di acribia. Le traduzioni sono frutto di strenua riflessione sulla lingua di Spinoza, soprattutto sul suo latino talora idiosincratico, talora pregno di riferimenti alla classicità (Seneca ma anche Terenzio, ecc.), alla scolastica, alla nuova filosofia cartesiana, a certi andamenti sintattico-argomentativi "moderni", ad esempio machiavelliani e hobbesiani, e con forme che fanno pensare a modelli e moduli linguistici ebraici e neerlandesi.
L'annotazione è fondamentale per la comprensione anche da parte di un lettore non specialista. La bibliografia, oltre 60 pagine, è densissima. Le introduzioni ai singoli testi e il finale Indice degli argomenti permettono un percorso agevolato nella filosofia di Benedetto Spinoza, che voleva essere chiara per tutti ma si presta - e si prestò da subito - a misinterpretazioni formidabili.
Le motivazioni per cui è salutare oggi rileggere tutto Spinoza, anche e particolarmente le sue lettere in cui egli si difende dalle accuse e chiarisce i punti problematici della sua dottrina, sono tante. Potremmo sottolineare la sua teologia e antropologia ispirate alla gioia e alla vita: Spinoza non è per un dio che goda delle sofferenze umane né per una filosofia come meditazione della morte, piuttosto come meditazione della vita; non sceglie la tristezza, che è impotenza, ma la felicità, che è virtù premio a se stessa. Potremmo indicare la decostruzione analitica di pregiudizi umani che con serenità e mitezza Benedetto, ovvero Baruch, ovvero Bento compie soprattutto nella sua Ethica , un libro in cui Goethe trovò l'acquietamento delle passioni e lo «sconfinato disinteresse» che animava ogni proposizione.
Potremmo enfatizzare la piega costruttiva e solidale che prende in Spinoza l'originario pessimismo antropologico di Machiavelli e - diversamente - di Hobbes, cioè insistere sulla natura del suo particolare "utilitarismo" sociale ispirato ai principi cardine di carità e giustizia. Potremmo riproporre la corretta esegesi spinoziana per cui l'apparente immanentismo-materialismo disperante si risolve in una solida e luminosa certezza che l'equivalenza perfezione=realtà non è una difesa del male e di ogni deriva ma anzi una strada che porta l'uomo dotato di ragione e intelletto alla beatitudine. Potremmo dipingere ancora quest'uomo dagli occhi grandi e dolci e dalla pelle olivastra, basso di statura e di fluente capigliatura, morto di tisi a 45 anni, sereno per lo più e gentile, in fuga da ogni contrasto violento, eppure oggetto già in vita di scomunica, di persecuzione e di attacchi virulenti (sfuggì al carcere e alla condanna a morte fondamentalmente per la sua accortezza, la sua vita tranquilla, separata e sdegnosa di polemiche e provocazioni). Potremmo scrivere di questo e di altro, ma ci limitiamo a un invito alla lettura, che con questo "Meridiano" è ora una possibilità davvero nutriente.
Tuttavia, in questo momento storico di compromissione delle libertà e di esasperazione dei conflitti, come si diceva, mi limito a ribadire la celebre difesa che Spinoza compie nel Tractatus Theologico-Politicus del libero pensiero. In quel testo così limpido e vituperato, Spinoza compie primariamente una distinzione tra teologia e filosofia, tra fede e ragione: l'una non è a servizio dell'altra e viceversa, ma l'una non è in contrasto con l'altra, e questo è determinante. I guai nascono quando i due regni si mescolano. Ecco che per Spinoza i principi della carità e della giustizia devono reggere l'esercizio del potere, cui l'obbedienza è quindi obbligatoria, purché sia un potere appunto giusto e solidale (Spinoza preferisce la democrazia alla monarchia e all'aristocrazia: fu dalla parte della repubblica olandese fino alla caduta in mano agli Orange nel 1672).
