lunedì 17 settembre 2007

l’Unità 17.9.07
Bertinotti chiama in piazza Sd per il 20 ottobre
E aggiunge: i ministri decidano secondo coscienza. «Se si sta al governo a tutti i costi non si è più sinistra»
di Giuseppe Vittori


«Se la sinistra scegliesse in modo aprioristico di non andare al governo, si condannerebbe ad essere sempre minoritaria. Al tempo stesso però, se volesse stare al governo a tutti i costi, smetterebbe di essere sinistra». Lo ha detto il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, nel corso del suo intervento alla Festa del Partito comunista francese a Parigi. Insomma la partecipazione non deve essere la questione più importante, deve esserlo il come. Inoltre, a parere di Bertinotti, se la sinistra alternativa non avesse contribuito a costituire i presupposti per una sconfitta di Berlusconi, «sarebbe stata cancellata». In Italia i tempi sono maturi per chiudere la vicenda degli anni di piombo, «ma serve una soluzione che sia consensuale», ha aggiunto il presidente della Camera: «L’Italia - dice Bertinotti, con qualche dissenso dalla platea - deve rispettare le scelte compiute da altri Paesi: sia quando c’è la dottrina Mitterrand sia quando ci sono scelte diverse». Più in generale, però, «l’Italia deve trovare la capacità di dare una soluzione definitiva a un problema storico. C’è stata - ricorda Bertinotti - la scelta difficile, ma di civiltà giuridica, sull’indulto. Ora credo si debba trovare il modo di chiudere definitivamente il capitolo degli ’anni di piombò nel rispetto di tutti e con la valorizzazione di chi è stato impegnato sul fronte della difesa della democrazia».
Poi è entrato nel merito delle cose italiane. La sinistra sarà divisa il 20 ottobre nella protesta sull’accordo per il welfare? «Vedremo se lo sarà, lo vedremo sulla piazza». Fausto Bertinotti si sofferma sull’appuntamento del «Sinistra day». Bertinotti dice di confidare che anche Sinistra democratica «sarà larghissimamente presente», perché dire, come ha fatto Mussi, «di non ostacolare la manifestazione, può essere preso in positivo da questo lato, invece che da quello del non partecipare. La sinistra può andare d’accordo, prima, durante e dopo il 20 ottobre». Secondo Bertinotti ad essere superata è «l’idea della falange macedone, che è stata l’idea dell’unità che avevano in passato le sinistre. Secondo me - sottolinea - ha fatto il suo tempo; quindi anche per una stessa formazione politica si deve parlare più di un arcipelago che non di un monolite. Il pluralismo non è più semplicemente, come in passato, quello delle correnti, ma è quello delle esperienze e del camminare insieme, anche con diverse articolazioni. L’importante è che le cose che si fanno siano reciprocamente compatibili». A chi gli chiede se i ministri potranno essere in piazza il 20 ottobre, Bertinotti risponde: «È un argomento che direttamente non posso affrontare. In generale penso che anche per i ministri valga il principio della manifestazione della propria individualità, anche fino all’obiezione di coscienza, ma di fatto poi si sceglie secondo un principio di opportunità e questa la valutano i singoli ministri». «Vedremo se il 20 ottobre la sinistra parteciperà divisa, attendiamo il risultato della piazza. Io confido che la sinistra, il suo popolo, ed anche Sinistra democratica, sarà larghissimamente presente», ha detto il presidente Bertinotti. La domanda che i cronisti rivolgono a Bertinotti è proprio sulla manifestazione del 20 ottobre. «Anche dire di non ostacolare la manifestazione - ha proseguito - può essere preso dal lato di coloro che sono a favore invece che tra quelli che non partecipano. In ogni caso la sinistra può andare d’accordo prima, durante e dopo la data del 20 ottobre».
Riguardo alle recenti polemiche sulla partecipazione di rappresentanti del governo alla manifestazione del 20 ottobre, Bertinotti ha spiegato che in particolare, sul punto, non vuole intervenire ma si sofferma, in generale, sulla questione: »In teoria dico che per la partecipazione dei ministri ad una manifestazione deve valere il principio che suggerisce la propria individualità, fino all’obiezione di coscienza, ma in genere si sceglie una linea di opportunità, di valutazione di fatto».

l’Unità 17.9.07
Angius e Boselli «per il partito del socialismo europeo»


ROMA È stato il primo appuntamento pubblico in vista di un nuovo partito socialista «in Italia come in Europa». Il primo appuntamento della costituente socialista svoltosi ieri mattina a Milano alla presenza del segretario dello Sdi, Enrico Boselli, e del vicepresidente del Senato Gavino Angius dal titolo emblematico «Per un partito del socialismo europeo». Con la sua presenza Angius ufficializza la sua rottura con la Cosa Rossa di Fabio Mussi, anticipata dalla sua stessa assenza all’assemblea del Comitato promotore nazionale della Sinistra democratica. «Per me l’approdo alla Costituente socialista è stato un percorso naturale - ha detto Angius - è da tempo che andavo manifestando il mio dissenso». Era sua la terza mozione presentata al Congresso della Quercia di aprile quando, salutato il progetto del Pd, si era unito a Mussi per la Sinistra democratica europea. Suo il messaggio di apprezzamento all’iniziativa promossa tra gli altri da Lanfranco Turci «Verso la Costituente laica e liberal socialista». Suoi, infine, i ripetuti appelli a non «rinchiudere la Sinistra Democratica in un rapporto privilegiato con Rifondazione e Pdci» e riconoscersi nei valori del socialismo europeo, intorno ai quali si è consumata la rottura con Mussi. «Ho firmato un appello per un partito del socialismo in Italia come in Europa - ha spiegato ieri mattina Angius - per aprire una strada verso un partito nuovo, non la somma di quello che c’è o che c’è stato. Penso ad un partito nuovo in cui si riconoscano forze politiche diverse, forze di sinistra, forze laiche per una cultura moderna più avanzata». «La cultura dei socialisti democratici - ha proseguito - costituisce la più avanzata frontiera culturale in grado di parlare ai bisogni, alle esigenze della gente».

l’Unità 17.9.07
«Wojtyla ha rifiutato alcune cure»
L’anestesista di Welby: ha esercitato il suo diritto di autodeterminazione


Riccio: ma la Chiesa chiama questo atto eutanasia passiva
Subito la legge sul testamento biologico

«Nessuno può sostenere con certezza che oggi Papa Wojtyla, se non avesse rinunciato a tutta una serie di cure previste nel suo caso, non sarebbe ancora vivo». È la provocazione, contenuta in una nota diffusa dall’associazione Luca Coscioni, di Mario Riccio, l’anestesista che praticò il distacco del respiratore a Piergiorgio Welby, leader radicale. «Ritengo che il Papa abbia rinunciato a tutta una serie di cure previste nel suo caso, tra cui la ventilazione meccanica e l’alimentazione. Inoltre il dottor Mario Melazzini disse, in un’occasione pubblica, che il Papa avrebbe rinunciato anche alla terapia farmacologica anti-Parkinson per le supposte alterazioni della coscienza che questa avrebbe potuto generare, preferendo, sempre a detta di Melazzini, “rimanere lucido” fino alla fine». «Nel rifiutare delle cure Papa Wojtyla ha esercitato un suo diritto - ha spiegato Riccio - Secondo me questa si chiama autodeterminazione, mentre la Chiesa più volte, in particolare durante lo sviluppo della vicenda Welby, ha preferito parlare di “eutanasia passiva od omissiva”». «Questo è nodo fondamentale - ha concluso Riccio - se è vero che non si arriva alla legge sul testamento biologico per l’opposizione di alcuni esponenti politici teo-dem della maggioranza che sembrerebbero accettare l’idea delle direttive anticipate, salvo poi svuotarle di significato escludendo categoricamente la possibilità di sospendere ventilazione ed alimentazione. Il ragionamento secondo cui queste ultime, una volta iniziate, non si possono interrompere, non regge assolutamente nè da un punto di vista etico nè giuridico».

l’Unità 17.9.07
Il pensatore greco commentato da Salomon J. Luria
Democrito: viaggio alle origini del materialismo
di Salvo Fallica


La genialità di Democrito spiegata da un grande studioso del Novecento: stiamo parlando del filologo russo Salomon J. Luria, il cui capolavoro è pubblicato adesso in Italia da Bompiani, nella prestigiosa e raffinata collana dedicata alla storia del pensiero. Democrito di Abdera può essere considerato il punto di arrivo di tutta la filosofia naturalista presocratica, per la sua meditazione e soluzione in senso pluralista delle aporie eleatiche sull’essere e sul nulla che reinterpretò come atomi e vuoto. Ed ancora, per la sua «traduzione fisica del pitagorismo matematico». Democrito è un pensatore che ha segnato la storia della cultura, e «già in epoca antica, le sue intuizioni sulla struttura atomica della materia, la vastità della sua produzione scientifica, e la profondità delle sue sentenze morali, gli meritarono una menzione speciale come uno dei più importanti filosofi da porre sullo stesso piano di Platone e Aristotele». Democrito è il fondatore, il punto di riferimento di ogni tradizione materialista, che passando per Epicuro è giunta sino a Karl Marx. Non a caso, l’autore del Capitale incentrò la sua tesi di dottorato su questi due importanti pensatori dell’antichità.
Il testo di Luria, pubblicato postumo a Leningrado nel 1970, è un capolavoro per la capacità di analisi e di sintesi del pensiero di Democrito, per la ricostruzione filologica della sua opera, per il commento e gli apparati critici. Per la minuziosa ricostruzione storica e culturale, per l’analisi filosofica e linguistica. «La raccolta dei frammenti superstiti di Democrito raddoppia per estensione la sezione sugli atomisti antichi della classica edizione tedesca di Diels e Kranz, ma soprattutto il vastissimo commentario ci restituisce un Democrito precursore della scienza antica a tutto campo, e per certi versi, molto più “moderno” di Aristotele sul versante della fisica e della biologia». Altro punto nodale dell’interpretazione di Luria, è quello di ricostruire in chiave dialettica e polemica l’evoluzione del pensiero greco, contrapponendo «materialisti» e «idealisti», con un’evidente predilizione intellettuale per i primi. Ma non si ferma qui. Luria elabora e struttura una innovativa storia degli effetti della meditazione democritea.

Repubblica 17.9.07
Il presidente della Camera a Parigi per la festa del Pc francese: costruire un soggetto forte, capace di costruire consenso
"Al governo, ma non a tutti i costi"
Bertinotti: la sinistra rischia la sua identità. Il V-Day? Populismo
di Enrico Bonerandi


Le difficoltà. Se non avessimo contribuito alla sconfitta di Berlusconi saremmo stati cancellati dalla storia. Ma ora quell´alleanza molto ampia causa problemi di tenuta

PARIGI - Il presidente della Linke tedesca, Lothar Bisky, gli tesse pubblici complimenti: «Bravo Bertinotti, che quando non sei stato d´accordo te ne sei andato dal governo e l´hai fatto cadere». Il presidente della Camera sorride sornione sul palco dei dibattiti alla festa parigina dell´Humanité, cita Marx e lancia un appello perché la sinistra alternativa si unisca in tutta Europa.
Ovazioni. Bisky non sa che, poco prima, parlando con i cronisti italiani, Fausto Bertinotti ha toccato proprio quell´argomento, che lui stesso definisce «difficile»: «La Sinistra non può scegliere di stare al governo a tutti i costi, perché così smetterebbe di essere sinistra». A ruota, cita la manifestazione del 20 ottobre contro l´accordo sul Welfare. Per Bertinotti, la sinistra sarà unita in piazza, pure Fabio Mussi e i suoi. Un avvertimento a Prodi e l´invito alla sinistra critica di compattare i ranghi, «anche se l´idea della falange macedone ha fatto il suo tempo».
Quando arriva a Parigi a fine mattina, il presidente della Camera è di ottimo umore e pure il popolo della Festa dell´Humanitè gioisce del primo sole caldo da settimane. Se il Pc francese è ai minimi storici (meno del 2% alle ultime elezioni), la storica festa alla Courneuve - che servì da esempio nel dopoguerra alle feste dell´Unità - è affollata come non succedeva da anni, e tutti i leader della sinistra, a cominciare dal segretario socialista Hollande al sindaco di Parigi Delanoe, ci sono passati, magari tra qualche sberleffo. Fausto Bertinotti si guarda attorno compiaciuto e commenta: «Se uno non sapesse, penserebbe che questa è la festa di un partito grande, come minimo al 20 per cento dell´elettorato. Ma non è così. C´è uno scollamento tra il radicamento sociale e la rappresentanza politica. E´ per questo che in Francia come in Italia va costruito un soggetto forte e credibile, capace di costruire consenso».
Si torna al tema della sinistra al governo. Spiega ai francesi: «Se la sinistra italiana non avesse contribuito alla sconfitta di Berlusconi e a costruire un´alternativa di governo, sarebbe stata cancellata dalla storia. Per vincere, bisognava costruire un´alleanza molto ampia, e infatti sono subito sorte difficoltà nonostante si sia sottoscritto un programma comune». Ai cronisti italiani Bertinotti parla di un «rischio-Grillo»: «Colma i vuoti della politica. I materiali con cui si riempiono questi vuoti possono essere buoni o cattivi. Se non c´è una risposta forte della politica, c´è il rischio che la protesta conduca all´esito opposto di quanto si propone. Da un movimento che contiene elementi di populismo si potrebbe passare a un governo tecnocratico. La politica potrebbe essere sostituita da un´idea e da un ceto espressione diretta dei poteri forti e dell´economia di mercato. In questa situazione confusa, può capitare che la stessa persona critichi da sinistra l´accordo sul Welfare, applaudisca Grillo e voti Lega».
Sempre agli italiani, il presidente della Camera parla della Rai: «Va ripensato il servizio pubblico a partire dai contenuti, che devono essere in sintonia col Paese, cosa che non è più, perché si usa un linguaggio sempre più commercializzato». Le nomine? «C´è in parlamento la riforma Gentiloni. Ci sarà tempo per discuterne». I ministri in piazza il 20 ottobre? «In generale penso che anche per i ministri valga il principio della manifestazione della propria individualità, anche fino all´obiezione di coscienza, ma di fatto poi si sceglie secondo un principio di opportunità, e questa la valutano i singoli».
Quando il moderatore del dibattito dà la parola al pubblico per le domande, quasi tutte sono per Bertinotti. Sull´allargamento della base usa di Vicenza, il presidente della Camera glissa. Ed è molto diplomatico quando gli chiedono un giudizio sull´estradizione degli ex terroristi italiani rifugiati in Francia, deludendo la platea: «L´Italia deve rispettare le scelte degli altri Paesi, come la Francia. Sia quando questa applica la cosiddetta dottrina Mitterand sia quando si comporta in un modo diverso». Poi aggiunge: «L´Italia deve trovare la capacità di una soluzione definitiva di questo problema storico. Una soluzione consensuale, nel rispetto di tutti. C´è stata la scelta difficile, ma di civiltà giuridica, sull´indulto. Ora credo si debba trovare il modo di chiudere definitivamente il capitolo degli anni di piombo».

