"Una minaccia la scienza senza Dio"
di Marco Politi
Benedetto XVI in Austria: Occidente in crisi perché teme la verità Il futuro: "L´Europa ha troppi pochi bambini perché non si fida del futuro" Il passato: "Il mondo è stato redento non mediante la spada ma la croce"
VIENNA - Con il bastone del pellegrino Benedetto XVI arriva a Mariazell, santuario della Madonna degli austriaci, degli slavi e degli ungheresi. Il suo viaggio in Ungheria è un pellegrinaggio di umiltà, perché non incontra folle. Qualche migliaio venerdì a Vienna, quarantamila alla basilica di Mariazell, in un clima di indifferenza che nel paese sfiora quasi la metà degli abitanti.
Solo una minoranza è autenticamente entusiasta. Almeno la comunità ebraica gli ha detto grazie, con una lettera che evoca anche il pericolo dell´Iran per Israele. Qui il Papa attraversa un´Europa secolarizzata, che i periodici megashow ecclesiali non riescono a cambiare. Benedetto XVI lo sa e ad ogni tappa affina il suo linguaggio. «Di un cuore inquieto e aperto abbiamo bisogno - sostiene - abbiamo bisogno di Dio e Gesù Cristo». Rivolgersi a Cristo come unico salvatore, spiega, non è disprezzo delle altre religioni né superbia, è solo confessione di un´appartenenza ardente e di un desiderio di verità.
«La rassegnazione di fronte alla verità - dichiara ai fedeli venuti a lui nonostante pioggia, neve, tempeste e un freddo che ha provocato l´infarto di due pellegrini - è il nocciolo della crisi dell´Occidente e dell´Europa». Ma se non si distingue tra bene e male, diventano ambigue anche le conquiste della scienza: «Possono aprire prospettive importanti per il bene dell´uomo, ma anche diventare una terribile minaccia, la distruzione dell´uomo e del mondo». Gli esempi Ratzinger li ha fatti in altre occasioni: dall´energia nucleare alla biotecnica. Qui in Austria il pontefice non usa toni apocalittici, vuole predicare, vuole convincere. E perciò ammette che ci sono «buone ragioni storiche» per il timore dei contemporanei che la «fede nella verità comporti intolleranza». Come venerdì, dinanzi ai diplomatici, aveva ammesso altri peccati di prepotenza da parte della religione.
Per papa Ratzinger è urgente instillare nei fedeli la consapevolezza che il cristianesimo non è un sistema di leggi e che i dieci comandamenti sono un sì a Dio, un sì alla famiglia, un sì alla vita, all´amore responsabile, alla solidarietà sociale, al rispetto degli altri, alla verità. Un grande percorso in positivo, in cui il credente nel crocifisso sia richiamato all´amore per gli altri e nell´immagine del Bambinello sappia riconoscere i bambini poveri, i bambini-soldato, i bambini privi dell´amore dei genitori, malati, sofferenti, «ma anche quelli gioiosi e sani». L´Europa ha troppi pochi bambini, insiste: forse non si fida del futuro? Senza Dio il futuro non c´è.
Ai cristiani tentati da altre esperienza - e forse guardano a Budda o a Maometto - Benedetto XVI rammenta che certamente «grandi personalità della storia hanno fatto belle e commoventi esperienze di Dio», ma sono esperienza umane perché «solo Cristo è Dio». Un Papa non può parlare diversamente. E se si chiama Ratzinger (con un´allusione obliqua al credo islamico) aggiunge: «Dio ha redento il mondo non mediante la spada, ma mediante la Croce».
Lo stesso approccio di chi vuole plasmare preti e religiosi ad un cristianesimo essenziale anima il pontefice all´ora dei vespri nella basilica di Mariazell piena di sacerdoti, frati e suore. Si è poveri, dice, per occuparsi dei poveri e ciascun ordine si faccia «un severo esame di coscienza». Si è casti per offrire amore disinteressato in una società presa dalla frenesia dell´individualismo, dell´avidità, del consumismo, dell´impazienza. Si è obbedienti per darsi completamente a Dio. E ciò, sottolinea, implica umile obbedienza alla Chiesa.
In terra d´Austria il pellegrino Ratzinger offre un´immagine delicata, completamente diversa dalla caricatura del pontefice-panzer. Ma il suo predicare solleva anche un interrogativo: basta un grande catechizzatore per fare il timoniere? I rapporti ecumenici, nonostante un cero benedetto a Mariazell per l´assemblea pancristiana di Sibiu, sono in surplace. Le relazioni con l´Islam narcotizzate. I preti mancano drammaticamente in tutto l´orbe cristiano. E nella vita delle coppie la Chiesa non riesce ad entrare con parole giuste.
Repubblica 9.9.07
Carlo Flamigni: la religione non può decidere dove va la scienza
"Ma esiste un'altra etica frutto della conoscenza"
di Marina Cavalieri
"La ricerca serve a migliorare la qualità della vita, soprattutto dei più sfortunati"
ROMA - Scienza, etica, verità. Per Carlo Flamigni - ricercatore, uno dei maggiori esperti italiani di fertilità - c´è molta presunzione nelle posizioni espresse dal pontefice in Austria. Nelle affermazioni di Benedetto XVI si nasconde un rischio: credere che esista un´unica, incontestabile, verità, quella della Chiesa.
Papa Benedetto XVI ha detto che «le grandi e meravigliose conoscenze della scienza possono diventare una terribile minaccia, la distruzione stessa dell´uomo e del mondo se non si tiene come riferimento Dio».
«Innanzitutto definiamo cos´è la scienza. La scienza secondo me è un grande investimento sociale, serve a migliorare la qualità della vita, soprattutto dei più sfortunati. La scienza ha una serie di doveri verso la società, deve essere "trasparente", "disinteressata", "comunitarista", capace di scetticismo così che l´uomo non può che fidarsi della scienza perché al suo servizio».
Ma non ci devono essere controlli? Chi decide in che direzione deve o può andare la scienza?
«Non può essere certo la religione, antica, ossificata, a decidere, dove va la scienza. Esiste invece una morale di senso comune, un´etica che è influenzata dalle religioni ma non solo, una morale che si modifica, questo è il punto, su sollecitazione della conoscenza, dei vantaggi che derivano dalle conoscenze possibili».
Condivide gli ultimi esperimenti condotti in Inghilterra?
«Sì. Gli inglesi hanno fatto un investimento economico, gli scienziati sono usciti allo scoperto, hanno detto: queste sono le finalità, le potenzialità, queste le garanzie. Le autorità hanno chiesto di raccontare, un´organizzazione intera si è mossa. Così si realizza una democrazia virtuosa, non c´è nulla di aberrante. Lo scienziato si deve denudare del suo potere, mettere in mano alla società le sue conoscenze, gli scienziati devono parlare dei rischi e dei vantaggi e la società interviene. In questo caso non ci sono rischi etici, è una sperimentazione, è stato utilizzato un centesimo di Dna, ma ora nasceranno ancora altri problemi».
Quali?
«Se da queste sperimentazioni usciranno informazioni che verranno utilizzate in altre ricerche anche su queste si abbatterà il giudizio della Chiesa che le accuserà di complicità verso un peccato. Siamo al culmine dell´antistoricità, del delirio di verità».
La religione è un ostacolo per la scienza?
«Quando si considera portatrice dell´unica verità possibile, l´etica della Verità di questo pontefice è sbagliata e crea solo conflitti».
Repubblica 9.9.07
Tolleranza zero o tolleranza "di classe"?
di Paolo Flores d’Arcais
Anticipiamo una parte dell'editoriale del prossimo numero di MicroMega che uscirà venerdì 14 settembre
Dice: tolleranza zero! D´accordo. Dice: dunque, lavavetri raus! Inevitabile. E i venti e rotti "onorevoli" condannati con sentenza definitiva, cioè criminali patentati, che continuano a sedere in parlamento e a dettar legge (alla lettera!)? E i criminali da centinaia di migliaia di scippi, i falsificatori di bilanci, intendiamo, e quelli dell´insider trading? Nell´America di Bush (di Bush!) si beccano condanne da un quarto di secolo, e nel penitenziario ci finiscono davvero […]. E i criminali da centinaia di morti all´anno? Quelli dell´edilizia dei subappalti e del caporalato, intendiamo? Allora non "dice" più: comincia a strabuzzare gli occhi da liberismo minacciato, a strapparsi le vesti da "riformismo" offeso, e strepita: giustizialisti! Eppure nella patria del citatissimo Rudolph Giuliani, in galera si finisce per evasione fiscale, e tanto più a lungo quanto più si è – come evasori – ricchi e potenti. […] Dice: facciamola finita con la retorica degli "ultimi". Ottimo e abbondante, mandiamo il Vangelo al macero, ci voleva un po´ di sano laicismo.[…] Perché è retorica, evidentemente, pensare per un momento (il tempo di uno spot, non di più) a cosa significa concretamente la vita di un ragazzo deportato da una situazione di fame (fame, non appetito) e percosse a un accattonaggio acqua e spazzola ai semafori, ma sempre, per lui, di fame e percosse.
