martedì 11 settembre 2007

l’Unità 11.9.07
Bertinotti: «Grillo riempie un vuoto»
Il leader di Rc si interroga. Il comico rilancia: questo è il Rinascimento fatto dagli italiani
di Maria Zegarelli


GRILLO SUPERSTAR Il comico genovese ieri è tornato alla carica dal suo blog. Dopo il gigantesco «vaffanculo» che sabato, a parte il ministro Antonio Di Pietro, non ha risparmiato alcuno, Beppe Grillo continua la sua crociata contro la politica, i politici e i mezzi
d’informazione. Il vento dell’antipolitica soffia forte e costante sul Paese. Il presidente della Camera Fausto Bertinotti osserva: «Una vecchia regola della politica è che i vuoti si riempiono. Il problema della politica è di riempire essa medesima i vuoti. Quando non lo fa non è detto che i materiali con cui si riempiono siano eccellenti». Questa è un po’ la questione “del dito e della luna”. Grillo è il «dito, la luna è altrove». Nella crisi sociale del «Paese e dell’Europa e dell’incapacità della politica a dare risposte convincenti a questa crisi». Argomentazioni, che non convincono Di Pietro. Intanto Grillo lancia il nuovo «Rinascimento fatto dagli italiani». Nulla è mutato nel paese, scrive sul suo blog, dall’«otto settembre del 1943» quando i Savoia scappavano a «Pescara. Dietro di loro lasciavano un’Italia allo sbando. Oggi non è cambiato nulla». La politica, oggi è «una parola che non vuol dire più un c...o». Risponde alle critiche su Marco Biagi: «Riporto una testimonianza di Marco Travaglio dall’Unità di oggi. Spiega che non è stata offesa la memoria di nessuno a Bologna. Ci sono, se servono, altri 150.000 testimoni presenti».
Un pensiero anche per l’ex presidente della Camera (il quale commenta: «Solo una classe politica senza ideali e priva di serie motivazioni può scondinzolare dietro Beppe Grillo»). «Casini in Caltagirone si è indignato, lui, luiiiiiiiiii! Indignato. A proposito Mele è ancora deputato? E nell’Udc c’è qualche indagato, condannato, prescritto? E Biagi aveva la scorta?». I politici e gli intellettuali. «Gli intellettuali con il cuore a sinistra e il portafoglio a destra hanno evocato il qualunquismo, il populismo, la demagogia - scrive - uno con la barba ha anche citato, lui può farlo, Aristofane per spiegare il V-Day». Dalla sua parte comici e artisti. Gino Vignali (uno dei due satirici di “Gino e Michele”) teme che,«come succede purtroppo spesso in Italia, che molli il colpo, come è successo anche per Moretti». Maurizio Crozza è in linea con il collega genovese, mentre per Sabina Guzzanti «il dato preoccupante è che la gente si fidi infinitamente più di loro (dei comici) che dei propri rappresentanti ufficiali in Parlamento». Claudio Baglioni commenta: «In un esercito c’è chi suona la carica» e va alla guerra, ma poi «c’è chi la sa fare, chi ha la continuità di svolgere una battaglia giorno dopo giorno». Critico Pancho Pardi, uno degli animatori dei girotondi: «È infelice la battuta di Beppe Grillo su Nanni Moretti». Nell’Unione suona il campanello d’allarme. Rosy Bindi: «Diamo risposte alla protesta o emergeranno personaggi pericolosi». Avverte: «Tagliamo i costi e privilegi o la democrazia è in pericolo». Giulio Sant’Agata è pronto «a firmare la proposta del limite di due candidature per i parlamentari», mentre per Giovanni Russo Spena, capogruppo Rc al Senato, «molti degli obiettivi del V-Day sono del tutto condivisibili e condivisi». Marco Rizzo, Ci, chiama la sinistra «a riscoprire i valori e rispondere così all’antipolitica».

l’Unità 11.9.07
Si apre la settima edizione del Festival di Modena, Carpi e Sassuolo con una serie di domande sulla conoscenza ma anche con tante iniziative e performance
Tra mostre, alchimia e giochi, il Sapere scende in piazza
di Roberto Serio


La settima edizione del Festival Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo avrà per tema «Il Sapere».. È meglio sapere o ignorare? Si può essere saggi senza verità? Il premio della conoscenza è la libertà o il dolore? Che ruolo può avere la filosofia in un’epoca che fatica a insegnare la storia e a conservare la memoria? Sono alcune delle domande che si porranno tanti maestri del pensiero in piazze, chiese e cortili. Tra loro: gli americani Rifkin e Hillman, il ghanese Appiah, il polacco Bauman, lo spagnolo Savater, i francesi Marc Augé e Francois Jullien, gli italiani Umberto Galimberti, Gianfranco Ravasi, Emanuele Severino, Enzo Bianchi, Pietro Barcellona, Carlo Sini, Sergio Givone, Silvia Vegetti Finzi e Remo Bodei. Le lezioni magistrali dei massimi pensatori contemporanei, i dialoghi in luoghi ameni o estemporanei, le performance artistiche, i momenti ludico educativi per bambini, tutte le forme espressive che contribuiscono a realizzare quello straordinario mix culturale che è la kermesse modenese, ruoteranno attorno al rapporto tra apprendimento, verità e ragione, tra saperi teorici e saperi pratici, e ai problemi della trasmissione e della proprietà del sapere.
«Mai come quest’anno il Festival è stato forte dal punto di vista internazionale - ha dichiarato Roberto Franchini, presidente del comitato promotore -. Avevamo avuto il mandato di far vivere i luoghi della città, pensiamo di averlo realizzato».
Un respiro, dunque, decisamente internazionale, per una manifestazione, che quest’anno è stata «esportata» anche in Francia e Repubblica Ceca con un contributo dell’Unione europea.
Il Festival propone, tra le sue oltre duecento iniziative in 39 luoghi diversi, da venerdì 14 a domenica 16 settembre, mostre e installazioni dell’artista americano Lewis Baltz, dell’italiano Mimmo Paladino e dei francesi Ben Vautier, Anne e Patrick Poirier, e un percorso sensoriale a effetti speciali in una «stanza dell’alchimista» allestita ai Musei civici. Uno spettacolo di Finazzer Flory proporrà le riflessioni di Rainer Maria Rilke sul rapporto tra sapere poetico e mondo visibile. Ci saranno poi Davide Riondino nei panni del capitano Nemo di Verne (con video e musiche di Fabrizio Festa) e Lucia Poli in una Pizia ispirata a Dürrenmatt. Tra le novità: le grandi tende nelle piazze per migliaia di persone - serviranno in caso di pioggia e per gli spettacoli notturni del Tiratardi (la notte bianca filosofica) - e la proiezione di attività del Festival all’ospedale nuovo di Baggiovara e nel Teatro del carcere.

Repubblica 11.9.07
La lunga storia dei peccati
Monsignor Ravasi e i vizi capitali
di Umberto Galimberti


Bernard De Mandeville si diceva convinto che si poteva essere molto più viziosi
Il nostro tempo non li considera più colpe: del goloso si dice che ha un buon rapporto con il cibo, del lussurioso che ha un debole per le donne, ma già Aristotele ne parlava
Il problema è come conciliare cultura cristiana e benessere occidentale

Monsignor Gianfranco Ravasi (Monsignore ancora per poco, perché è stata annunciata la sua nomina ad Arcivescovo nonché Presidente del Pontificio consiglio per la cultura e il dialogo interreligioso, carica che equivale a Ministro della cultura, in sostituzione del dimissionario Card. Paul Poupard, cfr. l´intervista qui a fianco, ndr) prima di congedarsi dalla Biblioteca Ambrosiana di Milano, che diresse con straordinaria intelligenza e cura, recuperandola dalla sua fatiscenza, ha scritto un libro Le porte del peccato. I sette vizi capitali (Mondadori, pagg. 244, euro 17,50) che si distingue dagli altri, apparsi in questi anni sullo stesso argomento, perché attinge non solo alla tradizione teologica delle Scritture, di cui è uno dei massimi competenti, ma anche dai soggetti letterari e dai personaggi più emblematici della letteratura europea, passando attraverso le rappresentazioni pittoriche, gli assunti della psicoanalisi e le rappresentazioni cinematografiche, per cui, anche chi non crede che i vizi siano peccati, leggendo il libro ha modo di attraversare i luoghi eminenti della cultura europea e riscoprire spaccati interessanti e curiosi di tutte le possibili tipologie umane.
Perché ancora un libro sui vizi capitali? Perché il nostro tempo li ha derubricati dalla categoria del peccato, per cui del goloso si dice che "ha un buon rapporto col cibo", del lussurioso che "ha un debole per le donne", del superbo che "è orgoglioso e ha una buona consapevolezza di sé", dell´iroso che "ha carattere", del pigro "che non si lascia travolgere dal ritmo stressante della vita moderna", dell´invidioso che "ha una buona capacità di emulazione" e infine dell´avaro che "è oculato e parsimonioso". E´ vero, come diceva Karl Kraus che: «Il vizio e la virtù sono parenti, come il carbone e il diamante», ma Gianfranco Ravasi vuole tenerli rigorosamente separati, per non annullare la libertà dell´uomo e la sua capacità di scelta consapevole, a partire dalla quale non è la stessa cosa orientarsi verso il vizio o verso la virtù.
I vizi capitali fanno la loro prima comparsa in Aristotele che li qualifica: «Abiti del male». Essi, al pari della virtù, derivano dalla ripetizione di azioni che, iterate, formano nel soggetto un "abito" o, come dice Aristotele nell´Etica a Nicomaco, una "seconda natura", che inclina l´individuo in una certa direzione. Di qui l´importanza dell´educazione, il cui scopo è di allenare il giovane all´acquisizione di abiti buoni.
Nel medioevo questi vizi non sono più letti come abiti contratti da cattive abitudini, ma come un´opposizione della volontà dell´uomo alla volontà di Dio. Ce ne parla Tommaso d´Aquino nella Summa Theologica, dove questi vizi sono elencati nella successione che noi oggi conosciamo.
Ma il vero riscatto dei vizi e la loro derubricazione dalla categoria del "peccato", su cui invece insiste il libro di Ravasi, avviene nell´età dei lumi, dove la differenza tra vizi e virtù perde rilevanza perché, al pari delle virtù, anche i vizi concorrono allo sviluppo dell´industria, del commercio e del benessere sociale. Di questo è persuaso ad esempio Bernard De Mandeville che, nel paragrafo conclusivo del suo trattato: Modesta difesa delle pubbliche case di piacere (1724), scrive: «A dir breve, una cosa è certa, che al momento in cui scrivo, non siamo abbastanza viziosi quanto lo si potrebbe essere, e io spero d´aver mostrato a sufficienza come si possa far di meglio».
Questo elogio del vizio non nasce da una privata concupiscenza di Bernard De Mandeville, ma da un ragionamento che ha dalla sua una certa plausibilità. Nel 1705 Mandeville aveva pubblicato La favola delle api, un breve poema nel quale si narra come un alveare fosse prospero e vizioso e come, in seguito a una riforma dei costumi, perdette la prosperità insieme al vizio. Il paradosso su cui il libro è imperniato è espresso nel sottotitolo Vizi privati, pubblici benefici. Nella conclusione del trattato Mandeville scrive che: «Né le qualità socievoli, né le affezioni benevole che sono naturali all´uomo, né le virtù reali che egli è capace di acquistare con la ragione e con l´abnegazione, sono il fondamento della società; ma ciò che noi chiamiamo "male" in questo mondo, male morale o naturale, è il gran principio che ci fa creature socievoli, la solida base, la vita e il sostegno di tutti i commerci e gli impieghi senza eccezione».
Per Mandeville, dunque, se il male cessasse, la società si avvierebbe al suo dissolvimento. Il motivo che più frequentemente ricorre a sostegno di questa tesi è che la tendenza al lusso aumenti i consumi e quindi porta all´incremento dei traffici, delle industrie e di tutte le attività umane. Per "lusso" Mandeville intende tutto ciò che non è necessario all´esistenza di un "nudo selvaggio".
E poiché la virtù consiste essenzialmente nella rinuncia al lusso, essa è direttamente contraria al benessere e allo sviluppo della società civile.
Siamo nel 1700, nel secolo in cui l´economia politica con Adam Smith diventa scienza, e in cui i filosofi morali pongono le basi delle buone e delle cattive condotte, a cui attingeranno a piene mani, senza mai riconoscerlo, la psichiatria e la psicoanalisi del secolo successivo. Fu così che, dopo la lezione illuminista, i vizi capitali, anche se non in modo sistematico, compaiono nella Metafisica dei costumi di Kant e soprattutto nella sua Antropologia pragmatica dove, accanto alla segnalazione della deviazione morale, si fa strada una lettura nuova che vede nel vizio un´espressione della tipologia umana o, come dice Kant, di una "caratteriologia" (l´avaro, il lussurioso, il superbo, eccetera).
Siccome l´Antropologia pragmatica di Kant è diventato a sua volta il testo base per la costruzione dei grandi trattati di psichiatria dell´Ottocento, da Griesinger a Wernicke, da Kraepelin a Freud, i vizi, da espressione di una "tipologia" umana, diventano manifestazione della sua "psicopatologia". E così fuoriescono dal mondo "morale" per fare il loro ingresso in quello "patologico". Non più vizi, ma malattie: le malattie dello spirito.
Quando la condotta umana diventa di competenza della scienza medica e della visione deterministica che la caratterizza, l´uomo perde la sua libertà che invece la morale gli accorda. E perciò Ravasi scrive il suo libro con l´esplicita intenzione di riconsegnare i vizi alla morale che, a differenza della patologia, prevede anche un riscatto e una possibile liberazione dalla loro tirannide.
Ma a questo punto si affaccia un´obiezione che non può essere evitata. Se la virtù, come il cristianesimo ce l´ha insegnata, è essenzialmente moderazione quando non mortificazione del desiderio e del bisogno, come è praticabile oggi in una società organizzata essenzialmente, come la pubblicità quotidianamente ci mostra, per soddisfare tutti i bisogni e tutti i desideri?
Come conciliare la cultura cristiana che tutti individuano come forma dell´Occidente con il livello di ricchezza e abbondanza raggiunto dalle società occidentali?
Come conciliare l´etica della mortificazione, che il cristianesimo ci ha insegnato in tutta la sua storia caratterizzata da un´economia di sussistenza, con l´opulenza offertaci dalla produzione e dal consumo di beni, dove la soddisfazione dei bisogni (e non la loro mortificazione) è un fattore economico, e dove la soddisfazione dei vizi è il secondo fattore dopo che i bisogni sono stati soddisfatti? Come si fa a essere cristiani e quindi "mortificati" in un´epoca in cui la società è aggregata dall´economia che per la sua sussistenza non chiede mortificazione, ma consumo e soddisfazione? Varrebbe la pena di far esplodere questa contraddizione che di solito non appare perché un piccolo trucco la nasconde. Dice il trucco: il cristianesimo è una religione, l´economia è una forma di scambio con cui si regola la produzione e la distribuzione dei beni. Certo. Ma potremmo anche dire: il cristianesimo è una morale (della mortificazione) e l´economia è un´altra morale (della soddisfazione).
Le due morali sono incompatibili, per cui parlare di un´economia cristiana ha lo stesso significato e spessore logico di un circolo quadrato, con buona pace di tutti i benpensanti che ritengono di poter fare quadrare il cerchio. Nel momento infatti in cui la società è passata dallo stato di bisogno allo stato di soddisfazione del bisogno, la morale del cristianesimo ha finito la sua storia, e quindi o emigra nel terzo o nel quarto mondo dove vive la mortificazione del bisogno, o sparisce. E già se ne vedono i segni, facilmente leggibili se si evita quell´altro trucco che, contrapponendo la civiltà cristiana alla civiltà islamica, nasconde la vera contrapposizione che è tra ricchezza dell´Occidente e povertà del mondo, tra i viziosi per forza e i virtuosi per necessità.
Qui il cristianesimo, se vuole essere credibile, deve incominciare a far nuove riflessioni a partire dalla povertà del mondo, che è il disastro etico che fa impallidire tutti i problemi morali su cui la Chiesa tanto insiste e si accanisce.