Repubblica 17.9.07
L'abbraccio con Veltroni al convegno dei "Coraggiosi" e la sfida ai radicali: "Cambiamo musica"
Rutelli: no ai conservatori di sinistra
Il leader della Margherita chiede un cambio di rotta: "Oppure rischiamo di consegnare il paese alla peggior destra d'Europa"
di Umberto Rosso


SANTARCANGELO DI ROMAGNA - Centrosinistra, è ora di cambiare musica. E come? Con l´alleanza di nuovo conio. Di cui fornisce la lettura autentica: accordare gli strumenti dell´orchestra, magari aggiungerne qualcuno ma soprattutto «scrivere spartiti nuovi». Il rischio, diversamente? «Riconsegnare il paese alla peggiore destra di tutta Europa». Francesco Rutelli chiude il raduno dei coraggiosi e chiude al tempo stesso la lunga, breve vita della Margherita, con al fianco Walter Veltroni che racconta il suo Pd. «Non sarà il partito del leader. E non sarà il partito degli ex. La missione è conquistare il mare magnum del 44 per cento di indecisi». Tornano a fare coppia. Walter e Francesco. Dammi il cinque e baci sulle guance, i rutelliani pigiati in sala (ma anche con parecchi ds, in omaggio all´operazione corrente-trasversale) a godersi entusiasti lo spettacolo del ticket dei loro sogni. Prodi ha appena ringraziato Fassino? Veltroni rivolge un caldo, pubblico, affettuoso grazie Francesco che, come Piero al quale l´avevo già detto, non hai mai pensato al tuo ruolo personale nella costruzione del Pd. Il vicepremier si alza e va ad abbracciarlo. «Conta su di noi». Ma il direttore d´orchestra in carica sul podio di Palazzo Chigi, ha qualcosa da temere dalle grandi manovre in corso? Nessun dualismo fra Pd e Prodi, assicura Rutelli, «noi vogliamo rafforzare il governo ma dialogando con il paese in difficoltà». Veltroni: «C´è una coalizione al quale va il nostro sostegno, ma il Pd deve coltivare la sua vocazione maggioritaria».
Nel nuovo partito, come dice di lì a poco dal suo intervento, Rutelli vuole traghettare al gran completo la Margherita. «Avverto questo dovere, di portare la rappresentanza del nostro intero partito nel Pd, di tutta la sua forza parlamentare ed elettorale, che è molto di più di quel quattro per cento iniziale». Tradotto: se i Popolari hanno ripreso vita dopo aver toccato il fondo elettorale, lo devono alla nascita dei dielle.
Non ci provate ora a tagliarci fuori. Ma Marini due giorni fa non si era presentato da colomba di fronte ai coraggiosi? «Vanno bene le sue parole, e anche quelle di Dario Franceschini - è la risposta - però non sempre è andata così, per esempio nella scelta dei segretari regionali». Fiducia condizionata. Quindi, nella tre giorni di Santarcangelo, frenetica attività parallela in salette e corridoi per chiudere le liste che a fine settimana i rutelliani presenteranno in alcune regioni. Ma questo, in fondo, come mette in guardia Veltroni, è solo il capitolo della politique politicienne. Il candidato segretario, e sulla stessa lunghezza d´onda il presidente della Margherita, vola alto e lancia la sfida del «coraggio dell´innovazione». Progetta la conquista del grande bacino di teorici elettori del Pd, quel 44 per cento radiografato nel sondaggio di Repubblica. Se il nuovo partito ha da essere davvero a vocazione maggioritaria, è in questo territorio che bisogna avventurarsi. «Penso più ai potenziali consensi che alla percentuale ferma al trenta per cento, su cui pure bisogna riflettere». Il grande serbatoio dell´antipolitica. In un «paese fermo, sfiduciato, attraversato da rabbia, frustazione». Con una macchina politica lenta, che invade troppo, e perciò Veltroni vuole i partiti fuori dalla Rai cancellando il Cda. Consensato in uno slogan: «Meno tv. Meno spin doctor e più vita reale». O l´operazione Pd riesce oppure, avverte Veltroni, «si chiude per sempre una pagina di storia». Con un´avvertenza: lo scontro per componenti è consentito fino al 14. Dal 15 ottobre sarà un´altra storia. «Un partito in cui ciascuno sarà se stesso, pluralità di teste e di opinioni, ma niente correnti».

Repubblica 17.9.07
L'ideologia senza ideali
di Zygmunt Bauman
L'intervento del sociologo al Festival di Filosofia a Modena


C'è chi crede che cercare una società giusta sia una perdita di tempo
Cosa significa l'invito di Sarkozy a "guadagnare e lavorare di più"
Questo pensiero proclama che è inutile, anzi dannoso, unire le forze per una causa comune
Così si prende di mira la solidarietà sociale e si deride il principio della responsabilità collettiva

Lo scorso giugno, poco dopo la sua elezione a Presidente della Francia, Nicolas Sarkozy ha dichiarato in un´intervista televisiva: «non sono un teorico, non sono un ideologo, non sono certo un intellettuale: io sono uno concreto». Cosa voleva dire con queste parole? Con ogni probabilità voleva dire che crede fermamente in talune convinzioni mentre con altrettanta fermezza ne respinge risolutamente altre.
Dopo tutto ha affermato pubblicamente di essere un uomo che crede «nel fare, non nel pensare» e ha condotto la sua campagna presidenziale invitando i francesi a «lavorare di più e guadagnare di più». Ha detto più volte agli elettori che lavorare più duramente e più a lungo per diventare ricchi è cosa buona. (Si tratta di un invito che i francesi sembrano aver trovato attraente, anche se non l´hanno affatto ritenuto unanimemente sensato dal punto di vista pratico: secondo un sondaggio TBS-Sofres il 39% dei francesi ritiene che sia possibile diventare ricchi vincendo la lotteria, contro il 40% che ritiene che si diventi ricchi grazie al lavoro). Dichiarazioni come queste, se sono sincere, rispettano tutte le condizioni della credenza ed espletano la funzione principale che ci si attende dalle credenze: dicono cosa si deve fare e suscitano fiducia che, così facendo, si otterranno risultati positivi. Manifestano inoltre l´atteggiamento agonistico e partigiano normalmente connesso con una «ideologia».
Alla filosofia di vita di Nicolas Sarkozy manca solo una delle caratteristiche delle «ideologie che abbiamo conosciuto finora», ossia una qualche concezione di una «totalità sociale» che, come suggerito da Emile Durkheim, sia «maggiore della somma delle sue parti», vale a dire diversa, per esempio, da un sacco di patate e quindi non riducibile al cumulo dei singoli elementi in essa contenuti. La totalità sociale non può venire ridotta a un aggregato di individui ciascuno dei quali persegua le sue finalità private e sia guidato dai suoi desideri e dalle sue regole private.
Le reiterate affermazioni pubbliche del Presidente francese suggeriscono invece proprio una riduzione di questo tipo.
Non sembra che le previsioni sulla «fine delle ideologie», comuni e largamente accettate venti-trent´anni fa, si siano avverate o stiano per farlo. Le apparentemente paradossali affermazioni che ho citato indicano invece la sorprendente svolta compiuta oggi dal concetto di «ideologia». In contrapposizione a una lunga tradizione, l´ideologia che viene attualmente predicata dai vertici perché sia fatta propria dal popolo coincide con l´opinione che pensare alla «totalità» ed elaborare concezioni della società giusta sia una perdita di tempo, in quanto irrilevante per i destini individuali e per il successo nella vita. La nuova ideologia non è un´ideologia privatizzata, e del resto tale nozione sarebbe un ossimoro, perché l´erogazione di sicurezza e di fiducia in se stessi che costituisce il principale impegno delle ideologie e la condizione primaria del loro carattere seduttivo sarebbero irrealizzabili senza un´adesione pubblica e di massa. Essa invece è un´ideologia della privatizzazione. L´invito a «lavorare di più e guadagnare di più», invito rivolto agli individui e adatto solo a usi individuali, scalza quelli del passato a «pensare alla società» (o alla comunità, alla nazione, alla chiesa, alla causa). Sarkozy non è il primo che cerca di avviare o di far accelerare tale trasformazione: la precedenza spetta a Margaret Thatcher e al suo memorabile annuncio secondo cui «non esiste qualcosa che si possa chiamare «società»: esistono solo il governo e le famiglie».
Si tratta di una nuova ideologia per la nuova società individualizzata, a proposito della quale Ulrich Beck ha scritto che uomini e donne, in quanto individui, dovranno adesso trovare soluzioni individuali a problemi creati dalla società e implementare individualmente tali soluzioni con l´aiuto di capacità e risorse individuali. Questa ideologia proclama che è inutile, anzi controproducente, unire le forze e subordinare le azioni individuali a una «causa comune». Essa prende di mira la solidarietà sociale; deride il principio della responsabilità comune per il benessere dei membri della società considerandolo fondamento dello «Stato assistenziale»; ammonisce che prendersi cura degli altri è la ricetta per creare l´aborrita «dipendenza».
Si tratta anche di un´ideologia fatta a misura della nuova società di consumatori. Essa rappresenta il mondo come un deposito di oggetti di potenziale consumo, la vita individuale come una perpetua ricerca di transazioni aventi per scopo la massima soddisfazione del consumatore e il successo come un incremento del valore di mercato degli individui. Largamente accettata e saldamente accolta, essa liquida le sue antagoniste con un secco «non esistono alternative». Avendo così ridimensionato i suoi avversari, essa diviene, per usare la memorabile espressione di Pierre Bourdieu, veramente pensée unique. Almeno nella parte ricca del pianeta la posta in gioco in questa spietata concorrenza tra individui non è la sopravvivenza fisica, e nemmeno la soddisfazione dei bisogni biologici primari necessari alla sopravvivenza; né il diritto di affermare se stessi, di darsi i propri obiettivi e di decidere che tipo di vita si vorrebbe vivere.
Esercitare tali diritti viene ritenuto, viceversa, un dovere di ogni individuo.
Si parte inoltre dal presupposto che tutto ciò che accade agli individui sia conseguenza dell´esercizio di questi diritti oppure di gravissimi errori in tale esercizio, fino al suo blasfemo rifiuto. Così tutto ciò che accade agli individui viene comunque definito retrospettivamente come dovuto alla responsabilità dei singoli. Ciò che è ora pienamente e veramente in gioco è il «riconoscimento sociale» di quelle che vengono viste come scelte individuali, ovvero della forma di vita che gli individui praticano (per scelta o per forza). «Riconoscimento sociale» significa accettazione del fatto che l´individuo che pratica una certa forma di vita conduce un´esistenza degna e decente, e per questo motivo merita il rispetto dovuto e prestato agli altri individui degni e decenti.
L´alternativa al riconoscimento sociale è la negazione di dignità, cioè l´umiliazione, e questo sentimento nutre risentimento. E corretto affermare che in una società di individui come la nostra questa sia la più velenosa e implacabile forma di risentimento che i singoli possono provare, nonché la più comune e prolifica causa di conflitto, di ribellione e di sete di vendetta. Negazione del riconoscimento, rifiuto di prestare rispetto e minaccia di esclusione hanno rimpiazzato sfruttamento e discriminazione, divenendo le formule più comunemente usate per spiegare e giustificare lo scontento che gli individui provano nei confronti della società o di quei settori e aspetti della società cui essi sono direttamente esposti (personalmente o attraverso i media) e di cui fanno esperienza di prima mano. Ciò non vuol dire che l´umiliazione sia un fenomeno nuovo, specifico dell´attuale forma della società moderna, perché al contrario essa è antica quanto la socialità e la convivenza tra gli uomini. Vuol dire però che nella società individualizzata di consumatori le più comuni ed «eloquenti» definizioni e spiegazioni delle afflizioni e dei disagi che derivano dall´umiliazione hanno rapidamente spostato, o stanno spostando, il proprio riferimento dal gruppo e dalla categoria alle singole persone. Invece che essere attribuite all´ingiustizia o al cattivo funzionamento dell´organismo sociale, cercando dunque rimedio in una riforma della società, le sofferenze individuali tendono a essere sempre più percepite come risultato di un´offesa personale, di un attacco alla dignità personale e alla stima di sé, invocando dunque una reazione personale o una vendetta personale. Questa ideologia, come tutte le ideologie a noi note, divide l´umanità. Ma in più essa genera divisione anche tra chi le presta fede, dando capacità a qualcuno e rendendo tutti gli altri incapaci. In questo modo essa inasprisce il carattere conflittuale della società individualizzata/privatizzata.
Depotenziando le energie e neutralizzando le forze che potenzialmente sarebbero in grado di intaccarne il fondamento, questa ideologia conserva tale società e rende più fievoli le prospettive di un suo rinnovamento.
(traduzione di Daniele Francesconi)

Corriere della Sera 17.9.07
Immigrati in piazza Bufera su Ferrero
Cdl all'attacco: vergogna. Ronchi: Amato dica la sua
di Vera Schiavazzi


«Anche tanti italiani sono arrabbiati»

