Il regista americano a Roma presenta il cast di «Miracolo a Sant’Anna», il nuovo film sulla strage nazista dell’agosto 1944
Spike Lee: «L’ultima guerra giusta degli americani finì nel ’45»
«Voglio raccontare un episodio dell’ultima guerra giusta fatta dagli americani. In seguito abbiamo combattuto tante guerre sbagliate, dal Vietnam alla Corea fino alla Guerra del Golfo e l’immagine del nostro Paese è cambiata e oggi nessuno associa più i nostri soldati agli eroici salvatori della Seconda Guerra Mondiale». Così Spike Lee a Roma per presentare il cast del suo nuovo film tutto italiano: Miracolo a Sant’Anna, ispirato alla sanguinosa strage compiuta dai nazisti a Sant’anna di Stazzema nell’agosto ‘44. «Mi chiedevano sempre di girare un film in Italia - prosegue -, ma solo per Miracolo a Sant’Anna si sono verificate certe condizioni. Intanto c’è il fascismo, c’è il tema del razzismo, ci sono poi i soldati afro americani, considerati allora di seconda classe, e poi ci sono gli italiani e il modo di relazionarsi con tutte queste realtà. Il tutto rende questa storia epica».
Con il regista all’incontro stampa romano anche il cast italiano appena selezionato composto da Pierfrancesco Favino, Omero Antonutti, Valentina Cervi, Lydia Biondi e Sergio Albelli. «Mi sono meravigliato perché si sono presentati al provino conoscendo tutti le loro parti alla perfezione. Una cosa che in America non accade mai», ha commentato Spike Lee. Il regista di Fa’ la cosa giusta, dal canto suo confessa di essersi preparato per la pellicola con «una overdose di film di guerra. Tra i riferimenti italiani ho visto film neorealisti come Paisà, Miracolo a Milano, la Ciociara, ma anche film come
Salvate il soldato Ryan. Quando si gira bisogna fare ricerche - spiega Lee -, tornare ad essere studenti».
Il film, le cui riprese inizieranno il 15 ottobre e sarà girato tra Roma e la Toscana, è prodotto da Roberto Cicutto e Luigi Musini (On My Own Produzioni Cinematografiche) insieme a 40 Acres and a Mule Filmworks, dello stesso Lee, in associazione con Raicinema. Budget previsto circa 45 milioni di dollari per questo lavoro tratto dall’omonimo romanzo di James McBride (pubblicato in Italia da Rizzoli). Miracolo a Sant’Anna, che avrà nel cast anche attori americani e tedeschi ancora non rivelati, racconta di alcuni soldati di colore impegnati sulla Linea Gotica le cui vicende si intrecciano con la storia della popolazione che ha vissuto la strage. Tutti entusiasti gli attori italiani (a cui si dovrebbe aggiungere anche Agnese Nano). Dice Favino ai giornalisti: «per favore scrivetelo. I miei amici quando gli dico che sono andato a cena con Spike Lee non ci credono più di tanto. Anche perché sono gli stessi amici con i quali, in quelle serate in cui ognuno fa a chi la spara più grossa, dicevo che avrei proprio voluto lavorare con registi come Lee».
Repubblica 21.9.07
«L’Espresso» pubblica la memoria dello scrittore rilasciata, a un mese dall’arresto del gerarca, a Yad Vashem, l’Istituto per la Shoah di Gerusalemme
1960, il testimone Primo Levi e il processo Eichmann
«Roma 14 giugno 1960. Deposizione del dottor Primo Levi abitante in Torino - C. Vittorio 67». È l’intestazione sotto cui appare il documento inedito che riaffiora dagli archivi di Yad Vashem a Gerusalemme, l’istituto per la memoria della Shoah: un documento che l’Espresso in edicola oggi pubblica con un commento di Marco Belpoliti, lo studioso che con il regista Davide Ferrario ha ripercorso il viaggio di ritorno, da Auschwitz all’Italia, narrato da Levi nella Tregua, e che ne ha riportato gli esiti nel libro La prova uscito nei mesi scorsi per Einaudi.
In un paio di cartelle dattiloscritte - «per il tono, lo stile e anche l’uso delle maiuscole», a parere di Belpoliti, probabilmente battute dallo stesso Levi - il chimico-scrittore dà conto delle vicende vissute tra il 9 settembre 1943 quando, all’indomani dell’armistizio, si rifugiò in Val d’Aosta, e l’ottobre 1945 quando, dopo la detenzione nel lager, la liberazione per opera dei russi e l’interminabile viaggio di ritorno per l’Europa, finalmente riapprodò in Italia.
Vediamo quella data: giugno 1960. È a maggio che Adolf Eichmann - l’ideatore della «soluzione finale» - è stato catturato in Argentina dagli agenti del Mossad e a giugno è in corso l’istruttoria per un processo che costituirà un terremoto, in primis per Israele stesso. La testimonianza di Primo Levi giunge insieme con un’altra cinquantina di memorie di scampati italiani. Giugno 1960, però, significa anche un’altra cosa: due anni dalla ripubblicazione di Se questo è un uomo, avvenuta nel 1958, per i tipi di Einaudi. Primo Levi, insomma, nel ‘60 non è solo uno scampato alla Shoah, ma ne è un testimone celebre. Eppure in Israele non è tale: Meron Rapoport illustrando per il settimanale come il documento sia venuto alla luce (a ritrovarlo una studiosa isreaeliana, Margalit Shlain) ripercorre i decenni in cui, per paradosso, proprio lì, l’opera di Levi non trovò sbocco editoriale. Tant’è che infine al processo Eichmann, dove il pubblico ministero Gideon Hausner volle convocare, per ottenere il maggior impatto, nomi noti al pubblico, c’era Yehiel Dinur-Feiner, il reduce di Auschwitz, che firmava con lo pseudonimo Ka-Tzetnik libri d’effetto. Ma non c’era il testimone-scrittore per eccellenza, Primo Levi.
