martedì 18 settembre 2007

Liberazione 18.9.07
Intervento alla festa dell'Humanitè a Parigi
Bertinotti: «Il 20 ottobre per l'unità della sinistra. Riconciliamoci col popolo»
di Ivan Bonfanti


Al parco della Cournevue la festa de l'Humanitè fa impressione. Uno si aspetta un raduno in sordina, il popolo del Pcf col muso lungo e in giro tanta depressione per la batosta alle presidenziali, e invece a Saint Denis è un fiume in piena. Nei pratoni della tradizionale Féte, dedicata quest'anno a la France qui resiste! , in tre giorni sono arrivate 600mila persone. Soprattutto giovani, appollaiati su una distesa di tende e camper o già intenti a fumare qualche aperitivo psichedelico. Intorno è uno sciamare di famiglie e ragazzini, drappelli di anziani dalle campagne uniti alle ragazzine alternative e ai punk nell'assalto allo stand dell'Alta Savoia che alla mezza serve una coppia per fegati navigati: Bordeaux e Raclette. Altro che tristezza, la Féte de l'Huma è un calderone festoso, un appuntamento tradizionale dove il popolo della sinistra si ritrova unito.
Se ne accorge subito il presidente della Camera, che trova la sponda ideale per iniziare la riflessione sulle Sinistre in Europa, cioè il titolo del convegno per cui è venuto alla periferia di Parigi, invitato dai comunisti francesi che si preparano al congresso straordinario che dovrebbe aver luogo a dicembre. Fausto Bertinotti arriva alla Fète de l'Huma e in parecchi lo riconoscono, qualcuno lo ferma e scatta la foto ricordo, altri chiedono una battuta o spiegano agli ignari: regarde, il-y-a Bertinottì . «A giudicare da un ritrovo del genere si direbbe che il Pcf è un partito dal 20 per cento, con una presenza e un radicamento sociale di massa», commenta il presidente della Camera. «Invece se è vero che questa gente continua a costituirsi come popolo della sinistra, è altrettanto innegabile che al momento delle elezioni, quando si vota, la sinistra fa una grande fatica. E' certo un effetto del voto utile, ma è un simbolo evidente del diaframma che c'è oggi tra l'insediamento sociale del tuo popolo e il voto, un segno della generale e profonda crisi della politica». Una crisi che chiama direttamente in causa la sinistra, secondo le riflessioni che corrono nell'Agorà de l'Humanitè, l'affollata pazza che ospita il dibattito tra Bertinotti, Lothar Bisky, segretario della nuova formazione unita della sinistra tedesca Die Linke, e il presidente del Gue-Ngl al Parlamento europeo, il francese Francis Wurtz. «La sinistra in Europa - spiega Bertinotti - si trova oggi di fronte a una sfida che è forse la più difficile della sua storia, se non sapremo dare delle risposte a rischio c'è la nostra stessa esistenza politica e un pericolo più generale per la democrazia».
Tuttavia non è lo spettro di una risposta autoritaria nella forma classica che inquieta il presidente della Camera. «Più che altro c'è un rischio tecnocratico, l'eventualità che la protesta conduca al populismo, la perdita di identità, la percezione che i partiti siano tutti uguali e quel fenomeno, che non è difficile riscontrare nel Nord Italia, di una stessa persona che magari può criticare da sinistra l'accordo sul welfare, applaudire Grillo e poi votare Lega». Incalzato dai cronisti sull'exploit del comico Beppe Grillo applaudito anche al festival dell'Unità, Bertinotti rilancia: «I vuoti della politica si colmano, poi però i materiali con cui li si colma possono essere buoni o cattivi. In ogni caso è la politica, che attraverso la sua autoriforma, deve trovare il modo di riconciliarsi con il popolo».
Cercare le risposte, non nascondersi nella battaglia «per dare al mondo la prospettiva di un socialismo del XX secolo», ricostruire l'unità delle sinistre anti-liberali partendo «dalla critica sul lavoro, che anche quando non c'è rimane comunque un fattore identitario per il nuovo capitalismo, che tramite il concetto di lavoro valorizza se stesso ma colonizza anche il corpo e la mente delle persone». Bertinotti cita anche Marx e strappa applausi: «La spoliazione del lavoro attuale è senza precedenti; il lavoro non è mai stato così socializzato e i lavoratori non sono mai stati così soli».
La parola unità richiama anche il percorso in atto nel nostro Paese, evoca il corteo del 20 ottobre. Ci andranno divise, le sinistre? Fausto Bertinotti ci crede poco, anzi: «Staremo a vedere, sarà la piazza a fare la prova del budino e confido che Sinistra democratica sarà largamente presente». In ogni modo «la sinistra andrà d'accordo prima, durante e dopo. Anche perchè l'idea dell'armata macedone che è stata tanta parte dell'idea organizzata della sinistra, ha fatto il suo tempo». Dunque, «anche una stessa formazione politica ora bisogna pensarla più come ad un arcipelago piuttosto che come ad un monolite».
Bertinotti di fronte alla platea francese rivendica con orgoglio il percorso di Rifondazione. «Abbiamo fatto delle grandi innovazioni culturali anche realizzando delle rotture difficili con parti della nostra storia. Abbiamo incontrato altre culture da cui abbiamo imparato tanto: il femminismo, l'ecologismo, il pacifismo. Fino ad approdare con un lungo e difficile dibattito alla cultura della non violenza come logica di partecipazione per il cambiamento del mondo, e io penso che la Sinistra Europea debba proseguire su questo cammino, senza dimenticare il tema centrale del lavoro senza la quale la sinistra non esiste».
Proprio la Sinistra Europea, che si appresta al Congresso di novembre dove Bertinotti lascerà l'incarico alla presidenza (probabilmente a favore di Bisky), è un esempio di «un nuovo modello di arcipelago». Ma guai a dimenticare che la sfida è complessa e vitale. Ricorda Bertinotti, interrogato da una signora sulla partecipazione di Rifondazione al governo. «Io credo che se la sinistra scegliesse in modo aprioristico di non andare al governo, si condannerebbe ad essere sempre minoritaria». Anzi: «In Italia la sinistra alternativa sarebbe stata cancellata se non avesse contribuito a sconfiggere Berlusconi». Al tempo stesso però, se volesse stare al governo a tutti i costi, smetterebbe di essere sinistra». Insomma la partecipazione non deve essere la questione più importante, deve esserlo il« come». Come «vincere la guerra contro il precariato, i bassi salari, il degrado dello stato sociale e contro un'economia di rapina verso le persone e l'ambiente. Non perdiamo, la sinistra non esiste più».

Liberazione 18.9.07
A scorrere certe dichiarazioni però sembra di leggere il vecchio "Male" (ve lo ricordate?)
Grillo-Veltroni: l'idea politica è la stessa
(E a Prodi, che ci paragona a Bossi, diciamo...)


Chissà se qualcuno di voi ricorda "il Male", giornale satirico che ebbe un gran successo una trentina d'anni fa. Tra le sue iniziative più riuscite c'era quella di stampare le finte prime pagine dei grandi giornali ( Corriere, Repubblica, Stampa e altri) con titoli deliranti, che riportavano notizie clamorose e impossibili. Del tipo: "Preso il capo delle Brigate Rosse: è Tognazzi"; oppure: "Sono sbarcati i marziani, è iniziata l'invasione". Il più delle volte però il titolo era politico e riguardava ipotetiche, stravaganti - e naturalmente false - prese di posizione della Dc o del Pci o di Craxi. Un sacco di gente ci cascava, restava stupita, si preoccupava.
Leggendo i titoloni che campeggiavano sulle prime pagine dei grandi giornali di ieri, si aveva nettamente l'impressione di un effetto- Male. Cioè si aveva l'idea dello scherzo, della beffa giornalistica. Prendiamo Repubblica. Il titolo principale, enorme, quasi a tutta pagina, gridava così: "Elezioni, via alle liste Grillo". Il secondo titolo era ancora più clamoroso: "La ricetta di Veltroni per la Rai: abolire il Cda, serve un manager".
Traduciamo questi due titoli. Il primo sostiene che un attore comico, neanche dei più famosi e raffinati, ha deciso di diventare un capo politico e di spazzar via i partiti. Il secondo titolo sostiene che un uomo di sinistra, che si è sempre battuto per la Tv pubblica - e quasi ha fatto di questa sua battaglia un "distintivo", un segno di riconoscimento - ora chiedere di mandare tutto all'aria, di affrancare la Tv dal controllo del Parlamento e di affidarla a un manager scelto dai privati. Se poi leggi meglio la notizia sulla dichiarazione di Veltroni, scopri che il sindaco ha parlato addirittura di delega ad una ditta di "Head Hunters", cioè cacciatori di teste. Chi non fosse troppo esperto di economia aziendale potrebbe a questo punto persino spaventarsi: pensare che Veltroni vuole dare la Rai a una banda di assassini. Invece "cacciatori di teste" (ma Veltroni, che ama l'America, ha pronunciato questa espressione in inglese) nel gergo della grande impresa vuol dire un'altra cosa: i cacciatori di teste sono delle agenzie che cercano ipotetici manager, ne valutano le doti (per esempio il cinismo, la capacità di mettere il profitto al di sopra della ragionevolezza, eccetera...) e poi li propongono alle imprese che ne facciano i loro dirigenti. L'idea del dirigente che nasce non dal cuore della produzione ma dalla burocrazia del mercato, è una delle caratteristiche del capitalismo moderno. Il problema è che di queste espressioni un po' rudi - come cacciatori di teste - si vergognano abbastanza anche gli ambienti del capitalismo (che le usano in privato, ma non in pubblico): perché mai invece un tipo come Veltroni, che fu allevato da Berlinguer, non da Ricucci, ne fa sfoggio? Ne fa sfoggio, evidenemente, perché pensa che questo nuovo linguaggio lo aiuti a entrare meglio nei circoli ai quali, appunto, pensa di consegnare la Tv, e dai quali aspetta un aiuto una volta che sarà il capo del piddi.
Il fatto è che l'idea di Veltroni di dare la Tv ai cacciatori di teste e quella di Grillo di prendersi lui la direzione della politica, si assomigliano maledettamente. Nascono tutte e due dall'idea che la politica vera - quella fatta di conflitti, lotte, scelte, idee, rappresentanza di interessi di massa - sia morta e sepolta. E che le grandi scelte devono essere consegnate ai padroni dell'economia, e tutto il resto deve diventare spettacolo. La causa della crisi della politica sono le idee di Grillo e Veltroni che - anche se loro non lo sanno - si assomigliano moltissimo. Loro però le riprongono come soluzione della crisi. Pensano che il modo migliore per curare un male sia il male stesso.

P.S. A fine serata rivalutiamo Grillo (o almeno il suo linguaggio). Leggendo che Prodi ha detto: «Il 20 ottobre? Niente di grave. C'è il 20 ottobre, poi c'è una manifestazione di Bossi, poi ce ne sarà una di Berlusconi...». Difficile commentare una frase così stupida senza usare una classica espressione di Grillo: "ma va..."

