venerdì 21 settembre 2007

l'Unità 21.9.07
Il regista americano a Roma presenta il cast di «Miracolo a Sant’Anna», il nuovo film sulla strage nazista dell’agosto 1944
Spike Lee: «L’ultima guerra giusta degli americani finì nel ’45»


«Voglio raccontare un episodio dell’ultima guerra giusta fatta dagli americani. In seguito abbiamo combattuto tante guerre sbagliate, dal Vietnam alla Corea fino alla Guerra del Golfo e l’immagine del nostro Paese è cambiata e oggi nessuno associa più i nostri soldati agli eroici salvatori della Seconda Guerra Mondiale». Così Spike Lee a Roma per presentare il cast del suo nuovo film tutto italiano: Miracolo a Sant’Anna, ispirato alla sanguinosa strage compiuta dai nazisti a Sant’anna di Stazzema nell’agosto ‘44. «Mi chiedevano sempre di girare un film in Italia - prosegue -, ma solo per Miracolo a Sant’Anna si sono verificate certe condizioni. Intanto c’è il fascismo, c’è il tema del razzismo, ci sono poi i soldati afro americani, considerati allora di seconda classe, e poi ci sono gli italiani e il modo di relazionarsi con tutte queste realtà. Il tutto rende questa storia epica».
Con il regista all’incontro stampa romano anche il cast italiano appena selezionato composto da Pierfrancesco Favino, Omero Antonutti, Valentina Cervi, Lydia Biondi e Sergio Albelli. «Mi sono meravigliato perché si sono presentati al provino conoscendo tutti le loro parti alla perfezione. Una cosa che in America non accade mai», ha commentato Spike Lee. Il regista di Fa’ la cosa giusta, dal canto suo confessa di essersi preparato per la pellicola con «una overdose di film di guerra. Tra i riferimenti italiani ho visto film neorealisti come Paisà, Miracolo a Milano, la Ciociara, ma anche film come
Salvate il soldato Ryan. Quando si gira bisogna fare ricerche - spiega Lee -, tornare ad essere studenti».
Il film, le cui riprese inizieranno il 15 ottobre e sarà girato tra Roma e la Toscana, è prodotto da Roberto Cicutto e Luigi Musini (On My Own Produzioni Cinematografiche) insieme a 40 Acres and a Mule Filmworks, dello stesso Lee, in associazione con Raicinema. Budget previsto circa 45 milioni di dollari per questo lavoro tratto dall’omonimo romanzo di James McBride (pubblicato in Italia da Rizzoli). Miracolo a Sant’Anna, che avrà nel cast anche attori americani e tedeschi ancora non rivelati, racconta di alcuni soldati di colore impegnati sulla Linea Gotica le cui vicende si intrecciano con la storia della popolazione che ha vissuto la strage. Tutti entusiasti gli attori italiani (a cui si dovrebbe aggiungere anche Agnese Nano). Dice Favino ai giornalisti: «per favore scrivetelo. I miei amici quando gli dico che sono andato a cena con Spike Lee non ci credono più di tanto. Anche perché sono gli stessi amici con i quali, in quelle serate in cui ognuno fa a chi la spara più grossa, dicevo che avrei proprio voluto lavorare con registi come Lee».

Repubblica 21.9.07
«L’Espresso» pubblica la memoria dello scrittore rilasciata, a un mese dall’arresto del gerarca, a Yad Vashem, l’Istituto per la Shoah di Gerusalemme
1960, il testimone Primo Levi e il processo Eichmann


