domenica 9 settembre 2007

Repubblica 9.9.07
"Una minaccia la scienza senza Dio"
di Marco Politi


Benedetto XVI in Austria: Occidente in crisi perché teme la verità Il futuro: "L´Europa ha troppi pochi bambini perché non si fida del futuro" Il passato: "Il mondo è stato redento non mediante la spada ma la croce"

VIENNA - Con il bastone del pellegrino Benedetto XVI arriva a Mariazell, santuario della Madonna degli austriaci, degli slavi e degli ungheresi. Il suo viaggio in Ungheria è un pellegrinaggio di umiltà, perché non incontra folle. Qualche migliaio venerdì a Vienna, quarantamila alla basilica di Mariazell, in un clima di indifferenza che nel paese sfiora quasi la metà degli abitanti.
Solo una minoranza è autenticamente entusiasta. Almeno la comunità ebraica gli ha detto grazie, con una lettera che evoca anche il pericolo dell´Iran per Israele. Qui il Papa attraversa un´Europa secolarizzata, che i periodici megashow ecclesiali non riescono a cambiare. Benedetto XVI lo sa e ad ogni tappa affina il suo linguaggio. «Di un cuore inquieto e aperto abbiamo bisogno - sostiene - abbiamo bisogno di Dio e Gesù Cristo». Rivolgersi a Cristo come unico salvatore, spiega, non è disprezzo delle altre religioni né superbia, è solo confessione di un´appartenenza ardente e di un desiderio di verità.
«La rassegnazione di fronte alla verità - dichiara ai fedeli venuti a lui nonostante pioggia, neve, tempeste e un freddo che ha provocato l´infarto di due pellegrini - è il nocciolo della crisi dell´Occidente e dell´Europa». Ma se non si distingue tra bene e male, diventano ambigue anche le conquiste della scienza: «Possono aprire prospettive importanti per il bene dell´uomo, ma anche diventare una terribile minaccia, la distruzione dell´uomo e del mondo». Gli esempi Ratzinger li ha fatti in altre occasioni: dall´energia nucleare alla biotecnica. Qui in Austria il pontefice non usa toni apocalittici, vuole predicare, vuole convincere. E perciò ammette che ci sono «buone ragioni storiche» per il timore dei contemporanei che la «fede nella verità comporti intolleranza». Come venerdì, dinanzi ai diplomatici, aveva ammesso altri peccati di prepotenza da parte della religione.
Per papa Ratzinger è urgente instillare nei fedeli la consapevolezza che il cristianesimo non è un sistema di leggi e che i dieci comandamenti sono un sì a Dio, un sì alla famiglia, un sì alla vita, all´amore responsabile, alla solidarietà sociale, al rispetto degli altri, alla verità. Un grande percorso in positivo, in cui il credente nel crocifisso sia richiamato all´amore per gli altri e nell´immagine del Bambinello sappia riconoscere i bambini poveri, i bambini-soldato, i bambini privi dell´amore dei genitori, malati, sofferenti, «ma anche quelli gioiosi e sani». L´Europa ha troppi pochi bambini, insiste: forse non si fida del futuro? Senza Dio il futuro non c´è.
Ai cristiani tentati da altre esperienza - e forse guardano a Budda o a Maometto - Benedetto XVI rammenta che certamente «grandi personalità della storia hanno fatto belle e commoventi esperienze di Dio», ma sono esperienza umane perché «solo Cristo è Dio». Un Papa non può parlare diversamente. E se si chiama Ratzinger (con un´allusione obliqua al credo islamico) aggiunge: «Dio ha redento il mondo non mediante la spada, ma mediante la Croce».
Lo stesso approccio di chi vuole plasmare preti e religiosi ad un cristianesimo essenziale anima il pontefice all´ora dei vespri nella basilica di Mariazell piena di sacerdoti, frati e suore. Si è poveri, dice, per occuparsi dei poveri e ciascun ordine si faccia «un severo esame di coscienza». Si è casti per offrire amore disinteressato in una società presa dalla frenesia dell´individualismo, dell´avidità, del consumismo, dell´impazienza. Si è obbedienti per darsi completamente a Dio. E ciò, sottolinea, implica umile obbedienza alla Chiesa.
In terra d´Austria il pellegrino Ratzinger offre un´immagine delicata, completamente diversa dalla caricatura del pontefice-panzer. Ma il suo predicare solleva anche un interrogativo: basta un grande catechizzatore per fare il timoniere? I rapporti ecumenici, nonostante un cero benedetto a Mariazell per l´assemblea pancristiana di Sibiu, sono in surplace. Le relazioni con l´Islam narcotizzate. I preti mancano drammaticamente in tutto l´orbe cristiano. E nella vita delle coppie la Chiesa non riesce ad entrare con parole giuste.

Repubblica 9.9.07
Carlo Flamigni: la religione non può decidere dove va la scienza
"Ma esiste un'altra etica frutto della conoscenza"
di Marina Cavalieri


"La ricerca serve a migliorare la qualità della vita, soprattutto dei più sfortunati"

ROMA - Scienza, etica, verità. Per Carlo Flamigni - ricercatore, uno dei maggiori esperti italiani di fertilità - c´è molta presunzione nelle posizioni espresse dal pontefice in Austria. Nelle affermazioni di Benedetto XVI si nasconde un rischio: credere che esista un´unica, incontestabile, verità, quella della Chiesa.
Papa Benedetto XVI ha detto che «le grandi e meravigliose conoscenze della scienza possono diventare una terribile minaccia, la distruzione stessa dell´uomo e del mondo se non si tiene come riferimento Dio».
«Innanzitutto definiamo cos´è la scienza. La scienza secondo me è un grande investimento sociale, serve a migliorare la qualità della vita, soprattutto dei più sfortunati. La scienza ha una serie di doveri verso la società, deve essere "trasparente", "disinteressata", "comunitarista", capace di scetticismo così che l´uomo non può che fidarsi della scienza perché al suo servizio».
Ma non ci devono essere controlli? Chi decide in che direzione deve o può andare la scienza?
«Non può essere certo la religione, antica, ossificata, a decidere, dove va la scienza. Esiste invece una morale di senso comune, un´etica che è influenzata dalle religioni ma non solo, una morale che si modifica, questo è il punto, su sollecitazione della conoscenza, dei vantaggi che derivano dalle conoscenze possibili».
Condivide gli ultimi esperimenti condotti in Inghilterra?
«Sì. Gli inglesi hanno fatto un investimento economico, gli scienziati sono usciti allo scoperto, hanno detto: queste sono le finalità, le potenzialità, queste le garanzie. Le autorità hanno chiesto di raccontare, un´organizzazione intera si è mossa. Così si realizza una democrazia virtuosa, non c´è nulla di aberrante. Lo scienziato si deve denudare del suo potere, mettere in mano alla società le sue conoscenze, gli scienziati devono parlare dei rischi e dei vantaggi e la società interviene. In questo caso non ci sono rischi etici, è una sperimentazione, è stato utilizzato un centesimo di Dna, ma ora nasceranno ancora altri problemi».
Quali?
«Se da queste sperimentazioni usciranno informazioni che verranno utilizzate in altre ricerche anche su queste si abbatterà il giudizio della Chiesa che le accuserà di complicità verso un peccato. Siamo al culmine dell´antistoricità, del delirio di verità».
La religione è un ostacolo per la scienza?
«Quando si considera portatrice dell´unica verità possibile, l´etica della Verità di questo pontefice è sbagliata e crea solo conflitti».

Repubblica 9.9.07
Tolleranza zero o tolleranza "di classe"?
di Paolo Flores d’Arcais


Anticipiamo una parte dell'editoriale del prossimo numero di MicroMega che uscirà venerdì 14 settembre

Dice: tolleranza zero! D´accordo. Dice: dunque, lavavetri raus! Inevitabile. E i venti e rotti "onorevoli" condannati con sentenza definitiva, cioè criminali patentati, che continuano a sedere in parlamento e a dettar legge (alla lettera!)? E i criminali da centinaia di migliaia di scippi, i falsificatori di bilanci, intendiamo, e quelli dell´insider trading? Nell´America di Bush (di Bush!) si beccano condanne da un quarto di secolo, e nel penitenziario ci finiscono davvero […]. E i criminali da centinaia di morti all´anno? Quelli dell´edilizia dei subappalti e del caporalato, intendiamo? Allora non "dice" più: comincia a strabuzzare gli occhi da liberismo minacciato, a strapparsi le vesti da "riformismo" offeso, e strepita: giustizialisti! Eppure nella patria del citatissimo Rudolph Giuliani, in galera si finisce per evasione fiscale, e tanto più a lungo quanto più si è – come evasori – ricchi e potenti. […] Dice: facciamola finita con la retorica degli "ultimi". Ottimo e abbondante, mandiamo il Vangelo al macero, ci voleva un po´ di sano laicismo.[…] Perché è retorica, evidentemente, pensare per un momento (il tempo di uno spot, non di più) a cosa significa concretamente la vita di un ragazzo deportato da una situazione di fame (fame, non appetito) e percosse a un accattonaggio acqua e spazzola ai semafori, ma sempre, per lui, di fame e percosse.
Ma non eravamo stati – americanamente! – tutti creati eguali, con i diritti inalienabili alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità? O è anche questa retorica per robivecchi? La retorica è insopportabile, in effetti. Ogni retorica.[…]Siamo seri, perciò, basterebbe per una politica di sinistra inaudita e strepitosa. Dietro i lavavetri, e più ancora dietro i posteggiatori abusivi, e massime dietro le prostitute, c´è quasi sempre un racket. […] Cosa è stato fatto contro questo neo-schiavismo? Contro i trafficanti di carne umana, cioè, non contro le loro vittime. Dov´è la famosa tolleranza zero? Una retata a settimana "fa punti" per la carriera nelle forze dell´ordine, e "fa voti" per "l´onorevole" presso i più ottusi degli elettori benpensanti, senza fare al racket nemmeno un graffio, mentre umilia una volta di più le sue vittime. Ma le prostitute in giro danno fastidio, turbano il decoro, imbarbariscono il traffico, lo schiavista non si vede, invece, e al benpensante fa pure comodo. […] Tolleranza zero è una prospettiva sacrosanta, se la si prende sul serio, se non la si butta in retorica. Equivale, né più né meno, a una politica della legalità. Intransigente. Quella politica che i politici hanno contrastato in tutti i modi (anche a sinistra, purtroppo, e in modo progressivamente sempre più scoperto) quando è stata possibile perché, per un magico momento, addirittura popolare (anzi, popolarissima). Immediatamente dopo lo scoperchiamento giudiziario di Tangentopoli. Con Mani Pulite, insomma. Se si parla di Tolleranza zero, perciò, come scelta strategica e anti-retorica, è da lì che bisogna ricominciare: quello zero, se non vuole diventare osceno belletto per ulteriori prevaricazioni, per la millenaria retorica del lupo contro l´agnello e per quella nostrana, recente e sempre più pervasiva, di "porco è bello!", deve partire dai piani alti, da chi più ha in termini di potere e di ricchezze. Se si comincia da onorevoli e tycoon, evasori e palazzinari, se si comincia dai reati più gravi[…], se si dimostra contro questi reati di establishment e questi criminali di "palazzi" la volontà inflessibile di fare pulizia, si sarà legittimati moralmente a esternare contro la "retorica degli ultimi", e ad agire perché venga meno il fastidio (fastidioso, fastidiosissimo, sia chiaro) di ogni forma di accattonaggio. Ma solo allora (e magari in parallelo a un rinnovato welfare. O un quinto dei cittadini sotto la soglia di povertà è "compromesso" tollerabile?). Nel can-can giustizialista a senso unico che rumoreggia in questi giorni, invece, non si scorge nessun barlume di tanta elementare equità. In realtà sta avvenendo quanto noi di MicroMega, da vent´anni inguaribili "giustizialisti", cioè inguaribili garantisti della legge eguale per tutti, abbiamo paventato, previsto, stigmatizzato. […]Una giustizia di classe. Tolleranza zero per la microcriminalità che tormenta la vita quotidiana, e impunità cento per la megacriminalità d´establishment […] Sarebbe questa la nuova serietà di una sinistra non demagogica?