Ma non eravamo stati – americanamente! – tutti creati eguali, con i diritti inalienabili alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità? O è anche questa retorica per robivecchi? La retorica è insopportabile, in effetti. Ogni retorica.[…]Siamo seri, perciò, basterebbe per una politica di sinistra inaudita e strepitosa. Dietro i lavavetri, e più ancora dietro i posteggiatori abusivi, e massime dietro le prostitute, c´è quasi sempre un racket. […] Cosa è stato fatto contro questo neo-schiavismo? Contro i trafficanti di carne umana, cioè, non contro le loro vittime. Dov´è la famosa tolleranza zero? Una retata a settimana "fa punti" per la carriera nelle forze dell´ordine, e "fa voti" per "l´onorevole" presso i più ottusi degli elettori benpensanti, senza fare al racket nemmeno un graffio, mentre umilia una volta di più le sue vittime. Ma le prostitute in giro danno fastidio, turbano il decoro, imbarbariscono il traffico, lo schiavista non si vede, invece, e al benpensante fa pure comodo. […] Tolleranza zero è una prospettiva sacrosanta, se la si prende sul serio, se non la si butta in retorica. Equivale, né più né meno, a una politica della legalità. Intransigente. Quella politica che i politici hanno contrastato in tutti i modi (anche a sinistra, purtroppo, e in modo progressivamente sempre più scoperto) quando è stata possibile perché, per un magico momento, addirittura popolare (anzi, popolarissima). Immediatamente dopo lo scoperchiamento giudiziario di Tangentopoli. Con Mani Pulite, insomma. Se si parla di Tolleranza zero, perciò, come scelta strategica e anti-retorica, è da lì che bisogna ricominciare: quello zero, se non vuole diventare osceno belletto per ulteriori prevaricazioni, per la millenaria retorica del lupo contro l´agnello e per quella nostrana, recente e sempre più pervasiva, di "porco è bello!", deve partire dai piani alti, da chi più ha in termini di potere e di ricchezze. Se si comincia da onorevoli e tycoon, evasori e palazzinari, se si comincia dai reati più gravi[…], se si dimostra contro questi reati di establishment e questi criminali di "palazzi" la volontà inflessibile di fare pulizia, si sarà legittimati moralmente a esternare contro la "retorica degli ultimi", e ad agire perché venga meno il fastidio (fastidioso, fastidiosissimo, sia chiaro) di ogni forma di accattonaggio. Ma solo allora (e magari in parallelo a un rinnovato welfare. O un quinto dei cittadini sotto la soglia di povertà è "compromesso" tollerabile?). Nel can-can giustizialista a senso unico che rumoreggia in questi giorni, invece, non si scorge nessun barlume di tanta elementare equità. In realtà sta avvenendo quanto noi di MicroMega, da vent´anni inguaribili "giustizialisti", cioè inguaribili garantisti della legge eguale per tutti, abbiamo paventato, previsto, stigmatizzato. […]Una giustizia di classe. Tolleranza zero per la microcriminalità che tormenta la vita quotidiana, e impunità cento per la megacriminalità d´establishment […] Sarebbe questa la nuova serietà di una sinistra non demagogica?
Repubblica 9.9.07
Le fabbriche dell'orrore, una storia già raccontata
di Federico Rampini
I recenti allarmi sull´industria cinese accusata di sfornare prodotti tossici o contraffatti hanno un precedente illustre: le inchieste di Dickens e Sinclair sui misfatti dell´industria Usa tra Ottocento e primo Novecento. Ora un libro dello storico americano Stephen Mihm stabilisce il parallelo tra due forme di capitalismo adolescente, allo stesso tempo uguali e molto diverse
"La Cina - dice Mihm - siamo noi da giovani Se ce ne rendiamo conto, capiamo che il capitalismo mordi-e-fuggi non è un fenomeno cinese né un complotto per avvelenarci ma una fase dello sviluppo"
«Un fumo immenso dalle ciminiere oscura il cielo e sporca la terra… avvicinandosi alla città l´atmosfera cambia, diventa più cupa, l´erba dei campi sempre meno verde, il paesaggio è spoglio e squallido. E insieme col fumo sempre più spesso si comincia a sentire un odore strano, nauseabondo». Nella fabbrica «ci sono bambini piccoli, appena sopra i dieci anni, che arrivano a stento all´altezza della catena di montaggio. I genitori hanno mentito sulla loro età, per trovargli un posto pagato cento dollari all´anno». Nel reparto dove gli operai preparano il manzo in scatola «il pavimento è lurido, ma un vecchio deve raccogliere con la scopa tutti gli scarti. I rifiuti finiscono nel camion mescolati al resto della carne».
Sembrano descrizioni da un reportage sulle "fabbriche dell´orrore" che pullulano nella Cina di oggi: lo smog denso che avvolge le metropoli industriali e rende l´aria irrespirabile, lo sfruttamento del lavoro minorile, le condizioni igieniche disastrose. Un incubo che tormenta i consumatori occidentali, dopo la catena di scandali sui prodotti made in China contaminati e nocivi per la salute, scoperti nei nostri supermercati. Ma quelle citazioni iniziali non dipingono il gigante asiatico che ha invaso i nostri mercati nel Ventunesimo secolo. Sono brani tratti da un romanzo-denuncia che ha più di cent´anni: La Giungla dello scrittore americano Upton Sinclair, pubblicato nel 1906. Il luogo è Chicago, allora una città di frontiera lanciata in uno sviluppo economico tumultuoso. I protagonisti che si aggirano in quel paesaggio industriale sinistro sono poveri immigranti lituani, prima attratti dal "sogno americano", e ben presto stritolati negli ingranaggi di un capitalismo senza pietà.
Mezzo secolo prima di Sinclair, un altro scrittore celebre ha descritto la nascente potenza americana come una nazione senza regole. Il romanziere inglese Charles Dickens fa il suo primo viaggio negli Stati Uniti nel 1842. Nel diario dove raccoglie le sue impressioni annota una caratteristica del capitalismo americano: «È il dominio dei furbi che ingannano la fiducia degli altri; i truffatori e i disonesti la fanno franca e sono ai vertici della società». Lo colpisce anche la «diffusione di malattie che potrebbero essere prevenute con semplici precauzioni igieniche… come le fognature». Nel centro di New York, sulla Broadway, vede passeggiare indisturbati i maiali randagi «che sono i veri spazzini della città». Soprattutto Dickens è sconvolto dal dilagare della contraffazione. Ne è vittima lui per primo. Tutti i suoi romanzi di successo, come Oliver Twist e Il circolo Pickwick, vengono copiati e diffusi sul mercato locale senza pagargli i diritti d´autore. Le sue proteste sono inutili: lo stesso diario di viaggio in cui denuncia l´industria del falso (America) esce in versione-pirata appena quattro giorni dopo la pubblicazione in Inghilterra. A New York se ne vendono centomila copie illegali in un mese.
Oggi il pubblico occidentale è sgomento di fronte alle rivelazioni che arrivano dalla Cina: la salute del consumatore, la sicurezza dei prodotti, il rispetto del copyright, ogni valore viene calpestato in nome del profitto. Reagire è legittimo ma stupirsi è ingenuo. Solo un´amnesia storica può farci credere che le "fabbriche dell´orrore" siano una novità. A rinfrescarci la memoria ci prova uno storico americano, Stephen Mihm, docente all´università della Georgia. In questi giorni la Harvard University Press pubblica il suo saggio A Nation of Counterfeiters. La patria della contraffazione a cui allude il titolo non è la Cina, è l´America. Quello che sta accadendo oggi dall´altra parte del mondo non è un fenomeno inedito, sostiene il professor Mihm. «Un secolo e mezzo fa un´altra nazione in rapido sviluppo aveva la reputazione di sacrificare le regole alla rincorsa del profitto, e quella nazione emergente era l´America».
Dalle edizioni-pirata dei dvd di Hollywood e dei libri di Harry Potter fino agli scandali recenti dei cibi adulterati e dei medicinali tossici, osservare la Cina del Ventunesimo secolo secondo lo storico è come vedere nello specchietto retrovisore l´economia americana dell´Ottocento. Lo stesso dinamismo spregiudicato e spesso disonesto. «La Cina - dichiara Mihm - per certi aspetti è la versione giovane di noi stessi. Se ce ne rendiamo conto, allora capiamo che il capitalismo mordi-e-fuggi non è un tratto del carattere nazionale cinese, né tantomeno un complotto per avvelenare noi, ma è una fase dello sviluppo. Lo chiamerei il capitalismo-adolescente: scoppia di energia, è esuberante, dinamico. E come tutti gli adolescenti ha anche comportamenti folli, irresponsabili, pericolosi».