Liberazione Lettere 18.9.07
Riccardo Lombardi. A 23 anni dalla scomparsa del leader socialista,perché amo definirmi "lombardiano"
di Carlo Patrignani


Caro direttore, tra "grillini" e "girotondini" o "riformisti" e "massimalisti" di oggi e di ieri, io preferisco, ricorrendo alla moderna, ma errata identità d'appartenenza definirmi "lombardiano", in onore di Riccardo Lombardi di cui martedì 18 settembre ricorre il ventitreesimo anniversario della morte. E proprio in questi giorni se n'è andato un altro grande socialista: lo storico Gaetano Arfè. Entrambi antifascisti, prima in "Giustizia e Libertà" poi nel Partito d'Azione quindi nel Psi, hanno avuto funerali laici e non religiosi. Perché "lombardiano"? Per le qualità dell'uomo e poi del politico: laicità, onestà intellettuale e morale, amore per la ricerca e la libertà, giusta e ineludibile considerazione degli altri esseri umani e scelta di campo a favore di chi vive del proprio lavoro, un tempo si diceva di chi soffre, ed anche una dose di stravaganza ed insofferenza per l'omologazione sociale ed il quieto vivere. Queste nobilissime qualità gli permettevano di aver sempre presenti gli interessi generali del Paese: operai e ceti medi, dirigenti e disoccupati, andavano tutelati tutti e per farlo inventò il "riformismo rivoluzionario", ossia le "riforme di struttura" con cui procedere - rottura dopo rottura - a quel cambiamento profondo delle condizioni di vita e di lavoro della gente. Una rivoluzione d'idee e progetti, che escludeva "a priori" la lotta armata e la violenza, come la prepotenza e l'arroganza. «Si governa col 51% dei consensi: non temo una maggioranza siffatta quanto le maggioranze col 70-80% e più di consensi», replicava nel 1973 ad Enrico Berlinguer nel confronto che li vide protagonisti tra le due opzioni politiche: "alternativa di sinistra" e "compromesso storico". Fautore di una "alternativa di sinistra" che non fosse "relegata a tempi storici ma politici" Lombardi, come del resto anche Arfè, chiedeva al suo Psi ed al Pci di liberarsi delle rispettive fasulle "identità d'appartenenza" per proporre e battersi per una società socialista, per una «democrazia socialista dove a tutti fosse assicurata la possibilità di realizzare la propria identità», dove ci fossero condizioni di pari opportunità per tutti e non diseguaglianze gratuite e ingiuste. Ambiva l'ingegnere "acomunista" ad una società "ricca ma diversamente ricca", dove cioè soddisfatti i bisogni minimi di sopravvivenza (lavoro e casa, sanità ed istruzione) poi per tutti fosse possibile veder realizzate le proprie esigenze di acculturarsi, di conoscere e apprezzare Picasso e Dante, di aver tempo per la ricerca personale e per far l'amore. «Chi l'ha detto che bisogna lavorare otto ore al giorno e per sei giorni la settimana e fino a 60 anni di età? Si può procedere ad una radicale riduzione dell'orario di lavoro settimanale anche per creare posti di lavoro per chi non lo ha», era la sua tesi. E che fosse giusta, lo dimostrò un "amletico", così dicevano di lui, sindacalista per il quale Lombardi fu «la persona più importante della mia vita», Bruno Trentin, scomparso di recente e anche per lui funerali laici e non religiosi. Credo che per chi volesse veramente fare "la nuova soggettività" della sinistra ci siano fonti cui abbeverarsi…
Carlo Patrignani via e-mail

il manifesto 18.9.07
Il segretario di Rifondazione: «La sinistra rischia il declino. Se la politica non affronta i problemi reali esploderà»
Se la politica non affronta i problemi reali esploderà» Giordano: 20 ottobre una piazza al plurale
L'Italia è in una crisi sociale e democratica profonda. Per affrontarla è necessaria l'unità a sinistra. A dicembre stati generali. Disposti a discutere su un simbolo comune
di Matteo Bartocci


«Dobbiamo fare in fretta sia sulla mobilitazione sia sulla costruzione di un soggetto politico unitario altrimenti rischiamo il declino della sinistra in Italia». Incontriamo Franco Giordano nel suo studio a via del Policlinico, mentre prepara la relazione per la direzione di Rifondazione prevista oggi, un testo tutto centrato sulla «crisi italiana» e sulla necessità di aggregare la sinistra pena la sua scomparsa.
Giordano, iniziamo dal 20 ottobre. E' un appuntamento all'altezza dell'attuale crisi politica?
La manifestazione è decisiva per almeno due motivi: è il collante di un popolo che riconosce il proprio legame e può evitare che le singole vertenzialità dei movimenti, le tante critiche all'ordine esistente, restino isolate e non incidano sulle scelte di governo. Il 20 ottobre è questo, una risposta critica e positiva al degrado della politica. Le chiacchiere sui ministri, o se è una manifestazione contro il governo sono solo sciocchezze.
In tanti, a partire da Marco Revelli, hanno però criticato proprio la voracità dei partiti, una «politica cannibale» che ha sequestrato anche il 20 ottobre.
Vorrei tranquillizzare Revelli: le sue preoccupazioni sono le nostre. Rifondazione aderisce a questa manifestazione perché il suo impianto è chiarissimo: è esattamente la ripresa di parola e la ricostruzione di un legame con tutte le esperienze di lotta che possono rinnovare l'identità politica e culturale delle sinistre in Italia. Anch'io ho un sogno, una sinistra pacifista, antiliberista, ambientalista, femminista e laica. Al Pd invece dico che manifestare è nella tradizione migliore della sinistra democratica e cattolica di questo paese.
Ma mescolare il terreno del governo, che giocoforza è quello della mediazione, con le richieste di una piazza non ha generato un cortocircuito che penalizza entrambi?
Il processo di ricostruzione della sinistra è indipendente dal governo, può certamente incidere sulle sue scelte ma non c'è una gerarchia. Guardiamo i processi di fondo. Viviamo una crisi sociale e democratica profonda. La crisi della politica, che abbiamo denunciato da tempo, è oggi evidente. Una delle sue cause è il processo di «americanizzazione» della partecipazione. Il Pd è totalmente dentro questo processo e si dà proprio in virtù di un modello di società passiva. Questa passività genera o indifferenza o una ribellione scomposta. E' questo il vero cortocircuito. Se la politica non serve a cambiare la vita perché occuparsene? E' meglio criticarne, spesso non a torto, i suoi aspetti degradanti o la sua dimensione patologica di «casta».
Come è potuto accadere?
Perché la politica è diventata una pura ancella del mercato. Non è un caso che intervenga solo sugli ultimi, i precari, i senzacasa, i lavavetri. E' una politica muta sui poteri forti e pericolosa per i deboli. La pulsione securitaria delle ultime settimane nasce anche da qui. Il Pd non ha un'idea di società alternativa e finisce per schiacciarsi solo e unicamente sul governo. Senza una chiara idea di fondo può però capitare che le risposte del governo siano le più diverse se non opposte, come si è visto sulla giustizia, sul fisco e sul welfare. Tutte, comunque, interscambiabili con la cultura delle destre. La prova? Il giovane Letta ha superato a destra perfino Rutelli: apprezza Tremonti, ripropone il nucleare e critica la conferenza sul clima in nome del diritto dell'impresa. Ci accusano di voler far tornare Berlusconi ma come si fa a non vedere che la destabilizzazione nella maggioranza nasce con l'avvio della discussione sul Pd? Chi è che vuole continuamente accantonare il programma, che prospetta alleanze diverse, che rompe il mandato elettorale? Partiamo invece da problemi concreti: molte famiglie sono indebitate per la metà del loro reddito, i salari italiani crescono in termini reali meno che nel resto d'Europa, esplodono l'immigrazione interna e il pendolarismo. Solo nell'ultimo anno sono emigrati 270mila giovani del sud, spesso diplomati o laureati: non accadeva dagli anni '60. Se la politica non affronta questo rischia di esplodere.
Anche in questa legislatura ci sono state tante manifestazioni. Penso a quella di novembre contro la precarietà o a Vicenza. Sono state manifestazioni chiare, positive e partecipate ma non è cambiato nulla. Perché il 20 ottobre dovrebbe andare diversamente?
Questo è un passaggio decisivo. Stavolta questa forma di protagonismo sociale si accompagna con la costruzione di una soggettività politica unitaria. E' chiaro che anche se sono due cose distinte questi processi insieme possono dare un cambiamento nelle scelte del governo e una vera centralità alle richieste di una sinistra ampia e plurale.
Nonostante il desiderio di unità, però, la manifestazione del 20 nasce con la sfiducia della Cgil.
Non voglio enfatizzare le divisioni a sinistra ma sono io che chiedo autonomia da tutta la dialettica interna al sindacato. Quella dialettica rischia di paralizzare la manifestazione. Quando abbiamo condiviso la posizione della Fiom non l'abbiamo fatto contro la Cgil o una parte di essa ma perché sollevava un tema su cui tutta la politica deve interrogarsi: la solitudine della classe operaia.
A che condizioni secondo te il 20 ottobre sarà un successo?
Quella manifestazione pone alcune domande concrete al governo ma parla innanzitutto alla società italiana. Sono sicuro che sarà grandissima. Sarà un successo tanto più sarà plurale, se riuscirà a mettere in connessione tra loro, valorizzandole, tante esperienze reali, vere. Se farà questo riuscirà, e sarà un evento con cui tutti dovremo fare i conti.
La manifestazione ha una piattaforma piuttosto precisa: pace, diritti civili, lotta al precariato, legalità. Se quelle istanze non vengono recepite voi, voi partito, che fate?
Stavolta mi pare che il problema dell'efficacia si è posto su binari corretti. Nelle prossime ore Rifondazione e le altre forze di sinistra presenteranno a Prodi un documento politico diciamo così, preventivo, che chiede collegialità e una costruzione unitaria delle politiche economiche e sociali. Le nostre centralità sono in sintonia con la manifestazione del 20 e su quel documento saremo determinatissimi. E' un testo molto chiaro, che propone un'idea di sviluppo diversa da quella tutta fondata sull'abbassamento di tutele e salari per ottenere una competitività di prezzo. Noi vogliamo proiettare l'Italia verso tutele adeguate, dare vita a una nuova redistribuzione e puntare sull'innovazione formativa e produttiva in senso ecologico. Nulla di estremistico, sono richieste alla base delle buone politiche europee.
Insieme a Fabio Mussi hai rilanciato gli «stati generali della sinistra». Come si realizzeranno?
Alla sinistra serve soprattutto una svolta culturale. Rifondazione è pronta da tempo, anzi invoca, l'unità e vi parteciperà anche come Sinistra europea. Attualmente si discute di un livello federativo ma la nostra bussola è la partecipazione democratica. Gli stati generali non devono servire a declinare un linguaggio comune perché quello c'è già. Deve essere una giornata aperta a tutti, di massa, in cui anche le comunità siano protagoniste attive, penso all'esperienza No Tav, a Scanzano, a Vicenza. Deve emergere un soggetto caldo, partecipato, frutto di esperienze reali. Guai a costruire un soggetto politico solo per via istituzionale, non scalfiremo mai i rapporti di forza nella società. Con la nascita del Pd si apre una sfida strategica. Per noi il governo è un mezzo: ci puoi stare oppure no. Spero che in futuro si costruiscano le condizioni per una collaborazione tra il Pd e una sinistra plurale e unitaria. Però non si dà a priori.
L'unità a sinistra a partire dalle amministrative prelude a un abbandono del vostro simbolo?
Lo discuteremo con gli altri. Per noi il processo unitario deve tenere insieme soggetti politici, singoli e associazioni riconoscendo l'autonomia di tutti e costruendo una cultura nuova. Il simbolo seguirà.

il manifesto 18.9.07
Spinoza. La feconda eredità di un pensiero materialista proiettato sul presente
Il Meridiano delle «Opere» di Baruch Spinoza. Una raccolta e una bella traduzione di tutti gli scritti unita a una efficace nota che scandisce la vita del filosofo olandese. L'interpretazione di Spinoza è stata in perenne rinnovamento, anche se non mancano ancora studiosi che cercano di neutralizzare un pensiero la cui eredità permette di uscire dalla crisi della cultura della sinistra italiana
di Toni Negri