E' la ragione a richiedere giustizia e carità, per cui Spinoza arriva a sentenziare: «Dio non ha alcun regno particolare sugli uomini, se non per mezzo di chi detiene il potere». Esito davvero radicale, ma che deve essere accettato da chi creda nel valore dell'uomo come animale sociale capace di regolarsi con giustizia e carità, oltre che di rapportarsi, se crede, a Dio con fede e obbedienza. Si giunge così al capitolo ventesimo del Tractatus , dove si dimostra che «in uno Stato libero è lecito a ciascuno sentire ciò che vuole e dire ciò che sente». Naturalmente Spinoza fa eccezione per le opinioni "sovversive" che vogliano distruggere il patto di solidarietà su cui si fonda lo Stato. Al di là di questo, ogni coercizione del potere sulla libertà del pensiero è inutile e distruttiva. E la libertà di pensiero non entra in urto con la necessaria obbedienza alle leggi. Come dire: possiamo credere in Dio ma non imporlo con la forza a tutti, e comunque dobbiamo pagare le tasse.

Liberazione 6.9.07
Ha ragione Tarantino e torto Della Loggia: i nostri film non valgono più perché non producono immaginario, temi personaggi che possano essere condivisi da tutti. Negli anni 60 e 70 giravano con successo il mondo
Il cinema italiano orfano delle revolverate di Leone
di Douglas Mortimer*


Quando al Festival di Cannes Quentin Tarantino ha proclamato la morte del cinema italiano in realtà ha buttato benzina su un fuoco che covava ormai da almeno venti anni. La sollevazione critica che ne è seguita, un po' provinciale e un po' schiacciata sulla vecchia polemica apocalittici vs integrati, è partita da una annosa incapacità di ascolto. In fondo, nella sua precisazione Tarantino si è limitato a dire che il cinema italiano attuale lui non lo conosce, non gli arriva, non viene distribuito. Il che non significa che non ci siano bravi registi ma che i temi che trattano, i personaggi e le storie che inventano semplicemente non interessano più gli spettatori a meno che non siano italiani. Il punto di vista che il nostro cinema esprime sul mondo è divenuto ormai solo italiano, intimista e autoreferenziale, minimalista, isolato e provinciale. I linguaggi, i codici simbolici, l'immaginario che rivela svaniscono di fronte agli orizzonti del mondo.
E' soprattutto qui che si trova la grande differenza tra il cinema di oggi e quello degli anni 60 e 70. In quel ventennio il cinema italiano (e qui Tarantino ha tutte le ragioni) grazie soprattutto all'invenzione o reinvenzione di alcuni generi di massa (commedia all'italiana, peplum, western, poliziesco, mondo movies), e a parte i geni isolati che la cultura italiana ha sempre prodotti e continua a produrre, offriva al mondo un intero immaginario capace di leggere la realtà sociale di quel periodo al livello globale. I film erano distribuiti ed avevano successo in ogni angolo del pianeta. Il punto di vista italiano serviva a leggere e codificare conflitti sociali che si accendevano in ogni luogo. L'immaginario, i temi e i personaggi che produceva potevano essere condivisi da tutti: da un americano come da un neozelandese, da un coreano come da un francese, da un giapponese come da uno spagnolo.
E' questo il fenomeno che bisogna spiegare: l'incapacità che ha oggi la cultura italiana (non solo il cinema) di produrre modelli simbolici di lettura della realtà esportabili anche all'estero. Secondo Ernesto Galli della Loggia (Il Corriere della sera) la crisi del nostro cinema si deve alla parallela crisi delle ideologie politiche di massa, all'allentamento del fortissimo rapporto tra intellettuali e politica e quindi all'incapacità odierna del popolo italiano di raccontarsi e di autorappresentarsi. Galli della Loggia si avvicina al problema ma poi sbaglia clamorosamente il bersaglio. Gli intellettuali tentano anche oggi di fare politica e il cinema italiano si sforza ancora di rappresentare la nostra società: il problema è che ciò avviene nell'indifferenza più totale, in Italia come all'estero.
Ciò che è mutata allora è l'intensità e l'ampiezza del conflitto sociale che, rispetto a trent'anni fa, non sa più tradursi in un linguaggio politico di massa. Negli anni Sessanta e Settanta, con buona pace di Galli della Loggia e del suo orrore per il disordine, l'Italia era veramente un laboratorio politico. E lo era proprio perché era il primo paese occidentale in cui la forza delle grande ideologie si scontrava in maniera drammatica con i nuovi linguaggi del consumo. Dentro il processo di modernizzazione delle società occidentali, la differenza italiana stava proprio qui, in questo connubio di cultura politica di massa che produceva senso comune e agire consumistico che indirizzava e frantumava questa radicalità sociale fino a portarla al livello individuale. Una miscela esplosiva che in Italia si manifestò in maniera più violenta e duratura rispetto agli altri paesi e che aveva bisogno di nuovi linguaggi e codici per esprimersi.
