giovedì 13 settembre 2007

l’Unità 13.9.07
«Gravi rischi dallo strappo della Fiom»
La priorità ora è il referendum. Dopo il voto la Cgil chiarirà fino in fondo quanto è accaduto
Epifani intervistato da Giampiero Rossi


ALLARME Ma coglie anche l’occasione per lanciare un avvertimento esplicito alla politica (e l’allusione ai partiti della sinistra radicale è evidente): «un passo indietro». Che, tradotto, suona come un monito diretto a Rifondazione: giù le mani dal sindacato.
Epifani, dunque nonostante le “turbolenze” interne, la consultazione ci sarà. Siete consapevoli che il sindacato sarà chiamato a un impegno gravoso nelle prossime settimane?
«Certo che ne siamo consapevoli, ma devo dire che davvero sono molto soddisfatto di questa decisione dei direttivi confederali unitari di dare il via libera a una consultazione democratica che è al tempo stesso uno straordinario processo di partecipazione per milioni di lavoratori e pensionati italiani. Al di là dei numeri - tre contrari e centinaia di favorevoli - alla riunione dei direttivi ho avvertito nitidamente un clima di determinazione, quasi di orgoglio per l’apertura di questa fase, la consapevolezza dell’unità tra di noi e dell’autonomia del sindacato. Ci misuriamo in una grande prova di democrazia in una fase delicata».
Però non si può far finta che non sia successo niente 24 ore prima di quel direttivo unitario. E, proprio a proposito di autonomia del sindacato, la decisione della Fiom di schierarsi contro l’accordo ha scatenato parte della politica. In particolare Rifondazione...
«Ecco, questa è in effetti una delle conseguenze di questo passaggio delicato della dialettica interna al sindacato. I credo che i partiti debbano giustamente avere tutto lo spazio possibile per condurre le proprie battaglie, ma penso sia interesse di tutte le forze politiche lasciare maturare autonomamente le scelte dei lavoratori e dei pensionati. Servirà anche a loro conoscere l’esito del voto per sentire qual è il giudizio sull’accordo di luglio e poi valutare quel che sarà meglio fare, come rispondere alle domande che arrivano dal paese. Quindi dico no a una politicizzazione di questa consultazione, c’è già in programma la manifestazione del 20 ottobre, però nessuno deve utilizzare il nostro referendum: le forze politiche devono fare un passo indietro quando al parola spetta ai lavoratori».
Ma tutto questo è stato comunque innescato da una vicenda interna al sindacato, anzi alla Cgil: come valuta, dunque lo strappo della Fiom?
«Era noto l’atteggiamento critico della Fiom, da sempre la dialettica tra la categoria dei metalmeccanici e la confederazione è caratterizzata da differenze anche marcate. Diciamo, quindi. che mi aspettavo dalla Fiom un profilo critico che poi si sarebbe dovuto affrontare. Ma c’è stata invece, per la prima volta, una scelta più forte, c’è stato uno strappo in più. E io giudico sbagliata la decisione della Fiom perché rischia di indebolire la prospettiva sindacale, dopo che tante strutture territoriali e di categoria hanno approvato l’accordo e alla vigilia di una grande consultazione».
E che cosa avrebbe dovuto fare Rinaldini, secondo lei?
«Sarebbe stato molto meglio avesse espresso un giudizio critico ma mantenendosi nel quadro confederale. Invece ha fatto un passo davvero azzardato che potrà avere conseguenze pesanti».
Per esempio?
«Per esempio la politicizzazione di una discussione che dovrebbe rimanere in ambito strettamente sindacale e l’uso strumentale che ne sta facendo la destra».
Ma a questo punto cosa succede nella Cgil. Che conseguenze avrà questa scelta della Fiom? Si ipotizza un congresso straordinario e c’è chi critica la scelta dell’ultimo congresso di procedere per tesi e non per mozioni...
«Andiamo con ordine. Per quanto riguarda il futuro, mi pare che qualcuno stia correndo un po’ troppo in avanti, adesso pensiamo al referendum, poi vedremo affronteremo le questioni interne nelle sedi che riterremo più opportune. E a proposito dell’ultimo congresso, invece, credo valga la pena ricordare il momento in cui si è tenuto: eravamo nella fase finale del governo di centro-destra, reduci da cinque anni di intensa battaglia sindacale e sociale. Si trattava quindi di un congresso unitario, pur nelle differenze di vedute che da sempre esistono nella Cgil, perché è normale trovare maggiore compattezza quando si lotta contro, mentre è più difficile quando si devono fare accordi. Questo lo racconta tutta la nostra storia, ogni accordo è stato accompagnato da una dialettica interna vivacissima. Oggi, semmai, vedo una dialettica più ristretta, poiché è preponderante l’accordo su quel protocollo, e la radicalizzazione della posizione di una sola parte del sindacato. Dopodiché dico anche che non viviamo sotto una campana di vetro, anch’io ho espresso i miei dubbi sul protocollo di luglio, però dobbiamo anche essere consapevoli della situazione in cui ci troviamo».
Ma c’è addirittura il rischio che si vada verso la formazione di un “quarto sindacato”, cioè la Fiom che va per conto suo?
«No, io non vedo affatto questo pericolo. davvero si sta correndo troppo in là. Ma di sicuro credo che dobbiamo recuperare un rapporto più normale con la Fiom e all’interno della Cgil e sarà una discussione che riprenderemo sicuramente quando sarà conclusa questa consultazione. E su questo insisto: non vorrei mai che la grande opportunità di questo referendum vada sprecato per effetto di battaglie interne o di strumentalizzazioni politiche. Perché questa è una sfida è un'occasione per cogliere gli umori, le richieste, i problemi del mondo del lavoro».
Il segretario della Fiom dice che però la consultazione cade in un clima difficile, di sfiducia generale. Lei è d’accordo?
«Sono d’accordo, sappiamo bene che nel paese si sta facendo strada un certo qualunquismo, l’istinto dell’antipolitica che fa dire “siete tutti uguali”. Ma credo anche che sia un motivo in più per raccogliere, con il referendum, questa sfida e recuperare il rapporto con i lavoratori e i pensionati. Anche per questo credo molto e ho condiviso sin dall’inizio l’idea di una consultazione generale e anche per questo, secondo me, la Fiom ha sbagliato».
Sarà importante una forte partecipazione. Avete in mente dei numeri?
«L’ultima volta che abbiamo indetto una consultazione analoga, nel 1995, parteciparono al voto 4 milioni e 400.000 lavoratori. Ora ci muoviamo in tempi più stretti e nel clima difficile che ho appena descritto. Speriamo comunque di riuscire fare ancora meglio di dodici anni fa, che oltre cinque milioni di lavoratori e pensionati partecipino al referendum. Quando indici un referendum deve mettere in conto i sì e i no. L'importante è che partecipi il maggior numero di persone. Noi sosterremo lealmente le ragioni del sì convinto. Credo che alla fine prevarrà una decisione positiva. E devo dire che ho colto nel clima dei direttivi unitari, in quell’orgoglio dell’autonomia del sindacato, un buon viatico per le prossime settimane».

l’Unità 13.9.07
Bertinotti: decide il referendum
Sullo strappo Fiom il leader di Rc: la parola ai lavoratori. «Il governo deve ridurre i ministri»
di Simone Collini


APPLAUSI e gente in piedi per Fausto Bertinotti alla Festa nazionale dell’Unità. Il presidente della Camera arriva al Parco Nord di Bologna e prima ancora che raggiunga la sala principale dei dibattiti viene intercettato dai giornalisti che gli domandano se sia
verosimile un’ipotesi di scissione della Fiom dalla Cgil, dopo la bocciatura del protocollo sul welfare da parte del sindacato dei metalmeccanici. "Queste sono proiezioni impossibili, fatte solo se non si conosce la storia della Fiom e della Cgil", risponde aggiungendo che comunque "non è la prima volta" che la Fiom vota in maniera contraria ad accordi confederali.
Poi comincia l’intervista con Antonio Padellaro e il tema del lavoro, della precarietà, dei morti sul lavoro torna a più riprese. Anche con toni critici, come quando Bertinotti attacca il presidente di Confindustria: "Montezemolo ha detto che la politica è diventata inutile, che non c’è più necessità di distinzione fra destra e sinistra perché le esigenze delle imprese devono comandare: io penso invece che non c’è una politica progressista se non si sconfigge e si contrasta questa idea".
Ma Bertinotti non si sottrae di fronte all’altra questione di cui da qualche giorno si discute sui giornali: l’ipotesi di una "riorganizzazione" del governo. Il presidente della Camera la prende un po’ alla lontana, sottolineando l’importanza della partecipazione soprattutto per le forze di sinistra, o il fatto che "la personalizzazione della politica porta male a noi", o che "un difetto della politica di oggi è che non esistono più le sedi delle direzioni collegiali", e che comunque "niente è più fastidioso dell’impressione che ci sia uno sgomitare per avere incarichi ministeriali, che è un male per tutti ma ancora peggio per la sinistra. perché ha l’orgoglio e l’ambizione di essere diversa dagli altri".
E’ sulla categoria di "collegialità" che fa perno Bertinotti per indicare quelle che secondo lui devono essere "le due priorità" da affrontare: "Riduzione del numero dei ministri e parità di uomini e donne nell’esecutivo". E spiega: "Oggi si ha l’impressione che ci sia un coro con troppe voci che vanno per conto loro e una direzione che fatica. Un governo snello introduce la collegialità, per forza di cose".
Gli applausi lo interrompono più volte, ma quello più forte e prolungato scatta quando Bertinotti difende la scelta di aver portato Rifondazione comunista al governo, per poi però aggiungere un paio di cose. La prima: "La questione non vale in termini assoluti. Il governo non è cioè il paradiso e l’opposizione l’inferno". La seconda, quella che suscita maggiormente l’entusiasmo della platea: "Non è giusto stare al governo se la tua politica di governo non è diversa da quella del governo che hai cacciato e che non vuoi far tornare". Vede questo rischio? chiede Padellaro. "Non sarei sincero se non dicessi che questo è il pericolo da scongiurare", e ancora giù applausi.
Non viene mai pronunciato esplicitamente né il tema della bocciatura della Fiom all’accordo sul welfare siglato da governo e sindacati né tutte le altre questioni che mettono in contrapposizione l’ala radicale dell’Unione e quella riformista. Dice però Bertinotti con parole assai simili a quelle utilizzate in questi passaggi dalle forze della sinistra radicale: "Dobbiamo ricostruire il consenso del nostro popolo per trovare il consenso degli italiani, o per lo meno della maggioranza degli italiani". Il referendum tra lavoratori e pensionati sull’accordo di luglio lo definisce "una grande occasione di democrazia partecipata", ma dice anche che l’esito che uscirà il 10 ottobre dalle urne "deve interessare anche la politica, anche il governo", e in un senso ben preciso: "Se anche prende la maggioranza, se anche ottiene il 70% o il 60% dei consensi, bisogna guardare anche al 30 o 40% che ha detto no, che si è mostrato insoddisfatto. Su questo terreno sento che c’è ancora molto da fare".
E parole simili a quelle utilizzate da esponenti della sinistra radicale tornano anche quando dice, senza voler affrontare lo specifico dell’appuntamento del 20 ottobre, che "se una manifestazione fosse contro il governo ci sarebbero contraddizioni, perché non si possono fare due parti in commedia, ma se si tratta di una manifestazione su una piattaforma che tenta di dinamizzare l’azione di governo non vedo ostacoli di principio. E, d’altra parte, non li ho visti nemmeno quando Mastella è andato al Family day".

l’Unità 13.9.07
Rifondazione si sente accerchiata dalla sua sinistra
Cremaschi parla di sciopero generale, le minoranze interne di campagna per il no. Giordano frena


