domenica 16 settembre 2007

l'Unità 16.9.07
G8 di Genova: la commissione è più vicina
Il richiamo del presidente della Camera, il nuovo testo
di Massimo Solani


SONO PASSATI PIÙ DI SEI ANNI dai tragici giorni del G8 di Genova, e a 74 mesi di distanza da quel «buco nero» della democrazia costato la vita a Carlo Giuliani e valso al nostro paese il duro richiamo di Amnesty International (che parlò di «grave sospensione dei diritti umani») potrebbe essere arrivato all’ultimo chilometro il tortuoso iter del disegno di legge per l’istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta su quelle giornate. Un atto richiesto a gran voce anche dal presidente della Camera Fausto Bertinotti che dal palco della Festa nazionale de l’Unità - mercoledì - l’ha definita «un elemento di igiene mentale per il paese».
Il 30 luglio scorso, prima della pausa estiva, la commissione affari costituzionali della Camera ha infatti approvato il nuovo testo, di cui è relatore il deputato dell’Ulivo Gianclaudio Bressa, in cui sono confluiti i due disegni di legge che erano stati presentati nel giugno del 2006. Uno di cui era prima firmataria Graziella Mascia (Rifondazione comunista) e l’altro presentato da Cosimo Giuseppe Sgobio (Comunisti italiani).
E la nuova formulazione (che prevede l’istituzione di una commissione monocamerale formata da trenta componenti, e che quindi sarà votato soltanto a Montecitorio) è riuscita a ricomporre anche la maggioranza facendo fare marcia indietro a quanti, nel centrosinistra, in un primo momento si erano detti contrari a qualsiasi ipotesi di commissione di inchiesta. Rientrato il no iniziale di Rosa nel pugno e Udeur, infatti, soltanto l’Italia dei Valori fra i partiti della maggioranza è rimasta contraria. Come, ovviamente, tutta l’opposizione. Superato lo scoglio della commissione Affari costituzionali, toccherà adesso a quelle di Giustizia e Bilancio dare il via libera al testo per la sua approvazione da parte della Camera. E la speranza è che il sì definitivo possa arrivare entro la fine dell’anno. «Sono convinto - spiegava ieri Bressa - che il nuovo testo unificato abbia tolto ogni possibilità di sovrapposizione fra i lavori della Commissione e i processi penali. Credo inoltre che il varo della stessa possa cancellare quelle ombre rimaste, dopo il lavoro della precedente commissione, sulla volontà del Parlamento di fare chiarezza sugli avvenimenti di quei giorni».
Certo però che, nel gioco incrociato dei veti e delle concessioni per la ricerca di una maggioranza, il nuovo testo approvato dalla prima commissione è profondamente diverso dai due originari. Soprattutto per quanto riguarda le funzioni della Commissione stessa. Se infatti i due disegni di legge precedenti prevedevano la ricostruzione delle dinamiche degli eventi che avevano portato alla morte di Carlo Giuliani, alle cariche al corteo autorizzato e alla irruzione nella scuola Diaz, oltre che alla ricostruzione di quanto accaduto nella caserma di Bolzaneto, il nuovo testo non cita alcun episodio specifico. Sparita anche qualsiasi formulazione riguardante le «responsabilità politiche e amministrative» di quanto accaduto nei giorni di Genova.
Quel che resta, riguardo alle finalità della commissione, è una formulazione volutamente vaga e ampia. Che vuol dire tutto e non vuol dire niente. Il testo unico, infatti, prevede che la commissione ha i compito di «ricostruire in maniera puntuale gli avvenimenti accaduti a Genova in occasione del vertice dei Paesi del G8 e delle manifestazioni del Genoa Social Forum; accertare se durante i giorni in cui ha avuto luogo il vertice dei Paesi del G8 si sia verificata la sospensione dei diritti fondamentali garantiti a tutti i cittadini dalla Costituzione; ricostruire la gestione dell’ordine pubblico facendo luce sulla catena di comando e sulle dinamiche innescate che hanno provocato azioni violentemente repressive nei confronti dei manifestanti». Se il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto, forse, lo diranno i lavori della commissione stessa. Che almeno si farà, e questo è già qualcosa.

l'Unità 16.9.07
La vita... in linea di principio
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


C’è qualcosa, nel dibattito in corso sull’accanimento terapeutico, che la Chiesa manca di chiarire sino in fondo. Le affermazioni venute venerdì scorso dalla Congregazione della dottrina della fede, in tal senso, non fanno eccezione. Rispondendo agli interrogativi posti dalla Conferenza episcopale degli Stati Uniti in materia di pazienti in stato vegetativo permanente (SVP), si afferma: «Sono dovute le cure ordinarie e proporzionate, che comprendono, in linea di principio, la somministrazione di acqua e cibo, anche per vie artificiali». Ecco: quella formula, «in linea di principio», cosa vuol dire veramente? Come dovremmo spiegarla e interpretarla? «La somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita»; così prosegue il testo approvato da Benedetto XVI. Ma quella somministrazione cosa può mai avere di «ordinario», se garantita solo dall’intervento di macchinari sofisticati, di sonde nasogastriche, se condotta attraverso composti chimici che solo i medici possono prescrivere e controllare, mentre il paziente non ha neppure coscienza di essere alimentato? A cosa si vorrebbe «proporzionato» quell’intervento? E di quale «vita» stiamo parlando? Meglio: siamo in grado di ridefinire concettualmente le fasi della nostra esistenza, sapendo che il progresso scientifico consente oggi di tenere in vita, per anni o per decenni, persone che hanno perso definitivamente coscienza, incapaci di emozione, pensiero, relazione con il mondo e senza possibilità alcuna di guarigione da quella condizione? E siamo pronti ad accettare che ulteriori progressi scientifici possano protrarre ancor più l’esistenza vegetativa di persone di cui tutto ciò che sopravvive è il solo battito cardiaco?
Non è la prima volta che la Chiesa si esprime su queste questioni. Pure, una disamina dei molti documenti disponibili sulla questione evidenzia alcune ambiguità. Le recenti prese di posizione hanno trovato la loro enunciazione più chiara, a nostro avviso, nel discorso di Giovanni Paolo II ai partecipanti al Congresso Internazionale «I trattamenti di sostegno vitale e lo stato vegetativo. Progressi scientifici e dilemmi etici», nel 2004: «La somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenta sempre un mezzo naturale di conservazione della vita, non un atto medico. Il suo uso pertanto sarà da considerarsi, in linea di principio, ordinario e proporzionato, e come tale moralmente obbligatorio, nella misura in cui e fino a quando esso dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che nella fattispecie consiste nel procurare nutrimento al paziente e lenimento delle sofferenze». Un «mezzo naturale» di conservazione della vita, dunque; così sono intese l’alimentazione e l’idratazione artificiali, anche quando di naturale non hanno, evidentemente, alcunché. Il ragionamento è chiaro, ma assai arbitrario: si sostiene che quelle non siano cure (ancorché necessitino macchinari sanitari, farmaci e competenze terapeutiche) e che dunque il loro fine non sia curare, né guarire. Il fine dell’alimentazione consiste, con un truismo discutibile, nell’alimentare; quello dell’idratazione nell’idratare (lo ribadisce adesso il Vaticano: tale somministrazione «è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente»). Così quelle prassi mediche alleviano fame e sete; ma come sappiamo, possono protrarre sofferenze di altro genere e non minore intensità. La posizione espressa dal Pontificio Consiglio per la pastorale degli Operatori Sanitari la Carta degli Operatori Sanitari (1995), non a caso, prevedeva una eccezione di non poco conto: «L’alimentazione e l’idratazione, anche artificialmente amministrate - vi si leggeva - rientrano tra le cure normali dovute sempre all’ammalato quando non risultino gravose per lui». La Congregazione precisa ora questo passaggio, indebolendolo e rendendone residuali le implicazioni: l’interruzione di quei trattamenti è lecita «in qualche raro caso», nel quale «l’alimentazione e l’idratazione artificiali possano comportare per il paziente un’eccessiva gravosità o un rilevante disagio fisico legato, per esempio, a complicanze nell’uso di ausili strumentali». Come a dire: si può pensare di interrompere l’alimentazione se la sonda provoca (o rischia di provocare) infezioni; ma non se quella prassi tiene in vita un soggetto comunque afflitto da altre severe sofferenze e definitivamente impossibilitato a guarire.
La posizione della Chiesa si fonda sulla negazione del valore terapeutico di quelle pratiche mediche, che di «ordinario» - a noi pare evidente - non hanno proprio nulla. Ma quel valore terapeutico, è bene ricordarlo, in Italia è già stato certificato da una commissione di studio istituita nel 2000 dall’allora ministro della Sanità, Umberto Veronesi. Nelle conclusioni di quel gruppo di lavoro, presieduto da Fabrizio Oleari e composto da medici, bioeticisti, filosofi morali, si legge: «Il punto essenziale è che nell’idratazione e nutrizione artificiale in individui in SVP viene somministrato un nutrimento come composto chimico, che solo medici possono prescrivere e che solo medici sono in grado di introdurre nel corpo attraverso una sonda nasogastrica o altra modalità; e che solo medici possono controllare nel suo andamento, anche ove l’esecuzione sia rimessa a personale infermieristico o ad altri. Mentre il beneficiato non solo non può apprezzare il preparato o i suoi effetti, ma soprattutto non può, e non potrà mai più, rendersi conto del fatto di essere alimentato. Quando l’alimentazione e l’idratazione si svolgono in tali condizioni esse perdono i connotati di atto di sostentamento doveroso e acquistano quello di trattamento medico in senso ampio. Così come, solo per fare due esempi tra i vari possibili, dare il braccio a un non vedente è atto di assistenza e di solidarietà mentre intervenire sul suo apparato visivo è atto medico (...), alla stessa stregua aiutare una persona che non è in grado di farlo da sola a mangiare e a bere è atto di assistenza, mentre sopperire alle esigenze di idratazione e di nutrizione del corpo di individui in SVP, attraverso sonda nasogastrica o altra modalità tecnica, è trattamento medico». Se di trattamento medico si tratta, esso può rivelarsi accanitivo; e, in quel caso, può, per ragione e diritto, essere interrotto.
Pensare che la Chiesa possa partire da tali assunti appare, purtroppo, irrealistico. Pensare, invece, che possa chiarire quelle «linee di principio» cui si appiglia con argomenti altrettanto razionali e - perché no? - scientifici, ciò rimane auspicabile.

Repubblica 15.9.07
Il popolo di Internet. "Il sapere come bene comune"
di Stefano Rodotà


Nella dimensione mondiale assistiamo ad una creazione incessante di nuovi beni: la conoscenza prima di tutto
Qual è il modo migliore per sfruttare la ricchezza della rete? Tra mercato e libero accesso, la posta in gioco non è piccola
La connessione garantita a tutti non promette nulla circa i contenuti
L´informazione è un diritto fondamentale garantito da molto tempo