Ciò che sono venuti a mancare oggi non sono gli intellettuali ma culture politiche di massa che hanno bisogno di raffigurare simbolicamente il conflitto e che utilizzano il cinema come principale strumento di questa raffigurazione. Un cinema ovviamente di massa, non d'autore. Ecco perché a posteriori e da ogni parte si comincia a riconoscere che il vero grande apporto creativo che diede il cinema italiano di quegli anni non risiede tanto nel cinema "alto" con i suoi intellettuali, ma in quello di "genere", con il suo nichilismo e con la sua violenza, come il western, l'horror e il poliziesco: quello che offriva al mondo non erano tanto i silenzi di Antonioni ma le revolverate di Leone (che tra l'altro non appariva per niente estraneo agli sperimentalismi: i lunghissimi primi piani, anch'essi sprofondati nei silenzi più estremi e imbarazzanti). La società italiana si raccontava identificandosi in cinici avventurieri, crudeli psicopatici, spietati bounty killer o violenti giustizieri. Dal cilindro fuoriuscivano molteplici modelli simbolici funzionali alla rappresentazione di nuove forme di conflitto sociale, di agire antistituzionale e deviante che di lì a poco avrebbero invaso le principali metropoli occidentali: conflitti brutali, irriducibili, estetizzati (si pensi al Kubrick di Arancia meccanica).
Prima ancora che il cinema d'autore, quello che rastrellava decine di premi a Venezia o Cannes, ciò che è scomparso in Italia è, dunque, un cinema di massa capace di produrre un immaginario globale. E allora non si può che dare ragione a Tarantino quando afferma che una grande industria cinematografica non può reggersi solo sul cinema d'autore ma ha bisogno di un cinema popolare e di genere.

*Douglas Mortimer è uno pseudonimo dietro il quale si riconosce un gruppo di studiosi. Ha pubblicato nel 2006 per l'editore DeriveApprodi "Possibilmente freddi. Come l'Italia esporta cultura" (1964-1980)

Repubblica 6.9.07
La sperimentazione ci dirà se servono
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza


Dalla caprecora alle staminali, quarant'anni di sperimentazioni ai confini dell´etica
E ora solo la ricerca ci dirà se servono ma certo non vedremo un minotauro
La soluzione britannica riapre strade oggi chiuse alla scienza per ottenere nuove terapie

NELLA mitologia greca, la Chimera era un essere mostruoso, descritto dai poeti con testa di leone, corpo di capra e coda di drago, che dalla bocca vomitava fiamme. In biologia, si parla oggi di una chimera per indicare un individuo composto di genomi diversi, il cui Dna cioè comprende sequenze che provengono da più di una specie. Vi sono vari modi per ottenere questo, per cui "chimera" è un termine molto ampio, che copre categorie assai diverse tra loro. Un procedimento relativamente semplice, oggi parecchio utilizzato in campo farmaceutico, sta nell´inserire in un batterio uno o più geni, prelevati da un altro organismo, che permettono al primo di produrre determinate sostanze a noi utili.
Per esempio, l´insulina, necessaria nella cura del diabete, che fino a qualche decennio fa veniva ricavata dal pancreas di mucche, maiali o cavalli, viene oggi fatta produrre da batteri modificati in laboratorio, inserendovi il gene che codifica per l´insulina umana.
Con un procedimento più complesso, inserendo geni umani nel genoma di animali da laboratorio, come cavie e conigli, ma anche pecore, capre, maiali, è possibile produrre proteine umane (come l´ormone della crescita) a scopo terapeutico, raccogliendole dal latte o dal siero sanguigno, dall´urina o dallo sperma dell´animale donatore.
A un livello più semplice di questo, negli anni Sessanta si diffuse in Inghilterra un test di fecondità consistente nel fecondare cellule uovo di criceti con spermatozoi umani, per verificare la capacità di penetrazione degli spermatozoi: il test veniva arrestato una volta che lo zigote (la cellula risultante dalla fusione) iniziava a riprodursi.
