lunedì 10 settembre 2007

l’Unità 10.9.07
Epifani: «Vedo poca sinistra nel Pd»
Il segretario Cgil preoccupato: la manifestazione del 20 ottobre finirà per essere contro il sindacato
di Simone Collini


L’ARRABBIATO Ne ha per tutti, Guglielmo Epifani. I promotori della manifestazione del 20 ottobre e quanti accusano il sindacato di difendere i fannulloni, Confindustria che pensa solo a sé e il governo che sulla Finanziaria ha ricominciato col brutto balletto di cifre proprio come l’anno scorso. Intervistato alla Festa nazionale dell’Unità, per ognuno di questi il segretario della Cgil ha una risposta. Anche il Partito democratico non ne esce indenne: «Dovrà lavorare sull’identità e sui valori. È strano che alla fine del percorso la sinistra democratica possa essere rappresentata da quel residuo 10% che ne resterà fuori. Si dovrà dar voce all’ala sinistra all’interno del Pd». Ma è un argomento che occupa i minuti finali dell’intervista. Che invece è inevitabile parta dal protocollo sul welfare. Epifani guarda alle prossime settimane con un misto di fiducia e preoccupazione. La prima è per il fatto che la consultazione sul protocollo sarà la «risposta democratica a chi vorrebbe che il sindacato conti meno»: se ai primi di ottobre voteranno, come già accaduto in passato, quattro milioni di lavoratori, il sindacato avrà dimostrato di essere capace di mettere in campo «una prova democratica che nessuno è in grado di fare». Dalle urne Epifani si aspetta un sì all’accordo, perché pur non avendo lui nascosto un giudizio critico su alcuni punti, il giudizio sul complesso del provvedimento non può che essere "positivo": «Dire no all’accordo significa dire no al superamento dello scalone voluto da Maroni e al fatto che dopo vent’anni si ridà attraverso la contrattazione ai pensionati il potere d’acquisto perduto». Per questo Epifani, tra gli applausi difende l’accordo: «Abbiamo fatto il massimo possibile. Sfido coloro che lo criticano a fare meglio di noi. Se ci riescono, mi tolgo il cappello, ma non ce la possono fare».
Ma la sfida portata al sindacato al momento rischia di essere la manifestazione del 20 ottobre. Epifani lo sa: «Mi sfugge per quale motivo sia fatta questa manifestazione. A un certo punto ho temuto, e in parte per la verità continuo a temere, che fosse contro l’accordo». Ecco il paradosso e i rischi che vede in questa iniziativa il segretario della Cgil. Il referendum di lavoratori e pensionati si chiude il 10 ottobre. «Se diranno sì la manifestazione diventa contro la maggioranza dei lavoratori. Molto più logico sarebbe stato aspettare l’esito del referendum». Ma ormai la manifestazione è stata indetta. Con una piattaforma che, nota con un sorriso Epifani, ogni giorno cambia in parte. Questo per consentire di non farla apparire come contro il governo. Ecco allora l’altro timore. «Mi viene il sospetto che si voglia mettere al riparo il governo e attaccare per l’accordo il sindacato. Se è questo il gioco, non ci sto».
Per il segretario della Cgil ognuno dovrà fare la propria parte, anche per evitare che "il malessere, che c’è «si riversi contro un accordo che "migliora le condizioni di lavoratori e pensionati». E se la vittoria del sì al referendum per Epifani «spingerebbe il governo a fare quello che i cittadini si aspettano» in materia di welfare, occupazione, fisco, è anche vero che il governo da parte sua «non deve deludere». Cominciando dalla Finanziaria. «L’anno scorso abbiamo assistito a un balletto di cifre che non va bene perché ai cittadini si deve trasparenza sui conti. E poi sono state fatte troppe promesse non mantenute: il governo deve selezionare gli obiettivi. Chiedo a loro il coraggio e la responsabilità di assumere una proposta. Se lo abbiamo fatto noi siglando l’accordo, lo sappia fare anche il governo».
«Bisogna fare meglio», è il messaggio che Epifani lancia al governo. Insieme a quello di non seguire troppo le sirene di Confindustria. Montezemolo chiede una riduzione delle tasse alle imprese? A parte che lo scambio proposto Ires-incentivi non sarebbe a costo zero. Ma Epifani sottolinea che Confindustria primo, deve essere coerente e secondo, non può pensare solo a sé, chiedendo ancora riduzioni fiscali dopo aver già ottenuto il taglio del cuneo fiscale: "A chi ci ha accusato di difendere i fannulloni dico che noi non difendiamo chi non fa il proprio dovere, che non è un amico dei lavoratori. E che ci sono fior di dirigenti condannati che non si riesce a mandare a casa, e non è il sindacato che li difende. Faccio poi notare che non ci sono solo lavoratori fannulloni. Ci sono anche imprese fannullone, che prendono soldi pubblici e poi chiudono, che assumono con gli sgravi e poi licenziano alla prima difficoltà. Confindustria quando parla di salari dice che vanno legati alla produttività, per premiare chi lavora di più e meglio. Quando parla di imprese se lo scorda e dice che in quel caso gli aiuti vanno dati a tutti». Alla Festa dell’Unità sono solo applausi, ma a Epifani non sfugge che i prossimi saranno mesi complicati.

l’Unità 10.9.07
OMS Uno studio sulla malattia
Depressione più disabilitante di altre malattie


Una ricerca dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) condotta su oltre 245 mila persone in oltre 60 nazioni del mondo ha rivelato che la depressione è una condizione più disabilitante per la salute di altre malattie croniche come ad esempio il diabete. Lo studio è stato pubblicato su The Lancet.
Prendendo in considerazione sonno, dolori fisici, problemi di memoria e concentrazione, i ricercatori hanno valutato che la depressione ha i peggiori effetti.

Repubblica 10.9.07
Scontro a Mantova tra l'intellettuale britannico e il discusso islamista
E Hitchens disse a Ramadan "Parli con lingua biforcuta"


L'autore inglese va all'attacco: "Dici cose diverse a seconda se parli agli islamici o agli occidentali"
Il velo. Da noi in Inghilterra piace guardare le persone in faccia Da voi le donne sono schiave del velo
Le due civiltà. Credo che non abbia più senso parlare in termini di "noi" e "voi": non è più realistico

MANTOVA - «Parli con la lingua biforcuta, mezza per i musulmani e mezza per gli occidentali». Con queste parole Christopher Hitchens, saggista britannico e alfiere dell´ateismo, ha bollato ieri sera l´intellettuale islamico Tariq Ramadan al termine di un duro botta e risposta al Festival della letteratura di Mantova. I due si sono confrontati sui temi più controversi, dalle vignette sul Corano al velo. «A noi inglesi piace guardare la gente in faccia», ha accusato Hitchens. «Non credo che queste tue parole piacciano ai giovani musulmani», ha replicato Ramadan.
Un´incandescente polemica tra l´islamista Tariq Ramadan e il paladino dell´ateismo Christopher Hitchens ha chiuso l´undicesimo Festivaletteratura di Mantova. L´autore della Posizione della missionaria e di Dio non è grande si è presentato all´incontro con l´intellettuale di origini egiziane e l´ha provocato su temi quali il velo, il ruolo dei musulmani nel Sud Africa dell´Apartheid e la vicenda delle vignette danesi.
Dopo un´ora e mezzo di un dibattito acceso ma corretto tra il sociologo Renzo Gnuolo e Ramadan, durante lo spazio dedicato alle domande del pubblico, lo scrittore inglese ha preso la parola. Ed ha esordito chiedendo all´islamista: «Perché dobbiamo parlare con te? Chi sei, se non il nipote del fondatore dei Fratelli musulmani?» «Alcuni dicono che con me non si deve parlare, ma io - gli ha risposto Ramadan - sono qui umilmente per dire la mia. Ti chiedo di considerare cosa penseranno i giovani musulmani nell´apprendere che c´è chi dice che non è giusto ascoltarmi».
Hitchens l´ha poi accusato di parlare con una «lingua biforcuta», rivolgendosi in un modo ai musulmani e in un altro agli occidentali. Il controverso studioso ha risposto: «Ho scritto ventidue libri, un´infinità di articoli, non fatevi un´idea di me solo dalle voci che escono cercando il mio nome su Google».
Passando alla questione del velo, Hitchens ha detto: «A noi, in Inghilterra, piace guardare la gente in faccia». «Noi chi? - gli ha risposto Ramadan - credo che la tua posizione sul velo sia minoritaria: il velo non è una prescrizione e io lavoro per migliorare la condizione delle donne musulmane. E poi non ha più senso parlare in termini di "noi" e "loro", non è realistico». L´inglese ha allora ribattuto che «le ragazze musulmane sono schiave, poiché viene loro imposto di portare il velo».
Lo scrittore britannico ha poi tirato in ballo «il razzismo dei musulmani» in Sud Africa, che non fecero nulla per ostacolare l´apartheid. «Ma quelli erano solo una minoranza: lo stesso Mandela aveva molti amici tra i musulmani sudafricani», ha replicato Ramadan. Il quale ha poi parlato della vignette satiriche, sostenendo che «il premier danese ha fatto un gravissimo errore, poiché avrebbe dovuto ricevere gli ambasciatori dei paesi islamici per riaffermare un principio di corretta laicità. Studiando ho capito che, anche come musulmano, posso accettare il laicismo, purché sia vissuto come separazione, non come imposizione».
Il violento battibecco tra i due è durato una quindicina di minuti, al termine dei quali c´è stato chi ha applaudito Ramadan, e chi è corso a stringere la mano a Hitchens.

Repubblica 10.9.07
Vuoti di memoria tra destra e sinistra
di Stefano Rodotà


Nella discussione di questi giorni si possono scoprire sorprendenti vuoti di memoria, che rischiano di provocare pericolosi momenti di schizofrenia politica ed istituzionale. Vale forse la pena di ricordarne qualcuno nella speranza, non so quanto fondata, che se ne possa tenere conto nelle future discussioni.
Il primo caso riguarda la natura stessa del nascituro Partito democratico, almeno nella versione variamente prospettata da Walter Veltroni e Francesco Rutelli. Entrambi sembrano convenire sulla necessità di un partito a vocazione maggioritaria; svincolato da paralizzanti accordi di coalizione come quelli che hanno portato alla nascita dell´attuale Unione, aperto ad alleanze di "conio" più o meno nuovo. Una volta enunciati questi propositi, bisogna tuttavia affrontare alcune altre, e decisive, questioni, che non possono essere ignorate o rinviate a quando il Partito democratico avrà definito la sua identità. Questa dipenderà proprio dal modo in cui il nuovo partito si collocherà nel sistema politico.
Il Partito democratico non può coltivare la proclamata vocazione maggioritaria in una sorta di orgoglioso isolamento. Non è un istituto di ricerca, dove si svolgono analisi e si elaborano programmi senza doversi preoccupare delle reazioni politiche e sociali. Ogni mossa qualifica il partito e ne definisce i rapporti con gli altri. Poiché non si può scambiare vocazione maggioritaria con autosufficienza elettorale, ogni dichiarazione o iniziativa finisce con il prefigurare o condizionare le future, indispensabili alleanze. Di queste si afferma la necessaria "omogeneità". Una affermazione, questa, che contiene una critica alle alleanze attuali e può portare ad una significativa conseguenza politica. Se la costruzione del nuovo partito si manifesterà anche come costruzione di una nuova omogeneità, sarà inevitabile una tensione sempre più marcata tra Partito democratico e coalizione di governo.
Molte forze agiscono in questa direzione, sottolineando con intensità crescente che la disomogeneità sarebbe determinata solo dalla presenza nella coalizione della sinistra "radicale" sì che, liberi da questa, le alleanze in altre direzioni, dunque verso il centro, produrrebbero una sorta di "naturale"omogeneità. In questo gioco di azioni e reazioni si collocano gli atteggiamenti della sinistra dell´Unione, che non possono essere liquidati come irresponsabili, a meno di non adottare il teorema di Tecoppa, secondo il quale l´avversario non dovrebbe muoversi e farsi tranquillamente infilzare.
La questione delle alleanze e della coalizione si fa ancora più stringente se si considera l´eventualità che, falliti i tentativi di una riforma elettorale in sede parlamentare e approvati i quesiti referendari, si vada a votare con una legge che assegna un cospicuo premio di maggioranza al partito o alla coalizione che abbia comunque avuto il maggior numero di voti, anche nel caso in cui si tratti di un partito del 30% o anche meno. Sono consapevoli, i referendari, che questa vicenda è destinata ad influire pesantemente sul futuro del Partito democratico, obbligandolo ad accelerare la definizione di una coalizione in grado di raggiungere la maggioranza? Sembra un tema di domani, e invece riguarda l´oggi, se non altro perché le risposte influiranno sull´atteggiamento delle varie anime del Partito democratico sul referendum. E questo significa indicare con precisione le riforme da fare e, soprattutto, con chi farle.
Proprio qui, intorno al riformismo, si può cogliere un secondo vuoto di memoria. Nei modi più diversi, e persino sgangherati, si cerca di riannodare un filo riformista che sarebbe stato trascurato, o addirittura troncato per l´incapacità o la prava volontà di chi non seppe cogliere l´attimo fuggente degli anni Ottanta, che qualcuno oggi mitizza come una sorta di Età dell´Oro di un riformismo perduto. Ha fatto bene Eugenio Scalfari a ricordare di quale pasta fosse fatto quel decennio, che quasi dovrebbe esser preso a modello, nel quale il debito pubblico balzò, tra il 1982 e il 1992, dal 57 al 120 per cento del Pil. Oggi, infatti, nella pur legittima ricerca di un passato nel quale riconoscersi, viene da molti adottata una memoria selettiva, che volutamente ignora come la vera eredità del proclamato riformismo di quegli anni fu la cancellazione della legalità, la disinvoltura nella spesa pubblica, lo sperpero del capitale sociale, la fine del senso civico, l´abbandono di qualsiasi moralità pubblica e privata. Questo non avvenne nel silenzio. Ed è quindi più stupefacente il silenzio di oggi, che dà corpo al rifiuto di confrontare proclamazioni e fatti concreti, velando così anche il fatto che proprio allora furono poste le basi di quella rincorsa ai privilegi che alimenta oggi l´antipolitica e che non fu appannaggio del solo ceto politico. E cominciò allora una regressione culturale dalla quale non siamo ancora usciti. Basta guardare al modo in cui si sta svolgendo la discussione sulla sicurezza, ormai ridotta ad una brutale questione di ordine pubblico, mentre sarebbero necessarie analisi approfondite proprio per individuare le strategie più efficaci, dunque una alleanza con le discipline sociali che in questi anni sono state tutt´altro che avare di indicazioni concrete.
Queste letture del passato indeboliscono anche le promesse di un riformismo che si affida quasi esclusivamente alla logica di mercato, perdendo così di vista che ogni riforma economica oggi non può essere separata dalla necessità di ricostruire legalità, legami sociali, relazioni di fiducia, rapporti di solidarietà, senso civico, moralità pubblica, dunque un tessuto connettivo mancando il quale ogni riforma, isolata o "lenzuolata" che sia, è destinata se non a fallire, a produrre esiti modesti o persino contraddittori. Il rimpianto per Bruno Trentin, in me grandissimo, ci obbliga a ricordare il rigore con il quale analizzò, per i lavoratori, il passaggio "da sfruttati a produttori". Un ammonimento da tenere in gran conto oggi che la qualità di produttore viene riconosciuta al solo imprenditore, dando corpo ad una frattura sociale destinata a produrre nuovi conflitti, che hanno radici nell´esclusione e nella mortificazione.
Si può cogliere qui un altro vuoto di memoria. Parlando dei sessant´anni di indipendenza dell´India, Amartya Sen non si è fermato al suo travolgente successo economico, ma si è chiesto se questo non sia stato pagato con una eccessiva perdita dei valori di apertura e di solidarietà che avevano non solo connotato la politica indiana al suo interno, ma le avevano attribuito forza e prestigio nei rapporti internazionali. Nel costruire l´agenda della nostra politica interna si sta correndo lo stesso rischio. Il "discorso sui valori" è poco più che retorica o scappellate di maniera. Manca una riflessione rinnovata sui principi costituzionali, è assente una visione prospettica di libertà e diritti. In questo vuoto prospera la tesi di chi dice che una serie di questioni non sono né di destra, né di sinistra: un alibi perfetto per chi, per debolezza politica e culturale, non si accorge o non vuole accorgersi che la destra sta di nuovo imponendo l´agenda politica, come accadde tra il 2000 e il 2001, anni che prepararono la sconfitta elettorale del centrosinistra.
Le stesse proclamazioni sui temi "eticamente sensibili" descrivono piuttosto una situazione del Partito democratico ora ambigua, ora inquietante, con rimozioni e vuoti di memoria, incapacità di riflettere sul senso laico dell´agire pubblico. Tornano qui, come problemi irrisolti, la vocazione maggioritaria e l´omogeneità del nuovo soggetto politico. E se, guardando appena più a fondo, scoprissimo che, su questo terreno, l´omogeneità interna del Partito democratico appare davvero minima e che, invece, vi è una consonanza tra parti consistenti del partito nascente e l´aborrita sinistra radicale?