Riscoprendo cos´era davvero l´America dell´Ottocento impressionano le analogie con la Cina dei nostri giorni. Non è esatto sostenere che gli Stati Uniti allora fossero la terra del liberismo sfrenato, del laissez-faire. Sulla carta c´erano tante regole (così come abbonda di regole la Repubblica popolare, che ha ereditato l´armamentario del dirigismo comunista). Ma erano state scritte per una realtà ormai superata, non erano adeguate alla impetuosa modernizzazione che stava avvenendo. Le istituzioni che avrebbero dovuto disciplinare il mercato erano inefficienti, o più deboli degli interessi privati. La corruzione regnava. In un passaggio illuminante della Giungla Sinclair descrive con perfidia l´ispettore sanitario: pagato per sorvegliare lo stabilimento dove i maiali vengono macellati e trasformati in prosciutti, spesso costui finge di non vedere le nefandezze che avvengono in fabbrica. «Questo funzionario statale non aveva l´aria di uno che si ammazza di lavoro; non sembrava molto preoccupato che qualche maiale potesse sfuggire ai suoi controlli. Bastava rivolgergli la parola e lui era felice di spiegarti il pericolo mortale per chi mangia carne di maiali malati di tubercolosi; e mentre lui ti parlava dozzine di carcasse gli passavano dietro aggirando l´ispezione… Nel reparto per la produzione delle salsicce uomini e donne lavoravano in mezzo a un fetore vomitevole, i visitatori fuggivano per non soffocare». Sinclair non lavorava di fantasia. Prima di scrivere quel romanzo si era documentato accuratamente, con mesi di inchieste nelle tre maggiori aziende alimentari di Chicago, i famigerati "meatpackers" (produttori di carne in scatola) Armour, Swift e Morris. Come racconta in uno dei brani più disgustosi, nelle salsicce e nei prosciutti finivano non solo le carni scadenti o infette, ma perfino arti umani o interi cadaveri delle vittime di incidenti sul lavoro.
Nell´industria americana i vizi abominevoli non erano limitati alla produzione di carne in scatola che Sinclair prese di mira nel suo romanzo-verità. Mihm ricorda che il primo studio sistematico sulla qualità dei prodotti alimentari, realizzato a Boston nel 1859, rivelò una situazione terrificante: caramelle all´arsenico, birra con stricnina, sottaceti imbevuti di solfato di rame, farina e zucchero "allungati" con gesso e polvere di marmo, latte contaminato da mucche al pascolo nelle discariche di rifiuti. Proprio come accade oggi ai cinesi, le principali vittime erano i consumatori americani, ma gli scandali scoppiarono all´estero. Nel 1879 le autorità tedesche accusarono l´America di esportare maiali malati di colera e salsicce piene di vermi. Nel 1880 fu l´Inghilterra a bloccare partite di margarina importata dagli Stati Uniti, adulterata con interiora di bestiame putrefatte. I paesi europei più evoluti nella tutela della salute pubblica cominciarono a boicottare il "made in Usa" e a stendere un cordone sanitario attorno ai prodotti alimentari sospetti.
«Nella Cina di oggi - sostiene Mihm - la facilità con cui proliferano l´industria della pirateria e gli imprenditori senza scrupoli si spiega con gli stessi mali che perseguitavano gli Stati Uniti centocinquant´anni fa: una legislazione inadeguata, superata dalla rapida evoluzione dell´economia; la scarsa motivazione dello Stato nel combattere le frodi; e una percezione sociale inadeguata della distanza tra l´arricchimento onesto e quello disonesto». Resta una differenza: gli Stati Uniti erano già allora una democrazia, la Repubblica popolare fondata dalla rivoluzione comunista del 1949 è un regime autoritario. Che non sia una distinzione da poco lo dimostra la vicenda di Upton Sinclair. La Giungla ebbe un immenso successo popolare prima come feuilleton a puntate su una rivista socialista, poi come libro vendette centinaia di migliaia di copie. Secondo la studiosa di storia letteraria Cynthia Brantley Johnson «nessun romanzo americano del Novecento provocò una tale indignazione, e nell´ultimo secolo solo il romanzo anti-schiavista La capanna dello zio Tom ha avuto un´influenza paragonabile a La Giungla». Non sembrano affermazioni esagerate. Tra gli ammiratori di Upton Sinclair c´era il presidente Theodore Roosevelt. All´estero la sua fama era tale che Gandhi gli scrisse lettere dal carcere. Il successo di quel libro incoraggiò una nuova tendenza nella stampa americana, il giornalismo d´inchiesta, i cosiddetti muckraker (letteralmente "rastrellatori di letame"), i reporter specializzati nel denunciare la corruzione. Nel 1906 l´impatto della Giungla contribuì a far passare al Congresso di Washington il Pure Food and Drug Act, la prima legislazione generale contro l´adulterazione dei cibi. Nel 1908 il Congresso metteva al bando il lavoro minorile.
Esiste un autore cinese contemporaneo che si può considerare l´erede di Upton Sinclair. È lo scrittore Zhou Qing, che in un romanzo del 2004 ha rivelato le vergogne dell´industria alimentare del suo paese. Ha descritto operai che versano insetticidi nei barattoli di conserve alimentari per uccidere gli scarafaggi; supermercati che aggiungono la candeggina sulle torte di panna perché siano più bianche; fabbriche di bibite che riciclano le bottiglie scadute cambiando semplicemente l´etichetta con la data di produzione. Ma la sua storia è stata letta da pochi intimi. La censura del regime controlla i mass media e vieta di diffondere "allarmismo" tra la popolazione. L´ignoranza dei consumatori resta abissale.
In mancanza di libertà politica e di una società civile agguerrita in Cina, la pressione internazionale può essere utile. Lo storico Mihm ricorda che un secolo fa l´embargo decretato da varie nazioni europee sulla carne americana ebbe l´effetto di un elettroshock. Privata di sbocchi sui mercati esteri, l´industria americana dovette correre ai ripari. I controlli sui metodi di produzione e sulla qualità si fecero più severi. «Avvenne un cambiamento fondamentale: gli imprenditori più avanzati capirono che conquistarsi la fiducia del mercato era la migliore garanzia per fare profitti».
Dickens ebbe solo una rivincita postuma. La prima legge internazionale sul diritto d´autore fu adottata dagli Stati Uniti nel 1891, vent´anni dopo la sua morte. Non per effetto delle sue denunce ma perché nel frattempo era fiorita la letteratura americana e con essa un business editoriale che aveva interessi da tutelare.
Sinclair da parte sua rimase deluso dall´impatto della Giungla. Lui aveva sperato che quel libro servisse la causa del movimento operaio. Sognava una rivoluzione di sinistra contro il capitalismo americano. L´opinione pubblica invece si mobilitò contro le "fabbriche dell´orrore" soprattutto perché gli alimenti prodotti in quelle condizioni erano un attentato alla salute. Colui che sperava di essere un profeta del socialismo fu involontariamente il precursore del consumerismo. Sul finire della sua vita Sinclair commentò: «Avevo puntato al cuore dei miei lettori, invece li ho colpiti allo stomaco».
Repubblica 9.9.07
Il desiderio ai tempi della cinepresa
di Concita De Gregorio
"Il sesso è più eccitante sullo schermo che tra le lenzuola". Sulla scia di quel che diceva Andy Warhol, "Erotico", l´ultimo dei dizionari del cinema Electa-Accademia dell´Immagine, ci guida nella foresta dell´emozione amorosa per fotogrammi e nell´esplorazione di quel confine malcerto tra eros e luci rosse che nessuna regola potrà mai fissare
La parola-chiave è "tensione" Mostrateci, registi e attori, il luogo verso cui siete incamminati senza farcelo vedere mai...
Diceva un grande maestro di tango, a Buenos Aires, durante una lezione collettiva a ballerini provetti arrivati da tutto il mondo ad ascoltarlo: «Immaginate di essere in un film: quando passate da una scena di tango a una di sesso lo spettatore deve avvertire un netto calo di tensione erotica». Era un uomo piccolo di statura e sovrappeso, un uomo brutto a vederlo seduto al tavolino di un bar. Diventava irresistibile nel ballo, desiderabile e magnetico come la nostalgia. Fermava il passo e diceva con improvvisa freddezza quella faccenda del tango e del sesso come fosse una semplice notazione tecnica.
In effetti lo è. La parola chiave è tensione. Questo il segreto dell´erotismo e della danza. Mostrateci, ballerini, il luogo verso il quale siete incamminati senza farcelo vedere mai. Lasciatecelo indovinare, che ciascuno degli spettatori possa immaginarne l´esito secondo il suo privato e segreto desiderio: che sia un rifiuto, persino, se questo è ciò che appaga il bisogno di chi guarda. Uno schiaffo, uno sgarbo oppure un bacio e solo quello, una carezza e niente più. Un congedo di sguardi o una fusione liquida di corpi, certo, ma qui, quando si arriva, il tempo del cammino è già finito. Il dopo è il meno. Il dopo è la fine del viaggio la cui bellezza - come in quel tango - è solo una promessa. Tensione verso, desiderio di. Itaca, diceva il poeta, non è la meta: è il cammino per raggiungerla. L´erotismo, scrivono i dizionari, si distingue dalla pornografia per la «presenza di un vissuto emotivo»: l´attesa, si potrebbe anche dire. Il crescendo del preludio, l´intelligenza dei sensi che si attiva e si mette in moto verso un orizzonte.
In Erotico di Valerio Caprara, l´ultimo dei dizionari del cinema Electa-Accademia dell´Immagine, Lezioni di tango non c´è, per la fortuna di quelli che lo considerano un patrimonio emotivo privato. Non c´è il bacio di Notorius né Grace Kelly che poggia le labbra sulle mani di Cary Grant in Caccia al ladro («lei sa bene che questa collana è un´imitazione», «sì, ma io non lo sono»), non c´è lei che si spoglia ne La finestra sul cortile né niente di Hitchcock, di nuovo e con sollievo per fortuna. Un´antologia del cinema erotico è in realtà un´impresa impossibile perché niente è più privato, imprevedibile e individuale del desiderio. Cosa lo scateni, in memoria di cos´altro, perché.