Nell´ottobre del 1847, pochi mesi prima della pubblicazione del Manifesto dei Comunisti, Alexis de Tocqueville redigeva la bozza d´una dichiarazione politica che avrebbe poi trascritto nei suoi Souvenirs, e così rifletteva: «ben presto la lotta politica si svolgerà tra quelli che possiedono e quelli che non possiedono; il grande campo di battaglia sarà la proprietà». Quel conflitto è continuato, ininterrotto, e continua ancora, anche se al centro dell´attenzione non è più la terra, ma piuttosto il vivente, l´immateriale, il sapere nel suo insieme. Il campo di battaglia si è allargato. È diventato il mondo intero, abbraccia molti altri diritti, li ridefinisce, li riscrive, li considera non più dal punto di vista strettamente individualistico, ma pure nell´ottica di una appartenenza comune.
La questione dei beni comuni è essenziale. Il senso della battaglia, di cui parlava Tocqueville, è profondamente cambiato.
Non riguarda soltanto un conflitto intorno a risorse scarse, oggi l´acqua più ancora che la terra. Nella dimensione mondiale assistiamo ad una creazione incessante di nuovi beni, la conoscenza prima di tutto, rispetto ai quali la scarsità non è l´effetto di dati naturali, ma di politiche deliberate, di usi impropri del brevetto e del copyright, che stanno determinando un movimento di "chiusura" simile a quello che, in Inghilterra, portò alla recinzione delle terre comuni, prima liberamente accessibili.
Dobbiamo concludere che la tecnologia apre le porte e il capitale le chiude? Certo è che intorno al destino di nuovi e vecchi beni comuni si gioca una partita decisiva per la libertà e l´eguaglianza.
Protagonisti di questa vicenda non sono singoli o gruppi. È un´entità anch´essa nuova che, mimando la formula "economia mondo" di Immanuel Wallerstein, è stata definita "popolo mondo". È il popolo di Internet, un popolo mobile, che si aggira nel mondo globale, scaricando musica e film, creando e diffondendo informazioni, producendo sapere sociale. Ed è proprio questa dimensione sociale che sconvolge vecchie logiche, mostra in ogni momento l´inadeguatezza di regole consolidate. E pone un interrogativo ineludibile. Qual è il modo migliore per sfruttare «la ricchezza della rete»? Ricondurre anche questo mondo nuovo soltanto alla logica di mercato? O perseguire quella che Franco Cassano chiama «la ragionevole follia dei beni comuni», considerati sia nelle forme della loro possibile proprietà, sia come componente essenziale dell´«era dell´accesso»? La posta in gioco non è piccola. Schematizzando al massimo: privatizzazione del mondo o possibilità inedite di percorrerlo liberamente, con equilibri nuovi tra diritti individuali e godimento collettivo.
Proprio il tema dell´accesso svela i termini veri della questione, e la sua difficoltà. Già nel 1948 la Dichiarazione universale dei diritti dell´uomo dell´Onu riconosceva come diritto fondamentale quello di «cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee». E, ben prima di allora, la necessità di garantire senza discriminazioni l´accesso al sapere era il fondamento delle politiche pubbliche sull´istruzione obbligatoria e gratuita e sull´istituzione di biblioteche aperte a tutti, alcune delle quali concepite come deposito di un sapere universale (o almeno nazionale) grazie all´obbligo di inviare ad esse tutto ciò che veniva pubblicato. Oggi una soluzione come questa è evidentemente impraticabile per la Rete, luogo dove vorticosamente compaiono e scompaiono quotidianamente milioni di informazioni. E tuttavia l´accesso rimane il punto di partenza: come garantirlo e, soprattutto, che cosa garantire.
Rifacendosi a esperienze già note, come quella del telefono, si è parlato di «servizio universale»: a tutti dovrebbe essere garantita la connessione a Internet. Ma quello che per il telefono poteva essere considerato il punto d´arrivo - essere messi in condizione di parlare con chiunque - per Internet è solo un punto di partenza. Una volta che mi sia stata garantita la connessione, a che cosa potrò accedere? All´insieme del sapere disponibile in Rete o soltanto a sue frazioni tra le meno significative e appetibili? Il diritto alla connessione non può, in concreto, garantire solo l´accesso al nulla, a contenuti poveri o poco significativi per molti utenti. L´esperienza della televisione può fornire qualche indicazione, con il progressivo trasferimento dei programmi più interessanti nell´area della televisione a pagamento.
Vi è il rischio che ci venga consegnata una chiave che apre soltanto una stanza vuota. Proprio a questa immagine ricorre uno dei maggiori studiosi di questi temi, Lawrence Lessig, ragionando sul futuro delle idee: «Sei completamente libero di fare il film che vuoi in una stanza vuota, con i tuoi due amici». Che cosa lo ha spinto ad una conclusione così sconsolata? La constatazione dei mille nuovi vincoli che avvolgono l´attività cinematografica, nati appunti da una privatizzazione della conoscenza. Quella visiva, questa volta. Riprendere la facciata di un edificio può indurre il proprietario o l´architetto a chiedere un compenso, e lo stesso può avvenire se un designer scorge in una scena del film una sedia che ha progettato.
Da qui deve partire anche una riflessione sull´eguaglianza. Questa viene sempre più intesa come eguaglianza dei punti di partenza, non dei risultati. Ma proprio la questione dell´accesso mostra come non ci si possa limitare a fornire pari opportunità se, poi, queste possono essere concretamente utilizzate solo da alcuni. Una situazione, questa, che diviene assai più eloquente quando il sapere incrocia il fondamentale diritto alla salute. Da anni la questione dei brevetti sui farmaci è davvero un campo di battaglia. Diversi paesi, dal Brasile al Sudafrica all´India, rivendicano il diritto di produrre a basso costo farmaci necessari per curare milioni di malati di Aids o di malaria, infrangendo anche i diritti della grande industria farmaceutica. L´accesso di tutti ai frutti del sapere, i farmaci in questo caso, diviene la condizione perché la salute non venga assicurata in modo selettivo solo a chi ha le risorse per comprarla sul mercato, ma davvero ad ogni persona. L´accesso diviene parte costitutiva della cittadinanza.
La consapevolezza sempre più diffusa che la conoscenza è un «bene pubblico globale», come sottolinea Luciano Gallino, sta così determinando un ripensamento profondo delle regole, a partire da quelle che riguardano il brevetto e il diritto d´autore, e una richiesta perentoria di non appropriarsi del vivente, della diversità biologica. Nuove parole percorrono il mondo - software libero, open source - che ci parlano proprio di un mondo che deve essere aperto, disponibile per chi vuole conoscere, diffondere liberamente informazioni, produrre sapere condiviso. Questa ricerca di nuovi equilibri tra interessi di autori, inventori, industrie e interessi della collettività non è motivata soltanto da una sorta di rifiuto della logica di mercato. Vi è una critica liberista anche più radicale, che insiste sulla crescente inefficienza dei vecchi strumenti, e propone addirittura l´abolizione del copyright. Un esempio può chiarire come cambia il modo in cui si può accedere al sapere. La free press, i giornali distribuiti gratuitamente non sono il segno di una generosità o altruismo dell´editore, ma di un altro modo di fare profitto. E le enormi possibilità della Rete, la sua ricchezza, possono essere ben utilizzate solo se vengono rimossi gli ostacoli al pieno sfruttamento delle sue potenzialità, che configurano appunto anche una «non market economy».
Ma l´accesso alla conoscenza deve implicare sempre anche la possibilità di essere «esposti» alle opinioni più diverse, per poterle confrontare, per sviluppare capacità critiche. Questo significa, ovviamente, rifiuto della censura, di monopoli e posizioni dominanti e, insieme, accesso diretto alle fonti, trasparenza delle informazioni. Qui è la radice del pluralismo, dell´autonomia di giudizio di ciascuno. Così è possibile uscire dagli arcana imperii, liberarsi da poteri avvolti dal segreto, e per ciò solo oppressivi.
Il sapere libero e diffuso fa tutt´uno con la democrazia. Luigi Einaudi diceva «conoscere per deliberare». Un grande giudice americano, Louis Brandeis, osservava che «la luce del sole è il miglior disinfettante». La conoscenza, dunque, come fondamento della decisione democratica e del controllo diffuso.
L´informazione è potere, si è sempre detto. Ma ci si è sempre chiesti: potere di chi?

Repubblica 16.9.07
Il popolo che cerca il giudizio universale
di Eugenio Scalfari


DICONO che Prodi, a chi gli faceva osservare con disappunto che il consenso attorno al suo governo non dava alcun segno di ripresa nonostante il discreto andamento dell´economia e alcuni provvedimenti del governo senz´altro positivi, avrebbe risposto: «Non ti preoccupare. Già la Finanziaria del 2007 comincia ad esser giudicata in modo più favorevole dei mesi scorsi. Abbiamo ancora quattro anni di tempo. Alla fine della legislatura la maggioranza degli italiani darà un giudizio favorevole sul nostro operato».
Può darsi che Prodi abbia ragione e che le cose andranno così. Come cittadino e anche come giornalista che ha sempre riconosciuto al presidente del Consiglio una tenacia a prova di bomba, me lo auguro. Però non sono d´accordo. Per due ragioni. La prima è che l´attuale consenso riscosso dal governo è tecnicamente troppo basso, come un aereo che è sceso talmente verso terra da correre ad ogni attimo il pericolo di avvitarsi su se stesso rendendo inutile e anzi impossibile ogni tentativo di recuperare la linea di volo.
Ma la seconda ragione è ancora più decisiva della prima: cresce la quantità di cittadini che rifiutano in blocco questa classe politica.
Che questo atteggiamento si possa definire antipolitico (come personalmente ritengo) oppure politico al massimo grado perché non è frutto di indifferenza ma di partecipazione attiva e combattiva (come sostengono rabbiosamente tutti quelli che hanno risposto all´appello del «Vaffa-day») è questione opinabile, ma non cambia la sostanza nelle cose. C´è un crescente rifiuto di «questa» politica di «questi» partiti, di «questi» uomini politici.
Tutti, nessuno escluso. Loro e tutto il mondo che – secondo le persone che condividono quello stato d´animo – ruota intorno a loro.
Rifiuto totale. Su tutti i piani e a tutti i livelli: le tasse, la sicurezza, la legalità, le disuguaglianze, la libertà. Pollice verso su tutto.
Se ne devono andare.
Dopo il mio articolo su Grillo ho ricevuto 57 lettere tutte dello stesso tenore. Alcune, non tutte ma parecchie, scagliano il loro «Vaffa» declinato nella versione completa contro di me e la riga sotto concludono con un «cordiali saluti» in omaggio alla buona educazione d´un tempo.
Argomenti? Pochi. Uno in realtà ed è quello già citato: dovete andarvene, si deve ricominciare da zero, la nuova «agorà» sarà la rete, il metodo della democrazia rappresentativa non rappresenta nessuno, la forma non è sostanza ma pura e semplice ipocrisia, l´Italia non è quella che vedete dai vostri salotti ma quella di chi lavora e non guadagna abbastanza da poter campare.
Insomma tutto il male da una parte e tutto il bene dall´altra, le menzogne da una parte e la verità dall´altra, l´illegalità di qua e la legalità – quella autentica – di là.
Questo è il modo di pensare di molti ed è in crescita.
Dubito molto che un taglio dell´Ici o dell´Ires o dell´Irpef possa modificare la situazione anche se bisogna continuare a lavorare come se si vivesse mille anni, guardando al domani e non solo all´oggi.
Dubito che serva spiegare e spiegarsi. Quando il pollice della folla è rivolto all´ingiù ci vogliono colpi di scena per fargli cambiare posizione. Ci vogliono emozioni che capovolgano emozioni di segno opposto. Questa équipe politica tutto può fare salvo che suscitare emozioni in proprio favore.
Per queste ragioni credo che sia molto difficile riportare l´aereo governativo a livello di crociera anche perché pochissimi del personale navigante mostrano di aver capito quello che sta accadendo.
E´ probabile che tra sei mesi o tra un anno la gente sia stufa di esibire il pollice verso. Questo genere di ventate passa presto ma dietro di sé lascia un terreno devastato.
Il mitico Sessantotto insegna. Dopo arrivarono gli anni di piombo, l´indifferenza, il richiamo all´ordine. Una parte dei sessantottini di allora rientrò nel mondo della realtà concreta di tutti i giorni; altri finirono nella clandestinità, nel sangue e in galera; altri ancora fecero carriera nei percorsi che avevano vilipeso e desacralizzato.
Di solito va così. Ma qui non siamo in una situazione che consenta lunghe attese. Il tempo passa presto, come dice la canzone. Il distacco tra la città della politica e i sentimenti delle persone è diventato difficile da colmare.
Veltroni ci sta provando ma anche per lui le difficoltà aumentano.
Dicevo che ci vorrebbe un colpo di scena, un segnale preciso che inverta il «trend». Per esempio il taglio del numero dei ministri e dei sottosegretari.
Non annunciarlo ma farlo. La politica degli annunci è deleteria.
L´operazione del taglio dei ministri è difficilissima, come voler prendere il miele da un alveare mentre le api sono tutte nelle loro cellette e non hanno alcuna intenzione di volar via. Ma, se fatta con saggia incisività, sarebbe un colpo di scena coi fiocchi.
Scommetto che non si farà. Quand´anche il presidente del Consiglio si convincesse alla bontà dell´operazione, non avrebbe i poteri per imporla.
Avrebbe bisogno che tutti i ministri e i partiti che sono dietro di loro fossero d´accordo; che ciascuno gli affidasse la sua lettera di dimissioni e si rimettesse alle sue decisioni. Ma saremmo nel mondo dei sogni e non ci siamo.
* * *
Il sondaggio fatto pochi giorni fa da Ilvo Diamanti dice che dei 300 mila cittadini che hanno firmato la proposta di legge Grillo il 58 per cento ha opinioni di sinistra e centrosinistra. Solo il 30 per cento si dichiara di centrodestra. Si sapeva che la sinistra è più sensibile della destra a queste sollecitazioni ma le percentuali sono assai eloquenti.
Una sinistra militante ha dentro di sé il mito della politica, l´ideale della politica. Della politica «alta».
Della politica nobile. Della politica delle mani pulite. Se la presa del potere si impelaga nel lavoro sporco la sinistra militante si sente tradita.
La legalità è tradita.
Gli ideali sono traditi. La rivoluzione è tradita. La palingenesi è tradita.
Anche la destra estrema coltiva questo tipo di mitologia e il tradimento contro di essa: la guerra tradita, la vittoria tradita, la nazione tradita.
La reazione a questi supposti tradimenti è il rifiuto di tutto l´esistente e la sua sostituzione con un nuovo esistente virtuale.
Il riformismo non funziona in questo modo; si accontenta di un passo per volta. Purché non sia un passetto, ma un passo deciso. Uno per volta va bene, ma che incida e lasci una traccia. Se non è un passo ma solo un passetto anche il riformismo militante entra in crisi. I compromessi saltano, le ambizioni individuali prendono il sopravvento, la compattezza degli intenti si disgrega, lo specchio del bene comune si rompe.
Solo il 30 per cento del centrodestra è sensibile agli appelli di Grillo, perché il centrodestra il suo Grillo ce l´ha già e se lo tiene ben stretto. Si chiama Silvio Berlusconi, che da 15 anni fa politica in nome dell´antipolitica, che guida il più grosso partito italiano in nome della lotta ai partiti, che di battute ce ne ha una più di Grillo. Le fa perfino su stesso e ci si ride addosso contagiando quel riso a tutti i suoi fedeli.
Lui è ben contento che ci sia Grillo che il danno lo fa a sinistra. A lui, a Berlusconi, i «Vaffa» gli rimbalzano.
Colpiscono i suoi nemici, non lui.
La sinistra radicale forse non lo prevedeva, ma buona parte dei seguaci del «Vaffa» provengono proprio dalle sue fila.
E perfino dalla Lega. Dai Ds. Da tutti quelli che si sentono traditi. Si sentono offesi. Si sentono feriti.
Li volete riconquistare con le detrazioni fiscali? Col poliziotto di quartiere? Con la confisca dei patrimoni mafiosi? Con la lotta alla prostituzione stradale? Con il recupero dei parametri di Maastricht? Ma via! Vogliono ben altro. Vogliono un giudizio universale. Una purificazione collettiva. Il regno dei giusti dopo le devastazioni dell´apocalisse che punisca i corrotti e i malvagi.
Attenzione: non è la rabbia degli esclusi e degli ultimi.
Non è la protesta dei mendicanti di Brecht nell´«Opera da tre soldi». I protestatari non sono né esclusi né tantomeno ultimi. Ma non si sentono riconosciuti. Si sentono impoveriti nel portafoglio e negli ideali e questa è una miscela esplosiva.
* * *
Leggerete in queste stesse pagine gli esiti del sondaggio effettuato nei giorni scorsi sulle intenzioni di voto, confrontati con quelli del giugno scorso e con i dati delle elezioni 2006. Essi registrano una situazione drammatica per il centrosinistra rispetto ai risultati di un anno fa e un leggero recupero nel confronto col giugno scorso. Quanto al Partito democratico, migliora di un punto e mezzo rispetto a giugno ma non decolla.
Non ancora. Spiccherà il volo dopo il 14 ottobre? Intanto si moltiplicano gli appuntamenti di piazza.
Alleanza nazionale in ottobre, Pezzotta e il «Family Day», Grillo anche lui in ottobre (ma ieri sera ha già fatto il suo show alla «Festa dell´Unità» di Milano), Berlusconi il 2 dicembre e vuole portarci due milioni di persone.
Senza contare il grande referendum dei lavoratori sul Welfare, decisivo anche ai fini della Finanziaria e della tenuta del governo.
Se si votasse oggi, dice il sondaggio, il 65 per cento degli interpellati dà la vittoria al centrodestra, solo il 12 al centrosinistra. Si possono certo opporre a questo sondaggio altri con esiti alquanto diversi, ma la visione comune è quella di un paese agitato, percorso da emozioni e incertezze, speranze e paure. Domina – così mi sembra – un´attesa di palingenesi con sfumature vagamente messianiche.
Quanto di peggio.