Repubblica 10.9.07
Il rapporto tra società e attività creativa: una riflessione sull'articolo di Scalfari
Cinema, Architettura e Valori
La crisi etica non condiziona la produzione artistica
di Paolo Desideri


Caro direttore, ho letto con grande interesse le riflessioni di Scalfari sul cinema italiano e sui motivi della sua crisi. Un interesse amplificato dalla mia attività di architetto progettista che si confronta quotidianamente con l´attività creativa.
Dico subito di concordare con la sua tesi. Non è la mancanza di valori collettivi a determinare, in certe fasi storiche, la crisi della produzione artistica. Il cinema, ma più in generale l´arte ed ogni disciplina creativa, dalla pittura alla letteratura, non hanno nei valori un loro necessario brodo di coltura. Anche nel campo dell´architettura le considerazioni di Scalfari trovano una puntuale conferma. L´architettura di Roma imperiale, ad esempio, è grandissima anche se spesso gronda di sangue. Ed il progetto della cupola di S. Pietro fu elaborato da Michelangelo negli anni del pontificato di Paolo IV, il papa cioè che codificò l´uso della tortura come pratica ufficiale dell´Inquisizione, che istituì i ghetti per la popolazione ebraica, ed il cui cadavere fu sepolto nottetempo e sottratto alla popolazione romana inferocita.
Ma anche in anni assai più recenti dobbiamo definitivamente accettare il fatto che l´architettura razionalista italiana, da Libera a Terragni a Piacentini, è stata anzitutto architettura commissionata dal fascismo per celebrare il fascismo: ma questo nulla toglie alla sua grandezza metafisica.
Dunque, anche dal il mio osservatorio, non c´è alcun concreto rapporto tra qualità del prodotto progettuale e valori sottesi: come suggerisce Scalfari vale allora la pena di fare qualche riflessione sul linguaggio, sul "format" o, come piace dire a noi architetti, sulla forma.
Di tutte le variabili che un progetto di architettura deve integrare, la forma è certamente, io credo, la più importante. Un´importanza strategica cresciuta nel tempo, che oggi si trova ad assumere un ruolo decisivo proprio nella gestione di quel sistema complesso che è ogni progetto di architettura e che vede aumentare sempre più le variabili da sottoporre a controllo. Una "filiera" di problemi che non ammette dimenticanze, se puntiamo alla qualità. I materiali, le tecniche costruttive, le strutture resistenti; ed ancora gli aspetti riguardanti il fire engineering, la sicurezza, le condizioni imposte dalla normativa per le utenze deboli; le tecnologie innovative della bioclimatica piuttosto che dell´ergonomia, dell´illuminamento artificiale e del daylighting e via elencando. Poi, ovviamente, le questioni che da sempre caratterizzano l´architettura, come la sua funzionalità, la sua resistenza, i rapporti con il contesto e la storia.
Lavorare nella complessità, allora, vuol dire riuscire a governare la continua interazione tra tutte le variabili del sistema, attraverso la forma. Non esiste in un sistema complesso alcuna invariante. Non sfugge a questa condizione nemmeno la forma che non ammette più alcuna legittimazione aprioristica, che non può invocare alcuna autorità poetica al di fuori del sistema stesso. Nei sistemi complessi, al contrario, la forma risulta la principale risorsa se è in grado di garantire creativamente un miracoloso equilibrio delle tante variabili in gioco: una sorta di responsabilità etica che la forma deve assumersi nei confronti del sistema complessivo.
Uno slittamento dell´orizzonte poetico dentro cui muove il progetto di architettura contemporaneo, che riconsegna alla capacità personale, alla biografia, all´ascolto, alla sfera creativa, la capacità di sopravvivenza nelle condizioni estreme prodotte dalla complessità: nella certezza che in questi casi qualsiasi vera soluzione non è mai di tipo tecnologico, ma sempre di tipo morfologico.

Corriere della Sera 10.9.07
Delusi dal governo 68 italiani su cento


Governo, delusi due italiani su tre
Gradimento al minimo dopo la risalita della primavera scorsa: no dal 68%. Da giugno persi 11 punti

L'insoddisfazione per l'operato del governo Prodi si va accrescendo significativamente in svariati settori della popolazione. Ciò costituisce per l'esecutivo un ulteriore problema in un periodo già tormentato, soprattutto per l'approssimarsi della Finanziaria e delle decisioni sulla politica fiscale: è questo il tema ritenuto oggi dai cittadini il più urgente — ancor più della criminalità — da affrontare da parte del governo. Ma esso è, al tempo stesso, fonte delle fratture maggiori nell'opinione pubblica, divisa tra la richiesta di diminuzione delle tasse e quella di una più accentuata redistribuzione sociale. Ma insoddisfatta da entrambi i punti di vista.
L'elettorato ha infatti espresso, per tutto il primo semestre 2007, una maggioranza di orientamenti negativi sull'operato del governo. Con andamenti, però, alterni. Una volta «digerita » la Finanziaria 2006 (che aveva provocato una drastica diminuzione dei giudizi favorevoli), si è assistito, tra metà febbraio e metà maggio, ad un relativo recupero di consensi e ad una corrispondente contrazione delle opinioni sfavorevoli all'esecutivo. A giugno, tuttavia, il trend pareva essersi nuovamente invertito, il giudizio si era ulteriormente aggravato e i consensi drasticamente ridotti, sino a toccare il 30%, il livello più baso dalla costituzione del governo Prodi. Per la maggior parte, tuttavia, la nuova sfiducia emersa non si era convogliata verso un atteggiamento completamente negativo, limitandosi — da parte del 13% dell'elettorato — ad una generica sospensione del giudizio.
Dopo il — e forse anche a seguito del — dibattito estivo (denso di buoni propositi, ma ritenuto carente di iniziative concrete), anche questi giudizi si sono tuttavia diretti perlopiù verso un orientamento drasticamente sfavorevole, tanto che oggi due italiani su tre si pronunciano criticamente nei confronti dell'esecutivo e solo il 27% esprime un parere positivo. In misura minore, ma assai significativa, ciò accade anche nell'elettorato dei partiti della maggioranza: il 31% dei votanti per il centrosinistra è critico verso il Professore e un altro 4% dichiara di non avere opinione al riguardo. Il dissenso è presente, per motivi diversi, ma circa nella stessa intensità, sia nell'area di centrosinistra, sia in quella di sinistra tout-court. Anche la porzione di elettorato non attribuibile a nessuno schieramento si esprime negativamente: il 76% di chi è indeciso su cosa votare è comunque critico nei confronti dell'esecutivo. Il malumore, comunque presente in modo rilevate in tutte le categorie sociali, è più accentuato tra i giovani, tra le donne (specie le casalinghe) e tra chi possiede un titolo di studio meno elevato.
L'origine di tutto questo scontento sta soprattutto nell'incapacità del governo di «concludere le cose» (così ha detto un intervistato): vengono citati decine di esempi di mancata realizzazione di questo o quell'impegno, di questo o quel progetto, di questa o quella promessa. Le critiche provengono da destra, dal centro e, come si è detto, anche dalla sinistra: ciò che indica come buona parte di questo stato di cose — e della difficoltà del governo ad operare — sia imputabile al sistema elettorale vigente e alla conseguente situazione in Parlamento. Ma, ancora una volta, si lamenta l'incapacità e la riottosità da parte dell'esecutivo nel dar vita celermente ad una riforma al riguardo.
Tutto ciò non ha necessariamente conseguenze immediate sulle intenzioni di voto. È vero che i consensi virtuali per il centrosinistra vanno progressivamente diminuendo, ma è vero anche che buona parte degli elettori dei partiti di governo, anche di quelli scontenti, dichiara di non avere comunque per ora l'intenzione di votare per il centrodestra.
Questo stato dell'opinione pubblica lascia tuttavia, come si è visto anche in questi giorni, sempre più spazio a spinte e suggestioni di carattere qualunquistico e talvolta populistico, legate alle consuete tematiche dell'antipolitica. Con esiti imprevedibili.
Il governo ha certo nei prossimi mesi la possibilità di mutare l'orientamento dell'opinione pubblica: ma per farlo dovrà necessariamente dar vita a provvedimenti concreti e percepiti dagli elettori. Un compito tutt'altro che facile.

Corriere della Sera 10.9.07
Umberto Veronesi su Ratzinger


Sono sorpreso per le parole di Ratzinger. La scienza cerca la verità e si basa sul rispetto di valori etici comuni molto forti
«La scienza non minaccia l'uomo. Una bimba nata oggi vivrà 103 anni»
L'ex ministro: dagli embrioni chimera avremo staminali senza problemi etici
La scoperta delle staminali è la più importante rivoluzione della medicina dopo quella del Dna. Si potrà intervenire per bloccare Parkinson, Alzheimer, diabete

MILANO — «Sono addolorato per quanto ha affermato il Papa sulla scienza. Ratzinger apparentemente si è contraddetto: non tanto tempo fa si era espresso in termini diversi. Aveva detto che la scienza ha origine divina e quindi va rispettata e si era mostrato favorevole al nucleare e agli organismi geneticamente modificati per risolvere i problemi dei Paesi più poveri, in via di sviluppo. Oggi invece parla di possibile minaccia per l'uomo da parte degli scienziati senza Dio. Da un'investitura divina a un distinguo pericoloso: uno scienziato musulmano, induista, buddista o ateo rappresentano forse una minaccia? E quale Dio consacra come buoni studi e ricerche? In realtà la scienza cerca la verità e si basa sul rispetto di valori etici comuni molto forti: a partire dall'universalismo delle scoperte e dagli obiettivi che sono sempre nell'ottica di un progresso della civiltà in senso benefico. Sono quindi sorpreso e addolorato per questa affermazione del Papa... Rischiamo di tornare all'epoca di Galileo Galilei». Umberto Veronesi replica, da scienziato, alle dichiarazioni austriache di Benedetto XVI. E non nasconde una certa sorpresa sull'ultima che indica in «una scienza senza Dio una minaccia per l'umanità».
Forse Papa Ratzinger si riferiva agli embrioni-chimera approvati in Gran Bretagna per fini terapeutici?
«In realtà è un ulteriore passo avanti nell'ottica di evitare rischi di clonazioni a fini riproduttivi. E' lo sviluppo della soluzione che aveva proposto la commissione da me insediata nel 2000 quando ero ministro della Sanità. La tecnica di trasferimento nucleare per produrre cellule staminali autologhe (Tnsa). E se allora la proposta di quella commissione, a cui avevano preso parte diversi scienziati cattolici, non fu nemmeno presa in considerazione dal governo successivo oggi torna di attualità. Qual è il problema? Se si prende un ovulo di donna, lo si svuota del patrimonio genetico e vi si inserisce del Dna del paziente si cominciano a creare staminali embrionali (ma il processo viene fermato all'inizio e non si crea un embrione) terapeutiche per il paziente stesso. Proposta congelata dal terrore che qualche genetista pazzoide potesse portare avanti lo sviluppo del processo fino alla clonazione umana vera e propria. Questo timore (perché finora l'etica della scienza non ha mai portato a un clone umano) viene annullato del tutto della tecnica approvata dagli inglesi: usando un uovo di mucca o di pecora e inserendo in esso il Dna del paziente si arriva alle staminali senza alcun rischio di clonare a fini riproduttivi. E' la Natura stessa che farebbe abortire un eventuale sviluppo. Minotauri, centauri, sirene sono frutto della mitologia. In Natura sarebbero destinati ad abortire. Quindi una via che garantisce anche dall'ipotesi del "genetista pazzo". E una garanzia di riuscita: perché le cellule staminali sono autologhe, della persona stessa. Senza i rischi di fallimento collegati al rigetto».
Ma quali vantaggi porterebbe?
«La scoperta delle cellule staminali rappresenta una rivoluzione della medicina. La più importante dopo quella del Dna. Avere una "banca" di staminali proprie vuol dire intervenire per bloccare Parkinson, Alzheimer, diabete e in genere tutte le patologie degenerative ormai vero problema di un'umanità destinata a una vita ultra centenaria».
E' scritto nel patrimonio genetico di ognuno: la vita media è di 120 anni. E' questa la meta a cui si tende?
«Sì, ma già la scienza e il progresso hanno raggiunto un importante traguardo. Secondo le ultime proiezioni (basate anche sull'accelerazione scientifica che si è avuta da quando si conosce la mappa del genoma umano,
ndr), una bambina che nasce oggi in Germania o in Italia campa fino a 103 anni e un bambino fino a 97. E si parla di aspettativa di vita media. Un balzo in avanti rispetto a quanto previsto fino a poco tempo fa. Adesso bisogna fare in modo che questi anni in più siano tutti di benessere e ottima qualità. Quindi la scienza ha il dovere, sconfitte le malattie acute, di prevenire o evitare quelle degenerative, disabilitanti».
Ratzinger in Austria ha parlato anche di fine della vita, di eutanasia e di rischio di pressioni sui malati e sugli anziani...
«Ecco, quando il Papa parla di pressioni su anziani e malati riconosce il problema sociale. Un passo avanti, prima l'opposizione era di principio, teologica: solo Dio può decidere. Socialmente il rischio di una pressione esiste, ma un'azione di questo tipo si configura come omicidio. L'eutanasia invece è una richiesta volontaria, motivata, ripetuta (ed esente da pressioni) da parte di un malato terminale. Nei Paesi dove l'eutanasia è legale tale richiesta deve passare il vaglio di un'apposita Commissione. La legge olandese in proposito è molto rigida, tant'è che soltanto un terzo delle richieste arrivano al compimento: infatti l'iter è così rigoroso che i due terzi delle domande non vengono soddisfatte, o perché non sono riconosciute valide o addirittura perché i malati muoiono prima di ricevere il via libera. E' un tema complesso che va dibattuto a fondo. Comunque io ritengo fondamentale rispettare le volontà autonome del malato, quando le manifesta più volte lucidamente. Cioè quando è in grado di intendere e di volere».
In altre parole rispetto del testamento biologico?
«Sì e non occorre una legge, anche se sarebbe auspicabile, perché ogni medico deve attenersi alla Convenzione di Oviedo e rispettare la volontà del malato. Quindi è sufficiente che le proprie volontà siano, come un testamento, affidate a un notaio perché vi sia l'obbligo di rispettarle. E come per un testamento ereditario possono essere cambiate continuamente. Valgono le ultime».
No all'eutanasia e no all'aborto. Anche questo ha ribadito il Papa...
«Il problema è che la Chiesa non vuole l'aborto ma neanche la prevenzione. No al preservativo, no alla pillola, no all'educazione nelle scuole su come non rimanere incinta. Raccomandare l'astinenza sessuale oggi è irrealistico, considerato anche il fatto che perfino la masturbazione è peccato. Puntare sulla prevenzione già sarebbe un importante passo avanti».
A proposito di prevenzione, il Vaticano è contrario anche alla diagnosi preimpianto in caso di fecondazione artificiale. Aleggia il rischio dell'eugenetica, della selezione dei nascituri...
«Negli Stati Uniti attualmente viene richiesta la diagnosi preimpianto anche in caso di familiarità genetica per il tumore al seno. Molte donne chiedono di non avere figlie con le mutazioni genetiche Brca-1 e Brca-2, che indicano una predisposizione al cancro del seno. Desiderare figli sani non è un peccato se la scienza ti offre la soluzione. Io questo lo trovo giusto, soprattutto quando la malattia è sicuro che si manifesti (per esempio la talassemia, ndr)».
Comunque in Italia la legge 40 impedisce la diagnosi preimpianto. Quindi non c'è questa possibilità per le future mamme...
«Sì ma poi ammette l'aborto terapeutico. La legge 40 è una legge imperfetta. Sarebbe stato meglio allora vietare del tutto la fecondazione artificiale. Con la legge attuale non si elimina il rischio degli embrioni sovranumerari e in più si mette a rischio la salute della donna con i parti plurigemellari. E la salute degli embrioni stessi, perché spesso uno dei tre impiantati è abortito per favorire lo sviluppo degli altri due. Ecco perché si trovano escamotage per salvaguardare la salute soprattutto delle neo-mamme giovani. In realtà, per evitare il far west di cui tanto si parlava sarebbe stato meglio lasciare il tutto alla discrezione dei medici specialisti affinché si operasse caso per caso. Una legge da modificare al più presto. Anche perché la fertilità è un traguardo fondamentale per ogni essere umano e la scienza lavora in questa direzione».