TORINO — Attenzione alle guerre tra poveri: guai a contrapporre arrabbiati stranieri con arrabbiati italiani. Ventiquattr'ore dopo l'incontro milanese con gli immigrati e le dichiarazioni di «imbarazzo » del ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero per i ritardi del governo nell'affrontare la riforma della Bossi-Fini, è lo stesso Ferrero, a Torino per la festa di Rifondazione comunista, a precisare il suo pensiero, mentre il centrodestra lo attacca e lo accusa di «irresponsabilità».
«Non si devono contrapporre i diritti degli italiani a quelli degli immigrati, né tanto meno gli immigrati agli italiani — spiega Ferrero, che sabato aveva invitato gli stranieri regolari a far sentire la propria voce anche scendendo in piazza —. Ma la domanda resta: è degno o no di un Paese civile che chi vive e lavora nel nostro Paese da dieci o quindici anni debba aspettare 18 mesi il rinnovo del suo permesso di soggiorno? Persone assolutamente regolari rischiano così di ritrovarsi illegali, di diventare clandestine. Sono lungaggini burocratiche assurde, che devono spingere il governo a superare definitivamente la Bossi-Fini».
E il popolo di Rifondazione accoglie con gli applausi la dichiarazione, così come l'annuncio che a scendere in piazza saranno anche i metalmeccanici, dato alla festa del segretario della Fiom piemontese Giorgio Airaudo: «Per la prima volta da anni, alla paura dei licenziamenti si sostituisce la richiesta di aumenti salariali: l'industria va bene, gli operai devono guadagnare di più».
Intanto però la polemica è già esplosa. Il portavoce di Alleanza nazionale Andrea Ronchi si rivolge direttamente al ministro dell'Interno Giuliano Amato: «Che cosa ne pensa delle dichiarazioni del suo collega Ferrero? Dopo l'annunciata partecipazione di alcuni esponenti del governo alla manifestazione del 20 ottobre indetta contro l'esecutivo Prodi, il ministro della Solidarietà annuncia che porterà in piazza contro la nazione che li ospita gli immigrati, clandestini compresi ». «Ci piacerebbe sapere — chiede ancora Ronchi — che cosa pensa il ministro Amato di iniziative che accrescono la preoccupazione e l'insicurezza dei cittadini. Ma voglio tranquillizzare Ferrero, perché saranno gli italiani a scendere in piazza il 13 ottobre a Roma con Alleanza nazionale, contro l'immigrazione clandestina e contro un governo che non favorisce legalità e sicurezza». Bacchettate a Ferrero, che a Milano era apparso sorpreso e indignato per le storie di ordinaria burocrazia e sofferenza raccontategli alla Camera del Lavoro da cittadini stranieri, arrivano anche da Isabella Bertolini, vice presidente di Forza Italia alla Camera: «Invitare gli immigrati a scendere in piazza è un atto irresponsabile, che non verrebbe in mente nemmeno al più grande nemico dell'Italia. Che arrivi da un ministro della Repubblica è una vergogna senza limiti».
E Bertolini conclude: «Ferrero si scusi presentando le dimissioni, saremo felici di accoglierle assieme a quelle di Prodi». Francesco Storace, segretario nazionale della Destra, la rinforza: «Se Ferrero si vergogna del suo governo, gli italiani si vergognano di un ministro che istiga gli immigrati alla piazza. È bene pensare a una mozione di sfiducia individuale al Senato». Malumore e condanna arrivano anche da Silvana Mura, deputata dell'Italia dei Valori: «Ci saranno pure immigrati che avranno tutte le ragioni per essere arrabbiati, come dice il ministro, ma ci sono tantissimi italiani che sono già arrabbiatissimi e ai quali va data una risposta. Solo per fare un esempio è di ieri la notizia che nella sola Roma le rapine nei primi sei mesi del 2007 sono più del doppio di quelle dell'intero anno precedente e che in netta maggioranza gli autori di questi episodi sono stranieri. Ferrero sa che tra questi rapinatori almeno il 40 per cento sono romeni?»

Corriere della Sera 17.9.07
Il presidente della Camera da Parigi. Berardi: frasi frettolose
Bertinotti: chiudere gli anni di piombo I familiari delle vittime: prima la verità
di Roberto Rizzo


MILANO — La domanda è sulla sorte dei rifugiati italiani in Francia dopo i casi Petrella, Persichetti e Battisti: «In Italia i tempi sono maturi per chiudere la vicenda degli "anni di piombo", ma serve una soluzione che sia consensuale nel rispetto di tutti», risponde il presidente della Camera Fausto Bertinotti, intervenuto a Parigi per la festa de l'Humanitè, il quotidiano del Partito comunista francese.
Proposta che coglie di sorpresa chi del terrorismo è stato vittima, ma che al tempo stesso rilancia il dibattito, tra completo rifiuto e qualche timida apertura. «Mi pare che il presidente della Camera abbia fatto affermazioni frettolose, inopportune e lontane dagli interessi del Paese», è la reazione di Gianni Berardi, segretario dell'Associazione italiana vittime del terrorismo e figlio di Rosario Berardi, maresciallo ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978. «Sono più di vent'anni che qualcuno cerca di chiudere la vicenda, eppure resistono molti lati oscuri nei cosiddetti "anni di piombo"», prosegue Berardi. «Ci sono schiere di compagni di merende che si sentono in debito con altri ex compagni e periodicamente pretendono di calare il sipario su questo pezzo di storia italiana ».
Lorenzo Conti, figlio dell'ex sindaco di Firenze Lando Conti, anch'egli ucciso dalle Br nel 1986, che in giugno ha ricevuto lettere con minacce di morte firmate da Brigate Rosse- Partito comunista combattente, dice: «Ben venga mettersi a un tavolo a discutere ma, prima di farlo, è necessario far emergere la verità su quegli anni. Dato che Bertinotti ha parlato da Parigi, voglio sapere i nomi di chi, in questi anni, ha coperto e aiutato gente come Persichetti, Battisti e Petrella. Sono il primo a desiderare la pacificazione che però deve essere preceduta da un atto di verità che, a sinistra, darebbe molto fastidio. È necessario avere più rispetto per chi ha perso la vita per lo Stato, dal quale io non mi sento rappresentato ».
Apre invece al dialogo Sabina Rossa, figlia del sindacalista Guido Rossa ammazzato nel 1979: «Chiudere con quegli anni? Lo auspico, ma come? Ho dei dubbi che ci siano già le condizioni per farlo. Se significa semplicemente voltare pagina e decidere che il capitolo è chiuso, non è credibile. In questi anni è mancato il dibattito, gli ex terroristi sono stati gli unici depositari della verità, ma la verità è ancora lontana, ci sono stragi rimaste impunite su cui il buio è completo».
«Chiudere significa che tutti i conti sono stati saldati, ma stiamo parlando di reati che per il nostro codice sono imprescrivibili », dice il senatore di An Alfredo Mantovano e membro del Comitato parlamentare di controllo sui Servizi di informazione e di sicurezza. «Non si possono chiudere i conti solo perché sono passati tanti anni».

il Riformista 17.9.07
E ora Sd invita Rifondazione ad «andare oltre»
di Alessandro De Angelis


La mediazione c’è ma, in fondo, rimane pure la contraddizione: se la Cosa rossa viene trainata da Rifondazione, Mussi non regge l’urto della Cgil. Ma sulla linea Mussi non è detto che Rifondazione converga. E i problemi, di fatto, per la Cosa rossa sono rimandati al 21 ottobre.
Ma partiamo dalla mediazione. Sd si ricompatta su un profilo più autonomo anche grazie alla pressione dei coordinatori regionali che della manifestazione del 20 non ne vogliono proprio sapere. E va avanti sul progetto di federazione con Prc, Pdci, Verdi. Ma le differenze, con Rifondazione, restano e non sono in pochi, dentro Sd, a sperare che il partito di Giordano «vada oltre». Tradotto: che evolva nella direzione di un partito (compiutamente) di governo. Mussi, nel corso della riunione del comitato promotore di sabato, ha cercato di riassorbire le tensioni che negli ultimi giorni avevano prodotto non poche fibrillazioni dentro Sd. E il documento finale, più volte limato, fa capire bene l’equilibrio raggiunto. Sul 20 ottobre è scritto: «Sarebbe un errore rifluire in un generico fronte protestatario. Da qui la nostra preoccupazione e le critiche di metodo e di merito alla manifestazione». Più delle parole vale il fatto che l’emendamento Fiom, che proponeva di togliere l’ultima frase, ha preso solo sei voti. Ma Mussi ha cercato anche di mediare sul fronte destro. Nella relazione introduttiva, a proposito dell’appello di Angius e Spini a favore di una costituente del socialismo europeo in Italia, non aveva usato mezzi termini: «Definire come buone le linee socialiste di svalorizzazione del lavoro cui abbiamo assistito negli ultimi anni è come dire che l’America ha portato in Iraq la democrazia». Nel documento finale, invece, sono state accolte alcune questioni sollevate da Spini nel suo intervento e nel suo documento firmato anche da qualche parlamentare: «Sd avvierà la formale richiesta di adesione al Pse e all’Internazionale». E ancora «Chiediamo ai compagni dello Sdi un confronto sul programma di Oporto del Pse, per concordarne la traduzione in azioni locali e nazionali».

Corriere di Bologna 14.9.07
L'incontro. Bauman tra gli studenti come una star
di Benedetta Boldrin


Un anno scolastico che inizia all'insegna dell'«incertezza». Non quella degli organici, questa volta, ma quella esistenziale, raccontata da Zygmunt Bauman, il sociologo di fama internazionale che ieri ha tenuto a battesimo l'inaugurazione del nuovo anno, affascinando centinaia di persone, soprattutto giovani. Lui, 82 anni, arriva all'aula absidale di Santa Lucia con la moglie, mano nella mano. Loro, i ragazzi, gli vanno incontro e chiedono l'autografo. Lo guardano incantati, qualcuno registra persino la breve conversazione strappata al sociologo. I posti a sedere sono trecento, ma le persone arrivate sono molte di più. La sala è strapiena, qualcuno resta nell'atrio, altri sono costretti ad andarsene. Il consiglio è di riprovarci oggi in cappella Farnese (alle 21 Bauman parteciperà a un incontro dal titolo «Città e democrazia»), oppure domani a Modena, al Festival della filosofia. Sul palco, con Bauman, ieri c'erano Guido Masetti, prorettore dell'Università, e Paola Manzini, assessore regionale alla Scuola, che, nell'augurare un buon inizio a insegnanti e studenti, ha introdotto la lezione magistrale dal titolo «Vite di corsa. Le sfide all'educazione della modernità liquida». Ma lui premette sorridendo: «Non vi offrirò soluzioni».
Solo riflessioni,indirizzate a chi deve attrezzare i ragazzi per il mondo contemporaneo. Un mondo in cui «siamo condannati ad agire nell'incertezza permanente», dice. E parte dal concetto di tempo, che «sta subendo una rivoluzione»: «Oggi - spiega - si sta delineando una percezione del tempo a spot». Un tempo «in continua evoluzione, perché ogni punto contiene infinite possibilità».
Ma l'incertezza entra anche nella conoscenza. Bauman parla di «inondazione di informazioni», prima di tutto da internet. «Ho sempre detto ai miei studenti che tutta la conoscenza è utile - conclude - ma oggi, dico: "Distinguiamo tra cosa è utile cosa no" ».

l'Unità 16.9.07
Tra Roma e Bisanzio lo spirito è lontano
di Renato Barilli


IL TRAMONTO dell’età classica greco-romana in una mostra a Vicenza. Il passaggio dal naturalismo all’astrazione in una serie di reperti, stoffe e mosaici. Un’interpretzione «spiritualista» che non convince

Una mostra a Vicenza, Palazzo Leoni Montanari, affronta un tema epocale che davvero può essere detto, come suggerisce il titolo, seppure in termini un po’ generici, La rivoluzione dell’immagine. Si tratta infatti del processo, esteso per alcuni secoli, che vede il tramonto dell’età classica greco-romana, col relativo mimetismo avanzato, verso le forme secche e stilizzate che saranno proprie dell’età bizantina, e che domineranno l’Europa, a Est come a Ovest, per quasi un millennio, finché, all’alba del XII secolo d. C., nei nostri Comuni partirà una fase di nuovo recupero di immagini naturaliste, ovvero quello che in termini lati si può definire il Rinascimento. A costituire tutto il fascino e l’importanza di un simile processo sta il fatto che lo abbiamo rivissuto, tra il XIX e il XX secolo, quasi negli stessi termini. L’Occidente giunge alla fine dell’Ottocento mentre in genere coltiva ancora forme di avanzato naturalismo, ma poi nel giro di pochi decenni dà luogo ai vari processi astrattivi e schematizzanti che caratterizzano l’arte contemporanea propriamente detta. Quali sono i fattori che, nell’uno e nell’altro caso, hanno provocato mutamenti di tanto peso? Come si vede, la posta in gioco è altissima. A dire il vero, la presente mostra vicentina ne offre solo un assaggio assai ridotto, nel numero dei reperti proposti, ci vorrebbe ben altro, magari una di quelle favolose mostre che il Consiglio d’Europa produceva in passato, è curioso che di queste si sia interrotta l’apparizione, anche se il nostro continente ha fatto decisivi passi avanti verso l’unità. Inoltre, a inficiare la rilevanza di questa rassegna (a cura di F. Bisconti e G. Gentili, fino al 18 novembre, cat. Silvana) sta anche il sottotitolo, che mette in primo luogo «l’Arte paleocristiana tra Roma e Bisanzio», mentre, se si va a vedere, una buona metà dei reperti è di iconografia classico-pagana.
Forse il sottotitolo alquanto parzializzante è in linea con un assunto generale, della mostra ma anche di tante altre interpretazioni, per cui il passaggio dal naturalismo alla stilizzazione bizantina sarebbe provocato dall’avvento del Cristianesimo. Ma proprio le opere qui raccolte stanno a dimostrare che non è affatto così: l’implacabile processo che, a partire dal III secolo d. C. colpisce i vari reperti da statue e sarcofaghi, da mosaici e stoffe qui allineati, prescinde dalla tematica pagana o cristiana, accomuna i prodotti di entrambe le sponde, e dunque il fattore causante non è di ordine spirituale, bisogna cercare altrove, in quei fattori di ordine material-culturale che in genere si tende a trascurare. L’immane fenomeno che colpisce l’Impero romano in ogni sua zona e convenzione religiosa deriva da una «perdita del centro», Roma è sempre più lontana, crolla il sistema delle grandi vie di comunicazione che l’Urbe aveva saputo stabilire, di cui la resa prospettica delle distanze era lo specchio fedele. Ora, le genti non si spostano, ognuno vive dove il destino lo ha gettato, e dunque le immagini si fissano, si generalizzano. Forse si dovrebbe rovesciare il rapporto causa-effetto, non è la conversione ai valori spirituali del Cristianesimo a provocare quella forzata semplificazione delle immagini, ma al contrario si aderisce alla religione del Dio unico nel tentativo estremo di fermare il processo di localizzazione e frammentazione del vivere, di cui non si avvertiva il rischio finché aveva resistito l’autorità centrale dell’Imperatore romano.
Ma andiamo a esaminare le opere in mostra, per trarre conforto a una tesi del genere. Vi sono frammenti di sarcofago, appunto di tema classico, relativi al mito di Prometeo, al sacrificio di Ercole, ad Ulisse, o con scene pastorali arcadiche, tutti per lo più del III secolo, in cui è evidente la volontà dell’artefice di attenersi ai canoni classici di una buona e corretta plasticità, di un rispetto dell’anatomia dei corpi, eppure già lo spazio si schiaccia, le membra si smussano, le cavità sono ottenute col sommario ricorso al trapano. I difensori della tesi spiritualista osserveranno in proposito che non c’è da stupirsi, in quanto si tratta di un mondo ancora ligio agli «dei falsi e bugiardi», ma vediamo che cosa succede sull’altra sponda, nel corso del IV e V secolo. Ebbene, non è che ipso facto i nuovi temi della cristianità impongano il linguaggio ieratico e schematico che siamo soliti ricondurre a Bisanzio. Si veda, poniamo, il sarcofago Maiestas Domini, fine del IV, i corpi di Cristo e Santi tentano ancora di balzar fuori con piena tridimensionalità, ma viene meno una scala unitaria di grandezze proporzionate tra loro, la figura del Cristo domina, mentre gli Apostoli accanto si fanno piccoli piccoli, siamo cioè a metà del guado, non più a Roma ma non ancora a Bisanzio. Il che vale anche nell’ambito del mosaico, si veda una Testa di S. Pietro, della metà del V° secolo, tema che evidentemente non potrebbe essere più cristiano, ma l’anonimo compositore insegue ancora palpiti, tocchi cromatici di un naturalismo in via di decomposizione. Naturalmente un secolo dopo, nel corso del VI secolo, i giochi sono fatti, a Bisanzio come a Ravenna si impone ormai lo stile astraente dell’arte bizantina, il cui capolavoro, non dimentichiamolo, non è però di tema cristiano, come piacerebbe ai sostenitori della tesi spiritualista, bensì laico, trattandosi della parata dell’Imperatore Giustiniano, nel S. Vitale di Ravenna.