In una recente intervista Pierre-François Moreau (oggi punto di riferimento degli studi francesi su Spinoza) ha notato che l'Italia è forse il paese nel quale si pubblica di più sull'opera di Spinoza. Paradossalmente, nel nostro paese non c'era tuttavia un'edizione di riferimento che, in buon italiano, comprendesse l'intera opera del grande autore seicentesco. Oggi, questa Opera finalmente c'è: pubblicata da Mondadori nei Meridiani, a cura e con un saggio introduttivo di Filippo Mignini (che ha anche lavorato alle traduzioni ed alle note con Omero Proietti). Quest'edizione è importantissima perché raccoglie, come s'è detto, tutta l'opera di Spinoza, perché la traduce bene, perché contiene un'utile introduzione teorica, un accurato accenno storico alla fortuna di Spinoza e soprattutto perché offre un'accurata cronologia ragionata sulla vita di Spinoza e sull'ambiente olandese nel quale la sua filosofia si è formata. (A proposito chi ne ha il tempo può ancora visitare a Parigi, nel Musée d'Art et d'Histoire du Judaisme, una ricchissima ed appassionante esposizione sull'Amsterdam ebraica di Rembrant e Spinoza). Era ora che questo strumento essenziale fosse messo a disposizione degli studiosi italiani.
Un autore azzerato
Come ben si segnala nell'introduzione, l'interpretazione di Spinoza e la sua fortuna sono state in perenne rinnovamento. Anche a chi scrive è richiesto di prendere posizione su questo terreno e di misurare in che prospettiva mettersi nello spendere o forse, meglio, nell'investire le fortune lasciateci da Spinoza. Ho tra le mani la recensione che alla traduzione Mignini-Proietti, ha fatto Emanuele Severino ne Il Corriere della Sera. S'intitola: «Spinoza, Dio e il Nulla. Il Maestro del Seicento, lontano dalla religione, ma tentato di negare il mondo» (30 Giugno 2007). Severino aderisce all'affermazione di Mignini che la filosofia di Spinoza rappresenti: «il più radicale ed alternativo sistema della storia filosofica dell'Occidente dopo la venuta di Cristo» - ma, come spesso gli storici della filosofia hanno fatto (allo scopo di neutralizzare questa potente radicalità alternativa), aggiunge che l'immanenza spinozista si sporge sul nulla, che l'assoluto della produzione sembra confondersi in quello della distruzione e che queste spinte opposte «hanno in comune la convinzione decisiva ed abissale che le cose del mondo sono nulla».
Questo sforzo di neutralizzazione è stato probabilmente - nella sua forma più sofisticata - elaborato da Hegel quando, dopo aver affermato che «se non si è spinozisti, non può filosofare» - che cioè solo l'assunzione dell'assoluto e l'immersione in esso aprono alla filosofia - immediatamente aggiunge: non solo Spinoza non ha la capacità di sviluppare quest'assolutezza perché non è trinitario, dialettico, perché è ebreo ma anche perché, «povero tisicuzzo», non ne ha la forza. Quale smalcazonata! Perdura, tuttavia, questo stile di polemica e permette a chi vede nell'essere una tendenza alla morte, di rimproverare a chi scriveva: «l'uomo libero a nulla pensa di meno che alla morte, e la sua saggezza è meditazione non della morte ma della vita» (Ethica), di confondere l'essere e il non essere. Eppure no: «la nostra mente, in quanto percepisce le cose con verità, è una parte dell'intelletto infinito di Dio» (Ethica). Possiede dunque la potenza del divino - questa natura, questa materia della quale siamo fatti, hanno quella potenza.
Collocandoci dentro una storia di investimenti della potenza spinozista, chiediamoci che cosa sia oggi, come possa per noi configurarsi, il materialismo spinozista. Non è un materialismo dell'oggetto inerte, diremo, e neppure è quello che semplicemente promana da sequenze causali necessarie: è bensì un materialismo delle differenze attive e dei dispositivi soggettivi, ovvero un'affermazione della materia come forza produttiva, attraverso l'attività di quelle modalità che costituiscono la sostanza. Questa linea interpretativa ha, nell'ultimo trentennio dopo il '68, invaso il terreno delle letture spinoziste ed è difficile pensare che oggi, e forse per un lungo periodo, ci si possa dire spinozisti (e quindi cominciare a filosofare) evitandone l'efficia.
Un'etica dell'azione
Da questo punto di vista, la pubblicazione dell'Opera omnia di Spinoza offre un'ottima occasione per la ripresa del dibattito sul problema della cultura di sinistra in Italia. Il socialismo positivista ha finito da tempo di dare i suoi frutti ed anche le rifioriture engelsiane si sono ampiamente dissolte. Quanto al togliattismo, ovvero allo storicismo piegato alle esigenze della politica del partito, anch'esso ha da tempo terminato di esercitare qualche influenza. Che mille fiori fioriscano, allora! In realtà sono già fioriti: non saranno mille ma per quanto minuscolo il campo della critica di sinistra possa essere, è sicuramente originale e sta ridefinendo i suoi orizzonti. Forse già si può dire: questo secolo sarà spinozista! Foucault lo disse per Deleuze, Deleuze lo disse per Marx, Marx lo dice per Spinoza. Ciascuno di questi autori ha proceduto mascherato per chiarirci quell'unico modo di fare una filosofia materialista che apra ad un'etica dell'azione.
Fra gli anni '60 e '70 abbiamo vissuto un'epoca di profondissima crisi dell'ideologia socialista e di critica del pensiero marxiano. Possiamo forse oggi ritrovare le origini spinoziste di quella riflessione. Un esempio fra altri possibili. Quando Althusser definisce una «cesura» radicale nello sviluppo del pensiero marxiano, egli forse non pensa ancora che la rottura fra la metodologia scientifica del Marx maturo ed il suo umanesimo iniziale potesse essere interpretata in termini spinozisti. Solo più tardi, nel momento più difficile della sua conversione postmarxista, confusamente Althusser suggerirà una tale determinante del suo passaggio. Straordinariamente efficace questa allusione! Essa significava che Spinoza ci poteva finalmente liberare da ogni dialettismo, da ogni teleologia; essa affidava la conoscenza alla resistenza e la felicità alla passione razionale della moltitudine. Ecco perché, quando il quadro della lotta per l'emancipazione umana si allarga, e la critica aggancia lo sviluppo capitalistico nella fase della sussunzione reale, nella fase imperiale cioè, nel postcolonialismo - è allora che sulla «cesura» marxiana si impone apertamente la «matrice» spinozista.
È un materialismo dei dispositivi ontologici e della produzione di soggettività che qui apertamente si esprime. È un passaggio storico nel quale stanno tutti coloro che attorno all'emancipazione, hanno sviluppato un pensiero della differenza, antiteleologico ed immanentista.Mario Tronti e Luisa Muraro, nel nostro (grande) piccolo, ma poi tutti gli altri che, del postmoderno, hanno fatto un'arma di emancipazione: la Spivak come gli altri postcoloniali, per parlare solo di alcuni - ma soprattutto ci sta Foucault. È questo il momento nel quale il nuovo materialismo spinozista comincia a produrre i suoi effetti, a mostrarci - attraverso le articolazioni della sostanza - la produttività dei modi, ossia la piega singolare, rivoluzionaria che essi assumono.
L'offensiva storicista
Attenzione tuttavia ai contrefeux che sono opposti a questa nuova fondazione del pensiero materialista o del pensiero politico di una sinistra rivoluzionaria. Vi è chi sostiene che, aderendo a questo materialismo, si rischia di giocare col fuoco, con il vitalismo e/o un irrazionalismo che ormai fan parte del mercato. Redemption business. Tom Nairn ha sostenuto questa tesi in un recente numero del London Review of Books: era la stizzosa reazione di un esponente della vecchia guardia socialista contro le nuove esperienze e i nuovi bisogni del proletariato cognitivo. Più pericolosa, d'altro lato, si è presentata, ben agguerrita, un'offensiva storicista, intesa a neutralizzare «l'anomalia spinoziana». È soprattutto Jonathan Israel - nel suo per altri versi importante Radical Enlightment - che ha operato in questo senso appiattendo la specificità dello spinozismo in un vago illuminismo riformista.
Ma Spinoza non è mai stato un riformista, non ha mai pensato l'essere come una dinamica che non facesse salti: anzi, è proprio su queste rotture, su questa vivace presenza dei modi, sulla singolarità che l'eterno loro garantisce, e sulla libertà, che il futuro si presenta. E così Spinoza rompe con ogni filosofia accademica (ed ogni neutralizzazione del sapere) perché mette la sua metafisica al servizio diretto della liberazione dell'umanità, e dei movimenti, contro le istituzioni del potere. E' da qui che si apre un'alternativa definitiva alla modernità e a tutti i suoi orpelli ideologici.

Meridiano da non perdere
Dall'Etica al «Trattato teologico-politico»
Il Meridiano Mondadori delle «Opere» di Baruch Spinoza (pp. 2032, euro 55) è stato curato da Filippo Mignini, mentre la nuova traduzione è stata condotta, oltre dallo stesso Mignini, da Omero Proietti. Il volume raccoglie per la prima volta tutti gli scritti del filosofo olandese, dall'«Etica» al «Trattato teologico-politico» al «Trattato politico-teologico». Ma oltre a questi testi, i Meridiani presentano anche «Principi della filosofia di Cartesio», «Pensieri metafisici» e il «Trattato sull'emendamento dell'intelletto», nonché l'«Epistolario». Un volume, questo dei Meridiani, che colma un vuoto nella pubblicazione dei testi di Spinoza, più volte pubblicati, ma mai raccolti uin unico volume. Il saggio di Jonathan Israel «Radical Enlightment» (Oxford University Press) dedicato alla ricezione delle teorie spinoziane nella filosofia settecentesca e ottacentesca è in corso di traduzione. Il testo citato di Tom Nairn è apparso sul n. 9 della London Review of Book, pubblicato nel maggio del 2005

il manifesto 18.9.07
A Marina P. negata la libertà su parola, pericolo di fuga.
Dichiarazione di Marina P. al giudice francese
di Erri De Luca

A domanda risponde: «Venti anni fa scappai dal mio paese,
venni in Francia. Avevo con me una figlia di dieci anni
che mi è nata in prigione e che è cresciuta qua.
Oggi ho una seconda figlia di dieci anni, cittadina francese.
Mi chiedete se scapperei di nuovo, vi rispondo di sì,
scapperei in Francia, se non fosse che ci vivo già.
Non esiste altra terra di asilo oltre la vostra».

l’Unità 18.9.07
Sondaggisti: consenso all’esecutivo in caduta libera
«A fatica arriva sopra il 30%». Weber: l’opinione pubblica è affaticata, attese troppo sollecitate
di Simone Collini


IL GOVERNO perde consensi e non li riacquista annunciando una riduzione della pressione fiscale o altro. E anche le misure per contrastare la microcriminalità e l’illegalità diffusa possono provocare effetti contrastanti: positivi, perché immediatamente percepibili, ma allo stesso tempo negativi se minano l’identità del centrosinistra. È quanto spiegano sondaggisti ed esperti di flussi elettorali, che ora stanno monitorando anche l’effetto Grillo sull’elettorato di centrosinistra.
La fiducia nell’esecutivo, e in particolare nel premier Romano Prodi, oscilla a seconda degli istituti demoscopici interpellati e dalle griglie interpretative utilizzate tra il 27 e il 33%. Analogo, invece, il trend: a pochi giorni dall’insediamento il governo godeva di un consenso che oscillava attorno al 45% degli elettori. A settembre dello scorso anno era sceso sotto il 40%. «Effetto delle alte aspettative a cui non ha fatto seguito una risposta adeguata - spiega il sociologo Carlo Buttaroni, ex direttore scientifico della Unicab - e, tra le altre cose, dell’indulto, che non è stato capito». Ma è tra settembre e dicembre, spiega Nicola Piepoli, dell’omonimo istituto, che è stato registrato «un crollo verticale dei consensi». Il motivo? La Finanziaria. Non tanto per l’entità della manovra, ma per il balletto delle cifre che si è protratto fino all’ultimo giorno prima dell’approvazione, per le troppe dichiarazioni contrastanti dei vari ministri, per i tanti annunci finiti nel nulla. «L’opinione pubblica di centrosinistra è decisamente più esigente di quella di centrodestra», spiega il presidente della Swg Roberto Weber dicendo che «non sono omologhi i due elettorati» e quasi evocando una questione antropologica. Così come Piepoli sottolinea le diverse impostazioni culturali e valoriali dei due elettorati per segnalare come il fenomeno Grillo «costerà caro ai partiti di centrosinistra». Secondo le stime effettuate dal suo istituto, le liste civiche col “bollino blu” possono erodere voti ai partiti dell’Unione in una percentuale compresa tra il 2 e il 6. Spiega Piepoli: «L’antipolitica e l’antistato sono temi tipici dell’anarchismo, riconducibile più alla cultura di sinistra che a quella di destra, più connotata dalla formula legge e ordine».
Quello che comunque i sondaggisti registrano, al netto di Grillo, è che dallo scorso settembre il consenso nei confronti del governo è rimasto inchiodato a valori attorno al 30%. Questo, anche quando è venuto fuori che l’esecutivo poteva contare su un extragettito fiscale da poter investire in qualche settore. Spiegano anzi che i continui annunci su come investire il cosiddetto tesoretto hanno ancora una volta creato su più fronti aspettative alle quali ha poi fatto seguito una delusione per la mancanza di una realizzazione percepibile.
Ora Prodi assicura che il prelievo fiscale «non salirà» e che anzi «da qualche parte scenderà». Ma per i sondaggisti, come già per precedenti annunci, anche questo non produrrà effetti positivi: «L’opinione pubblica è affaticata, il sistema di attese è stato troppo sollecitato e ora gli annunci non riescono più a incidere», spiega Weber. «Inoltre la riduzione delle tasse, nello specifico, è un argomento che non fa più presa. Troppe volte è stato evocato senza che si siano prodotti risultati percepibili». Un aumento dei consensi potrebbe passare, oltre che da a uno stop alle liti interne alla coalizione e alla profusione di annunci, per l’attuazione di misure «immediatamente percepibili e che riguardano la vita di tutti i giorni», spiegano Weber e Piepoli facendo riferimento al tema sicurezza. Ma le ricerche effettuate da Buttaroni dicono che un’ordinanza come quella sui lavavetri rischia di essere controproducente sull’elettorato di centrosinistra, che tra le cause della disaffezione segnala la «perdita di identità» delle forze di riferimento. «Il problema non è affrontare il tema sicurezza - spiega Buttaroni - ma il rischio che non venga percepita una netta differenza tra le risposte del centrodestra e quelle del centrosinistra».