«Roma 14 giugno 1960. Deposizione del dottor Primo Levi abitante in Torino - C. Vittorio 67». È l’intestazione sotto cui appare il documento inedito che riaffiora dagli archivi di Yad Vashem a Gerusalemme, l’istituto per la memoria della Shoah: un documento che l’Espresso in edicola oggi pubblica con un commento di Marco Belpoliti, lo studioso che con il regista Davide Ferrario ha ripercorso il viaggio di ritorno, da Auschwitz all’Italia, narrato da Levi nella Tregua, e che ne ha riportato gli esiti nel libro La prova uscito nei mesi scorsi per Einaudi.
In un paio di cartelle dattiloscritte - «per il tono, lo stile e anche l’uso delle maiuscole», a parere di Belpoliti, probabilmente battute dallo stesso Levi - il chimico-scrittore dà conto delle vicende vissute tra il 9 settembre 1943 quando, all’indomani dell’armistizio, si rifugiò in Val d’Aosta, e l’ottobre 1945 quando, dopo la detenzione nel lager, la liberazione per opera dei russi e l’interminabile viaggio di ritorno per l’Europa, finalmente riapprodò in Italia.
Vediamo quella data: giugno 1960. È a maggio che Adolf Eichmann - l’ideatore della «soluzione finale» - è stato catturato in Argentina dagli agenti del Mossad e a giugno è in corso l’istruttoria per un processo che costituirà un terremoto, in primis per Israele stesso. La testimonianza di Primo Levi giunge insieme con un’altra cinquantina di memorie di scampati italiani. Giugno 1960, però, significa anche un’altra cosa: due anni dalla ripubblicazione di Se questo è un uomo, avvenuta nel 1958, per i tipi di Einaudi. Primo Levi, insomma, nel ‘60 non è solo uno scampato alla Shoah, ma ne è un testimone celebre. Eppure in Israele non è tale: Meron Rapoport illustrando per il settimanale come il documento sia venuto alla luce (a ritrovarlo una studiosa isreaeliana, Margalit Shlain) ripercorre i decenni in cui, per paradosso, proprio lì, l’opera di Levi non trovò sbocco editoriale. Tant’è che infine al processo Eichmann, dove il pubblico ministero Gideon Hausner volle convocare, per ottenere il maggior impatto, nomi noti al pubblico, c’era Yehiel Dinur-Feiner, il reduce di Auschwitz, che firmava con lo pseudonimo Ka-Tzetnik libri d’effetto. Ma non c’era il testimone-scrittore per eccellenza, Primo Levi.
Il documento che pubblica l’Espresso cosa aggiunge alle memorie consegnate dal chimico-scrittore ai suoi libri? «Di ciascuno dei suoi compagni Levi dice cognome e professione, e il destino» nota Belpoliti.
«Il 9 settembre 1943 insieme ad alcuni amici mi rifugiai in Val d’Aosta e precisamente a Brusson, sopra St.Vincent, a 54 km. dal capoluogo della regione. Avevamo costituito un gruppo partigiano nel quale figuravano parecchi ebrei fra i quali ricordo Guido Bachi, attualmente a Parigi in qualità di rappresentante della soc. Olivetti, Cesare Vita, Luciana Nissim sposatasi poi con Momigliano e attualemnte domiciliata a Milano e autrice del libro Donne contro il mostro, Wanda Maestro, deportata e deceduta in un campo di sterminio». Così esordisce Levi. Subito dopo, il nome dell’uomo che li tradisce tutti: con loro c’era anche «un tale che si faceva chiamare Meoli». Quattro giorni dopo, individuati e arrestati dalla Milizia, lo ritroveranno nella caserma di Aosta. Levi racconta del trasferimento a Fossoli e d’una detenzione tutto sommato quasi gentile, fino al 18 febbraio '44, quando arrivano in paese le Ss. «Nessuno tentò di fuggire. Ci caricarono su vagoni bestiame sui quali era scritto: “Auschwitz” nome che in quel momento non ci diceva proprio nulla...».
Ecco il tocco lieve e secco come una fucilata del narratore Levi. «Eravamo 650 ebrei...» aggiunge.
Poi, arrivati ad Auschwitz, per i 96 che si dichiarano capaci di lavorare, il trasferimento a Buna Monowitz, per 26 donne a Birkenau. Per gli altri le camere a gas. Ed ecco gli altri nomi: i medici ebrei nel campo, Coenka di Atene, Weiss di Strasburgo, Orensztejn, polacco, «parecchi francesi» di nome Levy. Un nome spicca. «Il dottor Samuelidis di Salonicco che non ascoltava i pazienti che a lui si rivolgevano per cure e denunciava gli ammalati alle Ss tedesche!!». Nel dattiloscritto hanno spazio - come qui - molti punti esclamativi, un uso che il Primo Levi narratore, invece, non si concedeva.
Un altro nome da consegnare alla memoria: «l’ebreo olandese Josef Lessing, di professione orchestrale», che da caporeparto «si dimostrò non soltanto duro, ma malvagio». Poi, i nomi dei compagni di fabbrica e di Shoah, da Roma, da Ferrara, da Trieste. Coi quali, annota, avrebbe intentato causa nel dopoguerra per ottenere «la mercede dovuta»: lire 800.000.
Le ultime righe raccontano la liberazione e «la tregua», il viaggio. Katowice, Minsk, Sluck, finché - conclude il testimone Primo Levi con la sua segretissima ironia - «quando Dio volle, rientrammo in Italia».
m.s.p.