domenica 16 settembre 2007

l'Unità 16.9.07
G8 di Genova: la commissione è più vicina
Il richiamo del presidente della Camera, il nuovo testo
di Massimo Solani


SONO PASSATI PIÙ DI SEI ANNI dai tragici giorni del G8 di Genova, e a 74 mesi di distanza da quel «buco nero» della democrazia costato la vita a Carlo Giuliani e valso al nostro paese il duro richiamo di Amnesty International (che parlò di «grave sospensione dei diritti umani») potrebbe essere arrivato all’ultimo chilometro il tortuoso iter del disegno di legge per l’istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta su quelle giornate. Un atto richiesto a gran voce anche dal presidente della Camera Fausto Bertinotti che dal palco della Festa nazionale de l’Unità - mercoledì - l’ha definita «un elemento di igiene mentale per il paese».
Il 30 luglio scorso, prima della pausa estiva, la commissione affari costituzionali della Camera ha infatti approvato il nuovo testo, di cui è relatore il deputato dell’Ulivo Gianclaudio Bressa, in cui sono confluiti i due disegni di legge che erano stati presentati nel giugno del 2006. Uno di cui era prima firmataria Graziella Mascia (Rifondazione comunista) e l’altro presentato da Cosimo Giuseppe Sgobio (Comunisti italiani).
E la nuova formulazione (che prevede l’istituzione di una commissione monocamerale formata da trenta componenti, e che quindi sarà votato soltanto a Montecitorio) è riuscita a ricomporre anche la maggioranza facendo fare marcia indietro a quanti, nel centrosinistra, in un primo momento si erano detti contrari a qualsiasi ipotesi di commissione di inchiesta. Rientrato il no iniziale di Rosa nel pugno e Udeur, infatti, soltanto l’Italia dei Valori fra i partiti della maggioranza è rimasta contraria. Come, ovviamente, tutta l’opposizione. Superato lo scoglio della commissione Affari costituzionali, toccherà adesso a quelle di Giustizia e Bilancio dare il via libera al testo per la sua approvazione da parte della Camera. E la speranza è che il sì definitivo possa arrivare entro la fine dell’anno. «Sono convinto - spiegava ieri Bressa - che il nuovo testo unificato abbia tolto ogni possibilità di sovrapposizione fra i lavori della Commissione e i processi penali. Credo inoltre che il varo della stessa possa cancellare quelle ombre rimaste, dopo il lavoro della precedente commissione, sulla volontà del Parlamento di fare chiarezza sugli avvenimenti di quei giorni».
Certo però che, nel gioco incrociato dei veti e delle concessioni per la ricerca di una maggioranza, il nuovo testo approvato dalla prima commissione è profondamente diverso dai due originari. Soprattutto per quanto riguarda le funzioni della Commissione stessa. Se infatti i due disegni di legge precedenti prevedevano la ricostruzione delle dinamiche degli eventi che avevano portato alla morte di Carlo Giuliani, alle cariche al corteo autorizzato e alla irruzione nella scuola Diaz, oltre che alla ricostruzione di quanto accaduto nella caserma di Bolzaneto, il nuovo testo non cita alcun episodio specifico. Sparita anche qualsiasi formulazione riguardante le «responsabilità politiche e amministrative» di quanto accaduto nei giorni di Genova.
Quel che resta, riguardo alle finalità della commissione, è una formulazione volutamente vaga e ampia. Che vuol dire tutto e non vuol dire niente. Il testo unico, infatti, prevede che la commissione ha i compito di «ricostruire in maniera puntuale gli avvenimenti accaduti a Genova in occasione del vertice dei Paesi del G8 e delle manifestazioni del Genoa Social Forum; accertare se durante i giorni in cui ha avuto luogo il vertice dei Paesi del G8 si sia verificata la sospensione dei diritti fondamentali garantiti a tutti i cittadini dalla Costituzione; ricostruire la gestione dell’ordine pubblico facendo luce sulla catena di comando e sulle dinamiche innescate che hanno provocato azioni violentemente repressive nei confronti dei manifestanti». Se il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto, forse, lo diranno i lavori della commissione stessa. Che almeno si farà, e questo è già qualcosa.

l'Unità 16.9.07
La vita... in linea di principio
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


C’è qualcosa, nel dibattito in corso sull’accanimento terapeutico, che la Chiesa manca di chiarire sino in fondo. Le affermazioni venute venerdì scorso dalla Congregazione della dottrina della fede, in tal senso, non fanno eccezione. Rispondendo agli interrogativi posti dalla Conferenza episcopale degli Stati Uniti in materia di pazienti in stato vegetativo permanente (SVP), si afferma: «Sono dovute le cure ordinarie e proporzionate, che comprendono, in linea di principio, la somministrazione di acqua e cibo, anche per vie artificiali». Ecco: quella formula, «in linea di principio», cosa vuol dire veramente? Come dovremmo spiegarla e interpretarla? «La somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita»; così prosegue il testo approvato da Benedetto XVI. Ma quella somministrazione cosa può mai avere di «ordinario», se garantita solo dall’intervento di macchinari sofisticati, di sonde nasogastriche, se condotta attraverso composti chimici che solo i medici possono prescrivere e controllare, mentre il paziente non ha neppure coscienza di essere alimentato? A cosa si vorrebbe «proporzionato» quell’intervento? E di quale «vita» stiamo parlando? Meglio: siamo in grado di ridefinire concettualmente le fasi della nostra esistenza, sapendo che il progresso scientifico consente oggi di tenere in vita, per anni o per decenni, persone che hanno perso definitivamente coscienza, incapaci di emozione, pensiero, relazione con il mondo e senza possibilità alcuna di guarigione da quella condizione? E siamo pronti ad accettare che ulteriori progressi scientifici possano protrarre ancor più l’esistenza vegetativa di persone di cui tutto ciò che sopravvive è il solo battito cardiaco?
Non è la prima volta che la Chiesa si esprime su queste questioni. Pure, una disamina dei molti documenti disponibili sulla questione evidenzia alcune ambiguità. Le recenti prese di posizione hanno trovato la loro enunciazione più chiara, a nostro avviso, nel discorso di Giovanni Paolo II ai partecipanti al Congresso Internazionale «I trattamenti di sostegno vitale e lo stato vegetativo. Progressi scientifici e dilemmi etici», nel 2004: «La somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenta sempre un mezzo naturale di conservazione della vita, non un atto medico. Il suo uso pertanto sarà da considerarsi, in linea di principio, ordinario e proporzionato, e come tale moralmente obbligatorio, nella misura in cui e fino a quando esso dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che nella fattispecie consiste nel procurare nutrimento al paziente e lenimento delle sofferenze». Un «mezzo naturale» di conservazione della vita, dunque; così sono intese l’alimentazione e l’idratazione artificiali, anche quando di naturale non hanno, evidentemente, alcunché. Il ragionamento è chiaro, ma assai arbitrario: si sostiene che quelle non siano cure (ancorché necessitino macchinari sanitari, farmaci e competenze terapeutiche) e che dunque il loro fine non sia curare, né guarire. Il fine dell’alimentazione consiste, con un truismo discutibile, nell’alimentare; quello dell’idratazione nell’idratare (lo ribadisce adesso il Vaticano: tale somministrazione «è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente»). Così quelle prassi mediche alleviano fame e sete; ma come sappiamo, possono protrarre sofferenze di altro genere e non minore intensità. La posizione espressa dal Pontificio Consiglio per la pastorale degli Operatori Sanitari la Carta degli Operatori Sanitari (1995), non a caso, prevedeva una eccezione di non poco conto: «L’alimentazione e l’idratazione, anche artificialmente amministrate - vi si leggeva - rientrano tra le cure normali dovute sempre all’ammalato quando non risultino gravose per lui». La Congregazione precisa ora questo passaggio, indebolendolo e rendendone residuali le implicazioni: l’interruzione di quei trattamenti è lecita «in qualche raro caso», nel quale «l’alimentazione e l’idratazione artificiali possano comportare per il paziente un’eccessiva gravosità o un rilevante disagio fisico legato, per esempio, a complicanze nell’uso di ausili strumentali». Come a dire: si può pensare di interrompere l’alimentazione se la sonda provoca (o rischia di provocare) infezioni; ma non se quella prassi tiene in vita un soggetto comunque afflitto da altre severe sofferenze e definitivamente impossibilitato a guarire.
La posizione della Chiesa si fonda sulla negazione del valore terapeutico di quelle pratiche mediche, che di «ordinario» - a noi pare evidente - non hanno proprio nulla. Ma quel valore terapeutico, è bene ricordarlo, in Italia è già stato certificato da una commissione di studio istituita nel 2000 dall’allora ministro della Sanità, Umberto Veronesi. Nelle conclusioni di quel gruppo di lavoro, presieduto da Fabrizio Oleari e composto da medici, bioeticisti, filosofi morali, si legge: «Il punto essenziale è che nell’idratazione e nutrizione artificiale in individui in SVP viene somministrato un nutrimento come composto chimico, che solo medici possono prescrivere e che solo medici sono in grado di introdurre nel corpo attraverso una sonda nasogastrica o altra modalità; e che solo medici possono controllare nel suo andamento, anche ove l’esecuzione sia rimessa a personale infermieristico o ad altri. Mentre il beneficiato non solo non può apprezzare il preparato o i suoi effetti, ma soprattutto non può, e non potrà mai più, rendersi conto del fatto di essere alimentato. Quando l’alimentazione e l’idratazione si svolgono in tali condizioni esse perdono i connotati di atto di sostentamento doveroso e acquistano quello di trattamento medico in senso ampio. Così come, solo per fare due esempi tra i vari possibili, dare il braccio a un non vedente è atto di assistenza e di solidarietà mentre intervenire sul suo apparato visivo è atto medico (...), alla stessa stregua aiutare una persona che non è in grado di farlo da sola a mangiare e a bere è atto di assistenza, mentre sopperire alle esigenze di idratazione e di nutrizione del corpo di individui in SVP, attraverso sonda nasogastrica o altra modalità tecnica, è trattamento medico». Se di trattamento medico si tratta, esso può rivelarsi accanitivo; e, in quel caso, può, per ragione e diritto, essere interrotto.
Pensare che la Chiesa possa partire da tali assunti appare, purtroppo, irrealistico. Pensare, invece, che possa chiarire quelle «linee di principio» cui si appiglia con argomenti altrettanto razionali e - perché no? - scientifici, ciò rimane auspicabile.

