sabato 15 settembre 2007

l’Unità 15.9.07
POLEMICHE I saggi e le idee del pensatore esoterico amato dalla «nuova destra» negli anni passati e oggi addirittura recuperato a sinistra malgrado la sua inconsistenza e il suo reazionarismo privo di ambiguità
Riscoprire Julius Evola? No grazie, è l’essenza del fascismo radicale
di Bruno Gravagnuolo


Evola filosofo della libertà? Maestro di un’emancipazione radicale capace di farci riguadagnare nientemeno che il «libero arbitrio»? E di rivaleggiare con Hegel, Nietzsche e Gentile, quanto a vigore di pensiero? No, davvero non si sentiva il bisogno di questo ennesimo tormentone «revisionista». Anche perché in questo caso l’aggettivo è davvero sprecato e inapplicabile, stante che è impossibile scindere il «razzista spirituale» Julius Evola dal suo «reazionarismo» di fondo. Dalle scelte che connotarono la sua vita e il suo ruolo. E dall’esilità tardoromantica del suo nero messaggio esoterico.
Ma tocca ritornarci su. Dopo che già La Repubblica vi aveva dedicato una paginata il 30 marzo scorso, col recensire pomposamente e con poche avvertenze critiche due «capisaldi» del pensiero evoliano. In particolare Fenomenologia dell’individuo assoluto e Saggi sull’idealismo magico (ed. Mediterranee, a cura di G. De Turris). Sul secondo dei quali tornava altrettanto pomposamente ieri il Corsera (con qualche avvertenza in più) con articolo di Dario Fertilio.
Ieri era stato il bravo Franco Volpi, studioso e traduttore di Heidegger a rivalutare Evola. Oggi invece è Massimo Dona, prefatore di Fenomenologia, a rilanciare. Dopo che già Massimo Cacciari negli anni scorsi aveva «sdoganato» l’ex pittore dadaista (1898-1974) convocato dal Duce su imbeccata di Pavolini nel 1938, a distillare la dottrina «ario-mediterranea» che fu a base del Manifesto sulla razza. Già perché intanto sulla base di quella dottrina, rimpolpata da Evola, il fascismo intendeva rivaleggiare col nazismo e con il suo razzismo ariano e biologistico. E sulla base di quel contributo, sistematizzato da Landra e Pende, Evola fu spedito a Berlino, per convincere i camerati della liceità e della «differenza» del razzismo nostrano. Ricevendone in cambio diffidenze e perplessità. «Ario-mediterraneità» sigificava infatti un razzismo più duttile ed egemonico, plasmato su un «bio-tipo» assimilativo più ampio di quello «nordico». Ma che «discriminava» e dannava altresì ebrei e africani. Il che però non voleva dire affatto che «l’archetipo spirituale», o il «mito», non modellassero in Evola il «soma» o non lo selezionassero. Insomma, quello di Evola era un razzismo in salsa italica pasticciato e pretenzioso, non meno pericoloso di quello «doc», e che servì a giustificare culturalmente il mito della razza e le leggi razziali, con ciò che ne derivò tra il 1938 e il 1945 (c’è anche e soprattutto la Rsi!).
Ciò detto qual è lo «specimen» filosofico di Evola, nume ispiratore della vecchia e nuova destra, esoterica e non, che campeggiava anche nelle tesi An di Fiuggi? Presto detto. Una sorta di individualismo assoluto e magico. «Inattuale» e rescisso dalla storicità. Polemico con l’idealismo gentiliano e proteso alla riscoperta di archetipi e mitologemi eterni, da cavalcare in vista di un rovesciamento elitario dei valori. Sono gli «Io» dispotici ed eroici a fare la storia per Evola, e a rilanciare sulla ruota del ciclo delle rinascite i valori che contano. E che fanno storia: gerarchia, razza come principio spirituale, tradizione come radicamento e piedistallo di Imperialismo pagano. Una specie di «Junghismo» reazionario e anche di anarchismo individualistico alla Stirner. Dove l’«Eterno ritorno» non è la volontà di potenza materialistica di Nietzsche che spregia ideologie e maschere, e s’affida all’«innocenza del divenire» senza Dio. Ma dove viceversa i valori sono stelle fisse da recuperare, «cavalcando la tigre» del presente, e in attesa di un ordine purificato e aristocratico. In breve: «nazifascismo spirituale». E al più interessante per capirne le fantasie e l’immaginario profondo.

Repubblica Roma 15.9.07
Sermonti legge Enea, avventure e amori dove nacque la città
di Francesca Giuliani


Leggere l´Eneide parola per parola, ascoltarne il canto, seguire le vicissitudini e il peregrinare dell´eroe, ripensare alla sua pietas, agli amori e alle stregonerie, ricordarsi degli esametri o di quella ridondante traduzione di Annibal Caro che si studiava un tempo nei ginnasi. Un viaggio, insomma. È quel che propone Vittorio Sermonti, in Campidoglio da martedì 18 ottobre fino al 20 settembre, leggendo tutti i libri della monumentale opera virgiliana da lui ritradotti, quindi offerti al pubblico in forma di racconto interpretato, come una lezione e finalmente detti con quel modo soavemente classico e capace di stregare che le grandi platee di tutta Italia hanno conosciuto con la Divina Commedia sermontiana.
E siccome Roma è Roma, c´è un "di più", un tocco che renderà il tutto ancora più suggestivo: la lettura, organizzata da Telecom Progetto Italia e dal Comune ad ingresso libero, si svolge in Campidoglio, proprio in quel fazzoletto di terra dove la città nacque, dove gli scavi di pochi anni fa hanno ritrovato i fori nelle nuda terra delle prime capanne sul colle. Per questo, sarà un´emozione di più ascoltare la rielaborazione della leggenda che Virgilio fa, nel I secolo avanti Cristo, della fondazione di Roma. Ma lo scenario che il pubblico troverà è anche modernamente sublime, svolgendosi il tutto sotto la volta di cristallo dell´esedra di Marco Aurelio ai Musei Capitolini.
Prima di salire sul suo podio, Sermonti ci tiene a chiarire: «Io non faccio divulgazione. Non distribuisco niente. Il mio intento è di servirmi delle opere, della spaventosa bellezza che irradia da questi testi, fino a snidare la modesta grandezza rinchiusa in ogni essere umano. Alla fine delle letture la gente mi ringrazia perché la aiuto a capire che cosa complessa è l´uomo». Aggiunge: «Spesso mi sono interrogato sul significato del concetto di Occidente. Ci dev´essere un punto in cui affonda le proprie radici. E questo punto è Roma». Una Roma che oggi è «assetata di cultura», come spiega il sindaco Veltroni presentando l´iniziativa insieme all´assessore Silvio Di Francia: «La cultura è un virus positivo che si trasmette con la lettura dei classici. Roma è una città colta, un magnifico scandalo di questi tempi». Per arginare lo "scandalo", sono pronti posti a sedere anche sulla piazza del Campidoglio.
Da martedì 18 a sabato 20 ottobre. Tutti i giorni tranne lunedì e domenica, alle 21. Ingresso libero fino ad esaurimento posti. Info 06 82059127 (9-19.30). Dal 19 on line su telecomprogettoitalia.com

Corriere della Sera 15.9.07
Le cure a Giovanni Paolo II
Quel sondino che nutriva Wojtyla (ma l'annuncio arrivò molto dopo)
di Luigi Accattoli


La comunicazione è del 30 marzo, il primo impianto a febbraio

CITTÀ DEL VATICANO — Ricordate papa Wojtyla con il crocifisso nelle mani, ripreso di spalle il Venerdì Santo del 2005, otto giorni prima della morte? Aveva il sondino nasogastrico e per non mostrarlo con un segno così invasivo i responsabili della «famiglia pontificia» decisero che la telecamera lo riprendesse solo da dietro o di lato.
L'inserimento del sondino per l'alimentazione sarà annunciato il mercoledì seguente, 30 marzo. Ma in verità il Papa lo portava stabilmente dal lunedì della «settimana santa» e a più riprese gli era stato inserito durante gli ultimi giorni del secondo ricovero al Gemelli, che andò dal 24 febbraio al 13 marzo.
Il vero «trattamento medico» delle ultime settimane di Giovanni Paolo II torna d'attualità a seguito della pubblicazione sul numero di «Micromega » che giunge ora in edicola di un saggio del medico anestesista Lina Pavanelli che si chiede come mai i medici che avevano in cura il Papa gli abbiano applicato il sondino nutrizionale solo l'ultimo giorno prima del crollo finale: «Un atto troppo tardivo per essere di utilità al paziente».
La studiosa evidenzia poi una «contraddizione » tra «l'esperienza umana di Karol Wojtyla — in qualità di paziente — e le dottrine del bene oggettivo da lui pubblicate, che sono la questione capitale delle crociate politiche degli organi istituzionali della Chiesa». Insomma la Pavanelli viene a esprimere «comprensione» per il comportamento dei medici, che — constatando la gravità della situazione del Papa ormai senza prospettive di guarigione — l'avrebbero lasciato «deperire giorno dopo giorno», evitandogli il calvario di trattamenti invasivi — tipo l'alimentazione artificiale — che la dottrina cattolica ritiene invece imprescindibili e doverosi (vedi in questa pagina altro servizio su un pronunciamento venuto ieri in merito ai malati in «stato vegetativo permanente»).
Ebbene senza entrare nella questione medica, né in quella etica, riteniamo che sia possibile una ricostruzione giornalistica dei fatti dai quali — come anticipato sopra — venga a risultare che il sondino era stato applicato molto prima di quando dichiarato.
Abbiamo ricostruito la vicenda del sondino con un'inchiesta tra le persone che accostarono il papa lungo l'ultimo mese, Quella sui tempi del sondino è l'unica discordanza di rilievo che l'indagine ha messo in evidenza rispetto alla narrazione delle ultime settimane pubblicata dagli Acta Apostolicae Sedis il 19 settembre 2005.
«Il 30 marzo — scrivono gli Acta — veniva comunicato che era stata intrapresa la nutrizione enterale mediante il posizionamento permanente di un sondino nasogastrico ». Era stata «intrapresa» infatti, ma non quel giorno!
Alla riga successiva la narrazione ufficiale della morte del Papa così riprende: «Lo stesso giorno, mercoledì, il Santo Padre si presentava alla finestra del suo studio e, senza parlare, benediceva la folla. Fu l'ultima
statio pubblica della sua penosa via crucis ».
Si affacciò — quell'ultima volta — senza sondino, come senza sondino si era già affacciato altre due volte da quando gli era stato inserito con l'intenzione che fosse «permanente». Quando veniva l'ora della finestra gli toglievano il sondino e glielo rimettevano poco dopo. Essendo praticamente annullata la capacità di ingestione di cibi, l'uso del sondino era inevitabile. Ma toglierlo e rimetterlo ogni tre giorni era un tormento che il Papa sopportava male e il medico Renato Buzzonetti ogni volta diceva: «Basta, il Papa non si affaccia più», scontrandosi però con Stanislaw Dziwisz (ora cardinale) che voleva farlo contento: «Il Papa non può essere invisibile».
Si arriva al Venerdì Santo, 25 marzo. Partecipa alla Via crucis dall'appartamento privato. Legge un suo messaggio il cardinale Camillo Ruini: «Offro le mie sofferenze, perché il disegno di Dio si compia e la sua parola cammini fra le genti». Più forte del verbo è l'immagine curva e silenziosa del papa che appare sui maxischermi, ripreso di spalle nella sua cappella, seduto davanti all'inginocchiatoio, che segue la Via crucis attraverso la diretta di Rai 1, guardando verso un grande schermo piatto, collocato davanti l'altare. Molti si chiesero perché quella sera non fosse stato mostrato il volto del Papa. La verità è che non ebbero il coraggio di levargli e rimettergli il sondino. Era a letto, lo vestirono, lo portarono in cappella, dove ebbe la forza di restare inginocchiato e seduto per un'ora e mezza e stabilirono di riprenderlo di spalle mentre teneva quel crocifisso al quale ormai così tanto assomigliava.

«No alla tecnologia se allunga l'agonia»
MILANO — Mantenere in vita una persona grazie alla tecnologia medica non è una vittoria delle macchine piuttosto che della natura?
«La tecnologia — dice Luciano Gattinoni, direttore di Anestesiologia all'Università di Milano — "compra il tempo". Gli interventi "innaturali" sono ammessi a patto che le condizioni di un paziente siano tali da lasciare intravvedere la guarigione. Altrimenti prolungano l'agonia».
«La volontà del paziente va rispettata».

Corriere della Sera 15.9.07
MITI Questa sera a Modena si discute la sua influenza in politica e psichiatria
E il festival di filosofia processa Foucault
di Pierluigi Panza


«Cattivo maestro» anche Michel Foucault? Il festival di filosofia di Modena questa sera gli intenterà un «processo» (Atrio del Palazzo dei musei, ore 21,30) così come, negli anni scorsi, aveva messo sul banco degli imputati Platone, Schopenhauer e Spinoza. E a dire il vero, anche il «Corriere » aveva già avanzato qualche accusa al filosofo di Poitiers il 15 giugno 2005 in un articolo intitolato «Processo a Foucault, il profeta di sventure».
Allora il «Corriere» gli riconobbe il merito di aver denunciato l'autoritarismo medico e i rischi per la privacy (in Sorvegliare e punire), ma sottolineò i catastrofici esiti legislativi e applicativi di chi si richiamò al suo pensiero. Un rilievo che il filosofo Stefano Catucci definì successivamente «non ascrivibile » come responsabilità a un pensatore. Questa sera a mettere «sotto accusa» il pensiero del «maestro» sarà il Teatro Filosofico di Mondotre. «In una riflessione che incrocia psicanalisi, antropologia e filosofia, Foucault identifica il processo di formazione del sapere come uno dei grandi strumenti di controllo delle coscienze nella storia occidentale Michel Foucault (1926-1984)», ha affermato il regista Vittorio Riguzzi nel presentare questo «processo spettacolo » (musiche di Ray Tarantino). «Idolatrato negli anni '70 dai movimenti, Foucault è stato padre di alcuni degli effetti che la sua critica alle istituzioni ha avuto nella sfera del sociale: la cosiddetta antipsichiatria e la lotta contro gli eccessi della detenzione carceraria». Gli interpreti del «processo» cercheranno di stabilire se Foucault sia stato un «vero maestro» o se sia diventato un mito grazie al sostegno di una forte componente ideologica. Voce narrante del «processo» sarà Antonio Baroncini; pubblico ministero Matteo Mugnani; avvocato difensore Vittorio Riguzzi; giudice Ivo Germani.

Corriere della Sera 15.9.07
Una sinistra alla Thatcher
di Ernesto Galli Della Loggia


Naturalmente non ho letto il nuovo pamphlet di Michele Salvati, ancora atteso in libreria, ma mi fido di quanto ne ha scritto ieri sul «Corriere» Dario Di Vico. Dunque, secondo Salvati dovrebbero essere tre i punti qualificanti del nuovo Partito democratico: riduzione delle tasse, sicurezza dei cittadini, flessibilità del lavoro. Leggendo mi chiedevo: ma non era più o meno questo tanto tempo fa il programma di una certa signora Thatcher? Chi l'avrebbe mai detto che dopo 25 anni, sarebbe diventato l'ultimo grido della più scaltra e aggiornata intellighenzia del nostro Paese. Salvati, peraltro, questo lo sa benissimo, sono sicuro, e allora mi chiedo se non gli sia venuto in mente che il sintomo più evidente della crisi storica della sinistra, della sua fine intellettuale, stia proprio nel fatto che ormai, per tenersi politicamente in piedi, essa non riesce a pensare più nulla di suo ma può solo ricorrere, riciclandole, alle idee e ai programmi dei suoi avversari.

Corriere della Sera 15.9.07
Altro che politica, la vera rivoluzione fu sessuale
Mughini: «È stata la pillola, non la classe operaia a rovesciare il mondo»
di Ranieri Polese


Sex Revolution, ovvero la rivoluzione sessuale. E uno pensa subito al cocktail Freud-Marx preparato dall'eretico freudiano Wilhelm Reich, quello che riteneva inscindibile la liberazione della sessualità dalla rivoluzione sociale. Invece, nonostante il titolo, il nuovo libro di Giampiero Mughini (in uscita per Mondadori) non vuol essere un manifesto, non propone lotte e prese di Palazzi d'inverno. È piuttosto un racconto, sul filo della memoria e con il corredo di una splendente galleria di immagini, delle stagioni fra i '50 e i '70 in cui, nei fatti, si cambiò il modo di essere nel mondo, quando cioè l'immaginazione sessuale prese veramente il potere. «Fra le molte cose e persone che dettero l'avvio a questo mutamento» ci dice Mughini «la musica ha avuto un ruolo importante. Nell'America degli anni '50, l'irrompere di Elvis Presley e il modo con cui muoveva il bacino fece scoprire a tutti noi di avere un corpo. Il corpo, fino ad allora, era assente. Certo non c'era nei testi di Marx che io, come altri giovani di allora, leggevo e studiavo. Naturale, quindi, che la Sex Revolution sia andata a traino del rock and roll». E la politica, i movimenti rivoluzionari, le lotte di massa? «Macché, niente. Del resto, come scriveva il poeta Milosz, non c'è niente di meno erotico dei paesi e dei corpi del socialismo reale. È stata la pillola anticoncezionale e non la classe operaia a rovesciare il mondo».
Se questo è successo, il merito va a un certo numero di persone che in quegli anni hanno cominciato ad andare oltre i confini imposti dalla tradizione. Rischiando condanne, censure, forse nemmeno sapendo dove l'immaginazione e il bisogno li avrebbero portati. Comincia tutto negli anni '50, anche se c'era già stata un'antesignana della rivoluzione. Louise Brooks, l'attrice americana che fu la Lulu di G.W.Pabst ( Il vaso di Pandora, 1928), troppo presto dimenticata ma da sempre cara ai cinefili e a quanti riconoscevano in lei il potere «radioso» dell'eros. Di lei lo scrittore inglese Kenneth Tynan che la incontrò nel 1978, sette anni prima della sua morte, scrisse: «È l'unica attrice cinematografica che varrebbe la pena fare propria schiava o di cui diventare schiavo». In questo misto indissolubile fra dominio e sottomissione, desiderio e sogno, inferno e paradiso sta la grande lezione che Lulu-Louise ha consegnato ai posteri. Primo fra gli altri, a Guido Crepax, la cui Valentina — nata nel 1965 sulla rivista Linus — era un omaggio al taglio di capelli, al corpo, alla disinibita natura dell'attrice.
Gli anni '50 sono gli anni di Brigitte Bardot (da sempre idolo di Mughini) e del libro destinato a fare da spartiacque nella letteratura erotica, anzi, meglio, nella letteratura tout court. Si tratta di Histoire d'O, pubblicato quasi clandestinamente nel giugno 1954 a firma Pauline Réage. Dietro quel nome si nascondeva Dominique Aury, collaboratrice e amante di Jean Paulhan, il direttore di Gallimard che non volle però mai divorziare. In quelle pagine la fantasia erotica celebrava il connubio fra grande scrittura e sadomasochismo (O, la protagonista, si assoggetta a ogni fantasia del suo amante- padrone), qualcosa che avrebbe segnato molti artisti a seguire, Crepax per esempio che ne fece una versione disegnata, e soprattutto il fotografo Helmut Newton.
Negli anni '50 e '60, la festa mobile dell'eros sposta continuamente i suoi scenari. A New York, Andy Warhol crea gli intensi ed effimeri miti di donne fatali come Edie Sedgwick (una che sotto il visone niente) e Nico, la biondissima cantante dei Velvet Underground. A Roma, Mario Schifano traduce in arte la nuova stagione di un sesso senza se e senza ma. A Londra, intorno ai Rolling Stones (infinitamente più erotici dei rivali Beatles) vorticano le bellezze allarmanti di Marianne Faithfull e Anita Pallenberg. Il tutto accompagnato da un uso massiccio di droghe molto ma molto pesanti, che spesso fanno chiudere in tragedia le sfavillanti meteore di questi decenni. Sex & Drugs & Rock'n Roll, si diceva. Un dato che Mughini registra, senza aderire, senza giudicare. Ma anche, dice, confessando di essere «un totale analfabeta in materia. Non ho mai fumato uno spinello, né pensato di farlo. Personalmente ho sempre avuto un atteggiamento di totale chiusura per tutto ciò che fa perdere la lucidità. Anche se a volte poteva essere un incredibile moltiplicatore di sensibilità».
In questo olimpo di liberi & belli trovano posto anche fotografi passati nell'oblio, modelle dimenticate, stilisti morti, immagini una volta definite indecenti. Che, comunque, il tedesco Benedikt Taschen, editore di grandissimo talento che se la ride di quanti credono che ci sia una linea divisoria fra erotismo e pornografia, fa risorgere dall'oblio nei suoi illustratissimi libri. Libri che perpetuano il piacere sommo, quello del guardare, in lode del quale Mughini, nel suo libro, racconta un aneddoto interessante. Del fotografo scozzese John McEwan che un giorno, in spiaggia, contempla la bellissima amica addormentata, «vestita della sola mutandina del bikini che si è come sperduta fra le natiche». Potrebbe passare all'azione, invece sceglie di guardare, cioè fotografare. «Capisce» ci spiega Mughini «che la vera delizia sta nel guardare, non nel sesso da camionista, 125 botte e via». E oggi, che cosa succede? C'è ancora chi, come Kate Moss, riassume in sé il carisma della sex revolution. Ma per il resto si ha l'impressione di una ovvia mercificazione. Che la Sex Revolution, vittoriosa, abbia finito solo per produrre un nuovo imballaggio per ogni tipo di merci. In America c'è la Raunch Culture, quella delle adolescenti spogliatissime che imitano Paris Hilton. Da noi ci sono le aspiranti veline, le sciacquette e le telesquinzie. E allora, si chiede Mughini, ne valeva la pena? «Tra telesquinzie e sessuofobia, io sto con le telesquinzie» ci dice. «La sessuofobia è un verme duro da morire. Ancora oggi non si fa salire in aereo una ragazza perché ha la minigonna e in America si vietano i jeans a vita bassa. Mi ricordo troppo bene gli anni della mia giovinezza in cui tutto era proibito. Io non voglio vivere in un convento francescano. Meglio le telesquinzie, che poi, scusate un po', che male fanno?». Eppure c'è chi parla della perdita dei valori... «Ma i grandi valori non sono necessariamente quelli della Chiesa. In questo proprio dissento dai cari amici del Foglio, che ormai mi sembrano diventati più clericali di Ruini».