l’Unità 18.9.07
Migrazione, la civiltà come arte della fuga
di Vincenzo Consolo


MONDO GLOBALE La storia e il mito insegnano: sono sempre i fuggiaschi a creare nazioni e culture. Il Mediterraneo coi suoi millenari movimenti migratori lo dimostra. E gli italiani, popolo migrante, dovrebbero capirlo più degli altri

Achei, dorici, italioti furono tutti popoli esiliati ma capaci di costruire nuovi mondi e nuovi assetti di convivenza etnica

L’esempio dell’Islam in Sicilia a partire dal IX secolo d.c.
Una fioritura davvero prodigiosa che lasciò tracce indelebili

Tutta la storia moderna della penisola dopo l’Unità fu segnata dallo sradicamento di milioni di individui trapiantati altrove

Addio città
un tempo fortunata, tu di belle
rocche superbe; se del tutto Pallade
non ti avesse annientata, certo ancora
oggi ti leveresti alta da terra.
(Euripide: «Le Troiane»)

Presto, padre mio, dunque: sali sulle mie spalle,
io voglio portarti, né questa sarà fatica per me.
Comunque vadan le cose, insieme un solo pericolo
una sola salvezza avrem l’uno e l’altro. Il piccolo
Iulio mi venga dietro, discosta segua i miei passi la sposa
(Virgilio: «Eneide»)

Questi versi di Euripide e di Virgilio vogliamo dedicare ai fuggiaschi di ogni luogo, agli scampati di ogni guerra, di ogni disastro, a ogni uomo costretto a lasciare la propria città, il proprio paese e a emigrare altrove. Sono dedicati, i versi, agli infelici che oggi approdano, quando non annegano in mare, sulle coste dell’Europa mediterranea, approdano, attraverso lo stretto di Gibilterra, a Punta Carmorimal, Tarifa, Algesiras; approdano, attraverso il canale di Sicilia, nell’isola di Lampedusa, di Pantelleria, sulla costa di Mazara del Vallo, Porto Empedocle, Pozzallo...
La storia del mondo è storia di emigrazione di popoli - per necessità, per costrizione - da una regione a un’altra. Nel nostro Mediterraneo, nella Grecia peninsulare, gli Achei lì emigrati nel XIV secolo a.C. danno origine alla civiltà micenea che soppianta la civiltà cretese, che a sua volta viene offuscata dalla migrazione dorica nel Peloponneso. Con questi greci cominciò, nel XXII secolo a.C. la grande espansione colonizzatrice nelle coste del Mediterraneo - in Cirenaica, nell’Italia meridionale (Magna Grecia), in Sicilia, Francia, Spagna. La colonizzazione greca in Sicilia, dove vi erano già i Siculi, i Sicani e gli Elimi, avvenne con organizzate spedizioni di emigranti, di fratrie, comunità di varie città - Megara, Corinto, Messane... - che sotto il comando di un ecista, un capo, tentavano l’avventura in quel Nuovo Mondo che era per loro il Mediterraneo occidentale. In Sicilia fondarono grandi città come Siracusa, Gela, Selinunte, Agrigento, convissero con le popolazioni già esistenti, assunsero spesso i loro miti e riti, stabilirono pacifici rapporti, per molto tempo, con la fenicia Mozia e con l’elima Erice.
Ma non vogliamo qui certo fare - non sapremmo farla - la storia dell’emigrazione nell’antichità. Vogliamo soltanto dire che l’emigrazione è fra i segni più forti - oltre quelli delle guerre, delle invasioni - della storia.
Segno forte l’emigrazione, della storia italiana moderna.
«Dall’Unità d’Italia (1860) non meno di 26 milioni di italiani hanno abbandonato definitivamente il nostro Paese. È un fenomeno che, per vastità, costanza e caratteristiche, non trova riscontro nella storia moderna di nessun altro popolo». Questo scrive Enriquez Spagnoletti, in un numero speciale dedicato all’emigrazione, nella rivista Il Ponte, rivista fondata da Piero Calamandrei.
Sull’emigrazione nel Nuovo Mondo esiste, sappiamo, una vasta letteratura storico-sociologica, documentaria, ma anche una letteratura letteraria. Il racconto Dagli Appennini alle Ande, del libro Cuore di Edmondo De Amicis, è il più famoso. E anche, dello stesso autore, Sull’Oceano. Meno famoso è invece il poemetto Italy di Giovanni Pascoli; Sacro all’Italia raminga ne è l’epigrafe.
A Caprona, una sera di febbraio,
gente veniva, ed era già per l’erta,
veniva su da Cincinnati, Ohio.
Vi si narra, nel poemetto, di una famigliola toscana, della Garfagnana, che ritorna dall’America per la malattia della piccola Molly. Nella poesia compare - ed è la prima volta nella letteratura italiana - il plurilinguismo: il garfagnino dei nomi, lo slang della coppia e l’inglese della bambina.
Non era allora solo nelle Americhe l’emigrazione, essa avveniva anche, e soprattutto dal Meridione d’Italia, dalla Sicilia, nel Magreb, in Tunisia particolarmente. Questa emigrazione comincia nei primi anni dell’Ottocento, ed è di fuoriusciti politici. Liberali, giacobini e carbonari, perseguitati dalla polizia borbonica, si rifugiano in Algeria e in Tunisia. Scrive Pietro Colletta nella sua Storia del reame di Napoli: «Erano quelli regni barbari i soli in questa età civile che dessero cortese rifugio ai fuoriusciti». In Tunisia si fa esule anche Garibaldi.
La grossa ondata migratoria di bracciantato italiano in Tunisia avvenne tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento per la crisi economica che colpì le regioni meridionali. Si stabilirono, questi emigranti sfuggiti alla miseria, alla Goletta, a Biserta, Susa, Monastir, Mahdia, nelle campagne di Kelibia di Capo Bon, nelle regioni minerarie di Sfax e di Gafsa. Nel 1911 le statistiche davano una presenza italiana di 90.000 unità. Alla Goletta, a Tunisi, in varie altre città dell’interno, v’erano popolosi quartieri chiamati «Piccola Sicilia» o «Piccola Calabria». Si aprirono allora scuole, istituti religiosi, orfanotrofi, ospedali italiani. La preponderante presenza italiana in Tunisia, sia a livello popolare che imprenditoriale, fece sì che la Francia si attivasse con la sua sperimentata diplomazia e con la sua solida imprenditoria per giungere nel 1881 al trattato del Bardo e qualche anno dopo alla Convenzione della Marsa, che stabilivano il protettorato francese sulla Tunisia. La Francia cominciò così la politica di espansione economica e culturale in Tunisia, aprendo scuole gratuite, diffondendo la lingua francese, concedendo, su richiesta, agli stranieri residenti, la cittadinanza francese. Frequentando le scuole gratuite francesi, il figlio di poveri emigranti siciliani Mario Scalesi divenne francofono e scrisse in francese Les poèmes d’un maudit, fu così il primo poeta francofono del Magreb.
Anche sotto il Protettorato l’emigrazione di lavoratori italiani in Tunisia continuò sempre più. Ci furono vari episodi di naufragi, di perdite di vite umane nell’attraversamento del Canale di Sicilia su mezzi di fortuna (vediamo come la storia dell’emigrazione, nelle sue dinamiche, negli effetti, si ripete). Nel 1914 giunge a Tunisi il socialista Andrea Costa, in quel momento vice presidente della Camera dei deputati. Visita le regioni dove vivono le comunità italiane. Così dice ai rappresentanti dei lavoratori: «Ho percorso la Tunisia da un capo all’altro; sono stato fra i minatori del sud e fra gli sterratori delle strade nascenti, e ne ho ricavato il convincimento che i nostri governanti si disonorano nella propria viltà, abbandonandovi alla vostra sorte».
La fine degli anni Sessanta del secolo scorso, nell’Italia dell’industrializzazione, del cosiddetto miracolo economico, della crisi del mondo agricolo e insieme della nuova emigrazione di braccianti dal Sud verso il Nord industriale, del Paese e dell’Europa, quella fine degli anni Sessanta segna la data fatidica dell’inversione di rotta della corrente migratoria nel Canale di Sicilia. Segna l’inizio di una storia parallela, speculare a quella nostra.
Di siberie, di campi di lavoro, di mondi concentrazionari, di oppressione di popoli a causa di regimi totalitari o coloniali sono stati i tempi da poco trascorsi. Tempi vale a dire in cui l’umanità, per tre quarti, è stata prigioniera, incatenata all’infelicità. E le siberie hanno fatto sì che il restante quarto dell’umanità, al di qua di mura o fili spinati, vivesse felicemente, nello scialo dell’opulenza e dei consumi si alienasse. Ma dissoltesi idolatrie e utopie, crollati i colonialismi, abbattute le mura, recisi i fili spinati, sono arrivati i tempi delle fughe, degli esodi, da paesi di mala sorte e mala storia, verso vagheggiati approdi di salvezza, di speranza. Ed è il presente - un presente cominciato già da parecchi anni - un atroce tempo di espatri, di fughe drammatiche, di pressioni alle frontiere del dorato nostro «primo» mondo, di movimento di masse di diseredati, di offesi, di oltraggiati.
Da ogni Est e da ogni Sud del mondo, da afriche dal cuore sempre più di tenebra, da sudameriche di crudeltà pinochettiane si muovono oggi i popoli dei battelli, dei gommoni, delle navi-carrette, dei containers, delle autocisterne, carovane di scampati a guerre, pulizie etniche, genocidi, fame, malattie. Fugge tutta questa umanità dolente ed è preda ancora dei criminali del traffico, di vite umane, sparisce spesso nei fondali dei mari, nelle sabbie infuocate dei deserti, come detriti di una immane risacca finisce sopra scogli, spiagge desolate o anche fra i vacanzieri stesi al sole per abbronzarsi. Non vogliamo andare lontano, non vogliamo dire del muro di acciaio eretto al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, ma dire di qua, del confine d’acqua che separa l’Europa da ogni Sud del mondo, dire del Mediterraneo e della bella Italia, del suo Adriatico e del suo Canale di Sicilia.
Tante e tante volto le carrette di mare provenienti dall’Albania, dalla Tunisia o dalla Libia, carrette stracariche di disperati, si sono trasformate in bare di ferro nei fondali del mare, bare di centinaia di uomini, di donne, di bambini, a cui, come all’eliotiano Phlebas il Fenicio, «una corrente sottomarina / spolpò l’ossa in dolci sussurri». E finiscono anche i corpi degli annegati nelle reti dei pescatori siciliani... E si potrebbe continuare con le cronache di tragedie quotidiane, di una tragedia epocale che riguarda i migranti, le non-persone che cercano di entrare nella vecchia Italia, nella vecchia Europa della moneta unica, delle banche e degli affari. Vecchia soprattutto l’Italia per una popolazione di vecchi. «Ci troviamo oggi tra un mare di catarro e un mare di sperma» ha detto icasticamente il poeta Andrea Zanzotto. E la frase-metafora vuole dire di quanto ciechi noi siamo a voler continuare a sguazzare nel nostro mare di catarro e a voler scansare quel mare di vitalità che è arricchimento: fisiologico economico, culturale, umano... Scansare o eludere quell’incontro o incrocio di etnie, di lingue, di religioni, di memorie, di culture, incrocio che è stato da sempre il segno del cammino della civiltà. Respingiamo l’emigrazione dal terzo o quarto mondo erigendo confini d’acciaio con leggi e decreti, come la vergognosa legge italiana sull’emigrazione che porta il nome dei deputati di estrema destra Bossi e Fini, insorgendo con nuovi e nefasti nazionalismi, con stupidi e volgari localismi, con la xenofobia e il razzismo, con la cieca criminalizzazione del diseredato, del diverso, del clandestino.
A partire dal 1968, sono tunisini, algerini, marocchini che approdano sulle coste italiane. Approdano soprattutto in Sicilia, a Trapani, si stanziano a Mazara del Vallo, il porto dove erano approdati i loro antenati musulmani per la conquista della Sicilia.
In una notte di giugno dell’827 d.C., una piccola flotta di Musulmani (Arabi, Mesopotamici, Egiziani, Siriani, Libici, Magrebini, Spagnoli), al comando del dotto giurista settantenne Asad Ibn al-Furàt, partita dalla fortezza di Susa, attraversato il braccio di mare di poco più di cento chilometri, sbarcava in un piccolo porto della Sicilia: Mazara. Da Mazara quindi partiva la conquista di tutta l’isola, da occidente fino a oriente, fino alla bizantina e inespugnabile Siracusa, dove si concludeva dopo ben settantacinque anni. I Musulmani in Sicilia, dopo le depredazioni e le espoliazioni dei Romani, dopo l’estremo abbandono dei Bizantini, l’accentramento del potere nelle mani della Chiesa, dei monasteri, i Musulmani trovano una terra povera, desertica, se pure ricca di risorse. Ma con i Musulmani comincia per la Sicilia una sorta di rinascimento. Rifiorisce l’agricoltura, la pesca, l’artigianato, il commercio, l’arte. Ma il miracolo più grande che si opera durante la dominazione musulmana è lo spirito di tolleranza, la convivenza tra popoli di cultura, razza, religione diverse. Questa tolleranza, questo sincretismo culturale erediteranno poi i Normanni, sotto i quali si realizza veramente la società ideale, quella società in cui ogni cultura, ogni etnia vive nel rispetto di quella degli altri. Il grande storico dell’800 Michele Amari ci ha lasciato La storia dei Musulmani di Sicilia, scritta, dice Vittorini, «con la seduzione del cuore».
Il ritorno infelice è il titolo del saggio del sociologo Antonino Cusumano, in cui tratta dell’emigrazione magrebina in Sicilia, a partire dal 1968, come sopra dicevamo.
Sono passati quarant’anni dall’inizio di questo fenomeno migratorio. Da allora, nessuna previsione, nessuna progettazione, nessun accordo fra governi, fino a giungere all’emigrazione massiccia, inarrestabile di disperati che fuggono dalla fame e dalle guerre, emigrazione che si è cercato di arginare con metodi duri, drastici, violando anche quelli che sono i diritti fondamentali dell’uomo.
Di fronte a episodi di contenzione di questi disperati in gabbie infuocate, di detenzione nei cosiddetti Centri di Permanenza Temporanea, che sono dei veri e propri lager, di fronte a ribellioni, fughe, scontri con le forze dell’ordine, scioperi della fame e gesti di autolesionismo, si rimane esterrefatti. Ci tornano allora in mente le parole che Braudel riferiva a un’epoca passata: «In tutto il Mediterraneo l’uomo è cacciato, rinchiuso, venduto, torturato e vi conosce tutte le miserie, gli orrori e le santità degli universi concentrazionari».