Il documento che pubblica l’Espresso cosa aggiunge alle memorie consegnate dal chimico-scrittore ai suoi libri? «Di ciascuno dei suoi compagni Levi dice cognome e professione, e il destino» nota Belpoliti.
«Il 9 settembre 1943 insieme ad alcuni amici mi rifugiai in Val d’Aosta e precisamente a Brusson, sopra St.Vincent, a 54 km. dal capoluogo della regione. Avevamo costituito un gruppo partigiano nel quale figuravano parecchi ebrei fra i quali ricordo Guido Bachi, attualmente a Parigi in qualità di rappresentante della soc. Olivetti, Cesare Vita, Luciana Nissim sposatasi poi con Momigliano e attualemnte domiciliata a Milano e autrice del libro Donne contro il mostro, Wanda Maestro, deportata e deceduta in un campo di sterminio». Così esordisce Levi. Subito dopo, il nome dell’uomo che li tradisce tutti: con loro c’era anche «un tale che si faceva chiamare Meoli». Quattro giorni dopo, individuati e arrestati dalla Milizia, lo ritroveranno nella caserma di Aosta. Levi racconta del trasferimento a Fossoli e d’una detenzione tutto sommato quasi gentile, fino al 18 febbraio '44, quando arrivano in paese le Ss. «Nessuno tentò di fuggire. Ci caricarono su vagoni bestiame sui quali era scritto: “Auschwitz” nome che in quel momento non ci diceva proprio nulla...».
Ecco il tocco lieve e secco come una fucilata del narratore Levi. «Eravamo 650 ebrei...» aggiunge.
Poi, arrivati ad Auschwitz, per i 96 che si dichiarano capaci di lavorare, il trasferimento a Buna Monowitz, per 26 donne a Birkenau. Per gli altri le camere a gas. Ed ecco gli altri nomi: i medici ebrei nel campo, Coenka di Atene, Weiss di Strasburgo, Orensztejn, polacco, «parecchi francesi» di nome Levy. Un nome spicca. «Il dottor Samuelidis di Salonicco che non ascoltava i pazienti che a lui si rivolgevano per cure e denunciava gli ammalati alle Ss tedesche!!». Nel dattiloscritto hanno spazio - come qui - molti punti esclamativi, un uso che il Primo Levi narratore, invece, non si concedeva.
Un altro nome da consegnare alla memoria: «l’ebreo olandese Josef Lessing, di professione orchestrale», che da caporeparto «si dimostrò non soltanto duro, ma malvagio». Poi, i nomi dei compagni di fabbrica e di Shoah, da Roma, da Ferrara, da Trieste. Coi quali, annota, avrebbe intentato causa nel dopoguerra per ottenere «la mercede dovuta»: lire 800.000.
Le ultime righe raccontano la liberazione e «la tregua», il viaggio. Katowice, Minsk, Sluck, finché - conclude il testimone Primo Levi con la sua segretissima ironia - «quando Dio volle, rientrammo in Italia».
m.s.p.
Corriere della Sera 21.9.07
Lectio magistralis a Pordenonelegge
L'Europa globale erede di Kant
di Zygmunt Bauman
Pubblichiamo un estratto della lezione che il sociologo Zygmunt Bauman terrà domenica a Pordenone nell'ambito della Festa del libro Pordenonelegge, che inizia oggi e vedrà la presenza di ben 185 autori di saggistica e narrativa.
L'egemonia solitaria degli Usa aggrava le tensioni
Formulare i compiti e la missione dell'Europa sulla base dell'assioma del monopolio americano sul potere mondiale è fondamentalmente errato. La vera sfida all'Europa deriva dall'evidenza, sempre più palese, che l'unica superpotenza non è in grado di condurre il pianeta a una coesistenza pacifica, lontano dall'imminente disastro. Anzi, ci sono ampi motivi per credere che questa superpotenza possa diventare la causa prima di un disastro. A tutti i livelli di convivenza umana, i potenti tendono a dispiegare i propri mezzi per rendere l'habitat più congeniale e favorevole al tipo di potere che detengono. La superpotenza americana non fa eccezione. Dato che il suo bene più forte è la forza militare, essa tende naturalmente a ridefinire tutti i problemi planetari — siano essi di natura economica, politica o sociale — come problemi di pericolo e confronto mi-litari, risolvibili esclusivamente con soluzioni militari. Invertendo la formula di von Clausewitz, gli Stati Uniti considerano e trattano la politica come continuazione della guerra con altri mezzi. Per assicurare il proprio dominio, contando e basandosi sul suo unico e incontestato vantaggio— la superiorità militare — l'America ha bisogno di ricreare il resto del mondo a sua immagine rendendolo, per così dire, «ospitale » alle sue politiche preferite. Deve trasformare il pianeta in un luogo dove i problemi economici, sociali e politici vengono affrontati con mezzi e azioni militari, e dove invece ogni altro mezzo e tipo di azione viene privato di valore e dichiarato inutilizzabile. Ecco da dove nasce la vera sfida all'Europa.