Repubblica 9.9.07
Le fabbriche dell'orrore, una storia già raccontata
di Federico Rampini


I recenti allarmi sull´industria cinese accusata di sfornare prodotti tossici o contraffatti hanno un precedente illustre: le inchieste di Dickens e Sinclair sui misfatti dell´industria Usa tra Ottocento e primo Novecento. Ora un libro dello storico americano Stephen Mihm stabilisce il parallelo tra due forme di capitalismo adolescente, allo stesso tempo uguali e molto diverse
"La Cina - dice Mihm - siamo noi da giovani Se ce ne rendiamo conto, capiamo che il capitalismo mordi-e-fuggi non è un fenomeno cinese né un complotto per avvelenarci ma una fase dello sviluppo"

«Un fumo immenso dalle ciminiere oscura il cielo e sporca la terra… avvicinandosi alla città l´atmosfera cambia, diventa più cupa, l´erba dei campi sempre meno verde, il paesaggio è spoglio e squallido. E insieme col fumo sempre più spesso si comincia a sentire un odore strano, nauseabondo». Nella fabbrica «ci sono bambini piccoli, appena sopra i dieci anni, che arrivano a stento all´altezza della catena di montaggio. I genitori hanno mentito sulla loro età, per trovargli un posto pagato cento dollari all´anno». Nel reparto dove gli operai preparano il manzo in scatola «il pavimento è lurido, ma un vecchio deve raccogliere con la scopa tutti gli scarti. I rifiuti finiscono nel camion mescolati al resto della carne».
Sembrano descrizioni da un reportage sulle "fabbriche dell´orrore" che pullulano nella Cina di oggi: lo smog denso che avvolge le metropoli industriali e rende l´aria irrespirabile, lo sfruttamento del lavoro minorile, le condizioni igieniche disastrose. Un incubo che tormenta i consumatori occidentali, dopo la catena di scandali sui prodotti made in China contaminati e nocivi per la salute, scoperti nei nostri supermercati. Ma quelle citazioni iniziali non dipingono il gigante asiatico che ha invaso i nostri mercati nel Ventunesimo secolo. Sono brani tratti da un romanzo-denuncia che ha più di cent´anni: La Giungla dello scrittore americano Upton Sinclair, pubblicato nel 1906. Il luogo è Chicago, allora una città di frontiera lanciata in uno sviluppo economico tumultuoso. I protagonisti che si aggirano in quel paesaggio industriale sinistro sono poveri immigranti lituani, prima attratti dal "sogno americano", e ben presto stritolati negli ingranaggi di un capitalismo senza pietà.
Mezzo secolo prima di Sinclair, un altro scrittore celebre ha descritto la nascente potenza americana come una nazione senza regole. Il romanziere inglese Charles Dickens fa il suo primo viaggio negli Stati Uniti nel 1842. Nel diario dove raccoglie le sue impressioni annota una caratteristica del capitalismo americano: «È il dominio dei furbi che ingannano la fiducia degli altri; i truffatori e i disonesti la fanno franca e sono ai vertici della società». Lo colpisce anche la «diffusione di malattie che potrebbero essere prevenute con semplici precauzioni igieniche… come le fognature». Nel centro di New York, sulla Broadway, vede passeggiare indisturbati i maiali randagi «che sono i veri spazzini della città». Soprattutto Dickens è sconvolto dal dilagare della contraffazione. Ne è vittima lui per primo. Tutti i suoi romanzi di successo, come Oliver Twist e Il circolo Pickwick, vengono copiati e diffusi sul mercato locale senza pagargli i diritti d´autore. Le sue proteste sono inutili: lo stesso diario di viaggio in cui denuncia l´industria del falso (America) esce in versione-pirata appena quattro giorni dopo la pubblicazione in Inghilterra. A New York se ne vendono centomila copie illegali in un mese.
Oggi il pubblico occidentale è sgomento di fronte alle rivelazioni che arrivano dalla Cina: la salute del consumatore, la sicurezza dei prodotti, il rispetto del copyright, ogni valore viene calpestato in nome del profitto. Reagire è legittimo ma stupirsi è ingenuo. Solo un´amnesia storica può farci credere che le "fabbriche dell´orrore" siano una novità. A rinfrescarci la memoria ci prova uno storico americano, Stephen Mihm, docente all´università della Georgia. In questi giorni la Harvard University Press pubblica il suo saggio A Nation of Counterfeiters. La patria della contraffazione a cui allude il titolo non è la Cina, è l´America. Quello che sta accadendo oggi dall´altra parte del mondo non è un fenomeno inedito, sostiene il professor Mihm. «Un secolo e mezzo fa un´altra nazione in rapido sviluppo aveva la reputazione di sacrificare le regole alla rincorsa del profitto, e quella nazione emergente era l´America».
Dalle edizioni-pirata dei dvd di Hollywood e dei libri di Harry Potter fino agli scandali recenti dei cibi adulterati e dei medicinali tossici, osservare la Cina del Ventunesimo secolo secondo lo storico è come vedere nello specchietto retrovisore l´economia americana dell´Ottocento. Lo stesso dinamismo spregiudicato e spesso disonesto. «La Cina - dichiara Mihm - per certi aspetti è la versione giovane di noi stessi. Se ce ne rendiamo conto, allora capiamo che il capitalismo mordi-e-fuggi non è un tratto del carattere nazionale cinese, né tantomeno un complotto per avvelenare noi, ma è una fase dello sviluppo. Lo chiamerei il capitalismo-adolescente: scoppia di energia, è esuberante, dinamico. E come tutti gli adolescenti ha anche comportamenti folli, irresponsabili, pericolosi».
Riscoprendo cos´era davvero l´America dell´Ottocento impressionano le analogie con la Cina dei nostri giorni. Non è esatto sostenere che gli Stati Uniti allora fossero la terra del liberismo sfrenato, del laissez-faire. Sulla carta c´erano tante regole (così come abbonda di regole la Repubblica popolare, che ha ereditato l´armamentario del dirigismo comunista). Ma erano state scritte per una realtà ormai superata, non erano adeguate alla impetuosa modernizzazione che stava avvenendo. Le istituzioni che avrebbero dovuto disciplinare il mercato erano inefficienti, o più deboli degli interessi privati. La corruzione regnava. In un passaggio illuminante della Giungla Sinclair descrive con perfidia l´ispettore sanitario: pagato per sorvegliare lo stabilimento dove i maiali vengono macellati e trasformati in prosciutti, spesso costui finge di non vedere le nefandezze che avvengono in fabbrica. «Questo funzionario statale non aveva l´aria di uno che si ammazza di lavoro; non sembrava molto preoccupato che qualche maiale potesse sfuggire ai suoi controlli. Bastava rivolgergli la parola e lui era felice di spiegarti il pericolo mortale per chi mangia carne di maiali malati di tubercolosi; e mentre lui ti parlava dozzine di carcasse gli passavano dietro aggirando l´ispezione… Nel reparto per la produzione delle salsicce uomini e donne lavoravano in mezzo a un fetore vomitevole, i visitatori fuggivano per non soffocare». Sinclair non lavorava di fantasia. Prima di scrivere quel romanzo si era documentato accuratamente, con mesi di inchieste nelle tre maggiori aziende alimentari di Chicago, i famigerati "meatpackers" (produttori di carne in scatola) Armour, Swift e Morris. Come racconta in uno dei brani più disgustosi, nelle salsicce e nei prosciutti finivano non solo le carni scadenti o infette, ma perfino arti umani o interi cadaveri delle vittime di incidenti sul lavoro.
Nell´industria americana i vizi abominevoli non erano limitati alla produzione di carne in scatola che Sinclair prese di mira nel suo romanzo-verità. Mihm ricorda che il primo studio sistematico sulla qualità dei prodotti alimentari, realizzato a Boston nel 1859, rivelò una situazione terrificante: caramelle all´arsenico, birra con stricnina, sottaceti imbevuti di solfato di rame, farina e zucchero "allungati" con gesso e polvere di marmo, latte contaminato da mucche al pascolo nelle discariche di rifiuti. Proprio come accade oggi ai cinesi, le principali vittime erano i consumatori americani, ma gli scandali scoppiarono all´estero. Nel 1879 le autorità tedesche accusarono l´America di esportare maiali malati di colera e salsicce piene di vermi. Nel 1880 fu l´Inghilterra a bloccare partite di margarina importata dagli Stati Uniti, adulterata con interiora di bestiame putrefatte. I paesi europei più evoluti nella tutela della salute pubblica cominciarono a boicottare il "made in Usa" e a stendere un cordone sanitario attorno ai prodotti alimentari sospetti.
«Nella Cina di oggi - sostiene Mihm - la facilità con cui proliferano l´industria della pirateria e gli imprenditori senza scrupoli si spiega con gli stessi mali che perseguitavano gli Stati Uniti centocinquant´anni fa: una legislazione inadeguata, superata dalla rapida evoluzione dell´economia; la scarsa motivazione dello Stato nel combattere le frodi; e una percezione sociale inadeguata della distanza tra l´arricchimento onesto e quello disonesto». Resta una differenza: gli Stati Uniti erano già allora una democrazia, la Repubblica popolare fondata dalla rivoluzione comunista del 1949 è un regime autoritario. Che non sia una distinzione da poco lo dimostra la vicenda di Upton Sinclair. La Giungla ebbe un immenso successo popolare prima come feuilleton a puntate su una rivista socialista, poi come libro vendette centinaia di migliaia di copie. Secondo la studiosa di storia letteraria Cynthia Brantley Johnson «nessun romanzo americano del Novecento provocò una tale indignazione, e nell´ultimo secolo solo il romanzo anti-schiavista La capanna dello zio Tom ha avuto un´influenza paragonabile a La Giungla». Non sembrano affermazioni esagerate. Tra gli ammiratori di Upton Sinclair c´era il presidente Theodore Roosevelt. All´estero la sua fama era tale che Gandhi gli scrisse lettere dal carcere. Il successo di quel libro incoraggiò una nuova tendenza nella stampa americana, il giornalismo d´inchiesta, i cosiddetti muckraker (letteralmente "rastrellatori di letame"), i reporter specializzati nel denunciare la corruzione. Nel 1906 l´impatto della Giungla contribuì a far passare al Congresso di Washington il Pure Food and Drug Act, la prima legislazione generale contro l´adulterazione dei cibi. Nel 1908 il Congresso metteva al bando il lavoro minorile.
Esiste un autore cinese contemporaneo che si può considerare l´erede di Upton Sinclair. È lo scrittore Zhou Qing, che in un romanzo del 2004 ha rivelato le vergogne dell´industria alimentare del suo paese. Ha descritto operai che versano insetticidi nei barattoli di conserve alimentari per uccidere gli scarafaggi; supermercati che aggiungono la candeggina sulle torte di panna perché siano più bianche; fabbriche di bibite che riciclano le bottiglie scadute cambiando semplicemente l´etichetta con la data di produzione. Ma la sua storia è stata letta da pochi intimi. La censura del regime controlla i mass media e vieta di diffondere "allarmismo" tra la popolazione. L´ignoranza dei consumatori resta abissale.
In mancanza di libertà politica e di una società civile agguerrita in Cina, la pressione internazionale può essere utile. Lo storico Mihm ricorda che un secolo fa l´embargo decretato da varie nazioni europee sulla carne americana ebbe l´effetto di un elettroshock. Privata di sbocchi sui mercati esteri, l´industria americana dovette correre ai ripari. I controlli sui metodi di produzione e sulla qualità si fecero più severi. «Avvenne un cambiamento fondamentale: gli imprenditori più avanzati capirono che conquistarsi la fiducia del mercato era la migliore garanzia per fare profitti».
Dickens ebbe solo una rivincita postuma. La prima legge internazionale sul diritto d´autore fu adottata dagli Stati Uniti nel 1891, vent´anni dopo la sua morte. Non per effetto delle sue denunce ma perché nel frattempo era fiorita la letteratura americana e con essa un business editoriale che aveva interessi da tutelare.
Sinclair da parte sua rimase deluso dall´impatto della Giungla. Lui aveva sperato che quel libro servisse la causa del movimento operaio. Sognava una rivoluzione di sinistra contro il capitalismo americano. L´opinione pubblica invece si mobilitò contro le "fabbriche dell´orrore" soprattutto perché gli alimenti prodotti in quelle condizioni erano un attentato alla salute. Colui che sperava di essere un profeta del socialismo fu involontariamente il precursore del consumerismo. Sul finire della sua vita Sinclair commentò: «Avevo puntato al cuore dei miei lettori, invece li ho colpiti allo stomaco».

Repubblica 9.9.07
Il desiderio ai tempi della cinepresa
di Concita De Gregorio


"Il sesso è più eccitante sullo schermo che tra le lenzuola". Sulla scia di quel che diceva Andy Warhol, "Erotico", l´ultimo dei dizionari del cinema Electa-Accademia dell´Immagine, ci guida nella foresta dell´emozione amorosa per fotogrammi e nell´esplorazione di quel confine malcerto tra eros e luci rosse che nessuna regola potrà mai fissare
La parola-chiave è "tensione" Mostrateci, registi e attori, il luogo verso cui siete incamminati senza farcelo vedere mai...