Corriere della Sera 10.9.07
Il friulano in classe
Studiare la propria «lingua» è un diritto sacrosanto
di Tullio De Mauro


Il dibattito sollevato in questi giorni dalla legge per la tutela della lingua friulana presentata dall'assessore regionale all'Istruzione, Roberto Antonaz (di Rifondazione comunista) mi ha riportato alla mente una vicenda ormai lontana. Che, però, vale la pena raccontare per comprendere l'importanza della questione. Nel 1971 due deputati, Mario Lizzero, «Andrea» come partigiano, udinese e pugnace comunista, e Francesco Compagna, vecchio amico per me, repubblicano, piombarono a casa mia chiedendomi se accettavo di dirigere una indagine conoscitiva del Servizio Studi della Camera sullo stato delle minoranze linguistiche in Italia. Ero sorpreso. Mi spiegarono che, anche se non me ne rendevo conto, un mio libro di anni prima era l'unico in cui si parlasse della questione. E che, comunque, bisognava finalmente attuare l'art. 6 della Costituzione sulla tutela delle minoranze linguistiche. Accettai. Cominciò una storia già essa travagliata, dovette intervenire Sandro Pertini, presidente della Camera, a difendere, contro il governo dell'epoca, il diritto del Parlamento a promuovere indagini conoscitive su questa e ogni altra materia. L'indagine si concluse nel 1974, ma per vario tempo restò a dormire.
Da varie parti, le dirigenze centrali dei partiti erano ostili anche alla sola idea di conoscere lo stato delle cose. C'era una situazione paradossale. Localmente, dai comuni albanesi o neogreci alle aree slovene o friulane, politici del luogo e, debbo aggiungere subito, la Chiesa, erano schierate per destare o ridestare le tradizioni minoritarie. Le dirigenze nazionali erano timorose, anzi apertamente ostili, da Aldo Moro al gruppo dirigente del Pci.
Anche localmente le cose erano turbolente. L'autorevole gruppo dei parlamentari comunisti sardi si ribellava all'idea di promuovere la tutela del sardo: questo, dicevano, avrebbe «ghettizzato» l'Isola. Anche in Friuli non tutto era rose e fiori. La buona borghesia non condivideva l'impegno dei deputati e della Chiesa. Lizzero, nel 1974, mi trascinò a cercare di spiegare che le minoranze non erano il diavolo. Nella sala successe un pandemonio. Poi, col terremoto, le cose cambiarono e i friulani riscoprirono l'orgoglio, anche linguistico, per la loro cultura. Anche in Sardegna lentamente le cose maturavano. Perfino nel Pci. Nel 1977 o 1978 Giovanni Berlinguer mi propose di aprire un convegno a Sassari sul sardo e le lingue di minoranza. Sopravvissi.
I dubbi però restavano. Intanto, finalmente, l'indagine conoscitiva venne pubblicata, con una sintesi affidata a me e a Gianbattista Pellegrini. Che esistessero in Italia minoranze linguistiche era difficile da negare. Ma sul piano legislativo si segnava il passo. Lizzero e Chiarante ottennero che la segreteria del Partito comunista mi ascoltasse. Entrai con molta emozione nella sala della riunione. Non ero comunista, ma avevo un rispetto profondo — e lo conservo — per quel che il Partito comunista sapeva essere, ma questo è altro discorso. Fui interrogato a lungo, con curiosità, forse con interesse. Estraneo al Partito, non ho mai saputo che esito ebbe la riunione. Certo è che poco tempo dopo senatori e deputati comunisti furono autorizzati a predisporre un disegno di legge in materia, su cui si impegnarono in fasi successive Lizzero, sempre, Beppe Chiarante, Marino Raicich, poi indipendenti e socialisti come Silvana Schiavi Facchin e Loris Fortuna.
Ma l'ostilità diffusa permaneva. Un buon testo di legge approvato dalla Camera nel 1989 venne insabbiato nel passaggio al Senato. Dopo l'approvazione si scatenò una violenta campagna di stampa guidata da un gruppo di storici torinesi e napoletani e riecheggiata largamente: la tutela delle minoranze fu presentata come una imposizione dei «dialetti». Ovviamente non era così, oltre tutto la legge non imponeva niente, ma solo apriva la possibilità, a chi lo richiedesse, di introdurre nel suo curricolo scolastico lo studio di un'ora di una delle lingue che Consigli regionali e Comuni avessero dichiarate degne di essere «lingua minoritaria», sulla base di pareri degli specialisti. Sabino Cassese calcolò all'epoca che sarebbero stati necessari parecchi anni, sei o sette, stante quella legge, tra la richiesta di una congrua maggioranza di genitori perché nella scuola dei figli si aprisse quella possibilità e la sua realizzazione.
Mentre a Roma si discuteva, la Comunità, poi Unione Europea mandava severi richiami perché anche l'Italia, come i restanti Stati, si adeguasse ai principi di tutela del diritto umano di parlare e studiare la propria lingua, anche se minoritaria. Di legislatura in legislatura si andò avanti tergiversando, finché nel 1999, cinquant'anni dopo la Costituzione, una legge dal testo non brillante fece un primo passo in questa direzione. Quella verso cui, dopo un altro decennio, accenna a muoversi la Regione Friuli.

Corriere della Sera 10.9.07
Ozpetek: «Mai un voto agli Italiani» Ma in Usa e in Francia sono piaciuti


VENEZIA — A mezzogiorno al Lido sono già scappati tutti. La 64ma Mostra è archiviata e sul faldone ci sarà scritto: anno nero per gli italiani. Non sarà il primo né l'ultimo, Bertolucci ricordava che il tiro al bersaglio sui nostri è lo sport preferito a Venezia, ci sono memorie sadiche sulle umiliazioni subite anche da Visconti e Fellini, sul debutto di Patroni Griffi (Il mare), su Pasolini; Lucherini cita la Milo detta Canina Canini, non Vanina Vanini.
Ozpetek, che si considera dei nostri, cerca di dare un happy end al lavoro discusso della giuria. «Abbiamo discusso, mai litigato, anzi si è formato tra noi un patto di complice amicizia». Sul telefonino ora ci sono i nomi di Zhang (Yimou), Jane (Campion), Catherine (Breillat), Paul (Verhoeven) e gli altri. Sacrificato Paul Higgis con In the valley of Elah?
«Non è vero, il film camminerà con le sue gambe, è un po' finto». Ma Brad Pitt Jesse James si è stupito pure lui di aver vinto. «Eppure a noi ci ha fatto davvero paura». Discussione no stop di ore per l'ex aequo tra Kechiche, il regista cous cous che non ha nascosto la propria delusione e poi si è negato per tutta la serata, e Haynes, cantore di Dylan. Ang Lee era Leone cinque a due, Pitt pure «ma Tommy Lee Jones ci aveva fatto piangere».
Le lacrime amare sono però per il cinema italiano: i tre film in concorso non sono mai stati presi in considerazione dai giurati. «Mai, nessuno li ha votati. Ma smettiamola di parlar male di noi stessi, i francesi o i tedeschi non lo farebbero, è uno sport masochista nostro e non riguarda solo il cinema». Il film di Franchi ha avuto facili derisioni in patria, di cui si sentono vittime anche gli psicanalisti fin da quando la Vitti disse che le facevano male i capelli in Deserto rosso; ottime critiche dagli insospettabili americani di Variety e Screen e in Francia, dove uscirà presto, l'hanno paragonato ad Antonioni. Porporati e Marra (quest'ultimo portato da Rai Cinema si dice senza entusiasmo) con le loro storie di mafia e ordinaria corruzione sono invece senza rete di protezione.
Müller li ha scelti costruendo un'operazione di tendenza non riuscita e i due giovani sono arrivati come agnelli sacrificali di fronte a media inferociti per le promesse del marketing. «Mi sembra strano che abbiano scartato autori come Mazzacurati e Soldini», dice Giuseppe Piccioni. Soldini per la verità va a Toronto e alla Festa di Roma, così come La terza madre di Argento. C'è anche un Pupi Avati pronto al via, ma il regista preferisce saltare un giro di festival.
Il curioso è che i film tricolori altrove sono stati festeggiati: il giallo malinconico La ragazza del lago di Molajoli col grande Servillo era alla Settimana della Critica: un film di Procacci Fandango da anni non va più in gara al Lido. La Guzzanti l'hanno presa le Giornate degli autori per muovere le acque, un Zapatero 2; le stesse Giornate hanno avuto la selezione giusta con l'originale e intelligente commedia di Zanasi Non pensarci e il ben riuscito Valzer di Maira, girato in piano sequenza con una Solarino in gran forma (ha preso il premio Wella) e Maurizio Micheli drammatico. In Orizzonti infine il curioso Il passaggio della linea di Marcello.

Corriere della Sera Roma 10.9.07
Il gioco dei numeri (e della politica)
di Paolo Fallai


Ci stavamo domandando come facesse il sindaco Veltroni a calcolare in due milioni e mezzo i partecipanti alla Notte bianca, quando un suo fiero oppositore, il coordinatore di Forza Italia Francesco Giro ha diffuso una dichiarazione sdegnata: macché, erano solo un milione e mezzo. Evidentemente, per lui, è una cifra fallimentare. Noi, molto più prudentemente, non abbiamo alcuna idea di quanta gente fosse per strada. Sappiamo, fidandoci degli occhi dei nostri cronisti, che erano in tanti. E sappiamo anche, fidandoci di numeri poco opinabili, come ricoveri, interventi delle forze dell'ordine e denunce, che è stata una festa lieta e senza incidenti. Come si concilia questo fatto con la Roma che da un po' di tempo viene dipinta come la capitale della violenza, una città in mano alla criminalità e al degrado?
Ora, sarà anche ottimista Veltroni, a coinvolgere nei grandi numeri dell'evento molti turisti e praticamente tutti gli abitanti di Roma (che sono poco più di 2 milioni e 700 mila), e resta un mistero la capacità di Andrea Mondello di calcolare all'impronta i 135 milioni di giro d'affari, ma certo sarebbe il caso di mettersi d'accordo su come questa città viene raccontata. È vero che la dialettica politica ha poco a che vedere con la realtà, ma anche il grottesco deve trovare i suoi limiti. Con il rischio, grave, che a forza di gridare «al lupo» per emergenze inesistenti si rischia di sottovalutare quelle che invece stanno guadagnando terreno sotto i nostri occhi.
L'urbanizzazione delle periferie, dove infrastrutture, servizi, offerta culturale, non riescono a tenere il passo degli insediamenti commerciali, rischia di consegnarci grandi incubatori di malessere urbano. O il dramma degli alloggi, con la pressione degli sfratti, prezzi di vendita ancora altissimi e un mercato parallelo degli affitti che alimenta un sommerso di soprusi. E via così, elencando, solo per titoli, in un mare pescosissimo di disagi.
In realtà la nuova responsabilità politica di Veltroni nel nascente Partito democratico, si annuncia di per sé come una spezia in grado di cambiare sapore a ogni cosa riguardi la sua attività amministrativa e la città. Così ogni iniziativa del sindaco diventa «propaganda per il Pd».
E al tempo stesso è diventata una moda banale di colpire Veltroni attaccando Roma. Che c'era prima e continuerà ad esserci anche dopo la fine del suo mandato e meriterebbe un po' più di rispetto. Per non finire nel siparietto grottesco di valutare la nostra città sulla base dell'ultima polemichetta o sull'ultimo titolo pubblicato da un giornale straniero. Positivo o negativo, per il nostro provincialismo, non fa molta differenza.

iLiberazione 9.9.07
Viaggio nella sinistra che verrà. Intervista al leader di Sinistra democratica
Mussi: «Questo capitalismo è incompatibile con il Pianeta»
di Carla Ravaioli


Fabio Mussi:«Per l'ambiente serve un nuovo equilibrio tra economia e società»
«Il nodo della questione è tra la difesa del primo compromesso, il welfare, e la necessità di un secondo compromesso che integri la questione sociale con la questione dei limiti dello sviluppo»

In agosto il conto (molto approssimato per difetto) dei morti da effetto-serra è: 3700 nel Sud Est Asiatico e 90 in Sudan causa alluvioni, 51 per tifoni in Centro America, 30 da ipercalore nel Mediterraneo. I profughi sempre da alluvioni in Asia superano i 50 milioni. I politici di tutto il mondo nel frattempo sono impegnati a promuovere grandi opere, crescenti velocità, raddoppi del turismo, frenetiche trivellazioni in cerca dell'ultimo petrolio, spasmodici tentativi di sostituirlo per poter continuare a crescere.
Questa sinistra italiana che si sta federando con la prospettiva di altre ipotesi, altri percorsi politici, da quelli praticati oggi, che idee ha in fatto di ambiente? Quali scelte di governo ritiene necessarie per tentare di prevenire e possibilmente bloccare gli scenari terrificanti che si prospettano? Ne ho discusso con i leader dei principali soggetti che compongono la nuova "alleanza": Fabio Mussi, Aldo Tortorella, Alfonso Pecoraro Scanio, Franco Giordano.
Avrei voluto che l'intero schieramento fosse rappresentato, ma non è stato possibile. Non tutti, a sinistra, sembrano ancora convinti che il rapporto capitale-lavoro non esaurisce la storia, che un nuovo capitolo è oggi aperto tra capitale e natura, e che proprio alle sinistre tocca scriverlo.
Oggi la prima intervista. Abbiamo iniziato da Fabio Mussi leader di Sinistra democratica.

Tu hai più volte pubblicamente detto: "Il capitalismo è incompatibile con il Pianeta Terra". E questo ci porta immediatamente nel cuore del problema da affrontare: il governo dell'ambiente.
Nella forma attuale, il capitalismo è incompatibile con il Pianeta. Come noto, il capitalismo storicamente ha avuto forme diverse. Quello delle origini era un sistema selvaggio, volto a riprodurre forza lavoro a costi minimi, sostanzialmente in assenza di istituzioni democratiche, un sistema di pura valorizzazione del capitale. Poi sotto la spinta delle lotte operaie, e anche del pensiero liberaldemocratico, si è andato stipulando quel particolare compromesso che è stato il welfare state . Mutamenti verificatisi sotto la spinta di bisogni sociali incomprimibili…

Tu hai più volte pubblicamente detto: "Il capitalismo è incompatibile con il Pianeta Terra". E questo ci porta immediatamente nel cuore del problema da affrontare: il governo dell'ambiente.
Nella forma attuale, il capitalismo è incompatibile con il Pianeta. Come noto, il capitalismo storicamente ha avuto forme diverse. Quello delle origini era un sistema selvaggio, volto a riprodurre forza lavoro a costi minimi, sostanzialmente in assenza di istituzioni democratiche, un sistema di pura valorizzazione del capitale. Poi sotto la spinta delle lotte operaie, e anche del pensiero liberaldemocratico, si è andato stipulando quel particolare compromesso che è stato il welfare state . Mutamenti verificatisi sotto la spinta di bisogni sociali incomprimibili…

Ma la forma del capitale è l'accumulazione, lo è sempre stata. Senza accumulazione il capitale non è. E, come ben sai, è l'accumulazione quella che squilibra l'ambiente.
La consapevolezza che accanto al prelievo di plusvalore dal lavoro, esisteva un'altra questione, quella del prelievo di valore dall'ambiente, nasce sulla fine dell'Ottocento. L' impatto del sistema produttivo sugli ecosistemi andava aumentando, ma non c'è una data di questa percezione, anche se qualcuno l'ha avuta precocemente. Ma il fatto che lo sviluppo potesse entrare in conflitto con il secondo principio della termodinamica e produrre crescente entropia, ampiamente trattato dai Georgescu Roegen, i Commoner, i Bateson, i Prigogine, è stato recepito dalla coscienza poltica recentissimamente. Il primo rapporto sul tema, firmato dalla Bruntland nell'87, fu ampiamente contestato e disatteso. Il riconoscimento del problema da parte delle autorità politiche è recentissimo, si colloca dopo il quarto rapporto Ipcc sui cambiamenti climatici, che è di quest'anno.

Forse è accaduto un po' prima, con il rapporto Stern, che ha fatto i conti della crisi ecologica, e segnalato il rischio di caduta del Pil…
Sì, quando s'è cominciato a calcolare i costi. Problema serio d'altronde.

Ma torniamo un momento su quella componente essenziale del capitale che è l'accumulazione, che pertanto non ha una data di nascita. La parola crescita, da tutti ossessivamente ripetuta e invocata, è la prova di questa essenzialità: si deve produrre sempre di più, non importa che cosa e perché, purché si accumuli plusvalore. Non sta proprio in questo quell'incompatibilità con un pianeta di dimensioni ovviamente "finite", che tu hai denunciato, cosa che io ho molto apprezzato e applaudito?
Indubbiamente lo sviluppo costante di produzione di merci a mezzo merci, che consuma energia e materia, ha un limite naturale. Ma il limite non è soltanto della quantità "finita" di materia e energia, ma è dei processi entropici che si creano consumando materia e energia, per cui si rischia di cambiare la natura biochimica della biosfera prima di avere esaurito le risorse. E' il secondo principio della termodinamica. Quando l'economia sbatte la testa contro questo principio, se la rompe.