L'Europa non può considerare seriamente di uguagliare la forza militare dell'America e di resistere all'avanzamento della militarizzazione del pianeta giocando al gioco americano. Non può neppure sperare di recuperare il suo passato dominio industriale, perso irrimediabilmente nel nostro mondo sempre più policentrico e ora soggetto, nella sua complessità, ai processi di modernizzazione economica. Tuttavia, può e deve tentare di rendere il pianeta ospitale per altri valori e ad altri modi di esistenza, diversi da quelli rappresentati e promossi dalla superpotenza militare americana; può rendere il pianeta ospitale ai valori e ai modi che l'Europa, più di ogni altra parte del mondo, è predisposta a offrire al mondo.
George Steiner insiste sul fatto che il compito dell'Europa «è tanto spirituale quanto intellettuale». Il genio dell'Europa è per lui «il genio della diversità linguistica, culturale e sociale, di un mosaico ricchissimo che spesso trasforma una distanza irrilevante, una ventina di chilometri, nella frontiera tra due mondi». Riflessioni analoghe si possono trovare nel retaggio letterario di Hans-Georg Gadamer. A suo parere il «compito dell'Europa» è quello di acquisire e di condividere l'arte di apprendere gli uni dagli altri. E io aggiungerei: la missione dell'Europa, o meglio, il fato dell'Europa che attende di essere riformulato come destino. Vista sullo sfondo di un pianeta schiacciato dai conflitti, l'Europa sembra una fucina dove vengono continuamente forgiati gli strumenti necessari per raggiungere la kantiana unificazione del genere umano.
Per il momento, tuttavia, l'Europa sembra cercare una risposta ai nuovi problemi in politiche che guardano all'interno, piuttosto che all'esterno, in politiche centripete piuttosto che centrifughe. In breve, sigilliamo le nostre porte e facciamo molto poco, se non addirittura nulla, per porre riparo alla situazione che ci ha indotto a chiuderle.
È chiaro che l'Europa ha le sue buone ragioni per guardare sempre di più al suo interno. Il mondo non appare più invitante. Sembra ostile, infido, è un mondo che spira vendetta e che, tuttavia, ha bisogno di essere reso sicuro per noi. Questo è il mondo dell'imminente «guerra delle civiltà», un mondo in cui ogni passo che si fa, qualsiasi esso sia, presenta molteplici rischi. La sicurezza è lo scopo principale del gioco e la sua posta più alta. È un valore che in pratica, se non in teoria, oscura e caccia a gomitate ogni altro valore. In un mondo insicuro come il nostro, la libertà personale di parola e di azione, il diritto alla privacy, l'accesso alla verità — tutte quelle cose che associavamo alla democrazia — devono essere ridimensionate o sospese. O, se non altro, questo è ciò che sostiene la versione ufficiale, confermata dalla pratica ufficiale.
Ma la verità è che noi non possiamo difendere le nostre libertà a casa nostra, se ci isoliamo dal resto del mondo e ci occupiamo solo dei nostri affari interni. In un pianeta globalizzato, in cui la difficoltà di ognuno, dovunque, determina la difficoltà di tutti gli altri e viene al contempo determinata dagli altri, libertà e democrazia non possono più essere assicurate «separatamente» — cioè, soltanto in un Paese o in una selezione di Paesi. Il fato della libertà e della democrazia in ogni Paese viene deciso e stabilito su scala globale; e soltanto su quella scala può essere difeso con concrete probabilità di un successo duraturo.
Corriere della Sera 21.9.07
Nel saggio di Ludovico Incisa di Camerana un profilo insolito dell'eroe rivoluzionario
Il Che come d'Annunzio, l'altra faccia del mito
«L'avventura guevarista modello per l'uomo di destra»
di Dino Messina
Il sacrificio in guerra è culto per la «bella morte»
La filosofia
«Un'ombra domina l'America Latina nella seconda metà del secolo XX e si prolunga nel Duemila: l'ombra di una rivoluzione mancata. Mancata come espansione, proseguimento e correzione della grande rivoluzione della prima metà del secolo scorso: la rivoluzione messicana. Mancata come espansione e proseguimento della piccola rivoluzione della seconda metà dello stesso secolo: la rivoluzione cubana».
Ludovico Incisa di Camerana, sottosegretario agli Esteri nel governo di Lamberto Dini, diplomatico di carriera con lunghi soggiorni fra gli anni Cinquanta e Sessanta in Venezuela e Argentina, autore di saggi come L'Italia della luogotenenza e I caudillos, comincia con una considerazione sul fallimento di un'illusione il suo nuovo saggio, I ragazzi del Che, appena uscito da Corbaccio nella collana storica diretta da Sergio Romano (pagine 406, e 20). Scritto in occasione dei quarant'anni dalla morte di Che Guevara, eliminato il 9 ottobre 1967 da un soldato ubriaco il giorno dopo la cattura sull'altopiano della Bolivia, il libro di Incisa di Camerana è soltanto per metà una biografia di Ernesto Guevara de la Serna. Per l'altra metà è la storia del suo mito e dell'influenza che le sue idee hanno avuto sia in America Latina sia in Europa.