Liberazione 11.9.07
G8, il Blu notte di Lucarelli scatena la Cdl
Unione verso l'inchiesta monocamerale
di Angela Mauro


Giovedì l'ufficio di presidenza della prima commissione di Montecitorio potrebbe incardinare il testo Bressa

A sei anni di distanza, quando ancora brucia il ricordo e i fatti sono lontani dall'essere chiari, e la cronaca fornisce indizi sempre più preoccupanti (come la recente pubblicazione delle conversazioni telefoniche sulla linea del 113 nella notte della mattanza alla Diaz), irrompe sulla tv pubblica una puntata del "Blu notte" di Carlo Lucarelli sul G8 di Genova nel 2001. L'omicidio di Carlo Giuliani, i pestaggi e le cariche delle forze dell'ordine, gli oscuri avvenimenti in "salsa cilena" nella caserma di Bolzaneto, la "macelleria" Diaz vengono rientrano dunque a pieno titolo nella serie dei "Misteri italiani" di RaiTre. E' sufficiente per far partire il fuoco di fila della Casa delle Libertà contro la tv di stato che fa «informazione di regime» (Gasparri di An). Salerno, deputato che ha seguito Storace in fuga da Alleanza Nazionale nel movimento "La Destra", annuncia addirittura un esposto contro RaiTre. Forza Italia grida alla«ennesima operazione di fantapolitica», alla «deriva comunista», ad una Rai che «serve solo la sinistra radicale». D'Alia dell'Udc ne approfitta per annunciare il «voto contrario» del suo partito alla istituzione di una commissione d'inchiesta parlamentare sui fatti del G8, all'esame della commissione Affari Costituzionali della Camera.
C'è da pensare che forse il documentario di Lucarelli, andato in onda domenica sera, sia piombato nella scena politica in una giornata poco adatta, che vede la Cdl nera di rabbia per la rimozione del "fido" Angelo Maria Petroni dal consiglio di amministrazione della Rai. Ma di sicuro c'è della sincerità nella difesa accorata della destra per le forze dell'ordine in servizio a Genova sei anni fa. Accorata e anche un po' imbarazzante, visto che nel documentario messo sotto accusa sono proprio esponenti dei sindacati di polizia a chiedere l'istituzione di una commissione d'inchiesta sul G8.
Si può fare a meno delle polemiche di destra, dunque, e andare a dare uno sguardo al clima di maggioranza in Commissione Affari Costituzionali, che giovedì prossimo riunisce il proprio ufficio di presidenza per la probabile calendarizzazione del testo di Claudio Bressa (Ulivo), istitutivo della commissione di inchiesta sul G8 del 2001. Sembrerebbe che gli attacchi dell'opposizione non abbiano contaminato quelle forze dell'Unione che di solito si dimostrano "sensibili" a certi modi di fare di destra. L'impressione si rafforza se addirittura dall'Italia dei Valori fanno sapere di non aver ancora deciso di votare no sul testo Bressa, «anche se è noto che non siamo entusiasti di una commissione d'inchiesta che rischia di sovrapporsi al lavoro della magistratura», dice Costantin, rappresentante dell'Idv nella prima commissione di Montecitorio. Ferma restando l'incognita Udeur e le riserve di qualche diessino, si sarebbe in dirittura d'arrivo per l'istituzione di una commissione monocamerale (non bicamerale, dopo l'accordo raggiunto prima dell'estate, per evitare l'ostacolo rappresentato dalla maggioranza risicata al Senato), composta da trenta deputati, della durata di dieci mesi (più due per la relazione finale al Parlamento) e con il potere di lavorare senza che le si possa opporre il segreto di Stato. E' fiduciosa la deputata del Prc in commissione Affari Costituzionali Graziella Mascia: «Il testo Bressa è un buon punto di mediazione tra le varie proposte in campo». «Se venisse approvato sarei soddisfatto», dice Marco Boato, componente della prima commissione, che, alla luce della sua esperienza nella commissione d'inchiesta sulla tragedia del Cermis, è ottimista anche sui tempi di durata previsti dal testo Bressa: «Se c'è l'impegno di tutti, ce la possiamo fare in un anno». Maurizio Turco per la Rosa nel Pugno annuncia la presentazione di un emendamento «affinchè la commissione sul G8 indaghi anche sul 17 marzo 2001, giorno delle manifestazioni contro il Global Forum a Napoli: ci sono analogie, vogliamo sapere perchè a Napoli e poi a Genova alcuni deputati erano presenti nelle caserme di polizia. Si sono inseriti nella catena di comando?».
Napoli, 17 marzo 2001, governo di centrosinistra, mattanza anche in quel caso, in piazza e alla caserma Raniero. Difficile che l'istituenda commissione arrivi a indagare anche lì e in ogni caso «è meglio fare gioco di squadra - suggerisce Boato - e portare a casa il risultato sul G8». Che sembra a portata di mano, ma mai sottovalutare i "venti contrari" che spirano in maggioranza.

Liberazione 11.9.07
«Una crescita infinita non è possibile in un mondo finito»
Tortorella: «La difesa dell'ambiente deve entrare nella cultura di sinistra»
di Carla Ravaioli


Domando a te, comunista storico: perché storicamente l'attenzione dei comunisti per l'ambiente è stata così povera, anzi inesistente?
Lo è stata fino a Berlinguer…

Be', anche dopo non mi pare le cose siano gran che cambiate…
Ma dopo Berlinguer i comunisti storici sono finiti. Per quanto riguarda il vecchio partito comunista il perché è chiaro. Il vecchio Pci era figlio dell'idea sviluppista, dell'idea industrialista, del fordismo… l'obiettivo era orientare il processo di accumulazione in modo da distribuire più equamente la ricchezza, ma senza un sostanziale cambiamento del modello. Il grande programma di Togliatti del '56 era contro l'arretratezza dell'Italia, per lo sviluppo. Nel ‘66, all'XI congresso del Pci, per la prima volta viene avanzata l'idea che è il modello di sviluppo che non funziona. Ad avanzarla fu Ingrao che venne messo in minoranza… Fu poi Berlinguer a riprendere l'idea, nel '77, con la filosofia dell'austerità, che era critica del consumismo e proposta di uno sviluppo della qualità non della quantità. Ma fu oggetto di attacchi furibondi. Gli stessi dirigenti intermedi puntavano all'immediato miglioramento di condizione delle masse, confrontandosi con il senso comune, che è fatto anche di arretratezze.

Eppure si avvertiva già il condizionamento legato alla cultura del consumismo, a quella "colonizzazione dei cervelli" che è il grande motore del mercato….
Certo, certo. Ma era una cultura introiettata da buona parte degli stessi dirigenti. La gente voleva la macchina, la casa, le vacanze. Allora ci si stava preparando a quello che fu poi definito "governo delle astensioni", e parlare di austerità non sembrava la cosa più opportuna.

Eppure erano gli anni in cui l'ambientalismo andava mettendo radici, anche in Italia, con Peccei, il Club di Roma, con idee che somigliavano molto a quelle di Berlinguer
Certo. Berlinguer diceva: il Club di Roma ha ragione. E c'era un certo numero di noi che condivideva queste posizioni, io ne ero parte. Ma c'erano anche influenti membri del partito che erano invece ostili, erano favorevoli al nucleare, e in genere allo sviluppo. Berlinguer si reggeva sul suo prestigio personale, ma nella concretezza della direzione del partito era in netta minoranza. Essere in qualche modo al governo significava investirsi di una saggia amministrazione delle cose.

All'interno del sistema dato…
Eh sì. Eppoi, problemi come l'ambiente erano fuori dalla nostra portata. Un paese da solo - si diceva - non può far niente.

Che è anche vero. Però, se il Pci avesse riflettuto che chi pagava di più le conseguenze del guasto ambientale erano i poveri, i contadini che trattavano pesticidi, gli operai che lavoravano su processi tossici, gli alluvionati dal Sud del mondo
Sì, ma dire queste cose comportava una rivoluzione culturale. E questo avrebbe comportato anche un mutamento degli assetti interni al partito. Eppoi c'erano altre cose a cui pensare, lavoro, pensioni. Le stesse posizioni del Club di Roma parevano astratte, da intellettuali. E non solo nel Pci. Per molte persone di tutto rispetto erano farfalle sotto l'arco di Tito. Si son dovuti sciogliere i poli perché si capisse qualcosa. E ancora oggi conta solo la miglior gestione dell'esistente. Insomma, io ho concepito l'idea di fondare l'Ars, un'associazione politico-culturale, nel tentativo di ridiscutere i principi fondamentali. Per esempio con il Documento di Orvieto si cerca di cambiare i fondamenti culturali, di capire quale dovrebbe essere la nostra cultura. Secondo me anche l'idea di aderire ai movimenti è solo in parte giusta, perché colgono solo frammenti di realtà. Si dice no alla Tav, ma che passi pure in Svizzera. L'inceneritore, si metta da un'altra parte. Così la spazzatura.

Un momento. I movimenti non sono solo questo. Il problema locale spesso induce una consapevolezza più ampia. Eppoi bisogna distinguere, ci sono movimenti che sanno di cosa parlano quando dicono "ambiente". Prendi "La Decrescita": va al cuore del problema, I'impossibilità di una crescita illimitata in un pianeta limitato.
Per questo basta il buon senso. Una crescita infinita non è possibile in un mondo finito.

Eh no... Non pare proprio così ovvio, se tutti i governanti del mondo non fanno che invocare crescita. E anche nell'Ars, a lungo sono stata sola a parlare di questa clamorosa contraddizione, nel silenzio generale, o addirittura tra sorrisi di compatimento…
Noi dell'Ars fin dall'inizio abbiamo tentato di parlare di nuova soggettività della sinistra: proprio perché la sinistra oggi non ha un progetto culturale, non sa che mondo vuole. L'idea di ripensare la cultura della sinistra, considerando problema centrale il rapporto tra quantità e qualità, è ancora adesso qualcosa di molto difficile.

Su questo anche nell'Ars c'è stata un'evoluzione positiva. Ma la vera svolta a mio parere è stato il Documento di Orvieto, quello poi fatto proprio anche dalle associazioni "Uniti a sinistra" e "Rossoverde". Lì vien fuori chiaramente la critica della quantità come elemento di definizione del capitalismo. E però non mi pare che questa consapevolezza venga assunta in tutta la sua portata. La tua stessa relazione, pregevolissima per tanti versi, indicava come temi centrali: pace, lavoro, libertà. Cose sacrosante, per carità. Ma il fatto è che una corretta valutazione del problema ambiente rimette in discussione tutto. Il lavoro, ad esempio, in chiave ecologica andrebbe ripensato radicalmente, e fortemente ridotto. Oggi un'enorme quantità di lavoro serve a produrre cose destinate a finire in discarica in poche settimane, che inquinano soltanto, oltre ad alzare il Pil naturalmente. Ma nessuno pare se ne preoccupi. Come nessuno sembra considerare che il mercato del lavoro è globale, che quel che succede a Napoli può essere determinato da quel che succede a Hong Kong. Le sinistre considerano queste cose?
No, per grandissima parte no. Devono rincorrere il consenso, e l'idea di ridurre i tempi di lavoro oggi è dimenticata, le 35 ore sono finite, in Francia si vogliono detassare gli straordinari. La tesi è: chi più lavora più guadagna. Le sinistre, quelle che stanno nelle istituzioni, si adeguano. Poi capiterà che sbatteranno la testa. Ma per ora la corsa al reddito, al consumo, alle vacanze, e quant'altro, nessuno la contrasta. Il mondo sta correndo verso la rovina, con grande diletto, parrebbe. Ora qualche sensibilità si sta destando, per via dei fenomeni sempre più drammatici che si verificano ogni giorno…

Ecco, parliamo di oggi. Oggi nessuno più sfotte quando si parla di crisi ecologica. Tutti sanno che esiste. Ma nessuno, al mondo, fa una politica ambientalista seria. Le energie rinnovabili sono l'unico impegno, da parte di tutti. Per poter continuare a produrre, e a crescere naturalmente. E scassare definitivamente il mondo…
Tutti la pensano così. Anche i Verdi. In un recente dibattito ho sentito il rappresentante dei Verdi dire: "Noi siamo per un altro modello energetico". Tutto qui.

Ma il fatto che dovunque le distanze tra ricchi e poveri aumentino, nonostante la crescita, possibile che non dica niente alle sinistre? Che non capiscano che la crescita distrugge l'ambiente e socialmente non risolve? Che crisi ecologica e crisi sociale vanno di pari passo?
In Europa le sinistre continuano ad essere sviluppiste. Altrove non esistono nemmeno. E' un dato di realtà.

E questa realtà non si può cambiare?
Certo che si può. Ma per ora le sinistre che hanno vinto, contro di me e contro di te, se gli dici che bisogna cambiare la qualità del modello, al massimo ti rispondono: ma sì, parlatene pure. E' tutto.

In questa situazione il tentativo in corso, di aggregazione tra le sinistre italiane, le uniche che ancora si definiscono così, come lo vedi?
Non c'è una cultura comune, questo è il punto. Una cosa innanzitutto dobbiamo sapere: noi che vogliamo una nuova cultura, siamo una minoranza, via via più consistente ma assoluta. Gli altri sono preoccupati solo di avere più voti, e inseguono le destre, ammirano Sarkozy che ha vinto perché è più sviluppista di noi.

Ma possibile che le sinistre non si rendano conto della gravità del dissesto ecologico, non capiscano che così è impossibile continuare. Oggi la situazione anche a livello di opinione diffusa va cambiando, la minaccia della catastrofe è presente. Non pensi che sarebbe compito delle sinistre assumere il rischio ambiente nella sua reale portata, farne l'asse portante della loro politica? Ma tu non vedi soluzione, mi pare.
Io vedo una sola soluzione: insistere sulla battaglia culturale che stiamo conducendo, sapendo che a pensarla così oggi sono molti più di ieri. La sinistra va conquistata, e per farlo non bisogna preoccuparsi troppo dei voti.

D'altronde io credo che una politica ambientalista seria, corretta, avrebbe una ricaduta positiva anche sul piano dei suffragi. La gente ormai si sente insicura.
Sì, bisogna costruire una opinione almeno europea. Non si può saltare la costruzione delle menti. Mancano i fondamenti, su questi bisogna lavorare. Pensare il mondo in un altro modo.