Diceva un grande maestro di tango, a Buenos Aires, durante una lezione collettiva a ballerini provetti arrivati da tutto il mondo ad ascoltarlo: «Immaginate di essere in un film: quando passate da una scena di tango a una di sesso lo spettatore deve avvertire un netto calo di tensione erotica». Era un uomo piccolo di statura e sovrappeso, un uomo brutto a vederlo seduto al tavolino di un bar. Diventava irresistibile nel ballo, desiderabile e magnetico come la nostalgia. Fermava il passo e diceva con improvvisa freddezza quella faccenda del tango e del sesso come fosse una semplice notazione tecnica.
In effetti lo è. La parola chiave è tensione. Questo il segreto dell´erotismo e della danza. Mostrateci, ballerini, il luogo verso il quale siete incamminati senza farcelo vedere mai. Lasciatecelo indovinare, che ciascuno degli spettatori possa immaginarne l´esito secondo il suo privato e segreto desiderio: che sia un rifiuto, persino, se questo è ciò che appaga il bisogno di chi guarda. Uno schiaffo, uno sgarbo oppure un bacio e solo quello, una carezza e niente più. Un congedo di sguardi o una fusione liquida di corpi, certo, ma qui, quando si arriva, il tempo del cammino è già finito. Il dopo è il meno. Il dopo è la fine del viaggio la cui bellezza - come in quel tango - è solo una promessa. Tensione verso, desiderio di. Itaca, diceva il poeta, non è la meta: è il cammino per raggiungerla. L´erotismo, scrivono i dizionari, si distingue dalla pornografia per la «presenza di un vissuto emotivo»: l´attesa, si potrebbe anche dire. Il crescendo del preludio, l´intelligenza dei sensi che si attiva e si mette in moto verso un orizzonte.
In Erotico di Valerio Caprara, l´ultimo dei dizionari del cinema Electa-Accademia dell´Immagine, Lezioni di tango non c´è, per la fortuna di quelli che lo considerano un patrimonio emotivo privato. Non c´è il bacio di Notorius né Grace Kelly che poggia le labbra sulle mani di Cary Grant in Caccia al ladro («lei sa bene che questa collana è un´imitazione», «sì, ma io non lo sono»), non c´è lei che si spoglia ne La finestra sul cortile né niente di Hitchcock, di nuovo e con sollievo per fortuna. Un´antologia del cinema erotico è in realtà un´impresa impossibile perché niente è più privato, imprevedibile e individuale del desiderio. Cosa lo scateni, in memoria di cos´altro, perché.
Chiedete a trenta persone, a quaranta: la scena erotica per te più conturbante. Non otterrete due risposte uguali. Estratti dal mio campione: la carezza di Harvey Keitel sulla nuca della pianista in Lezioni di piano. La partita a scacchi fra Steve Mc Queen e Faye Dunaway nel Caso Thomas Crown. Candice Bergen che si cambia tenendo un telo tra i denti nel Vento e il leone. La signora della porta accanto, tutto. Di Eyes Wide Shut solo la scena in cui lei, in mutande, discute in camera con lui. Di Ultimo Tango non quella riprodotta all´infinito, no: l´altra invece, quando lui la lava nella vasca. Fra i più giovani: Clooney e Lopez chiusi nel bagagliaio della macchina in Out of sight. Scarlett Johansson che cammina tra la folla in Lost in Translation e lui che scende dal taxi per dirle qualcosa all´orecchio, sfiorandola alle spalle. Cosa le dice, potete indovinarlo? È già un altro gioco, però: un altro desiderio. Y tu mamà tambien, la scena in cui ballano in tre, due ragazzi e una donna, è lì che Garcia Bernàl diventa l´uomo (l´idea di uomo) con cui andresti in vacanza anche in Islanda e senza parlare la sua lingua. Atame, dove Antonio Banderas poco più che ragazzino la lega perché lui sa che lei non sa quel che lui invece sa perciò è costretto a costringerla, come sarebbe bello e desiderabile e quasi sempre impossibile fare negli incontri della vita.
It takes two for tango, dicono gli americani per tornare al principio, il tango: bisogna essere in due per dare forma al desiderio e se uno manca all´appello, se non riesce non vuole non può, non c´è ballo possibile. Almodovar, che dell´erotismo è un moderno genio poetico e dissacratore, ha fatto diventare un´icona sexy una donna in coma e bisogna immaginarsi la scena di un regista qualunque che va dal produttore e gli dice: dunque, io avrei un soggetto, lei è in coma tutto il tempo e c´è un infermiere vecchiotto basso e un po´ scemo che l´accudisce. Era Almodovar, solo per questo gliel´hanno fatto fare. Non c´è scena erotica più divertente della gara di virilità in cui i candidati espongono, in piedi e al buio di un cortile notturno, le proprie qualità. Al pubblico votante il banditore munito di centimetro annuncia cifre iperboliche: 82, applauso; 90, boato; 94, ovazione. È Almodovar il primo a dirlo in chiaro: lunghezza per circonferenza, è un prodotto la chiave della felicità. Non serve il righello, ci vuole un metro a nastro. Marlene Dietrich diceva con opportuna schietta sintesi che «solo i froci sanno come si fa a far sembrare una donna sexy» ed in effetti Penelope Cruz se la incontri per strada dopo averla vista in Volver non ti capaciti che sia la stessa e non è per via del sedere imbottito che le ha messo il regista in omaggio alla Loren, no. È come canta, è come lava i piatti.
Di straordinario il dizionario di Valerio Caprara, che pure ha fatto un lavoro notevolissimo tra gli infiniti possibili, c´è la selezione delle immagini. La quasi totalità degli umani, per quanto amanti del cinema, non è in grado di ricordare come si chiamasse l´episodio di Wong Kar-wai nel film collettivo Eros e di che anno fosse ma se vede l´immagine di lei spalle al muro e occhi bassi con quel vestito pazzesco e la schiena di lui che le si fa addosso e la stringe alla parete si ricorda, o crede di ricordare, che è lo stesso. Gli abiti accollatissimi e disegnati sul corpo perfetto di Maggie Cheung nell´amore mai consumato di In the mood for love sono meno, più o altrettanto erotici delle bretelle di Charlotte Rampling, anoressica quando non si usava, nel Portiere di notte?
Un film perché diventi patrimonio di tutti non è necessario averlo visto: il foulard stretto al collo di lui nell´Impero dei sensi, i corpi che rotolano in Zabrisky point, le mutande bianche di Richard Gere in American Gigolo, le calze di Laura Antonelli in Malizia, la corsa di lei con loro due dietro in Jules e Jim, i nudi carponi di Salò, gli occhiali e il lecca lecca di Lolita. La sottoveste di seta di Kim Basinger ma soprattutto Joe Cocker che canta You can leave your hat on, di quante autoradio predisposte all´uopo, negli anni Ottanta, è stata la colonna sonora?
Sharon Stone che accavalla, certo, ma bisogna anche tenere conto dell´anagrafe. Se hai ottant´anni niente ti impressionerà più come il primo nudo di Clara Calamai. Se ne hai quaranta non puoi dimenticare Valery Kaprinsky che balla nuda nella Femme publique di Zulawsky né Maruska Detmers in Prenom Carmen di Godard, chissà che fine hanno fatto tutte e due, erano senza dubbio i più bei corpi degli anni Ottanta, seni piccoli pre-silicone e sederi naturalmente tondi, nudità sfacciata e prepotente. Se ne hai trenta sei venuto al mondo con Sesso bugie e videotapes, con le Età di Lulù di Bigas Luna (e avevi già letto il libro, ovvio, fonte di inesauribili piaceri privati e fantasie). Agli animi più torbidi piacque Tokyo decadence, alle minoranze rivendicative Tokyo-Ga. Da quando sono arrivati i giapponesi è stato tutto più violento e più esplicito, va detto: un´altra cultura. Noi eravamo quelli delle lenzuola sul terrazzo di Una giornata particolare. Eravamo quelli del vorrei ma non posso. Poi è arrivato Crash e abbiamo persino detto bravo. Sì, Johnny Depp in Chocolat è fantastico, Juliette Binoche è da portasela a casa ma diciamo la verità, anche a caro prezzo: come Marcello e Sofia non c´è stato più nessuno.

Corriere della Sera 9.9.07
«Ecco la macchina della dolce morte»
In Germania è scontro sull'eutanasia

Ex ministro di Amburgo: il malato può attivarla con un bottone. La Chiesa insorge
di Federico Fubini


BERLINO — È uno strumento piccolo e di un rassicurante colore verde. Lo ha tirato fuori e mostrato al pubblico di un dibattito elettorale qualche giorno fa Roger Kusch, ex assessore alla Giustizia di Amburgo e fondatore di una lista civica alle prossime elezioni di ottobre. Il nome della macchinetta è «Sterbehilfe Automat», dove «Automat » si usa generalmente per i distributori di merendine a gettone e «Sterbehilfe» significa «aiuto a morire».
Per come l'ha presentata Kusch, probabilmente convinto di guadagnare consensi in questo modo, la macchina è concepita per l'uso da parte di persone che si vogliono suicidare: una sorta di strumento automatico per l'eutanasia, che permetterebbe di aggirare i vincoli di legge esistenti in Germania anche sui malati terminali. La piccola macchina verde è progettata in particolare per loro: basta premere anche debolmente un piccolo bottone per potersi fare un'iniezione letale.
«La mia intenzione è solo di mostrare quali siano le possibili opzioni per l'eutanasia», è stata la spiegazione del politico di Amburgo. In realtà l'uso di quello strumento renderebbe la «dolce morte» in Germania perfettamente legale anche per i casi di persone che non siano quasi più in grado di muoversi. Nella Repubblica federale è infatti proibito aiutare un malato terminale a morire, anche se è quest'ultimo a richiederlo. A differenza che in Italia, il suicidio invece non è punibile.
In teoria, sarebbe dunque legale se un malato terminale ricevesse da un parente la macchinetta verde, quindi la facesse funzionare lui stesso schiacciando il bottone. I parenti e i medici hanno però l'obbligo di correre in aiuto della persona che ha tentato il suicidio, non appena questa perda conoscenza.
Kusch, da sempre impegnato per l'eutanasia, ha trovato una falla nel sistema giudiziario tedesco che la proibisce. Non è dunque un caso se l'uscita dell'ex ministro della Giustizia della città di Amburgo ha sollevato immediatamente una ridda di reazioni.
Per ora, tutte negative. Per l'arcivescovo di Amburgo Werber Thissen l'idea dell'«Automat» denota un «orribile smarrimento». Anche il candidato sindaco della Sdp Michael Naumann ha definito l'uscita «immorale e scandalosa», mentre Eugen Brysch della fondazione Hospizstiftung ha accusato Kusch di essersi «completamente squalificato».
Il dibattito però non finirà semplicemente con il rifiuto di una macchina comparsa in un giorno di campagna elettorale. In Germania operano infatti numerose associazioni favorevoli all'eutanasia, alcune anche molto strutturate come Dignitas. Nessuna di loro però si spinge fino al punto di fornire strumenti di suicidio al malato, soprattutto per non sfidare i vincoli di legge sull'obbligo di soccorso successivo.
Certamente in Germania si fa sentire l'approccio più tollerante sulle questioni etiche di alcune delle chiese protestanti. Ma il radicamento cattolico resta molto solido soprattutto al sud e nelle regioni della valle del Reno e non mancherà di farsi sentire se la campagna per l'eutanasia dovesse farsi più intensa.
La riprova giunge proprio in questi giorni da Monaco di Baviera. Il governo del Land guidato da Edmund Stoiber sta infatti per imprimere una svolta in nome dell'osservanza religiosa: un obiettivo a lungo perseguito dal ministro- presidente, vicinissimo ormai alla pensione. Un'iniziativa di legge del governo monocolore dei cristiano-sociali mira così ad allargare notevolmente il concetto di oltraggio alla religione perseguibile penalmente o punibile con una multa. Soggette a sanzioni, secondo il progetto di legge, saranno tanto le bestemmie che le espressioni che «svalutano o irridono» la religiosità: anche queste ultime sarebbero un segno di «intolleranza » che offende «convinzioni religiose o visioni del mondo di altre persone». «Volevamo avere più protezione», ha commentato in proposito la rappresentante dell'Ufficio cattolico di Monaco di Baviera Bettina Nickel. Ma la chiesa evangelica, anche su questo punto, prende una posizione diversa.
Per i protestanti l'ironia o la critica alla religione non sono «fattori rilevanti sul piano legale e non c'è nessun bisogno di occuparsene ».

Corriere della Sera 9.9.07
La Hack: rischierei la galera per sollevare dalla pena chi soffre
di Margherita De Bac


Non voglio ricevere cure contro la mia volontà. L'eutanasia è un diritto, è un atto di carità

ROMA — Margherita Hack, cos'è l'eutanasia?
«Un diritto», risponde l'astrofisica.
E la vita?
«Un dono che ho tutto il diritto di rifiutare ».
Il Papa ha appena riaffermato il contrario.
«Se continua con queste affermazioni torniamo al Medioevo. Non può pretendere che l'individuo rinunci alla padronanza della propria vita specialmente se non è credente. Se la vita è insopportabile voglio essere libera di farla finita. Non posso essere obbligata a sopportare l'insopportabile ».
Ha esperienze dirette?
«No, ma ho seguito il caso Welby. Io rischierei volentieri la galera per sollevare dalla pena un uomo che soffre. È un atto di carità. Lo stesso farei da medico».
Sul suo testamento biologico ha scritto che in caso di grave malattia e perdita di coscienza desidera finirla?
«Non ho fatto testamenti, di alcun genere, per pigrizia. Però lo scriva, non voglio ricevere cure contro la mia volontà. Mi facciano fuori subito. E spero di non dovermi mai trovare nella condizione di chi resta lucido e deve soffrire per una malattia inguaribile».
L'eutanasia è sempre dolce morte?
«Sempre dolce e anche quando porta dolore, è preferibile ad una sopravvivenza senza speranza. Sentirsi alla mercé degli altri è inaccettabile».
Crede nell'aldilà?
«No. Chi muore, muore e basta. Non resta nulla oltre a molecole che serviranno a costruire altri esseri. Le molecole restano libere nell'atmosfera per secoli. Noi continuiamo a vivere solo nella testa e nei ricordi di chi vive».
Nega anche l'esistenza dell'anima?
«L'anima è il cervello. L'anima è ciò che ci fa ragionare, pensare, vivere. L'anima è il nostro motore. Non credo che possediamo qualcosa di innaturale, che ci arriva per afflato divino».
Che le hanno detto da piccola?
«Da bambina mi raccontavano che Gesù esiste, forse però non mi parlavano della Madonna. I miei erano teosofi, non credenti. Ho creduto nel Bambin Gesù e nella reincarnazione. A 16 anni avevo già cancellato la religione. Se ne può fare a meno».
Spieghi perché.
«L'etica consiste nel non far male agli altri, non serve credere in Dio. Anzi penso sia meschino agire sperando in una ricompensa nell'aldilà».
È favorevole ad una legge sul testamento biologico?
«Sarebbe un segno di civiltà poter indicare le proprie volontà di fine vita. Ma chissà se riusciranno mai ad approvare una legge. Nel nostro Paese comanda il Vaticano».
Secondo lei in Italia la pratica dell'eutanasia è molto più diffusa di quanto si dica?
«Sì, specie dopo il caso Welby. Nessuno vorrebbe fare quella fine, essere tenuto in vita in modo coatto. La maggior parte degli italiani chiederebbe che venisse staccata la spina. Agnostici ma formalmente cattolici. Non vanno in chiesa, si sposano solo per il piacere di indossare un bel vestito. Aumentano le convivenze. Cattolici? Ma va'...».