Insomma chi parla contro la crescita, ha le sue ragioni…
Figurati, io ho incominciato prestissimo a occuparmi di queste cose, addirittura nel '74 in una relazione a Frattocchie ho lanciato l'idea di decrescita… Ero un ragazzino, mi hanno guardato come un matto… Ma, attenzione. Non possiamo dimenticare che c'è chi di crescita non ne ha avuta per nulla, c'è una grossa parte del mondo che ha bisogno di sviluppo.

Certo. Ma siamo sicuri che questi popoli troverebbero il benessere percorrendo la nostra stessa strada, visto quello che sta succedendo? Tenendo conto poi del fatto che la crescita non ha affatto diminuito le disuguaglianze…
La soluzione esigerebbe una consapevolezza delle autorità politiche a livello istituzionale internazionale, e quindi una cooperazione mondiale… Ma ne siamo ancora molto distanti.

Ma, prima di questa concertazione, indubbiamente necessaria ma ancora di là da venire, tu ritieni utile programmare per i paesi poveri un futuro che riproduca la nostra realtà?
Questo no. Ma ne sono così lontani …

Non tutti però. In Cina, ad esempio, ci sono ancora milioni di poverissimi, ma ci sono anche molti ricchissimi, tra i più ricchi del mondo…
Vero. Ma a quei poverissimi, non solo cinesi, ma indiani, indonesiani, filippini, africani, ecc. ecc. a tutti questi dovrebbe essere fornito quanto è a disposizione dell'umanità in stock di informazione e tecnologie…

Perdonami, Fabio, qua io debbo rivolgerti una sentita obiezione. Premesso che ti apprezzo molto, innanzitutto perché sei l'unico politico ch'io conosca che è veramente informato su questa materia, che non è poco, poi perché riconosci che il capitalismo non è compatibile con l'equilibrio degli ecosistemi… Però mi pare che tu nutra un'eccessiva fiducia, come dire, nelle "magnifiche sorti e progressive"… Einstein - forse lo sai - diceva che i problemi non si risolvono con le idee di chi li ha creati. Ecco, data l'accelerazione e la vastità del guasto ambientale, data la magnitudine di un inquinamento multiforme, pervasivo, che non risparmia nulla, non so quanto le energie rinnovabili, e tutti i miracoli della tecnologia - cioè l'insistenza nella logica che ha creato il danno - rappresentino la soluzione.
La tecnologia da sola certo non risolve. Ma è sbagliato considerare nemica la tecnologia. La crescita di entropia oggi richiede un nuovo compromesso, su un terreno molto più complesso e avanzato di quello costituito dallo Stato sociale. Esso comporta infatti modelli sociali che puntino al risparmio energetico; da questi dipende un'idea diversa dell'economia e del mercato, e anche tecnologie più evolute coordinate a questa nuova idea. I problemi creati anche da un certo sviluppo tecnologico possono essere risolti con un salto: di modello sociale, economico, e di sistemi tecnologici.

Certo. Ma il guaio è che di salti non se ne vedono, e i programmi ambientali esistenti, pochi peraltro, puntano esclusivamente sulla tecnologia; e lo fanno al fine di sostenere crescita, Pil, quantità, cioè proprio ciò che Il pianeta non ce la fa a reggere. Mi è capitato sott'occhio un tuo articolo del 1988, nientemeno, pubblicato sull'Unità, in cui tu appunto parlavi di qualità. Non credi che, se vogliamo tentare di salvare il mondo, dobbiamo assumere proprio la qualità come categoria portante del nostro esistere?
Non c'è dubbio. Non solo io lo penso da tempo. Anche Berlinguer lo pensava, e lo disse con il suo famoso discorso sull'austerità, del '76, suscitando però reazioni duramente negative. In realtà era il primo ad aver capito che occorreva un nuovo equilibrio tra l'economico e il sociale.

Mi sto domandando come ciò che dici si possa tradurre in termini di governo. In che misura anche questo gruppo di sinistre che lavorano per unirsi, siano pronte a lavorare secondo questa logica. Ad esempio, commentando il "Documento di Orvieto" prodotto dall'Ars, tu hai scritto che il capitalismo è in crisi. Cosa che io sottoscrivo, e che d'altronde è convinzione di non pochi osservatori fortemente qualificati. Ma quanti la pensano così? Quanti sarebbero disposti a operare di conseguenza?
Quanti, non lo so. Ma anche a sinistra vedo molti ancora concentrati sui contenuti del vecchio compromesso socialdemocratico. Certo, ciò che s'è conquistato va difeso. Ma se non si produce il salto verso il nuovo compromesso, che parta dal problema dell'ambiente e ne consideri tutti gli aspetti, anche il vecchio non regge più.

Anche perché la separazione tra economia e società appare sempre più evidente. Il tempo in cui l'espansionismo capitalistico in qualche misura serviva anche gli interessi del lavoro sembra irrimediabilmente chiuso.
Non occorre essere marxisti per vedere il divario crescente tra Pil e indicatori dello sviluppo umano. C'è una crescita che provoca una riduzione anziché un rialzo di questi indicatori. Questo è il nodo della questione: tra la difesa del primo compromesso socialdemocratico, il welfare cioè, e la necessità di un secondo compromesso che integri la questione sociale con la questione dei limiti dello sviluppo. Questa è la vera impresa politica che ci aspetta: mettere insieme, integrare, due questioni che ancora pensiamo separatamente. Nei convegni della domenica l'ambiente in qualche modo è presente. Ma tutti gli altri giorni … Però va detto che qualcosa di positivo sta succedendo. Ad esempio in questo "Patto per il clima" di recente proposto dai Verdi, per la prima volta si mette in rapporto svalorizzazione dell'ambiente e svalorizzazione del lavoro. Perché, in quest'ultimo quarto di secolo s'è avuto un enorme aumento del lavoro dipendente salariato, contrariamente a quanto si è detto. La globalizzazione è una tendenza a comprare lavoro a prezzi orientali e vendere merci a prezzi occidentali. Sfruttamento del lavoro che è parallelo al crescente prelievo dalla natura. Oggi la questione lavoro e la questione ambiente possono essere messe in una nuova relazione.

Perfetto. Ma su quale base? Perché - permettimi - oggi molti sono impegnati alla ricerca di tecnologie che consentano di risparmiare energia e materie prime. E questo andrebbe benissimo. Solo che tutto ciò, per tutti, è visto come il mezzo per continuare a crescere. Se questo è il progetto politico, il mondo non può che andare a catafascio.
E' evidente che i paesi che sono cresciuti di più non possono che muoversi verso quelle che Prigogine chiama "strutture stazionarie" .

Dovrebbero. Ma io al momento non ne vedo traccia. Oggi secondo me c'è troppo di tutto, anche di cose buone, libri, musica, spettacoli, eventi, convegni, dibattiti, turismo…Tutte cose che anche loro consumano e inquinano, se non altro con i trasporti dei partecipanti… La maggior parte di quel che si produce è poi destinato a finire in discarica in brevissimo tempo, è programmato per durare sempre meno…
Stiamo cominciando a maneggiare la più grande sfida che l'umanità ha mai affrontato. E' una questione nuova, che richiede un enorme aumento di conoscenza e insieme di azione. Perché il problema dovrà risolversi con macroazioni di sistema e insieme con microazioni di miliardi di persone, che via via acquisiscano conoscenza del rischio e dei comportamenti necessari per affrontarlo.

Stiamo incominciando nel modo giusto? Io ho l'impressione che si tenda - quando lo si fa - a intervenire sulll'esistente. Mentre credo sarebbe necessaria una vera grande rivoluzione. Di tutt'altro tipo ovviamente dalle rivoluzioni che conosciamo, violente traumatiche cruente…
Si tratta di trovare nuovi modelli mentali. Di cambiare le coscienze. Ma anche di uso delle tecnologie.

Molto bene. E forse una seria politica ambientale incomincerebbe a trovare un qualche consenso tra la gente. Tu che ne pensi?
La cosa non è ancora così sicura. Può valere per quanti hanno percepito che sta succedendo qualcosa di enorme, ma fino a un dato punto…Quando s'incomincia a mettere in discussione il loro proprio modo di vita, temo che l'atteggiamento cambi.

Forse hai ragione. Ma io credo che ciò si debba anche al fatto che le sinistre hanno colpevolmente trascurato i condizionamenti esercitati, in pratica a partire dalla seconda metà del secolo scorso, dalla comunicazione di massa e in particolare dalla pubblicità. La pubblicità ha una parte importantissima nella fabbrica non solo del senso comune, ma dell'identità delle persone, in pratica riducendola al consumo.
La pubblicità è costruzione di senso comune, sì. E' la più potente agenzia culturale. Noi dovremmo riprendere una critica di questo linguaggio. Magari ricordando quanto diceva Adorno, che è stato mio maestro, che notava come in tedesco la parola avesse un doppio significato, di pubblicità come promozione commerciale ma anche come fatto pubblico, spirito pubblico. In tedesco le due cose coincidono, e lui diceva che in questa doppia valenza della parola c'è lo spirito del tempo: la promozione di merce diventa lo spirito pubblico. E noi abbiamo abbandonato le forme critiche mirate a una comunicazione sociale vera. Ci siamo dimenticati che la pubblicità non insegna solo a comperare cose, ma è soprattutto un formidabile sistema di induzione di valori.

Tu, capo di un governo di sinistra, che cosa faresti?
Il problema è che non c'è una sola cosa da fare. Ce ne sono montagne. Governare vuol dire innanzitutto trasmettere idee, valori, percezioni: che si può fare ad esempio con un provvedimento che ho proposto insieme a Calzolaio per una modifica del calcolo del Pil, che incorpori i costi ambientali nella valutazione economica; e anche fissando indicatori qualitativi (cosa che già l'Onu ha fatto); insomma cambiando i parametri della valutazione economica. E questa è la prima forma di critica al prevalere della dimensione quantitativa. Dopo di che occorre promuovere politiche di risparmio energetico, in cui poi rientra anche la minore produzione di rifiuti; perché energia e materia sono alla fine la stessa cosa…

Pensi che questi pezzi di sinistra che dovrebbero assemblarsi siano disponibili a un discorso di questo tipo? Tutti?
Be', se non c'è questo, non so di che parliamo.

Ma buona parte delle sinistre sono ancora fedeli allo sviluppismo…
Eh sì…Ma insomma, il mondo è ciò che accade. Io sono stato responsabile ambiente del Pci. E feci cose di qualche significato: come far votare contro il nucleare, prima di Chernobyl, far chiudere l'Acna di Cengio. ..E sempre tra furibonde opposizioni.

Io credo anche che bisognerebbe aprire al più presto un discorso mondiale su questo tema.
Indubbiamente. Perché mentre il capitalismo nazionale è cresciuto insieme alle istituzioni politiche nazionali, nulla del genere è accaduto con il capitalismo globale, che anzi è cresciuto mentre le istituzioni nazionali si indebolivano. Forse bisognerebbe fare qualcosa di simile al "Progetto Manhattan", quando si misero insieme tutti i migliori cervelli, tutti i fondi disponibili, per fare la bomba e chiudere la guerra. Oggi bisognerebbe fare la stessa cosa, questa volta per disinnescare la bomba ecologica.

domenica 9 settembre 2007

Repubblica 9.9.07
"Una minaccia la scienza senza Dio"
di Marco Politi


Benedetto XVI in Austria: Occidente in crisi perché teme la verità Il futuro: "L´Europa ha troppi pochi bambini perché non si fida del futuro" Il passato: "Il mondo è stato redento non mediante la spada ma la croce"

VIENNA - Con il bastone del pellegrino Benedetto XVI arriva a Mariazell, santuario della Madonna degli austriaci, degli slavi e degli ungheresi. Il suo viaggio in Ungheria è un pellegrinaggio di umiltà, perché non incontra folle. Qualche migliaio venerdì a Vienna, quarantamila alla basilica di Mariazell, in un clima di indifferenza che nel paese sfiora quasi la metà degli abitanti.
Solo una minoranza è autenticamente entusiasta. Almeno la comunità ebraica gli ha detto grazie, con una lettera che evoca anche il pericolo dell´Iran per Israele. Qui il Papa attraversa un´Europa secolarizzata, che i periodici megashow ecclesiali non riescono a cambiare. Benedetto XVI lo sa e ad ogni tappa affina il suo linguaggio. «Di un cuore inquieto e aperto abbiamo bisogno - sostiene - abbiamo bisogno di Dio e Gesù Cristo». Rivolgersi a Cristo come unico salvatore, spiega, non è disprezzo delle altre religioni né superbia, è solo confessione di un´appartenenza ardente e di un desiderio di verità.
«La rassegnazione di fronte alla verità - dichiara ai fedeli venuti a lui nonostante pioggia, neve, tempeste e un freddo che ha provocato l´infarto di due pellegrini - è il nocciolo della crisi dell´Occidente e dell´Europa». Ma se non si distingue tra bene e male, diventano ambigue anche le conquiste della scienza: «Possono aprire prospettive importanti per il bene dell´uomo, ma anche diventare una terribile minaccia, la distruzione dell´uomo e del mondo». Gli esempi Ratzinger li ha fatti in altre occasioni: dall´energia nucleare alla biotecnica. Qui in Austria il pontefice non usa toni apocalittici, vuole predicare, vuole convincere. E perciò ammette che ci sono «buone ragioni storiche» per il timore dei contemporanei che la «fede nella verità comporti intolleranza». Come venerdì, dinanzi ai diplomatici, aveva ammesso altri peccati di prepotenza da parte della religione.
Per papa Ratzinger è urgente instillare nei fedeli la consapevolezza che il cristianesimo non è un sistema di leggi e che i dieci comandamenti sono un sì a Dio, un sì alla famiglia, un sì alla vita, all´amore responsabile, alla solidarietà sociale, al rispetto degli altri, alla verità. Un grande percorso in positivo, in cui il credente nel crocifisso sia richiamato all´amore per gli altri e nell´immagine del Bambinello sappia riconoscere i bambini poveri, i bambini-soldato, i bambini privi dell´amore dei genitori, malati, sofferenti, «ma anche quelli gioiosi e sani». L´Europa ha troppi pochi bambini, insiste: forse non si fida del futuro? Senza Dio il futuro non c´è.
Ai cristiani tentati da altre esperienza - e forse guardano a Budda o a Maometto - Benedetto XVI rammenta che certamente «grandi personalità della storia hanno fatto belle e commoventi esperienze di Dio», ma sono esperienza umane perché «solo Cristo è Dio». Un Papa non può parlare diversamente. E se si chiama Ratzinger (con un´allusione obliqua al credo islamico) aggiunge: «Dio ha redento il mondo non mediante la spada, ma mediante la Croce».
Lo stesso approccio di chi vuole plasmare preti e religiosi ad un cristianesimo essenziale anima il pontefice all´ora dei vespri nella basilica di Mariazell piena di sacerdoti, frati e suore. Si è poveri, dice, per occuparsi dei poveri e ciascun ordine si faccia «un severo esame di coscienza». Si è casti per offrire amore disinteressato in una società presa dalla frenesia dell´individualismo, dell´avidità, del consumismo, dell´impazienza. Si è obbedienti per darsi completamente a Dio. E ciò, sottolinea, implica umile obbedienza alla Chiesa.
In terra d´Austria il pellegrino Ratzinger offre un´immagine delicata, completamente diversa dalla caricatura del pontefice-panzer. Ma il suo predicare solleva anche un interrogativo: basta un grande catechizzatore per fare il timoniere? I rapporti ecumenici, nonostante un cero benedetto a Mariazell per l´assemblea pancristiana di Sibiu, sono in surplace. Le relazioni con l´Islam narcotizzate. I preti mancano drammaticamente in tutto l´orbe cristiano. E nella vita delle coppie la Chiesa non riesce ad entrare con parole giuste.