Manca cioè una vera politica. Eppure credo che ci sarebbero i presupposti per una grande vera politica. A partire dalla crisi del capitale. Non so come la pensi tu, ma sono in molti a credere che il capitalismo sia in grave crisi.
Non c'è dubbio. Il capitalismo è in crisi. Si salva solo con la guerra…

Allora. Le sinistre, quelle poche che restano, non potrebbero cavalcare proprio la crisi economica insieme a quella sociale e a quella ecologica? Perché fino a certo punto l'accumulazione capitalistica, sia pure a costi tremendi, aveva migliorato le condizioni dei lavoratori nei paesi industrializzati: oggi questo processo si è rovesciato, le distanze tra ricchi e poveri aumentano, e la crescita produttiva sta devastando il mondo…
Sono pienamente d'accordo. Solo che per far questo occorre che le sinistre escano da se stesse e diventino altre da sé. Perché anche le sinistre che si dicono alternative (e non penso a quelle inserite nel sistema dato, i Democratici, gli Schroeder, i Blair, ecc.) continuano ad essere immerse in quella cultura. Se continuano a porre la questione della eguaglianza come fondamentale senza partire dalla libertà, non capiranno mai la questione dell'ambiente: perché finché vorranno la parità delle condizioni di partenza ciò significherà riprodurre il sistema com'è. Occorre la libertà di ripensare interamente l'impianto del mondo, dei rapporti sociali, dei rapporti col prossimo, non come libertà di competere e vincere sui mercati.

Non secondo le regole del liberismo, cioè.
Che sono infatti libertà di sopraffare il prossimo, l'animale, la natura, di dominare il mondo, magari richiamandosi alla Bibbia, vai e prenditi la Terra. E' questo tipo di politica che non mi attira, che non mi consente di stare in Parlamento a occuparmi, che so, dell'età pensionabile; che è importante, certo, ma dovrebbe essere collocata entro un orizzonte politico più ampio. Ad esempio, a me sta benissimo che uno come Al Gore, che ha corso per la Casa Bianca, ora stia combattendo per l'ambiente: ma nel far questo si dimentica di dire che è la stessa idea americana di libertà che non funziona.

Infatti dice che l'ambiente non è né di destra né di sinistra. Ora, se c'è una cosa di sinistra, quella è proprio la difesa dell'ambiente…
Certo. Sono le categorie mentali che la sinistra - anche quella antagonista, alternativa, ecc. - ha nella sua stessa costituzione. Che in qualche modo è un impoverimento dell'idea originaria, via via rimpicciolita e stravolta nella gestione della realtà. Perché il Manifesto dei Comunisti non finisce con l'eguaglianza, punta alla società dei liberi, e quindi degli uguali: la libertà di tutti come fondamento della libertà di ciascuno.

Tu pensi che in questa situazione la sinistra riuscirà trovare l'unità? Parentesi: io la chiamo "sinistra", e basta.
Certo, è l'unica sinistra che c'è in Italia.

E, per favore, lasciamo perdere scempiaggini tipo "la cosa Rossa"…
D'accordissimo. Dunque, riuscirà a trovare l'unità? Dovrebbe. Almeno d'azione, e almeno su certe questioni centrali. Ma contemporaneamente deve continuare lo sforzo per cambiare quello che hanno dentro i cervelli.

Cioè, ribadiamo, occorre cambiare l'intero impianto della politica; che dunque contenga anche un governo dell' ambiente fondato sulla rimessa in causa del sistema attuale. Su questa base, cioè assumendo l'anticapitalismo come idea centrale, la rivoluzione nel senso che dici tu - che non significa presa della Bastiglia o assalto al Palazzo d'Inverno -non credi che una buona fetta del "popolo di sinistra" potrebbe rispondere positivamente?
E' possibile, sì. Ci sono dei punti che incominciano ad essere comuni, e su cui si può continuare a lavorare.

Rifondazione in questo senso ha fatto un buon lavoro. Certo, non sono pochi gli iscritti ancora molto legati ai temi tradizionali, crescita, sviluppo, consumi, ecc., ma sono molti, specie tra i giovani, che hanno capito bene che cosa sta alterando così pericolosamente gli equilibri ecologici e che cosa occorrerebbe fare. Lo stesso Giordano più volte ha parlato pubblicamente della crisi ecologica come prova della necessità di cambiare l'intero sistema economico. Cioè quello che tutti ancora chiamano "modello di sviluppo", e che a mio parere bisognerebbe lasciar perdere. Perché oggi sviluppo significa crescita. Non sei d'accordo?
Certo. Si dovrebbe dire piuttosto "modello culturale". Perché, insisto, si tratta soprattutto una grossa battaglia culturale.

Avremo tempo abbastanza ?
Non è facile rispondere, se si considera l'accelerazione dello squilibrio planetario a cui assistiamo. Per questo bisogna darsi da fare.

Liberazione 11.9.07
Ilardi: «Notte bianca, la folla pacifica e passiva che piace a Veltroni»
di Vittorio Bonanni


A colloquo con il sociologo che mette a confronto l'evento romano con l'iniziativa di Beppe Grillo a Bologna
e la protesta degli ottantamila che, da protagonisti, allo stadio di Milano hanno fischiato la Marsigliese

Oltre due milioni di persone nelle piazze e nelle strade della capitale per la quinta edizione della Notte bianca, migliaia in piazza a Bologna con Peppe Grillo. Insomma le folle riempiono di nuovo le città ma con modalità che lasciano perplessa la sinistra, almeno quella che ancora crede al binomio piazza uguale conflittualità o piazza uguale protagonismo sociale. «Il problema - dice Massimo Ilardi, docente di sociologia urbana presso la facoltà di architettura di Ascoli Piceno - non è certo la Notte bianca. Ormai le grandi città del mondo puntano anche a questa risorsa rispetto al mercato. La questione è un'altra: che Veltroni vorrebbe sempre così la piazza. La Notte bianca diventà così la cartina di tornasole di come Veltroni intende gestire una società metropolitana. Due milioni e mezzo di consumatori, in questo caso di consumatori di spettacolo, che su disegno preciso delle istituzioni, perché la Notte Bianca è promossa e organizzata dalle istituzioni, sciamano per la città, tranquille, pacificate e beate, e consumano spettacolo. In fin dei conti l'individuo metropolitano come individuo astratto, come consumatore passivo, non protagonista insomma.

Passiva anche la folla di Bologna?
Volevo innazitutto sottolineare come i media hanno trattato anche gli altri due avvenimenti di massa accaduti sabato. All'iniziativa di Grillo voglio anche aggiungere gli ottantamila che hanno fischiato a Milano la Marsigliese nella partita Italia-Francia. Rispetto alla Notte Bianca i media, ovviamente, non hanno fatto altro che esaltare la capacità della città di governare come al solito i grandi eventi di massa e in questo Roma insegna al mondo come si governano due milioni di persone senza grosse conseguenze. Lì c'è stato in consenso da parte dei media perché tutto è andato tranquillo, tutto è filato liscio e l'individuo si è riproposto come un'entità astratta, proprio come vogliono loro, che consuma pacificamente e non crea guai e comunque sottostà al governo istituzionale. Anche per quanto riguarda la seconda manifestazione, quella di Grillo, se una critica ha suscitato è stata nei confronti di Grillo stesso, più che delle persone che hanno risposto al suo appello. Il comico infatti è stato accusato di populismo, di qualunquismo e di azione pericolosa nei confronti delle istituzioni. Ma le trecentomila persone, ancora una volta tranquille e irreggimentate, non sono state criticate.

Che cosa è successo invece a Milano?
In quel caso tutti si sono infuriati come bestie perché ottantamila persone, e senza distinzione tra distinti, curve o tribuna centrale, all'unisono hanno fischiato l'inno francese in risposta alle provocazioni che da un anno a questa parte la Francia, l'allenatore francese e i giocatori francesi hanno fatto continuamente nei confronti della nazionale italiana.

Insomma il punto è che in questo caso ci siamo trovati di fronte ad una massa che ha agito, ci piaccia o no, da protagonista...
Lì c'è stata, vogliamo dirlo, una nazione che all'unisono ha risposto ad una provocazione che continuamente gli è stata fatto durante tutto questo ultimo anno. Ma lo ha fatto uscendo fuori dalle regole. In questo caso il comportamento del ministro del Sport è stato indecoroso: un anno fa ha attraversato le strade di Roma facendosi osannare da un milione di persone, perché le andava bene, per poi accusare quegli stessi "estremisti tifosi" nel momento in cui hanno fischiato l'inno francese. Non si può pretendere di andare allo stadio come se andassimo ad un pic-nic e insegnare l'educazione ai tifosi.
Quello che ha dato fastidio insomma non è stato tanto l'insulto all'inno francese, ma che una massa di ottantamila persone possano uscire fuori dalle regole che il mercato impone. E come fai poi a dire che tu hai ragione e ottantamila sono dalla parte del torto! Qui c'è proprio la presunzione del politico!

Tutto questo ci rimanda al problema della piazza, luogo della sinistra e dell'antagonismo per antonomasia, ma che rischia di cambiare decisamente fisionomia...
Qui ricadiamo nell'errore tradizionale della sinistra. Tutto ciò che esce fuori dalle forme istituzionali della politica è da condannare, è il regno dell'inferno. Su questa tesi la sinistra si è giocata il ricambio di una generazione. Uno dei motivi per cui ha perso la piazza è proprio questo: la piazza è piazza proprio perché forma una nuova legalità. Se no che piazza è. Un movimento è un movimento perché esce fuori dalla legalità istituzionale e tenta di scrivere o di dar vita ad una nuova legalità.

Questo fastidio per una piazza protagonista fa anche capire la demonizzazione, da parte del governo, della manifestazione del prossimo 20 ottobre...
E' evidente. E' stato detto a chiare lettere che tutto è tranne una manifestazione contro il governo che dovrebbe accettare le critiche quando vengono dalle masse alleate. Ma anche qui queste masse fuoriescono da quel legalitarismo istituzionale tanto caro alla sinistra di governo.

il manifesto 11.9.07
La debolezza della ragione di papa Ratzinger
di Filippo Gentiloni


I discorsi del papa nel corso del recente viaggio in Austria permettono una conoscenza approfondita del suo pensiero che, d'altronde, si era andato precisando di giorno in giorno nel corso dei primi tempi del pontificato. Un pensiero che, man mano che si va precisando, si distacca da quello dei predecessori.
Si può prendere come punto di partenza il giudizio sul mondo moderno e la sua cultura. Un giudizio il cui centro geografico - e polemico - è nettamente la nostra Europa.
Il giudizio è decisamente negativo: il mondo moderno è - sarebbe - nettamente dominato dal relativismo: sconfitta la verità e, con la verità, la possibilità di una affermazione del cristianesimo. Come appare lontano il famoso giudizio di papa Giovanni che condannava i molti «profeti di sciagure»!
Colpevole, nella condanna di Ratzinger, anche la scienza che avrebbe posto in cattedra il relativismo: «Una minaccia la scienza senza Dio». Vittima principale la famiglia: lo dimostra la crisi del matrimonio e soprattutto la diffusione dell'aborto. Una deriva alla quale hanno ceduto anche alcuni settori del cristianesimo e perfino del cattolicesimo che, evidentemente, vanno condannati e repressi. Anche se questo atteggiamento comporta il rischio di un ritorno al passato preconciliare (Lefevriani e messa in latino). La verità sopra tutto e prima di tutto, senza cedimenti.
L'ecumenismo non viene condannato ma certamente ridimensionato, come ha dimostrato il recente documento sulla chiesa romana come unica vera di Cristo. Un omaggio alla presunta verità che ha suscitato discussioni e amarezze.
Il papa vuole sostenere le sue argomentazioni in quanto sorrette non soltanto dalla fede cristiana ma anche dalla ragione. Papa Ratzinger la invoca anche più di quanto non invochi la Bibbia, probabilmente convinto che sulla base della ragione la sua verità possa arrivare ben al di là dei confini del cristianesimo.
Ma proprio qui appare la sua debolezza. Non si può parlare al giorno d'oggi di una ragione universale, accettata da tutti: lo dimostrano non soltanto le altre culture, dall'islam alla Cina, ma anche le opposizioni molto forti nello stesso ambito della cultura cristiana europea.
Perciò la pretesa universalistica del discorso di Benedetto XVI appare datata e i suoi appelli in parte inutili in parte contraddittori.
Come quelli di giorni fa nel grande raduno dei giovani a Loreto. Il papa ha insistito contro la cultura del denaro, dell'apparenza, della pubblicità, dei mass media. Ma allo stesso tempo se ne doveva servire, come, d'altronde, la chiesa fa sempre di più. Un mondo di cui la chiesa non può fare a meno, anche se in teoria lo condanna.
Una contraddizione che la «evangelizzazione» dovrà affrontare in qualche modo. Non sarà facile. Non sembra che il «magistero» abbia intenzione di affrontare la questione del difficile rapporto fra la «parola» e i mass media che la veicolano ma rischiano di falsarla.

VARIETY.com
Venice. Fallen Heroes
Nessuna Qualita Agli Eroi (Italy-Switzerland)
By Ronnie Scheib


An ITC Movie presentation of an ITC Movie production (Italy), in co-production with Bianca Film (Italy)/Ventura Film (Switzerland), in collaboration with RAI Cinema, RTI (Italy)/RTSI Televisione Svizzera (Switzerland). Produced by Beppe Caschetto, Anastasia Michelagnoli. Co-producers, Donatella Botti, Elda Guidinetti, Andres Pfaeffli. Directed by Paolo Franchi. Screenplay, Paolo Franchi, Daniela Ceselli, Michele Pellegrini.