Corriere della Sera 9.9.07
Adolescenti. Sono giovane, dunque esagero
Lo psichiatra spiega come liquori e cocktail sono diventati un «identificante sociale»: senza un bicchiere in mano ci si sente esclusi dal gruppo
di Angelo de' Micheli


Non occorre essere sociologi o medici per accorgersi dell'aumento del consumo di alcol tra i giovani. Ed è senz'altro il caso di preoccuparsi. «L'età dei giovani al loro primo contatto con l'alcol si è abbassata, come ci dice l'Istat, passando dai 15 agli 11-12 anni — ricorda Michele Sforza, psichiatra, socio fondatore della sezione lombarda della Società italiana di Alcologia e direttore del Centro per lo studio e la terapia delle psicopatologie. «Un dato ancor più allarmante — prosegue Sforza — se si pensa che nei giovanissimi l'organismo in sviluppo è estremamente vulnerabile all'azione tossica dell'alcol».
«L'aumento del consumo — continua Sforza — è motivo di preoccupazione perché è evidente che a maggiori quantità di alcol corrispondono maggiori rischi, ma ad aggravare le preoccupazioni ci sono le modalità con cui i giovani bevono. È sempre più diffuso il bere "esagerato", il bere per lo "sballo" (binge drinking); un tipo di abuso che un tempo era appannaggio dei Paesi nordeuropei e americani, che consiste nell'ingurgitare in rapida successione quantità decisamente notevoli di alcolici ».
«Nel mondo giovanile il binge drinking è la modalità più pericolosa di consumo di alcolici e minaccia la salute fisica e psicologica e la stessa vita di moltissimi ragazzi. Per abuso intendiamo l'assunzione di quantità di alcol superiori alle capacità di smaltimento di un determinato soggetto in determinate occasioni, — precisa Sforza — vale a dire che non conta soltanto la quantità di alcolici che si beve, perché ciò che può essere troppo per una persona, può essere poco per un'altra, oppure ciò che può non essere troppo per una persona in certe situazioni può essere troppo per quella stessa persona in situazioni diverse. Una certa quantità di alcol non crea problemi se il bevitore è sul divano di casa a guardare la Tv, ma può essere letale se sta guidando un'auto».
«Il bere giovanile — tiene a ribadire Sforza — nei suoi aspetti problematici, è però proprio caratterizzato dall'abuso che, col tempo può dar luogo, in alcuni soggetti predisposti, ad una vera e propria dipendenza, cioè alla possibilità di essere "agganciati" dalla sostanza e di non poterne più fare a meno».
Osservando le conseguenze pericolose e perfino letali legate all'abuso, ci si continua a chiedere il perché di questi comportamenti, insomma: perché i giovani bevono? «Un aiuto per capire questo fenomeno — risponde Sforza — ci viene dal sapere che l'alcol etilico contenuto in tutte le bevande alcoliche, che siano a bassa o ad alta gradazione, è una sostanza psicoattiva, cioè capace di modificare le sensazioni, le emozioni e il pensiero di chi ne fa uso. La modificazione principale consiste nel procurare nel consumatore sensazioni piacevoli. L'alcol, a piccole dosi, ha effettivamente la proprietà di disinibire, di togliere l'ansia, di aumentare l'aggressività, di facilitare il sonno. È comprensibile, quindi, che alcuni giovani utilizzino l'alcol per sentirsi più "sciolti", meno timidi, più coraggiosi, o per rendere più lievi difficoltà psicologiche».
«Queste considerazioni, però, possono farci capire le ragioni di un singolo individuo che ricerca nel bere un suo specifico vantaggio, ma non ci fanno capire l'entità di un fenomeno che coinvolge, a livello sociale, un numero elevato di persone — dice Sforza —. Sul piano più vasto del sociale, il bere è diventato un modo di rapportarsi e di stare con gli altri, uno stile di vita, una scorciatoia per assumere un ruolo sociale».
Spesso parlando con i giovani ci si sente dire: bevo perché lo fanno tutti. Oppure: come posso frequentare il bar o la discoteca senza bere? Sarei isolato dagli altri, un diverso.
Cosa c'è di vero in queste affermazioni? «Il bere è oggi una modalità per socializzare, un modo di essere anche per i giovanissimi — spiega l'esperto —. Pensiamo al rito dell'aperitivo (un tempo ignoto ai giovani e addirittura rifuggito come aspetto contrario alla cultura giovanile), dell'happy hour, del dopo cena, del "fare serata", del "dai sballiamo!". In assenza dell'alcol come "lubrificante sociale" o peggio, com'è diventato oggi, di un "identificante sociale", non è possibile divertirsi nel modo giusto. E il divertimento giusto può essere solo a tutti i costi, "estremo", esasperato. Il divertimento è visto come fine e non più come mezzo per ricaricarsi, premiarsi. Il nuovo motto è: "Mi diverto dunque sono"».
«Spesso si sente dire — conclude Sforza — che tocca , o toccherebbe, ai genitori dire di no, saper limitare i figli, dando loro i giusti valori. Ma come potrebbero molti adulti trasmettere limiti e valori se loro stessi condividono l'etica dell'effimero, dell'esagerato, del "vincente a tutti i costi"».

l’Unità 9.9.07
Enrico Pieranunzi in piazza del Campidoglio
Musica, teatri, musei: a Roma una folla di emozioni illumina la Notte Bianca
di Francesca De Sanctis


UN PIZZICO di follia, o perlomeno di voglia d’evasione. Ecco cosa ci vuole, quella piccola spinta che serve a scaraventarti in strada, ad immergerti in una folla capace di modificarsi come una grande sacca, che diventa più stretta quando s’insinua tra le stradine di Roma o si allarga con il suo pancione di fronte alle bellissime piazze romane. E non importa se continui a sfogliare tra le mani il programma con tutti gli eventi della Notte Bianca senza averne visto neppure uno. Poco importa se il percorso immaginato salta del tutto. La Notte Bianca è magica anche per questo. Perché l’emozione, tra gente di ogni età, arriva all’improvviso. Ascoltando la musica della Dino e Franco Piana Jazz Orchestra, per esempio, che ha dedicato il concerto di apertura della quinta Notte Bianca romana ad Armando Trovajoli, l’uomo delle musiche di Ettore Scola. Il maestro, commosso, ha ascoltato dalla prima fila, in piazza del Campidoglio, melodie memorabili e popolari, impreziosite dalla partecipazione di Enrico Pieranunzi che ha vestito di jazz una serata ogni anno speciale (con Laura Pausini assente per influenza). «Un concerto dedicato a me? Mi auguro di no» ha detto Trovajoli -. Spero sia dedicato a Roma». E qualche voce fuori dal coro ne ha approfittato per srotolare giù dal primo piano dei Musei Capitolini uno striscione con la scritta “Notte bianca, lavoro nero, senza diritti”. Giusto, ha replicato Veltroni dal palco. «Non è solo la notte degli eventi - ha detto - è giusto ricordare il lavoro nero. La serata è dedicata anche a Ingrid Betancourt». La folla, oltre due milioni e mezzo di persone nonostante la partita dell’Italia, ha ascoltato, riso, perfino pianto, come nella vigilia, durante il concerto di Lucio Dalla, che intonando Caruso ha dedicato la sua lunga notte a Luciano Pavarotti. Ma è bastato salire in metropolitana per non dimenticarlo: la sua voce ha accompagnato i nottambuli fino alla mattina. Nottambuli amanti dell’arte e della musica, del teatro e della letteratura. D’altra parte tra i 400 appuntamenti sparsi per la città c’era solo l’imbarazzo della scelta. Perfino i musei, rimasti aperti per tutta la notte, sono stati presi d’assalto.
Moltissimi i fan di Franco Battiato arrivati a Roma solo per lui. Accompagnato dalla voce di Manlio Sgalambro, filosofo e da anni co-autore dei testi, Carlo Guaitoli al piano e Angelo Privitera alla tastiera. Quel palco innalzato in piazza del Campidoglio ha continuato ad incanatare fino al mattino, che rischiarava a ritmo della musica arabo-andalusa dell’Ensemble de Fez (diretti dal maestro Mohammed Briouel).
Contemporaneamente altre piazze si riempivano, altre strade si popolavano di sguardi curiosi, altri artisti regalavano momenti magici, altre coppie si arrabbiavano perché il teatro era troppo pieno e non si riusciva ad entrare, altri piccoli miracoli accadevano nella città. A cominciare dalle luci che hanno acceso i palazzi. Uno in particolare: il Palazzo delle Esposizioni, eccezionalmente riaperto per la Notte Bianca dopo la chiusura forzata dovuta al crollo del soffitto. Per una notte il Palazzo si è trasformato in un caleidoscopio di suoni e visioni. La facciata, infatti, è stata «interpretata» da Philipp Geist, artista multimediale, rivelazione a Berlino. Il Palazzo delle Esposizioni riaprirà definitivamente al pubblico il prossimo 6 ottobre con Mark Rothko, Stanley Kubrick e Mario Ceroli. «È il compimento di un sogno - ha detto Veltroni -. È un luogo molto emozionante per la bellezza dell’impatto visivo».
Per il resto, dal centro alla periferia, ci hanno pensato gli artisti a tenere sveglia la folla di questo «magnifico scandalo», come ha detto Veltroni ricordando le parole pronunciate la sera prima da Vittorio Sermonti. Paolo Rossi e Gigi Proietti, Ascanio Celestini e i Têtes de Bois, Sergio Staino e Gabriele Lavia. E ancora Alessandro Haber, Modena City Ramblers, Ambrogio Sparagna, Giorgio Barberio Corsetti, Vincenzo Cerami, Daniele Sepe, l’Orchestra di piazza Vittorio e all’alba il concerto degli Zero Assoluto. Tutti inseguiti dai piccoli grandi sogni della gente: vivere le emozioni.

Corriere della Sera Roma 9.9.07
La Cina in via Ripetta
Riapre Arteinterrazza: due mesi di mostre sul Celeste Impero
di C. De L.


Dopo l'Iran, all'Accademia di Belle Arti arriva la Cina. Si aprirà domani "Artinterrazza", la manifestazione che ha lo scopo di promuovere il dialogo e la conoscenza tra i popoli attraverso pittura, scultura e miniatura. «Lo scorso anno - spiega Gaetano Castelli, direttore dell' Accademia - ci siamo focalizzati sulla Persia mostrando ai nostri studenti e alla città intera gli splendori dell'antica arte iraniana. Abbiamo aperto un canale, uno scambio culturale che proseguirà nel tempo e darà i suoi frutti. Ora iniziamo lo stesso percorso con la Cina».
Anche in questa terza edizione la manifestazione si svolgerà sulla splendida terrazza di via di Ripetta dove fino al 27 ottobre saranno in programma esposizioni, lezioni di arte, proiezioni e dibattiti. Lo spazio ospiterà anche due importanti mostre di pittura e fotografia provenienti dal Paese del Dragone. La prima, «Lives on Paper», sarà inaugurata proprio domani alle 19 e proporrà al pubblico i lavori di sei professori della China Academy of Fine Art. «Opere che - aggiunge Castelli - attraverso la pittura di paesaggio, la calligrafia e gli ideogrammi su carta, la pittura sperimentale e le installazioni video mostrano come l'arte e l'antica cultura cinese abbia un ruolo fondamentale nello sviluppo di un futuro sempre più tecnologico ».
Il 18, invece, alle 18.30 si aprirà «La Cina vista attraverso la fotografia», mostra organizzata dalla Fondazione Italia Cina su incarico dell'Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese in Italia.
(...)
«ARTINTERRAZZA», da domani al 27 ottobre (h 10-24) all'Accademia di Belle Arti (via di Ripetta 222). Ingresso libero. Info: 06.3218005 tutte le mattine (10-13) oppure artinterrazza@gmail.com


il manifesto 9.9.07
A ottobre un'altra piazza
di G. Polo, P. Sansonetti, P. Sullo


Ai primi di agosto abbiamo rivolto un appello al popolo della sinistra, chiedendogli di fare sentire la propria voce, di riprendere l'iniziativa, scendere in piazza, spingere il governo a cambiare rotta, essere più fedele al programma per cui è stato eletto, a rispettare i valori e i principi essenziali della sinistra e del pensiero democratico, a introdurre correzioni significative nella sua azione. Cioè combattere il sistema della precarietà (del lavoro e della vita) e chi vorrebbe che questo sistema diventasse l'unico nostro futuro. Insomma, abbiamo chiesto uno scatto di partecipazione al popolo della sinistra, ai movimenti sociali, ai cittadini, in modo che sia possibile ricostruire una speranza.
Oggi rilanciamo questo appello, ribadiamo la data del 20 ottobre per la manifestazione, diamo appuntamento a tutti a piazza della Repubblica, a Roma. Sarà una giornata che - al di là delle letture distorte fioccate nel mese d'agosto - vuole ridare la possibilità alle persone in carne e ossa che non sono rassegnate all'esistente, di far sentire la loro voce, intervenire nelle battaglie e nei conflitti, organizzarsi come soggetti attivi, poter chiedere a chi comanda scelte qualificanti, indicare quali, partecipare a costruire un progetto di società e di «agire pubblico» diversi, non basati più sulla legge feroce del mercato, capaci di far diventare l'idea di solidarietà una struttura della convivenza civile tra le donne e gli uomini.
Noi torniamo a porre le grandi questioni che abbiamo elencato ad agosto, e chiediamo a tutti (forze politiche e sociali, associazioni e movimenti) di unirsi a noi in questa manifestazione, con le proprie idee, le proprie proposte, le proprie istanze, le proprie caratteristiche. I promotori del 20 ottobre sono molto diversi tra loro, ma considerano le diversità un valore. Non chiediamo a nessuno di aderire alla manifestazione rinunciando a quel che pensa e alle battaglie che più gli stanno a cuore. Crediamo però che il 20 ottobre il popolo della sinistra possa riunire in un solo corteo le sue tante anime - diverse ma amiche - e dare una scossa molto forte alla società italiana e alla politica.
Nell'appello di agosto elencammo alcune grandi questioni (con le loro relative concrete ricadute politiche) che confermiamo come centrali per qualunque pratica che si voglia dire di sinistra e sulle quali chiediamo una svolta rispetto alle politiche degli ultimi mesi. Il lavoro, la questione sociale, i diritti di tutti (che devono precedere gli interessi di alcuni), la questione di genere, il disarmo e la pace, l'ambiente e la difesa del territorio e dei beni comuni, la legalità (quando diciamo legalità pensiamo alla lotta alla mafia e non ai lavavetri). Su queste grandi questioni vogliamo promuovere un grande confronto nel paese nei quaranta giorni che precedono l'appuntamento del 20 ottobre, senza pregiudizi, discriminazioni e paletti. Mettendo in comunicazione le grandi anime della sinistra: quella operaia e sindacale, quella ambientalista, quella femminista, quella pacifista, quella gay e tutte le altre. Su alcune di queste questioni parteciperemo ad altre iniziative pubbliche e di massa molto importanti, come - il 7 ottobre - la marcia della pace da Perugi ad Assisi.
Il 20 non ci sarà un solo corteo ma una manifestazione di manifestazioni.