Chiedete a trenta persone, a quaranta: la scena erotica per te più conturbante. Non otterrete due risposte uguali. Estratti dal mio campione: la carezza di Harvey Keitel sulla nuca della pianista in Lezioni di piano. La partita a scacchi fra Steve Mc Queen e Faye Dunaway nel Caso Thomas Crown. Candice Bergen che si cambia tenendo un telo tra i denti nel Vento e il leone. La signora della porta accanto, tutto. Di Eyes Wide Shut solo la scena in cui lei, in mutande, discute in camera con lui. Di Ultimo Tango non quella riprodotta all´infinito, no: l´altra invece, quando lui la lava nella vasca. Fra i più giovani: Clooney e Lopez chiusi nel bagagliaio della macchina in Out of sight. Scarlett Johansson che cammina tra la folla in Lost in Translation e lui che scende dal taxi per dirle qualcosa all´orecchio, sfiorandola alle spalle. Cosa le dice, potete indovinarlo? È già un altro gioco, però: un altro desiderio. Y tu mamà tambien, la scena in cui ballano in tre, due ragazzi e una donna, è lì che Garcia Bernàl diventa l´uomo (l´idea di uomo) con cui andresti in vacanza anche in Islanda e senza parlare la sua lingua. Atame, dove Antonio Banderas poco più che ragazzino la lega perché lui sa che lei non sa quel che lui invece sa perciò è costretto a costringerla, come sarebbe bello e desiderabile e quasi sempre impossibile fare negli incontri della vita.
It takes two for tango, dicono gli americani per tornare al principio, il tango: bisogna essere in due per dare forma al desiderio e se uno manca all´appello, se non riesce non vuole non può, non c´è ballo possibile. Almodovar, che dell´erotismo è un moderno genio poetico e dissacratore, ha fatto diventare un´icona sexy una donna in coma e bisogna immaginarsi la scena di un regista qualunque che va dal produttore e gli dice: dunque, io avrei un soggetto, lei è in coma tutto il tempo e c´è un infermiere vecchiotto basso e un po´ scemo che l´accudisce. Era Almodovar, solo per questo gliel´hanno fatto fare. Non c´è scena erotica più divertente della gara di virilità in cui i candidati espongono, in piedi e al buio di un cortile notturno, le proprie qualità. Al pubblico votante il banditore munito di centimetro annuncia cifre iperboliche: 82, applauso; 90, boato; 94, ovazione. È Almodovar il primo a dirlo in chiaro: lunghezza per circonferenza, è un prodotto la chiave della felicità. Non serve il righello, ci vuole un metro a nastro. Marlene Dietrich diceva con opportuna schietta sintesi che «solo i froci sanno come si fa a far sembrare una donna sexy» ed in effetti Penelope Cruz se la incontri per strada dopo averla vista in Volver non ti capaciti che sia la stessa e non è per via del sedere imbottito che le ha messo il regista in omaggio alla Loren, no. È come canta, è come lava i piatti.
Di straordinario il dizionario di Valerio Caprara, che pure ha fatto un lavoro notevolissimo tra gli infiniti possibili, c´è la selezione delle immagini. La quasi totalità degli umani, per quanto amanti del cinema, non è in grado di ricordare come si chiamasse l´episodio di Wong Kar-wai nel film collettivo Eros e di che anno fosse ma se vede l´immagine di lei spalle al muro e occhi bassi con quel vestito pazzesco e la schiena di lui che le si fa addosso e la stringe alla parete si ricorda, o crede di ricordare, che è lo stesso. Gli abiti accollatissimi e disegnati sul corpo perfetto di Maggie Cheung nell´amore mai consumato di In the mood for love sono meno, più o altrettanto erotici delle bretelle di Charlotte Rampling, anoressica quando non si usava, nel Portiere di notte?
Un film perché diventi patrimonio di tutti non è necessario averlo visto: il foulard stretto al collo di lui nell´Impero dei sensi, i corpi che rotolano in Zabrisky point, le mutande bianche di Richard Gere in American Gigolo, le calze di Laura Antonelli in Malizia, la corsa di lei con loro due dietro in Jules e Jim, i nudi carponi di Salò, gli occhiali e il lecca lecca di Lolita. La sottoveste di seta di Kim Basinger ma soprattutto Joe Cocker che canta You can leave your hat on, di quante autoradio predisposte all´uopo, negli anni Ottanta, è stata la colonna sonora?
Sharon Stone che accavalla, certo, ma bisogna anche tenere conto dell´anagrafe. Se hai ottant´anni niente ti impressionerà più come il primo nudo di Clara Calamai. Se ne hai quaranta non puoi dimenticare Valery Kaprinsky che balla nuda nella Femme publique di Zulawsky né Maruska Detmers in Prenom Carmen di Godard, chissà che fine hanno fatto tutte e due, erano senza dubbio i più bei corpi degli anni Ottanta, seni piccoli pre-silicone e sederi naturalmente tondi, nudità sfacciata e prepotente. Se ne hai trenta sei venuto al mondo con Sesso bugie e videotapes, con le Età di Lulù di Bigas Luna (e avevi già letto il libro, ovvio, fonte di inesauribili piaceri privati e fantasie). Agli animi più torbidi piacque Tokyo decadence, alle minoranze rivendicative Tokyo-Ga. Da quando sono arrivati i giapponesi è stato tutto più violento e più esplicito, va detto: un´altra cultura. Noi eravamo quelli delle lenzuola sul terrazzo di Una giornata particolare. Eravamo quelli del vorrei ma non posso. Poi è arrivato Crash e abbiamo persino detto bravo. Sì, Johnny Depp in Chocolat è fantastico, Juliette Binoche è da portasela a casa ma diciamo la verità, anche a caro prezzo: come Marcello e Sofia non c´è stato più nessuno.
Corriere della Sera 9.9.07
«Ecco la macchina della dolce morte»
In Germania è scontro sull'eutanasia
Ex ministro di Amburgo: il malato può attivarla con un bottone. La Chiesa insorge
di Federico Fubini
BERLINO — È uno strumento piccolo e di un rassicurante colore verde. Lo ha tirato fuori e mostrato al pubblico di un dibattito elettorale qualche giorno fa Roger Kusch, ex assessore alla Giustizia di Amburgo e fondatore di una lista civica alle prossime elezioni di ottobre. Il nome della macchinetta è «Sterbehilfe Automat», dove «Automat » si usa generalmente per i distributori di merendine a gettone e «Sterbehilfe» significa «aiuto a morire».
Per come l'ha presentata Kusch, probabilmente convinto di guadagnare consensi in questo modo, la macchina è concepita per l'uso da parte di persone che si vogliono suicidare: una sorta di strumento automatico per l'eutanasia, che permetterebbe di aggirare i vincoli di legge esistenti in Germania anche sui malati terminali. La piccola macchina verde è progettata in particolare per loro: basta premere anche debolmente un piccolo bottone per potersi fare un'iniezione letale.
«La mia intenzione è solo di mostrare quali siano le possibili opzioni per l'eutanasia», è stata la spiegazione del politico di Amburgo. In realtà l'uso di quello strumento renderebbe la «dolce morte» in Germania perfettamente legale anche per i casi di persone che non siano quasi più in grado di muoversi. Nella Repubblica federale è infatti proibito aiutare un malato terminale a morire, anche se è quest'ultimo a richiederlo. A differenza che in Italia, il suicidio invece non è punibile.
In teoria, sarebbe dunque legale se un malato terminale ricevesse da un parente la macchinetta verde, quindi la facesse funzionare lui stesso schiacciando il bottone. I parenti e i medici hanno però l'obbligo di correre in aiuto della persona che ha tentato il suicidio, non appena questa perda conoscenza.
Kusch, da sempre impegnato per l'eutanasia, ha trovato una falla nel sistema giudiziario tedesco che la proibisce. Non è dunque un caso se l'uscita dell'ex ministro della Giustizia della città di Amburgo ha sollevato immediatamente una ridda di reazioni.
Per ora, tutte negative. Per l'arcivescovo di Amburgo Werber Thissen l'idea dell'«Automat» denota un «orribile smarrimento». Anche il candidato sindaco della Sdp Michael Naumann ha definito l'uscita «immorale e scandalosa», mentre Eugen Brysch della fondazione Hospizstiftung ha accusato Kusch di essersi «completamente squalificato».
Il dibattito però non finirà semplicemente con il rifiuto di una macchina comparsa in un giorno di campagna elettorale. In Germania operano infatti numerose associazioni favorevoli all'eutanasia, alcune anche molto strutturate come Dignitas. Nessuna di loro però si spinge fino al punto di fornire strumenti di suicidio al malato, soprattutto per non sfidare i vincoli di legge sull'obbligo di soccorso successivo.
Certamente in Germania si fa sentire l'approccio più tollerante sulle questioni etiche di alcune delle chiese protestanti. Ma il radicamento cattolico resta molto solido soprattutto al sud e nelle regioni della valle del Reno e non mancherà di farsi sentire se la campagna per l'eutanasia dovesse farsi più intensa.