LA BOCCIATURA da parte della Fiom del protocollo sul welfare siglato da governo e sindacati può essere per Rifondazione comunista l’occasione per rilanciare il proprio ruolo nel governo, ma anche il primo passo verso una spaccatura del partito. Non a caso a via del Policlinico ieri si è guardato con molta attenzione all’assemblea organizzata al centro congressi Cavour: trecento persone in rappresentanza di Cobas (c’era Piero Bernocchi), "Rete 28 Aprile" (presente il fondatore Giorgio Cremaschi), Sinistra critica (il trotzkista del Prc Salvatore Cannavò), Partito comunista dei lavoratori (l’ex Prc Marco Ferrando), Action (in sala c’erano i "disobbedienti" Luca Casarini e Francesco Caruso), che hanno deciso di indire tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre uno sciopero generale nazionale contro l’accordo sul welfare con manifestazioni (quella del 20 ottobre viene giudicata troppo morbida). E si fa strada nella maggioranza il sospetto che si voglia far nascere un soggetto a sinistra del Prc.
Ecco perché in queste ore Franco Giordano si muove con cautela su una corda tesa che ha a un’estremità gli alleati di governo che intimano di «non organizzare un’opposizione interna alla maggioranza» sul protocollo welfare, e dall’altra una minoranza interna pronta a fare una campagna per il "no" al referendum tra i lavoratori e a chiedere l’uscita dal governo se gli emendamenti presentati in Parlamento dal Prc non verranno approvati. «Dopo il no della Fiom i comunisti e la sinistra d’alternativa sono di fronte a un bivio - dice il senatore dissidente Fosco Giannini, - o cambiano la politica del governo o escono dal governo Prodi».
Una situazione nella quale Giordano non può che muoversi dando un colpo al cerchio e uno alla botte . «Il più grande sindacato di categoria in Italia esprime la sofferenza e il malessere di tanti operai e operaie», manda a dire il segretario Prc agli alleati e allo stesso Prodi, che ha derubricato la bocciatura della Fiom a fatto "previsto e scontato". «La politica, che è in crisi di credibilità, dovrebbe avere l’umiltà di ascoltarli, di provare a interpretare quel malessere, e il governo non può volgere lo sguardo dall’altra parte», attacca Giordano. Che però si guarda bene dall’annunciare una campagna di Rifondazione nei luoghi di lavoro per far vincere il "no".
Una posizione che viene duramente contestata dalla minoranza di Sinistra critica, quella del senatore, allontanato nei mesi scorsi dal Prc, Turigliatto. Lui così come Cannavò e gli altri di Sinistra critica presenti in Parlamento, voteranno "no" al protocollo sul welfare anche se il governo deciderà di porre la fiducia. «Faremo una campagna a tappeto per il no - assicura Cannavò - insieme ai comitati di Cremaschi e ai Cobas» La maggioranza, per il portavoce della minoranza trotzkista di Rifondazione, sbaglia a non dare indicazioni di voto: «Nel ’95 ci fui un’analoga consultazione tra i lavoratori sulla riforma delle pensioni di Dini e Rifondazione era in prima fila per il no». Anche perché, dice l’esponente Prc nonché segretario nazionale della Fiom Cremaschi: «Quando si fa un referendum, e ci sono due voci in una scheda, il sì e il no, vuol dire che anche il no è legittimo. È nell’interesse di tutti spiegare anche le ragioni del no». Un attacco a Guglielmo Epifani, che tre giorni fa dalla Festa dell’Unità ha difeso l’accordo e sfidato «coloro che lo criticano a fare di meglio» . Parole che non sono piaciute a Cremaschi, per il quale l’accordo siglato a luglio «non è né il migliore né l’unico possibile»: «Se avessimo voluto avremmo potuto fare di meglio. Gli effetti di una vittoria del no al referendum sarebbero positivi, perché segnalerebbero che si può fare di più». Un discorso poco realistico per Maurizio Zipponi, per anni segretario della Fiom di Milano e di Brescia e oggi responsabile Lavoro di Rifondazione comunista: «Il risultato del referendum è scontato. Si sono espressi a favore dell’accordo 25 mila funzionari confederali. La vittoria del no significherebbe semplicemente lo scioglimento di Cgil, Cisl e Uil». Più verosimilmente, per Zipponi, Rifondazione deve «continuare a esprimere il proprio giudizio negativo senza però dare indicazioni di voto» per poi «ascoltare cosa si dirà nelle assemblee e leggere i risultati del referendum. In base a questo indicheremo i punti di modificadell’accordo, facendo battaglia in Parlamento». Sul dopo non parla. s.c.

l’Unità 13.9.07
Grillo fa litigare Di Pietro e Bertinotti
Idv: scarso peso alle nostre sollecitazioni. La replica: «Non le avete mai presentate»


«MI FA DAVVERO male sentire le tue parole». «Hai perso davvero il senso della misura». Beppe Grillo fa litigare Antonio Di Pietro e Fausto Bertinotti.
Tra il leader dell'Italia dei Valori e il presidente della Camera, infatti, sono volate parole grosse, anche se a distanza.
Tema del contendere: la proposta di legge dell'Idv per l'ineleggibilità in Parlamento di chi ha ricevuto condanne penali. Uno dei tre punti del manifesto del V-Day, contenuto anche in proposte di legge presentate dall’Idv alla Camera. Pdl che Di Pietro accusa Bertinotti (in una lettera all'Unità, ma ancora ieri da Palermo) di non aver ancora inserito nel calendario dell'Assemblea. Lo scontro si accende durante la riunione dei capigruppo di Montecitorio. Fabio Evangelisti dell'Idv sollecita la calendarizzazione per settembre delle proposte di legge che, dice, sono ferme da troppo tempo. Bertinotti replica secco. Le proposte di legge non sono state accantonate, anzi «l'esame in commissione è iniziato a giugno». Ma la richiesta di metterle nel calendario dell'Aula a settembre «è giunta solo ieri» e «non risultano lettere o sollecitazioni nelle precedenti riunioni dei capigruppo». Bertinotti, difeso da molti altri capigruppo, anche del centrodestra, osserva che l'esame della prima commissione non è ancora terminato, ma assicura che la richiesta dell'Italia dei Valori «sarà valutata nella compilazione del prossimo programma» dei lavori. La precisazione non accontenta Di Pietro, tutt'altro. Da Palermo, forse ignaro di quanto accaduto a Montecitorio, il ministro non cambia spartito: «Mi fa male sentire le parole di Bertinotti in appoggio alle proposte di Grillo», dice, quando «gli scrivo da settimane per chiedere l'inserimento all'ordine del giorno delle nostre analoghe proposte». Ricevendo, secondo Di Pietro, il silenzio: «Bertinotti non mi ha mai risposto». A questo punto, il presidente della Camera sbotta: «Di Pietro ha davvero perso il senso della misura se continua ad attaccare la presidenza della Camera nonostante il chiarimento avvenuto nella conferenza dei capigruppo». E, quasi a voler ricordare all'ex Pm le procedure parlamentari, Bertinotti aggiunge che è proprio la riunione dei capigruppo «la sede per esaminare le richieste di formazione dei lavori parlamentari».
Le lagnanze di Di Pietro, dunque, sono solo «pure fantasie di un ministro che si rivela poco rispettoso della prerogative del Parlamento». Lo scontro con Bertinotti, arriva mentre il leader dell'Idv, il politico che più si è schierato con Grillo, è protagonista di un attacco a tutto campo rivolto anche nei confronti del governo di cui fa parte. Principali bersagli i colleghi Alfonso Pecoraro Scanio e Alessandro Bianchi: Di Pietro chiede a Prodi di «avocare a sé» alcune competenze dei loro ministeri, accusando soprattutto il leader Verde di bloccare le scelte del ministero delle Infrastrutture. Di Grillo è tornato a parlare anche Gianfranco Fini, durante una riunione con i dirigenti di An: «Ha avuto successo, ma è facile immaginare che non abbia fatto tutto da solo... È la punta dell'iceberg di un malessere diffuso che dobbiamo saper intercettare», avrebbe detto l'ex vicepremier, chiedendo ai suoi coerenza nei comportamenti locali per la trasparenza e la riduzione dei costi della politica. E Grillo? Dopo quattro giorni, si fa risentire dal suo blog dispensando censure (ai critici del V-Day) e ringraziamenti (ai suoi «meetup»): «Il milione di persone che è sceso in piazza, in modo composto, senza bandiere, senza il più piccolo incidente, dovrebbe essere ringraziato», avverte.

l’Unità 13.9.07
Renzo Piano. Se l’architettura ha le ali di una farfalla
di Renzo Cassigoli


RENZO PIANO compie settant’anni. Ha legato il suo nome ad opere straordinarie: dal Beaubourg di Parigi all’Auditorium di Roma. Ha tre progetti in cantiere a New York. Lo abbiamo intervistato

Renzo Piano domani compie settant’anni ma se lo vedi il tempo sembra essersi fermato. Lo scorrere degli anni per lui è segnato dalle opere celebrate nel mondo e da quelle che continua a realizzare, ora ripercorse nella grande mostra che al Palazzo della Triennale di Milano scandisce i passaggi di una vita straordinaria che segna la storia dell'architettura. Aperto e gentile, curioso e disubbidiente, Renzo Piano è disponibile all’incontro che ritaglia negli spazi d'una intensa giornata divisa (quando non è in viaggio per i cinque continenti) tra la meditazione creativa e il dialogo con gli altri. Non ama l’accademia. Da uomo di cantiere segue i lavori delle sue opere, ma torna sempre alle due «botteghe», come preferisce chiamare i due Building Workshop: quello di Punta Nave a Voltri, luogo della memoria costruito dal fratello Ermanno, definito poeticamente «leggero come l'ala di una rosea farfalla», e l'altro al Marais nel cuore di Parigi.
Pronunci il suo nome e subito nella mente si stampa l'immagine del Beaubourg: «L'utopia di una macchina urbana che però non aveva niente a che fare con la machine di Le Corbusier. La macchina di Le Corbusier era architettura, quel palazzo è senza carrozzeria, estroflesso. Abbiamo costruito una nave spaziale alla Jules Verne». Sorride Renzo Piano mentre racconta quell’avventura straordinaria: «Ho lavorato al Beaubourg all’inizio della mia professione. Il concorso era del 1971, ma lo spirito era quello che nel Sessantotto percorse la Francia facendo maturare l’idea di un centro culturale aperto a Parigi, alla Francia, all’Europa. Allora ero solo un artigiano, con Richard Rogers sono diventato un architetto». Scuote la testa al ricordo. «Eravamo due giovani sgangherati come il Beaubourg, con i capelli lunghi. Te lo immagini io e Rogers che incontriamo il presidente Pompidou?»
Da allora è iniziata la lunga avventura professionale segnata dalle opere che hanno fatto di Renzo Piano uno degli architetti più celebrati ed apprezzati al mondo, il primo a parlare e a confrontarsi concretamente con quella che ha definito «architettura sostenibile». «Siamo nel mezzo di un momento storico nuovo: dopo l’ubriacatura del cemento e dell’acciaio e la liberazione degli stili, l’architettura deve celebrare la scoperta della fragilità del mondo. Il terreno su cui secondo me bisogna andare è quello dell’architettura che si mette in ascolto della Terra fragile», ha detto nell’intervista a Franco Irace che apre il grande catalogo della mostra alla Triennale che Piano, parafrasando Italo Calvino, ha intitolato «Le città visibili».
Attualmente a New York sta lavorando a tre progetti: la Columbia University ad Harlem, la ristrutturazione e l’ampliamento del Whitney Museum e della storica Morgan Library. Contemporaneamente si occupa del nuovo piano regolatore di Genova dominato dall’idea guida della Monorotaia da costruire al posto della Sopraelevata. La Monorotaia, sostiene, è il simbolo del cambiamento. Non è solo meno invasiva (filiforme, quasi eterea, la definisce con un pizzico di poesia) ma è il segno tangibile di un nuovo rapporto tra il trasporto pubblico e quello privato che può cambiare l’idea di città ponendo al centro l’uomo e non le macchine. La sua idea rispecchia un solido orizzonte etico: «La città è una splendida invenzione dell’uomo ed è basata sullo scambio, sulla permeabilità. La città è per l’uomo e quindi, tutti i progetti devono far riferimento a questa realtà».
Per Renzo Piano: «L’idea di una crescita senza limiti ha fatto esplodere le città, creando le peggiori periferie, mura senz’anima. Ora devono implodere per ridare un anima, un senso ai “buchi neri” lasciati dalla deindustrializzazione». Nel suo lavoro gli esempi concreti vanno dalla ricostruzione della Potsdamer Platz, il grande «buco nero» lasciato a Berlino dalla seconda guerra mondiale; alla collina genovese degli Erzelli la cui cima fu spianata per costruire l’Italsider, dove Renzo Piano progetta un villaggio tecnologico e della ricerca che «tenga insieme l’anima razionale dello scienziato e l’emozione dell’artista». Ha immaginato dieci torri esili e trasparenti che si levano tra migliaia di alberi. Un progetto fondato sullo sfruttamento dell’energia pulita puntando su tre opzioni: il sole, il vento, la falda freatica.
L’elenco delle sue opere è lunghissimo, possiamo ricordarne solo alcune, tra le più famose: la nuova sede del New York Times, The Menil Collection a Houston in Texas, il terminal dell’aeroporto Kansai a Osaka, costruito su una piattaforma in mezzo al mare; la ristrutturazione del Lingotto, il recupero del porto antico di Genova, il Centro culturale Jean Marie Tjibaou a Numea in Nuova Caledonia, i cui padiglioni richiamano l’immagine delle capanne, con un sistema di aerazione che attraverso una doppia copertura quando soffiano i monsoni produce il suono tipico dei villaggi Kanak e della foresta. E ancora l'IRCAM (Istituto per la Ricerca Musicale) a Parigi, lo spazio musicale per l'opera «Prometeo» di Luigi Nono a Venezia, L’Aurora Place a Sydney, il grande Auditorium Parco della Musica a Roma, la nuova sede de Il Sole 24 ore a Milano.
Le sue costruzioni hanno la particolarità di non poter essere contenute in uno stile, nel senso che i suoi lavori non si impongono in un modo unico e stereotipato, tale da far esclamare: ecco quell’opera è di Renzo Piano. La sua architettura sorprende per le sfide che lancia, per l’originalità, la curiosità, il rispetto delle diverse culture che incontra, aderendo sempre al luogo dove costruisce. Per lui l’architettura è arricchita dalla contaminazione con tutte le espressioni dell’arte: dalla musica, alla pittura, alla letteratura. Contaminazioni che hanno segnato e segnano alcune grandi amicizie. Prima fra tutte l’amicizia con Luciano Berio con il quale - raccontano - concluso il Parco della Musica si fermò per mezz’ora nel teatro più grande: «Ad ascoltare il silenzio», e ancora con Pollini e Accardo. O l’amicizia con Mario Vargas Llosa e Italo Calvino, che per scherzo, durante una visita a Parigi propose a Piano un modo originale per «lavare» il Beaubourg, secondo il principio dell’autolavaggio delle macchine.
Un uomo complesso, un umanista di vasta e profonda cultura, mai sfoggiata, Piano è di una serenità coinvolgente. Ama la parola e anche il silenzio. «C’è troppo chiasso in giro- dice- troppe voci. Abbiamo bisogno di un po’ di calma. La possibilità di creare attorno a un progetto un’atmosfera raccolta, fatta anche di quel silenzio, nel quale comincia a prendere corpo la tua piccola "voce interiore"».
Per Leonardo Benevolo: «Renzo Piano è uno dei quattro architetti del nuovo millennio capace dell’invenzione pura», gli altri tre sono Richard Rogers, Norman Foster e Jean Nouvel. Piano apprezza le parole del grande storico dell’architettura. «Ha colto la trasformazione avvenuta nella mia attività professionale. Le sue parole fanno riflettere sul divenire della vita. Di fatto nasco come tecnico, vengo da una famiglia di costruttori. Poi uno cresce e a 70 anni si ritrova che qualcosa ha imparato. La conclusione à che si dovrebbe campare fino a 140 anni». Auguri di cuore, Professore.