Ad un estremo opposto di complessità, è possibile fondere non i gameti (le cellule riproduttive) ma gli zigoti di individui appartenenti a specie diverse: così, nel 1984, è stata prodotta una ‘caprecora´, che combinava gli embrioni di una capra e di una pecora. Con tecniche analoghe si spera di potere in un futuro salvare alcune specie dall´estinzione. Nel 2003, scienziati cinesi annunciavano di avere ottenuto, a Shanghai, ibridi di cellule umane e di coniglio, inserendo il nucleo di cellule somatiche umane all´interno di cellule uovo di coniglio private del proprio nucleo, e di avere lasciato che la cellula risultante si sviluppasse fino allo stadio di blastocisti (uno dei primi stadi dello sviluppo embrionale), cioè fino a formare una masserella di cellule, che furono poi utilizzate per la ricerca sulle cellule staminali.
La produzione di embrioni che rappresentino un vero e proprio ibrido fra uomo e animale è universalmente vietata dalle leggi - nei Paesi dove esistono leggi al riguardo - oltre ad essere condannata dal buonsenso. In Paesi avanzati dal punto di vista etico e legislativo, come la Nuova Zelanda, esistono anche precisi limiti alla sperimentazione su animali.
D´altro canto, la ricerca medica oggi ha bisogno di lavorare su cellule staminali, quali sono quelle degli embrioni nei loro primissimi stadi di sviluppo, perché si tratta di cellule dallo straordinario potenziale, in grado di generare tessuti ed organi. È una nuova frontiera di ricerca, da cui ci si ripromette non solo di acquistare una comprensione fondamentale del modo in cui da una cellula può nascere un intero organismo, ma anche vantaggi senza precedenti per la medicina: la possibilità, per esempio, di ricostruire in laboratorio tessuti danneggiati, o di fare crescere interi organi da trapianto nel corpo di un animale ospite; o di capire i meccanismi di malattie degenerative molto diffuse, che impediscono il corretto funzionamento delle cellule, e di studiare farmaci per contrastarle.
Per farlo però non è necessario creare embrioni umani transgenici, né tantomeno ibridi o embrioni/chimera, e le leggi in ogni caso vietano di stabilire, sia pure a soli fini di ricerca, linee cellulari che potrebbero, almeno in teoria, portare allo sviluppo di un embrione umano o ibrido animale/uomo, per cui si studiano strategie alternative.
L´Authority inglese preposta a valutare i procedimenti relativi all´embriologia e alla fecondazione umana (Hfea - Human Fertilization and Embriology Authority, http://www. hfea. gov. uk/), dopo alcuni anni di attente valutazioni e dopo avere condotto un´indagine, con interviste a campione, sugli atteggiamenti dei cittadini al riguardo, propone ora di autorizzare la produzione di linee cellulari che utilizzino il nucleo di una cellula somatica umana e una cellula uovo bovina privata del proprio nucleo.
La cellula risultante viene attivata con stimoli elettrici perché inizi il processo di riproduzione, e dalle linee cellulari che ne nascono si ricavano le varie cellule da utilizzare a fini di ricerca.
Con questo metodo sarebbe praticamente impossibile ottenere un embrione che dia origine a un individuo (una sorta di minotauro, in questo caso), perché le cellule così ottenute non hanno il potenziale per farlo. È una soluzione che potrebbe riaprire strade oggi precluse alla ricerca, soddisfacendo però i requisiti etici che vietano l´uso di embrioni umani.
Rimangono alcuni dubbi sull´effettivo valore di questa soluzione, che non potranno essere sciolti se non sperimentandola. Fra gli obiettivi che ci si ripromette vi è quello di trovare nuovi metodi per ricavare cellule staminali direttamente da cellule somatiche, senza bisogno di ricorrere a cellule uovo o ad embrioni, e quello di sviluppare modelli di malattie degenerative della cellula, quali disturbi motori di origine neuronale, diabete, morbo di Parkinson, Alzheimer, così da studiare terapie che permettano di trattarli.