La riprova giunge proprio in questi giorni da Monaco di Baviera. Il governo del Land guidato da Edmund Stoiber sta infatti per imprimere una svolta in nome dell'osservanza religiosa: un obiettivo a lungo perseguito dal ministro- presidente, vicinissimo ormai alla pensione. Un'iniziativa di legge del governo monocolore dei cristiano-sociali mira così ad allargare notevolmente il concetto di oltraggio alla religione perseguibile penalmente o punibile con una multa. Soggette a sanzioni, secondo il progetto di legge, saranno tanto le bestemmie che le espressioni che «svalutano o irridono» la religiosità: anche queste ultime sarebbero un segno di «intolleranza » che offende «convinzioni religiose o visioni del mondo di altre persone». «Volevamo avere più protezione», ha commentato in proposito la rappresentante dell'Ufficio cattolico di Monaco di Baviera Bettina Nickel. Ma la chiesa evangelica, anche su questo punto, prende una posizione diversa.
Per i protestanti l'ironia o la critica alla religione non sono «fattori rilevanti sul piano legale e non c'è nessun bisogno di occuparsene ».
Corriere della Sera 9.9.07
La Hack: rischierei la galera per sollevare dalla pena chi soffre
di Margherita De Bac
Non voglio ricevere cure contro la mia volontà. L'eutanasia è un diritto, è un atto di carità
ROMA — Margherita Hack, cos'è l'eutanasia?
«Un diritto», risponde l'astrofisica.
E la vita?
«Un dono che ho tutto il diritto di rifiutare ».
Il Papa ha appena riaffermato il contrario.
«Se continua con queste affermazioni torniamo al Medioevo. Non può pretendere che l'individuo rinunci alla padronanza della propria vita specialmente se non è credente. Se la vita è insopportabile voglio essere libera di farla finita. Non posso essere obbligata a sopportare l'insopportabile ».
Ha esperienze dirette?
«No, ma ho seguito il caso Welby. Io rischierei volentieri la galera per sollevare dalla pena un uomo che soffre. È un atto di carità. Lo stesso farei da medico».
Sul suo testamento biologico ha scritto che in caso di grave malattia e perdita di coscienza desidera finirla?
«Non ho fatto testamenti, di alcun genere, per pigrizia. Però lo scriva, non voglio ricevere cure contro la mia volontà. Mi facciano fuori subito. E spero di non dovermi mai trovare nella condizione di chi resta lucido e deve soffrire per una malattia inguaribile».
L'eutanasia è sempre dolce morte?
«Sempre dolce e anche quando porta dolore, è preferibile ad una sopravvivenza senza speranza. Sentirsi alla mercé degli altri è inaccettabile».
Crede nell'aldilà?
«No. Chi muore, muore e basta. Non resta nulla oltre a molecole che serviranno a costruire altri esseri. Le molecole restano libere nell'atmosfera per secoli. Noi continuiamo a vivere solo nella testa e nei ricordi di chi vive».
Nega anche l'esistenza dell'anima?
«L'anima è il cervello. L'anima è ciò che ci fa ragionare, pensare, vivere. L'anima è il nostro motore. Non credo che possediamo qualcosa di innaturale, che ci arriva per afflato divino».
Che le hanno detto da piccola?
«Da bambina mi raccontavano che Gesù esiste, forse però non mi parlavano della Madonna. I miei erano teosofi, non credenti. Ho creduto nel Bambin Gesù e nella reincarnazione. A 16 anni avevo già cancellato la religione. Se ne può fare a meno».
Spieghi perché.
«L'etica consiste nel non far male agli altri, non serve credere in Dio. Anzi penso sia meschino agire sperando in una ricompensa nell'aldilà».
È favorevole ad una legge sul testamento biologico?
«Sarebbe un segno di civiltà poter indicare le proprie volontà di fine vita. Ma chissà se riusciranno mai ad approvare una legge. Nel nostro Paese comanda il Vaticano».
Secondo lei in Italia la pratica dell'eutanasia è molto più diffusa di quanto si dica?
«Sì, specie dopo il caso Welby. Nessuno vorrebbe fare quella fine, essere tenuto in vita in modo coatto. La maggior parte degli italiani chiederebbe che venisse staccata la spina. Agnostici ma formalmente cattolici. Non vanno in chiesa, si sposano solo per il piacere di indossare un bel vestito. Aumentano le convivenze. Cattolici? Ma va'...».
Corriere della Sera 9.9.07
Adolescenti. Sono giovane, dunque esagero
Lo psichiatra spiega come liquori e cocktail sono diventati un «identificante sociale»: senza un bicchiere in mano ci si sente esclusi dal gruppo
di Angelo de' Micheli
Non occorre essere sociologi o medici per accorgersi dell'aumento del consumo di alcol tra i giovani. Ed è senz'altro il caso di preoccuparsi. «L'età dei giovani al loro primo contatto con l'alcol si è abbassata, come ci dice l'Istat, passando dai 15 agli 11-12 anni — ricorda Michele Sforza, psichiatra, socio fondatore della sezione lombarda della Società italiana di Alcologia e direttore del Centro per lo studio e la terapia delle psicopatologie. «Un dato ancor più allarmante — prosegue Sforza — se si pensa che nei giovanissimi l'organismo in sviluppo è estremamente vulnerabile all'azione tossica dell'alcol».
«L'aumento del consumo — continua Sforza — è motivo di preoccupazione perché è evidente che a maggiori quantità di alcol corrispondono maggiori rischi, ma ad aggravare le preoccupazioni ci sono le modalità con cui i giovani bevono. È sempre più diffuso il bere "esagerato", il bere per lo "sballo" (binge drinking); un tipo di abuso che un tempo era appannaggio dei Paesi nordeuropei e americani, che consiste nell'ingurgitare in rapida successione quantità decisamente notevoli di alcolici ».
«Nel mondo giovanile il binge drinking è la modalità più pericolosa di consumo di alcolici e minaccia la salute fisica e psicologica e la stessa vita di moltissimi ragazzi. Per abuso intendiamo l'assunzione di quantità di alcol superiori alle capacità di smaltimento di un determinato soggetto in determinate occasioni, — precisa Sforza — vale a dire che non conta soltanto la quantità di alcolici che si beve, perché ciò che può essere troppo per una persona, può essere poco per un'altra, oppure ciò che può non essere troppo per una persona in certe situazioni può essere troppo per quella stessa persona in situazioni diverse. Una certa quantità di alcol non crea problemi se il bevitore è sul divano di casa a guardare la Tv, ma può essere letale se sta guidando un'auto».
«Il bere giovanile — tiene a ribadire Sforza — nei suoi aspetti problematici, è però proprio caratterizzato dall'abuso che, col tempo può dar luogo, in alcuni soggetti predisposti, ad una vera e propria dipendenza, cioè alla possibilità di essere "agganciati" dalla sostanza e di non poterne più fare a meno».
Osservando le conseguenze pericolose e perfino letali legate all'abuso, ci si continua a chiedere il perché di questi comportamenti, insomma: perché i giovani bevono? «Un aiuto per capire questo fenomeno — risponde Sforza — ci viene dal sapere che l'alcol etilico contenuto in tutte le bevande alcoliche, che siano a bassa o ad alta gradazione, è una sostanza psicoattiva, cioè capace di modificare le sensazioni, le emozioni e il pensiero di chi ne fa uso. La modificazione principale consiste nel procurare nel consumatore sensazioni piacevoli. L'alcol, a piccole dosi, ha effettivamente la proprietà di disinibire, di togliere l'ansia, di aumentare l'aggressività, di facilitare il sonno. È comprensibile, quindi, che alcuni giovani utilizzino l'alcol per sentirsi più "sciolti", meno timidi, più coraggiosi, o per rendere più lievi difficoltà psicologiche».
«Queste considerazioni, però, possono farci capire le ragioni di un singolo individuo che ricerca nel bere un suo specifico vantaggio, ma non ci fanno capire l'entità di un fenomeno che coinvolge, a livello sociale, un numero elevato di persone — dice Sforza —. Sul piano più vasto del sociale, il bere è diventato un modo di rapportarsi e di stare con gli altri, uno stile di vita, una scorciatoia per assumere un ruolo sociale».
Spesso parlando con i giovani ci si sente dire: bevo perché lo fanno tutti. Oppure: come posso frequentare il bar o la discoteca senza bere? Sarei isolato dagli altri, un diverso.
Cosa c'è di vero in queste affermazioni? «Il bere è oggi una modalità per socializzare, un modo di essere anche per i giovanissimi — spiega l'esperto —. Pensiamo al rito dell'aperitivo (un tempo ignoto ai giovani e addirittura rifuggito come aspetto contrario alla cultura giovanile), dell'happy hour, del dopo cena, del "fare serata", del "dai sballiamo!". In assenza dell'alcol come "lubrificante sociale" o peggio, com'è diventato oggi, di un "identificante sociale", non è possibile divertirsi nel modo giusto. E il divertimento giusto può essere solo a tutti i costi, "estremo", esasperato. Il divertimento è visto come fine e non più come mezzo per ricaricarsi, premiarsi. Il nuovo motto è: "Mi diverto dunque sono"».