Repubblica 9.9.07
Carlo Flamigni: la religione non può decidere dove va la scienza
"Ma esiste un'altra etica frutto della conoscenza"
di Marina Cavalieri


"La ricerca serve a migliorare la qualità della vita, soprattutto dei più sfortunati"

ROMA - Scienza, etica, verità. Per Carlo Flamigni - ricercatore, uno dei maggiori esperti italiani di fertilità - c´è molta presunzione nelle posizioni espresse dal pontefice in Austria. Nelle affermazioni di Benedetto XVI si nasconde un rischio: credere che esista un´unica, incontestabile, verità, quella della Chiesa.
Papa Benedetto XVI ha detto che «le grandi e meravigliose conoscenze della scienza possono diventare una terribile minaccia, la distruzione stessa dell´uomo e del mondo se non si tiene come riferimento Dio».
«Innanzitutto definiamo cos´è la scienza. La scienza secondo me è un grande investimento sociale, serve a migliorare la qualità della vita, soprattutto dei più sfortunati. La scienza ha una serie di doveri verso la società, deve essere "trasparente", "disinteressata", "comunitarista", capace di scetticismo così che l´uomo non può che fidarsi della scienza perché al suo servizio».
Ma non ci devono essere controlli? Chi decide in che direzione deve o può andare la scienza?
«Non può essere certo la religione, antica, ossificata, a decidere, dove va la scienza. Esiste invece una morale di senso comune, un´etica che è influenzata dalle religioni ma non solo, una morale che si modifica, questo è il punto, su sollecitazione della conoscenza, dei vantaggi che derivano dalle conoscenze possibili».
Condivide gli ultimi esperimenti condotti in Inghilterra?
«Sì. Gli inglesi hanno fatto un investimento economico, gli scienziati sono usciti allo scoperto, hanno detto: queste sono le finalità, le potenzialità, queste le garanzie. Le autorità hanno chiesto di raccontare, un´organizzazione intera si è mossa. Così si realizza una democrazia virtuosa, non c´è nulla di aberrante. Lo scienziato si deve denudare del suo potere, mettere in mano alla società le sue conoscenze, gli scienziati devono parlare dei rischi e dei vantaggi e la società interviene. In questo caso non ci sono rischi etici, è una sperimentazione, è stato utilizzato un centesimo di Dna, ma ora nasceranno ancora altri problemi».
Quali?
«Se da queste sperimentazioni usciranno informazioni che verranno utilizzate in altre ricerche anche su queste si abbatterà il giudizio della Chiesa che le accuserà di complicità verso un peccato. Siamo al culmine dell´antistoricità, del delirio di verità».
La religione è un ostacolo per la scienza?
«Quando si considera portatrice dell´unica verità possibile, l´etica della Verità di questo pontefice è sbagliata e crea solo conflitti».

Repubblica 9.9.07
Tolleranza zero o tolleranza "di classe"?
di Paolo Flores d’Arcais


Anticipiamo una parte dell'editoriale del prossimo numero di MicroMega che uscirà venerdì 14 settembre

Dice: tolleranza zero! D´accordo. Dice: dunque, lavavetri raus! Inevitabile. E i venti e rotti "onorevoli" condannati con sentenza definitiva, cioè criminali patentati, che continuano a sedere in parlamento e a dettar legge (alla lettera!)? E i criminali da centinaia di migliaia di scippi, i falsificatori di bilanci, intendiamo, e quelli dell´insider trading? Nell´America di Bush (di Bush!) si beccano condanne da un quarto di secolo, e nel penitenziario ci finiscono davvero […]. E i criminali da centinaia di morti all´anno? Quelli dell´edilizia dei subappalti e del caporalato, intendiamo? Allora non "dice" più: comincia a strabuzzare gli occhi da liberismo minacciato, a strapparsi le vesti da "riformismo" offeso, e strepita: giustizialisti! Eppure nella patria del citatissimo Rudolph Giuliani, in galera si finisce per evasione fiscale, e tanto più a lungo quanto più si è – come evasori – ricchi e potenti. […] Dice: facciamola finita con la retorica degli "ultimi". Ottimo e abbondante, mandiamo il Vangelo al macero, ci voleva un po´ di sano laicismo.[…] Perché è retorica, evidentemente, pensare per un momento (il tempo di uno spot, non di più) a cosa significa concretamente la vita di un ragazzo deportato da una situazione di fame (fame, non appetito) e percosse a un accattonaggio acqua e spazzola ai semafori, ma sempre, per lui, di fame e percosse.
Ma non eravamo stati – americanamente! – tutti creati eguali, con i diritti inalienabili alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità? O è anche questa retorica per robivecchi? La retorica è insopportabile, in effetti. Ogni retorica.[…]Siamo seri, perciò, basterebbe per una politica di sinistra inaudita e strepitosa. Dietro i lavavetri, e più ancora dietro i posteggiatori abusivi, e massime dietro le prostitute, c´è quasi sempre un racket. […] Cosa è stato fatto contro questo neo-schiavismo? Contro i trafficanti di carne umana, cioè, non contro le loro vittime. Dov´è la famosa tolleranza zero? Una retata a settimana "fa punti" per la carriera nelle forze dell´ordine, e "fa voti" per "l´onorevole" presso i più ottusi degli elettori benpensanti, senza fare al racket nemmeno un graffio, mentre umilia una volta di più le sue vittime. Ma le prostitute in giro danno fastidio, turbano il decoro, imbarbariscono il traffico, lo schiavista non si vede, invece, e al benpensante fa pure comodo. […] Tolleranza zero è una prospettiva sacrosanta, se la si prende sul serio, se non la si butta in retorica. Equivale, né più né meno, a una politica della legalità. Intransigente. Quella politica che i politici hanno contrastato in tutti i modi (anche a sinistra, purtroppo, e in modo progressivamente sempre più scoperto) quando è stata possibile perché, per un magico momento, addirittura popolare (anzi, popolarissima). Immediatamente dopo lo scoperchiamento giudiziario di Tangentopoli. Con Mani Pulite, insomma. Se si parla di Tolleranza zero, perciò, come scelta strategica e anti-retorica, è da lì che bisogna ricominciare: quello zero, se non vuole diventare osceno belletto per ulteriori prevaricazioni, per la millenaria retorica del lupo contro l´agnello e per quella nostrana, recente e sempre più pervasiva, di "porco è bello!", deve partire dai piani alti, da chi più ha in termini di potere e di ricchezze. Se si comincia da onorevoli e tycoon, evasori e palazzinari, se si comincia dai reati più gravi[…], se si dimostra contro questi reati di establishment e questi criminali di "palazzi" la volontà inflessibile di fare pulizia, si sarà legittimati moralmente a esternare contro la "retorica degli ultimi", e ad agire perché venga meno il fastidio (fastidioso, fastidiosissimo, sia chiaro) di ogni forma di accattonaggio. Ma solo allora (e magari in parallelo a un rinnovato welfare. O un quinto dei cittadini sotto la soglia di povertà è "compromesso" tollerabile?). Nel can-can giustizialista a senso unico che rumoreggia in questi giorni, invece, non si scorge nessun barlume di tanta elementare equità. In realtà sta avvenendo quanto noi di MicroMega, da vent´anni inguaribili "giustizialisti", cioè inguaribili garantisti della legge eguale per tutti, abbiamo paventato, previsto, stigmatizzato. […]Una giustizia di classe. Tolleranza zero per la microcriminalità che tormenta la vita quotidiana, e impunità cento per la megacriminalità d´establishment […] Sarebbe questa la nuova serietà di una sinistra non demagogica?

Repubblica 9.9.07
Le fabbriche dell'orrore, una storia già raccontata
di Federico Rampini


I recenti allarmi sull´industria cinese accusata di sfornare prodotti tossici o contraffatti hanno un precedente illustre: le inchieste di Dickens e Sinclair sui misfatti dell´industria Usa tra Ottocento e primo Novecento. Ora un libro dello storico americano Stephen Mihm stabilisce il parallelo tra due forme di capitalismo adolescente, allo stesso tempo uguali e molto diverse
"La Cina - dice Mihm - siamo noi da giovani Se ce ne rendiamo conto, capiamo che il capitalismo mordi-e-fuggi non è un fenomeno cinese né un complotto per avvelenarci ma una fase dello sviluppo"

«Un fumo immenso dalle ciminiere oscura il cielo e sporca la terra… avvicinandosi alla città l´atmosfera cambia, diventa più cupa, l´erba dei campi sempre meno verde, il paesaggio è spoglio e squallido. E insieme col fumo sempre più spesso si comincia a sentire un odore strano, nauseabondo». Nella fabbrica «ci sono bambini piccoli, appena sopra i dieci anni, che arrivano a stento all´altezza della catena di montaggio. I genitori hanno mentito sulla loro età, per trovargli un posto pagato cento dollari all´anno». Nel reparto dove gli operai preparano il manzo in scatola «il pavimento è lurido, ma un vecchio deve raccogliere con la scopa tutti gli scarti. I rifiuti finiscono nel camion mescolati al resto della carne».
Sembrano descrizioni da un reportage sulle "fabbriche dell´orrore" che pullulano nella Cina di oggi: lo smog denso che avvolge le metropoli industriali e rende l´aria irrespirabile, lo sfruttamento del lavoro minorile, le condizioni igieniche disastrose. Un incubo che tormenta i consumatori occidentali, dopo la catena di scandali sui prodotti made in China contaminati e nocivi per la salute, scoperti nei nostri supermercati. Ma quelle citazioni iniziali non dipingono il gigante asiatico che ha invaso i nostri mercati nel Ventunesimo secolo. Sono brani tratti da un romanzo-denuncia che ha più di cent´anni: La Giungla dello scrittore americano Upton Sinclair, pubblicato nel 1906. Il luogo è Chicago, allora una città di frontiera lanciata in uno sviluppo economico tumultuoso. I protagonisti che si aggirano in quel paesaggio industriale sinistro sono poveri immigranti lituani, prima attratti dal "sogno americano", e ben presto stritolati negli ingranaggi di un capitalismo senza pietà.
Mezzo secolo prima di Sinclair, un altro scrittore celebre ha descritto la nascente potenza americana come una nazione senza regole. Il romanziere inglese Charles Dickens fa il suo primo viaggio negli Stati Uniti nel 1842. Nel diario dove raccoglie le sue impressioni annota una caratteristica del capitalismo americano: «È il dominio dei furbi che ingannano la fiducia degli altri; i truffatori e i disonesti la fanno franca e sono ai vertici della società». Lo colpisce anche la «diffusione di malattie che potrebbero essere prevenute con semplici precauzioni igieniche… come le fognature». Nel centro di New York, sulla Broadway, vede passeggiare indisturbati i maiali randagi «che sono i veri spazzini della città». Soprattutto Dickens è sconvolto dal dilagare della contraffazione. Ne è vittima lui per primo. Tutti i suoi romanzi di successo, come Oliver Twist e Il circolo Pickwick, vengono copiati e diffusi sul mercato locale senza pagargli i diritti d´autore. Le sue proteste sono inutili: lo stesso diario di viaggio in cui denuncia l´industria del falso (America) esce in versione-pirata appena quattro giorni dopo la pubblicazione in Inghilterra. A New York se ne vendono centomila copie illegali in un mese.
Oggi il pubblico occidentale è sgomento di fronte alle rivelazioni che arrivano dalla Cina: la salute del consumatore, la sicurezza dei prodotti, il rispetto del copyright, ogni valore viene calpestato in nome del profitto. Reagire è legittimo ma stupirsi è ingenuo. Solo un´amnesia storica può farci credere che le "fabbriche dell´orrore" siano una novità. A rinfrescarci la memoria ci prova uno storico americano, Stephen Mihm, docente all´università della Georgia. In questi giorni la Harvard University Press pubblica il suo saggio A Nation of Counterfeiters. La patria della contraffazione a cui allude il titolo non è la Cina, è l´America. Quello che sta accadendo oggi dall´altra parte del mondo non è un fenomeno inedito, sostiene il professor Mihm. «Un secolo e mezzo fa un´altra nazione in rapido sviluppo aveva la reputazione di sacrificare le regole alla rincorsa del profitto, e quella nazione emergente era l´America».
Dalle edizioni-pirata dei dvd di Hollywood e dei libri di Harry Potter fino agli scandali recenti dei cibi adulterati e dei medicinali tossici, osservare la Cina del Ventunesimo secolo secondo lo storico è come vedere nello specchietto retrovisore l´economia americana dell´Ottocento. Lo stesso dinamismo spregiudicato e spesso disonesto. «La Cina - dichiara Mihm - per certi aspetti è la versione giovane di noi stessi. Se ce ne rendiamo conto, allora capiamo che il capitalismo mordi-e-fuggi non è un tratto del carattere nazionale cinese, né tantomeno un complotto per avvelenare noi, ma è una fase dello sviluppo. Lo chiamerei il capitalismo-adolescente: scoppia di energia, è esuberante, dinamico. E come tutti gli adolescenti ha anche comportamenti folli, irresponsabili, pericolosi».
Riscoprendo cos´era davvero l´America dell´Ottocento impressionano le analogie con la Cina dei nostri giorni. Non è esatto sostenere che gli Stati Uniti allora fossero la terra del liberismo sfrenato, del laissez-faire. Sulla carta c´erano tante regole (così come abbonda di regole la Repubblica popolare, che ha ereditato l´armamentario del dirigismo comunista). Ma erano state scritte per una realtà ormai superata, non erano adeguate alla impetuosa modernizzazione che stava avvenendo. Le istituzioni che avrebbero dovuto disciplinare il mercato erano inefficienti, o più deboli degli interessi privati. La corruzione regnava. In un passaggio illuminante della Giungla Sinclair descrive con perfidia l´ispettore sanitario: pagato per sorvegliare lo stabilimento dove i maiali vengono macellati e trasformati in prosciutti, spesso costui finge di non vedere le nefandezze che avvengono in fabbrica. «Questo funzionario statale non aveva l´aria di uno che si ammazza di lavoro; non sembrava molto preoccupato che qualche maiale potesse sfuggire ai suoi controlli. Bastava rivolgergli la parola e lui era felice di spiegarti il pericolo mortale per chi mangia carne di maiali malati di tubercolosi; e mentre lui ti parlava dozzine di carcasse gli passavano dietro aggirando l´ispezione… Nel reparto per la produzione delle salsicce uomini e donne lavoravano in mezzo a un fetore vomitevole, i visitatori fuggivano per non soffocare». Sinclair non lavorava di fantasia. Prima di scrivere quel romanzo si era documentato accuratamente, con mesi di inchieste nelle tre maggiori aziende alimentari di Chicago, i famigerati "meatpackers" (produttori di carne in scatola) Armour, Swift e Morris. Come racconta in uno dei brani più disgustosi, nelle salsicce e nei prosciutti finivano non solo le carni scadenti o infette, ma perfino arti umani o interi cadaveri delle vittime di incidenti sul lavoro.
Nell´industria americana i vizi abominevoli non erano limitati alla produzione di carne in scatola che Sinclair prese di mira nel suo romanzo-verità. Mihm ricorda che il primo studio sistematico sulla qualità dei prodotti alimentari, realizzato a Boston nel 1859, rivelò una situazione terrificante: caramelle all´arsenico, birra con stricnina, sottaceti imbevuti di solfato di rame, farina e zucchero "allungati" con gesso e polvere di marmo, latte contaminato da mucche al pascolo nelle discariche di rifiuti. Proprio come accade oggi ai cinesi, le principali vittime erano i consumatori americani, ma gli scandali scoppiarono all´estero. Nel 1879 le autorità tedesche accusarono l´America di esportare maiali malati di colera e salsicce piene di vermi. Nel 1880 fu l´Inghilterra a bloccare partite di margarina importata dagli Stati Uniti, adulterata con interiora di bestiame putrefatte. I paesi europei più evoluti nella tutela della salute pubblica cominciarono a boicottare il "made in Usa" e a stendere un cordone sanitario attorno ai prodotti alimentari sospetti.
«Nella Cina di oggi - sostiene Mihm - la facilità con cui proliferano l´industria della pirateria e gli imprenditori senza scrupoli si spiega con gli stessi mali che perseguitavano gli Stati Uniti centocinquant´anni fa: una legislazione inadeguata, superata dalla rapida evoluzione dell´economia; la scarsa motivazione dello Stato nel combattere le frodi; e una percezione sociale inadeguata della distanza tra l´arricchimento onesto e quello disonesto». Resta una differenza: gli Stati Uniti erano già allora una democrazia, la Repubblica popolare fondata dalla rivoluzione comunista del 1949 è un regime autoritario. Che non sia una distinzione da poco lo dimostra la vicenda di Upton Sinclair. La Giungla ebbe un immenso successo popolare prima come feuilleton a puntate su una rivista socialista, poi come libro vendette centinaia di migliaia di copie. Secondo la studiosa di storia letteraria Cynthia Brantley Johnson «nessun romanzo americano del Novecento provocò una tale indignazione, e nell´ultimo secolo solo il romanzo anti-schiavista La capanna dello zio Tom ha avuto un´influenza paragonabile a La Giungla». Non sembrano affermazioni esagerate. Tra gli ammiratori di Upton Sinclair c´era il presidente Theodore Roosevelt. All´estero la sua fama era tale che Gandhi gli scrisse lettere dal carcere. Il successo di quel libro incoraggiò una nuova tendenza nella stampa americana, il giornalismo d´inchiesta, i cosiddetti muckraker (letteralmente "rastrellatori di letame"), i reporter specializzati nel denunciare la corruzione. Nel 1906 l´impatto della Giungla contribuì a far passare al Congresso di Washington il Pure Food and Drug Act, la prima legislazione generale contro l´adulterazione dei cibi. Nel 1908 il Congresso metteva al bando il lavoro minorile.
Esiste un autore cinese contemporaneo che si può considerare l´erede di Upton Sinclair. È lo scrittore Zhou Qing, che in un romanzo del 2004 ha rivelato le vergogne dell´industria alimentare del suo paese. Ha descritto operai che versano insetticidi nei barattoli di conserve alimentari per uccidere gli scarafaggi; supermercati che aggiungono la candeggina sulle torte di panna perché siano più bianche; fabbriche di bibite che riciclano le bottiglie scadute cambiando semplicemente l´etichetta con la data di produzione. Ma la sua storia è stata letta da pochi intimi. La censura del regime controlla i mass media e vieta di diffondere "allarmismo" tra la popolazione. L´ignoranza dei consumatori resta abissale.
In mancanza di libertà politica e di una società civile agguerrita in Cina, la pressione internazionale può essere utile. Lo storico Mihm ricorda che un secolo fa l´embargo decretato da varie nazioni europee sulla carne americana ebbe l´effetto di un elettroshock. Privata di sbocchi sui mercati esteri, l´industria americana dovette correre ai ripari. I controlli sui metodi di produzione e sulla qualità si fecero più severi. «Avvenne un cambiamento fondamentale: gli imprenditori più avanzati capirono che conquistarsi la fiducia del mercato era la migliore garanzia per fare profitti».
Dickens ebbe solo una rivincita postuma. La prima legge internazionale sul diritto d´autore fu adottata dagli Stati Uniti nel 1891, vent´anni dopo la sua morte. Non per effetto delle sue denunce ma perché nel frattempo era fiorita la letteratura americana e con essa un business editoriale che aveva interessi da tutelare.
Sinclair da parte sua rimase deluso dall´impatto della Giungla. Lui aveva sperato che quel libro servisse la causa del movimento operaio. Sognava una rivoluzione di sinistra contro il capitalismo americano. L´opinione pubblica invece si mobilitò contro le "fabbriche dell´orrore" soprattutto perché gli alimenti prodotti in quelle condizioni erano un attentato alla salute. Colui che sperava di essere un profeta del socialismo fu involontariamente il precursore del consumerismo. Sul finire della sua vita Sinclair commentò: «Avevo puntato al cuore dei miei lettori, invece li ho colpiti allo stomaco».