l’Unità 13.9.07
Le Nuove di Torino diventano Museo del Carcere. Nel 1947 vi furono eseguite le ultime condanne a morte
Viaggio fra i tormenti di una prigione
di Mirella Caveggia


Lascia sgomenti il viaggio nella carcerazione del passato che dall’aprile scorso si può intraprendere nel Museo del Carcere dentro Le Nuove di Torino, l’ex-prigione dove nel 1947 furono tratti alla fucilazione gli ultimi condannati a morte in Italia. Quegli spazi definitivamente abbandonati quattro anni fa oggi sembrano ancora impermeabili alla vita e alla speranza. Fra le mura spesse e alte, nei lunghi corridoi dove si affacciano le porte delle celle corrose dal degrado e svuotate degli arredi, anche il tempo sembra essersi bloccato. L’immobilità della cittadella fantasma nel centro di Torino sarà scossa l’anno prossimo quando si attiveranno tre cantieri per una colossale trasformazione dell’insieme, destinato ad ospitare in futuro uffici e servizi giudiziari. Ma intanto per preservare le tracce storiche di un complesso monumentale carico di storia e di memorie, è nato un museo. Lo ha intensamente desiderato padre Ruggero Cipolla, scomparso di recente, che per 50 anni nelle prigioni torinesi ha dato l’estremo conforto a 72 condannati a morte ed è venuto a contatto con il vissuto di tanti carcerati, molti dei quali hanno lottato per gli ideali fondanti della nostra Costituzione, pagando anche con la vita.
Il percorso che si snoda in un settore del carcere, ne fornisce le vicende trascorse attraverso cubicoli, celle, documenti d’archivio, lapidi, lettere e fotografie dei detenuti, oggetti e arredi. Accanto a queste testimonianze, si può consultare il materiale relativo alla pregevole struttura architettonica di un complesso di 30.000 metri di superficie, una vera e propria città con corpi separati, strade, serviza, edificato dal 1857 al 1870 al tempo di Vittorio Emanuele II su un progetto dell’architetto Giuseppe Pollani.
I visitatori, raccolti in piccoli gruppi, dopo che la porta si è chiusa alle loro spalle, costeggiano l’intercinta, il primo segno del distacco dalla vita sociale e dagli affetti. Attraversato un cortile interno, sono introdotti dietro le sbarre. L’impatto con l’orrore del passato è inatteso. Nessuno si scambia più sguardi e parole, né si scattano foto. Anche la guida, fornisce solo spiegazioni essenziali. Si accede nella sezione femminile, dove le donne erano costrette a rigidi ordinamenti in strutture concepite per gli uomini. Si prosegue poi nel corridoio del famigerato 1° braccio tedesco, grigio, buio e gelido, dove ai prigionieri erano negate la luce, il cibo, la messa. Si percorre il braccio centrale che unisce le due rotonde del carcere per accedere alla cappella. Il cammino termina nelle celle dei condannati a morte, dove la realtà della pena capitale assume tutti i suoi contorni più sinistri. La visita svela ad ogni passo ciò che non si è mai visto prima: volti di esseri umani segnati da storie tragiche ormai concluse, spazi angusti, finestre a bocca di lupo che lasciano scorgere solo un lembo di cielo, passaggi fra grate altissime, una sedia come quella delle fucilazioni, il letto di contenzione, che immobilizzava con cinghie robuste per giorni e giorni. Il trattamento del passato doveva essere spietato, la solitudine totale, il freddo dell’inverno pungente (il riscaldamento è stato installato solo nel 1986). Chi transita non può non cogliere l’eco delle emozione dei detenuti di un tempo: depressione, vergogna, sconforto, senso d’abbandono. La stretta al cuore si fa morsa dolorosa quando attraverso una scala a spirale si penetra nel seminterrato con i cubicoli nel secondo braccio, dei condannati a morte al tempo del Fascismo e della Resistenza, dove sono stati rinchiusi i martiri del Martinetto, i partigiani uccisi per rappresaglia dai nazisti, i deportati sterminati nei lager, i giovani detenuti torturati a morte. L’oscurità pervade ancora ogni angolo, interrotta dalla luce flebile di qualche lampadina. Sulla soglia delle ristrette celle individuali figurano le ultime lettere di chi è andato incontro alla fucilazione o all’impiccagione: una testimonianza dolorosa e ferma lasciata alla coscienza e alla riflessione dei visitatori.

Repubblica 13.9.07
Pecoraro e parte di Sinistra democratica all´attacco di Fiom e Rifondazione: atteggiamento suicida
Si spacca anche la Cosa rossa "Manifestazione a rischio"
Ma Salvi (sempre Sd) difende Rinaldini e compagni: aggressione scandalosa
di Goffredo De Marchis


ROMA - «Diciamolo chiaramente: se la manifestazione del 20 ottobre spacca il movimento dei lavoratori, è contro il governo, divide anziché unire, noi ce ne stiamo casa. Ci vada qualcun altro». Il leader dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio fa capire che gli effetti del no della Fiom sul protocollo Welfare spacca la Cgil, ma anche la Cosa rossa, il laboratorio della sinistra unita alla quale hanno lavorato in questi mesi Rifondazione, i Verdi, il Pdci e gli ex diessini di Fabio Mussi. La manifestazione del 20 ottobre doveva essere il pilastro del nuovo soggetto, la risposta alla primarie del Partito democratico, quasi l´atto di nascita della "Sinistra". Ma oggi la piattaforma comune, che dovrebbe unire i quattro partiti, le associazioni, la Cgil e la Fiom, è sempre più in alto mare.
Sinistra democratica, il gruppo dei dissidenti diessini, conferma, anzi rilancia tutte le sue perplessità, dopo che nei giorni scorsi si era aperto lo spiraglio di un´intesa. Dice Carlo Leoni, vicepresidente della Camera: «Il problema resta in piedi. Del resto alla base del nostro movimento c´è il rapporto con tutta, ripeto tutta, la Cgil. È scritto nel nostro statuto». Gli uomini di Mussi non mollano Epifani e non mollano il governo. Ma la scelta della Fiom non spacca solo il nascente soggetto unitario, s´infila anche nelle divisioni all´interno degli stessi partiti. L´altro dirigente di Sd, Cesare Salvi, infatti non ha alcuna intenzione di rompere con i metalmeccanici e di seguire la linea indicata dalla maggioranza della Cgil. «Trovo stupefacente, direi scandalosa l´aggressione nei confronti della Fiom. Mandare a quel paese i metalmeccanici non fa bene al Paese e non fa bene all´unità a sinistra. E se il sindacato confederale entra in crisi ricordiamoci che ci sono i Cobas, gli autonomi. Stiamo attenti, perciò». Anche nei Verdi la posizione di Pecoraro Scanio e quella del sottosegretario all´Economia Paolo Cento non coincidono. «Per essere sinceri- dice il ministro dell´Ambiente - tutto il partito ha accolto la proposta di Cento: votare in Parlamento sul welfare rispettando il referendum dei lavoratori. Ecco questa è la nostra posizione». Cento però avverte: «Guai a sottovalutare il dissenso della Fiom». Pecoraro è meno "comprensivo": «Se l´intenzione, alla fine, è quella di far cadere il governo, trovo l´atteggiamento dei metalmeccanici ben strano, direi quasi suicida. E non può certo diventare la parola d´ordine dell´iniziativa del 20 ottobre: perché mandare a casa Prodi significa mantenere lo scalone».
La sinistra radicale trova un punto di equilibrio nella richiesta di modifiche al pacchetto lavoro, salvando la riforma delle pensioni. Sono emendamenti che non dividono la Cosa rossa e che anzi oggi verranno presentate come documento congiunto al presidente del Consiglio. Ma lo strappo della Fiom, i venti di scissione a Corso d´Italia sono più forti di un voto parlamentare che deve ancora arrivare. A questo punto, il confronto a sinistra subisce uno stop almeno fino al referendum dei lavoratori fissato per l´8-10 ottobre. Sd e Verdi sperano nel successo dei sì per ripartire e smorzare il no dei metalmeccanici. E Rifondazione? È pronta a sacrificare il rapporto con quella base elettorale in nome della federazione delle sinistre? Il capogruppo di Prc Gennaro Migliore sembra mettere nel conto anche una rottura: «Primo: se la preoccupazione è quella dell´unità sindacale dico che va guadagnata. E che unità significa appartenenza all´organizzazione, ma non necessariamente compattezza sui contenuti. È quello che Bertinotti ha insegnato alla Cgil». E la manifestazione e l´intesa a sinistra? «La manifestazione si farà. Non so se ci saranno tutti i partiti e non è fondamentale. So che ci sarà il popolo della sinistra».

Repubblica 13.9.07
Gli operai di Mirafiori dopo lo strappo della Fiom
Le tute blu compatte "Un no sacrosanto"
di Diego Longhin


TORINO - «È un no sacrosanto. Qui dentro di sicuro l´accordo non passa, ma basteranno i sì degli altri lavoratori». Domenico Schiena ha 40 anni, da 15 lavora in linea di montaggio alle Carrozzerie di Mirafiori. «Oggi mi sento più sollevato», racconta all´uscita dal primo turno. «Non sono un iscritto della Fiom - sottolinea - ma qualcuno doveva dire che non si possono camuffare gli scalini con gli scaloni. Forse sarà un no che lascia il tempo che trova, che non servirà a nulla. Ma almeno facciamo sentire la nostra voce. Tanto ci penseranno i pensionati e gli altri lavoratori, quelli che stanno comodi alla scrivania, a dire sì».
Tra le tute blu della più grande fabbrica italiana, che hanno già gli occhi puntati sul rinnovo del contratto, c´è la speranza che la posizione dei metalmeccanici della Cgil serva a dare una svolta, anche se il tutto è condito da un po´ di rassegnazione. «Tanto alla fine fanno come vogliono, quando mai si è fatto un accordo favorevole per noi. I sindacati e il governo sono pappa e ciccia», dice Nicola Nobile mentre passa la tessera magnetica alle barriere della Porta 2. Qualunquismo? Forse. Ma se si guarda alla storia dei referendum tra i lavoratori c´è chi pensa che andrà come nel 1995, quando il 66 per cento dei meccanici torinesi bocciarono la riforma Dini, che però fu salvata dal voto del resto del Paese e delle altre categorie.
Finirà allo stesso modo con l´accordo sul welfare di luglio? Probabile, ma l´importante è farsi sentire. «Non accettare senza dire ma perché si pensa che quello Prodi sia un governo amico», dice Rina Colace. Anche Marina Angiolini, da 30 anni in Carrozzeria, sostiene che «la Fiom ha ragione: dopo tanti anni di lavoro devi avere il diritto di andare in pensione dignitosamente, cosa che questo accordo non ti permette di fare. Solo quando ti rompi e puoi essere rottamato ti permettono di lasciare. Anzi, ti scaricano in tutti i modi».
Molti lavoratori hanno in testa le assemblee dello scorso dicembre con i tre leader di Cgil, Cisl e Uil, tra fischi e operaie sotto il palco per mostrare le braccia gonfie ad Angeletti, Epifani e Bonanni. «Speriamo che tornino, vengano loro a raccontarci questo accordo, noi non l´abbiamo ancora capito. Magari e buono o magari si prenderanno un altro bel po´ di fischi. Hanno tenuto conto delle nostre richieste?», dice Anna Lo Russo. E aggiunge: «Non basta un no, bisogna anche dare segnali concreti scendendo in strada». Secondo Giuseppe D´agostino, da 18 anni in Fiat, «in fabbrica c´è molta disinformazione, ormai anche il rapporto con il sindacato è logorato. Ci si fida del delegato amico, né della Fiom, né della Fim e né della Uil. Gli operai sono insofferenti perché si aspettavano di più da un governo di centrosinistra».
Non la pensa così Rocco Moscato, da 32 anni alle Carrozzerie: «Non è giusto rompere con il governo, è controproducente. E poi i sindacati erano riusciti a portare a casa qualcosa. Sarebbe stato meglio aspettare il referendum e lasciare che fossero i lavoratori a dare il loro giudizio prima di dire no. Ed ora cosa si farà? Sciopero? C´è anche il contratto e noi abbiamo bisogno di soldi».