Liberazione 15.9.07
Il dogma prima dei soggetti
di Angela Azzaro


Il papa, tramite la Congregazione della dotrina della fede, ribadisce che «lo stato vegetativo è una vita da rispettare». Che bisogna nutrire un malato fino all'ultimo, contro la sua volontà, il suo desiderio, sbattendosene se soffre o non soffre. Infischiandosene del parere di parenti, amanti, amici. Si chiama accanimento terapeutico in alcuni casi anche tortura: Invece loro la chiamano vita. E' l'ennesimo attacco all'eutanasia e alle libertà individuali che sono diventate l'ossessione permanente di Ratzinger. La vita è un dogma, un principio indissolubile. Non è vita quella del rom o del lavavetri, non è vita quella di tanti migranti. Quelli non meritano dichiarazioni della Congregazione, appelli sui giornali, comizi tenuti nelle chiese cattoliche di tutto il mondo. Loro no. La vita vale solo se serve a ribadire il potere del Vaticano, a segnare il limite di un controllo sociale da esercitare sugli uomini e sulle donne. Soprattutto le donne, contenitori non soggetti, per feti che - invece - sono diventati persone prima di loro, alla faccia loro.
L'attacco all'aborto è pesante. Insopportabile. E non basta più stare a guardare, simbolo come è di un ritorno indietro per le donne e, quindi, per tutta la società. Il rischio è diventato realtà e forse vale la pena tentare di bloccare la connivenza della politica al messaggio papale prima che sia troppo tardi, prima che anche la 194 venga, definitivamente, svuotata di senso e di efficacia. Ma l'indignazione è su tutto. Su tutte le libertà individuali e sessuali, prese a calci.
Ieri è stata anche la giornata in cui si è inaugurata la nuova stagione della messa in latino. Un altro dogma. Pesante. E' segno di una chiesa chiusa al mondo, misterica, che non vuole dialogare, ma dettare legge. E' la fine della chiesa conciliare, quella dell'apertura al marxismo, ai deboli, agli sfruttati, ai paesi non occidentali. La chiesa che sapeva parlare agli uomini e alle donne. A tutti. La chiesa della messa in latino non ci piace, di quell'apertura gli è forse solo rimasta la capacità di usare i mezzi di comunicazione come scritto negli atti del Concilio Vaticano II. Non ci piace, ma a questo punto va bene così. Sì, che il Vaticano si tenga pure le frasi incomprensibili, l'incapacità di difendere gli indifesi, di dare voce a coloro che non hanno voce. Si tenga le sue teorie sulle vita (smentite dai suoi stessi fedeli). A noi ci lasci però la libertà di scegliere, di vivere, di morire, di andare a letto con chi vogliamo, di essere chi vogliamo.
Il senso comune, senza che ce ne accorgiamo, si sta spostando. Verso il clericalismo, il dogmatismo, la norma che definisce i rapporti sociali e sessuali. E' la guerra contro i lavavetri, l'attacco alla libertà delle donne di decidere quando e se accogliere un'altra vita. Ma in giro c'è anche tanta indignazione, tante donne, tanti uomini che sentono di non poterne più di una politica supina al volere delle gerarchie cattoliche. Dare voce a questa indignazione è diventato urgente. Improcrastinabile.


Liberazione 15.9.07
La sinistra unita si dà una data: stati generali dopo il 20 ottobre
L'annuncio di Giordano e Mussi intervistati da Lucia Annunziata a LiberaFesta a Torino. «Processo unitario irreversibile»
di Angela Mauro


«Se non ottenete risultati dopo la presentazione del documento unitario della sinistra sulla Finanziaria, lo si fa cadere questo governo?», incalza Lucia Annunziata. Sia Giordano che Mussi pescano nel fondamentale ottimismo di chi fa politica. Per il primo la chiave sta nell'unità della sinistra: «Abbiamo già deciso di fare la federazione per ridare efficacia all'azione della sinistra nel governo. Siamo di fronte ad un Pd autoritario, che decide, sceglie. A noi è chiesto solo di seguire, quando possiamo emendare ci va alla grande! Io rivendico l'internità al governo, voglio contare e incidere». Il leader di Sinistra Democratica sposta il centro del problema: «Non sta nel rapporto tra noi e il governo, ma nel rapporto tra il governo e la gente». E non bisogna dimenticare «il terzo incomodo: non ci siamo solo noi e il Pd. C'è un rischio che si chiama destra e che sia il cesarismo a fornire risposte alla crisi della politica». Oppure Beppe Grillo, la butta lì Annunziata. «Dice cose condivisibili ma non lo seguo sul terreno del giustizialismo», interviene Giordano. Mussi dice di avere «i brividi sulla schiena: Grillo dà una risposta populista che prospera sulla crisi, non la modifica». 
Nel dibattito trova naturalmente spazio anche il no della Fiom al protocollo del 23 luglio sul welfare, con i problemi che ha gettato sul percorso unitario a sinistra. «Un atto squisitamente sindacale. Un governo democratico non può rispondere con un "era scontato" - è la critica di Giordano a Prodi - Si parla dei fischi di Mirafiori solo quando fa comodo a certi poteri e a certa stampa che vogliono male a questo governo. Poi però la sofferenza nelle fabbriche viene oscurata». 
Ma anche sullo spinoso "affare Fiom" Giordano e Mussi riescono nel gioco di squadra, rispondendo ad una Annunziata scettica sulla coerenza di Rifondazione che, «in rispetto della democrazia e dell'autonomia dei lavoratori», non farà campagna per il no al referendum su pensioni e lavoro. Il leader di Sd interviene addirittura in difesa del suo collega della sinistra unitaria: «Fa il dirigente politico, non sindacale». 
Il resto è linea comune sulla necessità di una legge sulla rappresentanza sindacale («Io e Franco la chiediamo insieme dal 2000»), sull'auspicio che non si determini una spaccatura tra la Cgil e la Fiom e anche sui propositi emendativi dell'intesa sul welfare: «Non dobbiamo mirare nel mucchio ma batterci per obiettivi concreti - dice Mussi - La norma sui contratti a termine, contenuta nel protocollo del 23 luglio, non va bene: diciamo no ai sindacalisti di fiducia che certifichino la tua precarietà». Il riferimento è alla clausola secondo cui, oltre i 36 mesi, un contratto a termine può essere prorogato presso la direzione del lavoro in presenza di un sindacalista. Ristabilire la centralità del lavoro a tempo indeterminato, è la parola d'ordine unitaria. Diversi invece i giudizi sull'intesa siglata da governo e sindacati sulle pensioni, ma questo è noto e finisce per essere solo accennato nel dibattito di Torino. «La Fiom ha fatto bene. Noi facciamo la politica in Parlamento - dice Giordano - Decideranno i lavoratori con il referendum. Noi il nostro giudizio lo abbiamo dato, anche sullo scalone. Troveremo insieme le forme per modificarlo in Parlamento». Applausi (molti gli operai Fiat in platea).
Di qui al 20 ottobre «ne passerà di acqua sotto i ponti», conclude Mussi. Di certo, ci sarà un po' più di chiarezza a fine mese, quando il consiglio dei ministri licenzierà la manovra economica. Giordano parla in numeri: «non i nostri, ma quelli citati da Mucchetti sul Corriere della Sera , secondo cui le 38 imprese più forti del Paese hanno migliorato le loro performance negli ultimi 5 anni, ma la condizione dei lavoratori è regredita; i dati Istat che parlano di famiglie indebitate per metà dei loro redditi; quelli di Confindustria che dicono di una ripresa dell'emigrazione dal sud come negli anni '60: 850mila ragazzi negli ultimi 10 anni; e ancora i dati Istat sulle retribuzioni che in Italia aumentano meno che nel resto dei paesi europei». Mussi fa di sì con la testa: «Non parliamo di cose estremistiche, ma delle uniche cose ragionevoli che si possono fare. E noi abbiamo la forza per cambiare le cose, quella di 150 parlamentari», tra Prc, Sd, Verdi e Pdci. Il Partito Democratico («Cosa grigia, se la nostra è rossa...», dice il leader di Sd criticando la corrispondenza cromatica usata dalla stampa per denominare la sinistra unita) faccia come vuole: la sfida è aperta. «Loro equidistanti tra lavoro e impresa, noi con i lavoratori», osserva Giordano riattualizzando Berlinguer e la sua questione morale sul caso Unipol («E' sbagliata l'idea di farci la nostra banca»). Cosa gradita all'ex Ds Mussi che, appunto, rende la cortesia scegliendo di usare una terminologia cara a molti militanti del Prc: «okkupare» la parola sinistra. Veltroni? «Spero che ce la faccia - aggiunge l'ex diesse - ma non condivido la sua impostazione. Non mi auguro il naufragio del Piddì, altrimenti si aprirebbe un buco nero in cui sprofondiamo tutti. Ma io sono molto felice dove sono: non ho ripensamenti». Obiettivo: una sinistra che esca dalle urne «con due cifre. Abbondanti».

venerdì 14 settembre 2007

l’Unità 14.9.07
«Passi indietro? A Epifani dico no»
Bertinotti replica al segretario della Cgil che aveva chiesto di non ingerirsi nel duro dibattito nel sindacato
di Andrea Carugati


Bertinotti-Epifani, scontro a sinistra
Il presidente della Camera: «Passi indietro sulla Fiom? Non capisco»

«Ammutolire la dialettica democratica, sindacale e politica non fa bene alla possibilità di libera espressione dei lavoratori». Fausto Bertinotti respinge l’invito lanciato in un’intervista a l’Unità dal segretario della Cgil Epifani ai partiti della sinistra radicale perché «non strumentalizzino i lavoratori» e «facciano un passo indietro». «Un passo indietro? - risponde il presidente della Camera a proposito delle tensioni sul welfare - Francamente non lo capisco...»
Sulla questione interviene anche Massimo D’Alema, intervistato alla Festa nazionale dell’Unità. «Io difendo l’accordo sul welfare perché è buono e non perché la Fiom può mettere in difficoltà il governo. Ho fiducia nel buon senso dei lavoratori - ha proseguito il vicepremier - e sono certo che i lavoratori nel referendum approveranno quell’intesa».
IL «PASSO INDIETRO» chiesto da Guglielmo Epifani ai partiti (in primis Rifondazione)sulla vicenda Fiom non convince il presidente della Camera. Fausto Bertinotti dice di «non capire questo discorso del passo indietro». Pur giudicando «fondata una parte del ragionamento» del segretario Cgil, a partire dal principio che i lavoratori debbano «esprimersi liberamente» e che «la politica deve ascoltare il loro responso», Bertinotti sostiene che «ammutolire la dialettica democratica, sindacale e politica, non faccia bene neanche alla libera espressione dei lavoratori: i lavoratori sappiano cosa pensano tutti e poi decidano in proprio». «L’autonomia del sindacato si difende perché, come diceva Di Vittorio, sa essere autonomi dai padroni, dal governo e dai partiti. Non perché i padroni, il governo e i partiti smettono di esistere», ricorda Bertinotti, da ex sindacalista, a Epifani La controreplica del numero uno di Corso Italia è telegrafica: «Non rispondo al presidente della Camera. Il mio era un altro tipo di invito...».
Lo scambio di opinioni dà la misura del clima a sinistra dopo il no della Fiom al protocollo sul welfare firmato a luglio da governo e parti sociali. Un clima reso ancora più acceso per la successione, a distanza di una decina di giorni, dei risultati del referendum tra i lavoratori sull’accordo e della manifestazione della sinistra radicale del 20 ottobre. Alfonso Gianni, sottosegretario allo Sviluppo Economico e uomo vicinissimo a Bertinotti dice: «Rispetteremo profondamente il risultato del referendum, ma andrà valutato in tutte le sue parti, compresa quella minoritaria, e non penso che sarà un plebiscito. Il referendum e la manifestazione sono due episodi distinti, perché la manifestazione ha ambizioni più grandi, e cioè accentuare il carattere sociale della politica del governo di cui l’accordo di luglio è solo una parte. E poi i due episodi possono andare nella stessa direzione: una partecipazione popolare alle vicende politiche del Paese». Quanto a Epifani, dice Gianni: «La sua richiesta nei confronti di Rifondazione mi pare impropria e un po’ assurda: chi fa parte del governo avrà pure il diritto di dire qualcosa su un accordo firmato dal governo. E poi la traduzione in legge spetta al Parlamento, che non agisce su input del sindacato: dunque bisogna che tutte le autonomie vengano rispettate, non ha alcun senso chiedere al Prc di fare dei passi indietro. Ciò detto, non vogliamo influire sul referendum, non faremo propaganda». Prosegue Gianni, con una punta polemica: «Forse Epifani sottovaluta il significato del no della Fiom, che non è eterodiretto ma sul merito e non è difficile da capire: nelle fabbriche metalmeccaniche c’è stato un maggiore ricambio generazionale, c’è molta attenzione al tema del precariato e poca soggezione nei confronti delle forze politiche. Dunque chi ha firmato quell’accordo rifletta, invece di prendersela con questo o quello». Intanto i dissidenti Cannavò e Turigliatto, al grido «C’è chi dice no», lanciano una campagna nei luoghi di lavoro e ribadiscono il loro no al protocollo anche in Parlamento. E dall’ultrasinistra Ferrando accusa il Prc di «diserzione». Gianni, però, dice di «non vedere rischi di restare scoperti a sinistra, e non mi pare che nel merito il fronte Cobas-dissidenti dica molto». E tuttavia «con la radicalità dei movimenti una dialettica c’è e va vissuta per intero». Quanto al 20 ottobre, «non saremo noi a organizzare la manifestazione, ma il gruppo dirigente del partito ci sarà. Ci mancherebbe altro...», dice Gianni. E il carattere antigovernativo? «Di manifestazioni a favore del governo ne ho viste solo nei regimi, ma questo non vuol dire che sarà “contro” il governo, ma “per” alcuni contenuti».
A favore delle parole di Epifani il ministro del Lavoro Damiano, che consiglia a tutti di «attendere l’esito del referendum» e di «non contraddire la volontà che i lavoratori esprimeranno». Convinti del sì al referendum anche Tiziano Treu e il ministro Livia Turco. Così anche il presidente del Senato Franco Marini: «Non drammatizzo il no della Fiom. Io ho un giudizio positivo sull’accordo, sarà molto importante il referendum». Fabio Mussi invita i compagni della sinistra radicale a evitare il 20 ottobre la «marcia degli incazzati» e a non dare «una spallata al governo». E Gavino Angius: «Comunque la si voglia girare, la manifestazione del 20 ottobre è sbagliata».

l’Unità 14.9.07
Abbiate il coraggio di delirare. Apre la mente
di Remo Bodei


DA REMO BODEI una lezione sulla necessità di aprirsi a ciò che «non è nella norma», perché l’«insensato» allarga i confini della nostra pigra, timorosa o iperdifensiva razionalità. E ci dà un sapere nuovo

Propongo a chi ascolta di cominciare con un esperimento mentale. Pensi al fluttuare degli astronauti nello spazio cosmico: sul piano del senso comune, eravamo abituati a credere che la forza di gravità possedesse una validità assoluta tale da trattenere con i piedi per terra anche gli abitanti degli antipodi, senza sospettare, a livello di senso comune, che la sua assenza, pur non negandola, desse luogo al levitare dei corpi. Allo stesso modo, quando riflettiamo sulla follia e sul delirio, dobbiamo liberarci concettualmente da quella «forza di gravità» psichica che ci assicurava immediatamente e indissolubilmente alla nostra immagine standardizzata della razionalità.
Dobbiamo cioè metterci di fronte a situazioni che, pur nel loro apparire spesso assurde e contorte, possono farci intravedere altri mondi non del tutto incompatibili con il nostro. In questo modo, la forza di gravità della ragione non viene negata dalla sua assenza, purché tale ragione, che definisco «ospitale», sia capace di considerare e di accogliere esperienze che vanno al di là dei limiti della norma o di ciò che è generalmente riconosciuto come ragionevole e sensato all’interno di una comunità, e di comprendere che esse, pur nella loro tragicità, ci arricchiscono, ci fanno vivere altre vite parallele alla nostra, ci consentono di esperire altre possibilità, anche creative, del linguaggio e della ideazione.
Ma, soprattutto, allargano i confini della nostra pigra, timorosa o iperdifensiva razionalità. Una ragione ospitale, comprensiva, è, appunto, quel tipo di razionalità che lascia alla follia le sue logiche private, il suo modo di organizzare i vissuti, i pensieri, la percezione del tempo e si dispone, senza pregiudizi, ad analizzarli. Ciò non vuol dire inventarsi un centauro concettuale, composto per una metà di razionalità e per l’altra di irrazionalità. La ragione ospitale è una ragione in movimento, che sa benissimo che esistono varie famiglie di logiche, ma che non rinuncia a ricondurle al ceppo comune di una razionalità argomentativamente condivisibile.
Occorre evitare i modelli di razionalità chiusa e autosufficiente, che considera la follia, i deliri, le passioni o il sogno completamente privi di senso. Penso, al contrario, che i deliri del folle - pur dentro una comunicazione patologicamente distorta - abbiano un loro senso e che servano ad aumentare e ad articolare la nostra conoscenza del mondo.
La psichiatria dell’Ottocento, in particolare Pinel ed Esquirol, aveva concepito la follia e il delirio come un dérèglement des passions, uno «sregolamento» delle passioni. Il delirio è quindi il risultato di emozioni estreme che spingono a oltrepassare la lira cioè, in latino, il seminato, quello spazio fertile delimitato da due solchi. Eccesso e sterilità caratterizzano quindi, tradizionalmente, il delirio, ma l’accento cade oggi, generalmente, più sull’aspetto cognitivo che su quello emotivo, tanto nel caso dell’eccesso quanto della sterilità. Il delirante, da un lato, oltrepassa i limiti imposti dall’esperienza e dalla logica condivisa e, dall’altro, le sue non germogliano perché non cadono sul terreno adatto.
Nella psichiatria e nella filosofia del Novecento il rapporto delirio-passione è stato sostanzialmente dimenticato e, soprattutto, non si è tenuto conto dell’incastro tra una logica cognitiva e una logica affettiva che presiedono al delirio. Vi è, infatti, nel delirio quella che in termini psichiatrici si può chiamare una overinclusion affettiva. Cos’è l’overinclusion? Restando al piano cognitivo si è osservato che nella formazione dei concetti i cosiddetti pazzi, gli schizofrenici, i deliranti mettono insieme sotto lo stesso concetto delle cose che non c’entrano, per esempio nella categorie di mobile ci mettono S.Giuseppe la donna (che, secondo la famosa romanza del Rigoletto «è mobile»).
Includono quindi nozioni in eccesso che non rientrano in un determinato concetto, violano le regole della buona definizione che procede per genere prossimo e differenza specifica: se voglio definire correttamente un quadrato, dico che è un quadrilatero (genere prossimo) con lati ed angoli uguali (differenza specifica). Se lo chiamo una figura geometrica sono generico (perché ce ne sono tante), se trascuro i lati uguali posso confonderlo con il rettangolo e, se non menziono gli angoli uguali, con un rombo.
Contro la teoria di Janet e di Jung, secondo cui la malattia mentale è il risultato di un «abbassamento del livello mentale» (abbaissement du niveau mental), la psichiatria più recente (Frith o Ciompi) ha messo in evidenza il fatto che, l’iperinclusione deriva, in maniera paradossale, dall’iperconsapevolezza del delirante. Questi non è cioè in grado di elaborare, filtrandolo, l’enorme flusso di informazioni che gli giunge dal mondo esterno ed interno e, specialmente, quel di più che nella persona clinicamente sana resta al di sotto della soglia di coscienza o, se vi giunge, viene immediatamente eliminato o non tenuto in conto. Di conseguenza, i deliri non costituiscono affatto il prodotto di una coscienza torbida, ma il risultato dello sforzo fallito di interpretare coerentemente la messe di dati in arrivo.
Correggerei questa ipotesi nel senso che il flusso non è completamente privo di filtri. Cambia il il filtro: la coscienza è desta e in grado di accogliere molto di ciò che normalmente è considerato insignificante, ma questo surplus di dati è pur sempre recepito secondo altri criteri, laschi ma significativi. Si può persino dire che le logiche del delirio sono modellate sulle forme di questi filtri, che selezionano il vissuto e il pensato significativi facendoli passare attraverso le strettoie della coscienza. Se mi passate l’immagine casalinga, accade come in certe macchine per fare la pasta: secondo le sagome metalliche si usano escono, spaghetti, tagliolini, penne rigate ecc., ma la pasta è sempre la stessa.
Si può perfino giungere ad accettare la teoria di Eugène Minkowski, per il quale «la forma specifica dell’idea delirante (…)non è altro insomma che il tentativo del pensiero, rimasto intatto, di stabilire un nesso logico tra le diverse pietre dell’edificio in rovina».
Anche a molti di noi può capitare, nei momenti di maggior sconforto, di avere l’impressione che l’avvenire sia sbarrato, che la vita sia finita ancor prima dell’inesorabile giungere della morte. Il delirio nasce però dall’avvertire come permanente, ineluttabile e senza sbocco una condizione che, per la maggior parte degli uomini, rappresenta una momentanea occlusione del futuro.
Obbligato a vivere l’invivibile, lo schizofrenico si costruisce un nuovo mondo capace di accoglierlo e proteggerlo. A questo scopo utilizza opportunisticamente tutti i materiali che incontra per perfezionare il suo delirio. Uno psichiatra francese, Racamier, paragona il delirio non ad un’invasione barbarica che distrugge i fertili campi della ragione, ma alla centuriazione romana, alla divisione dei territori conquistati in preselle regolari tra i veterani. Il delirio rappresenta una forma di conquista e colonizzazione della mente talvolta molto elaborata, tanto è vero che diversi pazienti non desiderano essere curati per non perdere il proprio «capolavoro delirante».
In conclusione, la differenza più significativa tra il sapere comune e quello dei deliranti sembra riscontrasi nel fatto che il primo pone i limiti e criteri di controllo alla «ragione», mentre il secondo è ab-solutus, completamente slegato da ogni vincolo, sfrenato, eccessivo, debordante. A commento di quanto affermava Montaigne, ossia che il delirio è soltanto umano, perché gli animali tengono lo spirito «a guinzaglio», si può dire che il delirante lo ha sciolto, per fuggire verso un mondo capace di soddisfare la sua fame di irrealtà. A Montaigne (che nel 1580 aveva, tra l’altro, visitato Torquato Tasso, ormai completamente pazzo, rinchiuso nell’ospedale Sant’Anna di Ferrara) non era tuttavia sfuggita la frequenza con cui la follia colpisce proprio gli individui di mente pronta, acuta e agile. Da qui la sua provocatoria e inquietante proposta: «Volete un uomo sano, lo volete ben regolato e in posizione salda e sicura? Avvolgetelo di tenebre, di ozio e di torpore. Dobbiamo istupidirci per diventare saggi, e abbacinarci per sapere dirigerci».
Vi è della saggezza nel consiglio di abbassare la soglia della stupidità necessaria per restare sani e nell’osare avventurarsi in pensieri e affetti che turbano e scuotono impedendo alla nostra intelligenza e di ottundersi e di accecarsi.
Ogni tanto bisognerebbe avere il coraggio di delirare (in senso etimologico) o, detto in termini musicali, di delirare un po’ ma non troppo. Un po’ di delirio è sempre meglio del continuo torpore. Eppure, quanto avanti ci si può spingere nell’affrontare pensieri abissali o esperienza sconvolgenti senza rischiare di perdere il lume della ragione?