Il medico argentino, nato il 14 giugno 1928 in una famiglia altoborghese decaduta, scopre la sua vocazione rivoluzionaria nell'incontro a Città del Messico con un esule cubano, Fidel Castro. È il 1956. Il 25 novembre il Che, così chiamato per sottolineare il suo intercalare argentino, si imbarcherà con altri 81 compagni su un vecchio battello diretto a Cuba. Guevara scriverà con Castro una pagina di storia. «Ma il mito — ci dice Incisa di Camerana — nascerà soltanto dopo la morte, anzi proprio per le modalità della morte. Intanto il Che era andato in Bolivia, in una zona pochissimo popolata, con la coscienza che si trattasse di un'operazione disperata. Più che uno spregiudicato materialista, un rivoluzionario romantico che ricorda i nostri eroi risorgimentali Carlo Pisacane e i fratelli Emilio e Attilio Bandiera. Dopo la cattura nessuno ebbe il coraggio di formare il plotone d'esecuzione per eliminare quell'uomo malandato. Per ucciderlo ci volle la raffica di mitra di un sottufficiale ubriaco». Un episodio, scrive Incisa di Camerana, «che a noi italiani ricorda l'assassinio di Francesco Ferrucci e l'infamia di Maramaldo. Un'esecuzione comunque illegale, non derivando da un regolare processo e non essendo prevista in Bolivia la condanna a morte».
Il personaggio Guevara, secondo l'interpretazione di Incisa di Camerana, sembra dunque scolpito più che sull'esempio degli eroi sudamericani, il cubano José Martí e il venezuelano Simón Bolívar, o i messicani Pancho Villa ed Emiliano Zapata, su quello dei nostri eroi risorgimentali. Ma c'è di più: l'ingenuità con cui si lancia in certe avventure, come la spedizione in Tanzania e Congo, lo stile frugale e il disinteresse per la propria incolumità, ricordano all'autore la ricerca della «bella morte» e l'estetica di certi scrittori europei. «Sul piano storico-politico — scrive lo storico — la sua figura è meglio conosciuta nel quadro di quel volontarismo europeo, di una giovane borghesia attivista, disposta a vincere o a perdere, pronta nella guerra o nell'insurrezione a giocare il tutto per tutto e specialmente se stessa, l'élite dei reparti d'assalto. Il mito dell'esperienza della guerra, il mito dei caduti, della legittimità della morte e del sacrificio in guerra, che affascina, come lo descrive George Mosse, i volontari delle guerre europee, diventa per una gioventù latinoamericana, che si candida al protagonismo, il mito dell'esperienza della rivoluzione ». E non c'è da stupirsi se, in questo quadro, l'autore affianchi il nome del Che a quelli di Gabriele d'Annunzio e Filippo Marinetti, ma anche di André Malraux e Curzio Malaparte. Un accostamento con protagonisti della destra europea che ad alcuni apparirà sacrilego, ad altri svelamento della vera natura di un mito.
Questa lettura etica ed estetica dell'avventura guevarista non può che avere un esito pessimistico: fatta salva l'eccezione di Cuba, la teoria dei «focos» rivoluzionari attorno ai quali doveva divampare la rivoluzione poteva affascinare, in America Latina come in Europa, soltanto una minoranza di studenti e intellettuali. Dagli ufficiali rivoluzionari venezuelani, che si ritrovarono senza seguito nella sierra, al nostro Giangiacomo Feltrinelli, editore e ammiratore del Che finito tragicamente su un traliccio di Segrate, gli imitatori di Guevara andarono tutti incontro all'isolamento e al fallimento. Così come alla luce della storia si dimostrano sterili i due capisaldi della teoria rivoluzionaria guevarista: la sconfitta dell'esercito e la conquista del consenso fra i contadini. «Ogni movimento di qualche consistenza in America Latina — ci dice Incisa di Camerana — non ha potuto fare a meno dell'appoggio dell'esercito. Quanto ai contadini, non sono mai stati conquistati dal mito rivoluzionario. Anzi, l'idea di rivoluzione è completamente tramontata nel subcontinente. Al punto che un leader come Rubén Zamora ha dichiarato: "La lotta armata non è più un'alternativa di potere in America Latina"».
Al di là della faccia sulle magliette, secondo l'autore de I ragazzi del Che, del mito Guevara resta poco anche in Europa. Il Sessantotto è lontanissimo, i suoi leader come Régis Débray hanno preso sentieri inaspettati. E gli studenti oggi sono certo più affascinati dalla tecnologia e dai consumi che dalle teorie pauperiste del rivoluzionario argentino.
Corriere della Sera 21.9.07
Cortigiane & potere
Donne libere e amanti illustri: una storia secolare
di Gian Antonio Stella
«L'Italia? Paese dei devoti, ma non della devozione» Montesquieu
«Isabella mia chara, chara, chara, chara, te baso con tucta l'anima mia sin de qua et prego che ti ricordi di me come merita il grandissimo amore che ti porto». Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena doveva proprio aver perso la testa, per quella damigella di corte di Isabella d'Este che portava lo stesso nome della duchessa e aveva conosciuto durante un viaggio a Mantova. E certo non si faceva problemi a esprimere quei sentimenti con una passione (teoricamente) proibitissima a un uomo di Chiesa. Tanta indifferenza ai giudizi altrui un buon motivo l'aveva. In quel 1515 in cui scriveva alla sua bella, la corte pontificia di Leone X, alla quale il prelato apparteneva, non si scandalizzava certo per così poco. Anzi.