Repubblica 16.9.07
Hanna Arendt
L'amore secondo Hannah potenza senza tenerezza
Filosofia al femminile


Ha dedicato la vita allo studio del totalitarismo e della politica. Ha scritto un libro fondamentale sulla banalità burocratica del male nazista. È stata l'amante di Heidegger. La Arendt ha sempre parlato poco di se stessa, ma ha scritto moltissimo. Come si legge nei suoi diari ora pubblicati in Italia
Soltanto quando è spezzato il cuore batte al proprio ritmo. Se non si spezza, si pietrifica

Febbraio 1951
Quel che siamo e sembriamo,
A chi importa.
Quel che facciamo e pensiamo
Nessuno se ne indigna.
Il cielo è in fiamme,
Chiaro il firmamento
Sopra l´unione
che non conosce la via.

Giugno 1951
I pensieri vengono a me,
non sono più un´estranea per loro.
Cresco e divento la loro dimora
come un campo coltivato.

Vieni e abita
nella buia stanza obliqua del mio cuore,
ché la vastità delle onde ancora
si chiude allo spazio.
Vieni e cadi
nei fondi colorati del mio sonno,
che ha paura del ripido
abisso del nostro mondo.
Vieni e vola
nella lontana curva della mia nostalgia,
che l´incendio divampi
all´altezza di una fiamma.
Stai e resta.
Aspetta che l´arrivo giunga
inesorabile dal lancio
di un istante.

Sopravvivere
Ma come si vive con i morti? Di´,
dov´è il suono che ne tradisce la presenza,
com´è il gesto se, condotti da loro,
desideriamo che la prossimità stessa a noi si neghi?
Chi sa il lamento che li allontana da noi
e tira il velo sullo sguardo vuoto?
A che cosa serve rassegnarsi alla loro assenza,
e rivolta il sentimento che impara a sopravvivere.
Il sentimento rivoltato è come il coltello rivoltato nel cuore.

Agosto 1951
Che fretta ha
il tempo,
non si sofferma,
aggiunge
anno dopo anno
alla sua catena.
I capelli
son presto
bianchi e soffiati via.
Ma se il
tempo si divide
ogni anno
in notte e giorno,
se il cuore
si sofferma -
non gioca
all´eternità
col tempo?

Gennaio 1952
Ogni solitudine portata con coerenza sino alla fine sfocia in disperazione e abbandono - semplicemente perché non è possibile gettarsi al collo di se stessi.

Sembra che tutto debba ripetersi. E mi chiedo che ne sarà di Te fra sette anni. La prossima tempesta, che soffia già da ogni direzione, come se si esercitasse nel soffiare e nello spazzare via, Ti risucchierà e Ti farà girare nel vortice, poiché navigando - e anche nei pericoli della navigazione - hai gettato tutto di bordo e sei rimasto senza un peso tuo? Oppure, per parlare una lingua diversa e molto più precisa, che non è la mia lingua, vuoi veramente fare di Te un "contenitore" [...] e condividere l´essenza del contenitore, che è il vuoto?
Non respingerlo subito. Se vuoi (devi?) imboccare questa strada, hai soltanto un´opportunità - che ti si possa ancora incontrare.
La forza diventa potere solo nel momento in cui si allea con altri. La forza che non può diventare potere, perisce da sé in se stessa.

Maggio 1952
Sono solo una
Delle cose,
Quelle piccole,
Che riuscirono
Per esuberanza.
Stringimi fra le Tue mani,
Che si espandano
Oscillanti
Nella riuscita,
Quando hai paura.

Giugno 1952
Manchester
Finché abitiamo questa terra, abbiamo tanto bisogno gli uni degli altri quanto avremo bisogno di Dio nell´ora della morte, quando cioè lasceremo la terra.

Ottobre 1952
In qualunque modo lo si voglia vedere, è incontestabile che a Friburgo io mi sia recata (e non caduta) in una trappola. Ma è ugualmente incontestabile che Martin [Heidegger], lo sappia o no, si trovi in questa trappola, che in essa sia di casa, che abbia costruito la sua casa attorno a questa trappola; cosicché si può andare a trovarlo soltanto se si va a trovarlo nella trappola, se si va in trappola. Quindi sono andata a trovarlo nella trappola. Il risultato è che ora lui sta di nuovo seduto da solo nella sua trappola.

Maggio 1953
L´amore è una potenza e non un sentimento. S´impadronisce dei cuori, ma non nasce dal cuore. L´amore è una potenza dell´universo, nella misura in cui l´universo è vivo. Essa è la potenza della vita e ne garantisce la continuazione contro la morte. Per questo l´amore "supera" la morte. Appena si è impossessato di un cuore, l´amore diventa una potenza ed eventualmente una forza.
L´amore brucia, colpisce l´infra, ovvero lo spazio-mondo fra gli uomini, come il fulmine. Questo è possibile soltanto se vi sono due uomini. Se si aggiunge il terzo, allora lo spazio si ristabilisce immediatamente. Dall´assoluta assenza di mondo (=spazio) degli amanti nasce il nuovo mondo, simboleggiato dal figlio. In questo nuovo infra, nel nuovo spazio di un mondo che inizia, devono stare ora gli amanti, essi vi appartengono e ne sono responsabili. Proprio questa è però la fine dell´amore. Se l´amore persiste, anche questo nuovo mondo viene distrutto. L´eternità dell´amore può esistere soltanto nell´assenza di mondo (dunque: «e se Dio vorrà, ti amerò anche di più dopo la morte» - ma non perché allora io non "vivrò" più e di conseguenza potrò forse essere fedele o qualcosa del genere, ma a condizione di continuare a vivere dopo la morte e di aver perduto in essa soltanto il mondo!) o come amore degli "abbandonati", non a causa dei sentimenti, ma perché, assieme agli amanti, è andata perduta la possibilità di un nuovo spazio mondano.

Gennaio 1954
Amo la terra
come in viaggio
il luogo straniero,
e non diversamente.
Così la vita mi tesse
piano al suo filo
in una trama sconosciuta.
All´improvviso,
come il commiato in viaggio,
il grande silenzio irrompe nel telaio.

Il cuore è un organo curioso; soltanto quando è spezzato, batte al proprio ritmo; se non si spezza, si pietrifica. La pietra che ci cade dal cuore è quasi sempre quella in cui il cuore si era quasi trasformato.

Marzo 1955
Amor mundi - perché è cosi difficile amare il mondo?

Una volta che abbiamo iniziato a pensare, i pensieri arrivano come le mosche e ci succhiano il sangue vitale.

Maggio 1955
Dolcezza grave
La dolcezza è
all´interno delle nostre mani,
quando la superficie si
accomoda alla forma estranea.
La dolcezza è
nella volta celeste notturna,
quando la lontananza si
concede alla terra.
La dolcezza è
nella tua mano e nella mia,
quando la vicinanza bruscamente
ci fa prigionieri.
La malinconia è
nel tuo sguardo e nel mio,
quando la gravità ci
accorda uno nell´altro.

Fine 1957
Ti vedo soltanto
come stavi alla scrivania.
Una luce cadeva in pieno sul tuo viso.
Il vincolo degli sguardi era così stretto,
come se dovesse portare il tuo peso e il mio.
Il legame si è spezzato,
e fra noi si è creato
non so quale strano destino,
che non si può vedere e che nello sguardo
non parla e non tace.
La voce trovò e cercò
ascolto nella poesia.

Natale 1964
Un tempo, per corazzarmi contro la vanità, l´ambizione e i desideri folli, ho spesso giocato con la morte. Al cospetto della morte, della mortalità dei mortali - Vanitas vanitatum vanitas. Un pensiero assai consolatorio. Ma oggi, poiché in parte il mondo viene incontro proprio alla mia vanità, ricompensa la mia ambizione e ogni tanto esaudisce i miei folli desideri, mi rendo conto che il gioco con la morte non serve più. La morte stessa non è più il nostro letto di morte o d´agonia. Non che io abbia paura, ma le mie preoccupazioni vanno al di là della morte, voglio che il mio testamento sia in ordine, le mie carte al sicuro, che quel po´ di denaro sia distribuito in modo giusto - insomma, quando il mondo ci sorride, in fin dei conti siamo subito disposti a provare un interesse estremamente disinteressato nei suoi confronti.

Maggio 1965
A dire il vero, da quando avevo sette anni, ho sempre pensato a Dio, ma non ho mai riflettuto su Dio.
Ho desiderato spesso non dover più vivere, ma non mi sono mai interrogata sul senso della vita.

La nostra cognizione del tempo si orienta esattamente rispetto al numero di anni che abbiamo vissuto. Più si è giovani, più un anno è lungo, ma anche un´ora o un giorno. Se ho cinque anni, un anno corrisponde a un quinto della mia vita; se ne ho cinquanta, è soltanto un cinquantesimo. Ciò cambia solo quando si diventa vecchi e si inizia a contare partendo dalla morte e non più dalla nascita. Allora gli anni diventano di nuovo impercettibilmente più lunghi.