Repubblica 15.9.07
Il popolo di Internet. "Il sapere come bene comune"
di Stefano Rodotà


Nella dimensione mondiale assistiamo ad una creazione incessante di nuovi beni: la conoscenza prima di tutto
Qual è il modo migliore per sfruttare la ricchezza della rete? Tra mercato e libero accesso, la posta in gioco non è piccola
La connessione garantita a tutti non promette nulla circa i contenuti
L´informazione è un diritto fondamentale garantito da molto tempo

Nell´ottobre del 1847, pochi mesi prima della pubblicazione del Manifesto dei Comunisti, Alexis de Tocqueville redigeva la bozza d´una dichiarazione politica che avrebbe poi trascritto nei suoi Souvenirs, e così rifletteva: «ben presto la lotta politica si svolgerà tra quelli che possiedono e quelli che non possiedono; il grande campo di battaglia sarà la proprietà». Quel conflitto è continuato, ininterrotto, e continua ancora, anche se al centro dell´attenzione non è più la terra, ma piuttosto il vivente, l´immateriale, il sapere nel suo insieme. Il campo di battaglia si è allargato. È diventato il mondo intero, abbraccia molti altri diritti, li ridefinisce, li riscrive, li considera non più dal punto di vista strettamente individualistico, ma pure nell´ottica di una appartenenza comune.
La questione dei beni comuni è essenziale. Il senso della battaglia, di cui parlava Tocqueville, è profondamente cambiato.
Non riguarda soltanto un conflitto intorno a risorse scarse, oggi l´acqua più ancora che la terra. Nella dimensione mondiale assistiamo ad una creazione incessante di nuovi beni, la conoscenza prima di tutto, rispetto ai quali la scarsità non è l´effetto di dati naturali, ma di politiche deliberate, di usi impropri del brevetto e del copyright, che stanno determinando un movimento di "chiusura" simile a quello che, in Inghilterra, portò alla recinzione delle terre comuni, prima liberamente accessibili.
Dobbiamo concludere che la tecnologia apre le porte e il capitale le chiude? Certo è che intorno al destino di nuovi e vecchi beni comuni si gioca una partita decisiva per la libertà e l´eguaglianza.
Protagonisti di questa vicenda non sono singoli o gruppi. È un´entità anch´essa nuova che, mimando la formula "economia mondo" di Immanuel Wallerstein, è stata definita "popolo mondo". È il popolo di Internet, un popolo mobile, che si aggira nel mondo globale, scaricando musica e film, creando e diffondendo informazioni, producendo sapere sociale. Ed è proprio questa dimensione sociale che sconvolge vecchie logiche, mostra in ogni momento l´inadeguatezza di regole consolidate. E pone un interrogativo ineludibile. Qual è il modo migliore per sfruttare «la ricchezza della rete»? Ricondurre anche questo mondo nuovo soltanto alla logica di mercato? O perseguire quella che Franco Cassano chiama «la ragionevole follia dei beni comuni», considerati sia nelle forme della loro possibile proprietà, sia come componente essenziale dell´«era dell´accesso»? La posta in gioco non è piccola. Schematizzando al massimo: privatizzazione del mondo o possibilità inedite di percorrerlo liberamente, con equilibri nuovi tra diritti individuali e godimento collettivo.
Proprio il tema dell´accesso svela i termini veri della questione, e la sua difficoltà. Già nel 1948 la Dichiarazione universale dei diritti dell´uomo dell´Onu riconosceva come diritto fondamentale quello di «cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee». E, ben prima di allora, la necessità di garantire senza discriminazioni l´accesso al sapere era il fondamento delle politiche pubbliche sull´istruzione obbligatoria e gratuita e sull´istituzione di biblioteche aperte a tutti, alcune delle quali concepite come deposito di un sapere universale (o almeno nazionale) grazie all´obbligo di inviare ad esse tutto ciò che veniva pubblicato. Oggi una soluzione come questa è evidentemente impraticabile per la Rete, luogo dove vorticosamente compaiono e scompaiono quotidianamente milioni di informazioni. E tuttavia l´accesso rimane il punto di partenza: come garantirlo e, soprattutto, che cosa garantire.
Rifacendosi a esperienze già note, come quella del telefono, si è parlato di «servizio universale»: a tutti dovrebbe essere garantita la connessione a Internet. Ma quello che per il telefono poteva essere considerato il punto d´arrivo - essere messi in condizione di parlare con chiunque - per Internet è solo un punto di partenza. Una volta che mi sia stata garantita la connessione, a che cosa potrò accedere? All´insieme del sapere disponibile in Rete o soltanto a sue frazioni tra le meno significative e appetibili? Il diritto alla connessione non può, in concreto, garantire solo l´accesso al nulla, a contenuti poveri o poco significativi per molti utenti. L´esperienza della televisione può fornire qualche indicazione, con il progressivo trasferimento dei programmi più interessanti nell´area della televisione a pagamento.
Vi è il rischio che ci venga consegnata una chiave che apre soltanto una stanza vuota. Proprio a questa immagine ricorre uno dei maggiori studiosi di questi temi, Lawrence Lessig, ragionando sul futuro delle idee: «Sei completamente libero di fare il film che vuoi in una stanza vuota, con i tuoi due amici». Che cosa lo ha spinto ad una conclusione così sconsolata? La constatazione dei mille nuovi vincoli che avvolgono l´attività cinematografica, nati appunti da una privatizzazione della conoscenza. Quella visiva, questa volta. Riprendere la facciata di un edificio può indurre il proprietario o l´architetto a chiedere un compenso, e lo stesso può avvenire se un designer scorge in una scena del film una sedia che ha progettato.
Da qui deve partire anche una riflessione sull´eguaglianza. Questa viene sempre più intesa come eguaglianza dei punti di partenza, non dei risultati. Ma proprio la questione dell´accesso mostra come non ci si possa limitare a fornire pari opportunità se, poi, queste possono essere concretamente utilizzate solo da alcuni. Una situazione, questa, che diviene assai più eloquente quando il sapere incrocia il fondamentale diritto alla salute. Da anni la questione dei brevetti sui farmaci è davvero un campo di battaglia. Diversi paesi, dal Brasile al Sudafrica all´India, rivendicano il diritto di produrre a basso costo farmaci necessari per curare milioni di malati di Aids o di malaria, infrangendo anche i diritti della grande industria farmaceutica. L´accesso di tutti ai frutti del sapere, i farmaci in questo caso, diviene la condizione perché la salute non venga assicurata in modo selettivo solo a chi ha le risorse per comprarla sul mercato, ma davvero ad ogni persona. L´accesso diviene parte costitutiva della cittadinanza.
La consapevolezza sempre più diffusa che la conoscenza è un «bene pubblico globale», come sottolinea Luciano Gallino, sta così determinando un ripensamento profondo delle regole, a partire da quelle che riguardano il brevetto e il diritto d´autore, e una richiesta perentoria di non appropriarsi del vivente, della diversità biologica. Nuove parole percorrono il mondo - software libero, open source - che ci parlano proprio di un mondo che deve essere aperto, disponibile per chi vuole conoscere, diffondere liberamente informazioni, produrre sapere condiviso. Questa ricerca di nuovi equilibri tra interessi di autori, inventori, industrie e interessi della collettività non è motivata soltanto da una sorta di rifiuto della logica di mercato. Vi è una critica liberista anche più radicale, che insiste sulla crescente inefficienza dei vecchi strumenti, e propone addirittura l´abolizione del copyright. Un esempio può chiarire come cambia il modo in cui si può accedere al sapere. La free press, i giornali distribuiti gratuitamente non sono il segno di una generosità o altruismo dell´editore, ma di un altro modo di fare profitto. E le enormi possibilità della Rete, la sua ricchezza, possono essere ben utilizzate solo se vengono rimossi gli ostacoli al pieno sfruttamento delle sue potenzialità, che configurano appunto anche una «non market economy».
Ma l´accesso alla conoscenza deve implicare sempre anche la possibilità di essere «esposti» alle opinioni più diverse, per poterle confrontare, per sviluppare capacità critiche. Questo significa, ovviamente, rifiuto della censura, di monopoli e posizioni dominanti e, insieme, accesso diretto alle fonti, trasparenza delle informazioni. Qui è la radice del pluralismo, dell´autonomia di giudizio di ciascuno. Così è possibile uscire dagli arcana imperii, liberarsi da poteri avvolti dal segreto, e per ciò solo oppressivi.
Il sapere libero e diffuso fa tutt´uno con la democrazia. Luigi Einaudi diceva «conoscere per deliberare». Un grande giudice americano, Louis Brandeis, osservava che «la luce del sole è il miglior disinfettante». La conoscenza, dunque, come fondamento della decisione democratica e del controllo diffuso.
L´informazione è potere, si è sempre detto. Ma ci si è sempre chiesti: potere di chi?

Repubblica 16.9.07
Il popolo che cerca il giudizio universale
di Eugenio Scalfari


DICONO che Prodi, a chi gli faceva osservare con disappunto che il consenso attorno al suo governo non dava alcun segno di ripresa nonostante il discreto andamento dell´economia e alcuni provvedimenti del governo senz´altro positivi, avrebbe risposto: «Non ti preoccupare. Già la Finanziaria del 2007 comincia ad esser giudicata in modo più favorevole dei mesi scorsi. Abbiamo ancora quattro anni di tempo. Alla fine della legislatura la maggioranza degli italiani darà un giudizio favorevole sul nostro operato».
Può darsi che Prodi abbia ragione e che le cose andranno così. Come cittadino e anche come giornalista che ha sempre riconosciuto al presidente del Consiglio una tenacia a prova di bomba, me lo auguro. Però non sono d´accordo. Per due ragioni. La prima è che l´attuale consenso riscosso dal governo è tecnicamente troppo basso, come un aereo che è sceso talmente verso terra da correre ad ogni attimo il pericolo di avvitarsi su se stesso rendendo inutile e anzi impossibile ogni tentativo di recuperare la linea di volo.
Ma la seconda ragione è ancora più decisiva della prima: cresce la quantità di cittadini che rifiutano in blocco questa classe politica.
Che questo atteggiamento si possa definire antipolitico (come personalmente ritengo) oppure politico al massimo grado perché non è frutto di indifferenza ma di partecipazione attiva e combattiva (come sostengono rabbiosamente tutti quelli che hanno risposto all´appello del «Vaffa-day») è questione opinabile, ma non cambia la sostanza nelle cose. C´è un crescente rifiuto di «questa» politica di «questi» partiti, di «questi» uomini politici.
Tutti, nessuno escluso. Loro e tutto il mondo che – secondo le persone che condividono quello stato d´animo – ruota intorno a loro.
Rifiuto totale. Su tutti i piani e a tutti i livelli: le tasse, la sicurezza, la legalità, le disuguaglianze, la libertà. Pollice verso su tutto.
Se ne devono andare.
Dopo il mio articolo su Grillo ho ricevuto 57 lettere tutte dello stesso tenore. Alcune, non tutte ma parecchie, scagliano il loro «Vaffa» declinato nella versione completa contro di me e la riga sotto concludono con un «cordiali saluti» in omaggio alla buona educazione d´un tempo.
Argomenti? Pochi. Uno in realtà ed è quello già citato: dovete andarvene, si deve ricominciare da zero, la nuova «agorà» sarà la rete, il metodo della democrazia rappresentativa non rappresenta nessuno, la forma non è sostanza ma pura e semplice ipocrisia, l´Italia non è quella che vedete dai vostri salotti ma quella di chi lavora e non guadagna abbastanza da poter campare.
Insomma tutto il male da una parte e tutto il bene dall´altra, le menzogne da una parte e la verità dall´altra, l´illegalità di qua e la legalità – quella autentica – di là.
Questo è il modo di pensare di molti ed è in crescita.
Dubito molto che un taglio dell´Ici o dell´Ires o dell´Irpef possa modificare la situazione anche se bisogna continuare a lavorare come se si vivesse mille anni, guardando al domani e non solo all´oggi.
Dubito che serva spiegare e spiegarsi. Quando il pollice della folla è rivolto all´ingiù ci vogliono colpi di scena per fargli cambiare posizione. Ci vogliono emozioni che capovolgano emozioni di segno opposto. Questa équipe politica tutto può fare salvo che suscitare emozioni in proprio favore.
Per queste ragioni credo che sia molto difficile riportare l´aereo governativo a livello di crociera anche perché pochissimi del personale navigante mostrano di aver capito quello che sta accadendo.
E´ probabile che tra sei mesi o tra un anno la gente sia stufa di esibire il pollice verso. Questo genere di ventate passa presto ma dietro di sé lascia un terreno devastato.
Il mitico Sessantotto insegna. Dopo arrivarono gli anni di piombo, l´indifferenza, il richiamo all´ordine. Una parte dei sessantottini di allora rientrò nel mondo della realtà concreta di tutti i giorni; altri finirono nella clandestinità, nel sangue e in galera; altri ancora fecero carriera nei percorsi che avevano vilipeso e desacralizzato.
Di solito va così. Ma qui non siamo in una situazione che consenta lunghe attese. Il tempo passa presto, come dice la canzone. Il distacco tra la città della politica e i sentimenti delle persone è diventato difficile da colmare.
Veltroni ci sta provando ma anche per lui le difficoltà aumentano.
Dicevo che ci vorrebbe un colpo di scena, un segnale preciso che inverta il «trend». Per esempio il taglio del numero dei ministri e dei sottosegretari.
Non annunciarlo ma farlo. La politica degli annunci è deleteria.
L´operazione del taglio dei ministri è difficilissima, come voler prendere il miele da un alveare mentre le api sono tutte nelle loro cellette e non hanno alcuna intenzione di volar via. Ma, se fatta con saggia incisività, sarebbe un colpo di scena coi fiocchi.
Scommetto che non si farà. Quand´anche il presidente del Consiglio si convincesse alla bontà dell´operazione, non avrebbe i poteri per imporla.
Avrebbe bisogno che tutti i ministri e i partiti che sono dietro di loro fossero d´accordo; che ciascuno gli affidasse la sua lettera di dimissioni e si rimettesse alle sue decisioni. Ma saremmo nel mondo dei sogni e non ci siamo.
* * *
Il sondaggio fatto pochi giorni fa da Ilvo Diamanti dice che dei 300 mila cittadini che hanno firmato la proposta di legge Grillo il 58 per cento ha opinioni di sinistra e centrosinistra. Solo il 30 per cento si dichiara di centrodestra. Si sapeva che la sinistra è più sensibile della destra a queste sollecitazioni ma le percentuali sono assai eloquenti.
Una sinistra militante ha dentro di sé il mito della politica, l´ideale della politica. Della politica «alta».
Della politica nobile. Della politica delle mani pulite. Se la presa del potere si impelaga nel lavoro sporco la sinistra militante si sente tradita.
La legalità è tradita.
Gli ideali sono traditi. La rivoluzione è tradita. La palingenesi è tradita.
Anche la destra estrema coltiva questo tipo di mitologia e il tradimento contro di essa: la guerra tradita, la vittoria tradita, la nazione tradita.
La reazione a questi supposti tradimenti è il rifiuto di tutto l´esistente e la sua sostituzione con un nuovo esistente virtuale.
Il riformismo non funziona in questo modo; si accontenta di un passo per volta. Purché non sia un passetto, ma un passo deciso. Uno per volta va bene, ma che incida e lasci una traccia. Se non è un passo ma solo un passetto anche il riformismo militante entra in crisi. I compromessi saltano, le ambizioni individuali prendono il sopravvento, la compattezza degli intenti si disgrega, lo specchio del bene comune si rompe.
Solo il 30 per cento del centrodestra è sensibile agli appelli di Grillo, perché il centrodestra il suo Grillo ce l´ha già e se lo tiene ben stretto. Si chiama Silvio Berlusconi, che da 15 anni fa politica in nome dell´antipolitica, che guida il più grosso partito italiano in nome della lotta ai partiti, che di battute ce ne ha una più di Grillo. Le fa perfino su stesso e ci si ride addosso contagiando quel riso a tutti i suoi fedeli.
Lui è ben contento che ci sia Grillo che il danno lo fa a sinistra. A lui, a Berlusconi, i «Vaffa» gli rimbalzano.
Colpiscono i suoi nemici, non lui.
La sinistra radicale forse non lo prevedeva, ma buona parte dei seguaci del «Vaffa» provengono proprio dalle sue fila.
E perfino dalla Lega. Dai Ds. Da tutti quelli che si sentono traditi. Si sentono offesi. Si sentono feriti.
Li volete riconquistare con le detrazioni fiscali? Col poliziotto di quartiere? Con la confisca dei patrimoni mafiosi? Con la lotta alla prostituzione stradale? Con il recupero dei parametri di Maastricht? Ma via! Vogliono ben altro. Vogliono un giudizio universale. Una purificazione collettiva. Il regno dei giusti dopo le devastazioni dell´apocalisse che punisca i corrotti e i malvagi.
Attenzione: non è la rabbia degli esclusi e degli ultimi.
Non è la protesta dei mendicanti di Brecht nell´«Opera da tre soldi». I protestatari non sono né esclusi né tantomeno ultimi. Ma non si sentono riconosciuti. Si sentono impoveriti nel portafoglio e negli ideali e questa è una miscela esplosiva.
* * *
Leggerete in queste stesse pagine gli esiti del sondaggio effettuato nei giorni scorsi sulle intenzioni di voto, confrontati con quelli del giugno scorso e con i dati delle elezioni 2006. Essi registrano una situazione drammatica per il centrosinistra rispetto ai risultati di un anno fa e un leggero recupero nel confronto col giugno scorso. Quanto al Partito democratico, migliora di un punto e mezzo rispetto a giugno ma non decolla.
Non ancora. Spiccherà il volo dopo il 14 ottobre? Intanto si moltiplicano gli appuntamenti di piazza.
Alleanza nazionale in ottobre, Pezzotta e il «Family Day», Grillo anche lui in ottobre (ma ieri sera ha già fatto il suo show alla «Festa dell´Unità» di Milano), Berlusconi il 2 dicembre e vuole portarci due milioni di persone.
Senza contare il grande referendum dei lavoratori sul Welfare, decisivo anche ai fini della Finanziaria e della tenuta del governo.
Se si votasse oggi, dice il sondaggio, il 65 per cento degli interpellati dà la vittoria al centrodestra, solo il 12 al centrosinistra. Si possono certo opporre a questo sondaggio altri con esiti alquanto diversi, ma la visione comune è quella di un paese agitato, percorso da emozioni e incertezze, speranze e paure. Domina – così mi sembra – un´attesa di palingenesi con sfumature vagamente messianiche.
Quanto di peggio.