Repubblica 13.9.07
Il leader di Rifondazione: il no della Fiom non può essere derubricato, mi chiedo che ambienti frequenta il Pd
"Ascoltare il disagio degli operai"
Giordano: non faremo cadere il governo, ma la collegialità sia reale
di Claudio Tito


La Cgil. Ricordo che quella del sindacato è una grande storia di autonomia Oggi, invece, c´è una tendenza a schiacciare tutte le autonomie
I rimpasti. Tra i rimpasti per trovare il posto a qualcuno, le alleanze di nuovo conio e la sofferenza sociale, io so da che parte stare
"Non vedo rischi di scissione. Né con Verdi, Pdci e Sd, né al nostro interno"

ROMA - «Non vogliamo far cadere il governo», ma Prodi «stavolta» deve esercitare il suo ruolo «in autonomia» garantendo la «collegialità». Il segretario del Prc, Franco Giordano, non usa toni ultimativi nei confronti di Palazzo Chigi e nello stesso tempo difende le scelte della Fiom. È sicuro che si possano apportare delle modifiche alla riforma delle pensioni, da approvare comunque entro la fine dell´anno, e al protocollo sul welfare che dovrebbe prendere le forme di un disegno di legge da esaminare con molta calma. Magari l´anno prossimo. Però, il "no" dei metalmeccanici non può essere derubricato a fatto secondario. «Provo un senso di inquietudine. La risposta data da una parte della politica al più grande sindacato di categoria è il segno di un´incapacità a comprendere la società italiana. Si sono tutti dimenticati dei fischi a Mirafiori?».
Ce l´ha con i suoi alleati? Con il partito democratico?
«Guardi, non so quali ambienti frequentino quelli che animano il dibattito nel Pd. Però c´è uno studio di Mediobanca - ripeto, di Mediobanca - che fotografa il nostro Paese: 38 tra le più grandi imprese italiane hanno aumentato i loro profitti del 50 per cento negli ultimi cinque anni. Nelle stesse aziende i lavoratori dipendenti hanno perso il loro potere d´acquisito del 10 per cento. Larga parte delle famiglie italiane sono indebitate per più della metà del loro reddito e questo per una mera questione di sussistenza».
Che c´entra con il no della Fiom?
«C´entra e come. La politica deve avere l´umiltà di ascoltare queste sofferenze. Il governo non può volgere lo sguardo dall´altra parte. Non si può dire "era scontato". Tra i rimpasti per trovare il posto a qualcuno, le alleanze di nuovo conio e la sofferenza sociale, io so da che parte stare».
La Fiom non è tutto il sindacato. Ci sarà una consultazione dei lavoratori. E la Cgil rischia di spaccarsi come non mai.
«Il referendum sarà una grande prova democratica. Che, però, va interpretata. Non oscura il malessere operaio o dei giovani precari. Quanto alla Cgil, ricordo che la storia del sindacato è una grande storia di autonomia. Oggi, invece, c´è una tendenza autoritaria a schiacciare tutte le autonomie».
Insomma la Fiom è l´altra faccia della medaglia scagliata nei giorni scorsi da Beppe Grillo?
«Grillo occupa un vuoto. Se la politica non dà risposte, tutto si risolve nel vaffa-day. Noi vogliamo dare delle risposte. In caso contrario rischiamo lo tsunami della politica».
Cosa chiede allora al governo e alla maggioranza?
«Su alcuni temi raccolga le indicazioni della Fiom. Lo faccia tutta l´Unione. Sarebbe quindi utile tirare fuori le pensioni dal percorso della finanziaria e tenere conto della specificità operaia. E sul mercato del lavoro affidarsi ad un disegno di legge per ridiscutere con calma la questione dei contratti a termine e la legge Biagi. Proprio come è scritto nel programma di governo».
Ci sarà la crisi di governo se Prodi non accetterà i suoi consigli?
«Prodi parla di "collegialità". Questa presuppone che tutti, e non solo una parte, partecipino alle scelte. Se critichiamo, non possiamo essere automaticamente accusati di volere la crisi. Non la auspichiamo e non la vogliamo. Romano svolga in autonomia il suo ruolo».
Nel campo riformista temono che lei sia "schiacciato" dalla Fiom. E che la manifestazione del 20 ottobre sia una bomba ad orologeria.
«Io ascolto una difficoltà. Ma si esca da questo terreno mimetico per cui si confonde una cosa con un´altra. La manifestazione di ottobre vuole rispondere a un malessere. La polemica su chi deve o non deve sfilare sono davvero il segno di un degrado culturale cui non voglio partecipare».
Da l´altro ieri, però, la "cosa rossa" sembra compromessa e c´è chi parla di scissione nel suo partito.
«Non vedo questi rischi. Sia per quanto riguarda il dialogo con Verdi, Pdci e Sd, sia al nostro interno».

Repubblica 13.9.07
Sorpresa, la pillola protegge dal cancro
L´anticoncezionale riabilitato da uno studio: benefici anche dopo molti anni
di Enrico Franceschini


Ma in passato altre ricerche avevano denunciato un rapporto causa-effetto per patologie al seno
È una discussione che va avanti praticamente fin dalla nascita del farmaco, ormai mezzo secolo fa

LONDRA - Fa bene all´amore, ma può far male alla salute. Da cinquant´anni, questo è il dilemma della pillola anticoncezionale, associata da numerose ricerche a un maggior rischio di cancro, in particolare al seno. Ma adesso dalla Gran Bretagna arriva un parere diverso: la pillola non solo non aumenterebbe il rischio di tumore per le donne, ma lo diminuisce significativamente.
Ad affermarlo è il più ampio studio mai condotto in materia, pubblicato ieri sull´autorevole British Medical Journal e ripreso con grande rilievo dalla stampa britannica. Dall´analisi dei dati, ricavati da 46mila donne nell´arco di trentasei anni, risulta che il rischio di cancro all´intestino, all´utero e alle ovaie diminuisce del 12 per cento tra coloro che hanno preso il contraccettivo orale; e l´azione benefica si protrarrebbe anche nei quindici anni successivi alla sospensione del trattamento.
Il giovamento, tuttavia, è limitato a coloro che hanno fatto uso della pillola per non più di otto anni, mentre per la minoranza che la prende per oltre otto anni, viceversa, il pericolo di ammalarsi di tumore aumenta del 22 per cento.
«Molte donne, e specialmente quelle che molti anni fa presero la prima generazione di contraccettivi (con una dose di estrogeni assai più alta di quella odierna, ndr), saranno probabilmente rassicurate dal risultato delle nostra indagine», dice il professor Philip Hannaford della Aberdeen University, che ha diretto la ricerca. «L´abbassamento del rischio è piccolo, ma anche un minimo progresso si traduce in un grande vantaggio se consideriamo che cento milioni di donne in tutto il mondo prendono la pillola».
Lo studio non mostra prove che il rischio di un cancro al seno aumenti, o diminuisca, a causa dell´uso a breve termine della pillola. Riguardo a tutti i tipi di tumore, inoltre, indica che «i benefici della pillola nell´ambito del cancro superano i rischi», scrivono gli autori della ricerca. La Family Planning Association e altre organizzazioni britanniche per il controllo delle nascite concordano con il giudizio degli scienziati di Aberdeen.
Ma per la pillola il bilancio non è tutto positivo. Altri studi recenti, contraddicendo in parte i dati raccolti dal professor Hannaford, rilevano una crescita del rischio di cancro al seno, al fegato e ad altri organi per chi fa uso del contraccettivo. Le nuove rivelazioni, insomma, non metteranno fine al dibattito.
È una discussione che accompagna la pillola praticamente fin dalla sua nascita. Quando fu introdotta nel 1961, l´anno del twist e del muro di Berlino, innescò una rivoluzione culturale, morale, religiosa: per la prima volta nella storia sembrava che l´attività sessuale potesse essere totalmente separata dalla riproduzione.
Altri contraccettivi erano sempre esistiti, ma non garantivano una completa efficacia e toglievano spontaneità all´atto. Con la pillola orale, viceversa, fare sesso diventò un modo di esprimere amore o di cercare piacere fisico, ma non necessariamente di procreare. Il Vaticano la condannò in un´enciclica, le femministe la salutarono come un equalizzatore: finalmente le donne potevano decidere da sole quando avere una gravidanza e dunque trattare il sesso allo stesso modo degli uomini.
Ma nei decenni seguenti, con l´emergere di dati su possibili legami tra pillola e tumore al seno, l´argomento venne rovesciato: erano gli uomini che, come al solito, avevano trovato un altro modo per spassarsela senza prendersi responsabilità, ai danni delle donne. Come che sia, dal 1961 ne hanno fatto uso trecento milioni di donne e a tutt´oggi rimane il metodo di contraccezione più diffuso.
In attesa che la scienza escogiti una pillola altrettanto efficace per gli uomini.

Repubblica 13.9.07
Il mondo dei condannati al dolore
Quasi l´80% della morfina prodotta consumata nei sei paesi più ricchi
di Donald McNeil Jr.


In molti posti non è quasi importata. I medici africani raccontano di malati suicidi per fuggire la sofferenza
Le nazioni a basso o medio reddito, cioè l´80% della popolazione, ne consumano appena il 6%