Novembre 1968
La notte scorsa ho sognato Kurt Blumenfeld - per la prima volta in vita mia, credo. Nel sogno, lo incontravo inaspettatamente su un bel ponte nel bosco. Si levava di bocca il sigaro, per baciarmi. Gli dicevo: «Sei veramente tu? Non posso mica farmi baciare da uno sconosciuto». Ma lo dicevo ridendo. Nel sogno non sapevo che era morto. Mi sono svegliata ridendo. Per la gioia di questo incontro inatteso.
(© 2007 Neri Pozza)

Corriere della Sera 16.9.07
Sinistra democratica
Mussi: no al corteo del 20. Angius si allea con lo Sdi
di Roberto Zuccolini


ROMA — Fabio Mussi ribadisce il suo «no» alla manifestazione del 20 ottobre contro l'accordo sul Welfare, pur senza demonizzarla, ma va avanti per la strada che porta alla federazione con Pdci, Rifondazione Comunista e Verdi che a quel corteo, per lo più, andranno. Cammin facendo, però, rischia di perdere qualche pezzo di Sinistra Democratica. Anzi, in realtà uno l'ha già perso. E si chiama Gavino Angius, che ieri non è neanche andato alla riunione del Comitato promotore del nuovo movimento-partito. Un altro, che si chiama Valdo Spini, è invece rimasto. Ma guida una sorta di minoranza interna ed è pronto a fare le valigie se le cose non cambieranno.
È l'anima socialista di Sd, minoranza a tutti gli effetti perché ieri sono stati solo 5 i voti contrari e 5 gli astenuti contro i 245 «sì» al documento della maggioranza. Ma sia Angius che Spini hanno redatto un manifesto firmato in tutto da 19 esponenti della sinistra, tra i quali Franco Grillini, Lucio Villari e, soprattutto, Enrico Boselli. L'obiettivo del gruppo è infatti quello di combattere le stesse battaglie dello Sdi a favore di una più netta collocazione nel Partito socialista europeo. Distinguendosi in questo modo sia dal Pd che da Rifondazione Comunista. Denuncia Spini: «Di fronte all'annuncio di Mussi di non presentare alle prossime amministrative di primavera una lista autonoma di Sinistra Democratica, ci obbliga a ribadire la nostra posizione ». E così, annuncia, «ai primi di ottobre ci sarà una conferenza politico- programmatica di chi aderirà al nostro appello».
Mussi tiene aperto il dialogo ribadendo che Sd «ha l'intenzione di aderire al Pse». E forse anche per questo incassa una protesta molto limitata sul fronte socialista. Il cuore del suo discorso al Comitato promotore lo dedica però al futuro. Che sarà accanto a Prc, Pdci e Verdi, con l'idea di fare una vera e propria federazione, anche se— mette in guardia il ministro dell'Università — «sui contenuti e non sugli schieramenti». Esempio: il documento comune della sinistra sul Welfare, che la prossima settimana sarà presentato a Romano Prodi. Subito dopo verrà prodotto un altro scritto sulla Finanziaria e magari si arriverà ad una stessa linea sulle pensioni. E così via. A fine mese ci sarà addirittura la prima Festa unitaria della sinistra: a Bologna per quattro giorni con chiusura dello stesso Mussi insieme a Gennaro Migliore (Prc), Manuela Palermi (Pdci) e Alfonso Pecoraro Scanio (Verdi).
Certo, restano le differenze su come procedere di fronte all'accordo tra governo e parti sociali sul Welfare. Mussi difende il suo «no» alla piazza, al corteo del 20 ottobre, ma non ne fa un dramma: «Non aderiamo, ma neanche spariamo a palle incatenate contro chi va al corteo». Anche perché forse ci andranno anche alcuni esponenti di Sd, come Giovanni Berlinguer e Cesare Salvi. Ma, in attesa di vedere come andranno le primarie del Pd il 14 ottobre, Sinistra Democratica rilancia possibili accordi elettorali già dalle amministrative della prossima primavera: liste unitarie con gli alleati «là dove è possibile ». Non a caso ieri Rifondazione Comunista faceva sapere che, secondo gli ultimi sondaggi, il partito nelle ultime settimane risulta in crescita e viaggerebbe attorno al 7,3 per cento.

Corriere della Sera 16.9.07
Ferrero agli immigrati: scendete in piazza
Il ministro critica le politiche del governo: mi batto da dentro, ma provo imbarazzo


MILANO — Ha ascoltato il racconto di una donna cinese che da 5 anni attende il ricongiungimento familiare. Ne avrebbe diritto ma è vittima di un disguido burocratico. Ha pensato di trovarsi di fronte a una «vicenda kafkiana, indicibile, di quelle che ti fanno diventare pazzo». E allora il ministro Paolo Ferrero ha chiesto scusa, ha parlato del suo «imbarazzo, perché dopo un anno e mezzo di governo mi accorgo che malgrado i miei sforzi certe situazioni sembrano impossibili da cambiare». E ha detto: «È giusto che queste persone siano incazzate come bestie».
Sabato di metà settembre. Alla Camera del Lavoro di Milano il ministro della Solidarietà sociale incontra i rappresentanti delle comunità di immigrati in città. «Immigrati regolari — sottolinea Ferrero — che lavorano». Spiega che a loro ha suggerito: «Fate sentire la vostra voce, fate una manifestazione per spiegare con forza le vostre ragioni». Credeva di parlare a porte chiuse, invece le sue frasi sono finite sulle agenzie di stampa. Ora non è che le smentisca, ma vuole ricostruire alcuni passaggi della discussione. Per esempio, lui assicura di non aver detto esattamente «a volte mi vergogno di far parte di questo governo». Piuttosto: «Ho parlato del mio imbarazzo. Perché io mi occupo di immigrazione e nonostante ci metta tutta la passione e l'energia che ho, dopo un anno e mezzo non riusciamo a garantire diritti elementari, diritti previsti dalla Bossi-Fini». Quindi torna sulla proposta degli immigrati in piazza. «Non sarebbe controproducente. Anzi, aiuterebbe a scalzare l'idea che gli immigrati sono tutti delinquenti. In Italia ci sono milioni di immigrati che lavorano e producono il 5% della nostra ricchezza. E in 300 mila pagano un mutuo per la casa, perché le banche si sono fidate di loro. Però poi magari non possono andare in ferie, o fare ritorno al proprio Paese, perché al rientro avrebbero difficoltà a rinnovare il permesso di soggiorno. Io a queste persone non posso che chiedere scusa ». In realtà ha anche chiesto: «Fatemi avere le storie dei casi clamorosi di burocrazia cieca, e io le farò pubblicare a mie spese dai maggiori organi di informazione ». Li ha invitati «a denunciare chi, come ambasciate o consolati, mette vincoli al rinnovo dei permessi». Racconta di «persone che stanno qui da 15 o 20 anni, e che patiscono per ritardi clamorosi nelle pratiche per i rinnovi. Rimbalzano da un ufficio all'altro come in un ping-pong. Pagano 70 euro e poi aspettano 18 mesi per un nuovo permesso di soggiorno. Io credo che se queste storie fossero note gli italiani capirebbero perché bisogna cambiare la legge». Passa tutto da lì, secondo Ferrero. Dal superamento della Bossi-Fini. «È decisivo. Altrimenti la questione dei permessi non potrà essere gestita dai Comuni, unico modo per renderla più agile». Poi, certo, «il problema dei permessi è di competenza del Viminale non mia. Ma la situazione è così assurda perché da una parte c'è la destra che pianta casini e dall'altra l'Unione che ha paura di essere sconfitta». Ecco, l'Unione: ha citato anche quella il ministro. «Si parlava di sicurezza. Rispondendo alle critiche di alcuni membri della Cgil al governo ho chiesto "secondo voi cosa è meglio, provare a modificare la Bossi-Fini, lavorando dal di dentro, oppure altro?". Anche se me andassi — ha detto Ferrero — la situazione non sarebbe di facile soluzione, per questo rimango e continuerà la mia battaglia dall'interno. Ci sarà chi parlerà di un conflitto ma non c'è altra via. Lo so che dire "il problema è l'inclusione sociale" non sempre vede la maggioranza d'accordo. Ma io penso che sia la strada giusta, che non si possano dare solo risposte di ordine pubblico. Quindi, anche se dentro l'Unione ci sono contraddizioni del genere, vado avanti».

Liberazione 16.9.07
Il 20 ottobre è di tutti
(la politica non è solo arte del potere...)
di Piero Sansonetti


Finché i partiti politici - o meglio: i gruppi che li dirigono e li rappresentano - continueranno a credere che la politica sia una questione che riguarda soltanto "il potere" e i luoghi e i modi nei quali lo si esercita, non potrà che restare, e aumentare paurosamente, il fossato che ormai divide le persone normali dalla politica. E' un concetto abbastanza semplice, anche se espresso in modo un po' pomposo. Spieghiamoci meglio. Se l'unico scopo della politica è governare, e quindi qualunque atto o impegno politico può essere solo a favore o contro il governo, allora la politica diventa una attività riservata a una casta di amministratori e interessa soltanto questa casta, anche se poi, in molti modi, influenza la qualità della vita di tutti. L'idea che la politica sia una attività che ha come unico scopo - e unica pratica - la conquista e il mantenimento del potere, è una idea molto vicina al concetto totalitario di politica. Nelle dittature la politica è riservata all'establishment del dittatore. Qualunque altra forma è illegale.
Questa complicata premessa serve a dire una cosa semplice: il 20 ottobre - cioè la manifestazione che noi di Liberazione abbiamo promosso insieme ai compagni del manifesto e di Carta e a un'altra quindicina di intellettuali - vuole essere un tentativo di rovesciare - esattamente rovesciare - questo modo di concepire la politica. E di dire che per noi la politica è soprattutto partecipazione, impegno collettivo, pensiero, pratica e teoria, affermazione di principi, idee e valori. E perciò è inutile che ogni cinque minuti ci si chieda se siamo a favore o contro il governo, oppure quali partiti rappresentiamo, o se verranno i ministri al nostro corteo, o con quale settore della Cgil ci schieriamo, o se speriamo di aiutare o danneggiare la "Cosa rossa" e altre questioni simili. A tutte queste domande non sappiamo né vogliamo rispondere. Abbiamo chiesto di scendere in piazza, il 20 ottobre, a quel mondo - in gran parte di sinistra, ma non solo - che ha voglia di impegnarsi, di lottare, di parlare, di pensare, di produrre proteste, iniziative, azioni collettive, perché ritiene che l'assetto della società non funziona, non funziona il modo nel quale la ricchezza e il "diritto a decidere" sono distribuiti (tra le classi, i gruppi, i sessi), e non funziona il mercato come "Dio" regolatore della vita civile, sociale ed economica". Tutto qui. Questa gente - insieme di singoli, di associazioni, di organizzazioni, gruppi collettivi eccetera - costituisce una sinistra di governo? Assolutamente no, per la semplice ragione che noi siamo convinti che non esista una sinistra di governo per definizione, non possa esistere (anche se alla sinistra può toccare il compito di governare o di partecipare al governo) perché l'essenziale della sinistra non è governare ma organizzare la partecipazione.
Perciò è inutile che i giornali, i partiti, i ministri, continuino a cercare di capire in che modo il 20 ottobre peserà nei rapporti di forza tra partiti e sindacati. Il 20 ottobre è un'altra cosa. Non è né di Rifondazione, né della Fiom, né delle femministe, né del movimento Lgbtq né di nessun altro. Il 20 ottobre è di tutti, è di chiunque voglia prenderselo. Ieri il Leoncavallo di Milano ha detto: «il 20 ottobre è mio, e invito Beppe Grillo». Ha fatto benissimo. Noi promotori ci siamo limitati a indicare una data e una esigenza. L'esigenza è quella di impegnarsi in una azione di massa per affrontare un certo numero di problemi - ne abbiamo indicati sette, ma possono aumentare se volete, e già in questi giorni sono aumentati, per esempio con la necessità di fermare la corsa al linciaggio dei lavavetri e dei rom - e per scuotere la politica, che ci sembra un po' addormentata e un po' evanescente, e costringerla a tenere conto del fatto che questi problemi ci sono. La manifestazione è assolutamente aperta, non ha padroni, non ha gerarchie, non ha diplomazie, non ha riti da rispettare.
Nei prossimi giorni - abbiamo deciso venerdì in una piccola riunione alla quale hanno partecipato alcuni dei promotori e altra gente sparsa che ha aderito - terremo una iniziativa pubblica in modo da rendere aperta e collettiva la gestione del mese che ci separa dal 20 ottobre. Poi chiederemo incontri a tutti - associazioni, sindacati, partiti politici - per illustrare la piattaforma, eventualmente arricchirla, e scoprire se e perché questa piattaforma piace o non piace. Inviteremo tutti a venire in piazza con noi. E speriamo che tutti ci rispondano nel merito, sulle cose che diciamo, che chiediamo. Per esempio ci dicano: «no, noi non veniamo perché non condividiamo il vostro pacifismo integrale». Oppure, «no, non veniamo perché non sopportiamo il femminismo». Oppure: «no, perché la proposta avanzata dal governo ai sindacati sul welfare ci sembra ottima e immodificabile e quindi siamo contro di voi». Oppure ci dicano: «siamo contro di voi perché volete un riequilibrio salariale che oggi è pericolosissimo per l'economia italiana». Oppure, «siamo contro di voi perché voi siete amici dei gay, e quindi contro la nostra idea di famiglia tradizionale come architrave della società».
Benissimo, sono tutte risposte comprensibili (non tutte ragionevoli ma tutte comprensibili). Non è comprensibile, invece, chi dice: «no, non veniamo perché non sta bene scendere in piazza», o perché «fare un corteo quando a palazzo Chigi c'è Prodi è roba di destra», oppure chi dice che il 20 ottobre è un attacco alla Cgil, o una manovra della cosa rossa, di Rifondazione e cose simili. Chi fa così torna a ridurre la politica ad affare di palazzo. Possibile che non si capisca che in questo modo non si difende la politica, né il ruolo dei partiti, ma anzi si trasformano i partiti in gelide e inutili macchine burocratiche ed elettorali, che vivono e muoiono solo se hanno o no una quantità sufficiente di potere per alimentarle?