Repubblica 9.9.07
Il desiderio ai tempi della cinepresa
di Concita De Gregorio


"Il sesso è più eccitante sullo schermo che tra le lenzuola". Sulla scia di quel che diceva Andy Warhol, "Erotico", l´ultimo dei dizionari del cinema Electa-Accademia dell´Immagine, ci guida nella foresta dell´emozione amorosa per fotogrammi e nell´esplorazione di quel confine malcerto tra eros e luci rosse che nessuna regola potrà mai fissare
La parola-chiave è "tensione" Mostrateci, registi e attori, il luogo verso cui siete incamminati senza farcelo vedere mai...

Diceva un grande maestro di tango, a Buenos Aires, durante una lezione collettiva a ballerini provetti arrivati da tutto il mondo ad ascoltarlo: «Immaginate di essere in un film: quando passate da una scena di tango a una di sesso lo spettatore deve avvertire un netto calo di tensione erotica». Era un uomo piccolo di statura e sovrappeso, un uomo brutto a vederlo seduto al tavolino di un bar. Diventava irresistibile nel ballo, desiderabile e magnetico come la nostalgia. Fermava il passo e diceva con improvvisa freddezza quella faccenda del tango e del sesso come fosse una semplice notazione tecnica.
In effetti lo è. La parola chiave è tensione. Questo il segreto dell´erotismo e della danza. Mostrateci, ballerini, il luogo verso il quale siete incamminati senza farcelo vedere mai. Lasciatecelo indovinare, che ciascuno degli spettatori possa immaginarne l´esito secondo il suo privato e segreto desiderio: che sia un rifiuto, persino, se questo è ciò che appaga il bisogno di chi guarda. Uno schiaffo, uno sgarbo oppure un bacio e solo quello, una carezza e niente più. Un congedo di sguardi o una fusione liquida di corpi, certo, ma qui, quando si arriva, il tempo del cammino è già finito. Il dopo è il meno. Il dopo è la fine del viaggio la cui bellezza - come in quel tango - è solo una promessa. Tensione verso, desiderio di. Itaca, diceva il poeta, non è la meta: è il cammino per raggiungerla. L´erotismo, scrivono i dizionari, si distingue dalla pornografia per la «presenza di un vissuto emotivo»: l´attesa, si potrebbe anche dire. Il crescendo del preludio, l´intelligenza dei sensi che si attiva e si mette in moto verso un orizzonte.
In Erotico di Valerio Caprara, l´ultimo dei dizionari del cinema Electa-Accademia dell´Immagine, Lezioni di tango non c´è, per la fortuna di quelli che lo considerano un patrimonio emotivo privato. Non c´è il bacio di Notorius né Grace Kelly che poggia le labbra sulle mani di Cary Grant in Caccia al ladro («lei sa bene che questa collana è un´imitazione», «sì, ma io non lo sono»), non c´è lei che si spoglia ne La finestra sul cortile né niente di Hitchcock, di nuovo e con sollievo per fortuna. Un´antologia del cinema erotico è in realtà un´impresa impossibile perché niente è più privato, imprevedibile e individuale del desiderio. Cosa lo scateni, in memoria di cos´altro, perché.
Chiedete a trenta persone, a quaranta: la scena erotica per te più conturbante. Non otterrete due risposte uguali. Estratti dal mio campione: la carezza di Harvey Keitel sulla nuca della pianista in Lezioni di piano. La partita a scacchi fra Steve Mc Queen e Faye Dunaway nel Caso Thomas Crown. Candice Bergen che si cambia tenendo un telo tra i denti nel Vento e il leone. La signora della porta accanto, tutto. Di Eyes Wide Shut solo la scena in cui lei, in mutande, discute in camera con lui. Di Ultimo Tango non quella riprodotta all´infinito, no: l´altra invece, quando lui la lava nella vasca. Fra i più giovani: Clooney e Lopez chiusi nel bagagliaio della macchina in Out of sight. Scarlett Johansson che cammina tra la folla in Lost in Translation e lui che scende dal taxi per dirle qualcosa all´orecchio, sfiorandola alle spalle. Cosa le dice, potete indovinarlo? È già un altro gioco, però: un altro desiderio. Y tu mamà tambien, la scena in cui ballano in tre, due ragazzi e una donna, è lì che Garcia Bernàl diventa l´uomo (l´idea di uomo) con cui andresti in vacanza anche in Islanda e senza parlare la sua lingua. Atame, dove Antonio Banderas poco più che ragazzino la lega perché lui sa che lei non sa quel che lui invece sa perciò è costretto a costringerla, come sarebbe bello e desiderabile e quasi sempre impossibile fare negli incontri della vita.
It takes two for tango, dicono gli americani per tornare al principio, il tango: bisogna essere in due per dare forma al desiderio e se uno manca all´appello, se non riesce non vuole non può, non c´è ballo possibile. Almodovar, che dell´erotismo è un moderno genio poetico e dissacratore, ha fatto diventare un´icona sexy una donna in coma e bisogna immaginarsi la scena di un regista qualunque che va dal produttore e gli dice: dunque, io avrei un soggetto, lei è in coma tutto il tempo e c´è un infermiere vecchiotto basso e un po´ scemo che l´accudisce. Era Almodovar, solo per questo gliel´hanno fatto fare. Non c´è scena erotica più divertente della gara di virilità in cui i candidati espongono, in piedi e al buio di un cortile notturno, le proprie qualità. Al pubblico votante il banditore munito di centimetro annuncia cifre iperboliche: 82, applauso; 90, boato; 94, ovazione. È Almodovar il primo a dirlo in chiaro: lunghezza per circonferenza, è un prodotto la chiave della felicità. Non serve il righello, ci vuole un metro a nastro. Marlene Dietrich diceva con opportuna schietta sintesi che «solo i froci sanno come si fa a far sembrare una donna sexy» ed in effetti Penelope Cruz se la incontri per strada dopo averla vista in Volver non ti capaciti che sia la stessa e non è per via del sedere imbottito che le ha messo il regista in omaggio alla Loren, no. È come canta, è come lava i piatti.
Di straordinario il dizionario di Valerio Caprara, che pure ha fatto un lavoro notevolissimo tra gli infiniti possibili, c´è la selezione delle immagini. La quasi totalità degli umani, per quanto amanti del cinema, non è in grado di ricordare come si chiamasse l´episodio di Wong Kar-wai nel film collettivo Eros e di che anno fosse ma se vede l´immagine di lei spalle al muro e occhi bassi con quel vestito pazzesco e la schiena di lui che le si fa addosso e la stringe alla parete si ricorda, o crede di ricordare, che è lo stesso. Gli abiti accollatissimi e disegnati sul corpo perfetto di Maggie Cheung nell´amore mai consumato di In the mood for love sono meno, più o altrettanto erotici delle bretelle di Charlotte Rampling, anoressica quando non si usava, nel Portiere di notte?
Un film perché diventi patrimonio di tutti non è necessario averlo visto: il foulard stretto al collo di lui nell´Impero dei sensi, i corpi che rotolano in Zabrisky point, le mutande bianche di Richard Gere in American Gigolo, le calze di Laura Antonelli in Malizia, la corsa di lei con loro due dietro in Jules e Jim, i nudi carponi di Salò, gli occhiali e il lecca lecca di Lolita. La sottoveste di seta di Kim Basinger ma soprattutto Joe Cocker che canta You can leave your hat on, di quante autoradio predisposte all´uopo, negli anni Ottanta, è stata la colonna sonora?
Sharon Stone che accavalla, certo, ma bisogna anche tenere conto dell´anagrafe. Se hai ottant´anni niente ti impressionerà più come il primo nudo di Clara Calamai. Se ne hai quaranta non puoi dimenticare Valery Kaprinsky che balla nuda nella Femme publique di Zulawsky né Maruska Detmers in Prenom Carmen di Godard, chissà che fine hanno fatto tutte e due, erano senza dubbio i più bei corpi degli anni Ottanta, seni piccoli pre-silicone e sederi naturalmente tondi, nudità sfacciata e prepotente. Se ne hai trenta sei venuto al mondo con Sesso bugie e videotapes, con le Età di Lulù di Bigas Luna (e avevi già letto il libro, ovvio, fonte di inesauribili piaceri privati e fantasie). Agli animi più torbidi piacque Tokyo decadence, alle minoranze rivendicative Tokyo-Ga. Da quando sono arrivati i giapponesi è stato tutto più violento e più esplicito, va detto: un´altra cultura. Noi eravamo quelli delle lenzuola sul terrazzo di Una giornata particolare. Eravamo quelli del vorrei ma non posso. Poi è arrivato Crash e abbiamo persino detto bravo. Sì, Johnny Depp in Chocolat è fantastico, Juliette Binoche è da portasela a casa ma diciamo la verità, anche a caro prezzo: come Marcello e Sofia non c´è stato più nessuno.

Corriere della Sera 9.9.07
«Ecco la macchina della dolce morte»
In Germania è scontro sull'eutanasia

Ex ministro di Amburgo: il malato può attivarla con un bottone. La Chiesa insorge
di Federico Fubini


BERLINO — È uno strumento piccolo e di un rassicurante colore verde. Lo ha tirato fuori e mostrato al pubblico di un dibattito elettorale qualche giorno fa Roger Kusch, ex assessore alla Giustizia di Amburgo e fondatore di una lista civica alle prossime elezioni di ottobre. Il nome della macchinetta è «Sterbehilfe Automat», dove «Automat » si usa generalmente per i distributori di merendine a gettone e «Sterbehilfe» significa «aiuto a morire».
Per come l'ha presentata Kusch, probabilmente convinto di guadagnare consensi in questo modo, la macchina è concepita per l'uso da parte di persone che si vogliono suicidare: una sorta di strumento automatico per l'eutanasia, che permetterebbe di aggirare i vincoli di legge esistenti in Germania anche sui malati terminali. La piccola macchina verde è progettata in particolare per loro: basta premere anche debolmente un piccolo bottone per potersi fare un'iniezione letale.
«La mia intenzione è solo di mostrare quali siano le possibili opzioni per l'eutanasia», è stata la spiegazione del politico di Amburgo. In realtà l'uso di quello strumento renderebbe la «dolce morte» in Germania perfettamente legale anche per i casi di persone che non siano quasi più in grado di muoversi. Nella Repubblica federale è infatti proibito aiutare un malato terminale a morire, anche se è quest'ultimo a richiederlo. A differenza che in Italia, il suicidio invece non è punibile.
In teoria, sarebbe dunque legale se un malato terminale ricevesse da un parente la macchinetta verde, quindi la facesse funzionare lui stesso schiacciando il bottone. I parenti e i medici hanno però l'obbligo di correre in aiuto della persona che ha tentato il suicidio, non appena questa perda conoscenza.
Kusch, da sempre impegnato per l'eutanasia, ha trovato una falla nel sistema giudiziario tedesco che la proibisce. Non è dunque un caso se l'uscita dell'ex ministro della Giustizia della città di Amburgo ha sollevato immediatamente una ridda di reazioni.
Per ora, tutte negative. Per l'arcivescovo di Amburgo Werber Thissen l'idea dell'«Automat» denota un «orribile smarrimento». Anche il candidato sindaco della Sdp Michael Naumann ha definito l'uscita «immorale e scandalosa», mentre Eugen Brysch della fondazione Hospizstiftung ha accusato Kusch di essersi «completamente squalificato».
Il dibattito però non finirà semplicemente con il rifiuto di una macchina comparsa in un giorno di campagna elettorale. In Germania operano infatti numerose associazioni favorevoli all'eutanasia, alcune anche molto strutturate come Dignitas. Nessuna di loro però si spinge fino al punto di fornire strumenti di suicidio al malato, soprattutto per non sfidare i vincoli di legge sull'obbligo di soccorso successivo.
Certamente in Germania si fa sentire l'approccio più tollerante sulle questioni etiche di alcune delle chiese protestanti. Ma il radicamento cattolico resta molto solido soprattutto al sud e nelle regioni della valle del Reno e non mancherà di farsi sentire se la campagna per l'eutanasia dovesse farsi più intensa.
La riprova giunge proprio in questi giorni da Monaco di Baviera. Il governo del Land guidato da Edmund Stoiber sta infatti per imprimere una svolta in nome dell'osservanza religiosa: un obiettivo a lungo perseguito dal ministro- presidente, vicinissimo ormai alla pensione. Un'iniziativa di legge del governo monocolore dei cristiano-sociali mira così ad allargare notevolmente il concetto di oltraggio alla religione perseguibile penalmente o punibile con una multa. Soggette a sanzioni, secondo il progetto di legge, saranno tanto le bestemmie che le espressioni che «svalutano o irridono» la religiosità: anche queste ultime sarebbero un segno di «intolleranza » che offende «convinzioni religiose o visioni del mondo di altre persone». «Volevamo avere più protezione», ha commentato in proposito la rappresentante dell'Ufficio cattolico di Monaco di Baviera Bettina Nickel. Ma la chiesa evangelica, anche su questo punto, prende una posizione diversa.
Per i protestanti l'ironia o la critica alla religione non sono «fattori rilevanti sul piano legale e non c'è nessun bisogno di occuparsene ».

Corriere della Sera 9.9.07
La Hack: rischierei la galera per sollevare dalla pena chi soffre
di Margherita De Bac


Non voglio ricevere cure contro la mia volontà. L'eutanasia è un diritto, è un atto di carità

ROMA — Margherita Hack, cos'è l'eutanasia?
«Un diritto», risponde l'astrofisica.
E la vita?
«Un dono che ho tutto il diritto di rifiutare ».
Il Papa ha appena riaffermato il contrario.
«Se continua con queste affermazioni torniamo al Medioevo. Non può pretendere che l'individuo rinunci alla padronanza della propria vita specialmente se non è credente. Se la vita è insopportabile voglio essere libera di farla finita. Non posso essere obbligata a sopportare l'insopportabile ».
Ha esperienze dirette?
«No, ma ho seguito il caso Welby. Io rischierei volentieri la galera per sollevare dalla pena un uomo che soffre. È un atto di carità. Lo stesso farei da medico».
Sul suo testamento biologico ha scritto che in caso di grave malattia e perdita di coscienza desidera finirla?
«Non ho fatto testamenti, di alcun genere, per pigrizia. Però lo scriva, non voglio ricevere cure contro la mia volontà. Mi facciano fuori subito. E spero di non dovermi mai trovare nella condizione di chi resta lucido e deve soffrire per una malattia inguaribile».
L'eutanasia è sempre dolce morte?
«Sempre dolce e anche quando porta dolore, è preferibile ad una sopravvivenza senza speranza. Sentirsi alla mercé degli altri è inaccettabile».
Crede nell'aldilà?
«No. Chi muore, muore e basta. Non resta nulla oltre a molecole che serviranno a costruire altri esseri. Le molecole restano libere nell'atmosfera per secoli. Noi continuiamo a vivere solo nella testa e nei ricordi di chi vive».
Nega anche l'esistenza dell'anima?
«L'anima è il cervello. L'anima è ciò che ci fa ragionare, pensare, vivere. L'anima è il nostro motore. Non credo che possediamo qualcosa di innaturale, che ci arriva per afflato divino».
Che le hanno detto da piccola?
«Da bambina mi raccontavano che Gesù esiste, forse però non mi parlavano della Madonna. I miei erano teosofi, non credenti. Ho creduto nel Bambin Gesù e nella reincarnazione. A 16 anni avevo già cancellato la religione. Se ne può fare a meno».
Spieghi perché.
«L'etica consiste nel non far male agli altri, non serve credere in Dio. Anzi penso sia meschino agire sperando in una ricompensa nell'aldilà».
È favorevole ad una legge sul testamento biologico?
«Sarebbe un segno di civiltà poter indicare le proprie volontà di fine vita. Ma chissà se riusciranno mai ad approvare una legge. Nel nostro Paese comanda il Vaticano».
Secondo lei in Italia la pratica dell'eutanasia è molto più diffusa di quanto si dica?
«Sì, specie dopo il caso Welby. Nessuno vorrebbe fare quella fine, essere tenuto in vita in modo coatto. La maggior parte degli italiani chiederebbe che venisse staccata la spina. Agnostici ma formalmente cattolici. Non vanno in chiesa, si sposano solo per il piacere di indossare un bel vestito. Aumentano le convivenze. Cattolici? Ma va'...».