Corriere della Sera 21.9.07
Lectio magistralis a Pordenonelegge
L'Europa globale erede di Kant
di Zygmunt Bauman


Pubblichiamo un estratto della lezione che il sociologo Zygmunt Bauman terrà domenica a Pordenone nell'ambito della Festa del libro Pordenonelegge, che inizia oggi e vedrà la presenza di ben 185 autori di saggistica e narrativa.

L'egemonia solitaria degli Usa aggrava le tensioni

Formulare i compiti e la missione dell'Europa sulla base dell'assioma del monopolio americano sul potere mondiale è fondamentalmente errato. La vera sfida all'Europa deriva dall'evidenza, sempre più palese, che l'unica superpotenza non è in grado di condurre il pianeta a una coesistenza pacifica, lontano dall'imminente disastro. Anzi, ci sono ampi motivi per credere che questa superpotenza possa diventare la causa prima di un disastro. A tutti i livelli di convivenza umana, i potenti tendono a dispiegare i propri mezzi per rendere l'habitat più congeniale e favorevole al tipo di potere che detengono. La superpotenza americana non fa eccezione. Dato che il suo bene più forte è la forza militare, essa tende naturalmente a ridefinire tutti i problemi planetari — siano essi di natura economica, politica o sociale — come problemi di pericolo e confronto mi-litari, risolvibili esclusivamente con soluzioni militari. Invertendo la formula di von Clausewitz, gli Stati Uniti considerano e trattano la politica come continuazione della guerra con altri mezzi. Per assicurare il proprio dominio, contando e basandosi sul suo unico e incontestato vantaggio— la superiorità militare — l'America ha bisogno di ricreare il resto del mondo a sua immagine rendendolo, per così dire, «ospitale » alle sue politiche preferite. Deve trasformare il pianeta in un luogo dove i problemi economici, sociali e politici vengono affrontati con mezzi e azioni militari, e dove invece ogni altro mezzo e tipo di azione viene privato di valore e dichiarato inutilizzabile. Ecco da dove nasce la vera sfida all'Europa.
L'Europa non può considerare seriamente di uguagliare la forza militare dell'America e di resistere all'avanzamento della militarizzazione del pianeta giocando al gioco americano. Non può neppure sperare di recuperare il suo passato dominio industriale, perso irrimediabilmente nel nostro mondo sempre più policentrico e ora soggetto, nella sua complessità, ai processi di modernizzazione economica. Tuttavia, può e deve tentare di rendere il pianeta ospitale per altri valori e ad altri modi di esistenza, diversi da quelli rappresentati e promossi dalla superpotenza militare americana; può rendere il pianeta ospitale ai valori e ai modi che l'Europa, più di ogni altra parte del mondo, è predisposta a offrire al mondo.
George Steiner insiste sul fatto che il compito dell'Europa «è tanto spirituale quanto intellettuale». Il genio dell'Europa è per lui «il genio della diversità linguistica, culturale e sociale, di un mosaico ricchissimo che spesso trasforma una distanza irrilevante, una ventina di chilometri, nella frontiera tra due mondi». Riflessioni analoghe si possono trovare nel retaggio letterario di Hans-Georg Gadamer. A suo parere il «compito dell'Europa» è quello di acquisire e di condividere l'arte di apprendere gli uni dagli altri. E io aggiungerei: la missione dell'Europa, o meglio, il fato dell'Europa che attende di essere riformulato come destino. Vista sullo sfondo di un pianeta schiacciato dai conflitti, l'Europa sembra una fucina dove vengono continuamente forgiati gli strumenti necessari per raggiungere la kantiana unificazione del genere umano.
Per il momento, tuttavia, l'Europa sembra cercare una risposta ai nuovi problemi in politiche che guardano all'interno, piuttosto che all'esterno, in politiche centripete piuttosto che centrifughe. In breve, sigilliamo le nostre porte e facciamo molto poco, se non addirittura nulla, per porre riparo alla situazione che ci ha indotto a chiuderle.
È chiaro che l'Europa ha le sue buone ragioni per guardare sempre di più al suo interno. Il mondo non appare più invitante. Sembra ostile, infido, è un mondo che spira vendetta e che, tuttavia, ha bisogno di essere reso sicuro per noi. Questo è il mondo dell'imminente «guerra delle civiltà», un mondo in cui ogni passo che si fa, qualsiasi esso sia, presenta molteplici rischi. La sicurezza è lo scopo principale del gioco e la sua posta più alta. È un valore che in pratica, se non in teoria, oscura e caccia a gomitate ogni altro valore. In un mondo insicuro come il nostro, la libertà personale di parola e di azione, il diritto alla privacy, l'accesso alla verità — tutte quelle cose che associavamo alla democrazia — devono essere ridimensionate o sospese. O, se non altro, questo è ciò che sostiene la versione ufficiale, confermata dalla pratica ufficiale.
Ma la verità è che noi non possiamo difendere le nostre libertà a casa nostra, se ci isoliamo dal resto del mondo e ci occupiamo solo dei nostri affari interni. In un pianeta globalizzato, in cui la difficoltà di ognuno, dovunque, determina la difficoltà di tutti gli altri e viene al contempo determinata dagli altri, libertà e democrazia non possono più essere assicurate «separatamente» — cioè, soltanto in un Paese o in una selezione di Paesi. Il fato della libertà e della democrazia in ogni Paese viene deciso e stabilito su scala globale; e soltanto su quella scala può essere difeso con concrete probabilità di un successo duraturo.

Corriere della Sera 21.9.07
Nel saggio di Ludovico Incisa di Camerana un profilo insolito dell'eroe rivoluzionario
Il Che come d'Annunzio, l'altra faccia del mito
«L'avventura guevarista modello per l'uomo di destra»
di Dino Messina