WATERLOO (SIERRA LEONE) - La stagione delle piogge sta arrivando presto, ma Zainabu Sesay non è nelle condizioni per aiutare il marito. È malata. Ha un cancro al seno. «It bone! It booonnnne lie de fi-yuh!». Brucia come il fuoco: così Zainabu descrive il dolore, in Krio, il creolo inglese parlato in questo Paese dove i colonizzatori britannici dislocarono gli schiavi affrancati. Come milioni di altre persone nei Paesi più poveri del mondo, Zainabu è destinata a morire soffrendo. Non può avere il farmaco di cui ha bisogno, un farmaco economico, efficace, legale per usi medici in base a trattati sottoscritti da quasi tutti in Paesi, prodotto in gran quantità e in circolazione fin da quando Ippocrate tessé le lodi della pianta da cui è ricavato, il papavero da oppio. Zainabu non può avere la morfina. Non soltanto perché è povera o perché è povero il paese in cui vive, la Sierra Leone. I narcotici suscitano paura: i medici hanno paura che i pazienti diventino assuefatti a quelle sostanze e le forze dell´ordine hanno paura della criminalità legata alla droga.
L´Organizzazione mondiale della sanità calcola che siano 4,8 milioni ogni anno gli individui affetti da dolori tumorali, moderati o gravi, che non ricevono cure appropriate. E lo stesso vale per 1,4 milioni di malati di Aids all´ultimo stadio. Per altre cause di dolori persistenti - ustioni, incidenti d´auto, ferite d´arma da fuoco, danni al sistema nervoso di origine diabetica, anemia falciforme e così via - l´agenzia dell´Onu non fornisce stime, ma ritiene che il problema interessi milioni di individui. Le cifre raccolte dal Comitato internazionale per il controllo dei narcotici, un organismo dell´Onu, parlano chiaro: i cittadini delle nazioni ricche soffrono meno. Sei Paesi - Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Gran Bretagna e Australia - consumano, secondo una stima del 2005, il 79 per cento della morfina mondiale. I Paesi a basso e a medio reddito, dove vive l´80 per cento della popolazione globale, ne consumano appena il 6 per cento circa. Alcuni Paesi di fatto quasi non la importano. Nel 2004, il consumo pro capite di morfina negli Stati Uniti era circa 17.000 volte superiore a quello della Sierra Leone. I medici africani descrivono esperienze di pazienti che soffrono a tal punto da scegliere altri rimedi: impiccarsi o gettarsi sotto a un camion.
L´ingrediente base della morfina, l´oppio, non scarseggia certo. I papaveri vengono coltivati per ricavarne l´eroina, naturalmente, in Afghanistan e non solo, ma grossi appezzamenti sono coltivati anche in India, in Turchia, in Francia, in Australia e in altri Paesi, per ricavarne morfina e codeina. Non è neanche costosa, nemmeno per gli standard dei Paesi in via di sviluppo. Un ospedale per malati terminali in Uganda, ad esempio, produce la morfina in proprio, a costi tanto bassi che una fornitura per tre settimane costa meno di una forma di pane. In molti Paesi poveri, tuttavia, i medici normalmente non la prescrivono. «C´è una forte paura dell´assuefazione, frutto spesso di un fraintendimento», dice David E. Joranson direttore del Gruppo di studio sulle politiche per il trattamento del dolore dell´Università del Wisconsin. Gli esperti di medicina del dolore affermano che negare questi farmaci ai malati terminali rappresenta una crudeltà. I sintomi da astinenza sono inevitabili, sostengono, ma i benefici sono maggiori dei rischi.
Nel caso di Zainabu Sesay, Alfred Lewis, un infermiere dello Shepherd´s Hospice, sta facendo il possibile per rendere meno dolorosi i suoi ultimi giorni. Per il dolore Lewis le somministra un farmaco generico a base di paracetamolo e tramadolo, una sostanza affine alla codeina ma che ha una potenza pari solo al 10 per cento di quella della morfina. È tutto quello che ha da darle. A New York, Zainabu avrebbe già cominciato a prendere la morfina o un suo equivalente, come l´ossicodone o il fentanyl. Anche se il suo ospedale disponesse di morfina, Lewis non potrebbe dargliela. Le leggi della Sierra Leone prevedono che la morfina possa essere maneggiata solo da un farmacista o da un medico, spiega Gabriel Madiye, il fondatore dell´ospedale. Ma in tutta la Sierra Leone ci sono solo 100 medici, uno ogni 54.000 persone, mentre negli Stati Uniti il rapporto è di uno a 350. «È una "oppiaceo-fobia"», dice Madiye. «Stiamo uscendo da una guerra in cui molte delle violazioni dei diritti umani sono state originate dall´abuso di droga». Esther Walker, un´infermiera britannica che lavora con Lewis, dice che una volta fece una lezione sulle cure palliative alla facoltà di Medicina. C´erano 28 studenti e chiese se qualcuno avesse mai visto una persona morire serenamente in Sierra Leone. «Tutti risposero di no», dice la Walker. Madiye sfoga la sua frustrazione. Ha fondato lo Shepherd´s Hospice nel 1995, lo ha visto distruggere durante la guerra civile e poi lo ha ricostruito. Ma non riesce ad ottenere quell´unico farmaco che darebbe a persone come Zainabu Sesay quella morte dignitosa che in Occidente sarebbe considerata un loro diritto inalienabile. «Come fanno - chiede - a dire che non c´è richiesta se non li autorizzano?».
(Copyright New York Times - La Repubblica. Traduzione di Fabio Galimberti)

Corriere della Sera 13.9.07
Lafontaine il «rosso»: i no italiani? Per noi un sogno le vostre pensioni
«Vogliamo un fronte europeo, piattaforma comune con Bertinotti nel 2009»


DAL NOSTRO INVIATO
BERLINO — Oskar il rosso è tornato e ora ride lui. Nel 1999 sbatté la porta e se ne andò dal governo riformista del cancelliere Gerhard Schroeder. Oggi Oskar Lafontaine nega qualunque sete di vendetta («E' uno scontro del passato», si limita a dire) ma si sta riprendendo con gli interessi tutto ciò che aveva ceduto: «Die Linke», la «Cosa rossa» tedesca di cui è il leader dopo l'addio al partito socialdemocratico, nei sondaggi è la terza forza in Germania e risucchia elettori che fin qui erano terreno di caccia della Spd e non solo.
Il caso Lafontaine era il simbolo di come si fa fuori la sinistra radicale al governo. Oggi, è il modello di molti anche in Italia.
Nei sondaggi siete all'11% del consensi. Dov'è il segreto del successo?
«I partiti di governo fanno una politica che la gran parte della gente rigetta. In questa situazione è nata la nuova Linke e propone un ritorno alla giustizia sociale. E' interessante vedere che in questo modo stiamo già cambiando la politica tedesca: Cdu e Verdi dicono già che l'indennità di disoccupazione deve durare di più e anche la Spd vuole tornare su decisioni sbagliate riguardo al welfare».
Per governare però dovrete riavvicinarvi al partito socialdemocratico. Fattibile?
«Finché loro aumentano l'Iva e riducono le tasse sulle imprese, come hanno fatto in questo governo, certo che no. Quella è stata una redistribuzione dal basso verso l'alto, dai molti verso i pochi. Poi quelli della Spd dicono che per loro «Die Linke» non è un partner di governo: è come se io dicessi che non mi piace Claudia Schiffer. Non mi piace? Lei non me l'ha mai chiesto».
«La Sinistra», che aggrega la sinistra radicale a Roma, da voi ha preso anche il nome. Siete sulle stesse posizioni?
«Noi vogliamo una sinistra europea, lavoriamo già con il partito di Fausto Bertinotti. La base è un programma comune, l'obiettivo è arrivare alle europee nel 2009 con una piattaforma comune per la campagna elettorale».
Ma in Italia la sinistra radicale va in piazza contro il governo di Romano Prodi, al quale partecipa. Persino la Cgil si spacca.
«Per noi la questione non si pone. Partecipiamo a un governo se possiamo decidere misure su cui siamo in grado di rispondere: non in caso contrario. Del resto il welfare è in una situazione tale che il sistema pensionistico come quello italiano per i tedeschi è un sogno ».
Insomma la sinistra italiana deve tacere o fare come lei ha fatto con Schroeder, andarsene e basta?
«Non si può rispondere in generale. Noi oggi cambiamo la politica tedesca senza governare. Ci sono poi situazioni in cui l'offerta degli alleati è così buona, con due o tre punti su cui si vuole intervenire, che si può stare anche al governo. Dipende dalle possibilità concrete».

Corriere della Sera 13.9.07
I Rinaldini boys e le ambizioni del quarto sindacato
di Marco Imarisio


MILANO — Nel dubbio, sempre più a sinistra e sempre più da soli. «Dov'è lo scandalo, dov'è il problema?» Il giorno dopo quello che all'unanimità è stato definito come «lo strappo», Gianni Rinaldini finge di stupirsi dello stupore.
Il segretario della Fiom sa bene che nello stagno della politica italiana il «no» del suo sindacato all'accordo sul welfare è un sasso che può produrre onde fastidiose per Cgil, Rifondazione e governo, in ordine sparso. Si tratterà anche di «un normale atto di democrazia sindacale», ma ha riacceso le luci sulla Fiom, il sindacato della nobiltà operaia e della contrapposizione frontale, della lotta di classe che viaggia di pari passo alle rivendicazioni salariali.
Quello dei «puri e duri» è un santino scomodo. Francesca Redavid, responsabile organizzativa della Fiom, non accetta di essere considerata come un bastone tra le ruote dell'attuale governo e della Cgil. «Ogni volta è la stessa cosa. Ogni elemento di conflitto sociale, ogni episodio che riporta in primo piano le esigenze del mondo del lavoro, finisce per mettere in crisi la politica, e quindi non va affrontato. Noi ci limitiamo a rifiutare questo ragionamento».
Il «no» dell'altro giorno è stato in realtà la logica conclusione di un percorso cominciato nel 1996. «Fiom, sindacato indipendente», era questo il titolo del congresso di Rimini, uno slogan programmatico che voleva indicare la strada per riprendersi dalle sconfitte degli anni Ottanta, la batosta alla Fiat, il riflusso e le fabbriche che chiudevano in serie. «Fu un momento fondamentale per ricostruire la nostra identità» riconosce Maurizio Landini, membro della segreteria nazionale, ex capo della Fiom emiliana, in termini di iscritti la più «pesante» insieme a quella piemontese. «C'era bisogno di ricostruire un senso comune, intervenendo nella società per portare la nostra idea del mondo».
Landini viene da Reggio Emilia e a 16 anni lavorava come operaio apprendista in una Coop di Cavriago. La sua è una storia di fabbrica «classica», quella della romana Redavid invece è puro sindacato, dalla Cgil alla Fiom, per seguire nuove realtà come quelle dei call center, dei lavoratori informatici e delle telecomunicazioni. Quasi coetanei, 46 anni e 47 anni, entrambi segnati da quella visione, la ricerca dell'indipendenza, il sogno non dichiarato di costituirsi come «quarta forza », che fu una delle ultime battaglie di Claudio Sabattini, storico leader Fiom scomparso nel 2003. Una figura che per il segretario Rinaldini e per l'attuale gruppo dirigente rappresenta qualcosa di molto vicino alla guida spirituale. Anche il segretario piemontese Giorgio Airaudo, un altro figlioccio di Sabattini, non vede alcun scandalo nel «no», e ribadisce qual è la linea condivisa. «Noi proviamo ad essere indipendenti da partiti e governi. Quella sul welfare è stata definita una "trattativa anomala", e non da noi. L'errore recente di tutto il sindacato è illudersi di avere sempre una rendita di posizione avallando certe scelte. Gli operai se ne accorgono e accomunano i sindacalisti ai politici. Il virus del vaffanculismo alla Beppe Grillo si sta diffondendo anche nelle fabbriche».
La Fiom che matura il suo «no» è un sindacato con 364 mila iscritti, uscito indenne dalla frammentazione della sua base, dove l'operaio non è più «macchina per la lotta di classe», definizione dello studioso Aris Accornero, ma è diventato più individualista, nei consumi e nelle rivendicazioni. Ha aggiunto altre figure di lavoratori coniugando la promessa di una intransigenza assoluta ad una notevole capacità di trattativa sui salari. E' con una punta di orgoglio che Airaudo sottolinea che la crisi di rappresentanza che investe ogni sigla, alla Fiom è attenuata «dal sopravvivere di uno spirito di appartenenza » che forse altri sindacati di categoria hanno perso per strada.
A guidare la Fiom c'è una strana coppia. Il segretario Rinaldini, emiliano, baffi e look da film di Ken Loach, è da sempre un seguace dichiarato di Sabattini, che conobbe nel fatidico 1968 quando quest'ultimo era responsabile della sezione universitaria del Pci e plasmò un gruppo di giovani a colpi di Rosa Luxemburg e operaismo italiano declinato secondo i Quaderni Rossi, la rivista degli «eretici» di sinistra. Della nidiata faceva parte anche Giorgio Cremaschi, capo della sinistra Fiom, poco amato all'interno del gruppo dirigenziale per via di una certa attitudine ad esternazioni incendiarie che gli hanno però garantito, oltre alla visibilità, anche una rendita di posizione. E' lui l'ufficiale di collegamento con quello spazio che si sta aprendo a sinistra dei Ds e ancora più in là. La loro alleanza ha spostato la Fiom sempre più a sinistra, facendola diventare soggetto autonomo ma anche, non inavvertitamente, più politico. Fino alla rottura di un tabù che neppure Sabattini, comunque mai tenero verso la Cgil, aveva infranto. Un dirigente che ha votato «no» e chiede l'anonimato per comprensibili ragioni, spiega che la logica usata nella discussione non era di natura contrattuale ma ideologica. Come se il «no» fosse dettato anche dalla necessità di crearsi un orizzonte politico.
E' una scelta che rischia di avere effetti collaterali. Se ieri Rinaldini si accalorava per spiegare che la Fiom non farà campagna per il «no» nelle fabbriche e si rimetterà alle decisioni della Cgil, il leader della minoranza Fausto Durante invocava invece un impegno diretto per convincere i lavoratori ad accettare l'accordo, mentre Cremaschi chiedeva di spiegare anche le ragioni del «no». Nella corsa a chi è più duro e puro c'è sempre il rischio di perdere qualche pezzo per strada.
IL VOTO CONTRARIO
I leader della Fiom Giorgio Cremaschi e Gianni Rinaldini ieri a Roma alla riunione degli esecutivi unitari della Cgil, Cisl e Uil. Martedì la Fiom, la sigla che riunisce i metalmeccanici della Cgil, ha votato un documento contrario all'accordo sul Welfare firmato dallo stesso sindacato guidato da Guglielmo Epifani

Liberazione 13.9.07
Embrioni umano-bovini, dov'è lo scandalo di cui parla la Chiesa?
Gli scienziati inglesi hanno imboccato questa strada perché è difficile reperire oociti umani per la ricerca. Le cellule staminali che si ottengono sono di grande interesse scientifico e promettono la sconfitta di malattie oggi incurabili
di Carlo Flamigni