Repubblica 16.9.07
Hanna Arendt
L'amore secondo Hannah potenza senza tenerezza
Filosofia al femminile


Ha dedicato la vita allo studio del totalitarismo e della politica. Ha scritto un libro fondamentale sulla banalità burocratica del male nazista. È stata l'amante di Heidegger. La Arendt ha sempre parlato poco di se stessa, ma ha scritto moltissimo. Come si legge nei suoi diari ora pubblicati in Italia
Soltanto quando è spezzato il cuore batte al proprio ritmo. Se non si spezza, si pietrifica

Febbraio 1951
Quel che siamo e sembriamo,
A chi importa.
Quel che facciamo e pensiamo
Nessuno se ne indigna.
Il cielo è in fiamme,
Chiaro il firmamento
Sopra l´unione
che non conosce la via.

Giugno 1951
I pensieri vengono a me,
non sono più un´estranea per loro.
Cresco e divento la loro dimora
come un campo coltivato.

Vieni e abita
nella buia stanza obliqua del mio cuore,
ché la vastità delle onde ancora
si chiude allo spazio.
Vieni e cadi
nei fondi colorati del mio sonno,
che ha paura del ripido
abisso del nostro mondo.
Vieni e vola
nella lontana curva della mia nostalgia,
che l´incendio divampi
all´altezza di una fiamma.
Stai e resta.
Aspetta che l´arrivo giunga
inesorabile dal lancio
di un istante.

Sopravvivere
Ma come si vive con i morti? Di´,
dov´è il suono che ne tradisce la presenza,
com´è il gesto se, condotti da loro,
desideriamo che la prossimità stessa a noi si neghi?
Chi sa il lamento che li allontana da noi
e tira il velo sullo sguardo vuoto?
A che cosa serve rassegnarsi alla loro assenza,
e rivolta il sentimento che impara a sopravvivere.
Il sentimento rivoltato è come il coltello rivoltato nel cuore.

Agosto 1951
Che fretta ha
il tempo,
non si sofferma,
aggiunge
anno dopo anno
alla sua catena.
I capelli
son presto
bianchi e soffiati via.
Ma se il
tempo si divide
ogni anno
in notte e giorno,
se il cuore
si sofferma -
non gioca
all´eternità
col tempo?

Gennaio 1952
Ogni solitudine portata con coerenza sino alla fine sfocia in disperazione e abbandono - semplicemente perché non è possibile gettarsi al collo di se stessi.

Sembra che tutto debba ripetersi. E mi chiedo che ne sarà di Te fra sette anni. La prossima tempesta, che soffia già da ogni direzione, come se si esercitasse nel soffiare e nello spazzare via, Ti risucchierà e Ti farà girare nel vortice, poiché navigando - e anche nei pericoli della navigazione - hai gettato tutto di bordo e sei rimasto senza un peso tuo? Oppure, per parlare una lingua diversa e molto più precisa, che non è la mia lingua, vuoi veramente fare di Te un "contenitore" [...] e condividere l´essenza del contenitore, che è il vuoto?
Non respingerlo subito. Se vuoi (devi?) imboccare questa strada, hai soltanto un´opportunità - che ti si possa ancora incontrare.
La forza diventa potere solo nel momento in cui si allea con altri. La forza che non può diventare potere, perisce da sé in se stessa.

Maggio 1952
Sono solo una
Delle cose,
Quelle piccole,
Che riuscirono
Per esuberanza.
Stringimi fra le Tue mani,
Che si espandano
Oscillanti
Nella riuscita,
Quando hai paura.

Giugno 1952
Manchester
Finché abitiamo questa terra, abbiamo tanto bisogno gli uni degli altri quanto avremo bisogno di Dio nell´ora della morte, quando cioè lasceremo la terra.

Ottobre 1952
In qualunque modo lo si voglia vedere, è incontestabile che a Friburgo io mi sia recata (e non caduta) in una trappola. Ma è ugualmente incontestabile che Martin [Heidegger], lo sappia o no, si trovi in questa trappola, che in essa sia di casa, che abbia costruito la sua casa attorno a questa trappola; cosicché si può andare a trovarlo soltanto se si va a trovarlo nella trappola, se si va in trappola. Quindi sono andata a trovarlo nella trappola. Il risultato è che ora lui sta di nuovo seduto da solo nella sua trappola.

Maggio 1953
L´amore è una potenza e non un sentimento. S´impadronisce dei cuori, ma non nasce dal cuore. L´amore è una potenza dell´universo, nella misura in cui l´universo è vivo. Essa è la potenza della vita e ne garantisce la continuazione contro la morte. Per questo l´amore "supera" la morte. Appena si è impossessato di un cuore, l´amore diventa una potenza ed eventualmente una forza.
L´amore brucia, colpisce l´infra, ovvero lo spazio-mondo fra gli uomini, come il fulmine. Questo è possibile soltanto se vi sono due uomini. Se si aggiunge il terzo, allora lo spazio si ristabilisce immediatamente. Dall´assoluta assenza di mondo (=spazio) degli amanti nasce il nuovo mondo, simboleggiato dal figlio. In questo nuovo infra, nel nuovo spazio di un mondo che inizia, devono stare ora gli amanti, essi vi appartengono e ne sono responsabili. Proprio questa è però la fine dell´amore. Se l´amore persiste, anche questo nuovo mondo viene distrutto. L´eternità dell´amore può esistere soltanto nell´assenza di mondo (dunque: «e se Dio vorrà, ti amerò anche di più dopo la morte» - ma non perché allora io non "vivrò" più e di conseguenza potrò forse essere fedele o qualcosa del genere, ma a condizione di continuare a vivere dopo la morte e di aver perduto in essa soltanto il mondo!) o come amore degli "abbandonati", non a causa dei sentimenti, ma perché, assieme agli amanti, è andata perduta la possibilità di un nuovo spazio mondano.

Gennaio 1954
Amo la terra
come in viaggio
il luogo straniero,
e non diversamente.
Così la vita mi tesse
piano al suo filo
in una trama sconosciuta.
All´improvviso,
come il commiato in viaggio,
il grande silenzio irrompe nel telaio.

Il cuore è un organo curioso; soltanto quando è spezzato, batte al proprio ritmo; se non si spezza, si pietrifica. La pietra che ci cade dal cuore è quasi sempre quella in cui il cuore si era quasi trasformato.

Marzo 1955
Amor mundi - perché è cosi difficile amare il mondo?

Una volta che abbiamo iniziato a pensare, i pensieri arrivano come le mosche e ci succhiano il sangue vitale.

Maggio 1955
Dolcezza grave
La dolcezza è
all´interno delle nostre mani,
quando la superficie si
accomoda alla forma estranea.
La dolcezza è
nella volta celeste notturna,
quando la lontananza si
concede alla terra.
La dolcezza è
nella tua mano e nella mia,
quando la vicinanza bruscamente
ci fa prigionieri.
La malinconia è
nel tuo sguardo e nel mio,
quando la gravità ci
accorda uno nell´altro.

Fine 1957
Ti vedo soltanto
come stavi alla scrivania.
Una luce cadeva in pieno sul tuo viso.
Il vincolo degli sguardi era così stretto,
come se dovesse portare il tuo peso e il mio.
Il legame si è spezzato,
e fra noi si è creato
non so quale strano destino,
che non si può vedere e che nello sguardo
non parla e non tace.
La voce trovò e cercò
ascolto nella poesia.

Natale 1964
Un tempo, per corazzarmi contro la vanità, l´ambizione e i desideri folli, ho spesso giocato con la morte. Al cospetto della morte, della mortalità dei mortali - Vanitas vanitatum vanitas. Un pensiero assai consolatorio. Ma oggi, poiché in parte il mondo viene incontro proprio alla mia vanità, ricompensa la mia ambizione e ogni tanto esaudisce i miei folli desideri, mi rendo conto che il gioco con la morte non serve più. La morte stessa non è più il nostro letto di morte o d´agonia. Non che io abbia paura, ma le mie preoccupazioni vanno al di là della morte, voglio che il mio testamento sia in ordine, le mie carte al sicuro, che quel po´ di denaro sia distribuito in modo giusto - insomma, quando il mondo ci sorride, in fin dei conti siamo subito disposti a provare un interesse estremamente disinteressato nei suoi confronti.

Maggio 1965
A dire il vero, da quando avevo sette anni, ho sempre pensato a Dio, ma non ho mai riflettuto su Dio.
Ho desiderato spesso non dover più vivere, ma non mi sono mai interrogata sul senso della vita.

La nostra cognizione del tempo si orienta esattamente rispetto al numero di anni che abbiamo vissuto. Più si è giovani, più un anno è lungo, ma anche un´ora o un giorno. Se ho cinque anni, un anno corrisponde a un quinto della mia vita; se ne ho cinquanta, è soltanto un cinquantesimo. Ciò cambia solo quando si diventa vecchi e si inizia a contare partendo dalla morte e non più dalla nascita. Allora gli anni diventano di nuovo impercettibilmente più lunghi.

Novembre 1968
La notte scorsa ho sognato Kurt Blumenfeld - per la prima volta in vita mia, credo. Nel sogno, lo incontravo inaspettatamente su un bel ponte nel bosco. Si levava di bocca il sigaro, per baciarmi. Gli dicevo: «Sei veramente tu? Non posso mica farmi baciare da uno sconosciuto». Ma lo dicevo ridendo. Nel sogno non sapevo che era morto. Mi sono svegliata ridendo. Per la gioia di questo incontro inatteso.
(© 2007 Neri Pozza)

Corriere della Sera 16.9.07
Sinistra democratica
Mussi: no al corteo del 20. Angius si allea con lo Sdi
di Roberto Zuccolini


ROMA — Fabio Mussi ribadisce il suo «no» alla manifestazione del 20 ottobre contro l'accordo sul Welfare, pur senza demonizzarla, ma va avanti per la strada che porta alla federazione con Pdci, Rifondazione Comunista e Verdi che a quel corteo, per lo più, andranno. Cammin facendo, però, rischia di perdere qualche pezzo di Sinistra Democratica. Anzi, in realtà uno l'ha già perso. E si chiama Gavino Angius, che ieri non è neanche andato alla riunione del Comitato promotore del nuovo movimento-partito. Un altro, che si chiama Valdo Spini, è invece rimasto. Ma guida una sorta di minoranza interna ed è pronto a fare le valigie se le cose non cambieranno.
È l'anima socialista di Sd, minoranza a tutti gli effetti perché ieri sono stati solo 5 i voti contrari e 5 gli astenuti contro i 245 «sì» al documento della maggioranza. Ma sia Angius che Spini hanno redatto un manifesto firmato in tutto da 19 esponenti della sinistra, tra i quali Franco Grillini, Lucio Villari e, soprattutto, Enrico Boselli. L'obiettivo del gruppo è infatti quello di combattere le stesse battaglie dello Sdi a favore di una più netta collocazione nel Partito socialista europeo. Distinguendosi in questo modo sia dal Pd che da Rifondazione Comunista. Denuncia Spini: «Di fronte all'annuncio di Mussi di non presentare alle prossime amministrative di primavera una lista autonoma di Sinistra Democratica, ci obbliga a ribadire la nostra posizione ». E così, annuncia, «ai primi di ottobre ci sarà una conferenza politico- programmatica di chi aderirà al nostro appello».
Mussi tiene aperto il dialogo ribadendo che Sd «ha l'intenzione di aderire al Pse». E forse anche per questo incassa una protesta molto limitata sul fronte socialista. Il cuore del suo discorso al Comitato promotore lo dedica però al futuro. Che sarà accanto a Prc, Pdci e Verdi, con l'idea di fare una vera e propria federazione, anche se— mette in guardia il ministro dell'Università — «sui contenuti e non sugli schieramenti». Esempio: il documento comune della sinistra sul Welfare, che la prossima settimana sarà presentato a Romano Prodi. Subito dopo verrà prodotto un altro scritto sulla Finanziaria e magari si arriverà ad una stessa linea sulle pensioni. E così via. A fine mese ci sarà addirittura la prima Festa unitaria della sinistra: a Bologna per quattro giorni con chiusura dello stesso Mussi insieme a Gennaro Migliore (Prc), Manuela Palermi (Pdci) e Alfonso Pecoraro Scanio (Verdi).
Certo, restano le differenze su come procedere di fronte all'accordo tra governo e parti sociali sul Welfare. Mussi difende il suo «no» alla piazza, al corteo del 20 ottobre, ma non ne fa un dramma: «Non aderiamo, ma neanche spariamo a palle incatenate contro chi va al corteo». Anche perché forse ci andranno anche alcuni esponenti di Sd, come Giovanni Berlinguer e Cesare Salvi. Ma, in attesa di vedere come andranno le primarie del Pd il 14 ottobre, Sinistra Democratica rilancia possibili accordi elettorali già dalle amministrative della prossima primavera: liste unitarie con gli alleati «là dove è possibile ». Non a caso ieri Rifondazione Comunista faceva sapere che, secondo gli ultimi sondaggi, il partito nelle ultime settimane risulta in crescita e viaggerebbe attorno al 7,3 per cento.