Il sacrificio in guerra è culto per la «bella morte»
La filosofia


«Un'ombra domina l'America Latina nella seconda metà del secolo XX e si prolunga nel Duemila: l'ombra di una rivoluzione mancata. Mancata come espansione, proseguimento e correzione della grande rivoluzione della prima metà del secolo scorso: la rivoluzione messicana. Mancata come espansione e proseguimento della piccola rivoluzione della seconda metà dello stesso secolo: la rivoluzione cubana».
Ludovico Incisa di Camerana, sottosegretario agli Esteri nel governo di Lamberto Dini, diplomatico di carriera con lunghi soggiorni fra gli anni Cinquanta e Sessanta in Venezuela e Argentina, autore di saggi come L'Italia della luogotenenza e I caudillos, comincia con una considerazione sul fallimento di un'illusione il suo nuovo saggio, I ragazzi del Che, appena uscito da Corbaccio nella collana storica diretta da Sergio Romano (pagine 406, e 20). Scritto in occasione dei quarant'anni dalla morte di Che Guevara, eliminato il 9 ottobre 1967 da un soldato ubriaco il giorno dopo la cattura sull'altopiano della Bolivia, il libro di Incisa di Camerana è soltanto per metà una biografia di Ernesto Guevara de la Serna. Per l'altra metà è la storia del suo mito e dell'influenza che le sue idee hanno avuto sia in America Latina sia in Europa.
Il medico argentino, nato il 14 giugno 1928 in una famiglia altoborghese decaduta, scopre la sua vocazione rivoluzionaria nell'incontro a Città del Messico con un esule cubano, Fidel Castro. È il 1956. Il 25 novembre il Che, così chiamato per sottolineare il suo intercalare argentino, si imbarcherà con altri 81 compagni su un vecchio battello diretto a Cuba. Guevara scriverà con Castro una pagina di storia. «Ma il mito — ci dice Incisa di Camerana — nascerà soltanto dopo la morte, anzi proprio per le modalità della morte. Intanto il Che era andato in Bolivia, in una zona pochissimo popolata, con la coscienza che si trattasse di un'operazione disperata. Più che uno spregiudicato materialista, un rivoluzionario romantico che ricorda i nostri eroi risorgimentali Carlo Pisacane e i fratelli Emilio e Attilio Bandiera. Dopo la cattura nessuno ebbe il coraggio di formare il plotone d'esecuzione per eliminare quell'uomo malandato. Per ucciderlo ci volle la raffica di mitra di un sottufficiale ubriaco». Un episodio, scrive Incisa di Camerana, «che a noi italiani ricorda l'assassinio di Francesco Ferrucci e l'infamia di Maramaldo. Un'esecuzione comunque illegale, non derivando da un regolare processo e non essendo prevista in Bolivia la condanna a morte».