L 'Autorità inglese che controlla la ricerca scientifica sulla fertilizzazione umana e l'embriologia ha autorizzato la formazione di embrioni ibridi prodotti utilizzando il nucleo di una cellula umana e l'ooplasma di un oocita di mucca, cioè un uovo di un mammifero non umano privato del suo nucleo. La tecnica è quella del trasferimento nucleare, la stessa che viene generalmente chiamata clonazione terapeutica e che serve per la produzione di cellule staminali embrionali: in questo caso utilizza anche uova di mammiferi, come la mucca e la coniglia, per la difficoltà di ottenere oociti umani per la ricerca. Dopo il trasferimento del nucleo, la nuova cellula inizia a svilupparsi con un patrimonio genetico (di Dna) umano per oltre il 99% e bovino per meno dell'1%; il Dna non umano è tutto mitocondriale e serve solo per attivare energeticamente i processi metabolici e di divisione cellulare, non ha niente a che fare con il modo in cui l'individuo si struttura. Dopo 5 giorni di permanenza in coltura si forma una blastocisti , cioè un embrione che ha cellule esterne utili per l'impianto nell'utero e una massa cellulare interna dalla quale prenderebbe inizio la formazione dell'embrione vero e proprio se la blastocisti fosse trasferita in un utero, cosa che non potrà avvenire perché l'Autorità ne ha disposto la distruzione entro il 14° giorno di sviluppo. Le cellule della massa cellulare interna sono cellule staminali embrionali, di straordinario interesse scientifico e che saranno utilizzate solo per acquisire nuove informazioni che potranno essere utilizzate in vista della sempre più probabile possibilità di poter guarire, per loro tramite, malattie attualmente incurabili. Non vedremo né centauri né sirene, che lo lascia supporre o non ha capito niente o è in malafede. Stiamo parlando di ricerca scientifica, importante, essenziale ricerca scientifica, autorizzata da persone serie e di buon senso (oltretutto l'autorizzazione non è ancora definitiva, il consenso finale dovrebbe arrivare entro l'anno).
La reazione del mondo cattolico che conta (lasciamo stare i nostri uomini politici, proprio perché in questo campo proprio non contano) è stata convulsa e isterica. Lasciatemi esaminare le principali motivazioni di queste critiche e il modo in cui sono state argomentate.
"Viene vilipesa la dignità della persona umana perché si formeranno embrioni umani con un genoma ibrido". Avrei molti modi per rispondere a questa critica, userò quello che mi sembra più pragmatico. Dunque il Magistero cattolico ha finalmente scelto, tra le molte teorie (tutte cattoliche) disponibili quella che considera come inizio della vita personale il momento in cui lo spermatozoo tocca l'uovo: ci sono filosofi e teologi cattolici insigni e molto ascoltati che non ci stanno e indicano fasi del tutto diverse del processo della fertilizzazione, ma lasciamo perdere. Vediamo invece quanto è solida questa teoria (apparentemente inespugnabile, perché figlia di una verità che non ammette critiche e dissensi) dal punto di vista pratico, cioè quanto regge in realtà alle intemperie.
Saprete certamente che l'Irlanda, oltre ad essere la nazione più cattolica d'Europa, è l'unico Paese europeo che ha inserito nella propria Costituzione una norma che riconosce il diritto alla vita del non ancora nato, nel rispetto dell'uguale diritto alla vita della madre. Per ragioni troppo lunghe da spiegare il governo irlandese aveva deciso di modificare questa norma proponendo oltretutto una modifica della legge anti-aborto; nella nuova versione l'aborto volontario veniva definito come "la distruzione intenzionale della vita umana non ancora nata dopo che sia stata impiantata nell'utero". Questa è un'ipotesi completamente diversa da quella sostenuta dal Magistero romano, perché non considera vita umana personale quella dell'embrione in vitro, fuori dal grembo materno: assomiglia alla teoria del personalismo relazionale degli evangelici, a quelle di molti filosofi cattolici e consente di disporre dell'embrione in provetta, di prelevargli cellule staminali, di utilizzare mezzi di controllo delle nascite come la pillola del giorno dopo e la spirale: un vero disastro per la morale cattolica tradizionale. Nel 2002 gli irlandesi vanno al referendum (vi dico subito che questa proposta verrà bocciata) e guarda un po' chi si schiera con grande energia a favore di una novità tanto simile a una eresia: tutto l'episcopato che dirige la Chiesa irlandese, con i suoi 26 vescovi titolari e i 9 vescovi ausiliari. La ragione di questa straordinaria scelta l'hanno scoperta i cattolici integralisti ed è comparsa più volte sui loro giornali : incombeva ancora la questione degli ingenti risarcimenti da destinare alle centinaia di vittime di abusi sessuali e di violenze compiuti tra gli anni Cinquanta e Sessanta dai membri del clero ai danni di bambini affidati alle loro cure, e una serie di discreti negoziati (cito da www.irlandanews.com) «hanno prodotto un non decentissimo compromesso: il governo accettava che l'onere maggiore dei risarcimenti venisse assunto dallo Stato invece che dalla Chiesa e in cambio la Chiesa dava il suo visto alla proposta governativa sull'aborto». C'è bisogno di commenti?
"Questa orribile commistione da specie diverse è un pendio scivoloso che ci condurrà ad accettare le più ignobili intromissioni della scienza in quanto c'è di più nobile e sacro nella natura dell'uomo". Anche qui avrei tantissime cose da dire, ma mi limito alla più concreta: nel 2000, al congresso internazionale di Roma sui trapianti d'organo, Giovanni Paolo II dichiarò che la pratica degli xenotrapianti era ammissibile purché servisse al bene dell'uomo e non comportasse rischi eccessivi. Uno xenotrapianto consiste nel sostituire il fegato di un uomo malato di cirrosi con quello di un maiale e il rene di un paziente costretto alla dialisi con quello di una scimmia. Debbo dunque concludere che questa reale e concreta contaminazione dell'uomo con l'animale va bene mentre non va per niente bene (anzi, è mostruoso) uno studio scientifico che non ha alcuna velleità di applicazione clinica diretta, ma deve servire solo ad acquisire conoscenza? C'è qualcuno che ci vede un minimo di logica ?
"Queste ricerche sono motivate da una vergognosa sete di guadagno, dietro a queste ipotesi pseudo-scientifiche ci sono interessi economici neppure immaginabili". Qui ho proprio qualche problema. Quando ero molto più giovane ho lavorato in un laboratorio inglese, per un lungo periodo di tempo. Avevo un confortevole stipendio dell'Oms e mi potevo permettere l'affitto di una casa in Chelsea, vicino al centro di ricerca, mentre tutti i miei colleghi - la maggior parte dei quali copriva ruoli più importanti del mio - si faceva ogni giorno almeno un'ora di treno o di autobus per venire al lavoro, perché gli affitti di Londra erano troppo cari : posso anche assicurarvi che i loro stipendi erano quasi da fame. La richiesta di poter lavorare sugli ibridi non viene da qualche bastardo rappresentante di una multinazionale, viene da quella stessa categoria di ricercatori con i quali ho lavorato, gente che i mobili di casa se li monta da sola e che ha poco da scialare.
Ho già scritto in altra sede che quando si dicono queste cose bisogna dimostrarle, altrimenti si può essere legittimamente considerati dei calunniatori. So anche a chi vengono indirizzate queste menzogne: ai compagni, ai lavoratori, alla gente che non accetta che la ricerca scientifica venga utilizzata per arricchirsi, per tirarli dalla propria parte. Non facciamoci imbrogliare.
"L'Autorità, gli scienziati, i ricercatori inglesi hanno turlupinato l'ingenua opinione pubblica inglese, raccontando tristi fandonie e nascondendo la vera ragione di queste sperimentazioni" (che sarebbero poi quelle di cui parlavo, cioè i favolosi guadagni e i vergognosi interessi). Qui siamo nella vera e propria follia. In questo momento quasi tutti i sociologi stanno considerando con interesse - e molti con ammirazione - il metodo che è stato utilizzato in Inghilterra per informare i cittadini e per metterli in grado di capire, giudicare e decidere. E' un metodo trasparente, onesto e democratico che dà a tutti il potere di prendere una decisione sui grandi temi della modernità, per prima cosa sui limiti che debbono essere posti alla ricerca scientifica, un compito che spetta di diritto ai cittadini. Che ci sia ancora qualcuno che pensa che questo sia un privilegio delle religioni, della loro ossificata morale, dei loro libri pieni di menzogne, costruiti sulle più obsolete leggende e sui più incredibili miti, che dovremmo oltretutto immaginare incisi sulla pietra viva da grandi mani invisibili che impugnavano un fulmine stilografico , non è nemmeno più divertente.
Ultimo punto, una proposta personale. L'Italia è l'unico Paese nel quale, come conseguenza della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita, si congela una grande quantità di oociti, molti dei quali divengono rapidamente inutili e vengono distrutti. Visto che per una considerevole parte dei cattolici la formazione di embrioni ibridi rappresenta una ragione di sofferenza (si tratta, ha detto monsignor Sgreccia, di un evento mostruoso) perché non si fanno promotori, questi stessi cattolici, di una semplice iniziativa, proponendo ai ricercatori inglesi di utilizzare i nostri gameti congelati e di rinunciare alla loro "mostruosa" esperienza? Aspetto, fiducioso, un segno di consenso .

Liberazione 13.9.07
W l'Italia: la buona Tv esiste. Basta avere le idee e la passione per farla
di Rina Gagliardi


Ma se è vero che c'è televisione e televisione, è così assurdo pensare che ci possa essere politica e politica? E' così folle pensare a una politica davvero diversa da quella corrente, davvero riformata in profondità?
Questo era giust'appunto il tema dell'ultima puntata. Si partiva, com'era logico, dal V-Day di Grillo, dal "vaffanculo" gridato davanti a trecentomila persone - che sicuramente erano in sintonia con diversi altri milioni di cittadini italiani. Bertinotti ha ribadito, all'avvio, il suo giudizio: se in politica si crea un vuoto, quel vuoto qualcuno lo riempie, pur magari in termini discutibili. E dunque quel V, quel groviglio di sentimenti e umori di massa, devono in primo luogo essere ascoltati e valutati: giacchè, dice il presidente della Camera, la crisi della politica c'è, ed è molto grande, investe la credibilità delle istituzioni, dei governi, dei parlamenti, fino ad insidiare i fondamenti stessi della democrazia. Ma da dove nasce? Per Bertinotti, l'analisi non può che muovere che da un dato seccamente materiale e drasticamente semplice: «Ci sono troppi cittadini che non arrivano a mille euro al mese». Troppi lavoratori che stanno male, muoiono sul posto di lavoro, vivono una condizione d'insieme che peggiora - mentre la società diventa sempre più ricca. Troppi giovani precari. Troppe "ingiustizie" e disuguaglianze. In un quadro come questo, la politica appare non solo lontana ma inefficace e incapace di modificare l'esistente- e quindi ingiusta, e quindi quasi esclusivamente fonte di privilegi per tutti coloro che riescono ad accedervi e a farne il loro mestiere. Naturalmente, il presidente della Camera - che ha di fronte due giornalisti di grande civiltà, come Ferruccio De Bortoli e Oscar Giannino - non ha alcuna propensione di tipo, come si usa dire, "populistico", e sulle concrete ricette proposte da Beppe Grillo non manca di prendere le distanze: ma nella ondata attuale di "antipolitica" vede non solo una critica fondata, ma anche la domanda potenziale di un'altra politica. «Senza un'idea di società, senza un progetto generale, senza una proposta di sistema, la politica non c'è - c'è al massimo l'amministrazione quotidiana dell'esistente». Insomma, dice Bertinotti: i privilegi dei politici (ma anche dei manager, dei giornalisti, dei dirigenti pubblici) vanno certamente ridotti, la moralità va ripristinata con forza, a volte anche procedendo con l'accetta, la voracità di "posti" da occupare va bloccata, ma il punto fondamentale in realtà è un altro. E' una politica capace di pensare in grande - non tanto per "Grandi Ideali", ma per Grandi Progetti capaci di rimettere al centro del patto sociale generale quello che Napoleoni chiamava il "vincolo interno". Oggi - ed è un'altra drammatica ragione della sua crisi - «la politica è diventata ancella dell'economia, delle esisenze del mercato e della logica d'impresa». E il recupero della sua autonomia - della sua sovranità - è una delle priorità di questa fase storica.
Qui, naturalmente, tra le incalzanti domande di Iacona, la curiosa pretesa del direttore del "Sole 24 Ore" di far pronunciare Bertinotti sul grande rifiuto della Fiom, le divagazioni liberiste di Giannino, il dibattito si fa più stringente, più politico. Come la discussione su quanti sono effettivamente i precari del lavoro nel nostro Paese - ed è il professor Luciano Gallino a offrire cifre sociologicamente convincenti, e a ribadire che la precarietà è prima di tutto sofferenza sociale, blocco dello sviluppo, insicurezza di massa. Non è del resto il lavoro il fondamento primo della nostra Carta costituzionale? Bertinotti cita a proposito proprio l'articolo 1, giustamente sottraendosi alla discussione sull'attualità dell'autunno caldo in arrivo - "l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro", affermazione di principio del massimo impegno, che infatti non trova riscontri in molti altri paesi. Che cosa vuol dire? "Che ha ragione Gallino: il lavoro è e resta il fondamento vero della cittadinanza", e quindi della Politica (quella con la P maiuscola). «Una politica che non ricollochi al suo centro la civiltà del lavoro, la sua dignità, i suoi diritti è destinata, come oggi rischia di accadere, al fallimento». Al vuoto. Al decadimento. Alla sfiducia.
Può darsi (anzi è certo) che martedì sera fossimo spettatori pregiudizialmente favorevoli, insomma molto ben disposti. Ma ci pare di poter dire che quella di Bertinotti è stata proprio una lezione di "buona politica", non dentro uno dei soliti contenitori, ma dentro un programma di "buona Tv". Qualche volta, i conti tornano.