Repubblica 6.9.07
La sinistra attacca Amato "Collegialità sulla sicurezza"
Il ministro:"Non svegliare la tigre della reazione fascista"
Mastella: per furto e rapina le stesse regole dei reati di mafia


ROMA - Il governo si divide anche sulla sicurezza, da una parte Prodi, Amato e Mastella, dall´altra la sinistra radicale. Sul pacchetto anticrimine e sull´intervista del ministro dell´Interno a Repubblica si arriva allo scontro duro in consiglio dei ministri. Alzano la voce Ferrero e Mussi, il premier è costretto a promettere decisioni collegiali future per tenere ben distinti i fatti criminali dalle conseguenze del degrado sociale. Nessuna misura capestro contro lavavetri e graffitari, ma norme severe contro scippi, furti, rapine, piromani e pedofili. Amato però tiene duro al punto da affermare: «Se fossimo così incoscienti da ritenere che la sicurezza non è un problema creeremmo le condizioni per una svolta reazionaria e fascista nel paese». Con un esempio assai indicativo: «Se mia moglie al semaforo viene messa nelle condizioni che o si fa lavare il vetro o viene aggredita non la devo proteggere? La devo far diventare fascista?».
Da Amato a Mastella la musica non cambia, anche se il Guardasigilli mette da parte i lavavetri e distingue nettamente «il piano sull´illegalità urbana» di Amato dal suo sulla criminalità. Mentre vola a Berlino dove incontra il collega della Giustizia tedesco Zypries (spunterà squadre investigative comuni e il magistrato italiano di collegamento), Mastella fa il mediatore: «A palazzo Chigi ho parlato con Ferrero e Mussi. Gli ho spiegato che scippi, furti, rapine, violenze sessuali hanno un forte rilievo criminale. Gli ho raccontato del ragazzo scippato a Napoli rimasto muto per tre anni e della vecchietta scippata col femore spezzato e senza pensione per un mese. Altro che degrado. Qui le vittime sono dei poveracci e la gente chiede solo una cosa: fermezza». Per questo Mastella annuncia che per i reati di grave allarme sociale scatterà la politica del doppio binario come per la mafia: custodia cautelare in cui il giudice, al contrario di quanto accade oggi, per rimettere in libertà l´imputato dimostri che non esiste pericolo di fuga, di reiterazione del reato, di inquinamento delle prove. Processo in 90-120 giorni, condanna, esclusione da qualsiasi misura alternativa, carcere senza sconti. Per tutti i reati sarà bloccato il patteggiamento in appello che «ha disincentivato pure i pentiti».
Sono d´accordo il segretario dei Ds Fassino («Le proposte di Amato corrispondono alla domanda di sicurezza della gente»), il ministro degli Esteri D´Alema («È nel dna della sinistra difendere la sicurezza») e il futuro leader del Pd Veltroni («Bene Amato sull´effettività della pena»), ma Rifondazione (Ferrero, Russo Spena, Migliore), Sinistra democratica (Mussi, Salvi e Leoni), Pdci (Palermi e Crapolicchio) e i Verdi (Bonelli) non si lasciano convincere e protestano duramente. Il ministro della Solidarietà sociale, escluso dal summit di martedì sulla sicurezza, considera le proposte «di destra e demagogiche». E Mussi (Università) dà un consiglio: «Non si può mettere tutto insieme, lavavetri, scippatori, stupratori, mafiosi». Pure Di Pietro, che non è contrario alle misure ipotizzate, sostiene che «è pura demagogia pensare che lavare i vetri possa essere considerato un reato». La via d´uscita? Come dice Mastella «ci vuole un confronto parlamentare e un dialogo con l´opposizione che, se i delitti sono tanti e i criminali sono in libertà, vuol dire che non ha fatto nulla. Scegliamo insieme le norme più urgenti e approviamole subito in commissione».
(l.mi.)