Lo racconta un libro appena uscito per la Newton Compton. Si intitola Cardinali e cortigiane ed è stato scritto da Claudio Rendina, che alla storia di Roma, dei papi, dei soldati di ventura, degli ordini cavallereschi ha dedicato diversi volumi. Tutti caratterizzati da continui rimandi a una ricca bibliografia (i libri e i documenti citati in questa occasione sono 168), ma insieme da una scrittura volutamente leggera, apparentemente «facile» e da una esuberante raccolta di aneddoti e curiosità che forse faranno alzare con disappunto il sopracciglio a qualche barone dell'accademia, ma accompagnano attraverso certi percorsi nel nostro passato anche persone che altrimenti non ci si avventurerebbero mai. Dettagli irresistibili. Come la descrizione, presa dallo «Zoppino», pseudonimo di un sacerdote e scrittore spagnolo nonché «protettore di cortigiane », Francisco Delicado, delle tecniche usate per sedurre i suoi spasimanti da una certa Lucrezia Porzia. La quale non solo faceva pesare i suoi favori concedendosi solo dopo mille preghiere e regali e vestendo la parte della verginella sdegnosa (al punto che la chiamavano «Matrema non vole», soprannome ripreso anche dall'Aretino), ma si dava arie da intellettuale facendosi « beffe d'ogni uno che non favella a la usanza; e dice che si ha da dire balcone e non finestra, porta e non uscio, tosto e non vaccio, viso e non faccia, cuore e non core, miete e non mete, percuote e non picchia, ciancia e non burla ».
Ne esce un libro curioso. Che mette insieme, incrociandole continuamente, un sacco di storie di cardinali (e papi) e di donne di facili costumi. Le quali a volte erano così costose che talora, scrisse Montaigne, «volevano essere pagate anche per la semplice conversazione» e riuscivano a diventare immensamente ricche, come quella Giulia, detta La Lombarda, che riposa accanto all'altare maggiore della chiesa veneziana di San Francesco della Vigna e davanti alla cui tomba qualcuno prega invocando una grazia senza sapere che la «sontuosa meretize» morta nel 1542 aveva potuto comprare a Brentasecca, vicino a Padova, una bella villa con campagna con quello che aveva ricavato vendendo gli ori e i gioielli avuti in dono dalla danarosa clientela.
Questo accostamento tra le «squillo» e gli uomini di Chiesa dei tempi meno virtuosi, del resto, non deve stupire. Basta rileggere Montesquieu a proposito della città serenissima: «Mai in nessun luogo si sono visti tanti devoti e tanta poca devozione come in Italia. Bisogna tuttavia ammettere che i veneziani e le veneziane hanno una devozione che riesce a stupire: un uomo ha un bel mantenere una puttana, non mancherà certo la sua messa per nessuna cosa al mondo».
Proprio un proverbio veneziano del Settecento riassumeva così la dolce vita suggerita ai nobiluomini: «La matina una messetta, dopo pranzo una bassetta, dopo cena una donnetta». Messa, bisca, amante. E a leggere il libro di Claudio Rendina, che accosta cortigiane e cardinali come sintesi del rapporto che esiste da sempre tra sesso e potere, da Messalina al deputato dell'Udc Cosimo Mele, protagonista del recente festino a luci rosse all'Hotel Flora con due ragazze a pagamento e un po' di cocaina, furono proprio tanti, a seguire l'ipocrita raccomandazione. Al punto che nella chiesa capitolina di Sant'Agostino, come scriveva Georgina Masson nel suo Cortigiane italiane del Rinascimento, «tutto lo spazio compreso tra l'altare e i posti nei quali sedevano i cardinali era occupato da cortigiane » che in una città come Roma «erano assidue frequentatrici di chiese, dato che era anche questa un'eccellente forma di pubblicità, forse la migliore».
Ed ecco la storia di Pietro Riario, figlio adottivo di Papa Sisto IV, che dava nel suo palazzo a Santi Apostoli indimenticabili banchetti di sei ore con 42 portate e aveva come amante una ballerina di nome Tiresia, che appariva alle feste su un cocchio tirato da cigni e che il cardinale, nota il genovese Battista Fregoso, manteneva «con una prodigalità tale che si comprende dall'uso di scarpette ricoperte di perle». Ecco Madama Lucrezia, una bella figliola di Torre del Greco che, dopo esser stata l'amante del re di Napoli Alfonso d'Aragona, reso ben presto, come scrisse il futuro papa Enea Piccolomini, «servo di una femminetta», andò a cercar fortuna a Roma. E Vannozza Cattanei, che diede tre figli (Cesare, Juan e Lucrezia) all'amante Rodrigo Borgia, futuro Alessandro VI, il quale le offriva copertura procurandole uno dietro l'altro tre mariti di comodo, via via defunti. E giù giù fino a Beatrice Ferrarese, immortalata da Raffaello, e alla celeberrima Veronica Franco, che a Venezia ospitò nel suo talamo Enrico III che andava a Parigi a farsi incoronare e gli regalò una poesia da lei composta e un ritratto che le aveva fatto il Tintoretto. Fino alla Divina Imperia, cortigiana di straordinario spessore intellettuale, a Clementina Verdesi che Giuseppe Gioachino Belli ribattezzò «puttana santissima», alle nipoti del cardinale Mazzarino che i maligni chiamavano les mazarinettes, al vescovo col «vizietto» di Frascati Enrico Stuart di York, alla contessa di Castiglione.
Indimenticabile, tra l'altro, la descrizione, ripresa dalle memorie di Giovanni Burcardo, cancelliere del Papa e noto come cardinale d'Argentina, del banchetto organizzato dal duca Valentino «al quale prendono parte cinquanta meretrici oneste, quelle dette cortigiane. Finito di cenare ecco le cortigiane danzare con i servitori e altre persone che si trovano lì; da principio vestite, poi nude. Sempre dopo cena vengono posati in terra i candelabri con le candele accese che illuminano la mensa; dove vengono sparse delle castagne che le meretrici, nude, raccolgono passando fra i candelabri sulle mani o sui piedi. Tutto alla presenza e sotto lo sguardo del Papa, del duca e di sua sorella Lucrezia… ».