Repubblica 18.9.07
L’eterno ritorno del tribuno
di Francesco Merlo


La febbre italiana dell´antipolitica
Fenomenologia dell´arringatore di folle
L’ultimo apparso sulla scena è Beppe Grillo. Ecco i suoi antenati
La storia è ricca di figure che hanno scatenato e sedotto la piazza

Neppure il senatore Menenio Agrippa, che forse non è mai esistito, ma è un´invenzione del solito giornalista (Tito Livio), neppure il vecchio Menenio avrebbe potuto immaginare un tribuno della plebe come Josephus Gryllus che la butta in comicità e cerca di farci ridere invece di mandarci a dissotterrare le armi. Bossi, per esempio, parla di forca e di pallottole. E Mussolini aveva gli squadristi. E Casarini e Caruso vogliono farci bruciare le bandiere. E Bertinotti fomenta l´astio di classe. E Giancarlo Cito organizzava le ronde a Taranto. Chissà dunque come avrebbe reagito l´assennato Menenio dinanzi a uno spiritosissimo tribuno, cui est cognomen Beppe, che propone (minaccia) una democrazia da cabaret piuttosto che una democrazia cimiteriale.
Chissà se Menenio Agrippa avrebbe pronunziato quel suo famoso elogio dello stomaco con il quale placò la plebe romana, legittimò i "sacri" tribuni e inventò la tribunicia potestas. Forse non si sarebbe esposto alle facili e felici battute di Grillo contro l´idea che il governo del corpo sta nel suo centro e che dunque i partiti, le istituzioni, e anche Prodi sono lo stomaco, il luogo dove tutto l´ingorgo italiano va a defluire, l´ombelico mediano che gestisce il traffico dei bisogni e dei desideri come un semaforo.
È vero che, a lungo andare, la politica tribunizia danneggia la comicità soprattutto quando, come in questo caso, diventa lista elettorale, non più umore popolare, non più vaffanculo plebeo largamente condiviso, ma programma politico e progetto amministrativo. Come dimostrano le crisi artistiche di Moretti, di Sabina Guzzanti, di Luttazzi, dello stesso Dario Fo, succede spesso che gli artisti, dopo avere più o meno sapientemente esercitato la tribunicia eloquentia, dopo avere scambiato le classi sociali con gli spettatori, il botteghino con il popolo, i critici con l´avanguardia bolscevica e il successo con la rivoluzione, capiscano a proprie spese che non ci sono soluzioni artistiche ai problemi amministrativi di un Paese, e che nessuno affiderebbe mai il ministero degli Interni a una Palombella rossa.
E tuttavia, comunque vada a finire, per adesso la simpatia e l´ironia sono le novità del tribuno Beppe Grillo in un Paese che ha avuto mille tribuni tragici e tristi, anche se spesso farseschi. È fatta così l´Italia: tribù molte e comunità poca, e non stiamo parlando delle tribù africane ma delle tribù romane, delle unità demografiche della plebe, delle tribù che esprimono i sacri tribuni (sacri perché la loro vita era sacra, vale a dire inviolabile: una specie di immunità parlamentare).
Come si sa, ancora oggi l´Italia è divisa in fratrie, gentes, clan, famiglie, tribù. E dunque per parlare dei tribuni non c´è bisogno di scomodare Masaniello, Cola di Rienzo o Savanorala, D´Annunzio e Mussolini, Garibaldi e Pietro Nenni e neppure il solito Giannini. Insomma anche l´Italia di oggi è ricca di tribù e dunque di tribuni, da Bossi a Bertinotti, da Berlusconi ad Agnoletto, dai preti operai ai capipopolo del Sud, che è ancora il laboratorio italiano dove meglio si esprime l´infamiliarità con il potere e con i suoi uomini. Sono tribuni quelli che "il Sud è vilipeso e maltrattato", quelli che la colpa è di Roma, quelli che la mafia è nello Stato ma non al Brancaccio: tribuni separatisti, autonomisti e regionalisti, secessionisti e federalisti, come i siciliani Cuffaro e Lombardo, ma anche Orlando e i professionisti dell´Antimafia.
E spesso sono pittoreschi, al Nord come al Sud, sono mille drammatiche macchiette, come Calderoli e Borghezio. O come quel cavaliere Ferrini di Catania che al comizio gridava «concittadini!, se io "sarei" eletto...» e al consigliere politico, che gli mormorava «fossi, cavaliere, fossi», rispondeva urlando: «Ma quali fossi, sicuru è!».
Anche il regista Nanni Moretti, portando il broncio della propria tribù in Piazza Navona pensava di rifondare l´etica, l´estetica e l´antropologia dell´Occidente. E anche Celentano periodicamente fa il tribuno in televisione come Grillo lo fa su Internet, entrambi trattati come se fossero titolari di cattedra in Filosofia Morale, entrambi illusi d´essere il nuovo slancio vitale, il riso bergsoniano che potrebbe fare ripartire il gioco fermo, sempre antipolitici perché solo mostrandosi straniero alla politica si può scalare la politica, come capì bene Sergio Cofferati quando faceva il tribuno, l´uomo massa, l´impolitico di carriera che vuole edificare la nuova Gerusalemme, ed è perfettamente uguale a coloro da cui prende le distanze.
E difatti sono soprattutto i tribuni che biasimano i tribuni perché ne temono la concorrenza, e rivendicano solo per se stessi un codice di qualità. Ed è vero che non c´è politica che non sia tribunizia e che, quando D´Alema dà del tribuno a Grillo, dimentica che la politica dà voce a istanze maltrattate, popolari, marginali e tuttavia importanti, e dunque la piazza piena di Grillo è il contrario della desertificazione dei partiti, e l´alto tasso di astensionismo rimanda all´uscita della plebe fuori dalla città di Roma. Ma i patrizi nel 494 a. C. non fecero l´errore spocchioso di D´Alema. Cosa ne sarebbe stato della Res publica se i patrizi non avessero richiamato i plebei mandando loro il saggio Menenio?
Inutile dire che il talento di un tribuno si misura dalla sua capacità di lusingare la folla, di sfruttare le sue paure e di alimentare i suoi pregiudizi, di trasformarsi in macchina di consenso e di attrazione, al tempo stesso all´americana e all´amatriciana, nel senso che l´arte tribunizia è diventata esotica (primarie, blog, la nave, il treno, la bicicletta, la bandana, www.it) ma anche ultraprovinciale come vuole il localismo, con l´esaltazione del quartiere, della piazza, di un paese, di un condominio come finestre aperte sullo spirito umano.
Ma come si misura la legittimità di un tribuno?
E di nuovo bisogna ricordare che all´origine il tribuno esprimeva la funzione appunto sacra di rappresentare la plebe fino ad allora esclusa dal governo della Res publica. E certo sarebbe interessante stabilire come e perché la parola si è staccata dalla sua storia visto che tribuno è oggi anche sinonimo di demagogo, mistagogo, sollevatore irresponsabile di umori. Più propriamente, in duemila anni la parola si è persa e si è infiammata nel contrario del suo significato, sino ad approdare oggi a una polivalenza affascinante.
Rimane infatti vero che un paese che ha i tribuni è un paese vivo perché i tribuni non sono pericolosi in una società che li aspetta, una società che sta cercando il suo uomo della provvidenza. Gli esempi, nella storia, sono molti, specie negli ultimi due secoli. Ma probabilmente l´esempio più affascinante è ancora quello dell´avvocato Robespierre, presidente del club dei Giacobini, pazzo geniale che cambiò il destino della Rivoluzione francese, instaurò il Terrore, il regime dell´odio, il regno della morte. Robespierre è il tribuno che influenzò in maniera determinante due secoli di storia, divenne il profeta sanguinario di quel "mondo migliore" che ha legittimato e ancora legittima i peggiori crimini contro l´umanità.
Certo Robespierre aveva un grande talento di tribuno, me è la società francese che aveva fissato un appuntamento con il suo Robespierre. Voglio dire che senza certe "parole assassine" d´epoca, prime fra tutte "popolo", il Terrore non sarebbe stato possibile. Senza la degenerazione della religione in una spiritualità dominata da un Dio che aspira solo a riempire l´Inferno, l´animo di Robespierre non si sarebbe incendiato, e l´avvocato dell´Ideale, il magistrato del Sospetto avrebbe fatto la vita di tutti i bisbetici, con pazzie tollerate e tollerabili. Qualche libro dotto e qualche onorificenza avrebbero alla fine coronato la carriera di un tribuno dal carattere intrattabile.
Non è questa la sede per analizzare le "parole assassine" dell´Italia di oggi. Ma fra queste c´è la parola antipolitica, e c´è sicuramente la parola tribuno. E sarebbe bene dirlo chiaro: oggi tutti i politici sono tribuni, e chi cerca il consenso di massa, comunque lecitamente lo faccia, non è un mestatore da fiera. Non è vero che Grillo è il gaglioffo e D´Alema è il Max Weber. Ecco: con chi ha appuntamento la società italiana, con un qualunque Grillo di piazza o con un qualunque D´Alema di palazzo?