Liberazione 16.9.07
Intervista al sociologo ospite al Festival di Filosofia
Bauman: «I lavavetri? Scarti del sapere-informazione»
di Tonino Bucci


Il nostro mondo è saturo. E' saturo perché il nostro stile economico scarta di continuo individui e modi di vita passati che non sono più considerati conformi alle leggi della globalizzazione. Il progresso, insomma, produce scarti umani e, insieme, l'inquietudine sul come smaltire i rifiuti in eccesso. Proprio quanto accadeva agli abitanti di Leonia - una delle "Città invisibili" di Calvino - alle prese con montagne di spazzature. Questo, Zygmunt Bauman, sociologo e pensatore ospite del Festival di filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo dove si parla di sapere, lo sosteneva in un libro pubblicato tre anni fa, Vite di scarto (Laterza, 176, euro 7,50). Un'analisi penetrante dell'attualità, anche uno scavo nel linguaggio dei media, su termini che compaiono d'abitudine sulle pagine dei giornali. Come gli "esuberi", parola che ha trasformato gli operai in prodotti di risulta che non potranno mai più essere richiamati in servizio. La loro destinazione è la discarica. Nel mucchio potremmo aggiungere anche i lavavetri, parola che ultimamente si è colorata di tinte fosche.

Avremmo una concezione astratta del sapere se non tenessimo conto del suo trasformarsi in ideologia, in un sapere portatore di un ordine e di un progetto sociale che produce scarti umani. Di questa esclusione abbiamo avuto un esempio nella recente campagna di allarmismo sociale e di repressione contro i lavavetri. Sono loro gli scarti del sapere?
E' una domanda abbastanza difficile. Nella modernità i problemi sono stati sempre considerati come una carenza di conoscenza. Il modo di affrontarli perciò era quello di acquisire maggiori informazioni per meglio comprendere la situazione particolare che di volta in volta si presentava.L'obiettivo era quello di raggiungere una conoscenza sufficiente. Cosa è cambiato oggi? Negli ultimi trent'anni la quantità di informazione è cresciuta a ritmi impressionanti, incalcolabili, inimmaginabili nell'epoca precedente.

Basta leggere, per rendersene conto, l'edizione del New York Times: al suo interno ci sono molte più informazioni e conoscenze di quanto una persona mediamente istruita possa padroneggiare e acquisire. Per citare Virilio, la grande minaccia che mette a rischio oggi l'umanità non è la guerra atomica, ma l'ipertrofia e la mole impressionante di informazione. Siamo letteralmente inondati. Basta digitare una parola su Google e immediatamente appaiono decine di migliaia di risposte. La domanda è: quanto sono di utilità alle nostre questioni? Il problema oggi non è l'assenza di conoscenza, bensì la difficoltà di muoverci in questo immenso cumulo di informazioni, molte delle quali sono spazzatura. Per il 99 per cento quella mole di informazione è ingannevole o, comunque, non fa al caso nostro, non ci aiuta a risolvere le nostre domande. Non abbiamo criteri per discernere e distinguere le informazioni che davvero riguardano i problemi più urgenti del mondo contemporaneo, quelle che sono importanti da quelle che non lo sono. Non ne abbiamo né il tempo né gli strumenti. Ecco perché rischiamo d'avere una visione caotica, appannata, sfocata. In questa situazione facilmente possono prendere piede campagne sulla sicurezza e allarmismi sociali - come quella sugli immigrati e i lavavetri - che funzionano come vere e proprie valvole di sfogo delle nostre inquietudini, della nostra insicurezza, del nostro disagio verso i problemi autentici. Il sociologo tedesco Ulrich Beck ha detto che il nostro è un tipo di società in cui i problemi possono venire inventati oppure messi sotto silenzio. Non riusciremo mai a sapere del tutto ciò che è vero e ciò che non è vero.

Per sapere s'intende spesso una conoscenza neutra. Non rischiamo di restare prigionieri di posizioni idealistiche se non evidenziamo che dal sapere nascono anche le ideologie?
L'ideologia è stata sempre considerata una forma di conoscenza inferiore rispetto agli altri saperi, a partire da quello scientifico. Soprattutto la credenza è stata scartata, messa ai margini e considerata non degna di essere studiata. Eppure sono le credenze che influenzano e condizionano i nostri comportamenti.

C'è una forma di ideologia che fa da sfondo alla nostra società consumistica?
L'età moderna è stata caratterizzata dalla lotta contro le emozioni e le passioni. Sono state considerate l'esatto opposto della vita felice che doveva essere guidata invece dalla ragione, pianificata. Sartre diceva che abbiamo necessità di dotarci di un progetto di vita fin dalla nascita capace di costruire un senso della nostra esistenza. Ai giorni nostri ci rendiamo conto invece che c'è un ritorno al passato. Un ritorno al Romanticismo. Attraversiamo un periodo di riabilitazione delle passioni, delle emozioni. Non c'è più la necessità del calcolo razionale ma si lascia spazio ai desideri. Ovviamente ci fa piacere perché ricolloca la nostra esistenza nel mondo nella sua completezza e non solo più soltanto nella sua dimensione razionale. Gli aspetti più umani, i desideri e le passioni, prima venivano azzittiti e repressi nel conflitto con la ragione. Ma in questa riabilitazione hanno un peso anche interessi economici. Se pensiamo agli ultimi cento anni le necessità e i bisogni degli uomini sono notevolmente cresciuti. In passato si pensava che fosse possibile calcolare i bisogni delle persone: una volta che fossero stati soddisfatti si sarebbe raggiunto uno stato di autosufficienza della società. Una condizione permanente in cui non ci sarebbe stato bisogno d'altro. Quest'idea è fallita. E' subentrata la società consumistica, la società dei consumatori nella quale il motore principale è rappresentato proprio dalle necessità che si trasformano in desideri. Oggi c'è stato un passaggio ulteriore. Quando compriamo il desiderio non basta più, non è più sufficiente, c'è qualcosa di più che ci spinge ad acquistare: la volontà di qualcosa. Va distinta dal desiderio. Quando andiamo al supermercato per acquistare qualcosa di cui abbiamo necessità, per esempio del sapone, dobbiamo passare attraverso gli scaffali. E allora siamo attirati da altre cose cui non pensavamo, un paio di scarpe, un abito. Siamo presi dalla volontà di acquistare. Ma è uno stato temporaneo, transitorio. La vita ideale nella società consumistica dovrebbe essere una vita di shopping costante senza però mai concludere l'acquisto. Perché ciò che conta non è l'acquisto in sé e per sé, ma la volontà di acquistare. Le emozioni sono importanti ma non vanno trascurati gli aspetti negativi nella società dello shopping. Abbiamo pur sempre bisogno della guida della ragione anche se ci può apparire un po' grigia e monotona.

il manifesto 16.9.07
Partito democratico, mi si è rotto il kit
di Alessandro Robecchi


Ai responsabili marketing del Partito Democratico - loro sedi
Egregi signori. In data 10.09.2007 ho ricevuto in pacco assicurato il vostro kit di montaggio del Partito Democratico. Ho subito messo mano al libretto delle istruzioni e disposto ordinatamente i pezzi sul mio tavolo di lavoro. Purtroppo le istruzioni non sono chiare. Per esempio: dove devo incollare Luigi Einaudi che il vostro candidato Gawronski indica come «riferimento esemplare»? E Aldo Moro, portato ad esempio da un certo Adinolfi, va inserito nel motorino di avviamento, oppure imbullonato alla struttura portante? Il pannello solare, che Walter Veltroni indica come suo «riferimento esemplare» del Pd, lo devo collegare alle orecchie di Gandhi? Le istruzioni non sono per niente chiare.
In ogni pagina del manuale delle istruzioni è spiegato il modo esplicito, in grassetto, e più volte sottolineato, che non bisogna usare l'ideologia per assemblare le diverse componenti, ma allora che colla uso? Va bene il vinavil? Perché non c'era nel mio kit di montaggio del Partito Democratico? Ho fatto come suggerisce il manuale a pagina uno, dove dice di incastrare il libero mercato nello stato sociale, ma non ci riesco, non ci sta. Devo ridurlo con una lima? Oppure devo prendere a martellate lo stato sociale? Il disegno non è chiaro, e le istruzioni di questo paragrafo sono in cinese. Il libretto non dice dove collocare le forze operaie, mentre ho trovato ben sei confezioni sigillate di «ceto medio». E' vero che c'era un sacchettino con quindici lavavetri e cento rom, ma che vuol dire (manuale utente, pag. 21) «usare secondo le convenienze»?
Con la presente, dunque, intendo esercitare il mio diritto di recesso e rispedirvi il pacco con il kit di montaggio del Partito Democratico, ma siccome non riesco a ricomporre la confezione, è meglio che ve lo veniate a prendere. Fate presto, perché ho Luigi Einaudi in salotto che vuol fondare un partito di sinistra!

il manifesto 16.9.07
«Stiamo attenti, sta nascendo la nuova Dc»
Francesco Garibaldo, ex Fiom, mette in guardia la sinistra: «Il partito democratico? Moderato, neodemocristiano e senza una base di classe». L'antidoto a questa deriva? «Insieme, e subito. Smettetela di litigare e unitevi alla svelta»
di Al. Bra.