Il personaggio Guevara, secondo l'interpretazione di Incisa di Camerana, sembra dunque scolpito più che sull'esempio degli eroi sudamericani, il cubano José Martí e il venezuelano Simón Bolívar, o i messicani Pancho Villa ed Emiliano Zapata, su quello dei nostri eroi risorgimentali. Ma c'è di più: l'ingenuità con cui si lancia in certe avventure, come la spedizione in Tanzania e Congo, lo stile frugale e il disinteresse per la propria incolumità, ricordano all'autore la ricerca della «bella morte» e l'estetica di certi scrittori europei. «Sul piano storico-politico — scrive lo storico — la sua figura è meglio conosciuta nel quadro di quel volontarismo europeo, di una giovane borghesia attivista, disposta a vincere o a perdere, pronta nella guerra o nell'insurrezione a giocare il tutto per tutto e specialmente se stessa, l'élite dei reparti d'assalto. Il mito dell'esperienza della guerra, il mito dei caduti, della legittimità della morte e del sacrificio in guerra, che affascina, come lo descrive George Mosse, i volontari delle guerre europee, diventa per una gioventù latinoamericana, che si candida al protagonismo, il mito dell'esperienza della rivoluzione ». E non c'è da stupirsi se, in questo quadro, l'autore affianchi il nome del Che a quelli di Gabriele d'Annunzio e Filippo Marinetti, ma anche di André Malraux e Curzio Malaparte. Un accostamento con protagonisti della destra europea che ad alcuni apparirà sacrilego, ad altri svelamento della vera natura di un mito.
Questa lettura etica ed estetica dell'avventura guevarista non può che avere un esito pessimistico: fatta salva l'eccezione di Cuba, la teoria dei «focos» rivoluzionari attorno ai quali doveva divampare la rivoluzione poteva affascinare, in America Latina come in Europa, soltanto una minoranza di studenti e intellettuali. Dagli ufficiali rivoluzionari venezuelani, che si ritrovarono senza seguito nella sierra, al nostro Giangiacomo Feltrinelli, editore e ammiratore del Che finito tragicamente su un traliccio di Segrate, gli imitatori di Guevara andarono tutti incontro all'isolamento e al fallimento. Così come alla luce della storia si dimostrano sterili i due capisaldi della teoria rivoluzionaria guevarista: la sconfitta dell'esercito e la conquista del consenso fra i contadini. «Ogni movimento di qualche consistenza in America Latina — ci dice Incisa di Camerana — non ha potuto fare a meno dell'appoggio dell'esercito. Quanto ai contadini, non sono mai stati conquistati dal mito rivoluzionario. Anzi, l'idea di rivoluzione è completamente tramontata nel subcontinente. Al punto che un leader come Rubén Zamora ha dichiarato: "La lotta armata non è più un'alternativa di potere in America Latina"».
Al di là della faccia sulle magliette, secondo l'autore de I ragazzi del Che, del mito Guevara resta poco anche in Europa. Il Sessantotto è lontanissimo, i suoi leader come Régis Débray hanno preso sentieri inaspettati. E gli studenti oggi sono certo più affascinati dalla tecnologia e dai consumi che dalle teorie pauperiste del rivoluzionario argentino.