Repubblica 18.9.07
Chi è il tribuno della plebe: parla Luciano Canfora
I capi popolo nell’antica Roma
di Antonio Gnoli


Equivoci. Tra noi moderni è rimasta la traccia di Livio per cui il tribuno è colui che ripara i torti subiti dal popolo
Televisione. Il palcoscenico televisivo ha reso patetico il comizio in piazza. Il tribuno muore con la sua scomparsa

Per i libri di storia fu Menenio Agrippa, console romano, a favorire con il suo celebre discorso sulle disiecta membra, la nascita del tribuno della plebe. Era il 454 a. C. venticinque secoli dopo quel tribuno continua a sopravvivere sotto i riflettori, ma è un´altra cosa, avverte Luciano Canfora, rispetto al modello originale. C´è tribuno e tribuno, insomma. Quello antico restava in carica per un anno, ed era un magistrato. Dunque esattamente il contrario, si potrebbe dire, del tribuno moderno che è soprattutto un parolaio. Uno è dentro la mischia, l´altro ne è fuori. Uno cerca l´equidistanza, l´altro vuole l´avvicinamento al popolo. Ma allora perché chiamare "tribuni" sia gli antichi che i moderni? Canfora sostiene che parlare del tribuno antico equivale a entrare in un ginepraio giuridico di cui è complicato rendere conto.
Come nasce il tribuno romano?
«Diciamo che affonda le sue radici nel terreno non del tutto limpido del rapporto tra patrizi e plebei. C´è una tesi, discutibile ma che indubbiamente ha avuto successo tra gli storici: sostiene che patrizi e plebei sono due comunità ben distinte che danno vita a una magistratura antagonistica».
Sembra una distinzione ovvia.
«Lo è indubbiamente. Ma la plebe lotterà proprio per essere parificata ai patrizi. E questo obiettivo verrà realizzato con le leggi promulgate tra il IV e il III secolo avanti Cristo, con le quali si creano le premesse per una unica nobilitas».
Plebei e patrizi finiscono con il godere dello stesso rango?
«Famiglie patrizie e plebee godono degli stessi diritti. Tanto è vero che il tribuno non è più il baluardo della plebe contro i patrizi. Ma un´entità in grado di difendere sia gli uni che gli altri. Il tribunato diventa così una magistratura istituzionalizzata che difende gli interessi del popolo di Roma, il quale popolo non necessariamente è costituito solo dalla plebe».
Mi scusi, siamo abituati a caricare la parola "plebe" di significati legati allo sfruttamento e alla sofferenza. Lei sostiene che non è così.
«Sostengo che è tra gli errori più ricorrenti identificare la plebe con il popolo oppresso. La plebe romana è un´altra cosa. Una delle strutture su cui poggia la società romana è l´ordo senatorius, al quale, da un certo momento in poi, possono accedere sia i patrizi che i plebei. Questi ultimi non hanno nulla a che vedere con le classi oppresse. È un equivoco duro a morire. Anche Karl Marx vi cadde. Nelle prime righe del Manifesto egli fa un po´ di confusione quando afferma che patrizi e plebei sono oppressori e oppressi e perciò divisi dalla lotta di classe».
Come è stato possibile incorrere in questo errore?
«Noi leggiamo gli episodi dell´antica repubblica attraverso i resoconti di Livio e Dionigi da Alicarnasso, i quali vivono nell´età di Augusto, e quando raccontano quei fatti remoti riverberano su di essi i recenti conflitti sociali tra ottimati e popolari. Nella storiografia moderna è rimasta l´impronta liviana, per cui il tribuno è colui che ripara i torti che il popolo oppresso ha subito».
È il tratto che la modernità ha conservato. Ma il tribuno oggi è visto anche come un abile oratore. Era così anche alle origini?
«Nel tribuno romano parola e azione potremmo dire coincidono, in modo vibrante e chiaro. Il tribuno cioè esprimeva una posizione davanti al popolo. Ma non è un suo esclusivo requisito. Anche i consoli, gli altri magistrati parlano davanti al senato, ma anche davanti al popolo. Quindi un´oratoria popolare efficace esiste nell´antica Roma a prescindere dai tribuni».
La figura del tribuno tornerà a splendere con la Rivoluzione Francese.
«È vero, ma solo come metafora di ciò che quella figura era stata nel mondo antico. I grandi oratori del parlamentarismo francese sono tribuni che parlano davanti a un popolo che si accalca, urla, commenta, mentre all´Assemblea si sta deliberando. Danton fu un grande tribuno».
E Robespierre?
«Parlava come un ragionatore, in questo somigliava a un Togliatti. Danton era il vero trascinatore delle folle. Tra l´altro fu lui ad inventare il terrore e dopo che lo ammazzarono diventò un santo come Trotskij».
Lenin e Trostkji furono anche loro eccellenti tribuni.
«Lenin non possedeva una straordinaria oratoria. Trostkij era più dotato. Ma direi che grandi tribuni, fin dall´Ottocento, li troviamo tra i sindacalisti. Nel capitalismo ottocentesco, con i parlamenti che vengono eletti a suffragio ristretto, i lavoratori creano attraverso i sindacati le prime forme di contropotere. Sindacalisti sono quelli che sanno parlare meglio. Il sindacalismo moderno è storicamente il fenomeno che più somiglia al tribunato».
Anche Mussolini fu un tribuno d´eccezione. In che misura la macchina totalitaria ne esaltò le doti?
«Mussolini ebbe straordinarie doti oratorie che non necessariamente erano da porsi in rapporto con il suo ruolo di capo del fascismo. Schematicamente si può dire che movimenti popolari e populistici si servono dei grandi oratori».
Veniamo all´attualità. Il tribuno televisivo o che agisce attraverso i Blog che figura è?
«Non lo definirei tribuno. Il palcoscenico televisivo ha reso patetico il comizio in piazza. E il tribuno muore con la scomparsa della piazza. La comunicazione tv è velocissima e va scandita per formule. Si serve di tecniche diverse che creano stili e persone differenti. Se la parola tribuno è legata pur sempre alla sua collocazione antagonistica, è evidente che il nuovo modello che la televisione ci propone non può rientrare in quello schema. Il salto tecnologico, stilistico, culturale ha determinato una cesura rispetto anche al passato più recente. Il tribuno come lo abbiamo conosciuto è tramontato».
E chi ha preso il suo posto?
«Ritengo che il ciclo della democrazia rappresentativa che è iniziato all´incirca due secoli fa si è chiuso. Le nuove figure di cui vorremmo capire di più hanno aperto un nuovo ciclo in cui la tecnologia è l´elemento dominate. Non conosciamo le fattezze di questo ciclo né i suoi futuri protagonisti. Forse "tecnocrazia" è la parola più appropriata per descriverlo. Essa continua a tenere in vita i vecchi strumenti elettivi e rappresentativi, perché sono ancora un veicolo di legittimazione, ma sono stati del tutto snaturati. Inutile fare raffronti con il passato. Un filo si è spezzato».

Repubblica 18.9.07
Quali sono le patologie del corpo sociale e politico
Quando un leader seduce la folla
di Yves Mèny


Il sistema democratico naviga costantemente tra due scogli pericolosi: una rappresentazione frammentaria, che impedisce il raggiungimento dell´unità, e una rappresentazione impugnata da un partito o da un uomo della provvidenza che finge di essere l´incarnazione del popolo. Poiché il giusto mezzo in democrazia risulta da un equilibrio instabile e precario, è quasi sempre soggetto a pressioni contraddittorie che lo spingono nell´una o nell´altra direzione. Alcuni Paesi (la Gran Bretagna, ad esempio) riescono meglio di altri a raggiungere questo equilibrio, mentre altri vengono tentati dal fascino della rappresentazione incarnata da un uomo (la Francia) o dal modello opposto: quello della frammentazione e dell´anonimato (la Svizzera).
È in questa esitazione che spesso si insinua la figura del tribuno - che nel vocabolario democratico appare come la versione negativa del leader, benché i due presentino numerosi tratti in comune.
Al pari del leader, il tribuno aspira a trascinare il popolo in una data direzione, a proporgli delle scelte, a convincerlo a seguirlo. Un leader può imporsi con la forza delle proprie convinzioni o con il fascino delle idee, senza tuttavia essere un demagogo e senza avere grandi capacità oratorie. Un tribuno invece si afferma attraverso la sua capacità di sedurre grazie al buon impiego della parola e della retorica. Inizialmente un tribuno fa leva sul registro emotivo: la passione, la collera, la frustrazione, il timore, il rifiuto. Certo, la linea di demarcazione non sempre è così ovvia. Alcuni leader democratici, come Jaurès in Francia, sono anche stati grandi oratori, capaci di mobilitare le folle. Più spesso però il tribuno si distingue per dei tratti caratteristici:
- La pretesa di parlare a nome del popolo, quand´anche non sia stato eletto.
Ogni movimento sociale o politico nella sua fase iniziale dev´essere costruito attorno a un sentimento di identificazione. Il tribuno gioca il ruolo di amante che attrae attorno a sé tutti coloro che si identificano con i suoi discorsi. Ma a differenza di un leader - che cerca di radunare attorno a un programma determinate categorie sociali - il tribuno pretende di parlare a nome di tutto il popolo, con la possibile eccezione di quelle élite accusate di essersi appropriate della parola e della rappresentazione popolari. È a questo punto che populismo e tribuno si incontrano: senza un tribuno che si erge a mobilitare le masse non può esistere alcuna forma di populismo.
- In secondo luogo, il tribuno è un "anti". Anche quando si finge democratico, insorge contro le derive o gli errori della democrazia. È un denunciatore che apostrofa il potere, gli eletti, i potenti; il suo stile è brutale, il vocabolario schematico. È un fenomeno che esiste sin dall´alba della democrazia. Nella Francia del 1789 ad esempio, i Camille Desmoulins, Mirabeau, Robespierre, Marat, Saint-Just hanno incarnato diverse forme del tribuno accusatore, trovando sostegno in una stampa che li descriveva, come indicano i titoli dell´epoca: "La sentinella del popolo", "Il denunciatore", "Il patriota censore".
I media oggi amplificano ulteriormente gli slogan di un Haider, le formule di un Bossi o i nauseabondi giochi di parole di un Le Pen. I populisti americani del XIX secolo parlavano di "fucile dietro la porta". Poujade, in Francia, tirava fuori lo slogan "sortez les sortants": una versione moderata del "Vaffan" di Grillo.
- Inoltre, il tribuno dev´essere un oratore in grado di mobilitare le masse attraverso la forza della parola. Perché se il carisma è una qualità necessaria all´esercizio della leadership (in quanto rapporto tra il leader e i suoi seguaci), quella di oratore non è indispensabile. Robert Schuman o Andreotti non avevano la fama di trascinatori di folle, non più di quanto Pétain, Salazar o Franco - le versioni autoritarie - fossero degli oratori.
Il tribuno invece è capace, attraverso la magia del verbo, di mobilitare, di sedurre. Inoltre, i media moderni impongono un cambiamento di stile basato sulla ripetizione: non si tratta di dimostrare o di ragionare, ma di far penetrare il chiodo attraverso la costante reiterazione della stessa, semplicistica parola d´ordine. Un metodo che i predicatori televisivi della domenica in America hanno capito da tempo (e che spiega ad esempio il successo delle chiese evangeliste in tutto il mondo - l´equivalente religioso del populismo politico, con cui hanno in comune il tribuno e il suo stile). Anche qui, il limite tra democratico e antidemocratico è labile. Anche la struttura discorsiva di un Tony Blair si fondava sulla ripetizione circolare di un argomentario semplificato sino all´estremo, in modo da renderlo comprensibile e accettabile al maggior numero possibile di persone. In Francia recentemente Nikolas Sarkozy ha ripetuto ad nauseam che occorre "lavorare di più per guadagnare di più".
Sempre più spesso le democrazie europee si allineano su dei fenomeni sino a oggi osservati soprattutto negli Stati Uniti: una miscela inestricabile di democrazia vecchio stile e populismo, di leadership e demagogia tribunizia.
È chiaro che tutti questi tratti vengono esacerbati quando il tribuno è fuori dal quadro democratico. Nei tribuni dei regimi autoritari la violenza verbale e gli atteggiamenti fisici appaiono persino più caricaturali - come illustrato dall´iconografia di Lenin, Mussolini o Fidel Castro.
In una recente opera (dal titolo discutibile ma dal contenuto appassionante), Pierre Rosanvallon parla della "politica e dell´epoca della sfiducia" (La contre-démocratie, Seuil). È questo il paradosso della rappresentazione e della democrazia: in assenza di fiducia, né l´una né l´altra sono possibili, eppure le manifestazioni di diffidenza sono una dimensione costante dei nostri sistemi politici. Possiamo rammaricarcene; possiamo anche scorgervi l´indispensabile indicatore delle febbri e delle patologie del corpo sociale e politico, e un richiamo costante al fatto che la democrazia non è mai raggiunta o definitiva. È più un processo che una condizione stabile.
(Traduzione di Marzia Porta)