Repubblica 6.9.07
Se dio è un'illusione
Intervista / Il biologo Richard Dawkins ha scritto un manifesto dell´ateismo
di Piergiorgio Odifreddi


"Anche se la scienza da noi è nata in seno al cristianesimo non è detto che gli debba qualcosa"
"Da un punto di vista scientifico l´ipotesi di un Creatore mi appare molto improbabile"
"L'evoluzione per selezione naturale è un modo economico di generare la vita"
"In genere gli scienziati credenti sono religiosi nel senso astratto di Einstein"

Richard Dawkins è uno dei più noti divulgatori scientifici del mondo, soprattutto grazie a fortunate opere quali Il gene egoista (1976) o L´orologiaio cieco (1986). Nella prima egli difende l´idea, proposta nel 1872 dal vescovo Simon Butler, che i geni sono il mezzo di riproduzione degli organismi, e non viceversa. Nella seconda egli attacca invece l´idea, proposta nel 1802 dal vescovo William Paley, che se uno trova su una spiaggia un orologio biologico, deve per forza dedurre che è stato costruito da un orologiaio.
Come si può intuire fin dal titolo, un corollario di questa seconda opera è che la teoria dell´evoluzione fornisce una spiegazione sufficiente della nascita della vita, e rende superflua la fede: cosa su cui concordano anche i fedeli, che infatti attaccano questa teoria fin dal 1859. Non stupisce dunque che Dawkins sia un ateo professante, né che abbia scritto il potente manifesto ateo L´illusione di Dio, in uscita in questi giorni da Mondadori (pagg.408, euro 19) a proposito del quale l´abbiamo intervistato.
Lei usa la parola «religione» come sinonimo di «teismo». Non crede che dovremmo almeno distinguere le religioni teiste da quelle atee, ad esempio il Cristianesimo dal Buddhismo?
«Se definiamo una religione come un insieme codificato di valori o di regole di vita, allora lei ha certamente ragione: in questo senso, il Buddhismo è una religione che non crede in Dio. Ma io mi concentro su quelle che ci credono.
Forse perché le trova irrazionali? Eppure gli Stoici credevano, pur rimanendo perfettamente razionali.
«Lo loro era una fede di tipo naturalistico, e la stessa cosa si potrebbe dire dei Quaccheri o degli Unitari moderni. Ma, di nuovo, io concentro il mio attacco sulle religioni che hanno credenze soprannaturali».
Perché non si limita a decostruire la nozione di Dio, e vuole addirittura dimostrarne la non esistenza?
«Perché credo che l´ipotesi di un essere soprannaturale che ha creato l´universo, si possa formulare come una proposizione scientifica: in quanto tale, diventa allora passibile non soltanto di verifica, ma anche di refutazione. E la mia tesi è che, parlando da un punto di vista scientifico, questa ipotesi appare molto improbabile».
Non impossibile?
«No. Ma non lo sono nemmeno le fate, o il Mostro di Spaghetti Volante che è recentemente diventato popolare in Internet come parodia di Dio».
Lei usa l´evoluzionismo come arma antireligiosa, ma non crede che esso sia compatibile con la credenza in un Creatore che si limita a intervenire nel primo istante della creazione?
«Certo, ma sarebbe un Creatore ben diverso da quello della Bibbia o del Corano. Nel suo libro La creazione (Zanichelli, 1985), Peter Atkins discute cosa dovrebbe fare un Dio che volesse organizzare le cose in modo che la Natura potesse badare a se stessa e generare autonomamente la vita, e la sua conclusione è che non dovrebbe fare assolutamente nulla!».
Nemmeno «in principio»?
«Il «principio» è appunto il momento a cui Atkins arriva alla fine, dopo aver eliminato tutto il resto. Ma anch´io, come biologo, le posso dire che l´evoluzione per selezione naturale è un modo parsimonioso ed economico di generare la vita, che non necessita di alcun intervento divino».
Rimane ancora la possibilità di pensare a Dio come giustificazione del perché ci sono leggi della natura, e del perché sono quelle che sono.
«Questo lo trovo molto poco soddisfacente, in quanto lascia aperto l´analogo problema di giustificare allora perché c´è Dio, e perché è quello che è».
Lei usa l´evoluzionismo anche per spiegare l´esistenza delle religioni: non crede che la loro emergenza sia troppo recente, rispetto ai tempi lunghi necessari all´evoluzione?
«Questo è vero se parliamo di evoluzione biologica, e del tempo necessario a produrre un cervello che mostri una propensione per le religioni. Ma l´evoluzione culturale avviene molto più rapidamente, come mostra ad esempio il cambiamento delle lingue, o lo sviluppo della tecnologia: queste cose hanno una scala temporale di qualche secolo, ben compatibile con la millenaria storia delle civiltà che hanno sviluppato religioni».