Corriere della Sera 9.9.07
Adolescenti. Sono giovane, dunque esagero
Lo psichiatra spiega come liquori e cocktail sono diventati un «identificante sociale»: senza un bicchiere in mano ci si sente esclusi dal gruppo
di Angelo de' Micheli


Non occorre essere sociologi o medici per accorgersi dell'aumento del consumo di alcol tra i giovani. Ed è senz'altro il caso di preoccuparsi. «L'età dei giovani al loro primo contatto con l'alcol si è abbassata, come ci dice l'Istat, passando dai 15 agli 11-12 anni — ricorda Michele Sforza, psichiatra, socio fondatore della sezione lombarda della Società italiana di Alcologia e direttore del Centro per lo studio e la terapia delle psicopatologie. «Un dato ancor più allarmante — prosegue Sforza — se si pensa che nei giovanissimi l'organismo in sviluppo è estremamente vulnerabile all'azione tossica dell'alcol».
«L'aumento del consumo — continua Sforza — è motivo di preoccupazione perché è evidente che a maggiori quantità di alcol corrispondono maggiori rischi, ma ad aggravare le preoccupazioni ci sono le modalità con cui i giovani bevono. È sempre più diffuso il bere "esagerato", il bere per lo "sballo" (binge drinking); un tipo di abuso che un tempo era appannaggio dei Paesi nordeuropei e americani, che consiste nell'ingurgitare in rapida successione quantità decisamente notevoli di alcolici ».
«Nel mondo giovanile il binge drinking è la modalità più pericolosa di consumo di alcolici e minaccia la salute fisica e psicologica e la stessa vita di moltissimi ragazzi. Per abuso intendiamo l'assunzione di quantità di alcol superiori alle capacità di smaltimento di un determinato soggetto in determinate occasioni, — precisa Sforza — vale a dire che non conta soltanto la quantità di alcolici che si beve, perché ciò che può essere troppo per una persona, può essere poco per un'altra, oppure ciò che può non essere troppo per una persona in certe situazioni può essere troppo per quella stessa persona in situazioni diverse. Una certa quantità di alcol non crea problemi se il bevitore è sul divano di casa a guardare la Tv, ma può essere letale se sta guidando un'auto».
«Il bere giovanile — tiene a ribadire Sforza — nei suoi aspetti problematici, è però proprio caratterizzato dall'abuso che, col tempo può dar luogo, in alcuni soggetti predisposti, ad una vera e propria dipendenza, cioè alla possibilità di essere "agganciati" dalla sostanza e di non poterne più fare a meno».
Osservando le conseguenze pericolose e perfino letali legate all'abuso, ci si continua a chiedere il perché di questi comportamenti, insomma: perché i giovani bevono? «Un aiuto per capire questo fenomeno — risponde Sforza — ci viene dal sapere che l'alcol etilico contenuto in tutte le bevande alcoliche, che siano a bassa o ad alta gradazione, è una sostanza psicoattiva, cioè capace di modificare le sensazioni, le emozioni e il pensiero di chi ne fa uso. La modificazione principale consiste nel procurare nel consumatore sensazioni piacevoli. L'alcol, a piccole dosi, ha effettivamente la proprietà di disinibire, di togliere l'ansia, di aumentare l'aggressività, di facilitare il sonno. È comprensibile, quindi, che alcuni giovani utilizzino l'alcol per sentirsi più "sciolti", meno timidi, più coraggiosi, o per rendere più lievi difficoltà psicologiche».
«Queste considerazioni, però, possono farci capire le ragioni di un singolo individuo che ricerca nel bere un suo specifico vantaggio, ma non ci fanno capire l'entità di un fenomeno che coinvolge, a livello sociale, un numero elevato di persone — dice Sforza —. Sul piano più vasto del sociale, il bere è diventato un modo di rapportarsi e di stare con gli altri, uno stile di vita, una scorciatoia per assumere un ruolo sociale».
Spesso parlando con i giovani ci si sente dire: bevo perché lo fanno tutti. Oppure: come posso frequentare il bar o la discoteca senza bere? Sarei isolato dagli altri, un diverso.
Cosa c'è di vero in queste affermazioni? «Il bere è oggi una modalità per socializzare, un modo di essere anche per i giovanissimi — spiega l'esperto —. Pensiamo al rito dell'aperitivo (un tempo ignoto ai giovani e addirittura rifuggito come aspetto contrario alla cultura giovanile), dell'happy hour, del dopo cena, del "fare serata", del "dai sballiamo!". In assenza dell'alcol come "lubrificante sociale" o peggio, com'è diventato oggi, di un "identificante sociale", non è possibile divertirsi nel modo giusto. E il divertimento giusto può essere solo a tutti i costi, "estremo", esasperato. Il divertimento è visto come fine e non più come mezzo per ricaricarsi, premiarsi. Il nuovo motto è: "Mi diverto dunque sono"».
«Spesso si sente dire — conclude Sforza — che tocca , o toccherebbe, ai genitori dire di no, saper limitare i figli, dando loro i giusti valori. Ma come potrebbero molti adulti trasmettere limiti e valori se loro stessi condividono l'etica dell'effimero, dell'esagerato, del "vincente a tutti i costi"».

l’Unità 9.9.07
Enrico Pieranunzi in piazza del Campidoglio
Musica, teatri, musei: a Roma una folla di emozioni illumina la Notte Bianca
di Francesca De Sanctis


UN PIZZICO di follia, o perlomeno di voglia d’evasione. Ecco cosa ci vuole, quella piccola spinta che serve a scaraventarti in strada, ad immergerti in una folla capace di modificarsi come una grande sacca, che diventa più stretta quando s’insinua tra le stradine di Roma o si allarga con il suo pancione di fronte alle bellissime piazze romane. E non importa se continui a sfogliare tra le mani il programma con tutti gli eventi della Notte Bianca senza averne visto neppure uno. Poco importa se il percorso immaginato salta del tutto. La Notte Bianca è magica anche per questo. Perché l’emozione, tra gente di ogni età, arriva all’improvviso. Ascoltando la musica della Dino e Franco Piana Jazz Orchestra, per esempio, che ha dedicato il concerto di apertura della quinta Notte Bianca romana ad Armando Trovajoli, l’uomo delle musiche di Ettore Scola. Il maestro, commosso, ha ascoltato dalla prima fila, in piazza del Campidoglio, melodie memorabili e popolari, impreziosite dalla partecipazione di Enrico Pieranunzi che ha vestito di jazz una serata ogni anno speciale (con Laura Pausini assente per influenza). «Un concerto dedicato a me? Mi auguro di no» ha detto Trovajoli -. Spero sia dedicato a Roma». E qualche voce fuori dal coro ne ha approfittato per srotolare giù dal primo piano dei Musei Capitolini uno striscione con la scritta “Notte bianca, lavoro nero, senza diritti”. Giusto, ha replicato Veltroni dal palco. «Non è solo la notte degli eventi - ha detto - è giusto ricordare il lavoro nero. La serata è dedicata anche a Ingrid Betancourt». La folla, oltre due milioni e mezzo di persone nonostante la partita dell’Italia, ha ascoltato, riso, perfino pianto, come nella vigilia, durante il concerto di Lucio Dalla, che intonando Caruso ha dedicato la sua lunga notte a Luciano Pavarotti. Ma è bastato salire in metropolitana per non dimenticarlo: la sua voce ha accompagnato i nottambuli fino alla mattina. Nottambuli amanti dell’arte e della musica, del teatro e della letteratura. D’altra parte tra i 400 appuntamenti sparsi per la città c’era solo l’imbarazzo della scelta. Perfino i musei, rimasti aperti per tutta la notte, sono stati presi d’assalto.
Moltissimi i fan di Franco Battiato arrivati a Roma solo per lui. Accompagnato dalla voce di Manlio Sgalambro, filosofo e da anni co-autore dei testi, Carlo Guaitoli al piano e Angelo Privitera alla tastiera. Quel palco innalzato in piazza del Campidoglio ha continuato ad incanatare fino al mattino, che rischiarava a ritmo della musica arabo-andalusa dell’Ensemble de Fez (diretti dal maestro Mohammed Briouel).
Contemporaneamente altre piazze si riempivano, altre strade si popolavano di sguardi curiosi, altri artisti regalavano momenti magici, altre coppie si arrabbiavano perché il teatro era troppo pieno e non si riusciva ad entrare, altri piccoli miracoli accadevano nella città. A cominciare dalle luci che hanno acceso i palazzi. Uno in particolare: il Palazzo delle Esposizioni, eccezionalmente riaperto per la Notte Bianca dopo la chiusura forzata dovuta al crollo del soffitto. Per una notte il Palazzo si è trasformato in un caleidoscopio di suoni e visioni. La facciata, infatti, è stata «interpretata» da Philipp Geist, artista multimediale, rivelazione a Berlino. Il Palazzo delle Esposizioni riaprirà definitivamente al pubblico il prossimo 6 ottobre con Mark Rothko, Stanley Kubrick e Mario Ceroli. «È il compimento di un sogno - ha detto Veltroni -. È un luogo molto emozionante per la bellezza dell’impatto visivo».
Per il resto, dal centro alla periferia, ci hanno pensato gli artisti a tenere sveglia la folla di questo «magnifico scandalo», come ha detto Veltroni ricordando le parole pronunciate la sera prima da Vittorio Sermonti. Paolo Rossi e Gigi Proietti, Ascanio Celestini e i Têtes de Bois, Sergio Staino e Gabriele Lavia. E ancora Alessandro Haber, Modena City Ramblers, Ambrogio Sparagna, Giorgio Barberio Corsetti, Vincenzo Cerami, Daniele Sepe, l’Orchestra di piazza Vittorio e all’alba il concerto degli Zero Assoluto. Tutti inseguiti dai piccoli grandi sogni della gente: vivere le emozioni.

Corriere della Sera Roma 9.9.07
La Cina in via Ripetta
Riapre Arteinterrazza: due mesi di mostre sul Celeste Impero
di C. De L.


Dopo l'Iran, all'Accademia di Belle Arti arriva la Cina. Si aprirà domani "Artinterrazza", la manifestazione che ha lo scopo di promuovere il dialogo e la conoscenza tra i popoli attraverso pittura, scultura e miniatura. «Lo scorso anno - spiega Gaetano Castelli, direttore dell' Accademia - ci siamo focalizzati sulla Persia mostrando ai nostri studenti e alla città intera gli splendori dell'antica arte iraniana. Abbiamo aperto un canale, uno scambio culturale che proseguirà nel tempo e darà i suoi frutti. Ora iniziamo lo stesso percorso con la Cina».
Anche in questa terza edizione la manifestazione si svolgerà sulla splendida terrazza di via di Ripetta dove fino al 27 ottobre saranno in programma esposizioni, lezioni di arte, proiezioni e dibattiti. Lo spazio ospiterà anche due importanti mostre di pittura e fotografia provenienti dal Paese del Dragone. La prima, «Lives on Paper», sarà inaugurata proprio domani alle 19 e proporrà al pubblico i lavori di sei professori della China Academy of Fine Art. «Opere che - aggiunge Castelli - attraverso la pittura di paesaggio, la calligrafia e gli ideogrammi su carta, la pittura sperimentale e le installazioni video mostrano come l'arte e l'antica cultura cinese abbia un ruolo fondamentale nello sviluppo di un futuro sempre più tecnologico ».
Il 18, invece, alle 18.30 si aprirà «La Cina vista attraverso la fotografia», mostra organizzata dalla Fondazione Italia Cina su incarico dell'Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese in Italia.
(...)
«ARTINTERRAZZA», da domani al 27 ottobre (h 10-24) all'Accademia di Belle Arti (via di Ripetta 222). Ingresso libero. Info: 06.3218005 tutte le mattine (10-13) oppure artinterrazza@gmail.com


il manifesto 9.9.07
A ottobre un'altra piazza
di G. Polo, P. Sansonetti, P. Sullo


Ai primi di agosto abbiamo rivolto un appello al popolo della sinistra, chiedendogli di fare sentire la propria voce, di riprendere l'iniziativa, scendere in piazza, spingere il governo a cambiare rotta, essere più fedele al programma per cui è stato eletto, a rispettare i valori e i principi essenziali della sinistra e del pensiero democratico, a introdurre correzioni significative nella sua azione. Cioè combattere il sistema della precarietà (del lavoro e della vita) e chi vorrebbe che questo sistema diventasse l'unico nostro futuro. Insomma, abbiamo chiesto uno scatto di partecipazione al popolo della sinistra, ai movimenti sociali, ai cittadini, in modo che sia possibile ricostruire una speranza.
Oggi rilanciamo questo appello, ribadiamo la data del 20 ottobre per la manifestazione, diamo appuntamento a tutti a piazza della Repubblica, a Roma. Sarà una giornata che - al di là delle letture distorte fioccate nel mese d'agosto - vuole ridare la possibilità alle persone in carne e ossa che non sono rassegnate all'esistente, di far sentire la loro voce, intervenire nelle battaglie e nei conflitti, organizzarsi come soggetti attivi, poter chiedere a chi comanda scelte qualificanti, indicare quali, partecipare a costruire un progetto di società e di «agire pubblico» diversi, non basati più sulla legge feroce del mercato, capaci di far diventare l'idea di solidarietà una struttura della convivenza civile tra le donne e gli uomini.
Noi torniamo a porre le grandi questioni che abbiamo elencato ad agosto, e chiediamo a tutti (forze politiche e sociali, associazioni e movimenti) di unirsi a noi in questa manifestazione, con le proprie idee, le proprie proposte, le proprie istanze, le proprie caratteristiche. I promotori del 20 ottobre sono molto diversi tra loro, ma considerano le diversità un valore. Non chiediamo a nessuno di aderire alla manifestazione rinunciando a quel che pensa e alle battaglie che più gli stanno a cuore. Crediamo però che il 20 ottobre il popolo della sinistra possa riunire in un solo corteo le sue tante anime - diverse ma amiche - e dare una scossa molto forte alla società italiana e alla politica.
Nell'appello di agosto elencammo alcune grandi questioni (con le loro relative concrete ricadute politiche) che confermiamo come centrali per qualunque pratica che si voglia dire di sinistra e sulle quali chiediamo una svolta rispetto alle politiche degli ultimi mesi. Il lavoro, la questione sociale, i diritti di tutti (che devono precedere gli interessi di alcuni), la questione di genere, il disarmo e la pace, l'ambiente e la difesa del territorio e dei beni comuni, la legalità (quando diciamo legalità pensiamo alla lotta alla mafia e non ai lavavetri). Su queste grandi questioni vogliamo promuovere un grande confronto nel paese nei quaranta giorni che precedono l'appuntamento del 20 ottobre, senza pregiudizi, discriminazioni e paletti. Mettendo in comunicazione le grandi anime della sinistra: quella operaia e sindacale, quella ambientalista, quella femminista, quella pacifista, quella gay e tutte le altre. Su alcune di queste questioni parteciperemo ad altre iniziative pubbliche e di massa molto importanti, come - il 7 ottobre - la marcia della pace da Perugi ad Assisi.
Il 20 non ci sarà un solo corteo ma una manifestazione di manifestazioni.