With: Bruno Todeschini, Elio Germano, Irene Jacob, Maria de Medeiros, Paolo Graziosi, Mimosa Campironi, Alexandra Stewart.
(French, Italian dialogue)

In Paolo Franchi's second feature, a brooding, intense variation on "Strangers on a Train," two men (Bruno Todeschini and Elio Germano) swap the same murder. Filmed mainly at night or in cold light, against the gray water and austere architecture of Turin, pic is an unrelenting study in Oedipal angst. Despite its visually compelling style and two magnificently dysfunctional perfs, pic finally fails to ring enough variations on its father-fixation theme. "Fallen Heroes" has gained notoriety for its glimpse of a naked, fully erect Elio Germano, but unremitting bleakness may be the sticking point for arthouse auds.
Transplanted French-Swiss Bruno (Todeschini), at 40, is not doing well. He has just discovered he cannot father a child, and the banker to whom he owes a fortune has given him a week to come up with the money. He hides both truths from his wife, Anne (Irene Jacob), not because she would not understand but because, in her maddeningly unconditional wifely/motherly love, she would.
A trip to his home in Geneva to borrow money from his sister (Maria de Medeiros) triggers his not-very-deeply buried hatred of his dead father, a famous Swiss painter who just happens to look exactly like him.
Meanwhile, Luca (Germano), the young son of the man to whom he owes the money, has problems of his own. If repressed Bruno nurses his neuroses, disturbed Luca visibly battles his psychoses, most of them centering around his conflicted feeling for his usurer father. Luca begins to follow Bruno and stages an encounter patently designed to set him up to take the fall for Luca's planned patricide. But he soon becomes fascinated with Bruno and Anne, Freudian transferences of every conceivable stripe madly whizzing around the camera's obsessive stalking.
Franchi whips up some stunning Sturm und Drang as characters throw themselves into the water, madly dig in the earth or chase each other through torrential rains. Yet nobody actually works: The unspecified business into which Bruno has sunk all his borrowed money commands a beautiful corner office by the sea, but no clients. Neither Anne nor Luca has a job. Indeed, the characters don't even eat -- all they do is indulge in angst, which can be surprisingly time-consuming (in an amazing scene, Luca contorts his entire body in a terrible, protracted attempt to vomit up his soul), and desperate, graphic sex.
Unlike Franchi's debut "The Spectator," where the camera, in its voyeurism, created a sense of continuum and sly reversals, here scenes are linked by blackness and discontinuity, as characters walk into darkened rooms or are transported from Turin to Geneva in a single cut. And unlike Robert Walker's wonderfully entertaining Bruno in Hitchcock's "Strangers," Germano, here taking the role if not the name, singularly lacks a sense of panache or humor.
Tech credits are superb. Gianmaria Cau's production design creates austere interiors full of artful emptiness, while lenser Cesare Accetta limns suitably desolate landscapes of the mind. But it is pic's extraordinary sound design that really captures its characters' alienation.
Pic's title refers to Bruno's father's painting of the same name, and could better be translated as "none of the qualities of heroes."
Camera (color, widescreen), Cesare Accetta; editor, Alessio Doglione; music, Martin Wheeler; art director, Gianmaria Cau; costume designer, Grazia Colombini; sound (Dolby Digital), Lilio Rosato, Marco Giacomelli; casting, Stefania De Santis. Reviewed at Venice Film Festival (competing), Aug. 31, 2007. Running time: 102 MIN.

www.screendaily.com 3.9.07
Fallen Heroes (Nessuna qualità agli eroi)
Dir: Paolo Franchi It/Switz. 2007. 100 mins.
by Lee Marshall in Venice


Paolo Franchi is the true heir to Antonioni among the current crop of young Italian directors: he's fascinated by passive, blocked, brooding characters, by emotions that can hardly be translated into images, let alone words. And like the films of the late lamented Ferrarese maestro, both Franchi's promising debut La Spettatrice and his current Venice competition entry feel like ongoing thought processes rather than finished, wrapped and bundled creative efforts.

The risk of this approach, as well as its satisfactions, are evident in Fallen Heroes, which is by turns fascinating and frustrating. But Fallen Heroes nevertheless confirms Franchi as a beacon of talent to rank alongside Paolo Sorrentino, Matteo Garrone and Saverio Costanzo in the dark forest of contemporary Italian arthouse cinema. This is a sombre film that makes demands on audiences, and it will appeal to those with an appetite for a tussle with complexity. Best results will be posted at home in Italy, in the co-production territory of Switzerland, and in France, where Todeschini and Jacob are both guarantees of quality. Elsewhere further festival action will probably be needed to tickle distributors.

The film's pull derives from Franchi's deep sympathy for his characters and the fact that he grounds their bottled-up desperation in closely observed emotional detail (two things that were not always true of Antonioni). It helps, too, that this existential noir about a young man with father problems who apparently begins stalking an older man with father problems is grounded in three fine performances, by Bruno Todeschini (Secret Agents, La Petite Jerusalem), Elio Germano (My Brother is an Only Child) and a touching, vulnerable Irene Jacob.

The frustrations lie perhaps in the fact that for all his probing Franchi himself never seems to work out exactly what he wants to say, and perhaps in desperation lets his tentative probings be forced by the thriller plotline, which barges in more than once like the bull of story in the china shop of emotions. Sudden amplified passages in Martin Wheeler's terse, suspenseful electronic soundtrack seem to fall into the same trap, frantically underlining complex and unresolved cruxes that deserve a more delicate accompaniment.

Fallen Heroes ("Heroes without quality" better renders the Italian title) resembles La Spettatrice in many ways. In both, one character spies on another; in both, voyeur and victim are brought together with unpredictable consequences. But restless young Luca (Elio Germano) is more aggressive and, we soon discover, more motivated in his observations of middle-aged French businessman Bruno Ledeux (Bruno Todeschini) than the hesitant female voyeur of Franchi's debut. Luca's father is a bank manager who doubles as a loan shark – and Bruno is heavily in debt to him. Luca is disgusted by his father's deadbeat double life and, we feel, shamed by his father's implied contempt for him.

Bruno too had a domineering father – a self-obsessed painter who continues to torment his son even after his death. He can't have children himself, either: we learn at the beginning that Bruno is infertile – a metaphor perhaps for his emotional blockages, for the fact that he is a walking dead-end. Though Bruno's wife Anne is sweet, conciliatory and understanding, her unconditional love only serves to send Bruno further into the fog of self-hatred and depression.

Lighting, camerawork and sound design conspire to stress the jangling harshness of the world inhabited by the two lost and conflicted central characters. Alternately penumbral and illuminated by harsh artificial light, often in the same scene, the film pans out in a series of unforgiving grey cityscapes (Turin and briefly Geneva) and cold interiors.

Background electric hums are turned up to mirror the interference inside Bruno's head, and there's a jagged rhythm to the montage, with scenes of uneasy calm being cut into by jabs of frantic action. The final frustration of Fallen Heroes is the ending, which consists of a twist that little of what has come before has prepared us for. It feels a little as if Hitchcock had been drafted in to wrap up the mystery of L'Avventura and tie it with a neat bow.

Production and sales
ITC Movie (It)
(39) 051 54 84 90

Co-production
Bianca Film (It)
Ventura Film (Switz)

Producers
Beppe Caschetto
Anastasia Michelagnoli

Co-producers
Donatella Botti
Elda Guidinetti
Andreas Pfaelli

Screenplay
Paolo Franchi
Daniela Ceselli
with the collaboration of Michele Pellegrini

Cinematography
Cesare Accetta

Production design
Gianmaria Cau

Editor
Alessio Doglione

Music
Martin Wheeler

Main cast
Bruno Todeschini
Elio Germano
Irene Jacob

il manifesto 11.9.07
La scienza non ha bisogno di nessun dio
I dettati di Benedetto XVI, la ricerca e la morale «condivisa»
L'ennesima verità del papa Senza riferimenti divini gli scienziati possono distruggere l'uomo e il mondo. Si può rovesciare il ragionamento e dimostrare il contrario

di Carlo Flamigni


Le verità di papa Benedetto XVI stanno diventando sempre più numerose, e tenendo conto dello spazio che trovano sui nostri giornali e sulle televisioni sarà sempre più difficile contestarle tutte: qualcuna finirà per sfuggirci e a quel punto sarà tutto finito, lui andrà trionfalmente a dama e a noi poveri laici resterà solo la consolazione del suo inevitabile, odioso perdono. Per il momento, però, la parola d'ordine è ancora «resistere, resistere, resistere...».
Tra le molte verità delle quali ci ha gratificato durante il suo viaggio in Austria, ne colgo due che sono un po' più delle altre alla mia portata: la prima afferma che l'uomo per il quale la verità non esiste non può distinguere tra il bene e il male e che il cattolicesimo si oppone a questa rassegnazione; la seconda verità riguarda i rischi che derivano da una scienza che non riconosce la morale e non vuole fare riferimento a dio, rischi che possono giungere fino alla distruzione dell'uomo e del mondo. L'uomo, dunque, ha bisogno della verità. Di quale, potete immaginarlo.
L'attacco di B 16
Direi che questo è un robusto attacco portato ai principi della laicità, almeno a quelli sostenuti da Abbagnano, Calogero, Jemolo, Lecaldano, Mori, Giorello. La cultura laica è nata dalla confluenza di molte forme di pensiero che hanno ritenuto necessario affrancare la filosofia e la morale dalla religione positiva: sono le stesse idee che hanno percepito come una forte istanza civile il diritto alla libertà di coscienza e che hanno consentito il progressivo distacco del pensiero politico dalle richieste della religione, costruendo quella nuova mentalità alla quale dobbiamo la prevalenza della ragione sul mistero. Così la scelta definitiva del pensiero laico è stata quella di rifiutare la verità rivelata, il dogma assoluto, sostenendo la priorità della libera ricerca delle verità relative. Questo fermo atteggiamento di rifiuto delle verità rivelate lo si ritrova in tutte le definizioni credibili di laicità, certamente non nelle incredibili manipolazioni con le quali il mondo cattolico ha cercato di esorcizzare una parola per lui straordinariamente odiosa. Prendo ad esempio Calogero: laicità è un metodo di convivenza di tutte le ideologie e di le filosofie possibili, che debbono rispettare, come regola primaria, il principio che nessuno può pretendere di possedere la verità.
Dunque, la laicità è l'atteggiamento di chi non crede nella metafisica e nel trascendente e di chi ritiene che il mondo basta a se stesso e non ha alcun bisogno di essere fondato metafisicamente. Distinguere una razionalità povera e umile perché incapace di librarsi nell'empireo della metafisica e una razionalità nobile e virtuosa perché aperta alla spiritualità è una acrobazia dialettica. In realtà il mondo ha bisogno di un'etica razionale che sia in grado di assicurare a tutti la libertà e di adeguarsi continuamente alle mutevoli circostanze storiche.
I dieci punti del papa sulla laicità, invece di dimostrare l'esistenza di una verità unica e assoluta, il cui bagliore cancella tutte le altre pretese verità, invece di dimostrarci la verità del logos, cerca di convincerci che la fede è razionale perché la razionalità ha bisogno della fede, dimenticando che gli assiomi possono essere accettati quando si discute di geometria euclidea, non quando si deve dimostrare l'esistenza di dio. Sarà bene ricordare a tutti che la nostra società si è data delle regole: se qualcuno vuole dimostrare agli altri la fondatezza di una sua teoria deve farlo rispettando queste regole, se non lo fa gli altri hanno il diritto di dirgli che quanto afferma non corrisponde a verità.
Uno dei punti dolenti del papa a proposito della laicità riguarda il fatto che essa sembra considerare la religione come irrazionale e indegna di entrare nel dibattito pubblico. Questo argomento merita qualche ulteriore precisazione. Certamente la laicità considera la fede come un fatto privato, una esperienza legittima, che non può però pretendere di condizionare la vita degli uomini , come se il criterio ordinatore della società potesse dipendere dalla metafisica e dal soprannaturale: non si esorcizzano miracoli e fantasmi senza una forte razionalità e una altrettanto forte fiducia nel razionale e chi non possiede queste doti non può immaginare di poter presiedere alla costruzione delle regole. Altra cosa è la morale delle religioni, perché trae la sua essenza dal dialogo tra gli uomini e perciò certamente merita grande attenzione.
Temo che gran parte delle cose che ci vengono ammannite sotto l'egida della verità altro non siano che propaganda religiosa, che trae gran parte della sua forza dall'atteggiamento remissivo della cultura cosiddetta indipendente. Un grande maestro della filosofia laica, Carlo Augusto Viano, ha ripetutamente affermato che da questa propaganda il cittadino ha il diritto di essere difeso. Ha scritto Viano: di fronte alla pretesa di imporre a tutti, con mezzi spesso discutibili, comportamenti giustificati da considerazioni di ordine religioso e per giunta spacciati per argomentazioni razionali, la cultura indipendente dovrebbe avere il coraggio di dire che queste convinzioni private proposte come base per decisioni pubbliche sono imposture.
Non è cosa di poco conto: le imposture possono essere propagandate con successo se non sono state scoperte, possono essere propagandate e basta se sono state riconosciute come tali. Per difendere i cittadini dalla propaganda religiosa bisogna anzitutto riconooscere che quella religiosa è propaganda, che significa ammettere di sapere che si basa su presupposti gratuiti e surrettizi, ispirati a un sapere fittizio e attinti da libri pieni di falsi.
Dunque, un mondo che basta a se stesso e non ha bisogno della metafisica per orientarsi, ha il diritto di scegliere da solo le regole che debbono essere utili per stabilire compiti, confini e limiti della ricerca scientifica: non è cosa nuova e, soprattutto, non è cosa difficile. In fondo la ricerca scientifica non è che un grande investimento sociale, forse il maggiore di tutti gli investimenti nei quali la società si impegna, e ha lo scopo di assicurarle i maggiori vantaggi possibili per la sua qualità di vita e soprattutto per quella dei suoi figli più sfortunati. In termini molto semplici, il compito della scienza è quello di conoscere per mettere ordine nel disordine naturale nel quale viviamo. Non vi è dubbio sul fatto che i ricercatori e gli scienziati debbono rispettare una serie di regole (disinteresse, trasparenza, sincerità, onestà intellettuale, scetticismo organizzato) e che chi non riesce ad accettare questo obbligo non fa automaticamente più parte della comunità scientifica.
I confini delle scienza
E' logico a questo punto chiedersi se debbono esistere regole e limiti condivisi e chi li deve definire. Risponderei sì alla prima domanda, sulla base di due principi generalmente condivisi: non tutto quello che la scienza ci consente di fare è moralmente accettabile; non tutto quello che la natura cerca di ammannirci è accettabile da parte della nostra umanità. Mi sembra logico, a questo punto, affidare la definizione di confini e limiti alla morale di senso comune, una morale collettiva che si forma a seguito di diverse influenze e che è certamente sensibile alla intuizione delle conoscenze possibili e dei vantaggi che ne può ricavare, una volta accertata l'assenza di rischi significativi.
Entra in campo, con prepotenza, la necessità che questa morale sia messa nelle condizioni di potere decidere da una attenta e scrupolosa promozione della cultura nei campi nei quali le scelte debbono essere operate, quello che gli anglosassoni definiscono il public understanding of science. Gli inglesi ne hanno dato un perfetto esempio con il «sondaggio deliberativo» che hanno utilizzato a proposito della decisione di consentire la produzione di embrioni ibridi. La tecnica, ormai accettata dalla maggior parte dei paesi civili, è relativamente semplice. Si esegue una normale indagine conoscitiva su un certo tema, e a essa si fa seguire una campagna di informazione capillare, coinvolgendo tutti gli esperti, ricercatori e scienziati. Al termine si ripetono le stesse domande della prima indagine per verificare il cambiamento delle opinioni, con l'obiettivo di scoprire quanto la percezione generale della scienza influisce sull'opinione che i cittadini hanno su un particolare argomento. In questo modo dovrebbero essere accompagnate nel loro percorso all'interno del contesto sociale tutte le innovazioni tecnico-scientifiche, sempre tenendo conto del fatto che se la scienza nasce in vitro, negli ambienti asettici dei laboratori, deve poi essere trasferita in vivo, cioè nella società, dove è destinata a scontrarsi con pregiudizi e timori.
Tutto sommato, dai messaggi che ci stanno arrivando da molti paesi, dalle loro esperienze e dai successi che vi ha ottenuto il processo di accettazione delle nuove acquisizioni scientifiche, credo che si possa concludere che si può aver fiducia nella scienza e si può contare sulla nostra capacità collettiva di dettarne le regole. Sinceramente non vedo, con buona pace del pontefice, alcun bisogno di dio.

lunedì 10 settembre 2007

l’Unità 10.9.07
Epifani: «Vedo poca sinistra nel Pd»
Il segretario Cgil preoccupato: la manifestazione del 20 ottobre finirà per essere contro il sindacato
di Simone Collini