Repubblica 14.9.07
La Chiesa lo Stato e l'arroganza della verità
di Gustavo Zagrebelsky


La Chiesa la verità il potere
Un intervento su fede e laicità

Cosa accade quando la religione entra in conflitto con la democrazia la cui condizione essenziale è la ricerca di convergenze
La lealtà ai principi della sfera pubblica e l´obbedienza religiosa
La società democratica si fonda sull´autonomia dei suoi partecipanti
Solo Dio e la Chiesa darebbero ragione del bene e del male

La riproposizione della religione in una dimensione civile ha sullo sfondo – espresso o sottinteso – il motto dostoevskijano: «Se Dio non c´è, tutto è possibile» che sintetizza l´atteggiamento etico nichilista di Ivan Karamazov, esposto nel dialogo col fratello Alësha che introduce a Il grande Inquisitore (un testo tutt´altro che irrilevante per i nostri temi). Di fronte all´anomia che pervade la società, solo Dio, la sua religione e la sua chiesa darebbero ragione del bene e del male, del lecito e dell´illecito. I credenti, rispetto ai non credenti, godrebbero così di uno status di superiorità non solo morale ma anche civile. Il cittadino per eccellenza sarebbe l´uomo di fede in Dio. Detto diversamente: solo i credenti in Dio sarebbero capaci di atteggiamenti eticamente orientati nei confronti dei propri simili e, in generale, nei confronti del mondo. Dovremmo così dare ancor oggi ragione a Locke, quando considerava i senza-Dio soggetti pericolosi, perché «inidonei a mantenere le promesse»; a Dostoevskij perché incapaci di districarsi nel dilemma tra il bene e il male?
L´argomento di Dostoevskij non è quello triviale, e in fondo immorale, del premio o del castigo nell´aldilà per il bene e il male compiuti nell´aldiqua. È invece l´argomento di Kirillov ne I Demoni: senza Dio tutto è permesso, perché l´uomo stesso si fa Dio; e il demonio che visita Ivan Karamazov aggiunge che «per Dio non esistono leggi». L´argomento di Dostoevskij è dunque quello della superbia, del super-uomo: l´uomo senza-Dio sarebbe quello che vuol prendersi il posto di Dio. Presso i moralisti cattolici, è proprio questo l´argomento principe, usato per sostenere il valore civile della religione, come strumento per arginare gli effetti distruttivi della libertà insolente di chi non riconosce nulla al di sopra di sé. Ma è un argomento convincente?
Ha senso dire che chi nega Dio vorrebbe mettersi al suo posto? Se Dio non esiste, non può essere questione di rimpiazzarlo. L´argomento della superbia sta e cade con Dio e, se Dio non esiste, non vale più niente. Potrebbe essere addirittura rovesciato: se si crede in Dio, si può credere ch´egli sia con noi, Gott mit uns, e, su questa premessa, ci si può porre legittimamente al di là del bene e del male, avendo Lui al proprio fianco.
Il «Dio è con noi» è la superbia in sommo grado e percorre tragicamente e violentemente la storia dell´umanità fino ai giorni nostri: il ritornante rovello dei capi religiosi, di come privare la fede in Dio della sua carica violenta, è la riprova di un problema insoluto. Invece, chi non crede in Dio non dispone di nessuna sicurezza a priori e sa che il compito dell´umanità di districarsi nelle difficoltà della vita dipende da lui, insieme con gli altri. L´etica della modestia e della responsabilità ha qui la sua radice e qui trova un fondamento che a me pare più chiaro che non la fede in un Dio onnipotente e provvidente.
In ogni caso, almeno questo è da concedere: la fede in Dio non è di per sé garanzia di modestia, esattamente come la mancanza di fede in Dio non è di per sé presupposto di necessaria superbia. Tutti sono a rischio e nessuno può vantare assicurazioni, mentre la disistima verso i non-credenti in Dio, che quel motto dostoevskijano porta nascosto in sé, è propriamente e precisamente un frutto di quella superbia che vorrebbe condannare.
L´utilità o la pericolosità della religione come rimedio contro le tendenze sociali auto-disgregatrici dipende forse anche dalla sua auto-comprensione, come religione della verità o come religione della carità. Il dilemma è particolarmente vivo per il cristianesimo, nato originariamente, nelle prime piccole comunità, come religione della carità (il discorso della montagna e i primi due comandamenti: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente» e «Amerai il prossimo tuo come te stesso»: Mt 22, 37-37), quando la verità («Io sono la verità»: Gv 14, 6) era non un complesso di proposizioni teologiche né, tanto meno, teologico-politiche, ma semplicemente il riconoscimento e la confessione di Gesù, il Cristo. Progressivamente, però, il Cristianesimo è venuto istituzionalizzandosi come religione della verità, capace, attraverso l´uniformità di un apparato dogmatico, teorico e organizzativo, sempre più complesso, di tenere insieme vaste comunità di credenti, in comunione-confusione-competizione con il potere politico, quando il rapporto puramente d´amore, efficace nelle piccole cerchie, non bastava certo più a garantire l´unità. Le due concezioni del legame comunitario della fede coesistono dialetticamente e la loro tensione rappresenta uno dei fili conduttori della stessa storia della Chiesa nei secoli.
Ora, la questione da porre è se questa distinzione sia rilevante nella discussione circa il valore della religione, in particolare di quella cristiana, come tessuto connettivo spirituale della vita sociale. L´ipotesi da considerare è se non sia propriamente l´odierna insistenza sulla verità l´elemento che, nelle società pluraliste attuali, crea divisioni e conflitti mentre le cose andrebbero all´opposto se l´accento cadesse sulla carità, capace invece di creare solidarietà, legami e convergenze non solo tra i cristiani ma anche tra cristiani e non cristiani. «La scienza gonfia; la carità, invece, edifica. Chi crede di sapere qualcosa, senza la vera scienza testimoniata dalla vita, non sa: viene ingannato dal serpente, non avendo amato la vita», dice splendidamente l´anonimo autore della Lettera a Diogneto (XII, 5-6) del II secolo d. C.
In breve, c´è qui in nuce la contrapposizione tra l´arroganza della verità e l´umiltà della carità. La prima - a dispetto di tutte le proclamazioni in contrario da parte degli interessati - cerca la potenza e il potere, la seconda ne rifugge e, essendo il potere essenzialmente conflitto, competizione e perfino sopraffazione, si comprende facilmente come ogni religione della verità corre il rischio di alimentare tutto questo.
Con questo accenno alla religione della verità e alle sue inclinazioni, siamo giunti alla questione del «disagio democratico».
Condizioni primarie di ogni concezione della democrazia, non strumentale a poteri esterni che la usano come mezzo se e finché serve, sono la disponibilità alla ricerca di convergenze e, se del caso, l´apertura al compromesso, in condizioni di uguaglianza partecipativa. Su questo, non è il caso di insistere qui. Ma è proprio con queste condizioni che ogni religione della verità è potenzialmente in conflitto.
È in questione il numero due, inteso come unità divisa e come unità raddoppiata. Cerco di spiegarmi.
L´appartenenza tanto alla cerchia dei cittadini quanto alla cerchia dei credenti, ciascuna delle quali con le sue istituzioni, i suoi diritti e i suoi doveri di status, le sue condizioni di inclusione ed esclusione, determina la situazione che si denomina di «doppia fedeltà», una situazione che comporta nella realtà una scissione dell´unità. La democrazia si basa sull´autonomia di tutti i suoi partecipanti, autonomia che è un´offerta di disponibilità reciproca. Quando questo presupposto viene incrinato, si ingenera il sospetto degli uni verso gli altri, un sospetto distruttivo alla radice della convivenza democratica. La religione della verità, al contrario, anche con sanzioni ecclesiastiche, pretende obbedienza agli amministratori della verità, cioè alle istituzioni ecclesiastiche, da parte di quelli che, non a caso, si chiamano i «fedeli». Qui, può nascere il conflitto tra lealtà ai principi della sfera politica e obbedienza ai dettami religiosi, per evitare il quale, sia pure in tutt´altro contesto, Locke negava anche ai «papisti» (oltre che agli atei) il diritto alla tolleranza (nel senso di essere tollerati). Si dirà: ma tutti noi siamo il prodotto di tante appartenenze, della più varia specie (politica, culturale, sindacale, professionale, ecc.) e ciò non genera problemi, anzi arricchisce la democrazia. Sì, ma c´è una differenza tra queste appartenenze e l´appartenenza a comunità dogmatiche che riservano a se stesse la gestione della verità. Si dirà ancora: si è sempre liberi, quando lo si voglia, di uscire dalla comunità dei credenti e riacquistare la propria autonomia, non esistendo più Sante Inquisizioni. L´appartenenza a una confessione religiosa è dunque pur sempre un fatto di autonomia. Sì, ma questa replica, indegna di provenire da uomini di fede, svaluta assai il valore della fede e non considera la profondità del legame, connesso a questioni ultime come la salvezza dell´anima, che questa appartenenza determina. Non è la stessa cosa appartenere a un partito politico, a un´organizzazione sindacale, a una associazione culturale, oppure a una fede religiosa. Questo problema di lealtà democratica non è diverso rispetto alla Chiesa, alle comunità islamiche o a quella che era un tempo la «chiesa» dell´Internazionale comunista. Come lo si discute in questi casi, non dovrebbe essere taciuto con riguardo alla Chiesa cattolica.
Il raddoppio dell´unità consiste in un plusvalore che si determina a favore della Chiesa, in quanto essa opera nella società sia, dall´interno, come insieme dei fedeli, sia, dall´esterno, come soggetto istituzionale che intrattiene rapporti diretti con le istituzioni civili e ne condiziona le dinamiche. Questo sdoppiamento della personalità, comunità e istituzione, e il raddoppio dei tavoli su cui si svolge la partita sociale comportano la moltiplicazione dell´influenza politica, ciò che spiega forse il peso della Chiesa cattolica in taluni Paesi, dell´Europa o dell´America latina, un peso certamente, o probabilmente, sproporzionato a ciò che il dato numerico dei cattolici dalla fede attiva potrebbe indurre a pensare. Questo doppio peso è un problema per la democrazia.
Si diventa ripetitivi, ma non si saprebbe fare diversamente, ricordando che queste questioni sono state affrontate, nella prospettiva della conciliazione della Chiesa con la democrazia e del superamento della sua plurisecolare diffidenza, quando non aperta ostilità, dal Concilio Vaticano II. Il punto nodale è l´autonomia e la responsabilità dei fedeli nella sfera politica e sociale: qui è in gioco il rapporto tra la Chiesa e la democrazia. Allora fu inibito ai laici di invocare l´autorità della Chiesa a sostegno delle loro posizioni, inibizione che, evidentemente, comporta il reciproco: la necessaria astensione della Chiesa da ogni iniziativa rivolta a impegnare, in quella stessa sfera, la coscienza dei suoi fedeli. Questo spirito del Concilio sembra oggi appannato, ma non abbiamo da perdere la speranza, poiché, come è detto, «lo Spirito spira dove vuole».

Repubblica 14.9.07
Renzo Piano: le mie sfide


Intervista/ Il grande architetto compie oggi settant´anni
Disegna Il futuro della sua città
Una torre a londra con pochi parcheggi

È difficile fare l´elenco dei progetti realizzati in tutto il mondo dal Beaubourg alla sede del "New York Times"
"Sono nato a Genova, a diciotto anni volevo vedere cosa c´era al di là del mare Ora sono tornato"

Renzo Piano, che oggi compie settant´anni, è un uomo fortunato: ha sempre amato il mestiere che fa. Difficile elencare le sue tappe, i suoi successi, da quando disegnò il padiglione della XIV Triennale (1966), il padiglione italiano a Osaka (1969), e con l´inglese Richard Rogers il famoso e controverso Beaubourg di Parigi (primi anni Settanta), fino alla sede del New York Times, completata in questi giorni, alla Torre di Londra, uno degli edifici più alti del mondo, passando per gli aeroporti costruiti in Giappone e altrove, per la ricostruzione di Potsdamer Platz a Berlino; e tante altre cose. Alla domanda scontata del giornalista in un giorno di compleanno, fra tanti successi ne ricorda qualcuno più memorabile, più elettrizzante, risponde: «Sai, nella vita di un architetto ci sono momenti elettrizzanti ogni settimana. Vai in giro per il mondo e trovi ogni giorno un problema da risolvere, trovi una sfida». Aggiunge, dopo un attimo di riflessione: «Forse, accade lo stesso ai voi giornalisti».
Adesso, nella fase conclusiva della carriera, Renzo Piano, architetto genovese, torna a Genova: una città da cui, emotivamente, non si è mai staccato. «Genova - dice - la lasci a diciotto anni e ci torni a sessanta. Quando hai diciotto anni, con tutto quel mare davanti a te, ti viene voglia di andare a vedere che cosa c´è dall´altra parte. Poi viene il giorno in cui si torna alle origini». Non saprei dargli torto: sono genovese anch´io. Lui definisce Genova «una città intensa, pur nei suoi silenzi; una città che riflette il nostro carattere, che ha contribuito a farci come siamo». Ma il suo ritorno non è solo un fatto sentimentale. In questi ultimi anni ha disegnato, e donato alla città, quello che è stato chiamato "un affresco": un progetto che, senza alterare il carattere della città, vuol farne una città diversa, con un nuovo aeroporto sul mare, con un porto più grande ancora, più fervido di attività. Già a lui si deve il recupero, nel 1992, del porto antico, che più non serviva per il movimento delle merci, e che ora è diventato, con l´acquario e il museo, con le sale del cinema, col vecchio magazzino del cotone che adesso ospita i congressi, con la pista del pattinaggio e coi ristoranti, il nuovo luogo di incontro dei genovesi.
Marta Vincenzi, sindaco da pochi mesi, con un colpo di genio lo ha nominato Consulente per l´Urbanistica, cioè un Consulting Advisor che seguirà in veste ufficiale il progetto Ge-Nova. Fra lui e me è nato uno scherzo: gli ho ricordato che il barone Haussman, uomo politico e urbanista, nell´Ottocento cambiò coi suoi boulevards il volto di Parigi, e gli ho detto. «Sarai il barone Haussman dei genovesi». Ormai lo chiamo così: la battuta lo ha divertito. Ma lui segue anche, in veste non ufficiale, le vicende della Liguria. «La nostra arte, l´architettura - dice - è, più di ogni altra, un´arte imposta alla comunità, un´arte che può cambiare la vita delle persone». L´architettura svolge dunque una funzione socialmente delicata. Forse non la svolge bene, oggi, in Italia, in Liguria? «Nel passato - dice Renzo Piano - abbiamo costruito le più belle città del mondo». Ma oggi? Oggi vi sono interferenze, c´è la politica.
L´Italia, e la Liguria, sono sempre minacciate dai vandali. L´interesse privato trae spunto dalla bellezza dei luoghi per costruire, per guadagnare. In un sistema economico imperniato sull´iniziativa privata è giusto che nascano iniziative per costruire, per innovare; e anche per guadagnare. Ma è essenziale, è imperativo che le iniziative siano compatibili con l´interesse generale. Non si può, nell´interesse dei singoli, rovinare l´insieme, come è avvenuto tanto spesso, in tante regioni. Sono attualmente all´ordine del giorno, proprio qui in Liguria, a Santa Margherita e a Portofino, due progetti controversi: a Portofino si vuole costruire un albergo, si vogliono scavare posteggi. A Santa Margherita si vuole manomettere il porto. Che cosa ne pensa?
Renzo Piano dà parere nettamente contrario. E mi spiega perché: con un´argomentazione valida per ogni altro angolo di questa nostra bella Italia, oggi minacciata, temo, da una nuova ondata di cemento. «Non sono certo contro la crescita: ci mancherebbe - mi dice. - La crescita è il mio mestiere». Ma bisogna che la crescita sia «sostenibile» (è questo il termine tecnico), che sia cioè in armonia con quel che esiste, che aggiunga senza distruggere, senza deturpare. Vediamo il caso di Santa Margherita Ligure. La cittadina ha un passato glorioso. E´ stata in ordine di tempo il primo porto del Tigullio, uno dei primi della Liguria. Guglielmo Marconi vi ormeggiava col famoso Elettra, lo yacht sul quale faceva gli esperimenti, e poi andava a comperare le paste dolci da Colombo, in piazza. Negli anni Trenta ammarava davanti a Santa Margherita l´idrovolante, trenta posti passeggeri, che portava dall´Inghilterra personaggi famosi, quelli che oggi si chiamerebbero del jet-set. In banchina attraccavano i grandi yacht del tempo. Un passato glorioso: e Santa Margherita è sempre bella (anche perché ha avuto negli anni difficili, quelli della prima ondata di cemento in Liguria, un grande sindaco, Bottino).
Quello di Santa Margherita appartiene a una collana di porti o rifugi molto belli, Piano li definisce cinque o sei perle: Camogli, Portofino, Sestri Levante, Portovenere, Lerici. Rapallo ha corso un pericolo col «marina», ma si sono fermati per fortuna a metà dell´insenatura, senza intaccare il lungomare cittadino.
Oggi Santa Margherita ha ancora una bellezza antica, con i suoi pescherecci ormeggiati accanto agli yacht, davanti alla pescheria. Si può migliorare? Sì, senza dubbio. Renzo Piano ritiene che il prolungamento della diga foranea sia un progetto accettabile, forse utile. Ma ora c´è un altro progetto, che in medicina si chiamerebbe invasivo: un molo di sottoflutto, alto più di due metri, che dallo sperone dove c´è un albergo si allungherebbe verso l´uscita del porto; e la costruzione di moli interni.
Questo, a parere di Piano, sarebbe un disastro: farebbe del vecchio porto, con tutta la sua bellezza, un qualsiasi «marina» simile a tanti altri che sorgono lungo le coste. Il porto diventerebbe un qualsiasi parcheggio invernale per barche. Oltre tutto, ostruirebbe la visuale: «Cancellerebbe - dice Piano - Santa Margherita per chi viene dal mare, cancellerebbe il mare per chi si trova a Santa Margherita». A chi servirebbe, l´opera? Non si aumenterebbe il numero dei posti. Non ci sarebbero vantaggi per nessuno, se non per i costruttori. I porti, dice Piano, sono un regalo della costa al mare. Ma quello di Santa Margherita, così modificato, sarebbe una manomissione, un´intrusione.
E l´albergo di Portofino? E i posteggi per i quali l´albergo servirebbe da pretesto, più o meno interrati? Quei posteggi che sarebbero, dal punto di vista finanziario, il vero affare? Anche qui, il parere di Renzo Piano è nettamente negativo, non per il progetto in sé, sul quale non dà giudizi, ma per altre considerazioni. L´argomentazione degli amministratori locali è (qui l´aggettivo è mio) semplicemente risibile. Dicono: poiché ai margini della piazzetta c´è una zona «degradata», costruiamoci un albergo. Per riqualificarla? Anche Piano, quando gliela ripeto, si mette a ridere. Se una zona è degradata vi si pianta qualche albero, la si recupera. Quanti crimini urbanistici si commettono con la scusa della riqualificazione: a Portofino il fatto sarebbe particolarmente grave, sarebbe il primo cuneo per violare l´intoccabilità del borgo famoso. E ci si chiede, come di fronte al progetto del molo di sottoflutto a Santa Margherita: a chi servirebbero le nuove opere, se non ai costruttori?
Renzo Piano è molto severo per il progetto dei posteggi.
«Costruisco a Londra una torre di trecento metri - mi dice. Sai quanti posti macchina sono previsti? Non più di quaranta, quaranta posti per handicappati e per macchine di servizio». Il sindaco di Londra, Livingstone, gran personaggio, un amministratore che prende a cuore l´interesse della comunità, sulla pratica abolizione dei posteggi privati si è detto d´accordo dal primo momento. Non è lecito attirare altre automobili quando già la circolazione è asfissiante, è «insostenibile». Bisogna puntare (a Portofino come a Londra) sul trasporto pubblico. I nuovi posteggi, in aggiunta a quelli esistenti, attirerebbero altre automobili, appesantirebbero il traffico. Quindi, sarebbero una follia.
Chi ci salverà? Chi salverà il salvabile? Dal punto di vista amministrativo, le sorti di questo tratto di Liguria, in ultima istanza, sono nelle mani della Regione. Gli uomini di governo devono capire che la loro funzione, se vogliono essere uomini di buon governo, consiste nell´anteporre l´interesse della comunità agli interessi privati. E speriamo che, prima ancora dei provvedimenti amministrativi, prevalga il buon senso, sulla spinta di un´opinione pubblica di cui un uomo come Renzo Piano dovrebbe essere un ispiratore fra i più preziosi.