Corriere della Sera 16.9.07
Ferrero agli immigrati: scendete in piazza
Il ministro critica le politiche del governo: mi batto da dentro, ma provo imbarazzo


MILANO — Ha ascoltato il racconto di una donna cinese che da 5 anni attende il ricongiungimento familiare. Ne avrebbe diritto ma è vittima di un disguido burocratico. Ha pensato di trovarsi di fronte a una «vicenda kafkiana, indicibile, di quelle che ti fanno diventare pazzo». E allora il ministro Paolo Ferrero ha chiesto scusa, ha parlato del suo «imbarazzo, perché dopo un anno e mezzo di governo mi accorgo che malgrado i miei sforzi certe situazioni sembrano impossibili da cambiare». E ha detto: «È giusto che queste persone siano incazzate come bestie».
Sabato di metà settembre. Alla Camera del Lavoro di Milano il ministro della Solidarietà sociale incontra i rappresentanti delle comunità di immigrati in città. «Immigrati regolari — sottolinea Ferrero — che lavorano». Spiega che a loro ha suggerito: «Fate sentire la vostra voce, fate una manifestazione per spiegare con forza le vostre ragioni». Credeva di parlare a porte chiuse, invece le sue frasi sono finite sulle agenzie di stampa. Ora non è che le smentisca, ma vuole ricostruire alcuni passaggi della discussione. Per esempio, lui assicura di non aver detto esattamente «a volte mi vergogno di far parte di questo governo». Piuttosto: «Ho parlato del mio imbarazzo. Perché io mi occupo di immigrazione e nonostante ci metta tutta la passione e l'energia che ho, dopo un anno e mezzo non riusciamo a garantire diritti elementari, diritti previsti dalla Bossi-Fini». Quindi torna sulla proposta degli immigrati in piazza. «Non sarebbe controproducente. Anzi, aiuterebbe a scalzare l'idea che gli immigrati sono tutti delinquenti. In Italia ci sono milioni di immigrati che lavorano e producono il 5% della nostra ricchezza. E in 300 mila pagano un mutuo per la casa, perché le banche si sono fidate di loro. Però poi magari non possono andare in ferie, o fare ritorno al proprio Paese, perché al rientro avrebbero difficoltà a rinnovare il permesso di soggiorno. Io a queste persone non posso che chiedere scusa ». In realtà ha anche chiesto: «Fatemi avere le storie dei casi clamorosi di burocrazia cieca, e io le farò pubblicare a mie spese dai maggiori organi di informazione ». Li ha invitati «a denunciare chi, come ambasciate o consolati, mette vincoli al rinnovo dei permessi». Racconta di «persone che stanno qui da 15 o 20 anni, e che patiscono per ritardi clamorosi nelle pratiche per i rinnovi. Rimbalzano da un ufficio all'altro come in un ping-pong. Pagano 70 euro e poi aspettano 18 mesi per un nuovo permesso di soggiorno. Io credo che se queste storie fossero note gli italiani capirebbero perché bisogna cambiare la legge». Passa tutto da lì, secondo Ferrero. Dal superamento della Bossi-Fini. «È decisivo. Altrimenti la questione dei permessi non potrà essere gestita dai Comuni, unico modo per renderla più agile». Poi, certo, «il problema dei permessi è di competenza del Viminale non mia. Ma la situazione è così assurda perché da una parte c'è la destra che pianta casini e dall'altra l'Unione che ha paura di essere sconfitta». Ecco, l'Unione: ha citato anche quella il ministro. «Si parlava di sicurezza. Rispondendo alle critiche di alcuni membri della Cgil al governo ho chiesto "secondo voi cosa è meglio, provare a modificare la Bossi-Fini, lavorando dal di dentro, oppure altro?". Anche se me andassi — ha detto Ferrero — la situazione non sarebbe di facile soluzione, per questo rimango e continuerà la mia battaglia dall'interno. Ci sarà chi parlerà di un conflitto ma non c'è altra via. Lo so che dire "il problema è l'inclusione sociale" non sempre vede la maggioranza d'accordo. Ma io penso che sia la strada giusta, che non si possano dare solo risposte di ordine pubblico. Quindi, anche se dentro l'Unione ci sono contraddizioni del genere, vado avanti».

Liberazione 16.9.07
Il 20 ottobre è di tutti
(la politica non è solo arte del potere...)
di Piero Sansonetti


Finché i partiti politici - o meglio: i gruppi che li dirigono e li rappresentano - continueranno a credere che la politica sia una questione che riguarda soltanto "il potere" e i luoghi e i modi nei quali lo si esercita, non potrà che restare, e aumentare paurosamente, il fossato che ormai divide le persone normali dalla politica. E' un concetto abbastanza semplice, anche se espresso in modo un po' pomposo. Spieghiamoci meglio. Se l'unico scopo della politica è governare, e quindi qualunque atto o impegno politico può essere solo a favore o contro il governo, allora la politica diventa una attività riservata a una casta di amministratori e interessa soltanto questa casta, anche se poi, in molti modi, influenza la qualità della vita di tutti. L'idea che la politica sia una attività che ha come unico scopo - e unica pratica - la conquista e il mantenimento del potere, è una idea molto vicina al concetto totalitario di politica. Nelle dittature la politica è riservata all'establishment del dittatore. Qualunque altra forma è illegale.
Questa complicata premessa serve a dire una cosa semplice: il 20 ottobre - cioè la manifestazione che noi di Liberazione abbiamo promosso insieme ai compagni del manifesto e di Carta e a un'altra quindicina di intellettuali - vuole essere un tentativo di rovesciare - esattamente rovesciare - questo modo di concepire la politica. E di dire che per noi la politica è soprattutto partecipazione, impegno collettivo, pensiero, pratica e teoria, affermazione di principi, idee e valori. E perciò è inutile che ogni cinque minuti ci si chieda se siamo a favore o contro il governo, oppure quali partiti rappresentiamo, o se verranno i ministri al nostro corteo, o con quale settore della Cgil ci schieriamo, o se speriamo di aiutare o danneggiare la "Cosa rossa" e altre questioni simili. A tutte queste domande non sappiamo né vogliamo rispondere. Abbiamo chiesto di scendere in piazza, il 20 ottobre, a quel mondo - in gran parte di sinistra, ma non solo - che ha voglia di impegnarsi, di lottare, di parlare, di pensare, di produrre proteste, iniziative, azioni collettive, perché ritiene che l'assetto della società non funziona, non funziona il modo nel quale la ricchezza e il "diritto a decidere" sono distribuiti (tra le classi, i gruppi, i sessi), e non funziona il mercato come "Dio" regolatore della vita civile, sociale ed economica". Tutto qui. Questa gente - insieme di singoli, di associazioni, di organizzazioni, gruppi collettivi eccetera - costituisce una sinistra di governo? Assolutamente no, per la semplice ragione che noi siamo convinti che non esista una sinistra di governo per definizione, non possa esistere (anche se alla sinistra può toccare il compito di governare o di partecipare al governo) perché l'essenziale della sinistra non è governare ma organizzare la partecipazione.
Perciò è inutile che i giornali, i partiti, i ministri, continuino a cercare di capire in che modo il 20 ottobre peserà nei rapporti di forza tra partiti e sindacati. Il 20 ottobre è un'altra cosa. Non è né di Rifondazione, né della Fiom, né delle femministe, né del movimento Lgbtq né di nessun altro. Il 20 ottobre è di tutti, è di chiunque voglia prenderselo. Ieri il Leoncavallo di Milano ha detto: «il 20 ottobre è mio, e invito Beppe Grillo». Ha fatto benissimo. Noi promotori ci siamo limitati a indicare una data e una esigenza. L'esigenza è quella di impegnarsi in una azione di massa per affrontare un certo numero di problemi - ne abbiamo indicati sette, ma possono aumentare se volete, e già in questi giorni sono aumentati, per esempio con la necessità di fermare la corsa al linciaggio dei lavavetri e dei rom - e per scuotere la politica, che ci sembra un po' addormentata e un po' evanescente, e costringerla a tenere conto del fatto che questi problemi ci sono. La manifestazione è assolutamente aperta, non ha padroni, non ha gerarchie, non ha diplomazie, non ha riti da rispettare.
Nei prossimi giorni - abbiamo deciso venerdì in una piccola riunione alla quale hanno partecipato alcuni dei promotori e altra gente sparsa che ha aderito - terremo una iniziativa pubblica in modo da rendere aperta e collettiva la gestione del mese che ci separa dal 20 ottobre. Poi chiederemo incontri a tutti - associazioni, sindacati, partiti politici - per illustrare la piattaforma, eventualmente arricchirla, e scoprire se e perché questa piattaforma piace o non piace. Inviteremo tutti a venire in piazza con noi. E speriamo che tutti ci rispondano nel merito, sulle cose che diciamo, che chiediamo. Per esempio ci dicano: «no, noi non veniamo perché non condividiamo il vostro pacifismo integrale». Oppure, «no, non veniamo perché non sopportiamo il femminismo». Oppure: «no, perché la proposta avanzata dal governo ai sindacati sul welfare ci sembra ottima e immodificabile e quindi siamo contro di voi». Oppure ci dicano: «siamo contro di voi perché volete un riequilibrio salariale che oggi è pericolosissimo per l'economia italiana». Oppure, «siamo contro di voi perché voi siete amici dei gay, e quindi contro la nostra idea di famiglia tradizionale come architrave della società».
Benissimo, sono tutte risposte comprensibili (non tutte ragionevoli ma tutte comprensibili). Non è comprensibile, invece, chi dice: «no, non veniamo perché non sta bene scendere in piazza», o perché «fare un corteo quando a palazzo Chigi c'è Prodi è roba di destra», oppure chi dice che il 20 ottobre è un attacco alla Cgil, o una manovra della cosa rossa, di Rifondazione e cose simili. Chi fa così torna a ridurre la politica ad affare di palazzo. Possibile che non si capisca che in questo modo non si difende la politica, né il ruolo dei partiti, ma anzi si trasformano i partiti in gelide e inutili macchine burocratiche ed elettorali, che vivono e muoiono solo se hanno o no una quantità sufficiente di potere per alimentarle?

Liberazione 16.9.07
Intervista al sociologo ospite al Festival di Filosofia
Bauman: «I lavavetri? Scarti del sapere-informazione»
di Tonino Bucci


Il nostro mondo è saturo. E' saturo perché il nostro stile economico scarta di continuo individui e modi di vita passati che non sono più considerati conformi alle leggi della globalizzazione. Il progresso, insomma, produce scarti umani e, insieme, l'inquietudine sul come smaltire i rifiuti in eccesso. Proprio quanto accadeva agli abitanti di Leonia - una delle "Città invisibili" di Calvino - alle prese con montagne di spazzature. Questo, Zygmunt Bauman, sociologo e pensatore ospite del Festival di filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo dove si parla di sapere, lo sosteneva in un libro pubblicato tre anni fa, Vite di scarto (Laterza, 176, euro 7,50). Un'analisi penetrante dell'attualità, anche uno scavo nel linguaggio dei media, su termini che compaiono d'abitudine sulle pagine dei giornali. Come gli "esuberi", parola che ha trasformato gli operai in prodotti di risulta che non potranno mai più essere richiamati in servizio. La loro destinazione è la discarica. Nel mucchio potremmo aggiungere anche i lavavetri, parola che ultimamente si è colorata di tinte fosche.

Avremmo una concezione astratta del sapere se non tenessimo conto del suo trasformarsi in ideologia, in un sapere portatore di un ordine e di un progetto sociale che produce scarti umani. Di questa esclusione abbiamo avuto un esempio nella recente campagna di allarmismo sociale e di repressione contro i lavavetri. Sono loro gli scarti del sapere?
E' una domanda abbastanza difficile. Nella modernità i problemi sono stati sempre considerati come una carenza di conoscenza. Il modo di affrontarli perciò era quello di acquisire maggiori informazioni per meglio comprendere la situazione particolare che di volta in volta si presentava.L'obiettivo era quello di raggiungere una conoscenza sufficiente. Cosa è cambiato oggi? Negli ultimi trent'anni la quantità di informazione è cresciuta a ritmi impressionanti, incalcolabili, inimmaginabili nell'epoca precedente.