Gabriele Polo, Piero Sansonetti, Pierluigi Sullo

il manifesto 9.9.07
La paranoia è sicura
di Alessandro Robecchi


Sono assolutamente d'accordo nel moderare i toni a proposito di questa faccenda della sicurezza che sta spaccando il paese, la sinistra, e anche un po' i maroni. Ieri non sono stato scippato, né rapinato in villa, né fatto oggetto di alcuni colpi di arma da fuoco; nessuno mi ha sputato in un occhio o ferito in modo grave, nemmeno lieve. Non ho subito rapine, nessun congiunto mi ha finito infierendo sul cadavere, gli zingari non mi hanno rapito i bambini, nessuno mi ha molestato sessualmente, nemmeno lavandomi il vetro della macchina. È vero che c'erano due scritte sui muri e che ho incontrato un barbone, ma ne sono uscito incolume. Non mi capita spesso, ma ieri ero schiacciante maggioranza, in linea con il 99,9 % degli italiani. Verso il tardo pomeriggio, l'ipotesi da poco ventilata per cui, se non diamo subito armi nucleari ai vigili urbani, tra poco rischiamo che ritorni il fascismo, mi sembrava infondata. Poi è venuta sera e, ancora stupefatto per gli scampati pericoli, mi sono messo a vedere i tg Mediaset, ho cominciato alle 18,30 col tg dei puffi e ho finito alle 20.30. In queste due ore ho messo in atto i seguenti propositi. Comprarmi un dobermann addestratissimo. Mettere inferriate alle finestre e un allarme costosissimo collegato con il Mossad. Comprare due pistole e un fucile da caccia grossa, più un kriss, pugnale che davano in omaggio. Ho firmato sette petizioni per liberalizzare la tortura dei finti invalidi che fanno gli accattoni, ho inviato un assegno al sindaco di Firenze perché quella splendida città si rimetta in piedi dopo che quindici lavavetri l'hanno messa in ginocchio. Ho comprato spray al peperoncino. Ho apprezzato le coraggiose opinioni di Cofferati, e ho deciso che comunque avrei votato Berlusconi, non essendo disponibili il generale Videla e Rudolph Giuliani. Verso le 22, con la paranoia a mille, sono andato, da solo, a fare una fiaccolata contro i venditori abusivi di borsette, che danneggiano la civiltà fin qui costruita da Louis Vuitton. Sono andato a dormire verso mezzanotte, dopo aver minato i balconi e avvertito i Ris di Parma che le impronte sullo spazzolino sono le mie. Non posso dire che mi sentivo un «cretino reale». No, piuttosto un «cretino percepito» che alla fine, come ci spiegano tutti i giorni, è la stessa cosa.

il manifesto 9.9.07
Christopher Hitchens, i guai della provocazione a ogni costo
di Remo Ceserani


Dopo cinque giornate dense di appuntamenti si chiude oggi l'undicesima edizione del Festivaletteratura. In scena, fra gli altri, il controverso giornalista inglese, di cui è da poco uscito per Einaudi «Dio non è grande», studio argomentato e caustico sui disastri provocati dalle grandi religioni nella storia umana Sostenitore a oltranza della guerra in Iraq dopo una lunga militanza nella sinistra, Hitchens presenta nel suo libro sulle religioni argomenti fondati e convincenti

Il libro pubblicato di recente da Christopher Hitchens sui mali e i disastri causati dalle grandi religioni nella storia umana e nel mondo di oggi (God is not Great . How Religion Poisons Everything, Hachette USA 2007; trad. it Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa, Einaudi 2007) ha avuto in America un inatteso successo e, uscito quasi in contemporanea con The End of Faith (Norton 2004; trad. it. La fine della fede, Nuovi Mondi, 2006) di Sam Harris e con The God delusion (Bantam 2006; trad. it. L'illusione di Dio. Le ragioni per non credere, Mondadori 2007) di Richard Dawkins, ha provocato accesi dibattiti su giornali e riviste, in televisione, in incontri pubblici.
Rotture clamorose
Un intervento di Hitchens, intervistato da Anderson Cooper della Cnn, a commento della morte del pastore fondamentalista Jerry Falwell nel maggio scorso, ha fatto anch'esso scandalo. In un'occasione in cui si dicono solitamente parole buone, magari ipocrite, sulla persona scomparsa, Hitchens ha definito Falwell «un volgare truffatore... uno sgradevole piccolo ciarlatano, la cui vita dimostra solo che in questo paese puoi permetterti le più straordinarie offese alla moralità e alla verità se riesci a farti chiamare reverendo». (Per chi non lo sa, Falwell, fondatore di una potente e ricca chiesa battista a Lynchburg, in Virginia, e di una università privata il cui nome può piacere a Berlusconi: «Liberty University», è divenuto famoso come leader della Moral Majority che aiutò Reagan a conquistare la Casa Bianca e per una dichiarazione mai veramente smentita che attribuì l'11 settembre a una punizione divina per l'America corrotta, abortista, favorevole ai matrimoni gay, sostenitrice della separazione fra lo Stato e le Chiese).
Di origine inglese, Hitchens - che sul tema «Uomini e dei» dialogherà oggi con Peter Florence nel Cortile della cavallerizza a Mantova - risiede da anni a Washington e ha ottenuto di recente la cittadinanza americana. Dopo gli studi a Oxford (filosofia, scienze politiche, economia: un'ottima educazione ad ampio raggio), ha lavorato nei media a Londra, poi è sbarcato in America e per vent'anni ha tenuto una rubrica, intitolata Minority Report, molto ammirata per lo stile caustico e aggressivo e per le idee radicali di sinistra (ispirate alla sinistra inglese più intransigente e a un misto di marxismo, trotzkismo e tradizione libertaria) sul settimanale «The Nation». All'indomani dell'11 settembre, però, Hitchens ha rovesciato le sue posizioni, ha dichiarato che quell'avvenimento lo aveva sconvolto e ha rotto clamorosamente con «The Nation», scrivendo un'ultima puntata della sua rubrica nella quale dichiarava la guerra di Bush «giusta» e «necessaria», cui è seguito uno scambio di lettere aperte con Katha Pollitt, direttrice della rivista.
Le sue frequentazioni sono cambiate, ha perso vecchi amici e ne ha acquistati di nuovi (fra cui il falchissimo Wolfowitz, che egli ha difeso con forza quando è scoppiata la crisi della Banca mondiale), e però ha continuato a dichiarare che pur non essendo più di sinistra, continua ad applicare alla storia e alla politica le categorie proposte da Marx. Ha spesso detto di non avere niente in comune con i neo-con e ha espresso molte riserve su Bush (definito «anormalmente non-intelligente»), pur appoggiandone la rielezione.
Applausi e fischi
Ora scrive su «Slate» e sul «Daily Mirror», ha una rubrica su «Vanity Fair» e sull'«Atlantic Monthly», pubblica libri, compare spesso in televisione, esibisce grandi capacità retoriche in furiosi dibattiti, a cui si presenta lucido e pronto alla battuta (nonostante i bicchieri di whisky bevuti in preparazione), accolto da applausi e fischi. Se si cercano paragoni in casa nostra, vien da pensare, per le capacità dialettiche al servizio delle cause più diverse, a Marco Pannella, per l'aggressività mediatica e i giri di valzer a Vittorio Sgarbi, per il passaggio dall'ideologia socialista a quella guerrafondaia, gli atteggiamenti macho e l'isolamento progressivo nella posizione pro-Bush a Giuliano Ferrara.
A leggere oggi l'ultimo articolo di Hitchens sulla «Nation» e lo scambio di lettere con la Pollitt qualsiasi persona di buon senso, anche senza far ricorso alla saggezza del poi, si accorge di quanto sbagliati fossero quei ragionamenti. Al timore (vera profezia) espresso dalla Pollitt che un intervento militare in Iraq avrebbe provocato molte vittime da entrambe le parti, infiammato ulteriormente l'Islam e sottoposto l'intera regione a un bagno di sangue, corrispondeva, da parte di Hitchens, una serie di false certezze: «Non c'è il minimo dubbio che egli (Saddam Hussein) si è procurato alcuni degli strumenti di genocidio e spera di ottenerne altri (...). Il fronte teocratico e assolutistico di questa guerra spera di vincerla esportandola qui da noi, il che significa che non possiamo sperare di restar fuori dalla guerra...». A cui seguiva un richiamo morale alla assoluta necessità di prendere posizione in favore dell'intervento.
A mano a mano che la spedizione in Iraq si è dimostrata quel disastro che tutti conosciamo, la posizione di Hitchens si è fatta più dura e ostinata, con critiche sempre più esplicite alla mollezza di Bush e alle incertezze della condotta americana. Nell'anniversario dell'11 settembre 2006 ha scritto sul «Wall Street Journal»: «Noi - e i nostri alleati - dobbiamo diventare più spietati e al tempo stesso più esperti. Un vantaggio troppo trascurato del terribile scontro in corso in Iraq e in Afganistan è che esso sta addestrando decine di migliaia dei nostri giovani ufficiali e soldati a combattere nel peggior terreno immaginabile, e gradualmente imparare come confrontare, infiltrare, 'piegare', isolare e uccidere il peggior nemico immaginabile. Sono capacità di cui avremo bisogno in futuro».
Che si può dire di un personaggio come Hitchens? Ci hanno provato in tanti a dare un giudizio su di lui, dagli amici più stretti, come Martin Amis, compagno di studi a Oxford, a Salman Rushdie, ai compagni prima del campo socialista poi di quello neo-con. Ian Parker ha tracciato un penetrante profilo sul «New Yorker» (16 ottobre 2006). Non è facile giudicare uno che ha sostenuto cause giuste e impopolari, come la riunificazione dell'Irlanda e la rivendicazione dei diritti palestinesi (in un libro scritto insieme a Said), e cause ingiuste e altrettanto impopolari. Tutti d'accordo nel sostenere che è brillante, molto colto (anche, straordinariamente, in cose letterarie, come dimostrano i suoi scritti in materia, dal saggio su Proust nell'«Atlantic Monthly» alla recensione dell'ultimo Harry Potter sul «New York Times»), che è un dialettico tagliente e un creatore di battute fulminanti. Quasi tutti d'accordo nel sostenere che ha una notevole dose di bullismo e un'aggressività probabilmente derivata da profonde basi psicologiche. Lo ha sostenuto, parlando con Parker, la seconda moglie, l'intellettuale americana di famiglia ebraica Carol Blue, secondo la quale la voglia che ha Hitchens di mostrare i muscoli viene dall'essere cresciuto in una famiglia piccolo borghese, con un padre militare, protagonista delle battaglie navali nella seconda guerra mondiale, e una madre di origine ebraica che abbandonò marito e famiglia e morì suicida con il nuovo compagno in un albergo di Atene). Lui stesso ha dichiarato, con ammirevole sincerità: «Io sono estraneo a qualsiasi forma di modestia, compresa la falsa modestia». Certo l'elenco delle persone che ha attaccato violentemente è lunghissimo, e va da madre Teresa di Calcutta a Ronald Reagan a Michael Moore, a tanti altri. I termini usati sono stati spesso molto offensivi e certo sopra le righe: per esempio Hitchens ha definito Moore a scumbag (persona spregevole - etimologicamente il termine si riferisce al preservativo, un raccoglitore di sperma) e a sua volta è stato così definito dal deputato inglese George Galloway in un dibattito visibile su «YouTube».
Va aggiunto che, pur essendo stato ammesso, grazie all'amicizia con Wolfovitz, in qualche stanza dei bottoni, pur avendo come giornalista visitato spesso i paesi del Medio oriente e avviato rapporti di amicizia con i dirigenti kurdi e con Chalabi in Iraq, non ha mai avuto un posto di vero rilievo nei circoli importanti della politica: Minority report si chiamava la sua rubrica su «The Nation», e minoranza Hitchens è rimasto nella scena culturale del paese, al pari di gran parte della classe intellettuale.
Forse le cose possono cambiare dopo la pubblicazione del libro su Dio, dato il clamore mediatico che ha suscitato. Si tratta di un libro serio, frutto di un ottimo lavoro di scavo storico (all'attività di studioso di Hitchens, parallela a quella di giornalista, appartengono anche altri suoi lavori, come la biografia di Thomas Jefferson o il libro su Orwell). Il titolo (dato dall'editore) allude alla frase rituale dei fedeli musulmani: «Allah è grande». La storia della religione di Maometto, i suoi sacri testi e le sue credenze e riti sono sottoposti a una critica demolitrice. Ma neanche le tradizioni religiose ebraiche e cristiane ricevono un trattamento migliore. Per la professione di ateismo militante, materialismo e criticismo radicale Hitchens sente di appartenere a una nobile tradizione, da Democrito a Epicuro e Lucrezio agli illuministi, da Hume a Darwin a Bertrand Russell. Con abilità inserisce fra i pensatori che l'hanno ispirato Socrate, Kant, Marx e Freud. Chi legge con mente aperta e onestà intellettuale questo libro deve riconoscere che moltissimi dei suoi argomenti sono corretti e coincidono con i risultati della ricerca scientifica sulla storia materiale del mondo e con quelli della ricerca storica e antropologica sulle vicende delle grandi religioni monoteiste e dei loro rapporti con la vita sociale e politica delle nazioni antiche e moderne, così come sulla ricerca filologica che ha ricostruito la storia dei libri cosiddetti «sacri». A parte alcune deformazioni (tutto il discorso sulla circoncisione sfiora l'assurdo, le battute sulla massoneria mostrano scarsa informazione storica) il libro è argomentato e convincente, soprattutto nel dimostrare che i disastri provocati dalla fede religiosa non sono dovuti a perdonabili errori di singoli ma sono la conseguenza di qualità intrinseche di ogni istituzione e di ogni mentalità religiosa e nel sostenere con forza che l'azione morale dell'uomo non ha bisogno del sostegno della fede religiosa per operare verso il bene comune.
Toni nerboruti
Proprio perché molti dei suoi argomenti sono fondati e convincenti, dispiace che più volte nel corso di questo libro, e dei dibattiti che l'hanno seguito, Hitchens si sia lasciato trascinare dall'uso della sferza verbale che gli viene dalla lunga attività di polemista politico e giornalistico. Si legge così che Falwell e i creazionisti sono yokels (idioti di campagna), la teologia di Pascal «aveva qualcosa di sordido», il re David dei Salmi era «un bandito senza scrupoli», le ragioni date da C. S. Lewis per il suo sostegno al cristianesimo «erano talmente patetiche da sfidare ogni descrizione», Calvino era «un sadico, un omicida» (con riferimento alla condanna al rogo di Serveto), la religione islamica è «una serie evidente di plagi messi insieme alla meglio» e il Corano è stato dettato da un analfabeta, la saggezza buddista è così banale da prestarsi facilmente alla parodia, la festa ebraica di Hanukkah è «una celebrazione noiosa e insipida» (dichiarazione curiosa per uno che aveva una madre ebrea e ha sposato la seconda moglie in una sinagoga).
Il pericolo è che, finendo sul palcoscenico della cultura televisiva, questi toni nerboruti servano a trasformarlo in una star ammirata e temuta anche dagli avversari, a spese della sua integrità intellettuale e della qualità dei suoi argomenti. Inoltre la tenacia e la supponenza con cui appoggia tesi insostenibili in campo politico può danneggiare la persuasività delle tesi più che giuste sostenute nel campo della filosofia, della scienza e della religione. Purtroppo anche Hitchens non è sempre grande.