Liberazione 14.9.07
Bertinotti risponde a Epifani: «Non si può ammutolire la politica»
di Frida Nacinovich


Duello tra il presidente della Camera e il segretario della Cgil dopo le polemiche sul no della Fiom alla riforma pensioni e welfare
Bertinotti accalamato alla festa dell'Unità: «Il governo deve saper dialogare col suo popolo»

Giocano l'Italia del calcio e del rugby, ma la sala è piena. Donne e uomini di tutte l'età per ascoltare Fausto Bertinotti alla festa nazionale dell'Unità. Diessini e margheritini che si preparano ad andare nel piddì, ma non solo loro. C'è tutto il popolo dell'Unione, quello che ha votato e fatto vincere il centrosinistra portando Romano Prodi a palazzo Chigi. C'è un pezzo di società che vuole sapere che succederà ora, che affida al presidente della Camera le sue speranze, i suoi interrogativi. Poi arrivano gli abbracci, le strette di mano, la richiesta di una foto insieme, di un autografo sul badge della festa. Qui a Bologna, sotto il tendone della sala "14 ottobre" (è la data delle primarie), si tocca con mano la voglia di partecipazione, di protagonismo sociale. Ed è proprio questo il punto da cui parte Bertinotti. Il governo deve dialogare con il suo popolo.
Cartoline da Bologna, che anticipano come meglio non si potrebbe il botta e risposta fra il presidente della Camera e Guglielmo Epifani. Il leader della Cgil chiede ai partiti di fare «un passo indietro» sulla vicenda protocollo welfare-Fiom. «I lavoratori devono essere nelle condizioni di esprimersi liberamente e la politica deve ascoltare - osserva Bertinotti. Non capisco - aggiunge - il "passo indietro". Credo che ammutolire la dialettica democratica, sindacale e politica, non faccia bene neanche alla possibilità di libera espressione dei lavoratori: i lavoratori sappiano cosa pensano tutti e poi decidano in proprio».
Secondo il presidente della Camera questa «non è questione di sirene. Io credo - spiega - che l'autonomia del sindacato si difende perché, come diceva Di Vittorio, sa essere autonomo dai padroni, dal governo e dai partiti. Non perché i padroni, il governo e i partiti smettano di esistere - conclude Bertinotti - ma perché il sindacato e i lavoratori hanno una capacità di esprimersi autonomamente». A riprova della distanza fra l'informazione "mainstream" - quella che piace alla gente che piace - e la realtà arrivano le parole del segretario della Fiom, Gianni Rinaldini: «La scissione tra Fiom e Cgil non esiste, è un'invenzione dei giornalisti. Non è mai stata pronunciata la parola scissione».
Da una parte i bizzantinismi della politica "di palazzo", dall'altro migliaia di persone - anche in piedi - che ascoltano, riflettono, applaudono. Due mondi diversi, quasi non sembra vero. A Bologna Bertinotti parla a 360°, ragiona sulla sinistra e sul piddì. «Il Partito democratico e la sinistra radicale devono riconoscere di avere un grande popolo in comune e cercare convergenze nella costruzione della partecipazione». Dal palco della Festa dell'Unità, il presidente della Camera mette in guardia dal rischio «di una americanizzazione» della politica. «Dobbiamo cambiare tantissimo, innovare, ma, se smarriamo le nostre radici di sinistra, se una parte della sinistra sceglie di abbandonare il terreno sociale e di classe e diventare liberale, si rischia la scomparsa». Bertinotti chiede, quindi, al nascente Partito democratico: «L'ancoraggio politico, come diceva Mitterrand, è di centro o di sinistra? Esiste un ancoraggio sociale o non c'è più? Se il piddì sceglie che il mercato è sovrano, si corre il rischio che la sinistra scompaia». Se potessero scegliere i cittadini assiepati sotto il tendone "14 ottobre" non avrebbero dubbi. Mezza sala si alza in piedi e batte le mani per applaudire.
Si va avanti, si guarda alla manifestazione del 20 ottobre prossimo. «Se una manifestazione fosse contro il governo ci sarebbero contraddizioni, perché non si possono fare due parti in commedia, ma se si tratta di una manifestazione su una piattaforma che tenta di dinamizzare l'azione di governo non vedo ostacoli di principio e, d'altra parte, non li ho visti nemmeno quando Mastella è andato al Family day».
Il presidente della Camera chiede una dura lotta all'evasione fiscale. «La formula "pagare meno, pagare tutti" sarebbe accettabile se i carichi fiscali fossero equamente distribuiti. Il problema non è se le tasse sono troppe o poche, ma che c'è un pezzo del paese che le tasse non le paga proprio e non è la parte più povera».
Domanda capitale: è giusto stare al governo o no? «E' giusto stare al governo, ma non è giusto starci se la tua politica non è diversa da quelli che hai cacciato e non vuoi fare tornare». Boato in sala. Bertinotti insiste più volte sulla necessità «di ricostruire un consenso. Bisogna tornare a confrontarci e nel confronto ascoltare il parere del nostro popolo». Altrimenti il rischio è che altri riempiano il vuoto della politica. «Se la sinistra non incontra bene il suo popolo - sostiene Bertinotti - altri lo fanno male, perché i vuoti si riempiono».
Sì allo snellimento della squadra di governo. «Sono d'accordo - spiega il presidente della Camera - perché niente è più fastidioso che vedere che c'è uno sgomitare per ottenere un incarico ministeriale. Questo è un male per tutti ma è un vero disastro per la sinistra perché la sinistra deve avere l'ambizione e l'orgoglio di essere diversa». Secondo Bertinotti «un governo snello introduce un maggior elemento di collegialità, mentre adesso c'è un coro che a volte canta con voci diverse e una direzione del coro che a volte fa fatica a organizzarlo».
Ora il passaggio, assai delicato, legato alla consultazione su pensioni e welfare. «I sindacati daranno la parola ai lavoratori. Una grande occasione di democrazia partecipativa. I sindacati seguiranno quella decisione, ma quell'opinione deve interessare anche la politica e il governo». Al direttore dell' "Unità", Antonio Padellaro, che a un certo punto gli chiede se abbia parlato di tutte queste cose con Prodi, Bertinotti risponde: «Non posso farlo, questo lo devono fare i segretari di partito». Mormorii di delusione da parte del pubblico. Bertinotti ha la risposta pronta: «Non potrei farlo, ma se voi insistete... A vostro nome potrò farlo».
Da quest'angolo della festa nazionale dell'Unità di Bologna i cartellino pubblicitari quasi non si vedono, coperti da una moltitudine di donne e uomini che si appassiona, partecipa, fa capire che la politica interessa perché tocca la vita quotidiana. Tutto quel che resta della storica festa diessina, giunta alla sua ultima edizione. Uno macchia di rosso fra gli ulivi del piddì.

Liberazione 14.9.07
«La sinistra svolta a destra?»
di Daniele Zaccaria


«La sinistra svolta a destra?». L'interrogativo che occhieggiava mercoledì sulla prima pagina di Libération sembra brutale, ma non è più aggirabile. Almeno non dopo aver letto i risultati del sondaggio pubblicato quotidiano francese tra elettori e simpatizzanti della gauche . L'inchiesta, realizzata dall'istituto Lh2 su un campione di mille persone, mette in luce le fratture, i profondi slittamenti ideologici avvenuti nel cosiddetto popolo della sinistra rispetto alle classiche categorie "di famiglia". Temi storicamente cari alle destre come la sicurezza, il controllo dell'immigrazione, il taglio della spesa pubblica e la riduzione della pressione fiscale emergono come elementi prioritari per il 35% degli intervistati, la maggioranza relativa. Libé li definisce "liberal-autoritari", le loro posizioni esprimono il disagio delle classi medio-basse, impiegati del settore privato, operai e agricoltori, e sono accomunati da un accentuato pessimismo sociale: «E' un blocco compatto che si definisce "piuttosto di sinistra" ed è convinto che la società stia andando di male in peggio», spiega François Miquet-Marty, direttore di Lh2 per il quale è proprio tra queste fasce dell'elettorato che si sta sedimentando la popolarità del presidente Sarkozy. Alle ultime elezioni presidenziali hanno votato principalmente per i socialisti, ma rappresentano una massa «mobile e infedele» e hanno una latente inclinazione «antisistema», che li rende più recettivi alle suggestioni populiste e alla demagogia securitaria che da anni ammorba il dibattito politico transalpino. Con le dovute differenze, in Italia sarebbero situati tra gli ex Girotondi, il partito dei sindaci, il "popolo di Grillo", il partito di Di Pietro e la destra dell'ex Margherita. Liberal-autoritari per l'appunto.
Il secondo blocco con 26% delle risposte è rappresentato dai "social-liberali", sostenitori del libero mercato e della crescita economica, ma anche paladini delle questioni ambientali, dei diritti di cittadinanza e della laicità dello Stato. E' uno schieramento eterogeneo ed «evolutivo», che promuove un'idea temperata della globalizzazione, i cui punti di riferimento vanno dal sindaco di Parigi, il libertario ecologista Bertrand Delanoe, all'ex ministro delle finanze Dominique Strauss-Khan, amico di banchieri e industriali e candidato della Francia alla presidenza del Fmi. Il fragile compromesso politico che a metà degli anni '90 ha portato al governo le sinistre in Francia come in Italia, incarnava in fondo proprio le contraddizioni dei social-liberali e la loro scommessa perduta di far quadrare il cerchio dei diritti nella rgida cornice delle compatibilità economiche. Come fa notare Miquet-Marty, questi due blocchi, che rappresentano il 60% della base della gauche , si situano entrambi nella zona di scivolamento della politica dalla sfera pubblica a quella privata, sia dal punto di vista degli interessi concreti che da quello del mero senso comune.
Al terzo posto, con il 24 % ci sono gli «statalisti», in gran parte lavoratori della funzione pubblica, la piccola e medio-borghesia colta: insegnanti, magistrati, operatori sociali. Sostenitori del welfare francese, ostili alle pulsioni atlantiche e filo-Usa della destra sarkozista, ideologicamente anti-individualisti ma privi di pulsioni rivoluzionarie, si trovano soprattutto tra gli elettori della sinistra del Ps e dei Verdi, ma in passato gran parte di essi ha votato per il campo della sinistra radicale e altermondialista (15% delle risposte) con la quale condividono la difesa del modello sociale repubblicano e il forte legame di appartenenza alla sfera pubblica. Un tempo questo blocco più o meno anti-liberista era maggioritario nella sinistra francese, oggi sembra eroso dall'ascesa silenziosa dei liberal-autoritari e, in generale, dalla visibile «disarticolazione» di una gauche disperatamente in cerca di autore.
«La tradizionale dicotomia destra-sinistra non sta sparendo e definisce ancora la gran parte delle democrazie, ma sono i contenuti ad essere cambiati. Bisognerà abituarsi», sostiene il direttore di Libération Laurent Joffrin. Abituarsi o rassegnarsi?

il Riformista 14.9.07
Ora rompere a sinistra è un po’ meno tabù
di Stefano Cappellini

«Il compito di un sindacato non è far cadere i governi. Ma nemmeno sostenerli». Così Giorgio Cremaschi, segretario nazionale della Fiom, riassume il principale corollario del no del suo sindacato all’accordo sul welfare. Rompere da sinistra col governo? Non è che si deve, concede Cremaschi. Ma certo si può. Volente o nolente, e al di là delle intenzioni del leader dei metalmeccanici Gianni Rinaldini, che non vuol attentare a Prodi, la mossa Fiom sdogana lo scenario di default dell’esecutivo, incrina un tabù che è stato finora anche un totem dei ministri rifondati e della Cosa rossa di governo: «Stavolta non si rompe». Un ulteriore elemento di imbarazzo per Rifondazione comunista, certo ben lieta della sponda offerta dalla Fiom nella imminente trattativa sul welfare, ma conscia che la medaglia ha un rovescio: in un colpo solo, dopo il pronunciamento di Rinaldini e compagni, il Prc deve rinunciare al sogno di una manifestazione di tutta la sinistra radicale il 20 ottobre (le fresche parole di Guglielmo Epifani pendono su Sinistra democratica come un veto ineludibile) e vede crescere intorno a sé la tentazione della lotta all’ultimo colpo, quello alla poltrona di Prodi. Tentazione alla quale, beninteso, Rifondazione intende resistere, resistere, resistere. Se si esclude la fronda interna alla maggioranza capeggiata dal deputato Ramon Mantovani («Se il governo non dà risposte di giustizia sociale, perché dovremmo continuare a farne parte?»), il mandato per il 20 ottobre resta quello per una manifestazione di «stimolo critico, per urlare con ragionevolezza le nostre ragioni», come dice sul filo dell’ossimoro il capogruppo al Senato Giovanni Russo-Spena. Certo la tensione è alta. L’attacco di Epifani («Il Prc faccia un passo indietro») ha scomodato Fausto Bertinotti in persona: «Non capisco», ha replicato il presidente della Camera, che benedice il no della Fiom pur sapendo che costruire l’unità a sinistra è, da qualche giorno, un po’ più difficile. Lo stesso vale per Franco Giordano, che ieri si è affrettato a validare la strategia di Rinaldini, trascinare i no a un risultato rimarchevole nella consultazione che si terrà tra i lavoratori in ottobre («La scissione tra Fiom e Cgil non esiste, è un’invenzione dei giornalisti», ha anche detto in tv il leader). E Giordano, di rimbalzo: «Riteniamo che il referendum sarà una grandissima prova di democrazia, ne terremo conto. Ma quel referendum va interpretato».

Repubblica 14.9.07
Ceronetti: "Siamo troppi, ci facciamo troppe docce"

ROMA - «C´è speranza, c´è speranza. Vedo che qui i politici sono un po´ più avanti degli altri. Sento interesse per la protezione del clima». Guido Ceronetti, il decano degli scrittori dall´intelligenza non allineata, si è arrampicato con i suoi 80 anni fino al loggione riservato alla stampa, sopra la sala plenaria del palazzo della Fao. Ha poggiato il bastone accanto alla sedia ed è rimasto ad ascoltare.
Ma non era lei il leader del partito del pessimismo?
«Dicono che sono pessimista. Qui però vedo attenzione, non qualche parola generica prima di scrollare le spalle e passare ad altro. Provo simpatia per questa conferenza, per quelli che sono venuti qui a parlare di queste cose».
L´attenzione c´è, cosa manca?
«Non è stata detta una sola parola sulla questione demografica. Devo dire che sono veramente sorpreso. Se le città scoppiano è perché c´è troppa gente, se il mondo ha tanti problemi è anche perché siamo tanti. Possibile che tutti quelli che sono entrati in questa sala non abbiano mai sentito parlare di sovrappopolazione?».
L´hanno rimosso?
«Forse. Forse il pensiero tecnico scientifico sconta il suo limite, il non conoscere l´animo umano, il non indagare ciò che veramente muove gli esseri umani».
E se si indagasse cosa si scoprirebbe?
«Che l´uomo è ingovernabile, pensiamo di riuscire a decidere, di utilizzare la ragione per scegliere una strada, ma non è mica vero. Siamo mossi da altro. Gli esseri umani sono assolutamente imprevedibili».
La gente che sta qui le piace, questo non apre una breccia nel pessimismo?
«Ma li ha visti bene? Non quello che dicono, come sono. E´ gente che consuma. E´ gente che si fa la doccia tutti i giorni».
Lei no?
«Io? Io odio la doccia».
(a. cian.)


Caro FUlvio, ti segnalo che sul dvd di "Eyes Wide Shut" ho troavto una interessante intervista a Nicole Kidman che racconta della lavorazione del film e del rapporto con Kubrick.

INoltre, oggi su Repubblica mi ha colpito una piccola intervista a Ceronetti, pag. 15.

trovata!

http://it.youtube.com/watch?v=avEcaqbeLwU è la prima parte

http://it.youtube.com/watch?v=8fHh8AHK9Hw è la seconda

ciao A.

giovedì 13 settembre 2007

l’Unità 13.9.07
«Gravi rischi dallo strappo della Fiom»
La priorità ora è il referendum. Dopo il voto la Cgil chiarirà fino in fondo quanto è accaduto
Epifani intervistato da Giampiero Rossi


ALLARME Ma coglie anche l’occasione per lanciare un avvertimento esplicito alla politica (e l’allusione ai partiti della sinistra radicale è evidente): «un passo indietro». Che, tradotto, suona come un monito diretto a Rifondazione: giù le mani dal sindacato.
Epifani, dunque nonostante le “turbolenze” interne, la consultazione ci sarà. Siete consapevoli che il sindacato sarà chiamato a un impegno gravoso nelle prossime settimane?
«Certo che ne siamo consapevoli, ma devo dire che davvero sono molto soddisfatto di questa decisione dei direttivi confederali unitari di dare il via libera a una consultazione democratica che è al tempo stesso uno straordinario processo di partecipazione per milioni di lavoratori e pensionati italiani. Al di là dei numeri - tre contrari e centinaia di favorevoli - alla riunione dei direttivi ho avvertito nitidamente un clima di determinazione, quasi di orgoglio per l’apertura di questa fase, la consapevolezza dell’unità tra di noi e dell’autonomia del sindacato. Ci misuriamo in una grande prova di democrazia in una fase delicata».
Però non si può far finta che non sia successo niente 24 ore prima di quel direttivo unitario. E, proprio a proposito di autonomia del sindacato, la decisione della Fiom di schierarsi contro l’accordo ha scatenato parte della politica. In particolare Rifondazione...
«Ecco, questa è in effetti una delle conseguenze di questo passaggio delicato della dialettica interna al sindacato. I credo che i partiti debbano giustamente avere tutto lo spazio possibile per condurre le proprie battaglie, ma penso sia interesse di tutte le forze politiche lasciare maturare autonomamente le scelte dei lavoratori e dei pensionati. Servirà anche a loro conoscere l’esito del voto per sentire qual è il giudizio sull’accordo di luglio e poi valutare quel che sarà meglio fare, come rispondere alle domande che arrivano dal paese. Quindi dico no a una politicizzazione di questa consultazione, c’è già in programma la manifestazione del 20 ottobre, però nessuno deve utilizzare il nostro referendum: le forze politiche devono fare un passo indietro quando al parola spetta ai lavoratori».
Ma tutto questo è stato comunque innescato da una vicenda interna al sindacato, anzi alla Cgil: come valuta, dunque lo strappo della Fiom?
«Era noto l’atteggiamento critico della Fiom, da sempre la dialettica tra la categoria dei metalmeccanici e la confederazione è caratterizzata da differenze anche marcate. Diciamo, quindi. che mi aspettavo dalla Fiom un profilo critico che poi si sarebbe dovuto affrontare. Ma c’è stata invece, per la prima volta, una scelta più forte, c’è stato uno strappo in più. E io giudico sbagliata la decisione della Fiom perché rischia di indebolire la prospettiva sindacale, dopo che tante strutture territoriali e di categoria hanno approvato l’accordo e alla vigilia di una grande consultazione».
E che cosa avrebbe dovuto fare Rinaldini, secondo lei?
«Sarebbe stato molto meglio avesse espresso un giudizio critico ma mantenendosi nel quadro confederale. Invece ha fatto un passo davvero azzardato che potrà avere conseguenze pesanti».
Per esempio?
«Per esempio la politicizzazione di una discussione che dovrebbe rimanere in ambito strettamente sindacale e l’uso strumentale che ne sta facendo la destra».
Ma a questo punto cosa succede nella Cgil. Che conseguenze avrà questa scelta della Fiom? Si ipotizza un congresso straordinario e c’è chi critica la scelta dell’ultimo congresso di procedere per tesi e non per mozioni...
«Andiamo con ordine. Per quanto riguarda il futuro, mi pare che qualcuno stia correndo un po’ troppo in avanti, adesso pensiamo al referendum, poi vedremo affronteremo le questioni interne nelle sedi che riterremo più opportune. E a proposito dell’ultimo congresso, invece, credo valga la pena ricordare il momento in cui si è tenuto: eravamo nella fase finale del governo di centro-destra, reduci da cinque anni di intensa battaglia sindacale e sociale. Si trattava quindi di un congresso unitario, pur nelle differenze di vedute che da sempre esistono nella Cgil, perché è normale trovare maggiore compattezza quando si lotta contro, mentre è più difficile quando si devono fare accordi. Questo lo racconta tutta la nostra storia, ogni accordo è stato accompagnato da una dialettica interna vivacissima. Oggi, semmai, vedo una dialettica più ristretta, poiché è preponderante l’accordo su quel protocollo, e la radicalizzazione della posizione di una sola parte del sindacato. Dopodiché dico anche che non viviamo sotto una campana di vetro, anch’io ho espresso i miei dubbi sul protocollo di luglio, però dobbiamo anche essere consapevoli della situazione in cui ci troviamo».
Ma c’è addirittura il rischio che si vada verso la formazione di un “quarto sindacato”, cioè la Fiom che va per conto suo?
«No, io non vedo affatto questo pericolo. davvero si sta correndo troppo in là. Ma di sicuro credo che dobbiamo recuperare un rapporto più normale con la Fiom e all’interno della Cgil e sarà una discussione che riprenderemo sicuramente quando sarà conclusa questa consultazione. E su questo insisto: non vorrei mai che la grande opportunità di questo referendum vada sprecato per effetto di battaglie interne o di strumentalizzazioni politiche. Perché questa è una sfida è un'occasione per cogliere gli umori, le richieste, i problemi del mondo del lavoro».
Il segretario della Fiom dice che però la consultazione cade in un clima difficile, di sfiducia generale. Lei è d’accordo?
«Sono d’accordo, sappiamo bene che nel paese si sta facendo strada un certo qualunquismo, l’istinto dell’antipolitica che fa dire “siete tutti uguali”. Ma credo anche che sia un motivo in più per raccogliere, con il referendum, questa sfida e recuperare il rapporto con i lavoratori e i pensionati. Anche per questo credo molto e ho condiviso sin dall’inizio l’idea di una consultazione generale e anche per questo, secondo me, la Fiom ha sbagliato».
Sarà importante una forte partecipazione. Avete in mente dei numeri?
«L’ultima volta che abbiamo indetto una consultazione analoga, nel 1995, parteciparono al voto 4 milioni e 400.000 lavoratori. Ora ci muoviamo in tempi più stretti e nel clima difficile che ho appena descritto. Speriamo comunque di riuscire fare ancora meglio di dodici anni fa, che oltre cinque milioni di lavoratori e pensionati partecipino al referendum. Quando indici un referendum deve mettere in conto i sì e i no. L'importante è che partecipi il maggior numero di persone. Noi sosterremo lealmente le ragioni del sì convinto. Credo che alla fine prevarrà una decisione positiva. E devo dire che ho colto nel clima dei direttivi unitari, in quell’orgoglio dell’autonomia del sindacato, un buon viatico per le prossime settimane».