A proposito di evoluzione culturale, molta gente ritiene che la scienza stessa sia un prodotto del pensiero cristiano.
«La scienza occidentale è sicuramente nata nel Rinascimento cristiano, ma questo non significa che debba qualcosa al Cristianesimo: anzi, si potrebbe argomentare che si sia sviluppata non grazie a, ma nonostante il Cristianesimo. E, comunque, non dobbiamo dimenticare le origini greche del pensiero scientifico. E nemmeno gli sviluppi in paesi non europei, soprattutto la Cina».
Visto che abbiamo cominciato a parlare del Cristianesimo, lei crede alla storicità di Gesù?
«La maggior parte degli storici ritiene che sia esistito, e io mi adeguo. Ma credo che Gesù sia stato soltanto una delle molte figure profetiche del suo tempo, tutte più o meno simili fra loro, e che la sopravvivenza del suo culto sia solo un accidente storico».
Cosa pensa del fatto che, tra gli sparuti scienziati cristiani, ci siano comunque premi Nobel come Werner Arber e Charles Townes, o medaglie Fields come Enrico Bombieri e Laurent Lafforgue?
«In genere gli scienziati «credenti» sono religiosi soltanto nel senso astratto di Einstein, ma qualche eccezione che crede letteralmente a cose come la verginità della Madonna effettivamente c´è. Io lo trovo molto difficile da capire, e immagino che ci riescano solo attraverso una compartimentalizzazione della mente: hanno il cervello diviso, e non permettono a una metà di interferire con l´altra».
Cioè, sono scienziati durante la settimana e credenti la domenica?
«Sì, e comunque sono molto pochi: nel libro cito, ad esempio, un sondaggio effettuato all´Accademia Nazionale delle Scienze statunitense, dal quale risulta che il 93 per cento dei membri sono atei o agnostici. Ci sono dati simili per la Royal Society inglese, e sarei molto curioso di sapere se la stessa cosa è vera anche per altre Accademie delle Scienze: ad esempio, per i vostri Lincei».
Townes, che ho citato prima, ha vinto il premio Templeton per la scienza e la religione. Da come ne parla nel suo libro, si direbbe che lei proprio non sopporti la Fondazione Templeton, vero?
«Non mi piacciono i suoi metodi. A volte trovano gente veramente religiosa da premiare, come Townes appunto. Ma spesso si limitano a scovare grandi scienziati che abbiano scritto qualcosa che suoni vagamente simpatetico verso la religione, come Freeman Dyson, e lo premiano. E´ una specie di corruzione finanziaria, e bisogna essere fatti tutti d´un pezzo per rifiutare un premio di più di un milione di dollari. Io, però, non prenderei troppo seriamente queste cose: quando si viene corrotti con somme cosí elevate, si agisce sotto costrizione».
Un altro vincitore è John Barrow, che ha legato il suo nome al Principio Antropico: un argomento che, stranamente, nel suo libro lei apprezza.
«Il fatto è che l´evoluzione spiega perfettamente lo sviluppo della vita sulla Terra, ma ha problemi con le sue origini: si tratta infatti di un evento molto raro, con una probabilità assolutamente minimale, dell´ordine di uno su qualche miliardo. Ma poiché ci sono così tanti pianeti nell´universo, essendoci un centinaio di miliardi di galassie, ciascuna con un centinaio di miliardi di stelle, allora ci si può attendere che ci siano miliardi di pianeti con la vita. E il Principio Antropico descrive quali condizioni questi pianeti debbano avere, per poter sviluppare una vita come la nostra: a me questa sembra una spiegazione scientifica, e per nulla teista».
Il fatto è che il Principio Antropico viene spesso applicato all´intero universo.
«E´ la stessa cosa. La probabilità che le costanti fondamentali della fisica siano finemente calibrate, in modo da permettere all´universo di essere come lo conosciamo, è assolutamente minimale. Ma si può pensare di vivere in un multiverso con tanti universi, ciascuno con i suoi valori delle costanti fondamentali, e allora ci si può attendere che ci siano universi con questi valori calibrati in maniera tale da produrre creature come noi. E il Principio Antropico spiega di nuovo soltanto quali condizioni questi universi minoritari debbano avere, per poter sviluppare una vita come la nostra».