il Messaggero 9.9.07
Severino: «I cattolici si rassegnino, la fine della tradizione è inevitabile»
di Carlo Mercuri


Professore Emanuele Severino, il Papa dice che la scienza senza Dio è una minaccia per l’umanità. Quali considerazioni le suggerisce l’affermazione di Benedetto XVI?
«La scienza senza Dio: sono decenni che rifletto su questo problema. Direi che si tratta di un processo inevitabile. Un processo inevitabile che conduce a una scienza-sapere filosofico che porta a dire addio al passato, a dire addio a Dio. Il Papa dice che la scienza senza Dio è una minaccia mortale? E’ vero, ma la scienza illuminata dalla filosofia è un prodotto inevitabile, ripeto. E’ tempo che il mondo cattolico faccia i conti con questa inevitabilità».
Quali sono questi conti, professore?
«E’ un discorso complesso. E’ come spiegare la formula della relatività in un articolo di giornale. Non si può».
Ci provi.
«Occorre fare i conti con la potenza del discorso che ha condotto alla scienza senza Dio. E’ la potenza stessa del pensiero contemporaneo che porta a concludere che Dio è morto. Possiamo definire tutto ciò come relativismo? No, è qualcosa di più sostanziale. Invito tutti i lettori di buona volontà ad andare a leggere i miei libri su quest’argomento».
Lei vede tuttavia pericoli in una “scienza senza Dio”?
«Dio è morto e questo sentire si ripercuote nelle masse. La gente crede sempre di meno e ciò genera certamente disordine sociale. Le conseguenze potrebbero essere tragiche. Si è perduto l’aggancio all’attrezzo della tradizione e bisogna ancora vedere come ci si ancorerà al nuovo».
Professore, il Papa ha anche affermato che l’Occidente è in crisi perché «rassegnato a considerare l’uomo incapace di verità». Lei che ne pensa?
«E’ una questione connessa alla precedente. Non è l’Europa che ha rinunciato alla verità. Tante teste pensanti dell’Occidente hanno parlato dell’impossibilità della verità».

sabato 8 settembre 2007

Repubblica 8.9.07
Gianrico Carofiglio, scrittore e magistrato antimafia: "Raptus psicotici"
"Uccidono e dimenticano ecco le mamme killer"
di Giuliano Foschini


I protagonisti di questa storia sono tutti belli: per questo c´è tanta attenzione dei media europei

BARI - Non lo dice da scrittore. Ma da magistrato. «Una mamma può uccidere il proprio figlio. Lo provano le statistiche, gli studi dei criminologi, il lavoro degli investigatori». Gianrico Carofiglio dopo anni passati da pubblico ministero alla Dda di Bari, oggi è consulente della commissione parlamentare antimafia. È soprattutto lo scrittore italiano del momento: tre romanzi in classifica, il 15 settembre sarà in libreria il suo ultimo lavoro "Cacciatori nelle tenebre" (Rizzoli), un graphic novel (qualcosa di più di un fumetto) realizzato insieme con suo fratello Francesco. Si racconta di bambini scomparsi e di un gruppo di investigatori cocciuti che li inseguono.
«I bambini sono sempre più protagonisti di casi atroci di cronaca. La storia di Maddie e dei suoi genitori la conosco per quello che ha raccontato la stampa, difficile dare giudizi. Suona un po´ strano che una bambina scompare, scatti una caccia all´uomo di quelle dimensioni e né salti fuori uno squilibrato che la rilasci. E né si scopra il corpo. È già successo, penso a Denise Pipitone o ad Angela Celentano. Ma si tratta di un´anomalia».
La polizia portoghese sospetta che i genitori non volessero uccidere la bambina. Ma soltanto sedarla.
«Dare dei tranquillanti a una bambina è un atto di aggressività soltanto mascherata. Ma altrettanto grave».
Possibile che un genitore regga la pressione e, se colpevole, non confessi?
«Certamente si, per ragioni diverse. Nei casi di delitti commessi in quadro psicotico è possibile che la gente non ricordi quello che ha fatto. Negli altri casi, più banalmente, il genitore responsabile si difende e tenta di allontanare un´accusa insopportabile».
Del caso Maddie parlano giornali e televisioni di tutta Europa. Eppure scompaiono bambini ogni giorno, ovunque nel mondo. Perché tanto clamore?
«In questo caso c´è un´alchimia che ha accelerato la diffusione della storia: i protagonisti sono tutti belli. Se fossero stati bruttini probabilmente non ci sarebbe stata tanta attenzione. La gente, poi, quando viene toccata in alcuni punti si carica e ha bisogno di partecipare a questo circo. In buona fede possono vedere cose che non esistono o manipolare la percezione di cose insignificanti per l´indagine. Come racconta un proverbio cinese, i due terzi di quello che vediamo è dietro i nostri occhi».

Repubblica 8.9.07
Lo psichiatra Nivoli: le madri possono mentire come qualsiasi assassino
"Così l'incidente può nascondere una strategia omicida inconscia"
È difficile pensare che il carnefice sia in casa, ma accade ed è sempre accaduto


ROMA - Professor Giancarlo Nivoli, presidente dell´Associazione di psichiatria forense, autore di un libro sulle madri assassine, "Medea tra noi", Carocci editore. Una madre può uccidere e nascondere, simulare in questo modo? E´ plausibile?
«Parliamo in generale: sì, certo, non dobbiamo stupirci, anche le madri possono mentire come qualsiasi altro assassino, non sono poi così diverse».
Eppure siamo abituati a pensare che le madri uccidano solo in un momento di follia, preda di un raptus, o per errore, e che dopo siano sempre pronte a confessare travolte da un peso insostenibile.
«Pensare questo è uno sbaglio, molte confessano ma altre no, anche di fronte a prove schiaccianti. Possono negare e mettere in atto qualsiasi scenario pur di apparire innocenti. Il fatto è che noi non vogliamo accettare che le madri uccidano. Questa idea è insostenibile e pensiamo sempre ad un caso di follia. È difficile pensare che il carnefice sia in casa ed è quello ci culla. Pensiamo che una madre sia pazza perché non siamo culturalmente in grado di accettare, di ammettere che una madre uccida il figlio, il figlio a cui lei stessa ha dato la vita. Ma accade ed è sempre accaduto».
Ci sono poi anche gli incidenti, le distrazioni colpevoli.
«Ma a volte anche drammi apparentemente naturali, incidenti, sono strategie inconsce messe in atto dalle madri. Però voglio precisare che i casi sono sempre complessi e c´è sempre un insieme di fattori. Da una recente ricerca sono risultati molto importanti i disturbi dell´umore, l´instabilità, questo fattore insieme alla depressione e alla psicosi, può diventare una causa scatenante, soprattutto se non c´è una adeguata maturità genitoriale».
Ci sono più genitori immaturi di un tempo?
«Sì ma anche perché come su molte altre cose, abbiamo una diversa sensibilità. Un tempo il pater familias poteva gettare il neonato nella spazzatura, lasciarlo morire o esporlo sul marciapiede lasciando che chiunque lo prendesse e nessuno si stupiva, oggi è naturalmente inaccettabile».
La cultura del tempo glielo permetteva.
«Già, questo dimostra che la cultura è più forte della genetica. Oggi ci indigniamo, giustamente, per questi delitti ma non dobbiamo stupirci soprattutto se non seguono lo schema ideale che ci siamo costruiti».
(m.c.)

Repubblica 8.9.07
Un nuovo studio: in mancanza di tele usò canovacci da cucinA
Gli stracci di Van Gogh
Isabel Ferrer


Era ricoverato in una clinica psichiatrica a Saint-Rémy

Qualsiasi superficie è buona quando si ha l´ispirazione per dipingere e Vincent van Gogh, il prolifico e tormentato artista olandese, fece suo come nessun altro questo principio. Nel 1889 e 1890, gli ultimi anni della sia vita, giunse a creare un quadro al giorno. E quando la consegna delle tele inviate da suo fratello Theo tardavano, si accontentò di tovaglie e perfino di stracci da cucina per dipingere campi di grano, fiori e giardini. L´uso di tele così singolari è stato constatato da Louis van Tilborgh, conservatore del museo che porta il nome del pittore ad Amsterdam, che ha trovato opere di questo tipo in Olanda, in collezioni private e nel Museo d´Arte di Cleveland, negli Stati Uniti.
Van Gogh si trovava nel 1889 nella località francese di Saint-Rémy, ricoverato di sua volontà in una clinica psichiatrica. Vi era giunto proveniente da Arles, dove si era tagliato un pezzo di orecchio in un attacco di psicosi. Incapace di mettere su uno studio per paura di una ricaduta, entrò in un istituto psichiatrico.
La rigidità dell´ambiente e delle sue norme forse lo calmarono, perché in un solo anno dipinse 150 quadri. In una lettera indirizzata a Theo, mercante d´arte a Parigi, gli chiede un rotolo di tela di 10 metri che tarda tre settimane ad arrivare. «Durante lo studio realizzato con il mio collega Meta Chavannes, del Museo di Belle Arti di Boston, sull´opera Dirupo, dipinta da van Gogh su un´altra intitolata Vegetazione selvatica, abbiamo scoperto che almeno altri cinque quadri furono finiti su stracci da cucina o su tovaglie. Sapevamo che aveva usato cartone e carta quando non aveva soldi, ma adesso è chiaro che cercò anche materiali ancor meno convenzionali» dice Van Tilborgh. È il caso di Grandi platani, conservato nel Museo d´Arte di Cleveland; Campi di grano in un paesaggio di montagna, del Museo Kröller-Müller, nel nord dell´Olanda, e Angolo del giardino di Daubigny, del Museo van Gogh di Amsterdam.
«Entrambi hanno i fili incrociati e intrecciati a quadratini nel modo tipico degli stracci domestici», spiega Van Tilborgh. Dato che l´artista non poté uscire dall´istituto psichiatrico di Saint-Rémy e quando gli aprirono la porta fu solo perché potesse andare in giardino, «si deve trattare degli stracci da cucina dell´ospedale stesso», fa notare.
Nel 1890, dopo essersi abbastanza ripreso, van Gogh si trasferisce a Auvers-sur-Oise, località nelle vicinanze di Parigi. Il posto era molto adeguato per continuare a curarsi all´ombra dei circoli artistici parigini senza sottoporsi alle loro tensioni. A Auvers dipingerà capolavori come Cipressi, Gigli e Notte stellata. Theo, sempre attento, gli scrisse lodando «un colore che non aveva mai raggiunto prima». Anche se non riuscì mai a vendere nemmeno un quadro in vita sua, il suo talento non sfuggì al critico Albert Aurier, che lo paragonò ai simbolisti e ai post-impressionisti. Espose anche nel gruppo d´avanguardia belga Les Vingt e nel salone parigino degli Indipendenti.
La tranquillità del 1890 si incrinò poco dopo una visita di suo fratello che lo informava di essere rimasto senza lavoro e pensava di stabilirsi per conto suo. Il 27 luglio, forse preoccupato per il futuro di entrambi, Vincent van Gogh si sparò un colpo di rivoltella al petto. Sarebbe morto due giorni dopo tra le braccia di Theo, al quale lasciò una collezione che oggi è quasi impossibile assicurare dato il suo valore. «Un vero peccato. Pensate che a parte l´aspetto romantico di una morte tragica e prematura, nel 1901 c´erano già opere sue nei musei europei», dice il conservatore.
Si dice che gli artisti hanno bisogno di un decennio per diventare famosi e van Gogh considerava buone solo le opere dell´ultimo periodo. Per quanto possa sembrare strano, forse ebbe più paura del trionfo che del fallimento.