Liberazione 13.9.07
Parla l'intellettuale britannico autore del pamphlet "Dio non grande"
«Chi ritiene l'islam radicale anti-imperialista commette un grave errore»

Hitchens: l'integralismo è nemico della sinistra
di Guido Caldiron


Un agit-prop del dopo 11 settembre, un intellettuale a vocazione militante che mette nella sua battaglia di oggi contro l'Islam politico la stessa verve che ha messo un tempo nella denuncia dei crimini americani in America Latina. E' difficile definire Christopher Hitchens, il giornalista e critico letterario inglese che al Festivaletteratura di Mantova si è scontrato pubblicamente con Tariq Ramadan, definendolo uno degli "interpreti" più scaltri e sottili del fondamentalismo musulmano nei confronti dell'Occidente. Di formazione trotzkista, a lungo legato al Socialist Workers Party inglese e collaboratore di riviste della sinistra britannica e americana, tra cui The Nation , dopo l'attacco alle Twin Towers Hitchens si è trasformato in uno dei maggiori sostenitori della tesi dell'esistenza di un "fascismo islamico" da combattere con ogni mezzo, compresa la guerra. Alla stampa che lo ha definito come un neocon, Hitchens, che rivendica per altro la recente amicizia con Paul Wolfowitz, ha replicato che le sue convinzioni politiche dai tempi della sinistra radicale non sono cambiate di molto. Del resto solo lo scorso anno ha preso parte alla campagna che chiede l'annullamento per incostituzionalità del Patriot Act. Ateo militante e nemico del fondamentalismo come della religione ha presentato a Mantova il suo ultimo libro "Dio non è grande" in cui sostiene «il bisogno di un nuovo illuminismo». Perché anche ora che scrive per Wall Street Journal e il Daily Mirror e frequenta gli ambienti vicini all'amministrazione Bush, Hitchens sembra guardare soprattutto all'eco che le sue parole, lanciate quasi in segno di sfida, possono trovare a sinistra.

In un articolo pubblicato su The Nation dopo l'11 settembre lei ha parlato di "fascismo dal volto islamico". Davvero crede che siamo di fronte a una minaccia paragonabile a quella degli anni '30?
La minaccia del fascismo degli anni Trenta proveniva da Stati organizzati, compresa ovviamente anche l'Italia di Mussolini. Invece la minaccia fascista con cui dobbiamo fare i conti oggi non ha assunto, o non ha assunto soltanto, la forma di realtà statuali. Credo che il rischio che si corre sia simile a quello di allora, ma le forme in cui si manifesta siano molto diverse. Dobbiamo fare attenzione, dobbiamo lottare contro questo nuovo fascismo come si è lottato contro quello degli anni '30: cercare di prevenire la sua diffusione ma anche cercare di rispondere alle sue azioni e, nel caso, essere in grado di rispondere colpo su colpo anche con la guerra.

Le differenze con gli anni '30 sono però sotto gli occhi di tutti, non crede?
Non ne sarei così sicuro. Mi spiego. Credo si possano scorgere invece diverse analogie tra questi movimenti e il fascismo storico. Intanto l'ideologia che è alla base dell'Islam politico fondamentalista, in particolare quello salafita, è totalitaria nel senso vero e proprio della parola. I suoi adepti vogliono instaurare un regime che possa decidere di ogni aspetto della vita degli individui: dalla sfera della sessualità a quella del pensiero. Una volontà di controllare completamente le persone tipica delle dittature. Inoltre i fondamentalisti vogliono tornare agli imperi del passato, al califfato. Anche questo aspetto di nostalgia di un "grande" passato da restaurare assomiglia molto a quanto sostenevano i fascisti europei, per il regime di Mussolini si trattava ad esempio di tornare ai "fasti" dell'Impero Romano. A sinistra ci sono molte persone decisamente poco informate su queste cose che ritengono che l'Islam fondamentalista sia anti-imperialista, mentre è esattamente il contrario: questa gente sogna di tornare a un impero guidato da un Califfo. A queste posizioni totalitarie si accompagna poi una glorificazione costante della violenza, penso in particolare alla figura dei kamikaze. Questa ideologia, al pari del fascismo europeo di un tempo, è infatti caratterizzata da una potente impronta nichilista.

Su The Nation lei ha avuto uno scambio molto duro con Noam Chomsky dopo di che ha deciso di chiudere la sua collaborazione con la rivista per divergenze radicali sulla guerra in Irak. Cosa rimprovera alla sinistra?
In effetti la querelle con Chomsky illustra bene i ritardi e la visione distorta che molta parte della sinistra ha su questi temi. Costoro credono che il fascismo islamico sia in realtà un movimento di liberazione teologica, riconoscono certo che vi sono elementi primitivi di estremismo ma riconducono tutto a una sorta di reazione agli errori compiuti in passato dalla politica estera dell'Occidente e degli Stati Uniti in particolare. Per il resto non considerano un pericolo la minaccia totalitaria del fondamentalismo. Personalmente ho scritto molto sulla politica estera degli Stati Uniti, sul ruolo terribile svolto dagli Usa in America Latina negli scorsi decenni. Non ho mai fatto sconti a Washington, si tratti del ruolo giocato in favore delle dittature fasciste o degli interventi militari diretti. Questo non mi impedisce però di vedere cosa accade oggi nel mondo.

Da avversario di ogni fondamentalismo non crede sia assurdo sostenere la guerra di Bush in Irak voluta fortemente dalla destra cristiana che sogna una teocrazia a Washington?
Non credo si possa stabilire un'analogia tra Bush e Bin Laden, se il problema è questo. Non esagero se dico che gli esponenti della destra cristiana sono miei nemici irriducibili, ma non credo che al centro dei loro interessi ci sia la guerra in Irak, magari guardano con più attenzione al Darfour dove c'è una minoranza cristiana che intendono difendere. Negli Stati Uniti coloro che sostengono le ragioni della guerra in Irak vanno piuttosto cercati tra le persone che difendono la società civile, il nostro sistema di vita, la democrazia stessa, perché ritengono sia da preferire alla teocrazia, a qualunque tipo di teocrazia. Spesso a sinistra si sente dire che sulla guerra è la destra cristiana a sostenere Bush, o che sono gli ambienti ebraici interessati solo alle sorti di Israele. Guardando la società americana la realtà mi sembra però molto più complessa e mi sembra anche che si attribuisca alla destra cristiana un ruolo ben più rilevante di quello che ha nella realtà. In realtà si esagera volutamente e si dice: "Bush vuole una teocrazia negli Stati Uniti" solo perché si vuole cambiare argomento e si vuole evitare di esprimersi sul modo con cui combattere chi la teocrazia cerca di costruirla ogni giorno con il terrorismo.

The Lancet 4 September 2007
Mental health and human rights
by Amita Dhanda and Thelma Narayan


The Lancet Series on global mental health draws attention to a long neglected health and social policy issue. This concern is particularly needed today, because social conditions, especially widespread poverty, disasters, violence, and war, can precipitate the breakdown of vulnerable individuals and social systems.

In this context we note how groups such as the People's Health Movement (PHM), a coalition of several groups working in many countries, have evolved an approach to mental health that is qualitatively different from expert-driven strategies. This approach is exemplified by the Peoples Charter for Health1 and subsequent documents2 based on peoples' experiences and aspirations.3 Just as people living with HIV/AIDS have provided input into policy and practice, there is a need to give a greater centrality to those living with mental illness. Such an opportunity is afforded by the UN Convention on the Rights of Persons with Disabilities, which has had the active participation of individuals with disabilities, including those living with mental illness.

The right to life and liberty is primary in human rights discourse. However, for people with mental illness, deprivation of liberty by forced institutionalisation might be justified on grounds of danger to themselves and others. This justification does not take into account the people who have died or been permanently scarred by loss of liberty or basic human dignity. User-survivors narrate the experience graphically, and seek a total embargo on forced interventions.4 The UN Convention recognises that all people have rights to both life and liberty and to physical and mental integrity. However, it neither expressly bans nor explicitly permits forced intervention. This stalemate affords an opportunity to revisit forced interventions from the standpoint of people with mental illness.5

Scholars have argued that personal effectance (the opportunity to act or function) is essential for human beings to fulfil their potential.6 The right of all individuals to be recognised in law as having the capacity to act promotes such personal effectance; however, the capacity to act has been regarded as questionable for people with mental illness. Consequently, there is legal provision to enable arrangements that protect the interests of such people, although such arrangements have been viewed as legal reinforcement of social stigma.7 The UN Convention on the Rights of Persons with Disabilities has further questioned this process of disqualification. Article 12 of the Convention recognises the full legal capacity of all people with disability, and that the capacity to act is an integral component of this legal capacity. Yet the article does not negate the need for support—instead, in acceptance of human interdependence, the Convention recognises the right to seek support, and in acceptance of human frailty, it establishes the standards for providing support and safeguards against abuse. The mechanisms of support for people with mental illness need not be based on the all-or-nothing theory of guardianship. The personal ombudsperson system in Sweden8 and the restricted guardianship procedures of India9 are steps in that direction.10

People living with mental illness have always faced difficulties in participating in society because of pressure to conform to normal social and legal standards. This pressure has been eased by the Convention, which accepts the principle of reasonable accommodation and allows the norms to be modified to accommodate people's diversity. The Convention also recognises that people with disabilities, including those living with mental illness, have a right to be consulted in the formulation of all policies, laws, and practices that affect them. There is thus a duty to recast psychiatric practice and procedure in active consultation with its users.

In addition to medical interventions, an important demand being voiced by civil society representatives is for the creation of support networks for human distress and illness that are wider than the medical establishment.11 A cue could be taken from innovative community-based work by non-governmental organisations and professional groups. The groups include: BasicNeeds,12 working in several countries; CBR Forum (community-based rehabilitation), partnered with 90 organisations across India; and the Women's Health Empowerment Programme, supported by WHO. Various creative strategies have evolved, such as: the setting up of self-help groups, including people with mental illness and their support networks; addressing issues of livelihood; promotion of life-skills education and parenting skills; and studying and using local healing traditions, including spiritual traditions.13 These methods, combined with the psychiatric care offered by the medical establishment, could make for a mental health policy that is holistic and consonant with human rights.

The UN Convention on the Rights of Persons with Disabilities and the People's Movement for Mental Health require that the stereotypes of mental health law and policy be revisited. Because law and policy do not exist in isolation from society, this is a mandate to re-examine their implications for social interactions, in therapy, and in clinical decision-making.

We declare that we have no conflict of interest.
References

1. People's Health Movement. People's Charter for Health
http://www.phmovement.org/pdf/charter/phm-pch-english.p...
(accessed Aug 15, 2007)..

2. People's Health Movement. Mumbai Declaration from the III International Forum for the Defence of People's Health
http://www.phmovement.org/files/md-english.pdf
(accessed Aug 15, 2007)..

3. People's Health Movement
http://www.phmovement.org
(accessed July 6, 2007)..

4. WNUSP and Bapu Trust, Pune. First person stories on forced interventions and being deprived of legal capacity
http://psychrights.org/Stories/stories.pdf
(accessed Aug 17, 2006)..

5. Minkowitz T. United Nations convention on the rights of persons with disabilities and the right to be free from non consensual psychiatric interventions. Syracuse J Intl Law Commerce 2007; 34: 405.

6. Ryan RM, Deci EL. Self-determination theory and the facilitation of intrinsic motivation, social development, and well-being. Am Psychologist 2000; 55: 68-78.

7. Dhanda A. Legal order and mental disorder. New Delhi: Sage Publications, 2000:.

8. PO-Skåne.
http://www.po-skane.org
(accessed July 10, 2007)..

9. Dhanda A. Legal capacity in the disability rights convention: stranglehold of the past or lodestar for the future. Syracuse J Intl Law Commerce 2007; 34: 429.

10. Nussbaum M. Frontiers of justice: disability, nationality, species membership. Cambridge, MA: Belknap Press, 2006:.

11. Department of Health and Family Welfare. Priorities for mental health sector in Gujarat India. Gujerat: Government of Gujarat, 2003:.

12. Basic Needs Review. Community my community. Sri Lanka: Basic Needs, 2005:.

13. Centre for Advocacy in Mental Health. Alternative mental health—report of a workshop, Aug 27–29, 2003. 2003:
http://www.camhindia.org/amh_workshop_report.html
(accessed Aug 20, 2007)..