«Il Partito democratico? Nasce moderato e senza il radicamento sociale che in Emilia Romagna aveva il Pci». E' negativo il giudizio che Francesco Garibaldo, direttore dell'Istituto per il lavoro, una lunga militanza sindacale alle spalle, dà del nuovo soggetto. Il timore è che si trasformi in una nuova Dc, riducendo lo spazio partito a un semplice contenitore generico. L'antidoto per questa deriva moderata? Semplice, «l'unità a sinistra».
Tra poco si voterà per le primarie del Partito democratico. La sua impressione?
Diciamolo subito: io nel Pd non entro. Non che sia una sorpresa, visto che non ero iscritto neppure ai Ds. La ragione è semplice: il partito che sta nascendo ha dei connotati moderati, senza quel radicamento sociale che, almeno in Emilia Romagna, ha avuto prima il Partito comunista italiano e poi il Pds. Già con i Ds era emersa questa deriva, ora con la nascita del Pd la si sta portando a termine. E' un peccato perché qui era rimasta forte una componente di stampo socialdemocratico legata al mondo del lavoro che, in questo modo, non è più rappresentata: si sono tagliate le radici.
La polemica di questi giorni, la bocciatura da parte della Fiom del protocollo sul welfare, è proprio legata al mondo del lavoro che lei ha appena citato. E alcuni esponenti del futuro Pd hanno accusato la Fiom di voler «far cadere il governo».
E questa è una cosa inaccettabile. Il nuovo partito sta cadendo in suggestioni di tipo autoritario. Si vuole negare la legittima libertà dialettica. E' vero che quando si è al governo bisogna trovare una sintesi, ma si può trovare attraverso la dialettica politica e sociale: perché questo accanimento verso il dissenso? E poi questa assurdità che se vengono fatte valere le ragioni del dissenso allora cade il governo. La Fiom ha espresso legittimamente la sua contrarietà a un accordo che rischia di minare l'autonomia del sindacato. Invece di perdersi in queste chiacchiere che servono solo al mantenimento degli equilibri politici sarebbe meglio ragionare nel merito di un accordo che va avversato, se non si vuole perdere il contatto con la propria base.
Lei parla di «radici tagliate» e di «perdere il contatto con la base». Il nuovo partito sarà l'unione di due culture, la ex comunista e la ex democristiana, quindi dovrebbe allargare la sua base.
Non credo proprio. I dirigenti del nuovo partito che arrivano dal Pci-Pds-Ds ritengono che la dinamica capitale-lavoro non sia più buona per leggere la società, la vedono come un retaggio del Novecento. Il mondo del lavoro non è più il criterio interpretativo della realtà ma solo una delle dimensioni della società. Basta guardare ai programmi presentati: non si parla più del lavoro, resta solo un accenno, neanche troppo realistico, a ipotetici nuovi strumenti di giustizia sociale da trovare. Ma in questo modo si perde il contatto con la propria base.
Anche in Emilia Romagna?
Sì, qui avrà successo, ma in misura minore rispetto alle aspettative. Parti significative del mondo del lavoro, per esempio, non entreranno nel Partito democratico. Chi ha pianificato l'operazione Pd si aspettava un percorso più agevole, invece si è scontrato con la resistenza di gran parte del mondo civile, che difende un patrimonio importante che aiuta a mantenere una continuità di rappresentanza. Certo che se le premesse sono quelle veltroniane allora un largo successo del nuovo partito lo vedo difficile. Il rischio è che il Pd diventi una nuova Democrazia cristiana, un contenitore generico.
Che ruolo potrà avere secondo lei la sinistra nel nuovo soggetto?
Beh, una sinistra vera, nessuno.
E quindi che si deve fare?
L'unità a sinistra. In questo momento diventa ancora più impellente. Si potrebbe chiamare sinistra tout court.
E che rapporti dovrebbe avere col Pd?
Certamente sarà possibile un'alleanza per realizzare con questo nuovo centro un mandato di governo. Però dovrà essere ben chiaro questo: che le cose devono essere chiamate col loro nome. E allora non permettiamo a una forza neoliberista di dirsi di sinistra, perché sarebbe davvero troppo: il centro che vuole rappresentare la sinistra.



Bauman: «Purtroppo è passato moltissimo tempo da quando io ho educato e istruito i miei figli, e per certi versi ho completamente dimenticato come si educano i ragazzi e i bambini. Posso rispondere quindi in qualità di persona che non è attivamente impegnata nell’educazione e darò quindi una risposta di carattere generale.

L’età moderna è sempre stata caratterizzata da questa lotta nei confronti delle passioni e delle emozioni, considerate l’esatto opposto della possibilità di una vita felice, che deve essere guidata quindi necessariamente dalla ragione, come è stato inizialmente pianificato. Jean-Paul Sartre ha aggiunto che ci deve essere dall’inizio un progetto ben determinato che possa guidarci verso la strada della felicità, da impostare fin dalla nascita. Praticamente quindi, passando di secolo in secolo, ai giorni nostri ci rendiamo conto che c’è un ritorno al passato, un ritorno al Romanticismo. Un ritorno che quindi, per certi versi, nega quanto è stato sostenuto nel periodo importante della ragione, l’Illuminismo. Oggi stiamo attraversando un periodo di grande riabilitazione delle passioni, delle emozioni. Non c'è più la necessità del calcolo razionale alla base di tutto, ma si lascia spazio ai desideri e alle emozioni. Ciò ovviamente ci fa piacere perché ricolloca la nostra esistenza umana nella sua completezza all’interno del mondo, perché questa grandissima importanza che in passato era conferita alla ragione era del tutto parziale: le emozioni e ciò che è più caratteristico della vita umana, venivano azzittiti e repressi. Ma questa riabilitazione delle emozioni e delle pulsioni irrazionali allo stesso tempo fa nascere anche il sospetto che sia un pochino si parte; se pensiamo a cento anni fa ci rendiamo conto che si comprava solo in caso di stretta necessità, mentre ora il volume delle necessità umane è notevolmente cambiato. In passato si pensava che fosse possibile calcolare i bisogni delle persone: una volta che fossero stati soddisfatti i bisogni si sarebbe raggiunta una condizione permanente di autosufficienza della società. Nel scorso secolo quest’idea è andata incontro al fallimento perché è subentrata la società consumistica, la società dei consumatori dove il motore principale è rappresentato proprio dalle necessità che si trasformano in desideri, e i desideri a loro volta sono emozioni. Quest’idea è naufragata ancora una volta perché si è passati addirittura oltre. Ora quando compriamo qualcosa non lo facciamo più spinti da un desiderio. Il desiderio in sé per sé non è più sufficiente, c'è qualcosa di più che ci spinge ad acquistare: la volontà di qualcosa (diversamente dall’italiano, il termine inglese è sempre “to want”. Desiderio e volontà vanno invece distinti). Quando andiamo al supermercato per acquistare qualcosa di cui abbiamo necessità, per esempio del sapone, passiamo anche accanto a una bellissima boutique. Vediamo un paio di scarpe che inevitabilmente ci piacciono, sentiamo una forte attrazione, scatta la volontà di acquistare: entriamo e compriamo. Ma è una volontà assolutamente temporanea. La nostra vita ideale dovrebbe essere una vita di shopping costante senza però mai concludere l'acquisto, bisognerebbe cioè fermarsi alla fase precedente. Proprio perché l'acquisto in sé e per sé è si l’apice ma non è la parte più importante, anzi è il punto negativo. Benissimo quindi questa riabilitazione delle emozioni senza però trascurare quelli che sono gli aspetti negativi, come ad esempio lo shopping sfrenato.

Per tornare allo specifico della domanda che mi è stata rivolta, non è semplice e non si può dare una risposta immediata. Bisogna un pochino giocare su questi due aspetti, non c’è una “parola chiave” con i bambini. C’è da mantenere un importante equilibrio tra la ragione che fa da guida – per cui è importante anche se grigia e non particolarmente divertente - e quelle che sono invece le nostre grandi emozioni.

sabato 15 settembre 2007

l’Unità 15.9.07
POLEMICHE I saggi e le idee del pensatore esoterico amato dalla «nuova destra» negli anni passati e oggi addirittura recuperato a sinistra malgrado la sua inconsistenza e il suo reazionarismo privo di ambiguità
Riscoprire Julius Evola? No grazie, è l’essenza del fascismo radicale
di Bruno Gravagnuolo


Evola filosofo della libertà? Maestro di un’emancipazione radicale capace di farci riguadagnare nientemeno che il «libero arbitrio»? E di rivaleggiare con Hegel, Nietzsche e Gentile, quanto a vigore di pensiero? No, davvero non si sentiva il bisogno di questo ennesimo tormentone «revisionista». Anche perché in questo caso l’aggettivo è davvero sprecato e inapplicabile, stante che è impossibile scindere il «razzista spirituale» Julius Evola dal suo «reazionarismo» di fondo. Dalle scelte che connotarono la sua vita e il suo ruolo. E dall’esilità tardoromantica del suo nero messaggio esoterico.
Ma tocca ritornarci su. Dopo che già La Repubblica vi aveva dedicato una paginata il 30 marzo scorso, col recensire pomposamente e con poche avvertenze critiche due «capisaldi» del pensiero evoliano. In particolare Fenomenologia dell’individuo assoluto e Saggi sull’idealismo magico (ed. Mediterranee, a cura di G. De Turris). Sul secondo dei quali tornava altrettanto pomposamente ieri il Corsera (con qualche avvertenza in più) con articolo di Dario Fertilio.
Ieri era stato il bravo Franco Volpi, studioso e traduttore di Heidegger a rivalutare Evola. Oggi invece è Massimo Dona, prefatore di Fenomenologia, a rilanciare. Dopo che già Massimo Cacciari negli anni scorsi aveva «sdoganato» l’ex pittore dadaista (1898-1974) convocato dal Duce su imbeccata di Pavolini nel 1938, a distillare la dottrina «ario-mediterranea» che fu a base del Manifesto sulla razza. Già perché intanto sulla base di quella dottrina, rimpolpata da Evola, il fascismo intendeva rivaleggiare col nazismo e con il suo razzismo ariano e biologistico. E sulla base di quel contributo, sistematizzato da Landra e Pende, Evola fu spedito a Berlino, per convincere i camerati della liceità e della «differenza» del razzismo nostrano. Ricevendone in cambio diffidenze e perplessità. «Ario-mediterraneità» sigificava infatti un razzismo più duttile ed egemonico, plasmato su un «bio-tipo» assimilativo più ampio di quello «nordico». Ma che «discriminava» e dannava altresì ebrei e africani. Il che però non voleva dire affatto che «l’archetipo spirituale», o il «mito», non modellassero in Evola il «soma» o non lo selezionassero. Insomma, quello di Evola era un razzismo in salsa italica pasticciato e pretenzioso, non meno pericoloso di quello «doc», e che servì a giustificare culturalmente il mito della razza e le leggi razziali, con ciò che ne derivò tra il 1938 e il 1945 (c’è anche e soprattutto la Rsi!).
Ciò detto qual è lo «specimen» filosofico di Evola, nume ispiratore della vecchia e nuova destra, esoterica e non, che campeggiava anche nelle tesi An di Fiuggi? Presto detto. Una sorta di individualismo assoluto e magico. «Inattuale» e rescisso dalla storicità. Polemico con l’idealismo gentiliano e proteso alla riscoperta di archetipi e mitologemi eterni, da cavalcare in vista di un rovesciamento elitario dei valori. Sono gli «Io» dispotici ed eroici a fare la storia per Evola, e a rilanciare sulla ruota del ciclo delle rinascite i valori che contano. E che fanno storia: gerarchia, razza come principio spirituale, tradizione come radicamento e piedistallo di Imperialismo pagano. Una specie di «Junghismo» reazionario e anche di anarchismo individualistico alla Stirner. Dove l’«Eterno ritorno» non è la volontà di potenza materialistica di Nietzsche che spregia ideologie e maschere, e s’affida all’«innocenza del divenire» senza Dio. Ma dove viceversa i valori sono stelle fisse da recuperare, «cavalcando la tigre» del presente, e in attesa di un ordine purificato e aristocratico. In breve: «nazifascismo spirituale». E al più interessante per capirne le fantasie e l’immaginario profondo.

Repubblica Roma 15.9.07
Sermonti legge Enea, avventure e amori dove nacque la città
di Francesca Giuliani


Leggere l´Eneide parola per parola, ascoltarne il canto, seguire le vicissitudini e il peregrinare dell´eroe, ripensare alla sua pietas, agli amori e alle stregonerie, ricordarsi degli esametri o di quella ridondante traduzione di Annibal Caro che si studiava un tempo nei ginnasi. Un viaggio, insomma. È quel che propone Vittorio Sermonti, in Campidoglio da martedì 18 ottobre fino al 20 settembre, leggendo tutti i libri della monumentale opera virgiliana da lui ritradotti, quindi offerti al pubblico in forma di racconto interpretato, come una lezione e finalmente detti con quel modo soavemente classico e capace di stregare che le grandi platee di tutta Italia hanno conosciuto con la Divina Commedia sermontiana.
E siccome Roma è Roma, c´è un "di più", un tocco che renderà il tutto ancora più suggestivo: la lettura, organizzata da Telecom Progetto Italia e dal Comune ad ingresso libero, si svolge in Campidoglio, proprio in quel fazzoletto di terra dove la città nacque, dove gli scavi di pochi anni fa hanno ritrovato i fori nelle nuda terra delle prime capanne sul colle. Per questo, sarà un´emozione di più ascoltare la rielaborazione della leggenda che Virgilio fa, nel I secolo avanti Cristo, della fondazione di Roma. Ma lo scenario che il pubblico troverà è anche modernamente sublime, svolgendosi il tutto sotto la volta di cristallo dell´esedra di Marco Aurelio ai Musei Capitolini.
Prima di salire sul suo podio, Sermonti ci tiene a chiarire: «Io non faccio divulgazione. Non distribuisco niente. Il mio intento è di servirmi delle opere, della spaventosa bellezza che irradia da questi testi, fino a snidare la modesta grandezza rinchiusa in ogni essere umano. Alla fine delle letture la gente mi ringrazia perché la aiuto a capire che cosa complessa è l´uomo». Aggiunge: «Spesso mi sono interrogato sul significato del concetto di Occidente. Ci dev´essere un punto in cui affonda le proprie radici. E questo punto è Roma». Una Roma che oggi è «assetata di cultura», come spiega il sindaco Veltroni presentando l´iniziativa insieme all´assessore Silvio Di Francia: «La cultura è un virus positivo che si trasmette con la lettura dei classici. Roma è una città colta, un magnifico scandalo di questi tempi». Per arginare lo "scandalo", sono pronti posti a sedere anche sulla piazza del Campidoglio.
Da martedì 18 a sabato 20 ottobre. Tutti i giorni tranne lunedì e domenica, alle 21. Ingresso libero fino ad esaurimento posti. Info 06 82059127 (9-19.30). Dal 19 on line su telecomprogettoitalia.com