«Spesso si sente dire — conclude Sforza — che tocca , o toccherebbe, ai genitori dire di no, saper limitare i figli, dando loro i giusti valori. Ma come potrebbero molti adulti trasmettere limiti e valori se loro stessi condividono l'etica dell'effimero, dell'esagerato, del "vincente a tutti i costi"».
l’Unità 9.9.07
Enrico Pieranunzi in piazza del Campidoglio
Musica, teatri, musei: a Roma una folla di emozioni illumina la Notte Bianca
di Francesca De Sanctis
UN PIZZICO di follia, o perlomeno di voglia d’evasione. Ecco cosa ci vuole, quella piccola spinta che serve a scaraventarti in strada, ad immergerti in una folla capace di modificarsi come una grande sacca, che diventa più stretta quando s’insinua tra le stradine di Roma o si allarga con il suo pancione di fronte alle bellissime piazze romane. E non importa se continui a sfogliare tra le mani il programma con tutti gli eventi della Notte Bianca senza averne visto neppure uno. Poco importa se il percorso immaginato salta del tutto. La Notte Bianca è magica anche per questo. Perché l’emozione, tra gente di ogni età, arriva all’improvviso. Ascoltando la musica della Dino e Franco Piana Jazz Orchestra, per esempio, che ha dedicato il concerto di apertura della quinta Notte Bianca romana ad Armando Trovajoli, l’uomo delle musiche di Ettore Scola. Il maestro, commosso, ha ascoltato dalla prima fila, in piazza del Campidoglio, melodie memorabili e popolari, impreziosite dalla partecipazione di Enrico Pieranunzi che ha vestito di jazz una serata ogni anno speciale (con Laura Pausini assente per influenza). «Un concerto dedicato a me? Mi auguro di no» ha detto Trovajoli -. Spero sia dedicato a Roma». E qualche voce fuori dal coro ne ha approfittato per srotolare giù dal primo piano dei Musei Capitolini uno striscione con la scritta “Notte bianca, lavoro nero, senza diritti”. Giusto, ha replicato Veltroni dal palco. «Non è solo la notte degli eventi - ha detto - è giusto ricordare il lavoro nero. La serata è dedicata anche a Ingrid Betancourt». La folla, oltre due milioni e mezzo di persone nonostante la partita dell’Italia, ha ascoltato, riso, perfino pianto, come nella vigilia, durante il concerto di Lucio Dalla, che intonando Caruso ha dedicato la sua lunga notte a Luciano Pavarotti. Ma è bastato salire in metropolitana per non dimenticarlo: la sua voce ha accompagnato i nottambuli fino alla mattina. Nottambuli amanti dell’arte e della musica, del teatro e della letteratura. D’altra parte tra i 400 appuntamenti sparsi per la città c’era solo l’imbarazzo della scelta. Perfino i musei, rimasti aperti per tutta la notte, sono stati presi d’assalto.
Moltissimi i fan di Franco Battiato arrivati a Roma solo per lui. Accompagnato dalla voce di Manlio Sgalambro, filosofo e da anni co-autore dei testi, Carlo Guaitoli al piano e Angelo Privitera alla tastiera. Quel palco innalzato in piazza del Campidoglio ha continuato ad incanatare fino al mattino, che rischiarava a ritmo della musica arabo-andalusa dell’Ensemble de Fez (diretti dal maestro Mohammed Briouel).
Contemporaneamente altre piazze si riempivano, altre strade si popolavano di sguardi curiosi, altri artisti regalavano momenti magici, altre coppie si arrabbiavano perché il teatro era troppo pieno e non si riusciva ad entrare, altri piccoli miracoli accadevano nella città. A cominciare dalle luci che hanno acceso i palazzi. Uno in particolare: il Palazzo delle Esposizioni, eccezionalmente riaperto per la Notte Bianca dopo la chiusura forzata dovuta al crollo del soffitto. Per una notte il Palazzo si è trasformato in un caleidoscopio di suoni e visioni. La facciata, infatti, è stata «interpretata» da Philipp Geist, artista multimediale, rivelazione a Berlino. Il Palazzo delle Esposizioni riaprirà definitivamente al pubblico il prossimo 6 ottobre con Mark Rothko, Stanley Kubrick e Mario Ceroli. «È il compimento di un sogno - ha detto Veltroni -. È un luogo molto emozionante per la bellezza dell’impatto visivo».
Per il resto, dal centro alla periferia, ci hanno pensato gli artisti a tenere sveglia la folla di questo «magnifico scandalo», come ha detto Veltroni ricordando le parole pronunciate la sera prima da Vittorio Sermonti. Paolo Rossi e Gigi Proietti, Ascanio Celestini e i Têtes de Bois, Sergio Staino e Gabriele Lavia. E ancora Alessandro Haber, Modena City Ramblers, Ambrogio Sparagna, Giorgio Barberio Corsetti, Vincenzo Cerami, Daniele Sepe, l’Orchestra di piazza Vittorio e all’alba il concerto degli Zero Assoluto. Tutti inseguiti dai piccoli grandi sogni della gente: vivere le emozioni.
Corriere della Sera Roma 9.9.07
La Cina in via Ripetta
Riapre Arteinterrazza: due mesi di mostre sul Celeste Impero
di C. De L.
Dopo l'Iran, all'Accademia di Belle Arti arriva la Cina. Si aprirà domani "Artinterrazza", la manifestazione che ha lo scopo di promuovere il dialogo e la conoscenza tra i popoli attraverso pittura, scultura e miniatura. «Lo scorso anno - spiega Gaetano Castelli, direttore dell' Accademia - ci siamo focalizzati sulla Persia mostrando ai nostri studenti e alla città intera gli splendori dell'antica arte iraniana. Abbiamo aperto un canale, uno scambio culturale che proseguirà nel tempo e darà i suoi frutti. Ora iniziamo lo stesso percorso con la Cina».
Anche in questa terza edizione la manifestazione si svolgerà sulla splendida terrazza di via di Ripetta dove fino al 27 ottobre saranno in programma esposizioni, lezioni di arte, proiezioni e dibattiti. Lo spazio ospiterà anche due importanti mostre di pittura e fotografia provenienti dal Paese del Dragone. La prima, «Lives on Paper», sarà inaugurata proprio domani alle 19 e proporrà al pubblico i lavori di sei professori della China Academy of Fine Art. «Opere che - aggiunge Castelli - attraverso la pittura di paesaggio, la calligrafia e gli ideogrammi su carta, la pittura sperimentale e le installazioni video mostrano come l'arte e l'antica cultura cinese abbia un ruolo fondamentale nello sviluppo di un futuro sempre più tecnologico ».
Il 18, invece, alle 18.30 si aprirà «La Cina vista attraverso la fotografia», mostra organizzata dalla Fondazione Italia Cina su incarico dell'Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese in Italia.
(...)
«ARTINTERRAZZA», da domani al 27 ottobre (h 10-24) all'Accademia di Belle Arti (via di Ripetta 222). Ingresso libero. Info: 06.3218005 tutte le mattine (10-13) oppure artinterrazza@gmail.com
il manifesto 9.9.07
A ottobre un'altra piazza
di G. Polo, P. Sansonetti, P. Sullo
Ai primi di agosto abbiamo rivolto un appello al popolo della sinistra, chiedendogli di fare sentire la propria voce, di riprendere l'iniziativa, scendere in piazza, spingere il governo a cambiare rotta, essere più fedele al programma per cui è stato eletto, a rispettare i valori e i principi essenziali della sinistra e del pensiero democratico, a introdurre correzioni significative nella sua azione. Cioè combattere il sistema della precarietà (del lavoro e della vita) e chi vorrebbe che questo sistema diventasse l'unico nostro futuro. Insomma, abbiamo chiesto uno scatto di partecipazione al popolo della sinistra, ai movimenti sociali, ai cittadini, in modo che sia possibile ricostruire una speranza.
Oggi rilanciamo questo appello, ribadiamo la data del 20 ottobre per la manifestazione, diamo appuntamento a tutti a piazza della Repubblica, a Roma. Sarà una giornata che - al di là delle letture distorte fioccate nel mese d'agosto - vuole ridare la possibilità alle persone in carne e ossa che non sono rassegnate all'esistente, di far sentire la loro voce, intervenire nelle battaglie e nei conflitti, organizzarsi come soggetti attivi, poter chiedere a chi comanda scelte qualificanti, indicare quali, partecipare a costruire un progetto di società e di «agire pubblico» diversi, non basati più sulla legge feroce del mercato, capaci di far diventare l'idea di solidarietà una struttura della convivenza civile tra le donne e gli uomini.
Noi torniamo a porre le grandi questioni che abbiamo elencato ad agosto, e chiediamo a tutti (forze politiche e sociali, associazioni e movimenti) di unirsi a noi in questa manifestazione, con le proprie idee, le proprie proposte, le proprie istanze, le proprie caratteristiche. I promotori del 20 ottobre sono molto diversi tra loro, ma considerano le diversità un valore. Non chiediamo a nessuno di aderire alla manifestazione rinunciando a quel che pensa e alle battaglie che più gli stanno a cuore. Crediamo però che il 20 ottobre il popolo della sinistra possa riunire in un solo corteo le sue tante anime - diverse ma amiche - e dare una scossa molto forte alla società italiana e alla politica.