L’ARRABBIATO Ne ha per tutti, Guglielmo Epifani. I promotori della manifestazione del 20 ottobre e quanti accusano il sindacato di difendere i fannulloni, Confindustria che pensa solo a sé e il governo che sulla Finanziaria ha ricominciato col brutto balletto di cifre proprio come l’anno scorso. Intervistato alla Festa nazionale dell’Unità, per ognuno di questi il segretario della Cgil ha una risposta. Anche il Partito democratico non ne esce indenne: «Dovrà lavorare sull’identità e sui valori. È strano che alla fine del percorso la sinistra democratica possa essere rappresentata da quel residuo 10% che ne resterà fuori. Si dovrà dar voce all’ala sinistra all’interno del Pd». Ma è un argomento che occupa i minuti finali dell’intervista. Che invece è inevitabile parta dal protocollo sul welfare. Epifani guarda alle prossime settimane con un misto di fiducia e preoccupazione. La prima è per il fatto che la consultazione sul protocollo sarà la «risposta democratica a chi vorrebbe che il sindacato conti meno»: se ai primi di ottobre voteranno, come già accaduto in passato, quattro milioni di lavoratori, il sindacato avrà dimostrato di essere capace di mettere in campo «una prova democratica che nessuno è in grado di fare». Dalle urne Epifani si aspetta un sì all’accordo, perché pur non avendo lui nascosto un giudizio critico su alcuni punti, il giudizio sul complesso del provvedimento non può che essere "positivo": «Dire no all’accordo significa dire no al superamento dello scalone voluto da Maroni e al fatto che dopo vent’anni si ridà attraverso la contrattazione ai pensionati il potere d’acquisto perduto». Per questo Epifani, tra gli applausi difende l’accordo: «Abbiamo fatto il massimo possibile. Sfido coloro che lo criticano a fare meglio di noi. Se ci riescono, mi tolgo il cappello, ma non ce la possono fare».
Ma la sfida portata al sindacato al momento rischia di essere la manifestazione del 20 ottobre. Epifani lo sa: «Mi sfugge per quale motivo sia fatta questa manifestazione. A un certo punto ho temuto, e in parte per la verità continuo a temere, che fosse contro l’accordo». Ecco il paradosso e i rischi che vede in questa iniziativa il segretario della Cgil. Il referendum di lavoratori e pensionati si chiude il 10 ottobre. «Se diranno sì la manifestazione diventa contro la maggioranza dei lavoratori. Molto più logico sarebbe stato aspettare l’esito del referendum». Ma ormai la manifestazione è stata indetta. Con una piattaforma che, nota con un sorriso Epifani, ogni giorno cambia in parte. Questo per consentire di non farla apparire come contro il governo. Ecco allora l’altro timore. «Mi viene il sospetto che si voglia mettere al riparo il governo e attaccare per l’accordo il sindacato. Se è questo il gioco, non ci sto».
Per il segretario della Cgil ognuno dovrà fare la propria parte, anche per evitare che "il malessere, che c’è «si riversi contro un accordo che "migliora le condizioni di lavoratori e pensionati». E se la vittoria del sì al referendum per Epifani «spingerebbe il governo a fare quello che i cittadini si aspettano» in materia di welfare, occupazione, fisco, è anche vero che il governo da parte sua «non deve deludere». Cominciando dalla Finanziaria. «L’anno scorso abbiamo assistito a un balletto di cifre che non va bene perché ai cittadini si deve trasparenza sui conti. E poi sono state fatte troppe promesse non mantenute: il governo deve selezionare gli obiettivi. Chiedo a loro il coraggio e la responsabilità di assumere una proposta. Se lo abbiamo fatto noi siglando l’accordo, lo sappia fare anche il governo».
«Bisogna fare meglio», è il messaggio che Epifani lancia al governo. Insieme a quello di non seguire troppo le sirene di Confindustria. Montezemolo chiede una riduzione delle tasse alle imprese? A parte che lo scambio proposto Ires-incentivi non sarebbe a costo zero. Ma Epifani sottolinea che Confindustria primo, deve essere coerente e secondo, non può pensare solo a sé, chiedendo ancora riduzioni fiscali dopo aver già ottenuto il taglio del cuneo fiscale: "A chi ci ha accusato di difendere i fannulloni dico che noi non difendiamo chi non fa il proprio dovere, che non è un amico dei lavoratori. E che ci sono fior di dirigenti condannati che non si riesce a mandare a casa, e non è il sindacato che li difende. Faccio poi notare che non ci sono solo lavoratori fannulloni. Ci sono anche imprese fannullone, che prendono soldi pubblici e poi chiudono, che assumono con gli sgravi e poi licenziano alla prima difficoltà. Confindustria quando parla di salari dice che vanno legati alla produttività, per premiare chi lavora di più e meglio. Quando parla di imprese se lo scorda e dice che in quel caso gli aiuti vanno dati a tutti». Alla Festa dell’Unità sono solo applausi, ma a Epifani non sfugge che i prossimi saranno mesi complicati.

l’Unità 10.9.07
OMS Uno studio sulla malattia
Depressione più disabilitante di altre malattie


Una ricerca dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) condotta su oltre 245 mila persone in oltre 60 nazioni del mondo ha rivelato che la depressione è una condizione più disabilitante per la salute di altre malattie croniche come ad esempio il diabete. Lo studio è stato pubblicato su The Lancet.
Prendendo in considerazione sonno, dolori fisici, problemi di memoria e concentrazione, i ricercatori hanno valutato che la depressione ha i peggiori effetti.

Repubblica 10.9.07
Scontro a Mantova tra l'intellettuale britannico e il discusso islamista
E Hitchens disse a Ramadan "Parli con lingua biforcuta"


L'autore inglese va all'attacco: "Dici cose diverse a seconda se parli agli islamici o agli occidentali"
Il velo. Da noi in Inghilterra piace guardare le persone in faccia Da voi le donne sono schiave del velo
Le due civiltà. Credo che non abbia più senso parlare in termini di "noi" e "voi": non è più realistico

MANTOVA - «Parli con la lingua biforcuta, mezza per i musulmani e mezza per gli occidentali». Con queste parole Christopher Hitchens, saggista britannico e alfiere dell´ateismo, ha bollato ieri sera l´intellettuale islamico Tariq Ramadan al termine di un duro botta e risposta al Festival della letteratura di Mantova. I due si sono confrontati sui temi più controversi, dalle vignette sul Corano al velo. «A noi inglesi piace guardare la gente in faccia», ha accusato Hitchens. «Non credo che queste tue parole piacciano ai giovani musulmani», ha replicato Ramadan.
Un´incandescente polemica tra l´islamista Tariq Ramadan e il paladino dell´ateismo Christopher Hitchens ha chiuso l´undicesimo Festivaletteratura di Mantova. L´autore della Posizione della missionaria e di Dio non è grande si è presentato all´incontro con l´intellettuale di origini egiziane e l´ha provocato su temi quali il velo, il ruolo dei musulmani nel Sud Africa dell´Apartheid e la vicenda delle vignette danesi.
Dopo un´ora e mezzo di un dibattito acceso ma corretto tra il sociologo Renzo Gnuolo e Ramadan, durante lo spazio dedicato alle domande del pubblico, lo scrittore inglese ha preso la parola. Ed ha esordito chiedendo all´islamista: «Perché dobbiamo parlare con te? Chi sei, se non il nipote del fondatore dei Fratelli musulmani?» «Alcuni dicono che con me non si deve parlare, ma io - gli ha risposto Ramadan - sono qui umilmente per dire la mia. Ti chiedo di considerare cosa penseranno i giovani musulmani nell´apprendere che c´è chi dice che non è giusto ascoltarmi».
Hitchens l´ha poi accusato di parlare con una «lingua biforcuta», rivolgendosi in un modo ai musulmani e in un altro agli occidentali. Il controverso studioso ha risposto: «Ho scritto ventidue libri, un´infinità di articoli, non fatevi un´idea di me solo dalle voci che escono cercando il mio nome su Google».
Passando alla questione del velo, Hitchens ha detto: «A noi, in Inghilterra, piace guardare la gente in faccia». «Noi chi? - gli ha risposto Ramadan - credo che la tua posizione sul velo sia minoritaria: il velo non è una prescrizione e io lavoro per migliorare la condizione delle donne musulmane. E poi non ha più senso parlare in termini di "noi" e "loro", non è realistico». L´inglese ha allora ribattuto che «le ragazze musulmane sono schiave, poiché viene loro imposto di portare il velo».
Lo scrittore britannico ha poi tirato in ballo «il razzismo dei musulmani» in Sud Africa, che non fecero nulla per ostacolare l´apartheid. «Ma quelli erano solo una minoranza: lo stesso Mandela aveva molti amici tra i musulmani sudafricani», ha replicato Ramadan. Il quale ha poi parlato della vignette satiriche, sostenendo che «il premier danese ha fatto un gravissimo errore, poiché avrebbe dovuto ricevere gli ambasciatori dei paesi islamici per riaffermare un principio di corretta laicità. Studiando ho capito che, anche come musulmano, posso accettare il laicismo, purché sia vissuto come separazione, non come imposizione».
Il violento battibecco tra i due è durato una quindicina di minuti, al termine dei quali c´è stato chi ha applaudito Ramadan, e chi è corso a stringere la mano a Hitchens.

Repubblica 10.9.07
Vuoti di memoria tra destra e sinistra
di Stefano Rodotà


Nella discussione di questi giorni si possono scoprire sorprendenti vuoti di memoria, che rischiano di provocare pericolosi momenti di schizofrenia politica ed istituzionale. Vale forse la pena di ricordarne qualcuno nella speranza, non so quanto fondata, che se ne possa tenere conto nelle future discussioni.
Il primo caso riguarda la natura stessa del nascituro Partito democratico, almeno nella versione variamente prospettata da Walter Veltroni e Francesco Rutelli. Entrambi sembrano convenire sulla necessità di un partito a vocazione maggioritaria; svincolato da paralizzanti accordi di coalizione come quelli che hanno portato alla nascita dell´attuale Unione, aperto ad alleanze di "conio" più o meno nuovo. Una volta enunciati questi propositi, bisogna tuttavia affrontare alcune altre, e decisive, questioni, che non possono essere ignorate o rinviate a quando il Partito democratico avrà definito la sua identità. Questa dipenderà proprio dal modo in cui il nuovo partito si collocherà nel sistema politico.
Il Partito democratico non può coltivare la proclamata vocazione maggioritaria in una sorta di orgoglioso isolamento. Non è un istituto di ricerca, dove si svolgono analisi e si elaborano programmi senza doversi preoccupare delle reazioni politiche e sociali. Ogni mossa qualifica il partito e ne definisce i rapporti con gli altri. Poiché non si può scambiare vocazione maggioritaria con autosufficienza elettorale, ogni dichiarazione o iniziativa finisce con il prefigurare o condizionare le future, indispensabili alleanze. Di queste si afferma la necessaria "omogeneità". Una affermazione, questa, che contiene una critica alle alleanze attuali e può portare ad una significativa conseguenza politica. Se la costruzione del nuovo partito si manifesterà anche come costruzione di una nuova omogeneità, sarà inevitabile una tensione sempre più marcata tra Partito democratico e coalizione di governo.
Molte forze agiscono in questa direzione, sottolineando con intensità crescente che la disomogeneità sarebbe determinata solo dalla presenza nella coalizione della sinistra "radicale" sì che, liberi da questa, le alleanze in altre direzioni, dunque verso il centro, produrrebbero una sorta di "naturale"omogeneità. In questo gioco di azioni e reazioni si collocano gli atteggiamenti della sinistra dell´Unione, che non possono essere liquidati come irresponsabili, a meno di non adottare il teorema di Tecoppa, secondo il quale l´avversario non dovrebbe muoversi e farsi tranquillamente infilzare.
La questione delle alleanze e della coalizione si fa ancora più stringente se si considera l´eventualità che, falliti i tentativi di una riforma elettorale in sede parlamentare e approvati i quesiti referendari, si vada a votare con una legge che assegna un cospicuo premio di maggioranza al partito o alla coalizione che abbia comunque avuto il maggior numero di voti, anche nel caso in cui si tratti di un partito del 30% o anche meno. Sono consapevoli, i referendari, che questa vicenda è destinata ad influire pesantemente sul futuro del Partito democratico, obbligandolo ad accelerare la definizione di una coalizione in grado di raggiungere la maggioranza? Sembra un tema di domani, e invece riguarda l´oggi, se non altro perché le risposte influiranno sull´atteggiamento delle varie anime del Partito democratico sul referendum. E questo significa indicare con precisione le riforme da fare e, soprattutto, con chi farle.
Proprio qui, intorno al riformismo, si può cogliere un secondo vuoto di memoria. Nei modi più diversi, e persino sgangherati, si cerca di riannodare un filo riformista che sarebbe stato trascurato, o addirittura troncato per l´incapacità o la prava volontà di chi non seppe cogliere l´attimo fuggente degli anni Ottanta, che qualcuno oggi mitizza come una sorta di Età dell´Oro di un riformismo perduto. Ha fatto bene Eugenio Scalfari a ricordare di quale pasta fosse fatto quel decennio, che quasi dovrebbe esser preso a modello, nel quale il debito pubblico balzò, tra il 1982 e il 1992, dal 57 al 120 per cento del Pil. Oggi, infatti, nella pur legittima ricerca di un passato nel quale riconoscersi, viene da molti adottata una memoria selettiva, che volutamente ignora come la vera eredità del proclamato riformismo di quegli anni fu la cancellazione della legalità, la disinvoltura nella spesa pubblica, lo sperpero del capitale sociale, la fine del senso civico, l´abbandono di qualsiasi moralità pubblica e privata. Questo non avvenne nel silenzio. Ed è quindi più stupefacente il silenzio di oggi, che dà corpo al rifiuto di confrontare proclamazioni e fatti concreti, velando così anche il fatto che proprio allora furono poste le basi di quella rincorsa ai privilegi che alimenta oggi l´antipolitica e che non fu appannaggio del solo ceto politico. E cominciò allora una regressione culturale dalla quale non siamo ancora usciti. Basta guardare al modo in cui si sta svolgendo la discussione sulla sicurezza, ormai ridotta ad una brutale questione di ordine pubblico, mentre sarebbero necessarie analisi approfondite proprio per individuare le strategie più efficaci, dunque una alleanza con le discipline sociali che in questi anni sono state tutt´altro che avare di indicazioni concrete.
Queste letture del passato indeboliscono anche le promesse di un riformismo che si affida quasi esclusivamente alla logica di mercato, perdendo così di vista che ogni riforma economica oggi non può essere separata dalla necessità di ricostruire legalità, legami sociali, relazioni di fiducia, rapporti di solidarietà, senso civico, moralità pubblica, dunque un tessuto connettivo mancando il quale ogni riforma, isolata o "lenzuolata" che sia, è destinata se non a fallire, a produrre esiti modesti o persino contraddittori. Il rimpianto per Bruno Trentin, in me grandissimo, ci obbliga a ricordare il rigore con il quale analizzò, per i lavoratori, il passaggio "da sfruttati a produttori". Un ammonimento da tenere in gran conto oggi che la qualità di produttore viene riconosciuta al solo imprenditore, dando corpo ad una frattura sociale destinata a produrre nuovi conflitti, che hanno radici nell´esclusione e nella mortificazione.
Si può cogliere qui un altro vuoto di memoria. Parlando dei sessant´anni di indipendenza dell´India, Amartya Sen non si è fermato al suo travolgente successo economico, ma si è chiesto se questo non sia stato pagato con una eccessiva perdita dei valori di apertura e di solidarietà che avevano non solo connotato la politica indiana al suo interno, ma le avevano attribuito forza e prestigio nei rapporti internazionali. Nel costruire l´agenda della nostra politica interna si sta correndo lo stesso rischio. Il "discorso sui valori" è poco più che retorica o scappellate di maniera. Manca una riflessione rinnovata sui principi costituzionali, è assente una visione prospettica di libertà e diritti. In questo vuoto prospera la tesi di chi dice che una serie di questioni non sono né di destra, né di sinistra: un alibi perfetto per chi, per debolezza politica e culturale, non si accorge o non vuole accorgersi che la destra sta di nuovo imponendo l´agenda politica, come accadde tra il 2000 e il 2001, anni che prepararono la sconfitta elettorale del centrosinistra.
Le stesse proclamazioni sui temi "eticamente sensibili" descrivono piuttosto una situazione del Partito democratico ora ambigua, ora inquietante, con rimozioni e vuoti di memoria, incapacità di riflettere sul senso laico dell´agire pubblico. Tornano qui, come problemi irrisolti, la vocazione maggioritaria e l´omogeneità del nuovo soggetto politico. E se, guardando appena più a fondo, scoprissimo che, su questo terreno, l´omogeneità interna del Partito democratico appare davvero minima e che, invece, vi è una consonanza tra parti consistenti del partito nascente e l´aborrita sinistra radicale?