Repubblica 18.9.07
I medici, l'eutanasia e la morte di Wojtyla
di Paolo Flores d’Arcais


Caro direttore, per ironia della sorte, o per Disegno della Provvidenza, il numero di MicroMega che contiene la dettagliata ricostruzione della eutanasia di Karol Wojtyla è uscito lo stesso giorno (venerdì scorso) in cui la Santa Sede ribadiva solennemente che la mancata somministrazione di nutrimento, se necessario per via artificiale – non solo al malato grave, ma perfino ad un corpo umano in stato vegetativo e con encefalogramma piatto – costituiva comportamento eutanasico. Ovvio, perciò, che nei giorni immediatamente successivi, il medico curante di Giovanni Paolo II si sia affrettato a negare le "voci" sulla "buona morte" del pontefice (proprio in una intervista a Orazio La Rocca, pubblicata con grande evidenza da questo giornale).
Il professor Buzzonetti ha preferito non citare il lungo e dettagliato saggio pubblicato da MicroMega, a firma della professoressa Pavanelli, anestesista (già direttore della scuola di specializzazione in Anestesia e rianimazione dell´università di Ferrara), perché, parlando genericamente di "voci", ha potuto così evitare di dover entrare nel merito della ricostruzione stessa. Ma è proprio la smentita di Buzzonetti che non smentisce nulla. Non smentisce e non può smentire, infatti, una ricostruzione che la professoressa Pavanelli ha condotto utilizzando esclusivamente documenti ufficiali della Santa Sede e dell´entourage del Papa, e in particolare il libro dello stesso Renato Buzzonetti ("Lasciatemi andare – la forza nella debolezza di Giovanni Paolo II", edizioni San Paolo, 2006) che riprende, sistematizza e approfondisce i bollettini medici quotidianamente emessi a suo tempo.
Del resto, il professor Buzzonetti si concentra sugli "ultimi istanti" di Karol Wojtyla, benché la professoressa Pavanelli non di questi "ultimi istanti" si sia occupata, sui quali non avanza alcun rilievo, bensì dei due mesi precedenti la morte del Papa. Lina Pavanelli, infatti, mette a confronto i dati clinici su questi due mesi forniti da Buzzonetti (e i comunicati del portavoce della Santa Sede Navarro-Valls), con i documenti di etica medica dell´ortodossia cattolica, dall´enciclica "Evangelium vitae" che ha caratterizzato il pontificato di Karol Wojtyla, ai "Quaderni di Scienza e Vita", e infine al testo del Comitato nazionale per la bioetica del 30 settembre 2005, in cui la maggioranza cattolica, con il voto contrario di tutti i laici, tentava di imporre le norme dell´"Evangelium vitae" alla legislazione italiana.
Tutti questi testi dicono chiaramente che: 1) l´alimentazione e l´idratazione dei pazienti, anche se in stato vegetativo persistente, deve essere somministrata comunque; 2) non vi è distinzione tra un atto che affretta la morte e una omissione che provoca la stessa conseguenza: in entrambi i casi si tratta di eutanasia.
La dottrina ufficiale della Chiesa (che a molti tra noi laici appare semplicemente mostruosa, perché non rispetta la volontà del malato terminale, nel caso non voglia più soffrire la tortura cui è ormai ridotta la sua vita) è perciò assolutamente chiara: non nutrire artificialmente un paziente, se tale mancata nutrizione affretta la sua morte, significa partecipare ad un atto eutanasico.
Ora, il dettagliatissimo saggio di Lina Pavanelli dimostra esattamente questo: nelle settimane che precedono la sua morte, Karol Wojtyla diventa progressivamente incapace di alimentarsi, tanto è vero che dimagrisce a vista d´occhio (15 chili secondo l´agenzia AdnKronos, 19 chili secondo Repubblica, nel giro di due settimane!), ma il sondino nasogastrico per l´alimentazione artificiale gli viene applicato solo "l´ultimo giorno prima del crollo finale".
Giovanni Paolo II, insomma, non è morto né per una crisi respiratoria né per il Parkinson, ma a causa di una mancata nutrizione che, se somministrata come da morale cattolica, lo avrebbe fatto vivere più a lungo. Quanto più a lungo non sappiamo, ovviamente. Ma certamente "ancora a lungo".
Non posso qui riprodurre le minuziose argomentazioni cliniche della professoressa Pavanelli, esposte però con una chiarezza didattica tale che anche il non medico riesce a seguirle perfettamente. Il saggio si domanda anche come mai dei medici cattolici abbiano compiuto una scelta incompatibile con il magistero della Chiesa. E anche qui, con una indagine minuziosa e logicamente ineccepibile, la Pavanelli arriva alla conclusione che il rifiuto della nutrizione artificiale non può essere venuto che dalla volontà dello stesso Papa. Se i medici non lo avessero avvertito della situazione e delle conseguenze, o avessero agito senza il suo consenso, infatti, avrebbe compiuto un reato perseguibile penalmente (non un suicidio assistito, ma un omicidio di non-consenziente: un omicidio tout court, insomma). Il che è impensabile.
Che nessuna smentita sia in realtà venuta dalla "smentita" del professore Buzzonetti, è confermato del resto da un episodio tanto sconcertante quanto significativo. Il giorno prima che Buzzonetti concedesse l´intervista a Repubblica, sulla prima pagina del "Corriere della sera" usciva un articolo di Luigi Accattoli, vaticanista notissimo, nel quale si riconosceva la contraddizione insanabile tra dottrina cattolica e mancata nutrizione artificiale del Papa, ma si rispondeva che in realtà tale nutrizione c´era stata, anche se i comunicati ufficiali l´avevano taciuta.
Accattoli accredita tale sua ricostruzione parlando di una personale "inchiesta tra le persone che accostarono il Papa lungo l´ultimo mese". Ora, sarebbe interessante sapere chi sono queste "persone", visto che il capo dello staff medico (cioè delle uniche persone che potevano inserire il sondino nasogastrico) nella sua intervista del giorno dopo a Repubblica, non fa parola della "scoperta" di Accattoli.
Viene perciò il sacrosanto dubbio che imprecisati, ma evidentemente più che ufficiali, ambienti vaticani, nella veste di ancor più imprecisate "persone", vogliano accreditare in forma ufficiosa una nuova versione ad hoc delle ultime settimane del Papa, visto che quella ufficiale fin qui reiterata non potrebbe sottrarsi alla circostanziata accusa di eutanasia (secondo la definizione di eutanasia della Chiesa cattolica, sia chiaro).
Ecco perché, la prossima settimana MicroMega organizzerà una conferenza stampa, in cui la professoressa Pavanelli risponderà a tutte le obiezioni con ogni dettaglio possibile. Inutile dire che a tale conferenza stampa, e per un pubblico confronto, MicroMega invita fin da ora il professor Buzzonetti, l´ex-portavoce della Santa Sede Navarro-Valls (che oltre tutto è medico) e il suo successore padre Lombardi, Luigi Accattoli, e tutte le "persone" che hanno assistito Karol Wojtyla nelle ultime settimane di vita.

Corriere della Sera 18.9.07
Accertamenti dei pm dopo il caso del prete pedofilo. Accuse al vescovo ausiliare
Curia di Firenze, indagine su festini e minacce
di Fiorenza Sarzanini


Nell'inchiesta già coinvolto il parroco don Cantini, condannato dal tribunale della Chiesa. Era stato chiamato in causa da una ventina di donne
Festini e minacce a Firenze L'indagine porta alla curia
Cinque testimoni accusano il vescovo Maniago

FIRENZE — L'inchiesta penale su don Lelio Cantini, il parroco di Firenze di 82 anni riconosciuto colpevole dai suoi superiori di abusi sessuali su alcune ragazze, è entrata nelle stanze della Curia.
Sotto indagine ci sono i rapporti tra don Cantini e quello che era il suo allievo prediletto, il vescovo ausiliare del capoluogo toscano Claudio Magnago, nonché alcune denunce che coinvolgono l'alto prelato in festini a luci rosse e tentativi di plagio di alcuni fedeli per costringerli a cedere le loro proprietà.
La sentenza di condanna del tribunale della Chiesa sembrava aver chiuso la vicenda. E invece l'inchiesta penale su don Lelio Cantini, il parroco di Firenze di 82 anni riconosciuto colpevole dai suoi superiori di abusi sessuali nei confronti di alcune ragazze, adesso entra nelle stanze della curia. Esplora i rapporti tra il prete e quello che era il suo allievo prediletto, il vescovo ausiliare del capoluogo toscano Claudio Maniago. Verifica alcune denunce che lo coinvolgono in festini a luci rosse e tentativi di plagio di alcuni fedeli per costringerli a cedere le loro proprietà. L'alto prelato non risulta iscritto nel registro degli indagati, ma nei suoi confronti sono già stati disposti accertamenti e controlli. I magistrati hanno acquisito i tabulati delle sue telefonate e ora si concentrano sui conti correnti bancari proprio per stabilire la fondatezza delle accuse.

La primavera scorsa, tre anni dopo l'arrivo delle prime denunce, don Cantini e la sua perpetua Rosanna Saveri si rifugiano in un convento per sfuggire al clamore che il caso ha suscitato. Oltre una ventina di donne hanno accusato il sacerdote di averle violentate quando erano minorenni. Numerosi parrocchiani sostengono di essere stati plagiati e costretti a consegnargli denaro e beni immobili.
L'obiettivo dichiarato da don Lelio era quello di creare una nuova Chiesa «non corrotta» e di trovare «ragazzi da inviare in seminario per colonizzare la struttura ecclesiale».
Le presunte vittime si rivolgono alla curia e poi scrivono al Papa sollecitando le sanzioni previste dai tribunali ecclesiastici in attesa che arrivi il giudizio della magistratura ordinaria. Si tratta di fatti avvenuti molti anni fa, temono che alcuni reati vadano in prescrizione. La Chiesa intanto decide di intervenire. Il 2 aprile scorso l'arcivescovo di Firenze Ennio Antonelli e il suo ausiliare Maniago vengono ricevuti in Vaticano da Benedetto XVI proprio per affrontare la vicenda e decidere gli eventuali provvedimenti. Il processo penale amministrativo autorizzato dalla Congregazione per la dottrina della fede è già stato avviato. E si conclude qualche settimana dopo con una condanna che lo stesso Antonelli definisce «esemplare»: don Cantini è colpevole non soltanto di abusi sessuali, ma anche di «falso misticismo e controllo delle coscienze». Un plagio dunque. Il parroco non potrà più svolgere alcuna attività, viene di fatto interdetto. Il provvedimento del cardinale si chiude con la difesa della «serietà, della dedizione e della fedeltà del vescovo Maniago».