l’Unità 13.9.07
Bertinotti: decide il referendum
Sullo strappo Fiom il leader di Rc: la parola ai lavoratori. «Il governo deve ridurre i ministri»
di Simone Collini


APPLAUSI e gente in piedi per Fausto Bertinotti alla Festa nazionale dell’Unità. Il presidente della Camera arriva al Parco Nord di Bologna e prima ancora che raggiunga la sala principale dei dibattiti viene intercettato dai giornalisti che gli domandano se sia
verosimile un’ipotesi di scissione della Fiom dalla Cgil, dopo la bocciatura del protocollo sul welfare da parte del sindacato dei metalmeccanici. "Queste sono proiezioni impossibili, fatte solo se non si conosce la storia della Fiom e della Cgil", risponde aggiungendo che comunque "non è la prima volta" che la Fiom vota in maniera contraria ad accordi confederali.
Poi comincia l’intervista con Antonio Padellaro e il tema del lavoro, della precarietà, dei morti sul lavoro torna a più riprese. Anche con toni critici, come quando Bertinotti attacca il presidente di Confindustria: "Montezemolo ha detto che la politica è diventata inutile, che non c’è più necessità di distinzione fra destra e sinistra perché le esigenze delle imprese devono comandare: io penso invece che non c’è una politica progressista se non si sconfigge e si contrasta questa idea".
Ma Bertinotti non si sottrae di fronte all’altra questione di cui da qualche giorno si discute sui giornali: l’ipotesi di una "riorganizzazione" del governo. Il presidente della Camera la prende un po’ alla lontana, sottolineando l’importanza della partecipazione soprattutto per le forze di sinistra, o il fatto che "la personalizzazione della politica porta male a noi", o che "un difetto della politica di oggi è che non esistono più le sedi delle direzioni collegiali", e che comunque "niente è più fastidioso dell’impressione che ci sia uno sgomitare per avere incarichi ministeriali, che è un male per tutti ma ancora peggio per la sinistra. perché ha l’orgoglio e l’ambizione di essere diversa dagli altri".
E’ sulla categoria di "collegialità" che fa perno Bertinotti per indicare quelle che secondo lui devono essere "le due priorità" da affrontare: "Riduzione del numero dei ministri e parità di uomini e donne nell’esecutivo". E spiega: "Oggi si ha l’impressione che ci sia un coro con troppe voci che vanno per conto loro e una direzione che fatica. Un governo snello introduce la collegialità, per forza di cose".
Gli applausi lo interrompono più volte, ma quello più forte e prolungato scatta quando Bertinotti difende la scelta di aver portato Rifondazione comunista al governo, per poi però aggiungere un paio di cose. La prima: "La questione non vale in termini assoluti. Il governo non è cioè il paradiso e l’opposizione l’inferno". La seconda, quella che suscita maggiormente l’entusiasmo della platea: "Non è giusto stare al governo se la tua politica di governo non è diversa da quella del governo che hai cacciato e che non vuoi far tornare". Vede questo rischio? chiede Padellaro. "Non sarei sincero se non dicessi che questo è il pericolo da scongiurare", e ancora giù applausi.
Non viene mai pronunciato esplicitamente né il tema della bocciatura della Fiom all’accordo sul welfare siglato da governo e sindacati né tutte le altre questioni che mettono in contrapposizione l’ala radicale dell’Unione e quella riformista. Dice però Bertinotti con parole assai simili a quelle utilizzate in questi passaggi dalle forze della sinistra radicale: "Dobbiamo ricostruire il consenso del nostro popolo per trovare il consenso degli italiani, o per lo meno della maggioranza degli italiani". Il referendum tra lavoratori e pensionati sull’accordo di luglio lo definisce "una grande occasione di democrazia partecipata", ma dice anche che l’esito che uscirà il 10 ottobre dalle urne "deve interessare anche la politica, anche il governo", e in un senso ben preciso: "Se anche prende la maggioranza, se anche ottiene il 70% o il 60% dei consensi, bisogna guardare anche al 30 o 40% che ha detto no, che si è mostrato insoddisfatto. Su questo terreno sento che c’è ancora molto da fare".
E parole simili a quelle utilizzate da esponenti della sinistra radicale tornano anche quando dice, senza voler affrontare lo specifico dell’appuntamento del 20 ottobre, che "se una manifestazione fosse contro il governo ci sarebbero contraddizioni, perché non si possono fare due parti in commedia, ma se si tratta di una manifestazione su una piattaforma che tenta di dinamizzare l’azione di governo non vedo ostacoli di principio. E, d’altra parte, non li ho visti nemmeno quando Mastella è andato al Family day".

l’Unità 13.9.07
Rifondazione si sente accerchiata dalla sua sinistra
Cremaschi parla di sciopero generale, le minoranze interne di campagna per il no. Giordano frena


LA BOCCIATURA da parte della Fiom del protocollo sul welfare siglato da governo e sindacati può essere per Rifondazione comunista l’occasione per rilanciare il proprio ruolo nel governo, ma anche il primo passo verso una spaccatura del partito. Non a caso a via del Policlinico ieri si è guardato con molta attenzione all’assemblea organizzata al centro congressi Cavour: trecento persone in rappresentanza di Cobas (c’era Piero Bernocchi), "Rete 28 Aprile" (presente il fondatore Giorgio Cremaschi), Sinistra critica (il trotzkista del Prc Salvatore Cannavò), Partito comunista dei lavoratori (l’ex Prc Marco Ferrando), Action (in sala c’erano i "disobbedienti" Luca Casarini e Francesco Caruso), che hanno deciso di indire tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre uno sciopero generale nazionale contro l’accordo sul welfare con manifestazioni (quella del 20 ottobre viene giudicata troppo morbida). E si fa strada nella maggioranza il sospetto che si voglia far nascere un soggetto a sinistra del Prc.
Ecco perché in queste ore Franco Giordano si muove con cautela su una corda tesa che ha a un’estremità gli alleati di governo che intimano di «non organizzare un’opposizione interna alla maggioranza» sul protocollo welfare, e dall’altra una minoranza interna pronta a fare una campagna per il "no" al referendum tra i lavoratori e a chiedere l’uscita dal governo se gli emendamenti presentati in Parlamento dal Prc non verranno approvati. «Dopo il no della Fiom i comunisti e la sinistra d’alternativa sono di fronte a un bivio - dice il senatore dissidente Fosco Giannini, - o cambiano la politica del governo o escono dal governo Prodi».
Una situazione nella quale Giordano non può che muoversi dando un colpo al cerchio e uno alla botte . «Il più grande sindacato di categoria in Italia esprime la sofferenza e il malessere di tanti operai e operaie», manda a dire il segretario Prc agli alleati e allo stesso Prodi, che ha derubricato la bocciatura della Fiom a fatto "previsto e scontato". «La politica, che è in crisi di credibilità, dovrebbe avere l’umiltà di ascoltarli, di provare a interpretare quel malessere, e il governo non può volgere lo sguardo dall’altra parte», attacca Giordano. Che però si guarda bene dall’annunciare una campagna di Rifondazione nei luoghi di lavoro per far vincere il "no".
Una posizione che viene duramente contestata dalla minoranza di Sinistra critica, quella del senatore, allontanato nei mesi scorsi dal Prc, Turigliatto. Lui così come Cannavò e gli altri di Sinistra critica presenti in Parlamento, voteranno "no" al protocollo sul welfare anche se il governo deciderà di porre la fiducia. «Faremo una campagna a tappeto per il no - assicura Cannavò - insieme ai comitati di Cremaschi e ai Cobas» La maggioranza, per il portavoce della minoranza trotzkista di Rifondazione, sbaglia a non dare indicazioni di voto: «Nel ’95 ci fui un’analoga consultazione tra i lavoratori sulla riforma delle pensioni di Dini e Rifondazione era in prima fila per il no». Anche perché, dice l’esponente Prc nonché segretario nazionale della Fiom Cremaschi: «Quando si fa un referendum, e ci sono due voci in una scheda, il sì e il no, vuol dire che anche il no è legittimo. È nell’interesse di tutti spiegare anche le ragioni del no». Un attacco a Guglielmo Epifani, che tre giorni fa dalla Festa dell’Unità ha difeso l’accordo e sfidato «coloro che lo criticano a fare di meglio» . Parole che non sono piaciute a Cremaschi, per il quale l’accordo siglato a luglio «non è né il migliore né l’unico possibile»: «Se avessimo voluto avremmo potuto fare di meglio. Gli effetti di una vittoria del no al referendum sarebbero positivi, perché segnalerebbero che si può fare di più». Un discorso poco realistico per Maurizio Zipponi, per anni segretario della Fiom di Milano e di Brescia e oggi responsabile Lavoro di Rifondazione comunista: «Il risultato del referendum è scontato. Si sono espressi a favore dell’accordo 25 mila funzionari confederali. La vittoria del no significherebbe semplicemente lo scioglimento di Cgil, Cisl e Uil». Più verosimilmente, per Zipponi, Rifondazione deve «continuare a esprimere il proprio giudizio negativo senza però dare indicazioni di voto» per poi «ascoltare cosa si dirà nelle assemblee e leggere i risultati del referendum. In base a questo indicheremo i punti di modificadell’accordo, facendo battaglia in Parlamento». Sul dopo non parla. s.c.

l’Unità 13.9.07
Grillo fa litigare Di Pietro e Bertinotti
Idv: scarso peso alle nostre sollecitazioni. La replica: «Non le avete mai presentate»


«MI FA DAVVERO male sentire le tue parole». «Hai perso davvero il senso della misura». Beppe Grillo fa litigare Antonio Di Pietro e Fausto Bertinotti.
Tra il leader dell'Italia dei Valori e il presidente della Camera, infatti, sono volate parole grosse, anche se a distanza.
Tema del contendere: la proposta di legge dell'Idv per l'ineleggibilità in Parlamento di chi ha ricevuto condanne penali. Uno dei tre punti del manifesto del V-Day, contenuto anche in proposte di legge presentate dall’Idv alla Camera. Pdl che Di Pietro accusa Bertinotti (in una lettera all'Unità, ma ancora ieri da Palermo) di non aver ancora inserito nel calendario dell'Assemblea. Lo scontro si accende durante la riunione dei capigruppo di Montecitorio. Fabio Evangelisti dell'Idv sollecita la calendarizzazione per settembre delle proposte di legge che, dice, sono ferme da troppo tempo. Bertinotti replica secco. Le proposte di legge non sono state accantonate, anzi «l'esame in commissione è iniziato a giugno». Ma la richiesta di metterle nel calendario dell'Aula a settembre «è giunta solo ieri» e «non risultano lettere o sollecitazioni nelle precedenti riunioni dei capigruppo». Bertinotti, difeso da molti altri capigruppo, anche del centrodestra, osserva che l'esame della prima commissione non è ancora terminato, ma assicura che la richiesta dell'Italia dei Valori «sarà valutata nella compilazione del prossimo programma» dei lavori. La precisazione non accontenta Di Pietro, tutt'altro. Da Palermo, forse ignaro di quanto accaduto a Montecitorio, il ministro non cambia spartito: «Mi fa male sentire le parole di Bertinotti in appoggio alle proposte di Grillo», dice, quando «gli scrivo da settimane per chiedere l'inserimento all'ordine del giorno delle nostre analoghe proposte». Ricevendo, secondo Di Pietro, il silenzio: «Bertinotti non mi ha mai risposto». A questo punto, il presidente della Camera sbotta: «Di Pietro ha davvero perso il senso della misura se continua ad attaccare la presidenza della Camera nonostante il chiarimento avvenuto nella conferenza dei capigruppo». E, quasi a voler ricordare all'ex Pm le procedure parlamentari, Bertinotti aggiunge che è proprio la riunione dei capigruppo «la sede per esaminare le richieste di formazione dei lavori parlamentari».
Le lagnanze di Di Pietro, dunque, sono solo «pure fantasie di un ministro che si rivela poco rispettoso della prerogative del Parlamento». Lo scontro con Bertinotti, arriva mentre il leader dell'Idv, il politico che più si è schierato con Grillo, è protagonista di un attacco a tutto campo rivolto anche nei confronti del governo di cui fa parte. Principali bersagli i colleghi Alfonso Pecoraro Scanio e Alessandro Bianchi: Di Pietro chiede a Prodi di «avocare a sé» alcune competenze dei loro ministeri, accusando soprattutto il leader Verde di bloccare le scelte del ministero delle Infrastrutture. Di Grillo è tornato a parlare anche Gianfranco Fini, durante una riunione con i dirigenti di An: «Ha avuto successo, ma è facile immaginare che non abbia fatto tutto da solo... È la punta dell'iceberg di un malessere diffuso che dobbiamo saper intercettare», avrebbe detto l'ex vicepremier, chiedendo ai suoi coerenza nei comportamenti locali per la trasparenza e la riduzione dei costi della politica. E Grillo? Dopo quattro giorni, si fa risentire dal suo blog dispensando censure (ai critici del V-Day) e ringraziamenti (ai suoi «meetup»): «Il milione di persone che è sceso in piazza, in modo composto, senza bandiere, senza il più piccolo incidente, dovrebbe essere ringraziato», avverte.

l’Unità 13.9.07
Renzo Piano. Se l’architettura ha le ali di una farfalla
di Renzo Cassigoli


RENZO PIANO compie settant’anni. Ha legato il suo nome ad opere straordinarie: dal Beaubourg di Parigi all’Auditorium di Roma. Ha tre progetti in cantiere a New York. Lo abbiamo intervistato

Renzo Piano domani compie settant’anni ma se lo vedi il tempo sembra essersi fermato. Lo scorrere degli anni per lui è segnato dalle opere celebrate nel mondo e da quelle che continua a realizzare, ora ripercorse nella grande mostra che al Palazzo della Triennale di Milano scandisce i passaggi di una vita straordinaria che segna la storia dell'architettura. Aperto e gentile, curioso e disubbidiente, Renzo Piano è disponibile all’incontro che ritaglia negli spazi d'una intensa giornata divisa (quando non è in viaggio per i cinque continenti) tra la meditazione creativa e il dialogo con gli altri. Non ama l’accademia. Da uomo di cantiere segue i lavori delle sue opere, ma torna sempre alle due «botteghe», come preferisce chiamare i due Building Workshop: quello di Punta Nave a Voltri, luogo della memoria costruito dal fratello Ermanno, definito poeticamente «leggero come l'ala di una rosea farfalla», e l'altro al Marais nel cuore di Parigi.
Pronunci il suo nome e subito nella mente si stampa l'immagine del Beaubourg: «L'utopia di una macchina urbana che però non aveva niente a che fare con la machine di Le Corbusier. La macchina di Le Corbusier era architettura, quel palazzo è senza carrozzeria, estroflesso. Abbiamo costruito una nave spaziale alla Jules Verne». Sorride Renzo Piano mentre racconta quell’avventura straordinaria: «Ho lavorato al Beaubourg all’inizio della mia professione. Il concorso era del 1971, ma lo spirito era quello che nel Sessantotto percorse la Francia facendo maturare l’idea di un centro culturale aperto a Parigi, alla Francia, all’Europa. Allora ero solo un artigiano, con Richard Rogers sono diventato un architetto». Scuote la testa al ricordo. «Eravamo due giovani sgangherati come il Beaubourg, con i capelli lunghi. Te lo immagini io e Rogers che incontriamo il presidente Pompidou?»
Da allora è iniziata la lunga avventura professionale segnata dalle opere che hanno fatto di Renzo Piano uno degli architetti più celebrati ed apprezzati al mondo, il primo a parlare e a confrontarsi concretamente con quella che ha definito «architettura sostenibile». «Siamo nel mezzo di un momento storico nuovo: dopo l’ubriacatura del cemento e dell’acciaio e la liberazione degli stili, l’architettura deve celebrare la scoperta della fragilità del mondo. Il terreno su cui secondo me bisogna andare è quello dell’architettura che si mette in ascolto della Terra fragile», ha detto nell’intervista a Franco Irace che apre il grande catalogo della mostra alla Triennale che Piano, parafrasando Italo Calvino, ha intitolato «Le città visibili».
Attualmente a New York sta lavorando a tre progetti: la Columbia University ad Harlem, la ristrutturazione e l’ampliamento del Whitney Museum e della storica Morgan Library. Contemporaneamente si occupa del nuovo piano regolatore di Genova dominato dall’idea guida della Monorotaia da costruire al posto della Sopraelevata. La Monorotaia, sostiene, è il simbolo del cambiamento. Non è solo meno invasiva (filiforme, quasi eterea, la definisce con un pizzico di poesia) ma è il segno tangibile di un nuovo rapporto tra il trasporto pubblico e quello privato che può cambiare l’idea di città ponendo al centro l’uomo e non le macchine. La sua idea rispecchia un solido orizzonte etico: «La città è una splendida invenzione dell’uomo ed è basata sullo scambio, sulla permeabilità. La città è per l’uomo e quindi, tutti i progetti devono far riferimento a questa realtà».
Per Renzo Piano: «L’idea di una crescita senza limiti ha fatto esplodere le città, creando le peggiori periferie, mura senz’anima. Ora devono implodere per ridare un anima, un senso ai “buchi neri” lasciati dalla deindustrializzazione». Nel suo lavoro gli esempi concreti vanno dalla ricostruzione della Potsdamer Platz, il grande «buco nero» lasciato a Berlino dalla seconda guerra mondiale; alla collina genovese degli Erzelli la cui cima fu spianata per costruire l’Italsider, dove Renzo Piano progetta un villaggio tecnologico e della ricerca che «tenga insieme l’anima razionale dello scienziato e l’emozione dell’artista». Ha immaginato dieci torri esili e trasparenti che si levano tra migliaia di alberi. Un progetto fondato sullo sfruttamento dell’energia pulita puntando su tre opzioni: il sole, il vento, la falda freatica.
L’elenco delle sue opere è lunghissimo, possiamo ricordarne solo alcune, tra le più famose: la nuova sede del New York Times, The Menil Collection a Houston in Texas, il terminal dell’aeroporto Kansai a Osaka, costruito su una piattaforma in mezzo al mare; la ristrutturazione del Lingotto, il recupero del porto antico di Genova, il Centro culturale Jean Marie Tjibaou a Numea in Nuova Caledonia, i cui padiglioni richiamano l’immagine delle capanne, con un sistema di aerazione che attraverso una doppia copertura quando soffiano i monsoni produce il suono tipico dei villaggi Kanak e della foresta. E ancora l'IRCAM (Istituto per la Ricerca Musicale) a Parigi, lo spazio musicale per l'opera «Prometeo» di Luigi Nono a Venezia, L’Aurora Place a Sydney, il grande Auditorium Parco della Musica a Roma, la nuova sede de Il Sole 24 ore a Milano.
Le sue costruzioni hanno la particolarità di non poter essere contenute in uno stile, nel senso che i suoi lavori non si impongono in un modo unico e stereotipato, tale da far esclamare: ecco quell’opera è di Renzo Piano. La sua architettura sorprende per le sfide che lancia, per l’originalità, la curiosità, il rispetto delle diverse culture che incontra, aderendo sempre al luogo dove costruisce. Per lui l’architettura è arricchita dalla contaminazione con tutte le espressioni dell’arte: dalla musica, alla pittura, alla letteratura. Contaminazioni che hanno segnato e segnano alcune grandi amicizie. Prima fra tutte l’amicizia con Luciano Berio con il quale - raccontano - concluso il Parco della Musica si fermò per mezz’ora nel teatro più grande: «Ad ascoltare il silenzio», e ancora con Pollini e Accardo. O l’amicizia con Mario Vargas Llosa e Italo Calvino, che per scherzo, durante una visita a Parigi propose a Piano un modo originale per «lavare» il Beaubourg, secondo il principio dell’autolavaggio delle macchine.
Un uomo complesso, un umanista di vasta e profonda cultura, mai sfoggiata, Piano è di una serenità coinvolgente. Ama la parola e anche il silenzio. «C’è troppo chiasso in giro- dice- troppe voci. Abbiamo bisogno di un po’ di calma. La possibilità di creare attorno a un progetto un’atmosfera raccolta, fatta anche di quel silenzio, nel quale comincia a prendere corpo la tua piccola "voce interiore"».
Per Leonardo Benevolo: «Renzo Piano è uno dei quattro architetti del nuovo millennio capace dell’invenzione pura», gli altri tre sono Richard Rogers, Norman Foster e Jean Nouvel. Piano apprezza le parole del grande storico dell’architettura. «Ha colto la trasformazione avvenuta nella mia attività professionale. Le sue parole fanno riflettere sul divenire della vita. Di fatto nasco come tecnico, vengo da una famiglia di costruttori. Poi uno cresce e a 70 anni si ritrova che qualcosa ha imparato. La conclusione à che si dovrebbe campare fino a 140 anni». Auguri di cuore, Professore.