Gabriele Polo, Piero Sansonetti, Pierluigi Sullo

il manifesto 9.9.07
La paranoia è sicura
di Alessandro Robecchi


Sono assolutamente d'accordo nel moderare i toni a proposito di questa faccenda della sicurezza che sta spaccando il paese, la sinistra, e anche un po' i maroni. Ieri non sono stato scippato, né rapinato in villa, né fatto oggetto di alcuni colpi di arma da fuoco; nessuno mi ha sputato in un occhio o ferito in modo grave, nemmeno lieve. Non ho subito rapine, nessun congiunto mi ha finito infierendo sul cadavere, gli zingari non mi hanno rapito i bambini, nessuno mi ha molestato sessualmente, nemmeno lavandomi il vetro della macchina. È vero che c'erano due scritte sui muri e che ho incontrato un barbone, ma ne sono uscito incolume. Non mi capita spesso, ma ieri ero schiacciante maggioranza, in linea con il 99,9 % degli italiani. Verso il tardo pomeriggio, l'ipotesi da poco ventilata per cui, se non diamo subito armi nucleari ai vigili urbani, tra poco rischiamo che ritorni il fascismo, mi sembrava infondata. Poi è venuta sera e, ancora stupefatto per gli scampati pericoli, mi sono messo a vedere i tg Mediaset, ho cominciato alle 18,30 col tg dei puffi e ho finito alle 20.30. In queste due ore ho messo in atto i seguenti propositi. Comprarmi un dobermann addestratissimo. Mettere inferriate alle finestre e un allarme costosissimo collegato con il Mossad. Comprare due pistole e un fucile da caccia grossa, più un kriss, pugnale che davano in omaggio. Ho firmato sette petizioni per liberalizzare la tortura dei finti invalidi che fanno gli accattoni, ho inviato un assegno al sindaco di Firenze perché quella splendida città si rimetta in piedi dopo che quindici lavavetri l'hanno messa in ginocchio. Ho comprato spray al peperoncino. Ho apprezzato le coraggiose opinioni di Cofferati, e ho deciso che comunque avrei votato Berlusconi, non essendo disponibili il generale Videla e Rudolph Giuliani. Verso le 22, con la paranoia a mille, sono andato, da solo, a fare una fiaccolata contro i venditori abusivi di borsette, che danneggiano la civiltà fin qui costruita da Louis Vuitton. Sono andato a dormire verso mezzanotte, dopo aver minato i balconi e avvertito i Ris di Parma che le impronte sullo spazzolino sono le mie. Non posso dire che mi sentivo un «cretino reale». No, piuttosto un «cretino percepito» che alla fine, come ci spiegano tutti i giorni, è la stessa cosa.

il manifesto 9.9.07
Christopher Hitchens, i guai della provocazione a ogni costo
di Remo Ceserani


Dopo cinque giornate dense di appuntamenti si chiude oggi l'undicesima edizione del Festivaletteratura. In scena, fra gli altri, il controverso giornalista inglese, di cui è da poco uscito per Einaudi «Dio non è grande», studio argomentato e caustico sui disastri provocati dalle grandi religioni nella storia umana Sostenitore a oltranza della guerra in Iraq dopo una lunga militanza nella sinistra, Hitchens presenta nel suo libro sulle religioni argomenti fondati e convincenti

Il libro pubblicato di recente da Christopher Hitchens sui mali e i disastri causati dalle grandi religioni nella storia umana e nel mondo di oggi (God is not Great . How Religion Poisons Everything, Hachette USA 2007; trad. it Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa, Einaudi 2007) ha avuto in America un inatteso successo e, uscito quasi in contemporanea con The End of Faith (Norton 2004; trad. it. La fine della fede, Nuovi Mondi, 2006) di Sam Harris e con The God delusion (Bantam 2006; trad. it. L'illusione di Dio. Le ragioni per non credere, Mondadori 2007) di Richard Dawkins, ha provocato accesi dibattiti su giornali e riviste, in televisione, in incontri pubblici.
Rotture clamorose
Un intervento di Hitchens, intervistato da Anderson Cooper della Cnn, a commento della morte del pastore fondamentalista Jerry Falwell nel maggio scorso, ha fatto anch'esso scandalo. In un'occasione in cui si dicono solitamente parole buone, magari ipocrite, sulla persona scomparsa, Hitchens ha definito Falwell «un volgare truffatore... uno sgradevole piccolo ciarlatano, la cui vita dimostra solo che in questo paese puoi permetterti le più straordinarie offese alla moralità e alla verità se riesci a farti chiamare reverendo». (Per chi non lo sa, Falwell, fondatore di una potente e ricca chiesa battista a Lynchburg, in Virginia, e di una università privata il cui nome può piacere a Berlusconi: «Liberty University», è divenuto famoso come leader della Moral Majority che aiutò Reagan a conquistare la Casa Bianca e per una dichiarazione mai veramente smentita che attribuì l'11 settembre a una punizione divina per l'America corrotta, abortista, favorevole ai matrimoni gay, sostenitrice della separazione fra lo Stato e le Chiese).
Di origine inglese, Hitchens - che sul tema «Uomini e dei» dialogherà oggi con Peter Florence nel Cortile della cavallerizza a Mantova - risiede da anni a Washington e ha ottenuto di recente la cittadinanza americana. Dopo gli studi a Oxford (filosofia, scienze politiche, economia: un'ottima educazione ad ampio raggio), ha lavorato nei media a Londra, poi è sbarcato in America e per vent'anni ha tenuto una rubrica, intitolata Minority Report, molto ammirata per lo stile caustico e aggressivo e per le idee radicali di sinistra (ispirate alla sinistra inglese più intransigente e a un misto di marxismo, trotzkismo e tradizione libertaria) sul settimanale «The Nation». All'indomani dell'11 settembre, però, Hitchens ha rovesciato le sue posizioni, ha dichiarato che quell'avvenimento lo aveva sconvolto e ha rotto clamorosamente con «The Nation», scrivendo un'ultima puntata della sua rubrica nella quale dichiarava la guerra di Bush «giusta» e «necessaria», cui è seguito uno scambio di lettere aperte con Katha Pollitt, direttrice della rivista.
Le sue frequentazioni sono cambiate, ha perso vecchi amici e ne ha acquistati di nuovi (fra cui il falchissimo Wolfowitz, che egli ha difeso con forza quando è scoppiata la crisi della Banca mondiale), e però ha continuato a dichiarare che pur non essendo più di sinistra, continua ad applicare alla storia e alla politica le categorie proposte da Marx. Ha spesso detto di non avere niente in comune con i neo-con e ha espresso molte riserve su Bush (definito «anormalmente non-intelligente»), pur appoggiandone la rielezione.
Applausi e fischi
Ora scrive su «Slate» e sul «Daily Mirror», ha una rubrica su «Vanity Fair» e sull'«Atlantic Monthly», pubblica libri, compare spesso in televisione, esibisce grandi capacità retoriche in furiosi dibattiti, a cui si presenta lucido e pronto alla battuta (nonostante i bicchieri di whisky bevuti in preparazione), accolto da applausi e fischi. Se si cercano paragoni in casa nostra, vien da pensare, per le capacità dialettiche al servizio delle cause più diverse, a Marco Pannella, per l'aggressività mediatica e i giri di valzer a Vittorio Sgarbi, per il passaggio dall'ideologia socialista a quella guerrafondaia, gli atteggiamenti macho e l'isolamento progressivo nella posizione pro-Bush a Giuliano Ferrara.
A leggere oggi l'ultimo articolo di Hitchens sulla «Nation» e lo scambio di lettere con la Pollitt qualsiasi persona di buon senso, anche senza far ricorso alla saggezza del poi, si accorge di quanto sbagliati fossero quei ragionamenti. Al timore (vera profezia) espresso dalla Pollitt che un intervento militare in Iraq avrebbe provocato molte vittime da entrambe le parti, infiammato ulteriormente l'Islam e sottoposto l'intera regione a un bagno di sangue, corrispondeva, da parte di Hitchens, una serie di false certezze: «Non c'è il minimo dubbio che egli (Saddam Hussein) si è procurato alcuni degli strumenti di genocidio e spera di ottenerne altri (...). Il fronte teocratico e assolutistico di questa guerra spera di vincerla esportandola qui da noi, il che significa che non possiamo sperare di restar fuori dalla guerra...». A cui seguiva un richiamo morale alla assoluta necessità di prendere posizione in favore dell'intervento.
A mano a mano che la spedizione in Iraq si è dimostrata quel disastro che tutti conosciamo, la posizione di Hitchens si è fatta più dura e ostinata, con critiche sempre più esplicite alla mollezza di Bush e alle incertezze della condotta americana. Nell'anniversario dell'11 settembre 2006 ha scritto sul «Wall Street Journal»: «Noi - e i nostri alleati - dobbiamo diventare più spietati e al tempo stesso più esperti. Un vantaggio troppo trascurato del terribile scontro in corso in Iraq e in Afganistan è che esso sta addestrando decine di migliaia dei nostri giovani ufficiali e soldati a combattere nel peggior terreno immaginabile, e gradualmente imparare come confrontare, infiltrare, 'piegare', isolare e uccidere il peggior nemico immaginabile. Sono capacità di cui avremo bisogno in futuro».
Che si può dire di un personaggio come Hitchens? Ci hanno provato in tanti a dare un giudizio su di lui, dagli amici più stretti, come Martin Amis, compagno di studi a Oxford, a Salman Rushdie, ai compagni prima del campo socialista poi di quello neo-con. Ian Parker ha tracciato un penetrante profilo sul «New Yorker» (16 ottobre 2006). Non è facile giudicare uno che ha sostenuto cause giuste e impopolari, come la riunificazione dell'Irlanda e la rivendicazione dei diritti palestinesi (in un libro scritto insieme a Said), e cause ingiuste e altrettanto impopolari. Tutti d'accordo nel sostenere che è brillante, molto colto (anche, straordinariamente, in cose letterarie, come dimostrano i suoi scritti in materia, dal saggio su Proust nell'«Atlantic Monthly» alla recensione dell'ultimo Harry Potter sul «New York Times»), che è un dialettico tagliente e un creatore di battute fulminanti. Quasi tutti d'accordo nel sostenere che ha una notevole dose di bullismo e un'aggressività probabilmente derivata da profonde basi psicologiche. Lo ha sostenuto, parlando con Parker, la seconda moglie, l'intellettuale americana di famiglia ebraica Carol Blue, secondo la quale la voglia che ha Hitchens di mostrare i muscoli viene dall'essere cresciuto in una famiglia piccolo borghese, con un padre militare, protagonista delle battaglie navali nella seconda guerra mondiale, e una madre di origine ebraica che abbandonò marito e famiglia e morì suicida con il nuovo compagno in un albergo di Atene). Lui stesso ha dichiarato, con ammirevole sincerità: «Io sono estraneo a qualsiasi forma di modestia, compresa la falsa modestia». Certo l'elenco delle persone che ha attaccato violentemente è lunghissimo, e va da madre Teresa di Calcutta a Ronald Reagan a Michael Moore, a tanti altri. I termini usati sono stati spesso molto offensivi e certo sopra le righe: per esempio Hitchens ha definito Moore a scumbag (persona spregevole - etimologicamente il termine si riferisce al preservativo, un raccoglitore di sperma) e a sua volta è stato così definito dal deputato inglese George Galloway in un dibattito visibile su «YouTube».
Va aggiunto che, pur essendo stato ammesso, grazie all'amicizia con Wolfovitz, in qualche stanza dei bottoni, pur avendo come giornalista visitato spesso i paesi del Medio oriente e avviato rapporti di amicizia con i dirigenti kurdi e con Chalabi in Iraq, non ha mai avuto un posto di vero rilievo nei circoli importanti della politica: Minority report si chiamava la sua rubrica su «The Nation», e minoranza Hitchens è rimasto nella scena culturale del paese, al pari di gran parte della classe intellettuale.
Forse le cose possono cambiare dopo la pubblicazione del libro su Dio, dato il clamore mediatico che ha suscitato. Si tratta di un libro serio, frutto di un ottimo lavoro di scavo storico (all'attività di studioso di Hitchens, parallela a quella di giornalista, appartengono anche altri suoi lavori, come la biografia di Thomas Jefferson o il libro su Orwell). Il titolo (dato dall'editore) allude alla frase rituale dei fedeli musulmani: «Allah è grande». La storia della religione di Maometto, i suoi sacri testi e le sue credenze e riti sono sottoposti a una critica demolitrice. Ma neanche le tradizioni religiose ebraiche e cristiane ricevono un trattamento migliore. Per la professione di ateismo militante, materialismo e criticismo radicale Hitchens sente di appartenere a una nobile tradizione, da Democrito a Epicuro e Lucrezio agli illuministi, da Hume a Darwin a Bertrand Russell. Con abilità inserisce fra i pensatori che l'hanno ispirato Socrate, Kant, Marx e Freud. Chi legge con mente aperta e onestà intellettuale questo libro deve riconoscere che moltissimi dei suoi argomenti sono corretti e coincidono con i risultati della ricerca scientifica sulla storia materiale del mondo e con quelli della ricerca storica e antropologica sulle vicende delle grandi religioni monoteiste e dei loro rapporti con la vita sociale e politica delle nazioni antiche e moderne, così come sulla ricerca filologica che ha ricostruito la storia dei libri cosiddetti «sacri». A parte alcune deformazioni (tutto il discorso sulla circoncisione sfiora l'assurdo, le battute sulla massoneria mostrano scarsa informazione storica) il libro è argomentato e convincente, soprattutto nel dimostrare che i disastri provocati dalla fede religiosa non sono dovuti a perdonabili errori di singoli ma sono la conseguenza di qualità intrinseche di ogni istituzione e di ogni mentalità religiosa e nel sostenere con forza che l'azione morale dell'uomo non ha bisogno del sostegno della fede religiosa per operare verso il bene comune.
Toni nerboruti
Proprio perché molti dei suoi argomenti sono fondati e convincenti, dispiace che più volte nel corso di questo libro, e dei dibattiti che l'hanno seguito, Hitchens si sia lasciato trascinare dall'uso della sferza verbale che gli viene dalla lunga attività di polemista politico e giornalistico. Si legge così che Falwell e i creazionisti sono yokels (idioti di campagna), la teologia di Pascal «aveva qualcosa di sordido», il re David dei Salmi era «un bandito senza scrupoli», le ragioni date da C. S. Lewis per il suo sostegno al cristianesimo «erano talmente patetiche da sfidare ogni descrizione», Calvino era «un sadico, un omicida» (con riferimento alla condanna al rogo di Serveto), la religione islamica è «una serie evidente di plagi messi insieme alla meglio» e il Corano è stato dettato da un analfabeta, la saggezza buddista è così banale da prestarsi facilmente alla parodia, la festa ebraica di Hanukkah è «una celebrazione noiosa e insipida» (dichiarazione curiosa per uno che aveva una madre ebrea e ha sposato la seconda moglie in una sinagoga).
Il pericolo è che, finendo sul palcoscenico della cultura televisiva, questi toni nerboruti servano a trasformarlo in una star ammirata e temuta anche dagli avversari, a spese della sua integrità intellettuale e della qualità dei suoi argomenti. Inoltre la tenacia e la supponenza con cui appoggia tesi insostenibili in campo politico può danneggiare la persuasività delle tesi più che giuste sostenute nel campo della filosofia, della scienza e della religione. Purtroppo anche Hitchens non è sempre grande.

il Messaggero 9.9.07
Severino: «I cattolici si rassegnino, la fine della tradizione è inevitabile»
di Carlo Mercuri


Professore Emanuele Severino, il Papa dice che la scienza senza Dio è una minaccia per l’umanità. Quali considerazioni le suggerisce l’affermazione di Benedetto XVI?
«La scienza senza Dio: sono decenni che rifletto su questo problema. Direi che si tratta di un processo inevitabile. Un processo inevitabile che conduce a una scienza-sapere filosofico che porta a dire addio al passato, a dire addio a Dio. Il Papa dice che la scienza senza Dio è una minaccia mortale? E’ vero, ma la scienza illuminata dalla filosofia è un prodotto inevitabile, ripeto. E’ tempo che il mondo cattolico faccia i conti con questa inevitabilità».
Quali sono questi conti, professore?
«E’ un discorso complesso. E’ come spiegare la formula della relatività in un articolo di giornale. Non si può».
Ci provi.
«Occorre fare i conti con la potenza del discorso che ha condotto alla scienza senza Dio. E’ la potenza stessa del pensiero contemporaneo che porta a concludere che Dio è morto. Possiamo definire tutto ciò come relativismo? No, è qualcosa di più sostanziale. Invito tutti i lettori di buona volontà ad andare a leggere i miei libri su quest’argomento».
Lei vede tuttavia pericoli in una “scienza senza Dio”?
«Dio è morto e questo sentire si ripercuote nelle masse. La gente crede sempre di meno e ciò genera certamente disordine sociale. Le conseguenze potrebbero essere tragiche. Si è perduto l’aggancio all’attrezzo della tradizione e bisogna ancora vedere come ci si ancorerà al nuovo».
Professore, il Papa ha anche affermato che l’Occidente è in crisi perché «rassegnato a considerare l’uomo incapace di verità». Lei che ne pensa?
«E’ una questione connessa alla precedente. Non è l’Europa che ha rinunciato alla verità. Tante teste pensanti dell’Occidente hanno parlato dell’impossibilità della verità».