Repubblica 10.9.07
Il rapporto tra società e attività creativa: una riflessione sull'articolo di Scalfari
Cinema, Architettura e Valori
La crisi etica non condiziona la produzione artistica
di Paolo Desideri


Caro direttore, ho letto con grande interesse le riflessioni di Scalfari sul cinema italiano e sui motivi della sua crisi. Un interesse amplificato dalla mia attività di architetto progettista che si confronta quotidianamente con l´attività creativa.
Dico subito di concordare con la sua tesi. Non è la mancanza di valori collettivi a determinare, in certe fasi storiche, la crisi della produzione artistica. Il cinema, ma più in generale l´arte ed ogni disciplina creativa, dalla pittura alla letteratura, non hanno nei valori un loro necessario brodo di coltura. Anche nel campo dell´architettura le considerazioni di Scalfari trovano una puntuale conferma. L´architettura di Roma imperiale, ad esempio, è grandissima anche se spesso gronda di sangue. Ed il progetto della cupola di S. Pietro fu elaborato da Michelangelo negli anni del pontificato di Paolo IV, il papa cioè che codificò l´uso della tortura come pratica ufficiale dell´Inquisizione, che istituì i ghetti per la popolazione ebraica, ed il cui cadavere fu sepolto nottetempo e sottratto alla popolazione romana inferocita.
Ma anche in anni assai più recenti dobbiamo definitivamente accettare il fatto che l´architettura razionalista italiana, da Libera a Terragni a Piacentini, è stata anzitutto architettura commissionata dal fascismo per celebrare il fascismo: ma questo nulla toglie alla sua grandezza metafisica.
Dunque, anche dal il mio osservatorio, non c´è alcun concreto rapporto tra qualità del prodotto progettuale e valori sottesi: come suggerisce Scalfari vale allora la pena di fare qualche riflessione sul linguaggio, sul "format" o, come piace dire a noi architetti, sulla forma.
Di tutte le variabili che un progetto di architettura deve integrare, la forma è certamente, io credo, la più importante. Un´importanza strategica cresciuta nel tempo, che oggi si trova ad assumere un ruolo decisivo proprio nella gestione di quel sistema complesso che è ogni progetto di architettura e che vede aumentare sempre più le variabili da sottoporre a controllo. Una "filiera" di problemi che non ammette dimenticanze, se puntiamo alla qualità. I materiali, le tecniche costruttive, le strutture resistenti; ed ancora gli aspetti riguardanti il fire engineering, la sicurezza, le condizioni imposte dalla normativa per le utenze deboli; le tecnologie innovative della bioclimatica piuttosto che dell´ergonomia, dell´illuminamento artificiale e del daylighting e via elencando. Poi, ovviamente, le questioni che da sempre caratterizzano l´architettura, come la sua funzionalità, la sua resistenza, i rapporti con il contesto e la storia.
Lavorare nella complessità, allora, vuol dire riuscire a governare la continua interazione tra tutte le variabili del sistema, attraverso la forma. Non esiste in un sistema complesso alcuna invariante. Non sfugge a questa condizione nemmeno la forma che non ammette più alcuna legittimazione aprioristica, che non può invocare alcuna autorità poetica al di fuori del sistema stesso. Nei sistemi complessi, al contrario, la forma risulta la principale risorsa se è in grado di garantire creativamente un miracoloso equilibrio delle tante variabili in gioco: una sorta di responsabilità etica che la forma deve assumersi nei confronti del sistema complessivo.
Uno slittamento dell´orizzonte poetico dentro cui muove il progetto di architettura contemporaneo, che riconsegna alla capacità personale, alla biografia, all´ascolto, alla sfera creativa, la capacità di sopravvivenza nelle condizioni estreme prodotte dalla complessità: nella certezza che in questi casi qualsiasi vera soluzione non è mai di tipo tecnologico, ma sempre di tipo morfologico.

Corriere della Sera 10.9.07
Delusi dal governo 68 italiani su cento


Governo, delusi due italiani su tre
Gradimento al minimo dopo la risalita della primavera scorsa: no dal 68%. Da giugno persi 11 punti

L'insoddisfazione per l'operato del governo Prodi si va accrescendo significativamente in svariati settori della popolazione. Ciò costituisce per l'esecutivo un ulteriore problema in un periodo già tormentato, soprattutto per l'approssimarsi della Finanziaria e delle decisioni sulla politica fiscale: è questo il tema ritenuto oggi dai cittadini il più urgente — ancor più della criminalità — da affrontare da parte del governo. Ma esso è, al tempo stesso, fonte delle fratture maggiori nell'opinione pubblica, divisa tra la richiesta di diminuzione delle tasse e quella di una più accentuata redistribuzione sociale. Ma insoddisfatta da entrambi i punti di vista.
L'elettorato ha infatti espresso, per tutto il primo semestre 2007, una maggioranza di orientamenti negativi sull'operato del governo. Con andamenti, però, alterni. Una volta «digerita » la Finanziaria 2006 (che aveva provocato una drastica diminuzione dei giudizi favorevoli), si è assistito, tra metà febbraio e metà maggio, ad un relativo recupero di consensi e ad una corrispondente contrazione delle opinioni sfavorevoli all'esecutivo. A giugno, tuttavia, il trend pareva essersi nuovamente invertito, il giudizio si era ulteriormente aggravato e i consensi drasticamente ridotti, sino a toccare il 30%, il livello più baso dalla costituzione del governo Prodi. Per la maggior parte, tuttavia, la nuova sfiducia emersa non si era convogliata verso un atteggiamento completamente negativo, limitandosi — da parte del 13% dell'elettorato — ad una generica sospensione del giudizio.
Dopo il — e forse anche a seguito del — dibattito estivo (denso di buoni propositi, ma ritenuto carente di iniziative concrete), anche questi giudizi si sono tuttavia diretti perlopiù verso un orientamento drasticamente sfavorevole, tanto che oggi due italiani su tre si pronunciano criticamente nei confronti dell'esecutivo e solo il 27% esprime un parere positivo. In misura minore, ma assai significativa, ciò accade anche nell'elettorato dei partiti della maggioranza: il 31% dei votanti per il centrosinistra è critico verso il Professore e un altro 4% dichiara di non avere opinione al riguardo. Il dissenso è presente, per motivi diversi, ma circa nella stessa intensità, sia nell'area di centrosinistra, sia in quella di sinistra tout-court. Anche la porzione di elettorato non attribuibile a nessuno schieramento si esprime negativamente: il 76% di chi è indeciso su cosa votare è comunque critico nei confronti dell'esecutivo. Il malumore, comunque presente in modo rilevate in tutte le categorie sociali, è più accentuato tra i giovani, tra le donne (specie le casalinghe) e tra chi possiede un titolo di studio meno elevato.
L'origine di tutto questo scontento sta soprattutto nell'incapacità del governo di «concludere le cose» (così ha detto un intervistato): vengono citati decine di esempi di mancata realizzazione di questo o quell'impegno, di questo o quel progetto, di questa o quella promessa. Le critiche provengono da destra, dal centro e, come si è detto, anche dalla sinistra: ciò che indica come buona parte di questo stato di cose — e della difficoltà del governo ad operare — sia imputabile al sistema elettorale vigente e alla conseguente situazione in Parlamento. Ma, ancora una volta, si lamenta l'incapacità e la riottosità da parte dell'esecutivo nel dar vita celermente ad una riforma al riguardo.
Tutto ciò non ha necessariamente conseguenze immediate sulle intenzioni di voto. È vero che i consensi virtuali per il centrosinistra vanno progressivamente diminuendo, ma è vero anche che buona parte degli elettori dei partiti di governo, anche di quelli scontenti, dichiara di non avere comunque per ora l'intenzione di votare per il centrodestra.
Questo stato dell'opinione pubblica lascia tuttavia, come si è visto anche in questi giorni, sempre più spazio a spinte e suggestioni di carattere qualunquistico e talvolta populistico, legate alle consuete tematiche dell'antipolitica. Con esiti imprevedibili.
Il governo ha certo nei prossimi mesi la possibilità di mutare l'orientamento dell'opinione pubblica: ma per farlo dovrà necessariamente dar vita a provvedimenti concreti e percepiti dagli elettori. Un compito tutt'altro che facile.

Corriere della Sera 10.9.07
Umberto Veronesi su Ratzinger


Sono sorpreso per le parole di Ratzinger. La scienza cerca la verità e si basa sul rispetto di valori etici comuni molto forti
«La scienza non minaccia l'uomo. Una bimba nata oggi vivrà 103 anni»
L'ex ministro: dagli embrioni chimera avremo staminali senza problemi etici
La scoperta delle staminali è la più importante rivoluzione della medicina dopo quella del Dna. Si potrà intervenire per bloccare Parkinson, Alzheimer, diabete

MILANO — «Sono addolorato per quanto ha affermato il Papa sulla scienza. Ratzinger apparentemente si è contraddetto: non tanto tempo fa si era espresso in termini diversi. Aveva detto che la scienza ha origine divina e quindi va rispettata e si era mostrato favorevole al nucleare e agli organismi geneticamente modificati per risolvere i problemi dei Paesi più poveri, in via di sviluppo. Oggi invece parla di possibile minaccia per l'uomo da parte degli scienziati senza Dio. Da un'investitura divina a un distinguo pericoloso: uno scienziato musulmano, induista, buddista o ateo rappresentano forse una minaccia? E quale Dio consacra come buoni studi e ricerche? In realtà la scienza cerca la verità e si basa sul rispetto di valori etici comuni molto forti: a partire dall'universalismo delle scoperte e dagli obiettivi che sono sempre nell'ottica di un progresso della civiltà in senso benefico. Sono quindi sorpreso e addolorato per questa affermazione del Papa... Rischiamo di tornare all'epoca di Galileo Galilei». Umberto Veronesi replica, da scienziato, alle dichiarazioni austriache di Benedetto XVI. E non nasconde una certa sorpresa sull'ultima che indica in «una scienza senza Dio una minaccia per l'umanità».
Forse Papa Ratzinger si riferiva agli embrioni-chimera approvati in Gran Bretagna per fini terapeutici?
«In realtà è un ulteriore passo avanti nell'ottica di evitare rischi di clonazioni a fini riproduttivi. E' lo sviluppo della soluzione che aveva proposto la commissione da me insediata nel 2000 quando ero ministro della Sanità. La tecnica di trasferimento nucleare per produrre cellule staminali autologhe (Tnsa). E se allora la proposta di quella commissione, a cui avevano preso parte diversi scienziati cattolici, non fu nemmeno presa in considerazione dal governo successivo oggi torna di attualità. Qual è il problema? Se si prende un ovulo di donna, lo si svuota del patrimonio genetico e vi si inserisce del Dna del paziente si cominciano a creare staminali embrionali (ma il processo viene fermato all'inizio e non si crea un embrione) terapeutiche per il paziente stesso. Proposta congelata dal terrore che qualche genetista pazzoide potesse portare avanti lo sviluppo del processo fino alla clonazione umana vera e propria. Questo timore (perché finora l'etica della scienza non ha mai portato a un clone umano) viene annullato del tutto della tecnica approvata dagli inglesi: usando un uovo di mucca o di pecora e inserendo in esso il Dna del paziente si arriva alle staminali senza alcun rischio di clonare a fini riproduttivi. E' la Natura stessa che farebbe abortire un eventuale sviluppo. Minotauri, centauri, sirene sono frutto della mitologia. In Natura sarebbero destinati ad abortire. Quindi una via che garantisce anche dall'ipotesi del "genetista pazzo". E una garanzia di riuscita: perché le cellule staminali sono autologhe, della persona stessa. Senza i rischi di fallimento collegati al rigetto».
Ma quali vantaggi porterebbe?
«La scoperta delle cellule staminali rappresenta una rivoluzione della medicina. La più importante dopo quella del Dna. Avere una "banca" di staminali proprie vuol dire intervenire per bloccare Parkinson, Alzheimer, diabete e in genere tutte le patologie degenerative ormai vero problema di un'umanità destinata a una vita ultra centenaria».
E' scritto nel patrimonio genetico di ognuno: la vita media è di 120 anni. E' questa la meta a cui si tende?
«Sì, ma già la scienza e il progresso hanno raggiunto un importante traguardo. Secondo le ultime proiezioni (basate anche sull'accelerazione scientifica che si è avuta da quando si conosce la mappa del genoma umano,
ndr), una bambina che nasce oggi in Germania o in Italia campa fino a 103 anni e un bambino fino a 97. E si parla di aspettativa di vita media. Un balzo in avanti rispetto a quanto previsto fino a poco tempo fa. Adesso bisogna fare in modo che questi anni in più siano tutti di benessere e ottima qualità. Quindi la scienza ha il dovere, sconfitte le malattie acute, di prevenire o evitare quelle degenerative, disabilitanti».
Ratzinger in Austria ha parlato anche di fine della vita, di eutanasia e di rischio di pressioni sui malati e sugli anziani...
«Ecco, quando il Papa parla di pressioni su anziani e malati riconosce il problema sociale. Un passo avanti, prima l'opposizione era di principio, teologica: solo Dio può decidere. Socialmente il rischio di una pressione esiste, ma un'azione di questo tipo si configura come omicidio. L'eutanasia invece è una richiesta volontaria, motivata, ripetuta (ed esente da pressioni) da parte di un malato terminale. Nei Paesi dove l'eutanasia è legale tale richiesta deve passare il vaglio di un'apposita Commissione. La legge olandese in proposito è molto rigida, tant'è che soltanto un terzo delle richieste arrivano al compimento: infatti l'iter è così rigoroso che i due terzi delle domande non vengono soddisfatte, o perché non sono riconosciute valide o addirittura perché i malati muoiono prima di ricevere il via libera. E' un tema complesso che va dibattuto a fondo. Comunque io ritengo fondamentale rispettare le volontà autonome del malato, quando le manifesta più volte lucidamente. Cioè quando è in grado di intendere e di volere».
In altre parole rispetto del testamento biologico?
«Sì e non occorre una legge, anche se sarebbe auspicabile, perché ogni medico deve attenersi alla Convenzione di Oviedo e rispettare la volontà del malato. Quindi è sufficiente che le proprie volontà siano, come un testamento, affidate a un notaio perché vi sia l'obbligo di rispettarle. E come per un testamento ereditario possono essere cambiate continuamente. Valgono le ultime».
No all'eutanasia e no all'aborto. Anche questo ha ribadito il Papa...
«Il problema è che la Chiesa non vuole l'aborto ma neanche la prevenzione. No al preservativo, no alla pillola, no all'educazione nelle scuole su come non rimanere incinta. Raccomandare l'astinenza sessuale oggi è irrealistico, considerato anche il fatto che perfino la masturbazione è peccato. Puntare sulla prevenzione già sarebbe un importante passo avanti».
A proposito di prevenzione, il Vaticano è contrario anche alla diagnosi preimpianto in caso di fecondazione artificiale. Aleggia il rischio dell'eugenetica, della selezione dei nascituri...
«Negli Stati Uniti attualmente viene richiesta la diagnosi preimpianto anche in caso di familiarità genetica per il tumore al seno. Molte donne chiedono di non avere figlie con le mutazioni genetiche Brca-1 e Brca-2, che indicano una predisposizione al cancro del seno. Desiderare figli sani non è un peccato se la scienza ti offre la soluzione. Io questo lo trovo giusto, soprattutto quando la malattia è sicuro che si manifesti (per esempio la talassemia, ndr)».
Comunque in Italia la legge 40 impedisce la diagnosi preimpianto. Quindi non c'è questa possibilità per le future mamme...
«Sì ma poi ammette l'aborto terapeutico. La legge 40 è una legge imperfetta. Sarebbe stato meglio allora vietare del tutto la fecondazione artificiale. Con la legge attuale non si elimina il rischio degli embrioni sovranumerari e in più si mette a rischio la salute della donna con i parti plurigemellari. E la salute degli embrioni stessi, perché spesso uno dei tre impiantati è abortito per favorire lo sviluppo degli altri due. Ecco perché si trovano escamotage per salvaguardare la salute soprattutto delle neo-mamme giovani. In realtà, per evitare il far west di cui tanto si parlava sarebbe stato meglio lasciare il tutto alla discrezione dei medici specialisti affinché si operasse caso per caso. Una legge da modificare al più presto. Anche perché la fertilità è un traguardo fondamentale per ogni essere umano e la scienza lavora in questa direzione».