l’Unità 13.9.07
Le Nuove di Torino diventano Museo del Carcere. Nel 1947 vi furono eseguite le ultime condanne a morte
Viaggio fra i tormenti di una prigione
di Mirella Caveggia


Lascia sgomenti il viaggio nella carcerazione del passato che dall’aprile scorso si può intraprendere nel Museo del Carcere dentro Le Nuove di Torino, l’ex-prigione dove nel 1947 furono tratti alla fucilazione gli ultimi condannati a morte in Italia. Quegli spazi definitivamente abbandonati quattro anni fa oggi sembrano ancora impermeabili alla vita e alla speranza. Fra le mura spesse e alte, nei lunghi corridoi dove si affacciano le porte delle celle corrose dal degrado e svuotate degli arredi, anche il tempo sembra essersi bloccato. L’immobilità della cittadella fantasma nel centro di Torino sarà scossa l’anno prossimo quando si attiveranno tre cantieri per una colossale trasformazione dell’insieme, destinato ad ospitare in futuro uffici e servizi giudiziari. Ma intanto per preservare le tracce storiche di un complesso monumentale carico di storia e di memorie, è nato un museo. Lo ha intensamente desiderato padre Ruggero Cipolla, scomparso di recente, che per 50 anni nelle prigioni torinesi ha dato l’estremo conforto a 72 condannati a morte ed è venuto a contatto con il vissuto di tanti carcerati, molti dei quali hanno lottato per gli ideali fondanti della nostra Costituzione, pagando anche con la vita.
Il percorso che si snoda in un settore del carcere, ne fornisce le vicende trascorse attraverso cubicoli, celle, documenti d’archivio, lapidi, lettere e fotografie dei detenuti, oggetti e arredi. Accanto a queste testimonianze, si può consultare il materiale relativo alla pregevole struttura architettonica di un complesso di 30.000 metri di superficie, una vera e propria città con corpi separati, strade, serviza, edificato dal 1857 al 1870 al tempo di Vittorio Emanuele II su un progetto dell’architetto Giuseppe Pollani.
I visitatori, raccolti in piccoli gruppi, dopo che la porta si è chiusa alle loro spalle, costeggiano l’intercinta, il primo segno del distacco dalla vita sociale e dagli affetti. Attraversato un cortile interno, sono introdotti dietro le sbarre. L’impatto con l’orrore del passato è inatteso. Nessuno si scambia più sguardi e parole, né si scattano foto. Anche la guida, fornisce solo spiegazioni essenziali. Si accede nella sezione femminile, dove le donne erano costrette a rigidi ordinamenti in strutture concepite per gli uomini. Si prosegue poi nel corridoio del famigerato 1° braccio tedesco, grigio, buio e gelido, dove ai prigionieri erano negate la luce, il cibo, la messa. Si percorre il braccio centrale che unisce le due rotonde del carcere per accedere alla cappella. Il cammino termina nelle celle dei condannati a morte, dove la realtà della pena capitale assume tutti i suoi contorni più sinistri. La visita svela ad ogni passo ciò che non si è mai visto prima: volti di esseri umani segnati da storie tragiche ormai concluse, spazi angusti, finestre a bocca di lupo che lasciano scorgere solo un lembo di cielo, passaggi fra grate altissime, una sedia come quella delle fucilazioni, il letto di contenzione, che immobilizzava con cinghie robuste per giorni e giorni. Il trattamento del passato doveva essere spietato, la solitudine totale, il freddo dell’inverno pungente (il riscaldamento è stato installato solo nel 1986). Chi transita non può non cogliere l’eco delle emozione dei detenuti di un tempo: depressione, vergogna, sconforto, senso d’abbandono. La stretta al cuore si fa morsa dolorosa quando attraverso una scala a spirale si penetra nel seminterrato con i cubicoli nel secondo braccio, dei condannati a morte al tempo del Fascismo e della Resistenza, dove sono stati rinchiusi i martiri del Martinetto, i partigiani uccisi per rappresaglia dai nazisti, i deportati sterminati nei lager, i giovani detenuti torturati a morte. L’oscurità pervade ancora ogni angolo, interrotta dalla luce flebile di qualche lampadina. Sulla soglia delle ristrette celle individuali figurano le ultime lettere di chi è andato incontro alla fucilazione o all’impiccagione: una testimonianza dolorosa e ferma lasciata alla coscienza e alla riflessione dei visitatori.

Repubblica 13.9.07
Pecoraro e parte di Sinistra democratica all´attacco di Fiom e Rifondazione: atteggiamento suicida
Si spacca anche la Cosa rossa "Manifestazione a rischio"
Ma Salvi (sempre Sd) difende Rinaldini e compagni: aggressione scandalosa
di Goffredo De Marchis


ROMA - «Diciamolo chiaramente: se la manifestazione del 20 ottobre spacca il movimento dei lavoratori, è contro il governo, divide anziché unire, noi ce ne stiamo casa. Ci vada qualcun altro». Il leader dei Verdi Alfonso Pecoraro Scanio fa capire che gli effetti del no della Fiom sul protocollo Welfare spacca la Cgil, ma anche la Cosa rossa, il laboratorio della sinistra unita alla quale hanno lavorato in questi mesi Rifondazione, i Verdi, il Pdci e gli ex diessini di Fabio Mussi. La manifestazione del 20 ottobre doveva essere il pilastro del nuovo soggetto, la risposta alla primarie del Partito democratico, quasi l´atto di nascita della "Sinistra". Ma oggi la piattaforma comune, che dovrebbe unire i quattro partiti, le associazioni, la Cgil e la Fiom, è sempre più in alto mare.
Sinistra democratica, il gruppo dei dissidenti diessini, conferma, anzi rilancia tutte le sue perplessità, dopo che nei giorni scorsi si era aperto lo spiraglio di un´intesa. Dice Carlo Leoni, vicepresidente della Camera: «Il problema resta in piedi. Del resto alla base del nostro movimento c´è il rapporto con tutta, ripeto tutta, la Cgil. È scritto nel nostro statuto». Gli uomini di Mussi non mollano Epifani e non mollano il governo. Ma la scelta della Fiom non spacca solo il nascente soggetto unitario, s´infila anche nelle divisioni all´interno degli stessi partiti. L´altro dirigente di Sd, Cesare Salvi, infatti non ha alcuna intenzione di rompere con i metalmeccanici e di seguire la linea indicata dalla maggioranza della Cgil. «Trovo stupefacente, direi scandalosa l´aggressione nei confronti della Fiom. Mandare a quel paese i metalmeccanici non fa bene al Paese e non fa bene all´unità a sinistra. E se il sindacato confederale entra in crisi ricordiamoci che ci sono i Cobas, gli autonomi. Stiamo attenti, perciò». Anche nei Verdi la posizione di Pecoraro Scanio e quella del sottosegretario all´Economia Paolo Cento non coincidono. «Per essere sinceri- dice il ministro dell´Ambiente - tutto il partito ha accolto la proposta di Cento: votare in Parlamento sul welfare rispettando il referendum dei lavoratori. Ecco questa è la nostra posizione». Cento però avverte: «Guai a sottovalutare il dissenso della Fiom». Pecoraro è meno "comprensivo": «Se l´intenzione, alla fine, è quella di far cadere il governo, trovo l´atteggiamento dei metalmeccanici ben strano, direi quasi suicida. E non può certo diventare la parola d´ordine dell´iniziativa del 20 ottobre: perché mandare a casa Prodi significa mantenere lo scalone».
La sinistra radicale trova un punto di equilibrio nella richiesta di modifiche al pacchetto lavoro, salvando la riforma delle pensioni. Sono emendamenti che non dividono la Cosa rossa e che anzi oggi verranno presentate come documento congiunto al presidente del Consiglio. Ma lo strappo della Fiom, i venti di scissione a Corso d´Italia sono più forti di un voto parlamentare che deve ancora arrivare. A questo punto, il confronto a sinistra subisce uno stop almeno fino al referendum dei lavoratori fissato per l´8-10 ottobre. Sd e Verdi sperano nel successo dei sì per ripartire e smorzare il no dei metalmeccanici. E Rifondazione? È pronta a sacrificare il rapporto con quella base elettorale in nome della federazione delle sinistre? Il capogruppo di Prc Gennaro Migliore sembra mettere nel conto anche una rottura: «Primo: se la preoccupazione è quella dell´unità sindacale dico che va guadagnata. E che unità significa appartenenza all´organizzazione, ma non necessariamente compattezza sui contenuti. È quello che Bertinotti ha insegnato alla Cgil». E la manifestazione e l´intesa a sinistra? «La manifestazione si farà. Non so se ci saranno tutti i partiti e non è fondamentale. So che ci sarà il popolo della sinistra».

Repubblica 13.9.07
Gli operai di Mirafiori dopo lo strappo della Fiom
Le tute blu compatte "Un no sacrosanto"
di Diego Longhin


TORINO - «È un no sacrosanto. Qui dentro di sicuro l´accordo non passa, ma basteranno i sì degli altri lavoratori». Domenico Schiena ha 40 anni, da 15 lavora in linea di montaggio alle Carrozzerie di Mirafiori. «Oggi mi sento più sollevato», racconta all´uscita dal primo turno. «Non sono un iscritto della Fiom - sottolinea - ma qualcuno doveva dire che non si possono camuffare gli scalini con gli scaloni. Forse sarà un no che lascia il tempo che trova, che non servirà a nulla. Ma almeno facciamo sentire la nostra voce. Tanto ci penseranno i pensionati e gli altri lavoratori, quelli che stanno comodi alla scrivania, a dire sì».
Tra le tute blu della più grande fabbrica italiana, che hanno già gli occhi puntati sul rinnovo del contratto, c´è la speranza che la posizione dei metalmeccanici della Cgil serva a dare una svolta, anche se il tutto è condito da un po´ di rassegnazione. «Tanto alla fine fanno come vogliono, quando mai si è fatto un accordo favorevole per noi. I sindacati e il governo sono pappa e ciccia», dice Nicola Nobile mentre passa la tessera magnetica alle barriere della Porta 2. Qualunquismo? Forse. Ma se si guarda alla storia dei referendum tra i lavoratori c´è chi pensa che andrà come nel 1995, quando il 66 per cento dei meccanici torinesi bocciarono la riforma Dini, che però fu salvata dal voto del resto del Paese e delle altre categorie.
Finirà allo stesso modo con l´accordo sul welfare di luglio? Probabile, ma l´importante è farsi sentire. «Non accettare senza dire ma perché si pensa che quello Prodi sia un governo amico», dice Rina Colace. Anche Marina Angiolini, da 30 anni in Carrozzeria, sostiene che «la Fiom ha ragione: dopo tanti anni di lavoro devi avere il diritto di andare in pensione dignitosamente, cosa che questo accordo non ti permette di fare. Solo quando ti rompi e puoi essere rottamato ti permettono di lasciare. Anzi, ti scaricano in tutti i modi».
Molti lavoratori hanno in testa le assemblee dello scorso dicembre con i tre leader di Cgil, Cisl e Uil, tra fischi e operaie sotto il palco per mostrare le braccia gonfie ad Angeletti, Epifani e Bonanni. «Speriamo che tornino, vengano loro a raccontarci questo accordo, noi non l´abbiamo ancora capito. Magari e buono o magari si prenderanno un altro bel po´ di fischi. Hanno tenuto conto delle nostre richieste?», dice Anna Lo Russo. E aggiunge: «Non basta un no, bisogna anche dare segnali concreti scendendo in strada». Secondo Giuseppe D´agostino, da 18 anni in Fiat, «in fabbrica c´è molta disinformazione, ormai anche il rapporto con il sindacato è logorato. Ci si fida del delegato amico, né della Fiom, né della Fim e né della Uil. Gli operai sono insofferenti perché si aspettavano di più da un governo di centrosinistra».
Non la pensa così Rocco Moscato, da 32 anni alle Carrozzerie: «Non è giusto rompere con il governo, è controproducente. E poi i sindacati erano riusciti a portare a casa qualcosa. Sarebbe stato meglio aspettare il referendum e lasciare che fossero i lavoratori a dare il loro giudizio prima di dire no. Ed ora cosa si farà? Sciopero? C´è anche il contratto e noi abbiamo bisogno di soldi».

Repubblica 13.9.07
Il leader di Rifondazione: il no della Fiom non può essere derubricato, mi chiedo che ambienti frequenta il Pd
"Ascoltare il disagio degli operai"
Giordano: non faremo cadere il governo, ma la collegialità sia reale
di Claudio Tito


La Cgil. Ricordo che quella del sindacato è una grande storia di autonomia Oggi, invece, c´è una tendenza a schiacciare tutte le autonomie
I rimpasti. Tra i rimpasti per trovare il posto a qualcuno, le alleanze di nuovo conio e la sofferenza sociale, io so da che parte stare
"Non vedo rischi di scissione. Né con Verdi, Pdci e Sd, né al nostro interno"

ROMA - «Non vogliamo far cadere il governo», ma Prodi «stavolta» deve esercitare il suo ruolo «in autonomia» garantendo la «collegialità». Il segretario del Prc, Franco Giordano, non usa toni ultimativi nei confronti di Palazzo Chigi e nello stesso tempo difende le scelte della Fiom. È sicuro che si possano apportare delle modifiche alla riforma delle pensioni, da approvare comunque entro la fine dell´anno, e al protocollo sul welfare che dovrebbe prendere le forme di un disegno di legge da esaminare con molta calma. Magari l´anno prossimo. Però, il "no" dei metalmeccanici non può essere derubricato a fatto secondario. «Provo un senso di inquietudine. La risposta data da una parte della politica al più grande sindacato di categoria è il segno di un´incapacità a comprendere la società italiana. Si sono tutti dimenticati dei fischi a Mirafiori?».
Ce l´ha con i suoi alleati? Con il partito democratico?
«Guardi, non so quali ambienti frequentino quelli che animano il dibattito nel Pd. Però c´è uno studio di Mediobanca - ripeto, di Mediobanca - che fotografa il nostro Paese: 38 tra le più grandi imprese italiane hanno aumentato i loro profitti del 50 per cento negli ultimi cinque anni. Nelle stesse aziende i lavoratori dipendenti hanno perso il loro potere d´acquisito del 10 per cento. Larga parte delle famiglie italiane sono indebitate per più della metà del loro reddito e questo per una mera questione di sussistenza».
Che c´entra con il no della Fiom?
«C´entra e come. La politica deve avere l´umiltà di ascoltare queste sofferenze. Il governo non può volgere lo sguardo dall´altra parte. Non si può dire "era scontato". Tra i rimpasti per trovare il posto a qualcuno, le alleanze di nuovo conio e la sofferenza sociale, io so da che parte stare».
La Fiom non è tutto il sindacato. Ci sarà una consultazione dei lavoratori. E la Cgil rischia di spaccarsi come non mai.
«Il referendum sarà una grande prova democratica. Che, però, va interpretata. Non oscura il malessere operaio o dei giovani precari. Quanto alla Cgil, ricordo che la storia del sindacato è una grande storia di autonomia. Oggi, invece, c´è una tendenza autoritaria a schiacciare tutte le autonomie».
Insomma la Fiom è l´altra faccia della medaglia scagliata nei giorni scorsi da Beppe Grillo?
«Grillo occupa un vuoto. Se la politica non dà risposte, tutto si risolve nel vaffa-day. Noi vogliamo dare delle risposte. In caso contrario rischiamo lo tsunami della politica».
Cosa chiede allora al governo e alla maggioranza?
«Su alcuni temi raccolga le indicazioni della Fiom. Lo faccia tutta l´Unione. Sarebbe quindi utile tirare fuori le pensioni dal percorso della finanziaria e tenere conto della specificità operaia. E sul mercato del lavoro affidarsi ad un disegno di legge per ridiscutere con calma la questione dei contratti a termine e la legge Biagi. Proprio come è scritto nel programma di governo».
Ci sarà la crisi di governo se Prodi non accetterà i suoi consigli?
«Prodi parla di "collegialità". Questa presuppone che tutti, e non solo una parte, partecipino alle scelte. Se critichiamo, non possiamo essere automaticamente accusati di volere la crisi. Non la auspichiamo e non la vogliamo. Romano svolga in autonomia il suo ruolo».
Nel campo riformista temono che lei sia "schiacciato" dalla Fiom. E che la manifestazione del 20 ottobre sia una bomba ad orologeria.
«Io ascolto una difficoltà. Ma si esca da questo terreno mimetico per cui si confonde una cosa con un´altra. La manifestazione di ottobre vuole rispondere a un malessere. La polemica su chi deve o non deve sfilare sono davvero il segno di un degrado culturale cui non voglio partecipare».
Da l´altro ieri, però, la "cosa rossa" sembra compromessa e c´è chi parla di scissione nel suo partito.
«Non vedo questi rischi. Sia per quanto riguarda il dialogo con Verdi, Pdci e Sd, sia al nostro interno».

Repubblica 13.9.07
Sorpresa, la pillola protegge dal cancro
L´anticoncezionale riabilitato da uno studio: benefici anche dopo molti anni
di Enrico Franceschini


Ma in passato altre ricerche avevano denunciato un rapporto causa-effetto per patologie al seno
È una discussione che va avanti praticamente fin dalla nascita del farmaco, ormai mezzo secolo fa

LONDRA - Fa bene all´amore, ma può far male alla salute. Da cinquant´anni, questo è il dilemma della pillola anticoncezionale, associata da numerose ricerche a un maggior rischio di cancro, in particolare al seno. Ma adesso dalla Gran Bretagna arriva un parere diverso: la pillola non solo non aumenterebbe il rischio di tumore per le donne, ma lo diminuisce significativamente.
Ad affermarlo è il più ampio studio mai condotto in materia, pubblicato ieri sull´autorevole British Medical Journal e ripreso con grande rilievo dalla stampa britannica. Dall´analisi dei dati, ricavati da 46mila donne nell´arco di trentasei anni, risulta che il rischio di cancro all´intestino, all´utero e alle ovaie diminuisce del 12 per cento tra coloro che hanno preso il contraccettivo orale; e l´azione benefica si protrarrebbe anche nei quindici anni successivi alla sospensione del trattamento.
Il giovamento, tuttavia, è limitato a coloro che hanno fatto uso della pillola per non più di otto anni, mentre per la minoranza che la prende per oltre otto anni, viceversa, il pericolo di ammalarsi di tumore aumenta del 22 per cento.
«Molte donne, e specialmente quelle che molti anni fa presero la prima generazione di contraccettivi (con una dose di estrogeni assai più alta di quella odierna, ndr), saranno probabilmente rassicurate dal risultato delle nostra indagine», dice il professor Philip Hannaford della Aberdeen University, che ha diretto la ricerca. «L´abbassamento del rischio è piccolo, ma anche un minimo progresso si traduce in un grande vantaggio se consideriamo che cento milioni di donne in tutto il mondo prendono la pillola».
Lo studio non mostra prove che il rischio di un cancro al seno aumenti, o diminuisca, a causa dell´uso a breve termine della pillola. Riguardo a tutti i tipi di tumore, inoltre, indica che «i benefici della pillola nell´ambito del cancro superano i rischi», scrivono gli autori della ricerca. La Family Planning Association e altre organizzazioni britanniche per il controllo delle nascite concordano con il giudizio degli scienziati di Aberdeen.
Ma per la pillola il bilancio non è tutto positivo. Altri studi recenti, contraddicendo in parte i dati raccolti dal professor Hannaford, rilevano una crescita del rischio di cancro al seno, al fegato e ad altri organi per chi fa uso del contraccettivo. Le nuove rivelazioni, insomma, non metteranno fine al dibattito.
È una discussione che accompagna la pillola praticamente fin dalla sua nascita. Quando fu introdotta nel 1961, l´anno del twist e del muro di Berlino, innescò una rivoluzione culturale, morale, religiosa: per la prima volta nella storia sembrava che l´attività sessuale potesse essere totalmente separata dalla riproduzione.
Altri contraccettivi erano sempre esistiti, ma non garantivano una completa efficacia e toglievano spontaneità all´atto. Con la pillola orale, viceversa, fare sesso diventò un modo di esprimere amore o di cercare piacere fisico, ma non necessariamente di procreare. Il Vaticano la condannò in un´enciclica, le femministe la salutarono come un equalizzatore: finalmente le donne potevano decidere da sole quando avere una gravidanza e dunque trattare il sesso allo stesso modo degli uomini.
Ma nei decenni seguenti, con l´emergere di dati su possibili legami tra pillola e tumore al seno, l´argomento venne rovesciato: erano gli uomini che, come al solito, avevano trovato un altro modo per spassarsela senza prendersi responsabilità, ai danni delle donne. Come che sia, dal 1961 ne hanno fatto uso trecento milioni di donne e a tutt´oggi rimane il metodo di contraccezione più diffuso.
In attesa che la scienza escogiti una pillola altrettanto efficace per gli uomini.