Nell'appello di agosto elencammo alcune grandi questioni (con le loro relative concrete ricadute politiche) che confermiamo come centrali per qualunque pratica che si voglia dire di sinistra e sulle quali chiediamo una svolta rispetto alle politiche degli ultimi mesi. Il lavoro, la questione sociale, i diritti di tutti (che devono precedere gli interessi di alcuni), la questione di genere, il disarmo e la pace, l'ambiente e la difesa del territorio e dei beni comuni, la legalità (quando diciamo legalità pensiamo alla lotta alla mafia e non ai lavavetri). Su queste grandi questioni vogliamo promuovere un grande confronto nel paese nei quaranta giorni che precedono l'appuntamento del 20 ottobre, senza pregiudizi, discriminazioni e paletti. Mettendo in comunicazione le grandi anime della sinistra: quella operaia e sindacale, quella ambientalista, quella femminista, quella pacifista, quella gay e tutte le altre. Su alcune di queste questioni parteciperemo ad altre iniziative pubbliche e di massa molto importanti, come - il 7 ottobre - la marcia della pace da Perugi ad Assisi.
Il 20 non ci sarà un solo corteo ma una manifestazione di manifestazioni.
Gabriele Polo, Piero Sansonetti, Pierluigi Sullo
il manifesto 9.9.07
La paranoia è sicura
di Alessandro Robecchi
Sono assolutamente d'accordo nel moderare i toni a proposito di questa faccenda della sicurezza che sta spaccando il paese, la sinistra, e anche un po' i maroni. Ieri non sono stato scippato, né rapinato in villa, né fatto oggetto di alcuni colpi di arma da fuoco; nessuno mi ha sputato in un occhio o ferito in modo grave, nemmeno lieve. Non ho subito rapine, nessun congiunto mi ha finito infierendo sul cadavere, gli zingari non mi hanno rapito i bambini, nessuno mi ha molestato sessualmente, nemmeno lavandomi il vetro della macchina. È vero che c'erano due scritte sui muri e che ho incontrato un barbone, ma ne sono uscito incolume. Non mi capita spesso, ma ieri ero schiacciante maggioranza, in linea con il 99,9 % degli italiani. Verso il tardo pomeriggio, l'ipotesi da poco ventilata per cui, se non diamo subito armi nucleari ai vigili urbani, tra poco rischiamo che ritorni il fascismo, mi sembrava infondata. Poi è venuta sera e, ancora stupefatto per gli scampati pericoli, mi sono messo a vedere i tg Mediaset, ho cominciato alle 18,30 col tg dei puffi e ho finito alle 20.30. In queste due ore ho messo in atto i seguenti propositi. Comprarmi un dobermann addestratissimo. Mettere inferriate alle finestre e un allarme costosissimo collegato con il Mossad. Comprare due pistole e un fucile da caccia grossa, più un kriss, pugnale che davano in omaggio. Ho firmato sette petizioni per liberalizzare la tortura dei finti invalidi che fanno gli accattoni, ho inviato un assegno al sindaco di Firenze perché quella splendida città si rimetta in piedi dopo che quindici lavavetri l'hanno messa in ginocchio. Ho comprato spray al peperoncino. Ho apprezzato le coraggiose opinioni di Cofferati, e ho deciso che comunque avrei votato Berlusconi, non essendo disponibili il generale Videla e Rudolph Giuliani. Verso le 22, con la paranoia a mille, sono andato, da solo, a fare una fiaccolata contro i venditori abusivi di borsette, che danneggiano la civiltà fin qui costruita da Louis Vuitton. Sono andato a dormire verso mezzanotte, dopo aver minato i balconi e avvertito i Ris di Parma che le impronte sullo spazzolino sono le mie. Non posso dire che mi sentivo un «cretino reale». No, piuttosto un «cretino percepito» che alla fine, come ci spiegano tutti i giorni, è la stessa cosa.
il manifesto 9.9.07
Christopher Hitchens, i guai della provocazione a ogni costo
di Remo Ceserani
Dopo cinque giornate dense di appuntamenti si chiude oggi l'undicesima edizione del Festivaletteratura. In scena, fra gli altri, il controverso giornalista inglese, di cui è da poco uscito per Einaudi «Dio non è grande», studio argomentato e caustico sui disastri provocati dalle grandi religioni nella storia umana Sostenitore a oltranza della guerra in Iraq dopo una lunga militanza nella sinistra, Hitchens presenta nel suo libro sulle religioni argomenti fondati e convincenti
Il libro pubblicato di recente da Christopher Hitchens sui mali e i disastri causati dalle grandi religioni nella storia umana e nel mondo di oggi (God is not Great . How Religion Poisons Everything, Hachette USA 2007; trad. it Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa, Einaudi 2007) ha avuto in America un inatteso successo e, uscito quasi in contemporanea con The End of Faith (Norton 2004; trad. it. La fine della fede, Nuovi Mondi, 2006) di Sam Harris e con The God delusion (Bantam 2006; trad. it. L'illusione di Dio. Le ragioni per non credere, Mondadori 2007) di Richard Dawkins, ha provocato accesi dibattiti su giornali e riviste, in televisione, in incontri pubblici.
Rotture clamorose
Un intervento di Hitchens, intervistato da Anderson Cooper della Cnn, a commento della morte del pastore fondamentalista Jerry Falwell nel maggio scorso, ha fatto anch'esso scandalo. In un'occasione in cui si dicono solitamente parole buone, magari ipocrite, sulla persona scomparsa, Hitchens ha definito Falwell «un volgare truffatore... uno sgradevole piccolo ciarlatano, la cui vita dimostra solo che in questo paese puoi permetterti le più straordinarie offese alla moralità e alla verità se riesci a farti chiamare reverendo». (Per chi non lo sa, Falwell, fondatore di una potente e ricca chiesa battista a Lynchburg, in Virginia, e di una università privata il cui nome può piacere a Berlusconi: «Liberty University», è divenuto famoso come leader della Moral Majority che aiutò Reagan a conquistare la Casa Bianca e per una dichiarazione mai veramente smentita che attribuì l'11 settembre a una punizione divina per l'America corrotta, abortista, favorevole ai matrimoni gay, sostenitrice della separazione fra lo Stato e le Chiese).
Di origine inglese, Hitchens - che sul tema «Uomini e dei» dialogherà oggi con Peter Florence nel Cortile della cavallerizza a Mantova - risiede da anni a Washington e ha ottenuto di recente la cittadinanza americana. Dopo gli studi a Oxford (filosofia, scienze politiche, economia: un'ottima educazione ad ampio raggio), ha lavorato nei media a Londra, poi è sbarcato in America e per vent'anni ha tenuto una rubrica, intitolata Minority Report, molto ammirata per lo stile caustico e aggressivo e per le idee radicali di sinistra (ispirate alla sinistra inglese più intransigente e a un misto di marxismo, trotzkismo e tradizione libertaria) sul settimanale «The Nation». All'indomani dell'11 settembre, però, Hitchens ha rovesciato le sue posizioni, ha dichiarato che quell'avvenimento lo aveva sconvolto e ha rotto clamorosamente con «The Nation», scrivendo un'ultima puntata della sua rubrica nella quale dichiarava la guerra di Bush «giusta» e «necessaria», cui è seguito uno scambio di lettere aperte con Katha Pollitt, direttrice della rivista.
Le sue frequentazioni sono cambiate, ha perso vecchi amici e ne ha acquistati di nuovi (fra cui il falchissimo Wolfowitz, che egli ha difeso con forza quando è scoppiata la crisi della Banca mondiale), e però ha continuato a dichiarare che pur non essendo più di sinistra, continua ad applicare alla storia e alla politica le categorie proposte da Marx. Ha spesso detto di non avere niente in comune con i neo-con e ha espresso molte riserve su Bush (definito «anormalmente non-intelligente»), pur appoggiandone la rielezione.
Applausi e fischi
Ora scrive su «Slate» e sul «Daily Mirror», ha una rubrica su «Vanity Fair» e sull'«Atlantic Monthly», pubblica libri, compare spesso in televisione, esibisce grandi capacità retoriche in furiosi dibattiti, a cui si presenta lucido e pronto alla battuta (nonostante i bicchieri di whisky bevuti in preparazione), accolto da applausi e fischi. Se si cercano paragoni in casa nostra, vien da pensare, per le capacità dialettiche al servizio delle cause più diverse, a Marco Pannella, per l'aggressività mediatica e i giri di valzer a Vittorio Sgarbi, per il passaggio dall'ideologia socialista a quella guerrafondaia, gli atteggiamenti macho e l'isolamento progressivo nella posizione pro-Bush a Giuliano Ferrara.
A leggere oggi l'ultimo articolo di Hitchens sulla «Nation» e lo scambio di lettere con la Pollitt qualsiasi persona di buon senso, anche senza far ricorso alla saggezza del poi, si accorge di quanto sbagliati fossero quei ragionamenti. Al timore (vera profezia) espresso dalla Pollitt che un intervento militare in Iraq avrebbe provocato molte vittime da entrambe le parti, infiammato ulteriormente l'Islam e sottoposto l'intera regione a un bagno di sangue, corrispondeva, da parte di Hitchens, una serie di false certezze: «Non c'è il minimo dubbio che egli (Saddam Hussein) si è procurato alcuni degli strumenti di genocidio e spera di ottenerne altri (...). Il fronte teocratico e assolutistico di questa guerra spera di vincerla esportandola qui da noi, il che significa che non possiamo sperare di restar fuori dalla guerra...». A cui seguiva un richiamo morale alla assoluta necessità di prendere posizione in favore dell'intervento.