In procura alcuni testimoni raccontano però una diversa verità. Due dipendenti della curia e due sacerdoti accusano Maniago di aver sempre saputo quale fosse la vera attività di don Cantini, che era il suo padre spirituale, e di averlo «coperto». Lo accusano soprattutto di aver partecipato alla gestione del patrimonio immobiliare sottratto ai parrocchiani. Poi vanno oltre e sostengono che anche lui avrebbe partecipato a festini a luci rosse. Parlano di diversi episodi, l'ultimo sarebbe avvenuto nel 2003. «Più volte — affermano — ci ha minacciato per costringerci al silenzio, ma adesso non possiamo più tacere».
I magistrati li ritengono attendibili e dispongono verifiche mirate. Acquisiscono i tabulati di un cellulare intestato alla curia di Firenze che risulta in uso al vescovo Maniago. Verificano le chiamate effettuate e ricevute tra gennaio e giugno scorsi. Accertano numerose telefonate tra lui e la perpetua, scoprono che almeno due volte l'alto prelato ha contattato il convento dove don Cantini si era rifugiato. Adesso vogliono scoprire il motivo di quelle conversazioni. Capire se sia giustificato dallo svolgimento del processo o se invece nasconda la volontà di accordarsi con i due.

Il 21 aprile si presenta in procura Paolo C., 40 anni. Dice di aver deciso di parlare dopo aver letto i giornali, aver saputo quanto stava accadendo. E torna indietro di dieci anni. «Era agosto 1996 — racconta — e io, che sono omosessuale, avevo messo un annuncio su un giornale, nella rubrica "incontri sadomaso".
Attraverso il fermo-posta fui contattato da una persona che mi diede appuntamento alla Certosa. Quando arrivò mi accorsi che era un sacerdote. Mi portò in una parrocchia vicino Cecina dove c'era anche un dormitorio estivo. Mi disse di chiamarsi don Andrea. Lì trovammo un altro prete e due ragazzi, certamente meridionali. Ebbi con lui un rapporto sessuale, poi rimasi la notte. Il giorno dopo mi dissero che sarebbe arrivato quello che loro chiamavano "il padrone". La sera ci fu l'incontro di gruppo, quel sacerdote l'ho riconosciuto in fotografia. Era Claudio Maniago ». L'uomo entra nei dettagli, si sofferma sui particolari.
«A un certo punto dissi basta, non potevo continuare». Paolo C. ricorda la sua fuga, la crisi. Dice di averne parlato con don Andrea «che in seguito mi aveva contattato varie volte». E aggiunge: «Mi offrirono dei soldi, poi mi fecero un bonifico. Avevo paura che si potesse pensare a una sorta di estorsione per comprare il mio silenzio, ma loro mi dissero che volevano farmi soltanto un'offerta». Sono poco più di tre milioni di lire. Il testimone fornisce i dati per risalire all'operazione, i pubblici ministeri delegano la polizia a effettuare le verifiche. Il passaggio di denaro viene rintracciato sulla Banca delle Marche. Ora proseguono gli accertamenti patrimoniali per scoprire se ci siano stati altri episodi analoghi. Soltanto quando il quadro sarà completato si deciderà se formalizzare le accuse. Prima dell'iscrizione nel registro degli indagati i magistrati vogliono incrociare i dati a disposizione ed effettuare altri riscontri.

Corriere della Sera 18.9.07
Viano: «Ma quali voci contro il Pontefice, da noi la cultura è ingessata e devota»
di Claudia Voltattorni


MILANO — «"Voci critiche e discordanti"? Ma se Ratzinger è l'uomo meno criticato del pianeta! ». A sentire le parole di monsignor Bagnasco sugli attacchi a Benedetto XVI da «cattedre discutibilissime », Carlo Augusto Viano, professore emerito di Storia della filosofia all'Università di Torino, quasi sorride. E un po' si arrabbia. «In Italia ormai c'è una devozione agghiacciante verso il Papa che neanche nel peggior regime democristiano, non esiste alcuna voce discordante, o se c'è non se ne dà mai notizia».
Ma allora, quali sarebbero le «cattedre discutibilissime» di cui parla il presidente dei vescovi?
«Già, chissà chi sono? Io non le vedo ».
Secondo lei, Benedetto XVI non viene mai criticato?
«Se accade non risulta: al Papa si dà spazio sempre e ovunque, qualsiasi argomento tratti, ma per le voci contrarie non c'è mai neanche uno spazietto».
Di chi è la responsabilità?
«Certo, non del Pontefice, lui fa solo il suo mestiere, anzi, in fondo lo capisco, così come capisco Bagnasco che gli esprime solidarietà. È la cultura italiana che è ingessata».
Perché?
«Non interviene mai, non commenta, non giudica le stupidaggini e le falsità che Benedetto XVI dice, si autocensura e anzi accoglie tutto senza alcun dissenso. Basta guardare i mezzi di comunicazione: ogni giorno c'è il Papa, mai chi la pensa diversamente da lui. Oggi (ieri, ndr), per esempio, i telegiornali parlavano del Festival Filosofia di Modena: beh, l'unico intervistato è stato monsignor Ravasi, con tutti i filosofi che erano lì!».
Ma è un problema solo italiano?
«Purtroppo sì. Siamo eredi dello Stato pontificio e questo ci rende tuttora succubi del Papa. Inoltre, solo qui ci si stupisce del fatto che il Pontefice venga criticato, e ci siamo ormai abituati a non contraddirlo mai. E sì che credo che Benedetto XVI dovrebbe essere contento di sentire qualche voce di dissenso».
Cosa critica di Benedetto XVI?
«Tutto! A partire dalla resurrezione: non si può dire che i morti risorgono così come che esistono i miracoli. Oppure, spiegare i sentimenti di Dio: ma a lui chi l'ha detto cosa c'è in mente dei? Neppure nella teologia cattolica è scritto. E il mondo della cultura se ne sta lì ad ascoltare anziché intervenire».
Però lo ha detto anche lei: il Papa fa il suo mestiere...
«Certo, dice cose da Papa, e io non mi scandalizzo che le dica, non accetto però che mi vengano imposte, che io sia costretto a riconoscere la sua autorità».
Si riferisce a qualche caso in particolare?
«Penso al suo ultimo intervento sullo stato vegetativo permanente in cui propone di fatto l'accanimento terapeutico: lui può pensarla come vuole, ma io non devo essere costretto a seguire i suoi dettami».

Corriere della Sera 18.9.07
Nuovi studi sul meccanismo cerebrale che registra le informazioni e le sincronizza istantaneamente
Quando il cervello fa «bing»
In 25 millesimi di secondo la presa di coscienza di un fatto
di Massimo Piattelli Palmarini

Hameroff e Vitiello: la soluzione si trova all'interno dei neuroni

Tutti conosciamo il termine big bang, che ci viene dalla fisica del cosmo, ma pochi ancora conoscono il termine bing, che, invece, ci viene dallo studio neuro-biologico degli stati di coscienza. Cosa significhi è presto detto. Immaginiamo di stare attraversando una strada del centro. Dalla coda dell'occhio, dalla periferia della nostra distratta visione, emerge una sagoma. D'un tratto (bing, appunto) realizziamo che c'è un autobus in corsa verso di noi. Qualcosa «entra» nella nostra coscienza, emergendo come la punta di un iceberg dalle miriadi di attività del nostro cervello, delle quali non abbiamo alcuna coscienza. In laboratorio questo lo si può studiare molto precisamente, con l'elettro-encefalografia, proiettando una parola (per esempio la parola «elefante») per un brevissimo istante, al di sotto della soglia del bing. E' facile verificare che il nostro cervello l'ha registrata, anche se noi non ce ne rendiamo conto. Certe associazioni (poniamo, con la parola «proboscide ») ci vengono spontanee, senza renderci conto del perché, e possono venire accertate. Poi, il tempo di proiezione si allunga e, d'un tratto, bing, ci rendiamo conto di vedere proprio quella parola. Il dato stupefacente emerso da questi studi è che in pochissimi millesimi di secondo, quando insorge il bing, si sincronizzano in ampiezza e fase le onde cerebrali provenienti da zone del nostro cervello assai lontane tra di loro, fino a venti centimetri nell'uomo. Tutta la corteccia cerebrale, anteriore e posteriore, destra e sinistra, si sincronizza, ma si sincronizzano anche con lei e tra di loro regioni cerebrali più profonde, sotto- corticali, come il talamo e perfino parte del tronco cerebrale.
PROCESSI — Decadi di studio del cervello hanno ben sviscerato i meccanismi di trasmissione dell'impulso nervoso e il transito di segnali elettrochimici tra neurone e neurone. Ebbene, niente, proprio niente, di quanto oggi si sa sui tempi piuttosto lunghi di questi processi è capace di spiegare il meccanismo di sincronizzazione, praticamente istantaneo, che genera il bing della nostra presa di coscienza. Me lo confermano due insigni studiosi, Stuart Hameroff, anestesiologo e direttore del prestigioso e attivissimo Centro per lo Studio della Coscienza dell'Università dell'Arizona, e un noto fisico italiano, esperto di teoria quantistica dei campi, Giuseppe Vitiello, professore all'Università di Salerno. Hameroff e Vitiello collaborano attivamente con molti altri colleghi ai quattro angoli della terra per risolvere il super-rompicapo (mi si perdoni il gioco di parole) del bing. Hameroff mi illustra i segreti della sincronia gamma, il termine tecnico per queste oscillazioni cerebrali coerenti, che possono investire un intero emisfero cerebrale negli animali. Le interazioni tra i neuroni sono troppo lente per spiegare il fenomeno, quindi questi studiosi cercano di andare dentro i neuroni, fino allo scheletro cellulare interno, i microtubuli e le giunzioni tra i corpi dei neuroni. Lasciatisi, quindi, dietro le spalle i lenti meccanismi della neuro biologia ordinaria, si avventurano nei meandri dei fenomeni quantistici, nell'ultra microscopico.
BIOCHIMICA — In un'intervista a distanza, Vitiello mi spiega: «Non esistono al momento convincenti spiegazioni di quali siano i meccanismi biochimici che presiedono alla formazione di tali domini correlati. Il problema che quindi si pone, dal punto di vista del fisico, è quello dell'insorgere di un ordinamento nella massa neuronale (le correlazioni in oscillazioni coerenti tra i neuroni nei domini osservati), del suo scomparire e del suo riapparire». Dove cercare lumi, allora? Vitiello precisa: «Dalla fine degli anni '50, nella fisica delle particelle elementari come in quella della materia allo stato solido, il meccanismo di rottura della simmetria gioca un ruolo fondamentale nella comprensione della formazione di domini ordinati. C'è simmetria quando al variare delle configurazioni microscopiche le caratteristiche osservabili (macroscopiche) del sistema restano invariate. Per esempio, alterando, entro certi limiti, la distribuzione e le orientazioni delle velocità nelle molecole dell'aria in una camera d'aria, la pressione ed il volume della stessa restano invariate (ed è quello che si richiede per le gomme della nostra auto!). Fin dal 1967 il fisico giapponese Hiroomi Umezawa, uno dei padri della moderna teoria dei campi quantistici, ha proposto, assieme al fisico napoletano Luigi Maria Ricciardi, che il "dilemma" del bing possa trovare una spiegazione nel meccanismo della rottura spontanea della simmetria».
TEORIE — Le ricerche sono in pieno sviluppo. Nell'aprile 2008, a Tucson, si terrà la grande conferenza biennale e mondiale sulla coscienza. Tutto questo e ben altro verrà ulteriormente esaminato. Quanto queste teorie siano ormai sulla soglia delle applicazioni concrete è mostrato dalla conferenza che Hameroff terrà in questi giorni a Silicon Valley, all'alta dirigenza di Google. Neuroscienze e computer erano forse sull'orlo di un divorzio, ma Hameroff mi dice che lui si considera il loro conciliatore coniugale.