Corriere della Sera 10.9.07
Il friulano in classe
Studiare la propria «lingua» è un diritto sacrosanto
di Tullio De Mauro


Il dibattito sollevato in questi giorni dalla legge per la tutela della lingua friulana presentata dall'assessore regionale all'Istruzione, Roberto Antonaz (di Rifondazione comunista) mi ha riportato alla mente una vicenda ormai lontana. Che, però, vale la pena raccontare per comprendere l'importanza della questione. Nel 1971 due deputati, Mario Lizzero, «Andrea» come partigiano, udinese e pugnace comunista, e Francesco Compagna, vecchio amico per me, repubblicano, piombarono a casa mia chiedendomi se accettavo di dirigere una indagine conoscitiva del Servizio Studi della Camera sullo stato delle minoranze linguistiche in Italia. Ero sorpreso. Mi spiegarono che, anche se non me ne rendevo conto, un mio libro di anni prima era l'unico in cui si parlasse della questione. E che, comunque, bisognava finalmente attuare l'art. 6 della Costituzione sulla tutela delle minoranze linguistiche. Accettai. Cominciò una storia già essa travagliata, dovette intervenire Sandro Pertini, presidente della Camera, a difendere, contro il governo dell'epoca, il diritto del Parlamento a promuovere indagini conoscitive su questa e ogni altra materia. L'indagine si concluse nel 1974, ma per vario tempo restò a dormire.
Da varie parti, le dirigenze centrali dei partiti erano ostili anche alla sola idea di conoscere lo stato delle cose. C'era una situazione paradossale. Localmente, dai comuni albanesi o neogreci alle aree slovene o friulane, politici del luogo e, debbo aggiungere subito, la Chiesa, erano schierate per destare o ridestare le tradizioni minoritarie. Le dirigenze nazionali erano timorose, anzi apertamente ostili, da Aldo Moro al gruppo dirigente del Pci.
Anche localmente le cose erano turbolente. L'autorevole gruppo dei parlamentari comunisti sardi si ribellava all'idea di promuovere la tutela del sardo: questo, dicevano, avrebbe «ghettizzato» l'Isola. Anche in Friuli non tutto era rose e fiori. La buona borghesia non condivideva l'impegno dei deputati e della Chiesa. Lizzero, nel 1974, mi trascinò a cercare di spiegare che le minoranze non erano il diavolo. Nella sala successe un pandemonio. Poi, col terremoto, le cose cambiarono e i friulani riscoprirono l'orgoglio, anche linguistico, per la loro cultura. Anche in Sardegna lentamente le cose maturavano. Perfino nel Pci. Nel 1977 o 1978 Giovanni Berlinguer mi propose di aprire un convegno a Sassari sul sardo e le lingue di minoranza. Sopravvissi.
I dubbi però restavano. Intanto, finalmente, l'indagine conoscitiva venne pubblicata, con una sintesi affidata a me e a Gianbattista Pellegrini. Che esistessero in Italia minoranze linguistiche era difficile da negare. Ma sul piano legislativo si segnava il passo. Lizzero e Chiarante ottennero che la segreteria del Partito comunista mi ascoltasse. Entrai con molta emozione nella sala della riunione. Non ero comunista, ma avevo un rispetto profondo — e lo conservo — per quel che il Partito comunista sapeva essere, ma questo è altro discorso. Fui interrogato a lungo, con curiosità, forse con interesse. Estraneo al Partito, non ho mai saputo che esito ebbe la riunione. Certo è che poco tempo dopo senatori e deputati comunisti furono autorizzati a predisporre un disegno di legge in materia, su cui si impegnarono in fasi successive Lizzero, sempre, Beppe Chiarante, Marino Raicich, poi indipendenti e socialisti come Silvana Schiavi Facchin e Loris Fortuna.
Ma l'ostilità diffusa permaneva. Un buon testo di legge approvato dalla Camera nel 1989 venne insabbiato nel passaggio al Senato. Dopo l'approvazione si scatenò una violenta campagna di stampa guidata da un gruppo di storici torinesi e napoletani e riecheggiata largamente: la tutela delle minoranze fu presentata come una imposizione dei «dialetti». Ovviamente non era così, oltre tutto la legge non imponeva niente, ma solo apriva la possibilità, a chi lo richiedesse, di introdurre nel suo curricolo scolastico lo studio di un'ora di una delle lingue che Consigli regionali e Comuni avessero dichiarate degne di essere «lingua minoritaria», sulla base di pareri degli specialisti. Sabino Cassese calcolò all'epoca che sarebbero stati necessari parecchi anni, sei o sette, stante quella legge, tra la richiesta di una congrua maggioranza di genitori perché nella scuola dei figli si aprisse quella possibilità e la sua realizzazione.
Mentre a Roma si discuteva, la Comunità, poi Unione Europea mandava severi richiami perché anche l'Italia, come i restanti Stati, si adeguasse ai principi di tutela del diritto umano di parlare e studiare la propria lingua, anche se minoritaria. Di legislatura in legislatura si andò avanti tergiversando, finché nel 1999, cinquant'anni dopo la Costituzione, una legge dal testo non brillante fece un primo passo in questa direzione. Quella verso cui, dopo un altro decennio, accenna a muoversi la Regione Friuli.

Corriere della Sera 10.9.07
Ozpetek: «Mai un voto agli Italiani» Ma in Usa e in Francia sono piaciuti


VENEZIA — A mezzogiorno al Lido sono già scappati tutti. La 64ma Mostra è archiviata e sul faldone ci sarà scritto: anno nero per gli italiani. Non sarà il primo né l'ultimo, Bertolucci ricordava che il tiro al bersaglio sui nostri è lo sport preferito a Venezia, ci sono memorie sadiche sulle umiliazioni subite anche da Visconti e Fellini, sul debutto di Patroni Griffi (Il mare), su Pasolini; Lucherini cita la Milo detta Canina Canini, non Vanina Vanini.
Ozpetek, che si considera dei nostri, cerca di dare un happy end al lavoro discusso della giuria. «Abbiamo discusso, mai litigato, anzi si è formato tra noi un patto di complice amicizia». Sul telefonino ora ci sono i nomi di Zhang (Yimou), Jane (Campion), Catherine (Breillat), Paul (Verhoeven) e gli altri. Sacrificato Paul Higgis con In the valley of Elah?
«Non è vero, il film camminerà con le sue gambe, è un po' finto». Ma Brad Pitt Jesse James si è stupito pure lui di aver vinto. «Eppure a noi ci ha fatto davvero paura». Discussione no stop di ore per l'ex aequo tra Kechiche, il regista cous cous che non ha nascosto la propria delusione e poi si è negato per tutta la serata, e Haynes, cantore di Dylan. Ang Lee era Leone cinque a due, Pitt pure «ma Tommy Lee Jones ci aveva fatto piangere».
Le lacrime amare sono però per il cinema italiano: i tre film in concorso non sono mai stati presi in considerazione dai giurati. «Mai, nessuno li ha votati. Ma smettiamola di parlar male di noi stessi, i francesi o i tedeschi non lo farebbero, è uno sport masochista nostro e non riguarda solo il cinema». Il film di Franchi ha avuto facili derisioni in patria, di cui si sentono vittime anche gli psicanalisti fin da quando la Vitti disse che le facevano male i capelli in Deserto rosso; ottime critiche dagli insospettabili americani di Variety e Screen e in Francia, dove uscirà presto, l'hanno paragonato ad Antonioni. Porporati e Marra (quest'ultimo portato da Rai Cinema si dice senza entusiasmo) con le loro storie di mafia e ordinaria corruzione sono invece senza rete di protezione.
Müller li ha scelti costruendo un'operazione di tendenza non riuscita e i due giovani sono arrivati come agnelli sacrificali di fronte a media inferociti per le promesse del marketing. «Mi sembra strano che abbiano scartato autori come Mazzacurati e Soldini», dice Giuseppe Piccioni. Soldini per la verità va a Toronto e alla Festa di Roma, così come La terza madre di Argento. C'è anche un Pupi Avati pronto al via, ma il regista preferisce saltare un giro di festival.
Il curioso è che i film tricolori altrove sono stati festeggiati: il giallo malinconico La ragazza del lago di Molajoli col grande Servillo era alla Settimana della Critica: un film di Procacci Fandango da anni non va più in gara al Lido. La Guzzanti l'hanno presa le Giornate degli autori per muovere le acque, un Zapatero 2; le stesse Giornate hanno avuto la selezione giusta con l'originale e intelligente commedia di Zanasi Non pensarci e il ben riuscito Valzer di Maira, girato in piano sequenza con una Solarino in gran forma (ha preso il premio Wella) e Maurizio Micheli drammatico. In Orizzonti infine il curioso Il passaggio della linea di Marcello.

Corriere della Sera Roma 10.9.07
Il gioco dei numeri (e della politica)
di Paolo Fallai


Ci stavamo domandando come facesse il sindaco Veltroni a calcolare in due milioni e mezzo i partecipanti alla Notte bianca, quando un suo fiero oppositore, il coordinatore di Forza Italia Francesco Giro ha diffuso una dichiarazione sdegnata: macché, erano solo un milione e mezzo. Evidentemente, per lui, è una cifra fallimentare. Noi, molto più prudentemente, non abbiamo alcuna idea di quanta gente fosse per strada. Sappiamo, fidandoci degli occhi dei nostri cronisti, che erano in tanti. E sappiamo anche, fidandoci di numeri poco opinabili, come ricoveri, interventi delle forze dell'ordine e denunce, che è stata una festa lieta e senza incidenti. Come si concilia questo fatto con la Roma che da un po' di tempo viene dipinta come la capitale della violenza, una città in mano alla criminalità e al degrado?
Ora, sarà anche ottimista Veltroni, a coinvolgere nei grandi numeri dell'evento molti turisti e praticamente tutti gli abitanti di Roma (che sono poco più di 2 milioni e 700 mila), e resta un mistero la capacità di Andrea Mondello di calcolare all'impronta i 135 milioni di giro d'affari, ma certo sarebbe il caso di mettersi d'accordo su come questa città viene raccontata. È vero che la dialettica politica ha poco a che vedere con la realtà, ma anche il grottesco deve trovare i suoi limiti. Con il rischio, grave, che a forza di gridare «al lupo» per emergenze inesistenti si rischia di sottovalutare quelle che invece stanno guadagnando terreno sotto i nostri occhi.
L'urbanizzazione delle periferie, dove infrastrutture, servizi, offerta culturale, non riescono a tenere il passo degli insediamenti commerciali, rischia di consegnarci grandi incubatori di malessere urbano. O il dramma degli alloggi, con la pressione degli sfratti, prezzi di vendita ancora altissimi e un mercato parallelo degli affitti che alimenta un sommerso di soprusi. E via così, elencando, solo per titoli, in un mare pescosissimo di disagi.
In realtà la nuova responsabilità politica di Veltroni nel nascente Partito democratico, si annuncia di per sé come una spezia in grado di cambiare sapore a ogni cosa riguardi la sua attività amministrativa e la città. Così ogni iniziativa del sindaco diventa «propaganda per il Pd».
E al tempo stesso è diventata una moda banale di colpire Veltroni attaccando Roma. Che c'era prima e continuerà ad esserci anche dopo la fine del suo mandato e meriterebbe un po' più di rispetto. Per non finire nel siparietto grottesco di valutare la nostra città sulla base dell'ultima polemichetta o sull'ultimo titolo pubblicato da un giornale straniero. Positivo o negativo, per il nostro provincialismo, non fa molta differenza.

iLiberazione 9.9.07
Viaggio nella sinistra che verrà. Intervista al leader di Sinistra democratica
Mussi: «Questo capitalismo è incompatibile con il Pianeta»
di Carla Ravaioli


Fabio Mussi:«Per l'ambiente serve un nuovo equilibrio tra economia e società»
«Il nodo della questione è tra la difesa del primo compromesso, il welfare, e la necessità di un secondo compromesso che integri la questione sociale con la questione dei limiti dello sviluppo»

In agosto il conto (molto approssimato per difetto) dei morti da effetto-serra è: 3700 nel Sud Est Asiatico e 90 in Sudan causa alluvioni, 51 per tifoni in Centro America, 30 da ipercalore nel Mediterraneo. I profughi sempre da alluvioni in Asia superano i 50 milioni. I politici di tutto il mondo nel frattempo sono impegnati a promuovere grandi opere, crescenti velocità, raddoppi del turismo, frenetiche trivellazioni in cerca dell'ultimo petrolio, spasmodici tentativi di sostituirlo per poter continuare a crescere.
Questa sinistra italiana che si sta federando con la prospettiva di altre ipotesi, altri percorsi politici, da quelli praticati oggi, che idee ha in fatto di ambiente? Quali scelte di governo ritiene necessarie per tentare di prevenire e possibilmente bloccare gli scenari terrificanti che si prospettano? Ne ho discusso con i leader dei principali soggetti che compongono la nuova "alleanza": Fabio Mussi, Aldo Tortorella, Alfonso Pecoraro Scanio, Franco Giordano.
Avrei voluto che l'intero schieramento fosse rappresentato, ma non è stato possibile. Non tutti, a sinistra, sembrano ancora convinti che il rapporto capitale-lavoro non esaurisce la storia, che un nuovo capitolo è oggi aperto tra capitale e natura, e che proprio alle sinistre tocca scriverlo.
Oggi la prima intervista. Abbiamo iniziato da Fabio Mussi leader di Sinistra democratica.