Basta leggere, per rendersene conto, l'edizione del New York Times: al suo interno ci sono molte più informazioni e conoscenze di quanto una persona mediamente istruita possa padroneggiare e acquisire. Per citare Virilio, la grande minaccia che mette a rischio oggi l'umanità non è la guerra atomica, ma l'ipertrofia e la mole impressionante di informazione. Siamo letteralmente inondati. Basta digitare una parola su Google e immediatamente appaiono decine di migliaia di risposte. La domanda è: quanto sono di utilità alle nostre questioni? Il problema oggi non è l'assenza di conoscenza, bensì la difficoltà di muoverci in questo immenso cumulo di informazioni, molte delle quali sono spazzatura. Per il 99 per cento quella mole di informazione è ingannevole o, comunque, non fa al caso nostro, non ci aiuta a risolvere le nostre domande. Non abbiamo criteri per discernere e distinguere le informazioni che davvero riguardano i problemi più urgenti del mondo contemporaneo, quelle che sono importanti da quelle che non lo sono. Non ne abbiamo né il tempo né gli strumenti. Ecco perché rischiamo d'avere una visione caotica, appannata, sfocata. In questa situazione facilmente possono prendere piede campagne sulla sicurezza e allarmismi sociali - come quella sugli immigrati e i lavavetri - che funzionano come vere e proprie valvole di sfogo delle nostre inquietudini, della nostra insicurezza, del nostro disagio verso i problemi autentici. Il sociologo tedesco Ulrich Beck ha detto che il nostro è un tipo di società in cui i problemi possono venire inventati oppure messi sotto silenzio. Non riusciremo mai a sapere del tutto ciò che è vero e ciò che non è vero.

Per sapere s'intende spesso una conoscenza neutra. Non rischiamo di restare prigionieri di posizioni idealistiche se non evidenziamo che dal sapere nascono anche le ideologie?
L'ideologia è stata sempre considerata una forma di conoscenza inferiore rispetto agli altri saperi, a partire da quello scientifico. Soprattutto la credenza è stata scartata, messa ai margini e considerata non degna di essere studiata. Eppure sono le credenze che influenzano e condizionano i nostri comportamenti.

C'è una forma di ideologia che fa da sfondo alla nostra società consumistica?
L'età moderna è stata caratterizzata dalla lotta contro le emozioni e le passioni. Sono state considerate l'esatto opposto della vita felice che doveva essere guidata invece dalla ragione, pianificata. Sartre diceva che abbiamo necessità di dotarci di un progetto di vita fin dalla nascita capace di costruire un senso della nostra esistenza. Ai giorni nostri ci rendiamo conto invece che c'è un ritorno al passato. Un ritorno al Romanticismo. Attraversiamo un periodo di riabilitazione delle passioni, delle emozioni. Non c'è più la necessità del calcolo razionale ma si lascia spazio ai desideri. Ovviamente ci fa piacere perché ricolloca la nostra esistenza nel mondo nella sua completezza e non solo più soltanto nella sua dimensione razionale. Gli aspetti più umani, i desideri e le passioni, prima venivano azzittiti e repressi nel conflitto con la ragione. Ma in questa riabilitazione hanno un peso anche interessi economici. Se pensiamo agli ultimi cento anni le necessità e i bisogni degli uomini sono notevolmente cresciuti. In passato si pensava che fosse possibile calcolare i bisogni delle persone: una volta che fossero stati soddisfatti si sarebbe raggiunto uno stato di autosufficienza della società. Una condizione permanente in cui non ci sarebbe stato bisogno d'altro. Quest'idea è fallita. E' subentrata la società consumistica, la società dei consumatori nella quale il motore principale è rappresentato proprio dalle necessità che si trasformano in desideri. Oggi c'è stato un passaggio ulteriore. Quando compriamo il desiderio non basta più, non è più sufficiente, c'è qualcosa di più che ci spinge ad acquistare: la volontà di qualcosa. Va distinta dal desiderio. Quando andiamo al supermercato per acquistare qualcosa di cui abbiamo necessità, per esempio del sapone, dobbiamo passare attraverso gli scaffali. E allora siamo attirati da altre cose cui non pensavamo, un paio di scarpe, un abito. Siamo presi dalla volontà di acquistare. Ma è uno stato temporaneo, transitorio. La vita ideale nella società consumistica dovrebbe essere una vita di shopping costante senza però mai concludere l'acquisto. Perché ciò che conta non è l'acquisto in sé e per sé, ma la volontà di acquistare. Le emozioni sono importanti ma non vanno trascurati gli aspetti negativi nella società dello shopping. Abbiamo pur sempre bisogno della guida della ragione anche se ci può apparire un po' grigia e monotona.

il manifesto 16.9.07
Partito democratico, mi si è rotto il kit
di Alessandro Robecchi


Ai responsabili marketing del Partito Democratico - loro sedi
Egregi signori. In data 10.09.2007 ho ricevuto in pacco assicurato il vostro kit di montaggio del Partito Democratico. Ho subito messo mano al libretto delle istruzioni e disposto ordinatamente i pezzi sul mio tavolo di lavoro. Purtroppo le istruzioni non sono chiare. Per esempio: dove devo incollare Luigi Einaudi che il vostro candidato Gawronski indica come «riferimento esemplare»? E Aldo Moro, portato ad esempio da un certo Adinolfi, va inserito nel motorino di avviamento, oppure imbullonato alla struttura portante? Il pannello solare, che Walter Veltroni indica come suo «riferimento esemplare» del Pd, lo devo collegare alle orecchie di Gandhi? Le istruzioni non sono per niente chiare.
In ogni pagina del manuale delle istruzioni è spiegato il modo esplicito, in grassetto, e più volte sottolineato, che non bisogna usare l'ideologia per assemblare le diverse componenti, ma allora che colla uso? Va bene il vinavil? Perché non c'era nel mio kit di montaggio del Partito Democratico? Ho fatto come suggerisce il manuale a pagina uno, dove dice di incastrare il libero mercato nello stato sociale, ma non ci riesco, non ci sta. Devo ridurlo con una lima? Oppure devo prendere a martellate lo stato sociale? Il disegno non è chiaro, e le istruzioni di questo paragrafo sono in cinese. Il libretto non dice dove collocare le forze operaie, mentre ho trovato ben sei confezioni sigillate di «ceto medio». E' vero che c'era un sacchettino con quindici lavavetri e cento rom, ma che vuol dire (manuale utente, pag. 21) «usare secondo le convenienze»?
Con la presente, dunque, intendo esercitare il mio diritto di recesso e rispedirvi il pacco con il kit di montaggio del Partito Democratico, ma siccome non riesco a ricomporre la confezione, è meglio che ve lo veniate a prendere. Fate presto, perché ho Luigi Einaudi in salotto che vuol fondare un partito di sinistra!

il manifesto 16.9.07
«Stiamo attenti, sta nascendo la nuova Dc»
Francesco Garibaldo, ex Fiom, mette in guardia la sinistra: «Il partito democratico? Moderato, neodemocristiano e senza una base di classe». L'antidoto a questa deriva? «Insieme, e subito. Smettetela di litigare e unitevi alla svelta»
di Al. Bra.


«Il Partito democratico? Nasce moderato e senza il radicamento sociale che in Emilia Romagna aveva il Pci». E' negativo il giudizio che Francesco Garibaldo, direttore dell'Istituto per il lavoro, una lunga militanza sindacale alle spalle, dà del nuovo soggetto. Il timore è che si trasformi in una nuova Dc, riducendo lo spazio partito a un semplice contenitore generico. L'antidoto per questa deriva moderata? Semplice, «l'unità a sinistra».
Tra poco si voterà per le primarie del Partito democratico. La sua impressione?
Diciamolo subito: io nel Pd non entro. Non che sia una sorpresa, visto che non ero iscritto neppure ai Ds. La ragione è semplice: il partito che sta nascendo ha dei connotati moderati, senza quel radicamento sociale che, almeno in Emilia Romagna, ha avuto prima il Partito comunista italiano e poi il Pds. Già con i Ds era emersa questa deriva, ora con la nascita del Pd la si sta portando a termine. E' un peccato perché qui era rimasta forte una componente di stampo socialdemocratico legata al mondo del lavoro che, in questo modo, non è più rappresentata: si sono tagliate le radici.
La polemica di questi giorni, la bocciatura da parte della Fiom del protocollo sul welfare, è proprio legata al mondo del lavoro che lei ha appena citato. E alcuni esponenti del futuro Pd hanno accusato la Fiom di voler «far cadere il governo».
E questa è una cosa inaccettabile. Il nuovo partito sta cadendo in suggestioni di tipo autoritario. Si vuole negare la legittima libertà dialettica. E' vero che quando si è al governo bisogna trovare una sintesi, ma si può trovare attraverso la dialettica politica e sociale: perché questo accanimento verso il dissenso? E poi questa assurdità che se vengono fatte valere le ragioni del dissenso allora cade il governo. La Fiom ha espresso legittimamente la sua contrarietà a un accordo che rischia di minare l'autonomia del sindacato. Invece di perdersi in queste chiacchiere che servono solo al mantenimento degli equilibri politici sarebbe meglio ragionare nel merito di un accordo che va avversato, se non si vuole perdere il contatto con la propria base.
Lei parla di «radici tagliate» e di «perdere il contatto con la base». Il nuovo partito sarà l'unione di due culture, la ex comunista e la ex democristiana, quindi dovrebbe allargare la sua base.
Non credo proprio. I dirigenti del nuovo partito che arrivano dal Pci-Pds-Ds ritengono che la dinamica capitale-lavoro non sia più buona per leggere la società, la vedono come un retaggio del Novecento. Il mondo del lavoro non è più il criterio interpretativo della realtà ma solo una delle dimensioni della società. Basta guardare ai programmi presentati: non si parla più del lavoro, resta solo un accenno, neanche troppo realistico, a ipotetici nuovi strumenti di giustizia sociale da trovare. Ma in questo modo si perde il contatto con la propria base.
Anche in Emilia Romagna?
Sì, qui avrà successo, ma in misura minore rispetto alle aspettative. Parti significative del mondo del lavoro, per esempio, non entreranno nel Partito democratico. Chi ha pianificato l'operazione Pd si aspettava un percorso più agevole, invece si è scontrato con la resistenza di gran parte del mondo civile, che difende un patrimonio importante che aiuta a mantenere una continuità di rappresentanza. Certo che se le premesse sono quelle veltroniane allora un largo successo del nuovo partito lo vedo difficile. Il rischio è che il Pd diventi una nuova Democrazia cristiana, un contenitore generico.
Che ruolo potrà avere secondo lei la sinistra nel nuovo soggetto?
Beh, una sinistra vera, nessuno.
E quindi che si deve fare?
L'unità a sinistra. In questo momento diventa ancora più impellente. Si potrebbe chiamare sinistra tout court.
E che rapporti dovrebbe avere col Pd?
Certamente sarà possibile un'alleanza per realizzare con questo nuovo centro un mandato di governo. Però dovrà essere ben chiaro questo: che le cose devono essere chiamate col loro nome. E allora non permettiamo a una forza neoliberista di dirsi di sinistra, perché sarebbe davvero troppo: il centro che vuole rappresentare la sinistra.



Bauman: «Purtroppo è passato moltissimo tempo da quando io ho educato e istruito i miei figli, e per certi versi ho completamente dimenticato come si educano i ragazzi e i bambini. Posso rispondere quindi in qualità di persona che non è attivamente impegnata nell’educazione e darò quindi una risposta di carattere generale.

L’età moderna è sempre stata caratterizzata da questa lotta nei confronti delle passioni e delle emozioni, considerate l’esatto opposto della possibilità di una vita felice, che deve essere guidata quindi necessariamente dalla ragione, come è stato inizialmente pianificato. Jean-Paul Sartre ha aggiunto che ci deve essere dall’inizio un progetto ben determinato che possa guidarci verso la strada della felicità, da impostare fin dalla nascita. Praticamente quindi, passando di secolo in secolo, ai giorni nostri ci rendiamo conto che c’è un ritorno al passato, un ritorno al Romanticismo. Un ritorno che quindi, per certi versi, nega quanto è stato sostenuto nel periodo importante della ragione, l’Illuminismo. Oggi stiamo attraversando un periodo di grande riabilitazione delle passioni, delle emozioni. Non c'è più la necessità del calcolo razionale alla base di tutto, ma si lascia spazio ai desideri e alle emozioni. Ciò ovviamente ci fa piacere perché ricolloca la nostra esistenza umana nella sua completezza all’interno del mondo, perché questa grandissima importanza che in passato era conferita alla ragione era del tutto parziale: le emozioni e ciò che è più caratteristico della vita umana, venivano azzittiti e repressi. Ma questa riabilitazione delle emozioni e delle pulsioni irrazionali allo stesso tempo fa nascere anche il sospetto che sia un pochino si parte; se pensiamo a cento anni fa ci rendiamo conto che si comprava solo in caso di stretta necessità, mentre ora il volume delle necessità umane è notevolmente cambiato. In passato si pensava che fosse possibile calcolare i bisogni delle persone: una volta che fossero stati soddisfatti i bisogni si sarebbe raggiunta una condizione permanente di autosufficienza della società. Nel scorso secolo quest’idea è andata incontro al fallimento perché è subentrata la società consumistica, la società dei consumatori dove il motore principale è rappresentato proprio dalle necessità che si trasformano in desideri, e i desideri a loro volta sono emozioni. Quest’idea è naufragata ancora una volta perché si è passati addirittura oltre. Ora quando compriamo qualcosa non lo facciamo più spinti da un desiderio. Il desiderio in sé per sé non è più sufficiente, c'è qualcosa di più che ci spinge ad acquistare: la volontà di qualcosa (diversamente dall’italiano, il termine inglese è sempre “to want”. Desiderio e volontà vanno invece distinti). Quando andiamo al supermercato per acquistare qualcosa di cui abbiamo necessità, per esempio del sapone, passiamo anche accanto a una bellissima boutique. Vediamo un paio di scarpe che inevitabilmente ci piacciono, sentiamo una forte attrazione, scatta la volontà di acquistare: entriamo e compriamo. Ma è una volontà assolutamente temporanea. La nostra vita ideale dovrebbe essere una vita di shopping costante senza però mai concludere l'acquisto, bisognerebbe cioè fermarsi alla fase precedente. Proprio perché l'acquisto in sé e per sé è si l’apice ma non è la parte più importante, anzi è il punto negativo. Benissimo quindi questa riabilitazione delle emozioni senza però trascurare quelli che sono gli aspetti negativi, come ad esempio lo shopping sfrenato.

Per tornare allo specifico della domanda che mi è stata rivolta, non è semplice e non si può dare una risposta immediata. Bisogna un pochino giocare su questi due aspetti, non c’è una “parola chiave” con i bambini. C’è da mantenere un importante equilibrio tra la ragione che fa da guida – per cui è importante anche se grigia e non particolarmente divertente - e quelle che sono invece le nostre grandi emozioni.