Affiliations:

a. National Academy of Legal Studies and Research, Hyderabad, Hyderabad, India
b. Community Health Cell, Bangalore, Karnataka 560034, India

mercoledì 12 settembre 2007

il Riformista 12.9.07
Filosofia. Colloquio con Zygmunt Bauman, che sarà sabato in Italia
«Privatizzare, escludere. È l’ideologia del reality show
Lo stato penitenziario si accanisce su poveri lavavetri»

Nell’era “liquida” in cui viviamo andiamo verso l’accettazione di una conoscenza relativa e flessibile. Per il sociologo, nella società dei consumi i poveri sono “senza funzione”, sono consumatori “difettosi” che comprano prodotti che portano poco o nessun profitto

di Livia Profeti


Zygmunt Bauman, uno dei più grandi sociologi del nostro tempo, sarà presente sabato 14 al festival della filosofia di Modena Carpi e Sassuolo con una Lectio Magistralis dal titolo Dalle credenze all’ideologia. Un viaggio di andata e ritorno?. In attesa di venire in Italia ha accettato di conversare con il Riformista.

Professor Bauman, in un festival dedicato al tema del “Sapere” il titolo della sua relazione suggerisce che le credenze abbiano qualcosa a che fare con la conoscenza.
«Il termine “credere” non è solo sinonimo di fede ma ha anche il significato di “avere fiducia”, “essere confidenti” in qualcosa o qualcuno, ed in questo senso è forse una componente indispensabile del processo di conoscenza. Nella folla di comunicazioni contraddittorie che ci circonda, la nostra fiducia in una “credenza” ci dice dove fissare una linea tra proposizioni attendibili e non attendibili. Se privato delle credenze che ci fanno scegliere fra i molti messaggi opposti o incompatibili, il processo della conoscenza sarebbe come affrontare un labirinto di strade che si intersecano e si biforcano senza alcuna mappa né segnaletica. Noi quindi abbiamo bisogno di credere, anche se può accadere che in seguito ci rendiamo conto di aver commesso un costoso errore. Per lo stesso motivo le credenze non avrebbero alcuna funzione positiva se la nostra fiducia in esse non fosse ostinata e senza esitazioni, ma d’altro canto proprio queste caratteristiche le rendono refrattarie alle revisioni critiche. E’ per questa ragione che sono viste dalle scienze moderne in totale opposizione alla “vera” conoscenza, quella sperimentale. Una cosa che gli scienziati però raramente confessano è che la nostra fiducia nella scienza come unica strada verso la conoscenza è essa stessa basata su una credenza…»

Anche i filosofi non hanno molta simpatia per le credenze.
«I filosofi tendono a rifiutare le credenze come serie protagoniste di un dibattito sempre in ragione della loro indifferenza ai test empirici e agli argomenti razionali. Quando parlano di credenze i filosofi le sviliscono con il prefisso “mere”, che suggerisce inferiorità e inconsistenza. Per i filosofi tesi verso la scoperta della verità ultima, sub speciae aeternitatis, le poco fondate credenze, abbracciate senza riflettere e fermamente mantenute, sono forse l’ostacolo più odioso. Questa guerra iniziò con Platone e con il celebre “mito della caverna”».

Diversamente dalle ideologie, verso le quali non c’è sempre stata la stessa antipatia.
«Il concetto di ideologia è nato alla fine del 18° secolo ma da allora ha assunto diversi significati. Per Destutt de Tracy, che lo ha coniato, l’ideologia era la scienza che studiava la formazione della conoscenza. I padri dell’Illuminismo erano convinti che nulla esiste aldilà delle idee che possediamo di loro e che quindi le realtà umane possono essere modellate a volontà rimodellando le idee nelle menti, a partire da quelle del popolo: i pensieri nei quali crede. Era contro tale attribuzione alle idee della capacità di cambiare la realtà che Karl Marx ha diretto la critica tranchant contenuta ne L’ideologia tedesca. Per Marx è il modo di essere-nel-mondo che determina la coscienza umana, non il contrario: se vuoi cambiare gli uomini si devono cambiare le condizioni materiali sotto le quali essi agiscono, se essi hanno pensieri sbagliati è perché abitano in un mondo sbagliato. Il problema posto da Marx fu dibattuto nel 19° secolo nel linguaggio della controversia tra materialismo storico e idealismo».

E come si è compiuto il “viaggio di ritorno”?
«Il termine ideologia è rientrato nel vocabolario sociale e scientifico del 20° secolo in gran parte per effetto delle tesi di Karl Mannheim nel suo Ideologia e utopia, finendo con l’assumere il significato che ha ora comunemente. Ai nostri giorni, per definizione un’ideologia non è oggettiva e universale ma tende ad essere associata a visioni parziali in conflitto tra loro, insiemi di “credenze” che non appartengono alla totalità sociale ma a gruppi o categorie di persone.
Il trend dominante della nostra era “liquida” è quello di andare verso l’accettazione di una conoscenza relativa e flessibile, con proposizioni che hanno una validità limitata nel tempo; un pragmatismo che consiste nel fare scelte in base alle situazioni calcolando le opportunità e i pericoli, piuttosto che essere guidati dalla fedeltà a dei principi ritenuti incrollabili. In qualche modo quindi, le ideologie intese come verità parziali perseguite senza indecisioni sono più compatibili con la relatività e flessibilità del modo corrente rispetto alla visione ortodossa di scienza come proprietaria di verità assolute ed universali».

Da qui la nascita di nuove ideologie, come quella che lei definisce ideologia della privatizzazione.
«In effetti non sembra che la previsione della “fine delle ideologie”, largamente data per scontata 20/25 anni fa si stia rivelando corretta. Certe dichiarazioni politiche, come ad esempio quelle del neo presidente francese Sarkozy - che ripete continuamente che lavorando duramente e per più ore si diventa ricchi - contengono tutte le caratteristiche delle credenze, di cui svolgono il compito: spingono ad agire e infondono fiducia che quello che si sta facendo porterà risultati positivi; inoltre manifestano uno spirito agonistico normalmente associato all’idea di ideologia. Forse l’unica caratteristica che manca alla filosofia di vita di Sarkozy rispetto a quelle delle ideologie così come siamo abituati a conoscerle è una certa visione della “totalità sociale” che, come sosteneva Durkheim, è più della somma delle parti. Sta accadendo cioè una curiosa torsione: a dispetto della sua lunga tradizione, l'ideologia che i vertici attualmente propongono alla popolazione è la credenza che le visioni di una buona società come composizione della “totalità” sociale siano una perdita di tempo, perché non influiscono sul successo della vita individuale. L’ideologia della privatizzazione sta scansando da sé tutti i passati richiami alla comunità, di qualsiasi tipo essa fosse. Sarkozy non è stato il primo ad accelerare questo spostamento, la priorità spetta piuttosto a Margaret Thatcher che dichiarò che “non c’è più qualcosa come la “società”. Esistono solo il governo e le famiglie”».

Dunque l’ideologia della privatizzazione tende a presentare l’idea di una società di tutti contro tutti…
«E’ forgiata per la nuova società individualizzata e proclama la futilità, o meglio la controproduttività, di unire le forze e subordinare le azioni individuali ad una “causa comune”. Il popolare Grande fratello è presentato come reality show perché suggerisce che la vita reale è come la saga dei suoi concorrenti: che qualcuno verrà escluso è fuori discussione, l’unica questione è chi sarà. Il messaggio è che qualcuno deve essere escluso ogni settimana perché è scritto nelle regole della “realtà”: l’esclusione è un aspetto irrinunciabile dell’essere-nel-mondo, una “legge di natura”, e quindi ribellarsi non ha senso. Inoltre è un’ideologia a misura della nuova società dei consumatori: fornisce una rappresentazione del mondo come magazzino di potenziali oggetti di consumo e della vita come ricerca continua di “affari”, il cui scopo è la massima soddisfazione nel consumo mentre il successo è l’aumento del proprio valore sul mercato».

In Lavoro, consumismo e nuove povertà (Città aperta) lei parla di “criminalizzazione post-moderna della povertà”. Un argomento molto attuale in Italia, come mostra il dibattito intorno alla “questione dei lavavetri”. Da dove proviene questa tendenza?
«Nella società dei consumi i poveri sono “senza funzione”, sono consumatori “difettosi” che comprano prodotti che portano poco o nessun profitto. Non possono svolgere il ruolo che ci si aspetta dalle persone-consumatori: incrementare lo sviluppo economico e così i profitti degli azionisti e dei managers delle aziende commerciali. Investire sulla povertà ha poco “senso economico” nella società dei consumatori, diversamente dalla iniziale società moderna di produttori, dove invece erano visti come materia prima, dell’esercito del lavoro o militare. E così la tendenza è quella di passare da uno “stato sociale” ad uno “stato penitenziario”, dove i poveri sono incarcerati, mantenuti fuori dalle mura, vigilati e rimossi dalla pubblica vista e lontano dalla “gente normale”. In aggiunta ai vizi e ai peccati ascritti due decenni fa alla cosiddetta sottoclasse, recentemente è stata aggiunta l’accusa di terrorismo e più generalmente di minaccia alla pubblica sicurezza. I poveri, ed in particolare gli immigrati poveri, sono ora “colpevoli sino a prova contraria”, ma non hanno affatto i mezzi per dimostrare la loro innocenza».

Ideologia, esclusione, criminalizzazione. Parole che evocano scenari dello scorso secolo che lei ha affrontato nel suo capitale Modernità e Olocausto (Il Mulino). Un mese fa è scomparso il grande storico Raul Hilberg, che mise in luce lo sterminio nazista come implacabile processo di razionalità strumentale. Quanto ha inciso il lavoro di Hilberg nelle sue ricerche?
«E’ a Raul Hilberg più che a qualsiasi altro studioso che io devo la comprensione di un una vera e propria “affinità elettiva” tra modernità e olocausto o, più generalmente, “inclinazione totalitaria”. L’importanza del suo lavoro, che non ha finito di produrre i suoi effetti, difficilmente può essere sopravvalutata. Egli è stato uno storico formidabile ma gli dobbiamo molto più di una migliore comprensione di ciò che è accaduto in passato e perché. Hilberg ci ha insegnato come guardare la società nella quale noi stessi viviamo, e su cosa focalizzare la nostra vigilanza. Assassinii di massa, massacri tribali e genocidi accompagnano la specie umana sin dai suoi inizi, tuttavia l’Olocausto, l’annientamento sistematico di un intero popolo condotto come una sorta di “genocidio industrializzato”, sarebbe impensabile fuori dalla civilizzazione moderna. Non solo per i mezzi tecnologici e l’organizzazione burocratica che l’impresa richiede, ma anche a causa della fenomeno unicamente moderno della “costruzione dell’ordine”. Lo spirito moderno spicca per la sua ossessione a cambiare la realtà seguendo un disegno preordinato, presunto come più razionale. Ogni qualvolta venga introdotto un nuovo ordine, alcuni elementi del vecchio vengono cambiati in quanto superflui o decisamente dannosi, come le erbacce che, disturbando l’armonia desiderata di un giardino, vanno estirpate. L’Olocausto è stata una simile operazione di “giardinaggio” in cui le razze straniere avevano il ruolo delle erbacce, così come per i gulag di Stalin le erbacce erano le “classi sfruttatrici” e i loro alleati, reali o presunti. Per tentare di sradicare una “razza” o una “classe”, nel secolo scorso è stato necessario sopprimere le emozioni e tutte le altre manifestazioni della soggettività, e sottomettere il comportamento umano al dominio incontestato della ragione strumentale».

Analizzando le caratteristiche dello sterminio nazista sino agli esempi dei genocidi in Bosnia e nel Kosovo come in Rwanda o Sri-Lanka, in un suo lavoro inedito in Italia lei ha coniato la definizione di “assassinio categoriale”, sostenendo che «l’era moderna, ed in particolare l’era della modernità liquida (…) ispira i massacri categoriali in se stessa». Quale strategia possibile per fermare questa tendenza?
«Un assassinio categoriale si caratterizza non solo per il fatto di privare le sue vittime della propria vita, ma anche, ed a priori, per espropriarli della loro umanità, della quale la soggettività e il diritto a decidere delle proprie azioni sono elementi costitutivi. Divisione, separazione ed esclusione sono e rimangono i suoi strumenti fondamentali. Come Hilberg ha osservato, il destino degli Ebrei europei si è segnato nel momento in cui i nazisti completarono il loro “registro” separato dal resto dei tedeschi “normali”, e stamparono la lettera “J” sul loro passaporto. Tagliare alle radici la tendenza genocidiaria richiede la dichiarazione di inammissibilità di doppi standard, differenti trattamenti, e della separazione che apre le porte a guerre di sopravvivenza “a somma zero”. Qualsiasi norma relativa alla convivenza umana che nasca dalla terribile lezione della lunga serie di questo tipo di massacri può essere esclusivamente universale, mai applicata selettivamente. Pena il pericolo che possa essere trasformata, con una scusa qualsiasi, in un’apologia del diritto del più forte. Chiunque sia il più forte nel momento nel quale l’apologia è proclamata».