È proprio vero: se la Chiesa è sopravvissuta, deve avere sul serio qualcosa di grande…
il manifesto 21.9.07
Un marcatore di grande versatilità
Pubblicati su «Nature» i risultati di una ricerca sulla riproduzione e differenziazione di cellule staminali che apre la strada a inedite possibilità di applicazione. In Italia, invece, si riducono i finanziamenti e prevalgono i pregiudizi ideologici
di Carlo Alberto Redi, Direttore scientifico Fondazione Irccs Policlinico San Matteo di Pavia
Si deve al lavoro di ricercatori della McGilly University (Montreal), nel corso degli anni '50 dell'ultimo secolo, la prova dell'esistenza delle staminali: cellule, cioè, capaci di dividersi in modo da originare una cellula figlia identica alla cellula madre (staminale) e una cellula capace di differenziarsi in un tipo cellulare specifico di uno dei tanti tessuti che compongono il corpo animale. Negli anni '30 e '40 era stata invece sviluppata la tecnica della autoradiografia grazie alla quale è possibile introdurre nello studio delle cellule e dei tessuti, sino ad allora studiati nelle loro relazioni architetturali nelle tre direzioni spaziali, la dimensione tempo. È grazie a questa tecnica che Charles Leblond e i suoi collaboratori hanno dimostrato che le cellule alla base dei villi intestinali sono capaci di dividersi in maniera asimmetrica, come si era ipotizzato, e che sono staminali. Leblond ne dimostra l'esistenza anche nel testicolo, individuando un tipo particolare di spermatogonio capace di assicurare il rinnovo costante delle cellule dell'epitelio seminifero.
La strada della differenziazione
Ai lavori della scuola canadese è seguita una serie di contributi della comunità scientifica, che dimostrano l'esistenza di cellule staminali in tutti i diversi comparti anatomici. E a partire da questi anni c'è stato un lento susseguirsi di tanti piccoli avanzamenti della conoscenza che, come è tipico nelle imprese scientifiche, in breve tempo hanno permesso applicazioni terapeutiche già oggi ben consolidate grazie all'impiego di staminali non embrionali (trapianti di midollo osseo, pelle artificiale, cornea); altre, sia con staminali embrionali che somatiche, sono in via di definizione (Parkinson, infarto, diabete) o del tutto sperimentali (stroke spinali, Altzheimer, sclerosi amiotrofiche).
Le caratteristiche delle cellule staminali ne permettono un impiego nella medicina rigenerativa per terapie cellulari mirate a sostituire le cellule perse nel corso della senescenza o a causa di traumi o patologie. Basti pensare al trapianto di cellule staminali ematopoietiche che, negli ultimi venti anni, ha rappresentato una valida terapia per la cura di alcuni tumori del sangue e per gravi malattie ematologiche anche non neoplastiche.
Ma è nella possibilità di «trans-differenziazione» delle staminali (somatiche o embrionali) che si intravedono le maggiori potenzialità per patologie ancora incurabili. Questa premessa è necessaria per meglio cogliere la portata della scoperta, pubblicata su Nature, da parte di un gruppo di ricerca di cui fanno parte Pier Paolo Pandolfi e Ilaria Falciatori del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center e del dipartimento di Genetica Medica del Howard Hughes Medical Institute, entrambi di New York: l'identificazione di un marcatore molecolare di staminalità specifico di un particolare tipo di cellula staminale presente nell'epitelio seminifero del testicolo di topo. È questo un marcatore (Gpr125, una proteina recettore che regola le relazioni architetturali tra diverse cellule) presente sulla superficie cellulare di cellule germinali progenitrici, quelle che daranno origine agli spermatozooi. La scoperta è avvenuta nel corso di una ricerca i cui primi dati sono stati pubblicati, dallo stesso gruppo, nel 2003 su Nature Biotechnology, mentre conduceva una vasta analisi delle caratteristiche molecolari dei testicoli di topolini, cui venivano cancellate ad una ad una alcune caratteristiche geniche (topi knockouts). Ora, è stato possible isolare (grazie al marcatore scoperto) queste cellule e portarle in coltura, espanderle e dimostrare che mantengono la caratteristica di staminalità e verificare che è possible, in particolari condizioni di terreni di coltura, differenziarle in altri tipi di tessuti. Che siano vere staminali lo dimostra il fatto che in embrioni chimera queste cellule danno origine a tutti i tipi di tessuto e se iniettate in embrioni precoci formano un particolare tipo di tumore (teratomi). La scoperta di questo nuovo marcatore è di grande rilevanza teorica e pratica: indica che il testicolo di individui adulti contiene staminali in grado di trans-differenziarsi (in vitro) in altri tipi di tessuti (muscolo, vasi) rispetto a quello (epitelio seminifero, spermatozooi) a cui danno origine in vivo.
È inoltre quanto mai ragionevole ritenere conservato anche nell'uomo questo marcatore. E dunque, coltivando spermatogoni portatori del marcatore Gpr125 su un letto di particolari cellule (stromali cd341) è possible generare cellule staminali capaci di dare origine di nuovo all'epitelio seminifero, se iniettate in topolini resi sterili da un trattamento chimico o a vasi sanguigni del tutto funzionali (in vivo) o a generare tessuto cardiaco contrattile (in vitro).