A me non sembra affatto la stessa cosa: un conto è parlare di un gran numero di pianeti, e un altro di un gran numero di universi!
«Sono assolutamente d´accordo con lei: è più plausibile fare questi ragionamenti coi pianeti, che con gli universi. Forse dovremmo chiedere ai fisici se ci sono altre ragioni per credere in un multiverso, invece che in un universo: da quanto ne so, ci sono, ma non so quali siano».
Come risponderebbe a un´obiezione alla Berkeley, del tipo: la scienza fa la schizzinosa con Dio, ma poi crede in cose altrettanto metafisiche o implausibili, dalle stringhe ai multiversi?
«Che c´è una differenza. Un Dio in grado di calibrare le costanti fondamentali di un universo o creare le condizioni per la vita su un pianeta, per non parlare di un Dio in grado di ascoltare e soddisfare le preghiere dei fedeli, dev´essere un´entità molto complicata e complessa. Il multiverso, invece, non è più complicato o complesso di un singolo universo: solo più prolifico e ridondante».

Corriere della Sera 6.9.07
Flamigni: è soltanto un esperimento I rischi? Bisogna fidarsi della scienza


MILANO — Gli inglesi, di fronte alla scarsità di ovuli umani per la ricerca, pensano a creare chimere, gli italiani, che queste ricerche non le possono nemmeno immaginare, buttano via centinaia di ovuli congelati.
«Mi stupisco — commenta Carlo Flamigni di Bologna, uno dei più noti esperti di riproduzione umana e attualmente membro del Comitato di Bioetica nazionale — che i ricercatori italiani non si siano ancora messi in contatto con gli inglesi per proporre questa alternativa ».
Gli inglesi avevano a suo tempo autorizzato la donazione di ovociti...
«Sì, ma nessuno pagava le donne, venivano rimborsate soltanto le spese. Risultato: nessuna donazione».
E lei propone l'impiego degli ovuli umani congelati in alternativa a quelli di mucca o di coniglio.
«E' un peccato non utilizzarli. In Italia è proibita la conservazione degli embrioni, così si congelano gli ovuli. Con metodi diversi, sia lentamente sia rapidamente come consentono oggi le tecniche più moderne. E l'afflusso di ovuli nelle banche è costante, proprio perché vengono lasciati da donne che hanno già avuto figli con la fecondazione in vitro o anche per vie naturali».
Professor Flamigni, a parte questo suo suggerimento, che cosa pensa della proposta inglese di creare ibridi uomo-animale?
«E' una decisione positiva. E' sempre positivo quello che fa progredire la scienza. Ed è importante che si studi come si può riprogrammare il Dna umano ».
Molti però temono che questi esperimenti possano portare alla creazione di «bambini su misura ».
«E' quello che gli inglesi chiamano slippery slope, il pendio scivoloso: c'è sempre chi pensa che qualche ricercatore possa deviare dalla corretta via della ricerca. Tutte le volte che il mondo scientifico si trova di fronte a esperimenti complessi, ci si immagina il peggio. Ma la gente deve fidarsi della scienza perché i ricercatori hanno comunque un obbligo nei confronti della società».
Forse qualcuno pensa che mescolare cellule umane e animali possa costituire un'umiliazione per il genoma umano.
«Non si conoscono ancora i meccanismi, ma alcuni esperimenti suggeriscono che, quando si trasferisce un nucleo umano in un ovulo di animale, le cellule che si formano perdono, con il tempo, qualsiasi traccia di Dna animale. Comunque qui stiamo parlando di esperimenti di laboratorio, non di uso clinico. E nemmeno della creazione di embrioni. Del resto le autorità britanniche hanno fissato un termine di 14 giorni, dopo il quale l'ibrido viene distrutto. Sono stati proprio gli inglesi a suggerire questo limite di 14 giorni come periodo prima del quale si parla soltanto di pre-embrione e non di embrione vero e proprio e lo hanno sempre tenuto in considerazione fin dai tempi delle leggi sulla fecondazione in vitro».