Corriere della Sera 15.9.07
Le cure a Giovanni Paolo II
Quel sondino che nutriva Wojtyla (ma l'annuncio arrivò molto dopo)
di Luigi Accattoli


La comunicazione è del 30 marzo, il primo impianto a febbraio

CITTÀ DEL VATICANO — Ricordate papa Wojtyla con il crocifisso nelle mani, ripreso di spalle il Venerdì Santo del 2005, otto giorni prima della morte? Aveva il sondino nasogastrico e per non mostrarlo con un segno così invasivo i responsabili della «famiglia pontificia» decisero che la telecamera lo riprendesse solo da dietro o di lato.
L'inserimento del sondino per l'alimentazione sarà annunciato il mercoledì seguente, 30 marzo. Ma in verità il Papa lo portava stabilmente dal lunedì della «settimana santa» e a più riprese gli era stato inserito durante gli ultimi giorni del secondo ricovero al Gemelli, che andò dal 24 febbraio al 13 marzo.
Il vero «trattamento medico» delle ultime settimane di Giovanni Paolo II torna d'attualità a seguito della pubblicazione sul numero di «Micromega » che giunge ora in edicola di un saggio del medico anestesista Lina Pavanelli che si chiede come mai i medici che avevano in cura il Papa gli abbiano applicato il sondino nutrizionale solo l'ultimo giorno prima del crollo finale: «Un atto troppo tardivo per essere di utilità al paziente».
La studiosa evidenzia poi una «contraddizione » tra «l'esperienza umana di Karol Wojtyla — in qualità di paziente — e le dottrine del bene oggettivo da lui pubblicate, che sono la questione capitale delle crociate politiche degli organi istituzionali della Chiesa». Insomma la Pavanelli viene a esprimere «comprensione» per il comportamento dei medici, che — constatando la gravità della situazione del Papa ormai senza prospettive di guarigione — l'avrebbero lasciato «deperire giorno dopo giorno», evitandogli il calvario di trattamenti invasivi — tipo l'alimentazione artificiale — che la dottrina cattolica ritiene invece imprescindibili e doverosi (vedi in questa pagina altro servizio su un pronunciamento venuto ieri in merito ai malati in «stato vegetativo permanente»).
Ebbene senza entrare nella questione medica, né in quella etica, riteniamo che sia possibile una ricostruzione giornalistica dei fatti dai quali — come anticipato sopra — venga a risultare che il sondino era stato applicato molto prima di quando dichiarato.
Abbiamo ricostruito la vicenda del sondino con un'inchiesta tra le persone che accostarono il papa lungo l'ultimo mese, Quella sui tempi del sondino è l'unica discordanza di rilievo che l'indagine ha messo in evidenza rispetto alla narrazione delle ultime settimane pubblicata dagli Acta Apostolicae Sedis il 19 settembre 2005.
«Il 30 marzo — scrivono gli Acta — veniva comunicato che era stata intrapresa la nutrizione enterale mediante il posizionamento permanente di un sondino nasogastrico ». Era stata «intrapresa» infatti, ma non quel giorno!
Alla riga successiva la narrazione ufficiale della morte del Papa così riprende: «Lo stesso giorno, mercoledì, il Santo Padre si presentava alla finestra del suo studio e, senza parlare, benediceva la folla. Fu l'ultima
statio pubblica della sua penosa via crucis ».
Si affacciò — quell'ultima volta — senza sondino, come senza sondino si era già affacciato altre due volte da quando gli era stato inserito con l'intenzione che fosse «permanente». Quando veniva l'ora della finestra gli toglievano il sondino e glielo rimettevano poco dopo. Essendo praticamente annullata la capacità di ingestione di cibi, l'uso del sondino era inevitabile. Ma toglierlo e rimetterlo ogni tre giorni era un tormento che il Papa sopportava male e il medico Renato Buzzonetti ogni volta diceva: «Basta, il Papa non si affaccia più», scontrandosi però con Stanislaw Dziwisz (ora cardinale) che voleva farlo contento: «Il Papa non può essere invisibile».
Si arriva al Venerdì Santo, 25 marzo. Partecipa alla Via crucis dall'appartamento privato. Legge un suo messaggio il cardinale Camillo Ruini: «Offro le mie sofferenze, perché il disegno di Dio si compia e la sua parola cammini fra le genti». Più forte del verbo è l'immagine curva e silenziosa del papa che appare sui maxischermi, ripreso di spalle nella sua cappella, seduto davanti all'inginocchiatoio, che segue la Via crucis attraverso la diretta di Rai 1, guardando verso un grande schermo piatto, collocato davanti l'altare. Molti si chiesero perché quella sera non fosse stato mostrato il volto del Papa. La verità è che non ebbero il coraggio di levargli e rimettergli il sondino. Era a letto, lo vestirono, lo portarono in cappella, dove ebbe la forza di restare inginocchiato e seduto per un'ora e mezza e stabilirono di riprenderlo di spalle mentre teneva quel crocifisso al quale ormai così tanto assomigliava.

«No alla tecnologia se allunga l'agonia»
MILANO — Mantenere in vita una persona grazie alla tecnologia medica non è una vittoria delle macchine piuttosto che della natura?
«La tecnologia — dice Luciano Gattinoni, direttore di Anestesiologia all'Università di Milano — "compra il tempo". Gli interventi "innaturali" sono ammessi a patto che le condizioni di un paziente siano tali da lasciare intravvedere la guarigione. Altrimenti prolungano l'agonia».
«La volontà del paziente va rispettata».

Corriere della Sera 15.9.07
MITI Questa sera a Modena si discute la sua influenza in politica e psichiatria
E il festival di filosofia processa Foucault
di Pierluigi Panza


«Cattivo maestro» anche Michel Foucault? Il festival di filosofia di Modena questa sera gli intenterà un «processo» (Atrio del Palazzo dei musei, ore 21,30) così come, negli anni scorsi, aveva messo sul banco degli imputati Platone, Schopenhauer e Spinoza. E a dire il vero, anche il «Corriere » aveva già avanzato qualche accusa al filosofo di Poitiers il 15 giugno 2005 in un articolo intitolato «Processo a Foucault, il profeta di sventure».
Allora il «Corriere» gli riconobbe il merito di aver denunciato l'autoritarismo medico e i rischi per la privacy (in Sorvegliare e punire), ma sottolineò i catastrofici esiti legislativi e applicativi di chi si richiamò al suo pensiero. Un rilievo che il filosofo Stefano Catucci definì successivamente «non ascrivibile » come responsabilità a un pensatore. Questa sera a mettere «sotto accusa» il pensiero del «maestro» sarà il Teatro Filosofico di Mondotre. «In una riflessione che incrocia psicanalisi, antropologia e filosofia, Foucault identifica il processo di formazione del sapere come uno dei grandi strumenti di controllo delle coscienze nella storia occidentale Michel Foucault (1926-1984)», ha affermato il regista Vittorio Riguzzi nel presentare questo «processo spettacolo » (musiche di Ray Tarantino). «Idolatrato negli anni '70 dai movimenti, Foucault è stato padre di alcuni degli effetti che la sua critica alle istituzioni ha avuto nella sfera del sociale: la cosiddetta antipsichiatria e la lotta contro gli eccessi della detenzione carceraria». Gli interpreti del «processo» cercheranno di stabilire se Foucault sia stato un «vero maestro» o se sia diventato un mito grazie al sostegno di una forte componente ideologica. Voce narrante del «processo» sarà Antonio Baroncini; pubblico ministero Matteo Mugnani; avvocato difensore Vittorio Riguzzi; giudice Ivo Germani.

Corriere della Sera 15.9.07
Una sinistra alla Thatcher
di Ernesto Galli Della Loggia


Naturalmente non ho letto il nuovo pamphlet di Michele Salvati, ancora atteso in libreria, ma mi fido di quanto ne ha scritto ieri sul «Corriere» Dario Di Vico. Dunque, secondo Salvati dovrebbero essere tre i punti qualificanti del nuovo Partito democratico: riduzione delle tasse, sicurezza dei cittadini, flessibilità del lavoro. Leggendo mi chiedevo: ma non era più o meno questo tanto tempo fa il programma di una certa signora Thatcher? Chi l'avrebbe mai detto che dopo 25 anni, sarebbe diventato l'ultimo grido della più scaltra e aggiornata intellighenzia del nostro Paese. Salvati, peraltro, questo lo sa benissimo, sono sicuro, e allora mi chiedo se non gli sia venuto in mente che il sintomo più evidente della crisi storica della sinistra, della sua fine intellettuale, stia proprio nel fatto che ormai, per tenersi politicamente in piedi, essa non riesce a pensare più nulla di suo ma può solo ricorrere, riciclandole, alle idee e ai programmi dei suoi avversari.

Corriere della Sera 15.9.07
Altro che politica, la vera rivoluzione fu sessuale
Mughini: «È stata la pillola, non la classe operaia a rovesciare il mondo»
di Ranieri Polese