La ricerca negata
Il nuovo e specifico marcatore potrà dunque essere impiegato per arricchire le popolazioni cellulari, ottenibili dalle biopsie testicolari, di cellule portatrici del marcatore stesso. Tutto ciò apre la strada alla loro ingegnerizzazione genetica per vasti impieghi di terapie cellulari in medicina rigenerativa quali, ad esempio, la generazione di vasi sanguigni autologhi (senza problemi di rigetto) per la rivascolarizzazione di organi ischemici. Naturalmente con grande cautela e vasti studi preclinici.
L'elenco dei tessuti e degli organi dai quali è possibile ottenere cellule staminali in grado di trans-differenziarsi (in vitro o in vivo) in cellule di altri tipi di tessuti si allunga di giorno in giorno. Di recente, ad esempio, sono state trovate anche nella polpa dei denti decidui. Le conoscenze relative alla biologia delle cellule staminali sono ancora molto limitate e l'opportunità di riconoscerle e svelarne le caratteristiche biologiche per giungere ad applicazioni terapeutiche su vasta scala dipende dai finanziamenti erogati a queste ricerche.
Nel nostro paese, dato il pregiudizio ideologico che impedisce la derivazione di nuove linee di staminali embrionali, non viene neppure perseguita con coerenza la linea di ricerca alternativa, quella sulle staminali somatiche. Un solo dato: mentre il governo Aznar dotava di 100 milioni di euro il solo istituto Carlos Tercero di Madrid per studi sulle staminali somatiche, il governo Berlusconi dotava l'Italia dell'equivalente del biglietto della lotteria di capodanno (5 milioni) per il piano nazionale di studi sulle cellule staminali somatiche.
La ricerca scientifica propone quasi quotidianamente risultati che i media divulgano in termini trionfalistici ed insieme forieri di gravissimi pericoli. Raramente si tenta di spiegare qual è la situazione reale, senza creare false aspettative o timori che spingono i politici a chiusure del quadro giuridico realtivo a ciò che è lecito ricercare. Il dibattito che si sta svolgendo a livello nazionale sulle cellule staminali è un dibattito «falsato»: chiara è la evidenza delle possibilità di terapie che però sono ritenute lecite o illecite in base a convinzioni ideologiche e religiose sulla natura dell'embrione. Ne deriva una giurisprudenza che limita la capacità degli studiosi impegnati in ricerche di avanguardia che possono portare ad abbreviare i tempi delle applicazioni. E così il dibattito si arena su un tema che non può avere soluzioni.
Assenza di responsabilità
Il metodo scientifico potrebbe aiutare là dove dice che è necessario decidere in base al «che fare» degli embrioni già esistenti. L'adozione di una etica della responsabilità nei confronti di questi embrioni porta alla inevitabile conclusione che il loro impiego è più rispettoso che non la loro distruzione. Come è stato recentemente deciso nel Regno Unito: i media hanno però presentato il via libera alla clonazione terapeutica in questo paese (tre licenze in diciotto anni) senza ricordare che le cellule uovo da cui sono stati derivati gli embrioni per preparare linee staminali erano ovociti destinati alla distruzione. Il legislatore britannico ha dunque ritenuto che il loro impiego fosse più rispettoso che non la loro distruzione.
È necessario che la società civile sia in grado di espandere la propria capacità di comprensione delle opportunità e dei limiti intrinseci alla biologia delle cellule staminali. Solo così si potrà raggiungere una più diffusa conoscenza del mondo della ricerca delle cellule staminali e una corretta percezione delle problematiche in campo, senza confondere i fatti scientifici con le fantasie, le paure, gli apriori ideologici e le irrazionalità.
Repubblica 21.9.07
"Basta distinzioni tra sostanze, una ricerca prova che la cannabis aumenta i casi di schizofrenia"
Garattini: "Lo spinello può rovinare la mente"
Se vogliamo tutelare la salute dei nostri ragazzi serve la prevenzione e non la riduzione del danno
di Laura Asnaghi
«Bisogna dire no a tutte le droghe, anche allo spinello. Perché fa male, anzi malissimo. Non è vero, come sostengono in molti, che la cannabis non crea problemi ai giovani. È falso». Il professor Silvio Garattini non ha dubbi. «Ci sono autorevoli e importanti ricerche scientifiche che documentano, con ricchezza di dati, i danni provocati dagli spinelli».
Quali in particolare?
«Di recente su Lancet, importante rivista scientifica, è apparso uno studio sull´incidenza della schizofrenia tra i fumatori di canne. Bene, tra i tossicodipendenti c´è un incremento del 40 per cento di casi rispetto a giovani che non fanno uso di droghe. Ma c´è di più. Tra i forti fumatori di spinelli il rischio raddoppia».
E questi sono campanelli d´allarme molto preoccupanti.
«Certo, perché abbiamo la conferma scientifica che lo spinello mina la salute dei giovani. La schizofrenia è una patologia seria, provoca interferenze con le funzioni cognitive e tanti altri problemi che vanno denunciati con forza. I giovani devono sapere che con le droghe si rovinano».
Ci sono altri rischi legati al fumo di spinelli?
«Sì. Le canne hanno una concentrazione di catrame 7 volte superiore a una normale sigaretta. E quindi bisogna mettere nel conto anche il rischio di un tumore al polmone».
Quindi, no alle droghe senza nessuna tolleranza verso gli spinelli?
«Per me che sono un uomo di scienza la risposta non può che essere un "no" su tutta la linea. Anche perché la distinzione tra droghe leggere e pesante è fuorviante. Se vogliamo tutelare la salute e la vita dei giovani dobbiamo lavorare sulla prevenzione non sulla riduzione del danno».
A Milano, c´è anche il problema della cocaina, i consumatori sono più di 35 mila.