Repubblica 13.9.07
Il mondo dei condannati al dolore
Quasi l´80% della morfina prodotta consumata nei sei paesi più ricchi
di Donald McNeil Jr.


In molti posti non è quasi importata. I medici africani raccontano di malati suicidi per fuggire la sofferenza
Le nazioni a basso o medio reddito, cioè l´80% della popolazione, ne consumano appena il 6%

WATERLOO (SIERRA LEONE) - La stagione delle piogge sta arrivando presto, ma Zainabu Sesay non è nelle condizioni per aiutare il marito. È malata. Ha un cancro al seno. «It bone! It booonnnne lie de fi-yuh!». Brucia come il fuoco: così Zainabu descrive il dolore, in Krio, il creolo inglese parlato in questo Paese dove i colonizzatori britannici dislocarono gli schiavi affrancati. Come milioni di altre persone nei Paesi più poveri del mondo, Zainabu è destinata a morire soffrendo. Non può avere il farmaco di cui ha bisogno, un farmaco economico, efficace, legale per usi medici in base a trattati sottoscritti da quasi tutti in Paesi, prodotto in gran quantità e in circolazione fin da quando Ippocrate tessé le lodi della pianta da cui è ricavato, il papavero da oppio. Zainabu non può avere la morfina. Non soltanto perché è povera o perché è povero il paese in cui vive, la Sierra Leone. I narcotici suscitano paura: i medici hanno paura che i pazienti diventino assuefatti a quelle sostanze e le forze dell´ordine hanno paura della criminalità legata alla droga.
L´Organizzazione mondiale della sanità calcola che siano 4,8 milioni ogni anno gli individui affetti da dolori tumorali, moderati o gravi, che non ricevono cure appropriate. E lo stesso vale per 1,4 milioni di malati di Aids all´ultimo stadio. Per altre cause di dolori persistenti - ustioni, incidenti d´auto, ferite d´arma da fuoco, danni al sistema nervoso di origine diabetica, anemia falciforme e così via - l´agenzia dell´Onu non fornisce stime, ma ritiene che il problema interessi milioni di individui. Le cifre raccolte dal Comitato internazionale per il controllo dei narcotici, un organismo dell´Onu, parlano chiaro: i cittadini delle nazioni ricche soffrono meno. Sei Paesi - Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Gran Bretagna e Australia - consumano, secondo una stima del 2005, il 79 per cento della morfina mondiale. I Paesi a basso e a medio reddito, dove vive l´80 per cento della popolazione globale, ne consumano appena il 6 per cento circa. Alcuni Paesi di fatto quasi non la importano. Nel 2004, il consumo pro capite di morfina negli Stati Uniti era circa 17.000 volte superiore a quello della Sierra Leone. I medici africani descrivono esperienze di pazienti che soffrono a tal punto da scegliere altri rimedi: impiccarsi o gettarsi sotto a un camion.
L´ingrediente base della morfina, l´oppio, non scarseggia certo. I papaveri vengono coltivati per ricavarne l´eroina, naturalmente, in Afghanistan e non solo, ma grossi appezzamenti sono coltivati anche in India, in Turchia, in Francia, in Australia e in altri Paesi, per ricavarne morfina e codeina. Non è neanche costosa, nemmeno per gli standard dei Paesi in via di sviluppo. Un ospedale per malati terminali in Uganda, ad esempio, produce la morfina in proprio, a costi tanto bassi che una fornitura per tre settimane costa meno di una forma di pane. In molti Paesi poveri, tuttavia, i medici normalmente non la prescrivono. «C´è una forte paura dell´assuefazione, frutto spesso di un fraintendimento», dice David E. Joranson direttore del Gruppo di studio sulle politiche per il trattamento del dolore dell´Università del Wisconsin. Gli esperti di medicina del dolore affermano che negare questi farmaci ai malati terminali rappresenta una crudeltà. I sintomi da astinenza sono inevitabili, sostengono, ma i benefici sono maggiori dei rischi.
Nel caso di Zainabu Sesay, Alfred Lewis, un infermiere dello Shepherd´s Hospice, sta facendo il possibile per rendere meno dolorosi i suoi ultimi giorni. Per il dolore Lewis le somministra un farmaco generico a base di paracetamolo e tramadolo, una sostanza affine alla codeina ma che ha una potenza pari solo al 10 per cento di quella della morfina. È tutto quello che ha da darle. A New York, Zainabu avrebbe già cominciato a prendere la morfina o un suo equivalente, come l´ossicodone o il fentanyl. Anche se il suo ospedale disponesse di morfina, Lewis non potrebbe dargliela. Le leggi della Sierra Leone prevedono che la morfina possa essere maneggiata solo da un farmacista o da un medico, spiega Gabriel Madiye, il fondatore dell´ospedale. Ma in tutta la Sierra Leone ci sono solo 100 medici, uno ogni 54.000 persone, mentre negli Stati Uniti il rapporto è di uno a 350. «È una "oppiaceo-fobia"», dice Madiye. «Stiamo uscendo da una guerra in cui molte delle violazioni dei diritti umani sono state originate dall´abuso di droga». Esther Walker, un´infermiera britannica che lavora con Lewis, dice che una volta fece una lezione sulle cure palliative alla facoltà di Medicina. C´erano 28 studenti e chiese se qualcuno avesse mai visto una persona morire serenamente in Sierra Leone. «Tutti risposero di no», dice la Walker. Madiye sfoga la sua frustrazione. Ha fondato lo Shepherd´s Hospice nel 1995, lo ha visto distruggere durante la guerra civile e poi lo ha ricostruito. Ma non riesce ad ottenere quell´unico farmaco che darebbe a persone come Zainabu Sesay quella morte dignitosa che in Occidente sarebbe considerata un loro diritto inalienabile. «Come fanno - chiede - a dire che non c´è richiesta se non li autorizzano?».
(Copyright New York Times - La Repubblica. Traduzione di Fabio Galimberti)

Corriere della Sera 13.9.07
Lafontaine il «rosso»: i no italiani? Per noi un sogno le vostre pensioni
«Vogliamo un fronte europeo, piattaforma comune con Bertinotti nel 2009»


DAL NOSTRO INVIATO
BERLINO — Oskar il rosso è tornato e ora ride lui. Nel 1999 sbatté la porta e se ne andò dal governo riformista del cancelliere Gerhard Schroeder. Oggi Oskar Lafontaine nega qualunque sete di vendetta («E' uno scontro del passato», si limita a dire) ma si sta riprendendo con gli interessi tutto ciò che aveva ceduto: «Die Linke», la «Cosa rossa» tedesca di cui è il leader dopo l'addio al partito socialdemocratico, nei sondaggi è la terza forza in Germania e risucchia elettori che fin qui erano terreno di caccia della Spd e non solo.
Il caso Lafontaine era il simbolo di come si fa fuori la sinistra radicale al governo. Oggi, è il modello di molti anche in Italia.
Nei sondaggi siete all'11% del consensi. Dov'è il segreto del successo?
«I partiti di governo fanno una politica che la gran parte della gente rigetta. In questa situazione è nata la nuova Linke e propone un ritorno alla giustizia sociale. E' interessante vedere che in questo modo stiamo già cambiando la politica tedesca: Cdu e Verdi dicono già che l'indennità di disoccupazione deve durare di più e anche la Spd vuole tornare su decisioni sbagliate riguardo al welfare».
Per governare però dovrete riavvicinarvi al partito socialdemocratico. Fattibile?
«Finché loro aumentano l'Iva e riducono le tasse sulle imprese, come hanno fatto in questo governo, certo che no. Quella è stata una redistribuzione dal basso verso l'alto, dai molti verso i pochi. Poi quelli della Spd dicono che per loro «Die Linke» non è un partner di governo: è come se io dicessi che non mi piace Claudia Schiffer. Non mi piace? Lei non me l'ha mai chiesto».
«La Sinistra», che aggrega la sinistra radicale a Roma, da voi ha preso anche il nome. Siete sulle stesse posizioni?
«Noi vogliamo una sinistra europea, lavoriamo già con il partito di Fausto Bertinotti. La base è un programma comune, l'obiettivo è arrivare alle europee nel 2009 con una piattaforma comune per la campagna elettorale».
Ma in Italia la sinistra radicale va in piazza contro il governo di Romano Prodi, al quale partecipa. Persino la Cgil si spacca.
«Per noi la questione non si pone. Partecipiamo a un governo se possiamo decidere misure su cui siamo in grado di rispondere: non in caso contrario. Del resto il welfare è in una situazione tale che il sistema pensionistico come quello italiano per i tedeschi è un sogno ».
Insomma la sinistra italiana deve tacere o fare come lei ha fatto con Schroeder, andarsene e basta?
«Non si può rispondere in generale. Noi oggi cambiamo la politica tedesca senza governare. Ci sono poi situazioni in cui l'offerta degli alleati è così buona, con due o tre punti su cui si vuole intervenire, che si può stare anche al governo. Dipende dalle possibilità concrete».

Corriere della Sera 13.9.07
I Rinaldini boys e le ambizioni del quarto sindacato
di Marco Imarisio


MILANO — Nel dubbio, sempre più a sinistra e sempre più da soli. «Dov'è lo scandalo, dov'è il problema?» Il giorno dopo quello che all'unanimità è stato definito come «lo strappo», Gianni Rinaldini finge di stupirsi dello stupore.
Il segretario della Fiom sa bene che nello stagno della politica italiana il «no» del suo sindacato all'accordo sul welfare è un sasso che può produrre onde fastidiose per Cgil, Rifondazione e governo, in ordine sparso. Si tratterà anche di «un normale atto di democrazia sindacale», ma ha riacceso le luci sulla Fiom, il sindacato della nobiltà operaia e della contrapposizione frontale, della lotta di classe che viaggia di pari passo alle rivendicazioni salariali.
Quello dei «puri e duri» è un santino scomodo. Francesca Redavid, responsabile organizzativa della Fiom, non accetta di essere considerata come un bastone tra le ruote dell'attuale governo e della Cgil. «Ogni volta è la stessa cosa. Ogni elemento di conflitto sociale, ogni episodio che riporta in primo piano le esigenze del mondo del lavoro, finisce per mettere in crisi la politica, e quindi non va affrontato. Noi ci limitiamo a rifiutare questo ragionamento».
Il «no» dell'altro giorno è stato in realtà la logica conclusione di un percorso cominciato nel 1996. «Fiom, sindacato indipendente», era questo il titolo del congresso di Rimini, uno slogan programmatico che voleva indicare la strada per riprendersi dalle sconfitte degli anni Ottanta, la batosta alla Fiat, il riflusso e le fabbriche che chiudevano in serie. «Fu un momento fondamentale per ricostruire la nostra identità» riconosce Maurizio Landini, membro della segreteria nazionale, ex capo della Fiom emiliana, in termini di iscritti la più «pesante» insieme a quella piemontese. «C'era bisogno di ricostruire un senso comune, intervenendo nella società per portare la nostra idea del mondo».
Landini viene da Reggio Emilia e a 16 anni lavorava come operaio apprendista in una Coop di Cavriago. La sua è una storia di fabbrica «classica», quella della romana Redavid invece è puro sindacato, dalla Cgil alla Fiom, per seguire nuove realtà come quelle dei call center, dei lavoratori informatici e delle telecomunicazioni. Quasi coetanei, 46 anni e 47 anni, entrambi segnati da quella visione, la ricerca dell'indipendenza, il sogno non dichiarato di costituirsi come «quarta forza », che fu una delle ultime battaglie di Claudio Sabattini, storico leader Fiom scomparso nel 2003. Una figura che per il segretario Rinaldini e per l'attuale gruppo dirigente rappresenta qualcosa di molto vicino alla guida spirituale. Anche il segretario piemontese Giorgio Airaudo, un altro figlioccio di Sabattini, non vede alcun scandalo nel «no», e ribadisce qual è la linea condivisa. «Noi proviamo ad essere indipendenti da partiti e governi. Quella sul welfare è stata definita una "trattativa anomala", e non da noi. L'errore recente di tutto il sindacato è illudersi di avere sempre una rendita di posizione avallando certe scelte. Gli operai se ne accorgono e accomunano i sindacalisti ai politici. Il virus del vaffanculismo alla Beppe Grillo si sta diffondendo anche nelle fabbriche».
La Fiom che matura il suo «no» è un sindacato con 364 mila iscritti, uscito indenne dalla frammentazione della sua base, dove l'operaio non è più «macchina per la lotta di classe», definizione dello studioso Aris Accornero, ma è diventato più individualista, nei consumi e nelle rivendicazioni. Ha aggiunto altre figure di lavoratori coniugando la promessa di una intransigenza assoluta ad una notevole capacità di trattativa sui salari. E' con una punta di orgoglio che Airaudo sottolinea che la crisi di rappresentanza che investe ogni sigla, alla Fiom è attenuata «dal sopravvivere di uno spirito di appartenenza » che forse altri sindacati di categoria hanno perso per strada.
A guidare la Fiom c'è una strana coppia. Il segretario Rinaldini, emiliano, baffi e look da film di Ken Loach, è da sempre un seguace dichiarato di Sabattini, che conobbe nel fatidico 1968 quando quest'ultimo era responsabile della sezione universitaria del Pci e plasmò un gruppo di giovani a colpi di Rosa Luxemburg e operaismo italiano declinato secondo i Quaderni Rossi, la rivista degli «eretici» di sinistra. Della nidiata faceva parte anche Giorgio Cremaschi, capo della sinistra Fiom, poco amato all'interno del gruppo dirigenziale per via di una certa attitudine ad esternazioni incendiarie che gli hanno però garantito, oltre alla visibilità, anche una rendita di posizione. E' lui l'ufficiale di collegamento con quello spazio che si sta aprendo a sinistra dei Ds e ancora più in là. La loro alleanza ha spostato la Fiom sempre più a sinistra, facendola diventare soggetto autonomo ma anche, non inavvertitamente, più politico. Fino alla rottura di un tabù che neppure Sabattini, comunque mai tenero verso la Cgil, aveva infranto. Un dirigente che ha votato «no» e chiede l'anonimato per comprensibili ragioni, spiega che la logica usata nella discussione non era di natura contrattuale ma ideologica. Come se il «no» fosse dettato anche dalla necessità di crearsi un orizzonte politico.
E' una scelta che rischia di avere effetti collaterali. Se ieri Rinaldini si accalorava per spiegare che la Fiom non farà campagna per il «no» nelle fabbriche e si rimetterà alle decisioni della Cgil, il leader della minoranza Fausto Durante invocava invece un impegno diretto per convincere i lavoratori ad accettare l'accordo, mentre Cremaschi chiedeva di spiegare anche le ragioni del «no». Nella corsa a chi è più duro e puro c'è sempre il rischio di perdere qualche pezzo per strada.
IL VOTO CONTRARIO
I leader della Fiom Giorgio Cremaschi e Gianni Rinaldini ieri a Roma alla riunione degli esecutivi unitari della Cgil, Cisl e Uil. Martedì la Fiom, la sigla che riunisce i metalmeccanici della Cgil, ha votato un documento contrario all'accordo sul Welfare firmato dallo stesso sindacato guidato da Guglielmo Epifani

Liberazione 13.9.07
Embrioni umano-bovini, dov'è lo scandalo di cui parla la Chiesa?
Gli scienziati inglesi hanno imboccato questa strada perché è difficile reperire oociti umani per la ricerca. Le cellule staminali che si ottengono sono di grande interesse scientifico e promettono la sconfitta di malattie oggi incurabili
di Carlo Flamigni


L 'Autorità inglese che controlla la ricerca scientifica sulla fertilizzazione umana e l'embriologia ha autorizzato la formazione di embrioni ibridi prodotti utilizzando il nucleo di una cellula umana e l'ooplasma di un oocita di mucca, cioè un uovo di un mammifero non umano privato del suo nucleo. La tecnica è quella del trasferimento nucleare, la stessa che viene generalmente chiamata clonazione terapeutica e che serve per la produzione di cellule staminali embrionali: in questo caso utilizza anche uova di mammiferi, come la mucca e la coniglia, per la difficoltà di ottenere oociti umani per la ricerca. Dopo il trasferimento del nucleo, la nuova cellula inizia a svilupparsi con un patrimonio genetico (di Dna) umano per oltre il 99% e bovino per meno dell'1%; il Dna non umano è tutto mitocondriale e serve solo per attivare energeticamente i processi metabolici e di divisione cellulare, non ha niente a che fare con il modo in cui l'individuo si struttura. Dopo 5 giorni di permanenza in coltura si forma una blastocisti , cioè un embrione che ha cellule esterne utili per l'impianto nell'utero e una massa cellulare interna dalla quale prenderebbe inizio la formazione dell'embrione vero e proprio se la blastocisti fosse trasferita in un utero, cosa che non potrà avvenire perché l'Autorità ne ha disposto la distruzione entro il 14° giorno di sviluppo. Le cellule della massa cellulare interna sono cellule staminali embrionali, di straordinario interesse scientifico e che saranno utilizzate solo per acquisire nuove informazioni che potranno essere utilizzate in vista della sempre più probabile possibilità di poter guarire, per loro tramite, malattie attualmente incurabili. Non vedremo né centauri né sirene, che lo lascia supporre o non ha capito niente o è in malafede. Stiamo parlando di ricerca scientifica, importante, essenziale ricerca scientifica, autorizzata da persone serie e di buon senso (oltretutto l'autorizzazione non è ancora definitiva, il consenso finale dovrebbe arrivare entro l'anno).
La reazione del mondo cattolico che conta (lasciamo stare i nostri uomini politici, proprio perché in questo campo proprio non contano) è stata convulsa e isterica. Lasciatemi esaminare le principali motivazioni di queste critiche e il modo in cui sono state argomentate.
"Viene vilipesa la dignità della persona umana perché si formeranno embrioni umani con un genoma ibrido". Avrei molti modi per rispondere a questa critica, userò quello che mi sembra più pragmatico. Dunque il Magistero cattolico ha finalmente scelto, tra le molte teorie (tutte cattoliche) disponibili quella che considera come inizio della vita personale il momento in cui lo spermatozoo tocca l'uovo: ci sono filosofi e teologi cattolici insigni e molto ascoltati che non ci stanno e indicano fasi del tutto diverse del processo della fertilizzazione, ma lasciamo perdere. Vediamo invece quanto è solida questa teoria (apparentemente inespugnabile, perché figlia di una verità che non ammette critiche e dissensi) dal punto di vista pratico, cioè quanto regge in realtà alle intemperie.
Saprete certamente che l'Irlanda, oltre ad essere la nazione più cattolica d'Europa, è l'unico Paese europeo che ha inserito nella propria Costituzione una norma che riconosce il diritto alla vita del non ancora nato, nel rispetto dell'uguale diritto alla vita della madre. Per ragioni troppo lunghe da spiegare il governo irlandese aveva deciso di modificare questa norma proponendo oltretutto una modifica della legge anti-aborto; nella nuova versione l'aborto volontario veniva definito come "la distruzione intenzionale della vita umana non ancora nata dopo che sia stata impiantata nell'utero". Questa è un'ipotesi completamente diversa da quella sostenuta dal Magistero romano, perché non considera vita umana personale quella dell'embrione in vitro, fuori dal grembo materno: assomiglia alla teoria del personalismo relazionale degli evangelici, a quelle di molti filosofi cattolici e consente di disporre dell'embrione in provetta, di prelevargli cellule staminali, di utilizzare mezzi di controllo delle nascite come la pillola del giorno dopo e la spirale: un vero disastro per la morale cattolica tradizionale. Nel 2002 gli irlandesi vanno al referendum (vi dico subito che questa proposta verrà bocciata) e guarda un po' chi si schiera con grande energia a favore di una novità tanto simile a una eresia: tutto l'episcopato che dirige la Chiesa irlandese, con i suoi 26 vescovi titolari e i 9 vescovi ausiliari. La ragione di questa straordinaria scelta l'hanno scoperta i cattolici integralisti ed è comparsa più volte sui loro giornali : incombeva ancora la questione degli ingenti risarcimenti da destinare alle centinaia di vittime di abusi sessuali e di violenze compiuti tra gli anni Cinquanta e Sessanta dai membri del clero ai danni di bambini affidati alle loro cure, e una serie di discreti negoziati (cito da www.irlandanews.com) «hanno prodotto un non decentissimo compromesso: il governo accettava che l'onere maggiore dei risarcimenti venisse assunto dallo Stato invece che dalla Chiesa e in cambio la Chiesa dava il suo visto alla proposta governativa sull'aborto». C'è bisogno di commenti?
"Questa orribile commistione da specie diverse è un pendio scivoloso che ci condurrà ad accettare le più ignobili intromissioni della scienza in quanto c'è di più nobile e sacro nella natura dell'uomo". Anche qui avrei tantissime cose da dire, ma mi limito alla più concreta: nel 2000, al congresso internazionale di Roma sui trapianti d'organo, Giovanni Paolo II dichiarò che la pratica degli xenotrapianti era ammissibile purché servisse al bene dell'uomo e non comportasse rischi eccessivi. Uno xenotrapianto consiste nel sostituire il fegato di un uomo malato di cirrosi con quello di un maiale e il rene di un paziente costretto alla dialisi con quello di una scimmia. Debbo dunque concludere che questa reale e concreta contaminazione dell'uomo con l'animale va bene mentre non va per niente bene (anzi, è mostruoso) uno studio scientifico che non ha alcuna velleità di applicazione clinica diretta, ma deve servire solo ad acquisire conoscenza? C'è qualcuno che ci vede un minimo di logica ?
"Queste ricerche sono motivate da una vergognosa sete di guadagno, dietro a queste ipotesi pseudo-scientifiche ci sono interessi economici neppure immaginabili". Qui ho proprio qualche problema. Quando ero molto più giovane ho lavorato in un laboratorio inglese, per un lungo periodo di tempo. Avevo un confortevole stipendio dell'Oms e mi potevo permettere l'affitto di una casa in Chelsea, vicino al centro di ricerca, mentre tutti i miei colleghi - la maggior parte dei quali copriva ruoli più importanti del mio - si faceva ogni giorno almeno un'ora di treno o di autobus per venire al lavoro, perché gli affitti di Londra erano troppo cari : posso anche assicurarvi che i loro stipendi erano quasi da fame. La richiesta di poter lavorare sugli ibridi non viene da qualche bastardo rappresentante di una multinazionale, viene da quella stessa categoria di ricercatori con i quali ho lavorato, gente che i mobili di casa se li monta da sola e che ha poco da scialare.
Ho già scritto in altra sede che quando si dicono queste cose bisogna dimostrarle, altrimenti si può essere legittimamente considerati dei calunniatori. So anche a chi vengono indirizzate queste menzogne: ai compagni, ai lavoratori, alla gente che non accetta che la ricerca scientifica venga utilizzata per arricchirsi, per tirarli dalla propria parte. Non facciamoci imbrogliare.
"L'Autorità, gli scienziati, i ricercatori inglesi hanno turlupinato l'ingenua opinione pubblica inglese, raccontando tristi fandonie e nascondendo la vera ragione di queste sperimentazioni" (che sarebbero poi quelle di cui parlavo, cioè i favolosi guadagni e i vergognosi interessi). Qui siamo nella vera e propria follia. In questo momento quasi tutti i sociologi stanno considerando con interesse - e molti con ammirazione - il metodo che è stato utilizzato in Inghilterra per informare i cittadini e per metterli in grado di capire, giudicare e decidere. E' un metodo trasparente, onesto e democratico che dà a tutti il potere di prendere una decisione sui grandi temi della modernità, per prima cosa sui limiti che debbono essere posti alla ricerca scientifica, un compito che spetta di diritto ai cittadini. Che ci sia ancora qualcuno che pensa che questo sia un privilegio delle religioni, della loro ossificata morale, dei loro libri pieni di menzogne, costruiti sulle più obsolete leggende e sui più incredibili miti, che dovremmo oltretutto immaginare incisi sulla pietra viva da grandi mani invisibili che impugnavano un fulmine stilografico , non è nemmeno più divertente.
Ultimo punto, una proposta personale. L'Italia è l'unico Paese nel quale, come conseguenza della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita, si congela una grande quantità di oociti, molti dei quali divengono rapidamente inutili e vengono distrutti. Visto che per una considerevole parte dei cattolici la formazione di embrioni ibridi rappresenta una ragione di sofferenza (si tratta, ha detto monsignor Sgreccia, di un evento mostruoso) perché non si fanno promotori, questi stessi cattolici, di una semplice iniziativa, proponendo ai ricercatori inglesi di utilizzare i nostri gameti congelati e di rinunciare alla loro "mostruosa" esperienza? Aspetto, fiducioso, un segno di consenso .