(Copyright "El País", Traduzione di Luis E. Moriones)

il Riformista 8.9.07
Quanti luoghi comuni sempre tra i soliti noti
di Alberto Abruzzese


Una volta mi è accaduto - in una di quelle occasioni istituzionali che navigano nel vuoto - di ascoltare il pensiero di Galli della Loggia sui media televisivi e i new media. Per quanto lui stesso avvertisse molto generosamente di capirne assai poco, le cose che gli ho udito dire erano davvero scoraggianti. Al più, pre-catodiche. Mi ricordò il caso in cui un ministro, per altri versi rispettabilissimo, di fronte ai miei studenti aveva esordito dicendo che i linguaggi tecnologici della comunicazione non erano il suo campo. Strabiliante: come se nel passato un preposto al governo della nazione avesse detto che la scrittura non lo aveva mai riguardato e mai aveva creduto di doversene occupare o almeno servire.
Una competenza, semmai, da affidare tutta ai ministri strettamente deputati al settore (presupposto che i ministri vengano scelti per specifiche competenze invece che come esperti al massimo nel gioco serio della politica…ed ecco perché essa oggi si trova svuotata e sempre meno seria).
Fatto sta che il Galli si è sentito chiamato a parlare di cinema. Guarda caso, proprio quando le agende dei grandi quotidiani di informazione parlano di cinema per promuovere il Festival di Venezia e da questo essere promosse. Ne è venuto fuori il tradizionale dibattito tra “i soli noti”. Pieno di buon senso. Ma tanto fitto di luoghi comuni da potere mettere in linea personalità così distanti tra loro quali sono Lizzani, Bellocchio, Olmi. E chissà quanti altri. Pieno di buon senso, purtroppo, anche l’intervento compilato da Scalfari sulla Repubblica. Se tuttavia guardiamo con più attenzione dentro l’apparente uniformità delle posizioni assunte da tutti costoro nei confronti della questione “cinema italiano”, non è difficile vedere le stratificazioni ideologiche che vi si intrecciano e spesso confondono. Un florilegio di stereotipi che vincono sulla “bontà” dei loro portatori.
Innanzitutto l’evocazione nostalgica del neorealismo, fatta in termini di cultura e vita nazionale piuttosto che di linguaggio, e per questo confondendo le questioni del linguaggio cinematografico con le sorti dell’identità italiana al guado tra resistenza e repubblica, comunismo e democrazia. Trascurando quindi di dire che il neorealismo fu un lampo rigeneratore del cinema anche e forse soprattutto di quello internazionale, imponendo ai consolidati modelli meta-nazionali e americano-centrici degli anni trenta una prima grande frattura estetica: la rappresentazione di una catastrofe dal basso invece che dall’alto del capitalismo, la messa in scena delle macerie invece che dei simulacri della realtà, il bricolage artigianale invece che la fabbrica hollywoodiana, il piccolo commercio quotidiano invece che i cieli della finanza. Era il primo “terzo mondo” - innaturale e provvisorio come fu in una Italia presto rientrata bene o male nella ricchezza dell’occidente - ad affacciarsi sui porosi immaginari delle grandi potenze della mondializzazione. Scorsese se ne serve ancora oggi. Coppola li ricorda. Bellocchio ha cominciato così. Olmi ne ha assorbito e tradotto a suo modo la sapienza.
Ma, soprattutto, l’enfasi sul neorealismo oscura da sempre - e così è ancora questa volta - la eccezionale perizia tecnica e professionale di un cinema italiano medio i cui margini si spingono di molto prima che la commedia italiana si solidificasse nella sua grande perizia sociale. Eccola la cinematografia nazionale che ha dato il meglio di sé e non è stato certo per i valori che la animavano, ma perché nel territorio che produceva questo cinema - i suoi attori, registi, sceneggiatori, tecnici - le dinamiche di produzione e consumo avevano trovato un loro equilibrio. Quello era non un cinema degli autori ma un cinema che produceva la sua qualità grazie ai consumi ai quali attingeva. Quando le regole di mercato del cinema prodotto dai modelli di consumo internazionali si sono imposte al localismo delle economie-politiche del cinema italiano, ecco che ne sono scaturite le sue due tipiche forme, ancora oggi in discussione: il cinema d’autore e il cinema di cassetta. Limitati l’uno e l’altro all’asfissia di una cultura audiovisiva che mancava e manca della competenza di mondo comunque necessaria a dare ai propri prodotti un pieno senso invece che fiacco e marginale. I volti, i set e le storie italiane non rimandano agli scenari, alle narrazioni e agli attori sociali del pianeta. Non toccano né i suoi vertici, i suoi territori del privilegio, né i suoi precipizi, le sue terre desolate. A far percepire il mondo - vi piaccia o non vi piaccia - è stata la televisione. È la carne televisiva a far palpitare i consumi. Il cinema italiano rispetto ad essa è una scheggia.
E tuttavia, anche posta così, la questione rischia di portarci fuori strada. È strano che, per parlare di cinema, un giornalista e uomo di cultura come Scalfari - almeno lui tra tanti improvvisatori - non faccia quanto evidentemente è costretto a fare quando pubblica i suoi tomi filosofici. Certo, gli è forse di impedimento quella sua formula - dignità artistica - su cui basa la logica delle proprie argomentazioni. E qui si fa sospetta l’attrazione che i potenti hanno per il cinema in un’epoca che forse ha da mettere in discussione una volta per tutte l’autorità dell’arte, dell’umanesimo e via dicendo. Ragionare di cinema a partire dall’arte e dalle estetiche è molto utile ma a patto di liberarsene. Sarebbe comunque interessante discutere con lui del perché non abbia cercato qualche traccia bibliografica per ragionare in modo più appropriato sulla questione. Non era tenuto a farlo, mi direte, perché il suo è - come spesso gli accade - un appello da cittadino-intellettuale, e che guaio sarebbe mettersi a studiare ogni volta prima di parlare. Buon senso, si è detto. Ma non di un uomo qualunque. Infatti, se di una cosa è esperto, questa è il sentire della classe dirigente alla quale appartiene. Ed è qui che il suo discorso è ancor più significativo.
Dice che non c’è relazione tra la qualità dei valori di una società e il cinema che essa produce. Ha ragione. Ma ha davvero torto nel non mettere al centro del problema dei valori le classi dirigenti, quindi non solo i colti ma le reti di potere che essi attraversano e dalle quali sono attraversate. I grandi autori della letteratura o dell’arte che egli colloca nelle fasi di maggiore degrado sociale e ideale dei contesti che li hanno prodotti, appartenevano tuttavia a micro-aree di classi dirigenti, capaci di interpretare, rappresentare e rilanciare il mondo, la sua ricchezza, anche quando mortificata e avvilita dalle sue ferite e catastrofi. Le loro opere nascevano da un rapporto vivo non tanto tra produzione e consumo, quanto piuttosto, almeno in una porzione anche minima ma effervescente, tra diverse e coese relazioni socio-culturali, dotate di responsabilità civile: ed era la capacità di mondo realizzata da questo rapporto a dare fortuna alle loro opere nello spazio (allargando il loro pubblico di consumatori) e nel tempo (diventando dei classici).
Abbiano altrettanto oggi in Italia? E forse la stessa domanda - cosa che Scalfari ha colto ma non sviluppato - potremmo estenderla altrove, perché il cinema italiano che giudichiamo in tutti i suoi limiti è forse allo stesso stadio terminale delle altre cinematografie occidentali. Solo che lì la ricchezza dei consumi è ancora in grado di soddisfare anche il nostro gusto e, godendo di bacini così ricchi, sa trovare nuove formule (le serie della Fox, il cinema degli effetti speciali, ecc.). Qui, al massimo si potrebbe riuscire a vincere la scommessa di un cinema di nicchia per nicchie di spettatori. Sarebbe un grande progetto. Ma realizzabile solo attraverso un totale ricambio dei ceti culturali che producono aspiranti scrittori e registi; aspiranti funzionari pubblici; aspiranti imprenditori; aspiranti giornalisti.

Corriere della Sera 8.9.07
Il vertice / I leader di Prc, Sd, Pdci e Verdi trovano l'intesa: lista unitaria alle prossime Amministrative
La Cosa rossa avanza: si chiamerà «La sinistra», debutto nel 2008
di Maria Teresa Meli


Chiuse le tensioni sul 20 ottobre: obiettivo 250 mila persone

ROMA — Con assai minor clamore del Pd — ma con difficoltà non meno trascurabili — la Cosa rossa va avanti. Tanto che in una riunione riservata tra i leader dei quattro partiti che dovranno costruirla si è deciso il nuovo nome del soggetto politico che verrà: «La sinistra». Il segretario del Pdci, Oliviero Diliberto, avrebbe preferito «Le sinistre», al plurale, per salvaguardare le diverse identità. Ma con tutta probabilità è questo il nome con cui Rifondazione, comunisti italiani, Verdi e Sinistra democratica si presenteranno insieme già alle elezioni amministrative del 2008. E si sta studiando anche il simbolo. Richiamerà quello dell'Unione, anche se il rosso sarà più evidente.
Sembrano dunque riassorbite le divisioni esplose dopo che il Prc aveva appoggiato la manifestazione del 20 ottobre. Fabio Mussi e gli altri transfughi della Quercia, che avevano deciso di disertare l'iniziativa, ora, dopo che la piattaforma è stata riscritta, hanno fatto rientrare il loro dissenso. Ci saranno anche i «fuggitivi» Ds al corteo autunnale (magari non Mussi, ma solo in omaggio al compromesso individuato nell'Unione per cui i ministri non scendono in piazza e tutti gli altri sì). E al vertice del centrosinistra di ieri Mussi è stato uno dei più sparati, dopo Franco Giordano, naturalmente. E non solo sulla finanziaria. Anche sulla sicurezza: «Se voi andate avanti ognuno si assumerà le proprie responsabilità ». Come a dire: noi votiamo contro, governo o non governo.
Dunque si va avanti, anche se i dubbi, sulla manifestazione, rimangono. Ma non sull'opportunità di tenerla, perché per Giordano, «quell'appuntamento è irrinunciabile». Le preoccupazioni riguardano la partecipazione. La Cosa rossa punta ad avere almeno 250 mila persone, altrimenti, sarà un flop, come quello della manifestazione anti-Bush. Per questa ragione non è stato ancora scelto il luogo dell'iniziativa: rischiare piazza San Giovanni, sembra avventato, meglio la più rassicurante — e piccola — piazza del Popolo.
Difficoltà, quindi, ce ne sono ancora. Ma la Cosa rossa non è esplosa, cosa di cui tutti i leader del Pd (da Veltroni a Prodi) sembravano convinti, e questo, inevitabilmente, riapre i giochi nel centrosinistra. Tanto che, alla fine, il sindaco di Roma ha dovuto frenare sulla sicurezza, mentre il premier, nel vertice dell'Unione sulla finanziaria, si è speso a difendere la sinistra radicale attaccata da Di Pietro.

Corriere della Sera 8.9.07
Embrioni congelati: aperta un'inchiesta
Legge 40 aggirata nei centri di fecondazione
di Simona Ravizza


MILANO — Indagine della Procura sul ritorno al congelamento degli embrioni e nuova bufera politica sull'applicazione della legge 40 che disciplina la fecondazione assistita. La normativa finisce ancora nell'occhio del ciclone perché le donne si stanno ribellando con un escamotage giuridico all'obbligo di impianto di tutti gli embrioni (con il relativo aumento delle possibilità di gravidanze plurigemellari). Ma la scappatoia rischia di non tutelare i medici che potrebbero incappare in un reato punito con la reclusione fino a 3 anni e una multa da 50 mila a 150 mila euro per non avere applicato uno degli articoli clou della legge, il 14. È la convinzione dei magistrati di Torino che hanno aperto un'inchiesta sul caso sollevato ieri dal Corriere della Sera.
Negli ultimi mesi i principali ospedali italiani si stanno confrontando, infatti, con lettere di diffida delle pazienti contrarie al triplice impianto. Adesso il procuratore aggiunto Raffaele Guariniello, esperto di reati contro la salute, vuole fare chiarezza soprattutto sul congelamento degli embrioni, vietato dalle norme del 2004, ma diretta conseguenza dello stop delle donne all'impianto di tutti gli ovociti fecondati. Le sanzioni per i ginecologi sono previste dal comma 6 dell'articolo 14.
Ma non finisce qui. L'aggiramento della legge 40 scatena ancora una volta un duro scontro tra sostenitori e oppositori della normativa approvata tre anni fa. Per il presidente della Commissione Sanità del Senato, Ignazio Marino, è arrivato il momento di risolvere le incongruenze delle norme con una revisione delle loro linee guida. «Il fenomeno cui siamo di fronte oggi è inquietante — dice Marino —. Invece di cercare compromessi ideologici bisogna seguire la strada delle scienza che offre nuove soluzioni in grado di rispettare il desiderio legittimo di tutelare gli embrioni». Il presidente della commissione Sanità pensa a un possibile congelamento degli ootidi al posto di quello degli embrioni. «La differenza è sostanziale — spiega —. In questo caso non c'è stata ancora una fusione dei patrimoni genetici maschile e femminile. Non siamo, dunque, in presenza di un nuovo Dna». Rincara la dose il farmacologo Silvio Garattini: «Quanto accade denota i limiti della 40, sulla quale è necessario intervenire».
È contrario, invece, a rimettere mano alle norme Giancarlo Cesana, medico e leader laico di Comunione e Liberazione: «Le leggi si fanno per essere applicate — osserva —. Tra l'altro questa non è una normativa cattolica, ma una soluzione di compromesso approvata da una maggioranza trasversale. È probabile, tra l'altro, che il moltiplicarsi di interventi artificiosi sulla nascita dell'uomo conduca a nuovi disastri. E non è da escludere neppure la nascita di nuove banche di embrioni orfani o di un nuovo businness della provetta».
Sullo sfondo del dibattito, una certezza. Una parte degli embrioni che si trovano nei centri italiani di fecondazione assistita è stata congelata degli ultimi tre anni. «Dopo essersi consultati con i giuristi, sia gli ospedali sia le donne si sono accorti della possibilità di non trasferire tutti e tre gli ovociti fecondati — ammette Andrea Borini, presidente dei Cecos Italia, l'associazione che raggruppa 24 centri privati specializzati nella fecondazione in vitro —. Le pazienti non sono sanzionabili e non possono essere obbligate a subire un triplice impianto». Per il giudice Amedeo Santosuosso, tra i fondatori della Consulta di bioetica, siamo davanti al fai-da-te giuridico: «Per fortuna le donne hanno la possibilità di rifiutare — dice —. Ma ci troviamo davanti a una tipica ipocrisia giuridica da risolvere». La revisione delle linee guida da parte del ministero della Salute è attesa entro fine settembre.