A mano a mano che la spedizione in Iraq si è dimostrata quel disastro che tutti conosciamo, la posizione di Hitchens si è fatta più dura e ostinata, con critiche sempre più esplicite alla mollezza di Bush e alle incertezze della condotta americana. Nell'anniversario dell'11 settembre 2006 ha scritto sul «Wall Street Journal»: «Noi - e i nostri alleati - dobbiamo diventare più spietati e al tempo stesso più esperti. Un vantaggio troppo trascurato del terribile scontro in corso in Iraq e in Afganistan è che esso sta addestrando decine di migliaia dei nostri giovani ufficiali e soldati a combattere nel peggior terreno immaginabile, e gradualmente imparare come confrontare, infiltrare, 'piegare', isolare e uccidere il peggior nemico immaginabile. Sono capacità di cui avremo bisogno in futuro».
Che si può dire di un personaggio come Hitchens? Ci hanno provato in tanti a dare un giudizio su di lui, dagli amici più stretti, come Martin Amis, compagno di studi a Oxford, a Salman Rushdie, ai compagni prima del campo socialista poi di quello neo-con. Ian Parker ha tracciato un penetrante profilo sul «New Yorker» (16 ottobre 2006). Non è facile giudicare uno che ha sostenuto cause giuste e impopolari, come la riunificazione dell'Irlanda e la rivendicazione dei diritti palestinesi (in un libro scritto insieme a Said), e cause ingiuste e altrettanto impopolari. Tutti d'accordo nel sostenere che è brillante, molto colto (anche, straordinariamente, in cose letterarie, come dimostrano i suoi scritti in materia, dal saggio su Proust nell'«Atlantic Monthly» alla recensione dell'ultimo Harry Potter sul «New York Times»), che è un dialettico tagliente e un creatore di battute fulminanti. Quasi tutti d'accordo nel sostenere che ha una notevole dose di bullismo e un'aggressività probabilmente derivata da profonde basi psicologiche. Lo ha sostenuto, parlando con Parker, la seconda moglie, l'intellettuale americana di famiglia ebraica Carol Blue, secondo la quale la voglia che ha Hitchens di mostrare i muscoli viene dall'essere cresciuto in una famiglia piccolo borghese, con un padre militare, protagonista delle battaglie navali nella seconda guerra mondiale, e una madre di origine ebraica che abbandonò marito e famiglia e morì suicida con il nuovo compagno in un albergo di Atene). Lui stesso ha dichiarato, con ammirevole sincerità: «Io sono estraneo a qualsiasi forma di modestia, compresa la falsa modestia». Certo l'elenco delle persone che ha attaccato violentemente è lunghissimo, e va da madre Teresa di Calcutta a Ronald Reagan a Michael Moore, a tanti altri. I termini usati sono stati spesso molto offensivi e certo sopra le righe: per esempio Hitchens ha definito Moore a scumbag (persona spregevole - etimologicamente il termine si riferisce al preservativo, un raccoglitore di sperma) e a sua volta è stato così definito dal deputato inglese George Galloway in un dibattito visibile su «YouTube».
Va aggiunto che, pur essendo stato ammesso, grazie all'amicizia con Wolfovitz, in qualche stanza dei bottoni, pur avendo come giornalista visitato spesso i paesi del Medio oriente e avviato rapporti di amicizia con i dirigenti kurdi e con Chalabi in Iraq, non ha mai avuto un posto di vero rilievo nei circoli importanti della politica: Minority report si chiamava la sua rubrica su «The Nation», e minoranza Hitchens è rimasto nella scena culturale del paese, al pari di gran parte della classe intellettuale.
Forse le cose possono cambiare dopo la pubblicazione del libro su Dio, dato il clamore mediatico che ha suscitato. Si tratta di un libro serio, frutto di un ottimo lavoro di scavo storico (all'attività di studioso di Hitchens, parallela a quella di giornalista, appartengono anche altri suoi lavori, come la biografia di Thomas Jefferson o il libro su Orwell). Il titolo (dato dall'editore) allude alla frase rituale dei fedeli musulmani: «Allah è grande». La storia della religione di Maometto, i suoi sacri testi e le sue credenze e riti sono sottoposti a una critica demolitrice. Ma neanche le tradizioni religiose ebraiche e cristiane ricevono un trattamento migliore. Per la professione di ateismo militante, materialismo e criticismo radicale Hitchens sente di appartenere a una nobile tradizione, da Democrito a Epicuro e Lucrezio agli illuministi, da Hume a Darwin a Bertrand Russell. Con abilità inserisce fra i pensatori che l'hanno ispirato Socrate, Kant, Marx e Freud. Chi legge con mente aperta e onestà intellettuale questo libro deve riconoscere che moltissimi dei suoi argomenti sono corretti e coincidono con i risultati della ricerca scientifica sulla storia materiale del mondo e con quelli della ricerca storica e antropologica sulle vicende delle grandi religioni monoteiste e dei loro rapporti con la vita sociale e politica delle nazioni antiche e moderne, così come sulla ricerca filologica che ha ricostruito la storia dei libri cosiddetti «sacri». A parte alcune deformazioni (tutto il discorso sulla circoncisione sfiora l'assurdo, le battute sulla massoneria mostrano scarsa informazione storica) il libro è argomentato e convincente, soprattutto nel dimostrare che i disastri provocati dalla fede religiosa non sono dovuti a perdonabili errori di singoli ma sono la conseguenza di qualità intrinseche di ogni istituzione e di ogni mentalità religiosa e nel sostenere con forza che l'azione morale dell'uomo non ha bisogno del sostegno della fede religiosa per operare verso il bene comune.
Toni nerboruti
Proprio perché molti dei suoi argomenti sono fondati e convincenti, dispiace che più volte nel corso di questo libro, e dei dibattiti che l'hanno seguito, Hitchens si sia lasciato trascinare dall'uso della sferza verbale che gli viene dalla lunga attività di polemista politico e giornalistico. Si legge così che Falwell e i creazionisti sono yokels (idioti di campagna), la teologia di Pascal «aveva qualcosa di sordido», il re David dei Salmi era «un bandito senza scrupoli», le ragioni date da C. S. Lewis per il suo sostegno al cristianesimo «erano talmente patetiche da sfidare ogni descrizione», Calvino era «un sadico, un omicida» (con riferimento alla condanna al rogo di Serveto), la religione islamica è «una serie evidente di plagi messi insieme alla meglio» e il Corano è stato dettato da un analfabeta, la saggezza buddista è così banale da prestarsi facilmente alla parodia, la festa ebraica di Hanukkah è «una celebrazione noiosa e insipida» (dichiarazione curiosa per uno che aveva una madre ebrea e ha sposato la seconda moglie in una sinagoga).
Il pericolo è che, finendo sul palcoscenico della cultura televisiva, questi toni nerboruti servano a trasformarlo in una star ammirata e temuta anche dagli avversari, a spese della sua integrità intellettuale e della qualità dei suoi argomenti. Inoltre la tenacia e la supponenza con cui appoggia tesi insostenibili in campo politico può danneggiare la persuasività delle tesi più che giuste sostenute nel campo della filosofia, della scienza e della religione. Purtroppo anche Hitchens non è sempre grande.
il Messaggero 9.9.07
Severino: «I cattolici si rassegnino, la fine della tradizione è inevitabile»
di Carlo Mercuri
Professore Emanuele Severino, il Papa dice che la scienza senza Dio è una minaccia per l’umanità. Quali considerazioni le suggerisce l’affermazione di Benedetto XVI?
«La scienza senza Dio: sono decenni che rifletto su questo problema. Direi che si tratta di un processo inevitabile. Un processo inevitabile che conduce a una scienza-sapere filosofico che porta a dire addio al passato, a dire addio a Dio. Il Papa dice che la scienza senza Dio è una minaccia mortale? E’ vero, ma la scienza illuminata dalla filosofia è un prodotto inevitabile, ripeto. E’ tempo che il mondo cattolico faccia i conti con questa inevitabilità».
Quali sono questi conti, professore?
«E’ un discorso complesso. E’ come spiegare la formula della relatività in un articolo di giornale. Non si può».
Ci provi.
«Occorre fare i conti con la potenza del discorso che ha condotto alla scienza senza Dio. E’ la potenza stessa del pensiero contemporaneo che porta a concludere che Dio è morto. Possiamo definire tutto ciò come relativismo? No, è qualcosa di più sostanziale. Invito tutti i lettori di buona volontà ad andare a leggere i miei libri su quest’argomento».
Lei vede tuttavia pericoli in una “scienza senza Dio”?
«Dio è morto e questo sentire si ripercuote nelle masse. La gente crede sempre di meno e ciò genera certamente disordine sociale. Le conseguenze potrebbero essere tragiche. Si è perduto l’aggancio all’attrezzo della tradizione e bisogna ancora vedere come ci si ancorerà al nuovo».
Professore, il Papa ha anche affermato che l’Occidente è in crisi perché «rassegnato a considerare l’uomo incapace di verità». Lei che ne pensa?
«E’ una questione connessa alla precedente. Non è l’Europa che ha rinunciato alla verità. Tante teste pensanti dell’Occidente hanno parlato dell’impossibilità della verità».