Tu hai più volte pubblicamente detto: "Il capitalismo è incompatibile con il Pianeta Terra". E questo ci porta immediatamente nel cuore del problema da affrontare: il governo dell'ambiente.
Nella forma attuale, il capitalismo è incompatibile con il Pianeta. Come noto, il capitalismo storicamente ha avuto forme diverse. Quello delle origini era un sistema selvaggio, volto a riprodurre forza lavoro a costi minimi, sostanzialmente in assenza di istituzioni democratiche, un sistema di pura valorizzazione del capitale. Poi sotto la spinta delle lotte operaie, e anche del pensiero liberaldemocratico, si è andato stipulando quel particolare compromesso che è stato il welfare state . Mutamenti verificatisi sotto la spinta di bisogni sociali incomprimibili…

Tu hai più volte pubblicamente detto: "Il capitalismo è incompatibile con il Pianeta Terra". E questo ci porta immediatamente nel cuore del problema da affrontare: il governo dell'ambiente.
Nella forma attuale, il capitalismo è incompatibile con il Pianeta. Come noto, il capitalismo storicamente ha avuto forme diverse. Quello delle origini era un sistema selvaggio, volto a riprodurre forza lavoro a costi minimi, sostanzialmente in assenza di istituzioni democratiche, un sistema di pura valorizzazione del capitale. Poi sotto la spinta delle lotte operaie, e anche del pensiero liberaldemocratico, si è andato stipulando quel particolare compromesso che è stato il welfare state . Mutamenti verificatisi sotto la spinta di bisogni sociali incomprimibili…

Ma la forma del capitale è l'accumulazione, lo è sempre stata. Senza accumulazione il capitale non è. E, come ben sai, è l'accumulazione quella che squilibra l'ambiente.
La consapevolezza che accanto al prelievo di plusvalore dal lavoro, esisteva un'altra questione, quella del prelievo di valore dall'ambiente, nasce sulla fine dell'Ottocento. L' impatto del sistema produttivo sugli ecosistemi andava aumentando, ma non c'è una data di questa percezione, anche se qualcuno l'ha avuta precocemente. Ma il fatto che lo sviluppo potesse entrare in conflitto con il secondo principio della termodinamica e produrre crescente entropia, ampiamente trattato dai Georgescu Roegen, i Commoner, i Bateson, i Prigogine, è stato recepito dalla coscienza poltica recentissimamente. Il primo rapporto sul tema, firmato dalla Bruntland nell'87, fu ampiamente contestato e disatteso. Il riconoscimento del problema da parte delle autorità politiche è recentissimo, si colloca dopo il quarto rapporto Ipcc sui cambiamenti climatici, che è di quest'anno.

Forse è accaduto un po' prima, con il rapporto Stern, che ha fatto i conti della crisi ecologica, e segnalato il rischio di caduta del Pil…
Sì, quando s'è cominciato a calcolare i costi. Problema serio d'altronde.

Ma torniamo un momento su quella componente essenziale del capitale che è l'accumulazione, che pertanto non ha una data di nascita. La parola crescita, da tutti ossessivamente ripetuta e invocata, è la prova di questa essenzialità: si deve produrre sempre di più, non importa che cosa e perché, purché si accumuli plusvalore. Non sta proprio in questo quell'incompatibilità con un pianeta di dimensioni ovviamente "finite", che tu hai denunciato, cosa che io ho molto apprezzato e applaudito?
Indubbiamente lo sviluppo costante di produzione di merci a mezzo merci, che consuma energia e materia, ha un limite naturale. Ma il limite non è soltanto della quantità "finita" di materia e energia, ma è dei processi entropici che si creano consumando materia e energia, per cui si rischia di cambiare la natura biochimica della biosfera prima di avere esaurito le risorse. E' il secondo principio della termodinamica. Quando l'economia sbatte la testa contro questo principio, se la rompe.

Insomma chi parla contro la crescita, ha le sue ragioni…
Figurati, io ho incominciato prestissimo a occuparmi di queste cose, addirittura nel '74 in una relazione a Frattocchie ho lanciato l'idea di decrescita… Ero un ragazzino, mi hanno guardato come un matto… Ma, attenzione. Non possiamo dimenticare che c'è chi di crescita non ne ha avuta per nulla, c'è una grossa parte del mondo che ha bisogno di sviluppo.

Certo. Ma siamo sicuri che questi popoli troverebbero il benessere percorrendo la nostra stessa strada, visto quello che sta succedendo? Tenendo conto poi del fatto che la crescita non ha affatto diminuito le disuguaglianze…
La soluzione esigerebbe una consapevolezza delle autorità politiche a livello istituzionale internazionale, e quindi una cooperazione mondiale… Ma ne siamo ancora molto distanti.

Ma, prima di questa concertazione, indubbiamente necessaria ma ancora di là da venire, tu ritieni utile programmare per i paesi poveri un futuro che riproduca la nostra realtà?
Questo no. Ma ne sono così lontani …

Non tutti però. In Cina, ad esempio, ci sono ancora milioni di poverissimi, ma ci sono anche molti ricchissimi, tra i più ricchi del mondo…
Vero. Ma a quei poverissimi, non solo cinesi, ma indiani, indonesiani, filippini, africani, ecc. ecc. a tutti questi dovrebbe essere fornito quanto è a disposizione dell'umanità in stock di informazione e tecnologie…

Perdonami, Fabio, qua io debbo rivolgerti una sentita obiezione. Premesso che ti apprezzo molto, innanzitutto perché sei l'unico politico ch'io conosca che è veramente informato su questa materia, che non è poco, poi perché riconosci che il capitalismo non è compatibile con l'equilibrio degli ecosistemi… Però mi pare che tu nutra un'eccessiva fiducia, come dire, nelle "magnifiche sorti e progressive"… Einstein - forse lo sai - diceva che i problemi non si risolvono con le idee di chi li ha creati. Ecco, data l'accelerazione e la vastità del guasto ambientale, data la magnitudine di un inquinamento multiforme, pervasivo, che non risparmia nulla, non so quanto le energie rinnovabili, e tutti i miracoli della tecnologia - cioè l'insistenza nella logica che ha creato il danno - rappresentino la soluzione.
La tecnologia da sola certo non risolve. Ma è sbagliato considerare nemica la tecnologia. La crescita di entropia oggi richiede un nuovo compromesso, su un terreno molto più complesso e avanzato di quello costituito dallo Stato sociale. Esso comporta infatti modelli sociali che puntino al risparmio energetico; da questi dipende un'idea diversa dell'economia e del mercato, e anche tecnologie più evolute coordinate a questa nuova idea. I problemi creati anche da un certo sviluppo tecnologico possono essere risolti con un salto: di modello sociale, economico, e di sistemi tecnologici.

Certo. Ma il guaio è che di salti non se ne vedono, e i programmi ambientali esistenti, pochi peraltro, puntano esclusivamente sulla tecnologia; e lo fanno al fine di sostenere crescita, Pil, quantità, cioè proprio ciò che Il pianeta non ce la fa a reggere. Mi è capitato sott'occhio un tuo articolo del 1988, nientemeno, pubblicato sull'Unità, in cui tu appunto parlavi di qualità. Non credi che, se vogliamo tentare di salvare il mondo, dobbiamo assumere proprio la qualità come categoria portante del nostro esistere?
Non c'è dubbio. Non solo io lo penso da tempo. Anche Berlinguer lo pensava, e lo disse con il suo famoso discorso sull'austerità, del '76, suscitando però reazioni duramente negative. In realtà era il primo ad aver capito che occorreva un nuovo equilibrio tra l'economico e il sociale.

Mi sto domandando come ciò che dici si possa tradurre in termini di governo. In che misura anche questo gruppo di sinistre che lavorano per unirsi, siano pronte a lavorare secondo questa logica. Ad esempio, commentando il "Documento di Orvieto" prodotto dall'Ars, tu hai scritto che il capitalismo è in crisi. Cosa che io sottoscrivo, e che d'altronde è convinzione di non pochi osservatori fortemente qualificati. Ma quanti la pensano così? Quanti sarebbero disposti a operare di conseguenza?
Quanti, non lo so. Ma anche a sinistra vedo molti ancora concentrati sui contenuti del vecchio compromesso socialdemocratico. Certo, ciò che s'è conquistato va difeso. Ma se non si produce il salto verso il nuovo compromesso, che parta dal problema dell'ambiente e ne consideri tutti gli aspetti, anche il vecchio non regge più.

Anche perché la separazione tra economia e società appare sempre più evidente. Il tempo in cui l'espansionismo capitalistico in qualche misura serviva anche gli interessi del lavoro sembra irrimediabilmente chiuso.
Non occorre essere marxisti per vedere il divario crescente tra Pil e indicatori dello sviluppo umano. C'è una crescita che provoca una riduzione anziché un rialzo di questi indicatori. Questo è il nodo della questione: tra la difesa del primo compromesso socialdemocratico, il welfare cioè, e la necessità di un secondo compromesso che integri la questione sociale con la questione dei limiti dello sviluppo. Questa è la vera impresa politica che ci aspetta: mettere insieme, integrare, due questioni che ancora pensiamo separatamente. Nei convegni della domenica l'ambiente in qualche modo è presente. Ma tutti gli altri giorni … Però va detto che qualcosa di positivo sta succedendo. Ad esempio in questo "Patto per il clima" di recente proposto dai Verdi, per la prima volta si mette in rapporto svalorizzazione dell'ambiente e svalorizzazione del lavoro. Perché, in quest'ultimo quarto di secolo s'è avuto un enorme aumento del lavoro dipendente salariato, contrariamente a quanto si è detto. La globalizzazione è una tendenza a comprare lavoro a prezzi orientali e vendere merci a prezzi occidentali. Sfruttamento del lavoro che è parallelo al crescente prelievo dalla natura. Oggi la questione lavoro e la questione ambiente possono essere messe in una nuova relazione.

Perfetto. Ma su quale base? Perché - permettimi - oggi molti sono impegnati alla ricerca di tecnologie che consentano di risparmiare energia e materie prime. E questo andrebbe benissimo. Solo che tutto ciò, per tutti, è visto come il mezzo per continuare a crescere. Se questo è il progetto politico, il mondo non può che andare a catafascio.
E' evidente che i paesi che sono cresciuti di più non possono che muoversi verso quelle che Prigogine chiama "strutture stazionarie" .

Dovrebbero. Ma io al momento non ne vedo traccia. Oggi secondo me c'è troppo di tutto, anche di cose buone, libri, musica, spettacoli, eventi, convegni, dibattiti, turismo…Tutte cose che anche loro consumano e inquinano, se non altro con i trasporti dei partecipanti… La maggior parte di quel che si produce è poi destinato a finire in discarica in brevissimo tempo, è programmato per durare sempre meno…
Stiamo cominciando a maneggiare la più grande sfida che l'umanità ha mai affrontato. E' una questione nuova, che richiede un enorme aumento di conoscenza e insieme di azione. Perché il problema dovrà risolversi con macroazioni di sistema e insieme con microazioni di miliardi di persone, che via via acquisiscano conoscenza del rischio e dei comportamenti necessari per affrontarlo.

Stiamo incominciando nel modo giusto? Io ho l'impressione che si tenda - quando lo si fa - a intervenire sulll'esistente. Mentre credo sarebbe necessaria una vera grande rivoluzione. Di tutt'altro tipo ovviamente dalle rivoluzioni che conosciamo, violente traumatiche cruente…
Si tratta di trovare nuovi modelli mentali. Di cambiare le coscienze. Ma anche di uso delle tecnologie.

Molto bene. E forse una seria politica ambientale incomincerebbe a trovare un qualche consenso tra la gente. Tu che ne pensi?
La cosa non è ancora così sicura. Può valere per quanti hanno percepito che sta succedendo qualcosa di enorme, ma fino a un dato punto…Quando s'incomincia a mettere in discussione il loro proprio modo di vita, temo che l'atteggiamento cambi.

Forse hai ragione. Ma io credo che ciò si debba anche al fatto che le sinistre hanno colpevolmente trascurato i condizionamenti esercitati, in pratica a partire dalla seconda metà del secolo scorso, dalla comunicazione di massa e in particolare dalla pubblicità. La pubblicità ha una parte importantissima nella fabbrica non solo del senso comune, ma dell'identità delle persone, in pratica riducendola al consumo.
La pubblicità è costruzione di senso comune, sì. E' la più potente agenzia culturale. Noi dovremmo riprendere una critica di questo linguaggio. Magari ricordando quanto diceva Adorno, che è stato mio maestro, che notava come in tedesco la parola avesse un doppio significato, di pubblicità come promozione commerciale ma anche come fatto pubblico, spirito pubblico. In tedesco le due cose coincidono, e lui diceva che in questa doppia valenza della parola c'è lo spirito del tempo: la promozione di merce diventa lo spirito pubblico. E noi abbiamo abbandonato le forme critiche mirate a una comunicazione sociale vera. Ci siamo dimenticati che la pubblicità non insegna solo a comperare cose, ma è soprattutto un formidabile sistema di induzione di valori.

Tu, capo di un governo di sinistra, che cosa faresti?
Il problema è che non c'è una sola cosa da fare. Ce ne sono montagne. Governare vuol dire innanzitutto trasmettere idee, valori, percezioni: che si può fare ad esempio con un provvedimento che ho proposto insieme a Calzolaio per una modifica del calcolo del Pil, che incorpori i costi ambientali nella valutazione economica; e anche fissando indicatori qualitativi (cosa che già l'Onu ha fatto); insomma cambiando i parametri della valutazione economica. E questa è la prima forma di critica al prevalere della dimensione quantitativa. Dopo di che occorre promuovere politiche di risparmio energetico, in cui poi rientra anche la minore produzione di rifiuti; perché energia e materia sono alla fine la stessa cosa…

Pensi che questi pezzi di sinistra che dovrebbero assemblarsi siano disponibili a un discorso di questo tipo? Tutti?
Be', se non c'è questo, non so di che parliamo.

Ma buona parte delle sinistre sono ancora fedeli allo sviluppismo…
Eh sì…Ma insomma, il mondo è ciò che accade. Io sono stato responsabile ambiente del Pci. E feci cose di qualche significato: come far votare contro il nucleare, prima di Chernobyl, far chiudere l'Acna di Cengio. ..E sempre tra furibonde opposizioni.

Io credo anche che bisognerebbe aprire al più presto un discorso mondiale su questo tema.
Indubbiamente. Perché mentre il capitalismo nazionale è cresciuto insieme alle istituzioni politiche nazionali, nulla del genere è accaduto con il capitalismo globale, che anzi è cresciuto mentre le istituzioni nazionali si indebolivano. Forse bisognerebbe fare qualcosa di simile al "Progetto Manhattan", quando si misero insieme tutti i migliori cervelli, tutti i fondi disponibili, per fare la bomba e chiudere la guerra. Oggi bisognerebbe fare la stessa cosa, questa volta per disinnescare la bomba ecologica.