Il caso delle diffide
La legge 40 sulla procreazione assistita vacilla su un punto: si torna a congelare embrioni. È l'effetto dell'iniziativa di alcune coppie che hanno iniziato a presentare diffide legali ai medici per evitare gravidanze plurigemellari e rifiutano l'obbligo delle norme sul triplice impianto
IL TESTO. Le lettere di «dissenso informato» sono state presentate ad alcuni dei principali centri di fecondazione assistita. Per lo più scritte a mano, contengono frasi di questo tipo: «I sottoscritti diffidano il direttore sanitario a trasferire tutti gli embrioni ottenuti. Con la presente si impegnano anche a tornare al Centro... per il trasferimento dell'embrione congelato»

Corriere della Sera 8.9.07
Stefania Prestigiacomo
«Ora molti ovociti fecondati vengono gettati nel lavandino»
di Margherita De Bac

ROMA — «La mia sensazione è che molti embrioni finiscano nel lavandino. Vengono buttati per evitare il congelamento perché lo vieta la legge. Del resto i controlli sono impossibili. Quando queste norme sono state approvate tutti erano consapevoli di quanto fossero ipocrite», accusa l'ex ministro delle Pari Opportunità Stefania Prestigiacomo, oggi deputato di Forza Italia, da sempre nemica acerrima del testo sulla fecondazione artificiale.
Non si sorprende che per aggirare l'obbligo di impiantare i tre embrioni e poter congelare quelli che non vengono utilizzati freschi, in un'unica soluzione, alcune coppie abbiano deciso di ricorrere alla magistratura.
Secondo lei questi ricorsi si moltiplicheranno?
«Certamente e sono sicura, e ne ho avuto conferma parlando con alcuni esperti dei centri, che la legge viene violata. I controlli sono impossibili. L'applicazione pratica ha evidenziato tutti i limiti di norme sbagliate, scritte su base ideologica, senza preoccuparsi che venga tutelata la salute delle pazienti».
Quali sono i limiti più vistosi della legge?
«Non si può costringere la donna a subire un atto medico. Il trasferimento di tre embrioni è un rischio per le più giovani perché possono avere la conseguenza di parti gemellari. Che infatti secondo i dati trasmessi al Parlamento sui primi due anni di attività con la nuova legge, sono aumentati. È un obbligo mortificante anche per i medici che invece devono avere la libertà di poter decidere caso per caso».
La legge 40 è quindi da rifare?
«No, l'ossatura va bene. Andrebbero cambiati alcuni divieti come quello della diagnosi preimpianto. Ma io non ci credo».
Perché?
«La sinistra ha rinunciato alle modifiche e anche la Turco non vuole impegnarsi. Bisognerebbe avere coraggio riaprendo la discussione in Parlamento, l'unica sede dove i problemi potrebbero essere risolti. Ma non c'è speranza.
Non c'è la maggioranza per approvare regole meno ingiuste. E l'eventuale modifica delle linee guida è uno strumento inefficace per correggere gli errori».

il manifesto 8.9.07
La potenza redentrice di un pensiero
«Giordano Bruno» di Michele Ciliberto per Mondadori. L'avventura esistenziale di un pensatore «maledetto» dove vita e filosofia coincidevano
di Alberto Burgio


La vita come filosofia, la filosofia come autobiografia e come esperienza teatrale. I pensieri come fatti vissuti, i fatti come figure concettuali da rappresentare sulla scena del mondo. Tutto questo è Giordano Bruno. Qui sorgono, nello stesso tempo, il suo programma teorico e la sua idea di sé e dell'esistenza. A cominciare dalla propria, per destino straordinaria.
Non è una novità. Chi legga Bruno sa di dover fare i conti, sempre, con una connessione indissolubile di vita, filosofia e autobiografia. Con una vita che si fa, consapevolmente, sostanza teorica e che come tale si comprende e si narra. Pensiamo, per fare solo un esempio, alla dialettica dei contrari. Dove il contrasto tra le diverse dimensioni della propria personalità diviene principio di comprensione del mondo e delle sue trasformazioni. E dove il conflitto, la contraddizione, si rovescia, da motivo di disgregazione, in ragione di forza. Da fonte di scomposizione, in fattore di unità e di coerenza dinamica.
Corpo a corpo col Cristo
Non è una novità, è un fatto acquisito. Ma è un fatto che si può subire o, invece, assumere e far proprio, magari traendone linfa per nuove e più penetranti forme dell'impresa ermeneutica. La poderosa ricostruzione della vita di Bruno che ora Michele Ciliberto ci consegna (Giordano Bruno. Il teatro della vita, Mondadori, pp. 555, euro 30) lo dimostra in maniera esemplare. È una biografia a modo suo unica precisamente per come raccoglie la sfida di ripercorrere e narrare una vita in se stessa filosofica: trasfigurata - resa pensiero, concetto e testo - nel momento stesso in cui fu vissuta e, appunto, rappresentata. Messa in scena.
Ciliberto coglie qui un risultato inseguito da tempo. Questo stesso intreccio fondava già le sue precedenti letture bruniane (ricordiamo le più note soltanto, da La ruota del tempo, 1986, al Giordano Bruno laterziano del '90, a L'occhio di Atteone, 2002). Ma ora il crogiolo si direbbe raggiungere la completa fusione. E offrire un riuscito gioco di specchi grazie al quale l'indagine sul pensiero rischiara la vita e la vicenda esistenziale illumina a sua volta la filosofia, svelandone le riposte intenzioni, l'immanente necessità: un gioco perfetto, grazie al quale davvero il profilo di Bruno sfuma nel ritratto di Teofilo.
Valga, per tutti, il riferimento al rapporto con la figura del Cristo, asse portante dell'intera ricostruzione perché punto focale verso cui tende l'incoercibile pulsione bruniana alla propria «eroica» autotrasfigurazione. Che cosa fu questo rapporto, questa sconvolgente competizione, questa inesausta sfida che celebrò i propri fasti sul rogo di Campo de' Fiori? Fu vita o filosofia? Teatro o pensiero? Passione o polemica teologica? O fu piuttosto incalzante contenzioso sui mali del mondo, sulle colpe della religione e della Chiesa, sull'«impostura» e sul peccato di chi si pretese figlio di Dio ma non ebbe nemmeno la forza di una morte dignitosa?
La sapienza mondana
Fu tutto questo e altro ancora, risponde Ciliberto. Fu anche (si pensi allo Spaccio) il fondamento di una lettura della crisi del mondo alle soglie della modernità. E fu la base di un progetto di rinnovamento filosofico, religioso e politico capace di restituire giustizia al merito e di instaurare un rapporto diretto con la natura attraverso la sapienza mondana che Bruno chiama «magia».
Ma certo la vita rivendica, nell'aspro corpo a corpo col Cristo, un primato che il pensiero non saprebbe contenderle. Anche per questo lo studio biografico si rivela strumento principe. L'ingiustizia del mondo è, in primo luogo, dolore dell'uomo. Ferita aperta nel costato di chi, dapprima, nella divinità e nella potenza redentrice del Cristo, che di quella ingiustizia è complice e reo, credette. Sino a farne il proprio ossessivo modello. Per questo l'ingiustizia diviene offesa intollerabile. Per questo il peccato non conosce redenzione e scatena una violenza rabbiosa, che sempre di nuovo sorprende. Ciliberto sostiene che vi è «qualcosa di personale e persino di inquietante» in questa scandalosa reazione («Christo è un cane becco fottuto can»), in questo disprezzo inaudito. Scrive di un «risentimento troppo acuto e profondo» perché non si pensi al tramonto di una fervida speranza, financo alla caduta di un «amore tradito».
Di certo c'è che la rilettura di questo tema dà finalmente ordine a un magma di pensieri e di immagini altrimenti non padroneggiabile. Grazie a questo filo narrativo la vita di Bruno e il suo pensiero traggono forma nello scambio reciproco di motivi e ragioni. Fino all'ultima scena - scena, poiché qui davvero trionfa la dimensione teatrale del vivere e del pensare - della morte sul rogo. È come un'apoteosi, come il compiersi glorioso di un temerario progetto di potenza che riscrive, rovesciandolo, il racconto evangelico.
Il Golgota di un uomo
Una morte decisa, scrive con forza Ciliberto. Voluta, non subìta. Accolta e praticata come strumento di autoaffermazione, di riscatto e di libertà. Come tragica rappresentazione della propria dignità. Il teatro della vita si chiude nell'ultima recita che il condannato tiene da «grande attore». Il suo epilogo non si risolve in una perdita, si ribalta in un sovvertimento. Campo de' Fiori è il Golgota di un uomo - quindi dell'uomo - restituito alla piena consapevolezza delle proprie ragioni. Nel momento della morte, la vita vince. E vince la filosofia, che della vita è stata anima e sostanza: ispiratrice di una riflessione teologica e di una riforma spirituale tese ad affermare l'avvento di una prassi laica.
Questo libro è una ben strana cosa. Non sapremmo collocarlo: non ha un genere, travalica molti confini. Avremmo potuto concludere dicendo, ragionevolmente, che è il coronamento di una feconda stagione di studi, di una Bruno Renaissance che in questi anni ha prodotto preziose edizioni e sofisticati strumenti filologici. E dischiuso nuove prospettive d'indagine che hanno complicato l'idolo Rinascimento restituendone un volto moderno ma liberandolo, ad un tempo, dal compito improprio di «anticipare» temi e tempi di poi. È certamente anche tutto questo. Ma è soprattutto altro. È la definitiva autobiografia che Giordano Bruno ci consegna, inaspettata, quattro secoli dopo la propria estrema e «suprema rappresentazione».

Liberazione 8.9.07
Presidente Napolitano, intervenga
troppi politici incitano al razzismo
di Piero Sansonetti


Signor Presidente della Repubblica,
stanno succedendo delle cose gravissime nel nostro paese. Credo che ci sia bisogno del suo intervento. Ieri su "Liberazione" abbiamo pubblicato il reportage di Laura Eduati, che è stata a Pieve Porto Morone, in provincia di Pavia, dove in un centro di accoglienza cattolico sono ospitati, in condizioni terribili, 48 persone, rom, tra i quali molti bambini. Mi permetto di suggerirle di leggere quell'articolo - bellissimo e agghiacciante - che ci fa fare una corsa indietro di molti decenni, ci fa tornare, col pensiero, agli anni truci dell'America razzista - in Alabama o in Mississippi - o addirittura a quelli funesti del fascismo e del nazismo. Una folla linciante ha circondato la cascina nella quale queste povere 48 persone sono rifugiate, ha ricoperto di insulti irripetibili i nostri amici rom, ha invocato per loro i forni- i forni, presidente: i forni crematori - cioè ha inneggiato a Hitler, ad Eichman. Gridavano: «Vi bruceremo tutti, zingari, vi bruceremo» e tiravano i sassi contro le finestre, le porte. I nostri 48 amici rom erano terrorizzati, i bambini piangevano.
Presidente, questo piccolo esercito di linciatori pavesi non era lì per caso. Alcune organizzazioni politiche li avevano incitati, aiutati, e quasi nessuno, invece, li aveva scoraggiati. Sindaci, amministratori, politici, partiti, si sono affrettati a dire sui giornali che quello dei rom è un gran problema, che i rom sono fastidiosi, rubano. Nessuno ha voluto dire che il gran problema, invece, è l'orrore di alcune centinaia di cittadini che si riuniscono per chiedere il linciaggio dei rappresentanti di un popolo che già fu in gran parte sterminato dai nazisti. Possibile che la memoria sia svanita in tutti noi?
Possibile che la luce della civiltà - cristiana, o illuminista, o liberale - si sia spenta? Non le fa orrore questo, presidente? Credo di sì, perché la conosco bene, conosco la sua storia, la sua cultura forte, la sua sensibilità. So che più di mezzo secolo fa ha iniziato a fare politica - e ha scelto questo mestiere invece di un altro mestiere più facile - perché non sopportava l'orrore del fascismo, della dittatura, del razzismo. Ed è sempre stato coerente con questo suo impegno, con questi principi, dagli anni della militanza clandestina fino all'incarico al Quirinale.
Per questo mi rivolgo a lei, perché spero davvero che riesca a fare qualcosa. Io credo che noi non possiamo pensare di fermare queste pulsioni naziste ignorandole, sottovalutandole, o peggio ancora accarezzandole. Non crede? Io sento tanta gente che in modo autorevole e paternalistico ci spiega che questi orrori sono solo sentimenti popolari, e sono diffusi, e non possono essere stroncati, ci dice che vanno capiti, che pongono problemi reali e noi dobbiamo affrontarli - questi problemi - con serietà e senza buonismi. Io non c'ero all'epoca delle leggi razziali; lei, credo, le ricorda: non vi dicevano così? «Gli ebrei sono una mala pianta, accaparrano ricchezze, complottano, è bene isolarli, levarli dalle nostre scuole, portarli lontani dalle nostre città, dalle famiglie, dai matrimoni misti...». E dov'è la differenza? Adesso ci dicono che gli zingari e i lavavetri rubano, che portano via i bambini, che bisogna tenerli fuori dal raccordo anulare, lontani dai centri abitati, che bisogna sbatterli in galera se chiedono le elemosina o disturbano al semaforo. Cosa ci dicevano i fascisti, allora? «C'è l'emergenza ebraica». Erano in malafede, preparavano l'assassinio di massa. E cosa ci dicono, oggi, tanti nostri sindaci? «C'è l'emergenza lavavetri, c'è l'emergenza rom». Presidente, lei lo sa benissimo: anche loro sono in malafede, in realtà l'unica emergenza che vedono è di tipo elettorale, e in nome di qualche pezzetto di consenso non hanno nessun problema a gettare nella disperazione tanta povera gente, a violare i principi più forti della democrazia, a ignorare la propria stessa storia e le proprie tradizioni, e finiscono per assomigliare tanto alla destra xenofoba, razzista, di molti paesi europei, che però in quei paesi è considerata "impresentabile" anche dai partiti e dagli uomini della destra.
Caro Presidente Napolitano,
lei lo sa benissimo che l'orgia forcaiola, legalista e xenofoba sostenuta da molti esponenti politici è pericolosissima. Che produce fatti abominevoli come l'assalto ai rom di Pieve Porto Morone. Non crede che sia giusto fare qualcosa per fermarla questa ondata reazionaria, che rischia di intaccare davvero le basi della nostra civiltà e l'immagine dell'Italia? Io penso che una sua parola, un suo impegno, potrebbe valere molto e davvero confido in una sua iniziativa.