Liberazione 13.9.07
W l'Italia: la buona Tv esiste. Basta avere le idee e la passione per farla
di Rina Gagliardi


Ma se è vero che c'è televisione e televisione, è così assurdo pensare che ci possa essere politica e politica? E' così folle pensare a una politica davvero diversa da quella corrente, davvero riformata in profondità?
Questo era giust'appunto il tema dell'ultima puntata. Si partiva, com'era logico, dal V-Day di Grillo, dal "vaffanculo" gridato davanti a trecentomila persone - che sicuramente erano in sintonia con diversi altri milioni di cittadini italiani. Bertinotti ha ribadito, all'avvio, il suo giudizio: se in politica si crea un vuoto, quel vuoto qualcuno lo riempie, pur magari in termini discutibili. E dunque quel V, quel groviglio di sentimenti e umori di massa, devono in primo luogo essere ascoltati e valutati: giacchè, dice il presidente della Camera, la crisi della politica c'è, ed è molto grande, investe la credibilità delle istituzioni, dei governi, dei parlamenti, fino ad insidiare i fondamenti stessi della democrazia. Ma da dove nasce? Per Bertinotti, l'analisi non può che muovere che da un dato seccamente materiale e drasticamente semplice: «Ci sono troppi cittadini che non arrivano a mille euro al mese». Troppi lavoratori che stanno male, muoiono sul posto di lavoro, vivono una condizione d'insieme che peggiora - mentre la società diventa sempre più ricca. Troppi giovani precari. Troppe "ingiustizie" e disuguaglianze. In un quadro come questo, la politica appare non solo lontana ma inefficace e incapace di modificare l'esistente- e quindi ingiusta, e quindi quasi esclusivamente fonte di privilegi per tutti coloro che riescono ad accedervi e a farne il loro mestiere. Naturalmente, il presidente della Camera - che ha di fronte due giornalisti di grande civiltà, come Ferruccio De Bortoli e Oscar Giannino - non ha alcuna propensione di tipo, come si usa dire, "populistico", e sulle concrete ricette proposte da Beppe Grillo non manca di prendere le distanze: ma nella ondata attuale di "antipolitica" vede non solo una critica fondata, ma anche la domanda potenziale di un'altra politica. «Senza un'idea di società, senza un progetto generale, senza una proposta di sistema, la politica non c'è - c'è al massimo l'amministrazione quotidiana dell'esistente». Insomma, dice Bertinotti: i privilegi dei politici (ma anche dei manager, dei giornalisti, dei dirigenti pubblici) vanno certamente ridotti, la moralità va ripristinata con forza, a volte anche procedendo con l'accetta, la voracità di "posti" da occupare va bloccata, ma il punto fondamentale in realtà è un altro. E' una politica capace di pensare in grande - non tanto per "Grandi Ideali", ma per Grandi Progetti capaci di rimettere al centro del patto sociale generale quello che Napoleoni chiamava il "vincolo interno". Oggi - ed è un'altra drammatica ragione della sua crisi - «la politica è diventata ancella dell'economia, delle esisenze del mercato e della logica d'impresa». E il recupero della sua autonomia - della sua sovranità - è una delle priorità di questa fase storica.
Qui, naturalmente, tra le incalzanti domande di Iacona, la curiosa pretesa del direttore del "Sole 24 Ore" di far pronunciare Bertinotti sul grande rifiuto della Fiom, le divagazioni liberiste di Giannino, il dibattito si fa più stringente, più politico. Come la discussione su quanti sono effettivamente i precari del lavoro nel nostro Paese - ed è il professor Luciano Gallino a offrire cifre sociologicamente convincenti, e a ribadire che la precarietà è prima di tutto sofferenza sociale, blocco dello sviluppo, insicurezza di massa. Non è del resto il lavoro il fondamento primo della nostra Carta costituzionale? Bertinotti cita a proposito proprio l'articolo 1, giustamente sottraendosi alla discussione sull'attualità dell'autunno caldo in arrivo - "l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro", affermazione di principio del massimo impegno, che infatti non trova riscontri in molti altri paesi. Che cosa vuol dire? "Che ha ragione Gallino: il lavoro è e resta il fondamento vero della cittadinanza", e quindi della Politica (quella con la P maiuscola). «Una politica che non ricollochi al suo centro la civiltà del lavoro, la sua dignità, i suoi diritti è destinata, come oggi rischia di accadere, al fallimento». Al vuoto. Al decadimento. Alla sfiducia.
Può darsi (anzi è certo) che martedì sera fossimo spettatori pregiudizialmente favorevoli, insomma molto ben disposti. Ma ci pare di poter dire che quella di Bertinotti è stata proprio una lezione di "buona politica", non dentro uno dei soliti contenitori, ma dentro un programma di "buona Tv". Qualche volta, i conti tornano.

Liberazione 13.9.07
Parla l'intellettuale britannico autore del pamphlet "Dio non grande"
«Chi ritiene l'islam radicale anti-imperialista commette un grave errore»

Hitchens: l'integralismo è nemico della sinistra
di Guido Caldiron


Un agit-prop del dopo 11 settembre, un intellettuale a vocazione militante che mette nella sua battaglia di oggi contro l'Islam politico la stessa verve che ha messo un tempo nella denuncia dei crimini americani in America Latina. E' difficile definire Christopher Hitchens, il giornalista e critico letterario inglese che al Festivaletteratura di Mantova si è scontrato pubblicamente con Tariq Ramadan, definendolo uno degli "interpreti" più scaltri e sottili del fondamentalismo musulmano nei confronti dell'Occidente. Di formazione trotzkista, a lungo legato al Socialist Workers Party inglese e collaboratore di riviste della sinistra britannica e americana, tra cui The Nation , dopo l'attacco alle Twin Towers Hitchens si è trasformato in uno dei maggiori sostenitori della tesi dell'esistenza di un "fascismo islamico" da combattere con ogni mezzo, compresa la guerra. Alla stampa che lo ha definito come un neocon, Hitchens, che rivendica per altro la recente amicizia con Paul Wolfowitz, ha replicato che le sue convinzioni politiche dai tempi della sinistra radicale non sono cambiate di molto. Del resto solo lo scorso anno ha preso parte alla campagna che chiede l'annullamento per incostituzionalità del Patriot Act. Ateo militante e nemico del fondamentalismo come della religione ha presentato a Mantova il suo ultimo libro "Dio non è grande" in cui sostiene «il bisogno di un nuovo illuminismo». Perché anche ora che scrive per Wall Street Journal e il Daily Mirror e frequenta gli ambienti vicini all'amministrazione Bush, Hitchens sembra guardare soprattutto all'eco che le sue parole, lanciate quasi in segno di sfida, possono trovare a sinistra.

In un articolo pubblicato su The Nation dopo l'11 settembre lei ha parlato di "fascismo dal volto islamico". Davvero crede che siamo di fronte a una minaccia paragonabile a quella degli anni '30?
La minaccia del fascismo degli anni Trenta proveniva da Stati organizzati, compresa ovviamente anche l'Italia di Mussolini. Invece la minaccia fascista con cui dobbiamo fare i conti oggi non ha assunto, o non ha assunto soltanto, la forma di realtà statuali. Credo che il rischio che si corre sia simile a quello di allora, ma le forme in cui si manifesta siano molto diverse. Dobbiamo fare attenzione, dobbiamo lottare contro questo nuovo fascismo come si è lottato contro quello degli anni '30: cercare di prevenire la sua diffusione ma anche cercare di rispondere alle sue azioni e, nel caso, essere in grado di rispondere colpo su colpo anche con la guerra.

Le differenze con gli anni '30 sono però sotto gli occhi di tutti, non crede?
Non ne sarei così sicuro. Mi spiego. Credo si possano scorgere invece diverse analogie tra questi movimenti e il fascismo storico. Intanto l'ideologia che è alla base dell'Islam politico fondamentalista, in particolare quello salafita, è totalitaria nel senso vero e proprio della parola. I suoi adepti vogliono instaurare un regime che possa decidere di ogni aspetto della vita degli individui: dalla sfera della sessualità a quella del pensiero. Una volontà di controllare completamente le persone tipica delle dittature. Inoltre i fondamentalisti vogliono tornare agli imperi del passato, al califfato. Anche questo aspetto di nostalgia di un "grande" passato da restaurare assomiglia molto a quanto sostenevano i fascisti europei, per il regime di Mussolini si trattava ad esempio di tornare ai "fasti" dell'Impero Romano. A sinistra ci sono molte persone decisamente poco informate su queste cose che ritengono che l'Islam fondamentalista sia anti-imperialista, mentre è esattamente il contrario: questa gente sogna di tornare a un impero guidato da un Califfo. A queste posizioni totalitarie si accompagna poi una glorificazione costante della violenza, penso in particolare alla figura dei kamikaze. Questa ideologia, al pari del fascismo europeo di un tempo, è infatti caratterizzata da una potente impronta nichilista.

Su The Nation lei ha avuto uno scambio molto duro con Noam Chomsky dopo di che ha deciso di chiudere la sua collaborazione con la rivista per divergenze radicali sulla guerra in Irak. Cosa rimprovera alla sinistra?
In effetti la querelle con Chomsky illustra bene i ritardi e la visione distorta che molta parte della sinistra ha su questi temi. Costoro credono che il fascismo islamico sia in realtà un movimento di liberazione teologica, riconoscono certo che vi sono elementi primitivi di estremismo ma riconducono tutto a una sorta di reazione agli errori compiuti in passato dalla politica estera dell'Occidente e degli Stati Uniti in particolare. Per il resto non considerano un pericolo la minaccia totalitaria del fondamentalismo. Personalmente ho scritto molto sulla politica estera degli Stati Uniti, sul ruolo terribile svolto dagli Usa in America Latina negli scorsi decenni. Non ho mai fatto sconti a Washington, si tratti del ruolo giocato in favore delle dittature fasciste o degli interventi militari diretti. Questo non mi impedisce però di vedere cosa accade oggi nel mondo.

Da avversario di ogni fondamentalismo non crede sia assurdo sostenere la guerra di Bush in Irak voluta fortemente dalla destra cristiana che sogna una teocrazia a Washington?
Non credo si possa stabilire un'analogia tra Bush e Bin Laden, se il problema è questo. Non esagero se dico che gli esponenti della destra cristiana sono miei nemici irriducibili, ma non credo che al centro dei loro interessi ci sia la guerra in Irak, magari guardano con più attenzione al Darfour dove c'è una minoranza cristiana che intendono difendere. Negli Stati Uniti coloro che sostengono le ragioni della guerra in Irak vanno piuttosto cercati tra le persone che difendono la società civile, il nostro sistema di vita, la democrazia stessa, perché ritengono sia da preferire alla teocrazia, a qualunque tipo di teocrazia. Spesso a sinistra si sente dire che sulla guerra è la destra cristiana a sostenere Bush, o che sono gli ambienti ebraici interessati solo alle sorti di Israele. Guardando la società americana la realtà mi sembra però molto più complessa e mi sembra anche che si attribuisca alla destra cristiana un ruolo ben più rilevante di quello che ha nella realtà. In realtà si esagera volutamente e si dice: "Bush vuole una teocrazia negli Stati Uniti" solo perché si vuole cambiare argomento e si vuole evitare di esprimersi sul modo con cui combattere chi la teocrazia cerca di costruirla ogni giorno con il terrorismo.

The Lancet 4 September 2007
Mental health and human rights
by Amita Dhanda and Thelma Narayan


The Lancet Series on global mental health draws attention to a long neglected health and social policy issue. This concern is particularly needed today, because social conditions, especially widespread poverty, disasters, violence, and war, can precipitate the breakdown of vulnerable individuals and social systems.

In this context we note how groups such as the People's Health Movement (PHM), a coalition of several groups working in many countries, have evolved an approach to mental health that is qualitatively different from expert-driven strategies. This approach is exemplified by the Peoples Charter for Health1 and subsequent documents2 based on peoples' experiences and aspirations.3 Just as people living with HIV/AIDS have provided input into policy and practice, there is a need to give a greater centrality to those living with mental illness. Such an opportunity is afforded by the UN Convention on the Rights of Persons with Disabilities, which has had the active participation of individuals with disabilities, including those living with mental illness.

The right to life and liberty is primary in human rights discourse. However, for people with mental illness, deprivation of liberty by forced institutionalisation might be justified on grounds of danger to themselves and others. This justification does not take into account the people who have died or been permanently scarred by loss of liberty or basic human dignity. User-survivors narrate the experience graphically, and seek a total embargo on forced interventions.4 The UN Convention recognises that all people have rights to both life and liberty and to physical and mental integrity. However, it neither expressly bans nor explicitly permits forced intervention. This stalemate affords an opportunity to revisit forced interventions from the standpoint of people with mental illness.5

Scholars have argued that personal effectance (the opportunity to act or function) is essential for human beings to fulfil their potential.6 The right of all individuals to be recognised in law as having the capacity to act promotes such personal effectance; however, the capacity to act has been regarded as questionable for people with mental illness. Consequently, there is legal provision to enable arrangements that protect the interests of such people, although such arrangements have been viewed as legal reinforcement of social stigma.7 The UN Convention on the Rights of Persons with Disabilities has further questioned this process of disqualification. Article 12 of the Convention recognises the full legal capacity of all people with disability, and that the capacity to act is an integral component of this legal capacity. Yet the article does not negate the need for support—instead, in acceptance of human interdependence, the Convention recognises the right to seek support, and in acceptance of human frailty, it establishes the standards for providing support and safeguards against abuse. The mechanisms of support for people with mental illness need not be based on the all-or-nothing theory of guardianship. The personal ombudsperson system in Sweden8 and the restricted guardianship procedures of India9 are steps in that direction.10

People living with mental illness have always faced difficulties in participating in society because of pressure to conform to normal social and legal standards. This pressure has been eased by the Convention, which accepts the principle of reasonable accommodation and allows the norms to be modified to accommodate people's diversity. The Convention also recognises that people with disabilities, including those living with mental illness, have a right to be consulted in the formulation of all policies, laws, and practices that affect them. There is thus a duty to recast psychiatric practice and procedure in active consultation with its users.

In addition to medical interventions, an important demand being voiced by civil society representatives is for the creation of support networks for human distress and illness that are wider than the medical establishment.11 A cue could be taken from innovative community-based work by non-governmental organisations and professional groups. The groups include: BasicNeeds,12 working in several countries; CBR Forum (community-based rehabilitation), partnered with 90 organisations across India; and the Women's Health Empowerment Programme, supported by WHO. Various creative strategies have evolved, such as: the setting up of self-help groups, including people with mental illness and their support networks; addressing issues of livelihood; promotion of life-skills education and parenting skills; and studying and using local healing traditions, including spiritual traditions.13 These methods, combined with the psychiatric care offered by the medical establishment, could make for a mental health policy that is holistic and consonant with human rights.

The UN Convention on the Rights of Persons with Disabilities and the People's Movement for Mental Health require that the stereotypes of mental health law and policy be revisited. Because law and policy do not exist in isolation from society, this is a mandate to re-examine their implications for social interactions, in therapy, and in clinical decision-making.

We declare that we have no conflict of interest.
References

1. People's Health Movement. People's Charter for Health
http://www.phmovement.org/pdf/charter/phm-pch-english.p...
(accessed Aug 15, 2007)..

2. People's Health Movement. Mumbai Declaration from the III International Forum for the Defence of People's Health
http://www.phmovement.org/files/md-english.pdf
(accessed Aug 15, 2007)..

3. People's Health Movement
http://www.phmovement.org
(accessed July 6, 2007)..

4. WNUSP and Bapu Trust, Pune. First person stories on forced interventions and being deprived of legal capacity
http://psychrights.org/Stories/stories.pdf
(accessed Aug 17, 2006)..

5. Minkowitz T. United Nations convention on the rights of persons with disabilities and the right to be free from non consensual psychiatric interventions. Syracuse J Intl Law Commerce 2007; 34: 405.

6. Ryan RM, Deci EL. Self-determination theory and the facilitation of intrinsic motivation, social development, and well-being. Am Psychologist 2000; 55: 68-78.

7. Dhanda A. Legal order and mental disorder. New Delhi: Sage Publications, 2000:.

8. PO-Skåne.
http://www.po-skane.org
(accessed July 10, 2007)..

9. Dhanda A. Legal capacity in the disability rights convention: stranglehold of the past or lodestar for the future. Syracuse J Intl Law Commerce 2007; 34: 429.

10. Nussbaum M. Frontiers of justice: disability, nationality, species membership. Cambridge, MA: Belknap Press, 2006:.

11. Department of Health and Family Welfare. Priorities for mental health sector in Gujarat India. Gujerat: Government of Gujarat, 2003:.

12. Basic Needs Review. Community my community. Sri Lanka: Basic Needs, 2005:.

13. Centre for Advocacy in Mental Health. Alternative mental health—report of a workshop, Aug 27–29, 2003. 2003:
http://www.camhindia.org/amh_workshop_report.html
(accessed Aug 20, 2007)..


Affiliations:

a. National Academy of Legal Studies and Research, Hyderabad, Hyderabad, India
b. Community Health Cell, Bangalore, Karnataka 560034, India