«E questo dato è davvero allarmante. Anche perché spesso la coca è craccata o mescolata ad altre sostanze e la gente muore».
Con quali mezzi bisognerebbe intervenire sui giovani?
«Ci deve essere uno sforzo collettivo. La scuola, la famiglia, la chiesa, il comune. Insomma, deve essere un lavoro corale».
Repubblica Torino 21.9.07
Folla di appassionati agli incontri di "Torino Spiritualità": intellettuali come popstar, pubblico ipnotizzato in attesa dell'evento
In coda per teologi e psichiatri l’assalto del popolo dell´anima
di Clara Caroli
Sveglia antelucana per i fan dello yoga platee rapite alle letture del Kamasutra commuove la rabbina Barbara Aiello Ma c'è anche qualche insoddisfatto
La misura dell´evento, come sempre, è nei dettagli. Alle 6 e mezza di ieri mattina, nella giornata di apertura di "Torino Spiritualità" - al netto del prologo di mercoledì con Shirin Ebadi - davanti all´ingresso della Cavallerizza si è già radunato un gruppo di devoti dello yoga, senza dubbio molto motivati e di fermissima vocazione. Sono gli iscritti al workshop, a numero chiuso, condotto dalla psicopedagogista e danzatrice Alessandra Rito. Li attendono tre ore di "esercizi di armonizzazione" e il "benessere psicofisico" finale è il minimo che si meritano dopo la levataccia. Nel cortile della Cavallerizza, a metà pomeriggio è già pronto il banchetto con i ticket per l´ingresso al "Kamasutra" commentato dalla storica delle religioni Wendy Doniger, vitalissima ex danzatrice che è stata allieva niente meno che di Balanchine e Martha Graham, e dall´indologo Stefano Piano. Sono attese folle.
Folle per Rabbi Barbara Aiello, primo rabbino donna d´Italia, che ha concluso il suo intervento sulla parità tra i sessi nella celebrazione del culto in Sinagoga con una emozionante preghiera. Folle per la psichiatra Monique Selz che con l´aiuto della giornalista Vera Schiavazzi ha provato a difendere l´idea, oggi minacciatissima, di "pudore come garanzia di libertà". Folle per la lezione di Eugenio Borgna, uno dei magister più attesi al festival, che ha spiegato ad una platea quasi ipnotizzata come in questi tempi di malesseri cronici dell´anima e abusi di psicofarmaci «la malattia psichiatrica sia metafora e anello di congiunzione tra corpo e spirito». Folla persino per Suor Clelia Ruffinengo che con il suo "femminismo monastico" ha riempito la Manica Corta della Cavallerizza lasciando fuori una trentina di spettatori. L´evento, l´evento.
«Sono attenti, ascoltano con interesse, annuiscono», commenta soddisfatta la biondissima Manuela E. B. Giolfo, mentre trascina il trolley in via Bogino all´uscita dal suo dialogo con Lilia Zaouali sul "velo islamico". Un dialogo che fatto arrabbiare Nicoletta Birocchi, avvocato assai battagliera, che trascorre - racconta - la maggior parte della sua vita in un paese arabo musulmano, il Marocco, e si è sentita offesa dal «basso profilo dell´incontro». Troppo didascalico, troppe semplificazioni e luoghi comuni. «Ci hanno detto cose ovvie - protesta la signora - . Ci hanno spiegato dettagli estetici sul velo che si possono leggere anche sulle pagine di "Chi". E´ scandaloso che si spendano 600mila euro per un festival di questo livello. E dire che ero rientrata apposta per seguire l´evento. Che delusione!». L´evento, l´evento. La droga, il doping della vita culturale. Tecnico o divulgativo, dotto o popolare? «E´ sempre lo stesso dilemma» sospira Ernesto Ferrero, direttore della Fiera del Libro, al Circolo dei Lettori «per ascoltare l´amica Lilia». E la virtù, come sempre sta nel mezzo. Un po´ dell´uno e dell´altro, per accontentare tutti. E chi sono i molti, i tutti che si sdoppiano tra il Gobetti e la Cavallerizza, il Circolo dei Lettori e Palazzo Carignano (spesso gli appuntamenti sono quasi contemporanei, con sciagurate sovrapposizioni di orario) per seguire corpo e spirito, religione e politica, etica ed estetica? In gran parte signore, in gran parte non giovani, in gran parte con i crismi della sinistra intellettuale - per quel che valgono queste generalizzazioni: scarpe basse, capelli corti, gioielli etnici e sciarpe di seta.
Impossibile perciò non notare due fanciulle in jeans e t-shirt. Stanno guadagnando zitte zitte l´uscita. Giovanissime, debuttanti a Torino Spiritualità. Cecilia Cortese studia comunicazione interculturale, con indirizzo mediorientale, cerca nel programma del festival tutto l´Islam possibile ed è tutto sommato abbastanza soddisfatta di quel che ha appena ascoltato. «Il problema è che non sembrava affatto un dialogo - dice - Le due relatrici si contendevano la scena e sembravano più interessate a vincere il confronto tra protagoniste che a sostenere le proprie tesi. Un atteggiamento che mi pare l´antitesi dello spirito della manifestazione». L´altra, Benedetta Saglietti, sa poco di cultura musulmana perché studia storia della musica ma ha le idee chiare: «Penso che questi incontri, i cosiddetti "dialoghi", dovrebbero coinvolgere di più il pubblico. Altrimenti non c´è differenza tra queste conferenze e un convegno. Allora tanto vale andare all´Università».