Sex Revolution, ovvero la rivoluzione sessuale. E uno pensa subito al cocktail Freud-Marx preparato dall'eretico freudiano Wilhelm Reich, quello che riteneva inscindibile la liberazione della sessualità dalla rivoluzione sociale. Invece, nonostante il titolo, il nuovo libro di Giampiero Mughini (in uscita per Mondadori) non vuol essere un manifesto, non propone lotte e prese di Palazzi d'inverno. È piuttosto un racconto, sul filo della memoria e con il corredo di una splendente galleria di immagini, delle stagioni fra i '50 e i '70 in cui, nei fatti, si cambiò il modo di essere nel mondo, quando cioè l'immaginazione sessuale prese veramente il potere. «Fra le molte cose e persone che dettero l'avvio a questo mutamento» ci dice Mughini «la musica ha avuto un ruolo importante. Nell'America degli anni '50, l'irrompere di Elvis Presley e il modo con cui muoveva il bacino fece scoprire a tutti noi di avere un corpo. Il corpo, fino ad allora, era assente. Certo non c'era nei testi di Marx che io, come altri giovani di allora, leggevo e studiavo. Naturale, quindi, che la Sex Revolution sia andata a traino del rock and roll». E la politica, i movimenti rivoluzionari, le lotte di massa? «Macché, niente. Del resto, come scriveva il poeta Milosz, non c'è niente di meno erotico dei paesi e dei corpi del socialismo reale. È stata la pillola anticoncezionale e non la classe operaia a rovesciare il mondo».
Se questo è successo, il merito va a un certo numero di persone che in quegli anni hanno cominciato ad andare oltre i confini imposti dalla tradizione. Rischiando condanne, censure, forse nemmeno sapendo dove l'immaginazione e il bisogno li avrebbero portati. Comincia tutto negli anni '50, anche se c'era già stata un'antesignana della rivoluzione. Louise Brooks, l'attrice americana che fu la Lulu di G.W.Pabst ( Il vaso di Pandora, 1928), troppo presto dimenticata ma da sempre cara ai cinefili e a quanti riconoscevano in lei il potere «radioso» dell'eros. Di lei lo scrittore inglese Kenneth Tynan che la incontrò nel 1978, sette anni prima della sua morte, scrisse: «È l'unica attrice cinematografica che varrebbe la pena fare propria schiava o di cui diventare schiavo». In questo misto indissolubile fra dominio e sottomissione, desiderio e sogno, inferno e paradiso sta la grande lezione che Lulu-Louise ha consegnato ai posteri. Primo fra gli altri, a Guido Crepax, la cui Valentina — nata nel 1965 sulla rivista Linus — era un omaggio al taglio di capelli, al corpo, alla disinibita natura dell'attrice.
Gli anni '50 sono gli anni di Brigitte Bardot (da sempre idolo di Mughini) e del libro destinato a fare da spartiacque nella letteratura erotica, anzi, meglio, nella letteratura tout court. Si tratta di Histoire d'O, pubblicato quasi clandestinamente nel giugno 1954 a firma Pauline Réage. Dietro quel nome si nascondeva Dominique Aury, collaboratrice e amante di Jean Paulhan, il direttore di Gallimard che non volle però mai divorziare. In quelle pagine la fantasia erotica celebrava il connubio fra grande scrittura e sadomasochismo (O, la protagonista, si assoggetta a ogni fantasia del suo amante- padrone), qualcosa che avrebbe segnato molti artisti a seguire, Crepax per esempio che ne fece una versione disegnata, e soprattutto il fotografo Helmut Newton.
Negli anni '50 e '60, la festa mobile dell'eros sposta continuamente i suoi scenari. A New York, Andy Warhol crea gli intensi ed effimeri miti di donne fatali come Edie Sedgwick (una che sotto il visone niente) e Nico, la biondissima cantante dei Velvet Underground. A Roma, Mario Schifano traduce in arte la nuova stagione di un sesso senza se e senza ma. A Londra, intorno ai Rolling Stones (infinitamente più erotici dei rivali Beatles) vorticano le bellezze allarmanti di Marianne Faithfull e Anita Pallenberg. Il tutto accompagnato da un uso massiccio di droghe molto ma molto pesanti, che spesso fanno chiudere in tragedia le sfavillanti meteore di questi decenni. Sex & Drugs & Rock'n Roll, si diceva. Un dato che Mughini registra, senza aderire, senza giudicare. Ma anche, dice, confessando di essere «un totale analfabeta in materia. Non ho mai fumato uno spinello, né pensato di farlo. Personalmente ho sempre avuto un atteggiamento di totale chiusura per tutto ciò che fa perdere la lucidità. Anche se a volte poteva essere un incredibile moltiplicatore di sensibilità».
In questo olimpo di liberi & belli trovano posto anche fotografi passati nell'oblio, modelle dimenticate, stilisti morti, immagini una volta definite indecenti. Che, comunque, il tedesco Benedikt Taschen, editore di grandissimo talento che se la ride di quanti credono che ci sia una linea divisoria fra erotismo e pornografia, fa risorgere dall'oblio nei suoi illustratissimi libri. Libri che perpetuano il piacere sommo, quello del guardare, in lode del quale Mughini, nel suo libro, racconta un aneddoto interessante. Del fotografo scozzese John McEwan che un giorno, in spiaggia, contempla la bellissima amica addormentata, «vestita della sola mutandina del bikini che si è come sperduta fra le natiche». Potrebbe passare all'azione, invece sceglie di guardare, cioè fotografare. «Capisce» ci spiega Mughini «che la vera delizia sta nel guardare, non nel sesso da camionista, 125 botte e via». E oggi, che cosa succede? C'è ancora chi, come Kate Moss, riassume in sé il carisma della sex revolution. Ma per il resto si ha l'impressione di una ovvia mercificazione. Che la Sex Revolution, vittoriosa, abbia finito solo per produrre un nuovo imballaggio per ogni tipo di merci. In America c'è la Raunch Culture, quella delle adolescenti spogliatissime che imitano Paris Hilton. Da noi ci sono le aspiranti veline, le sciacquette e le telesquinzie. E allora, si chiede Mughini, ne valeva la pena? «Tra telesquinzie e sessuofobia, io sto con le telesquinzie» ci dice. «La sessuofobia è un verme duro da morire. Ancora oggi non si fa salire in aereo una ragazza perché ha la minigonna e in America si vietano i jeans a vita bassa. Mi ricordo troppo bene gli anni della mia giovinezza in cui tutto era proibito. Io non voglio vivere in un convento francescano. Meglio le telesquinzie, che poi, scusate un po', che male fanno?». Eppure c'è chi parla della perdita dei valori... «Ma i grandi valori non sono necessariamente quelli della Chiesa. In questo proprio dissento dai cari amici del Foglio, che ormai mi sembrano diventati più clericali di Ruini».

Liberazione 15.9.07
Il dogma prima dei soggetti
di Angela Azzaro


Il papa, tramite la Congregazione della dotrina della fede, ribadisce che «lo stato vegetativo è una vita da rispettare». Che bisogna nutrire un malato fino all'ultimo, contro la sua volontà, il suo desiderio, sbattendosene se soffre o non soffre. Infischiandosene del parere di parenti, amanti, amici. Si chiama accanimento terapeutico in alcuni casi anche tortura: Invece loro la chiamano vita. E' l'ennesimo attacco all'eutanasia e alle libertà individuali che sono diventate l'ossessione permanente di Ratzinger. La vita è un dogma, un principio indissolubile. Non è vita quella del rom o del lavavetri, non è vita quella di tanti migranti. Quelli non meritano dichiarazioni della Congregazione, appelli sui giornali, comizi tenuti nelle chiese cattoliche di tutto il mondo. Loro no. La vita vale solo se serve a ribadire il potere del Vaticano, a segnare il limite di un controllo sociale da esercitare sugli uomini e sulle donne. Soprattutto le donne, contenitori non soggetti, per feti che - invece - sono diventati persone prima di loro, alla faccia loro.
L'attacco all'aborto è pesante. Insopportabile. E non basta più stare a guardare, simbolo come è di un ritorno indietro per le donne e, quindi, per tutta la società. Il rischio è diventato realtà e forse vale la pena tentare di bloccare la connivenza della politica al messaggio papale prima che sia troppo tardi, prima che anche la 194 venga, definitivamente, svuotata di senso e di efficacia. Ma l'indignazione è su tutto. Su tutte le libertà individuali e sessuali, prese a calci.
Ieri è stata anche la giornata in cui si è inaugurata la nuova stagione della messa in latino. Un altro dogma. Pesante. E' segno di una chiesa chiusa al mondo, misterica, che non vuole dialogare, ma dettare legge. E' la fine della chiesa conciliare, quella dell'apertura al marxismo, ai deboli, agli sfruttati, ai paesi non occidentali. La chiesa che sapeva parlare agli uomini e alle donne. A tutti. La chiesa della messa in latino non ci piace, di quell'apertura gli è forse solo rimasta la capacità di usare i mezzi di comunicazione come scritto negli atti del Concilio Vaticano II. Non ci piace, ma a questo punto va bene così. Sì, che il Vaticano si tenga pure le frasi incomprensibili, l'incapacità di difendere gli indifesi, di dare voce a coloro che non hanno voce. Si tenga le sue teorie sulle vita (smentite dai suoi stessi fedeli). A noi ci lasci però la libertà di scegliere, di vivere, di morire, di andare a letto con chi vogliamo, di essere chi vogliamo.
Il senso comune, senza che ce ne accorgiamo, si sta spostando. Verso il clericalismo, il dogmatismo, la norma che definisce i rapporti sociali e sessuali. E' la guerra contro i lavavetri, l'attacco alla libertà delle donne di decidere quando e se accogliere un'altra vita. Ma in giro c'è anche tanta indignazione, tante donne, tanti uomini che sentono di non poterne più di una politica supina al volere delle gerarchie cattoliche. Dare voce a questa indignazione è diventato urgente. Improcrastinabile.


Liberazione 15.9.07
La sinistra unita si dà una data: stati generali dopo il 20 ottobre
L'annuncio di Giordano e Mussi intervistati da Lucia Annunziata a LiberaFesta a Torino. «Processo unitario irreversibile»
di Angela Mauro


«Se non ottenete risultati dopo la presentazione del documento unitario della sinistra sulla Finanziaria, lo si fa cadere questo governo?», incalza Lucia Annunziata. Sia Giordano che Mussi pescano nel fondamentale ottimismo di chi fa politica. Per il primo la chiave sta nell'unità della sinistra: «Abbiamo già deciso di fare la federazione per ridare efficacia all'azione della sinistra nel governo. Siamo di fronte ad un Pd autoritario, che decide, sceglie. A noi è chiesto solo di seguire, quando possiamo emendare ci va alla grande! Io rivendico l'internità al governo, voglio contare e incidere». Il leader di Sinistra Democratica sposta il centro del problema: «Non sta nel rapporto tra noi e il governo, ma nel rapporto tra il governo e la gente». E non bisogna dimenticare «il terzo incomodo: non ci siamo solo noi e il Pd. C'è un rischio che si chiama destra e che sia il cesarismo a fornire risposte alla crisi della politica». Oppure Beppe Grillo, la butta lì Annunziata. «Dice cose condivisibili ma non lo seguo sul terreno del giustizialismo», interviene Giordano. Mussi dice di avere «i brividi sulla schiena: Grillo dà una risposta populista che prospera sulla crisi, non la modifica». 
Nel dibattito trova naturalmente spazio anche il no della Fiom al protocollo del 23 luglio sul welfare, con i problemi che ha gettato sul percorso unitario a sinistra. «Un atto squisitamente sindacale. Un governo democratico non può rispondere con un "era scontato" - è la critica di Giordano a Prodi - Si parla dei fischi di Mirafiori solo quando fa comodo a certi poteri e a certa stampa che vogliono male a questo governo. Poi però la sofferenza nelle fabbriche viene oscurata». 
Ma anche sullo spinoso "affare Fiom" Giordano e Mussi riescono nel gioco di squadra, rispondendo ad una Annunziata scettica sulla coerenza di Rifondazione che, «in rispetto della democrazia e dell'autonomia dei lavoratori», non farà campagna per il no al referendum su pensioni e lavoro. Il leader di Sd interviene addirittura in difesa del suo collega della sinistra unitaria: «Fa il dirigente politico, non sindacale». 
Il resto è linea comune sulla necessità di una legge sulla rappresentanza sindacale («Io e Franco la chiediamo insieme dal 2000»), sull'auspicio che non si determini una spaccatura tra la Cgil e la Fiom e anche sui propositi emendativi dell'intesa sul welfare: «Non dobbiamo mirare nel mucchio ma batterci per obiettivi concreti - dice Mussi - La norma sui contratti a termine, contenuta nel protocollo del 23 luglio, non va bene: diciamo no ai sindacalisti di fiducia che certifichino la tua precarietà». Il riferimento è alla clausola secondo cui, oltre i 36 mesi, un contratto a termine può essere prorogato presso la direzione del lavoro in presenza di un sindacalista. Ristabilire la centralità del lavoro a tempo indeterminato, è la parola d'ordine unitaria. Diversi invece i giudizi sull'intesa siglata da governo e sindacati sulle pensioni, ma questo è noto e finisce per essere solo accennato nel dibattito di Torino. «La Fiom ha fatto bene. Noi facciamo la politica in Parlamento - dice Giordano - Decideranno i lavoratori con il referendum. Noi il nostro giudizio lo abbiamo dato, anche sullo scalone. Troveremo insieme le forme per modificarlo in Parlamento». Applausi (molti gli operai Fiat in platea).
Di qui al 20 ottobre «ne passerà di acqua sotto i ponti», conclude Mussi. Di certo, ci sarà un po' più di chiarezza a fine mese, quando il consiglio dei ministri licenzierà la manovra economica. Giordano parla in numeri: «non i nostri, ma quelli citati da Mucchetti sul Corriere della Sera , secondo cui le 38 imprese più forti del Paese hanno migliorato le loro performance negli ultimi 5 anni, ma la condizione dei lavoratori è regredita; i dati Istat che parlano di famiglie indebitate per metà dei loro redditi; quelli di Confindustria che dicono di una ripresa dell'emigrazione dal sud come negli anni '60: 850mila ragazzi negli ultimi 10 anni; e ancora i dati Istat sulle retribuzioni che in Italia aumentano meno che nel resto dei paesi europei». Mussi fa di sì con la testa: «Non parliamo di cose estremistiche, ma delle uniche cose ragionevoli che si possono fare. E noi abbiamo la forza per cambiare le cose, quella di 150 parlamentari», tra Prc, Sd, Verdi e Pdci. Il Partito Democratico («Cosa grigia, se la nostra è rossa...», dice il leader di Sd criticando la corrispondenza cromatica usata dalla stampa per denominare la sinistra unita) faccia come vuole: la sfida è aperta. «Loro equidistanti tra lavoro e impresa, noi con i lavoratori», osserva Giordano riattualizzando Berlinguer e la sua questione morale sul caso Unipol («E' sbagliata l'idea di farci la nostra banca»). Cosa gradita all'ex Ds Mussi che, appunto, rende la cortesia scegliendo di usare una terminologia cara a molti militanti del Prc: «okkupare» la parola sinistra. Veltroni? «Spero che ce la faccia - aggiunge l'ex diesse - ma non condivido la sua impostazione. Non mi auguro il naufragio del Piddì, altrimenti si aprirebbe un buco nero in cui sprofondiamo tutti. Ma io sono molto felice dove sono: non ho ripensamenti». Obiettivo: una sinistra che esca dalle urne «con due cifre. Abbondanti».