Corriere della Sera 21.9.07
Cortigiane & potere
Donne libere e amanti illustri: una storia secolare
di Gian Antonio Stella


«L'Italia? Paese dei devoti, ma non della devozione» Montesquieu

«Isabella mia chara, chara, chara, chara, te baso con tucta l'anima mia sin de qua et prego che ti ricordi di me come merita il grandissimo amore che ti porto». Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena doveva proprio aver perso la testa, per quella damigella di corte di Isabella d'Este che portava lo stesso nome della duchessa e aveva conosciuto durante un viaggio a Mantova. E certo non si faceva problemi a esprimere quei sentimenti con una passione (teoricamente) proibitissima a un uomo di Chiesa. Tanta indifferenza ai giudizi altrui un buon motivo l'aveva. In quel 1515 in cui scriveva alla sua bella, la corte pontificia di Leone X, alla quale il prelato apparteneva, non si scandalizzava certo per così poco. Anzi.
Lo racconta un libro appena uscito per la Newton Compton. Si intitola Cardinali e cortigiane ed è stato scritto da Claudio Rendina, che alla storia di Roma, dei papi, dei soldati di ventura, degli ordini cavallereschi ha dedicato diversi volumi. Tutti caratterizzati da continui rimandi a una ricca bibliografia (i libri e i documenti citati in questa occasione sono 168), ma insieme da una scrittura volutamente leggera, apparentemente «facile» e da una esuberante raccolta di aneddoti e curiosità che forse faranno alzare con disappunto il sopracciglio a qualche barone dell'accademia, ma accompagnano attraverso certi percorsi nel nostro passato anche persone che altrimenti non ci si avventurerebbero mai. Dettagli irresistibili. Come la descrizione, presa dallo «Zoppino», pseudonimo di un sacerdote e scrittore spagnolo nonché «protettore di cortigiane », Francisco Delicado, delle tecniche usate per sedurre i suoi spasimanti da una certa Lucrezia Porzia. La quale non solo faceva pesare i suoi favori concedendosi solo dopo mille preghiere e regali e vestendo la parte della verginella sdegnosa (al punto che la chiamavano «Matrema non vole», soprannome ripreso anche dall'Aretino), ma si dava arie da intellettuale facendosi « beffe d'ogni uno che non favella a la usanza; e dice che si ha da dire balcone e non finestra, porta e non uscio, tosto e non vaccio, viso e non faccia, cuore e non core, miete e non mete, percuote e non picchia, ciancia e non burla ».
Ne esce un libro curioso. Che mette insieme, incrociandole continuamente, un sacco di storie di cardinali (e papi) e di donne di facili costumi. Le quali a volte erano così costose che talora, scrisse Montaigne, «volevano essere pagate anche per la semplice conversazione» e riuscivano a diventare immensamente ricche, come quella Giulia, detta La Lombarda, che riposa accanto all'altare maggiore della chiesa veneziana di San Francesco della Vigna e davanti alla cui tomba qualcuno prega invocando una grazia senza sapere che la «sontuosa meretize» morta nel 1542 aveva potuto comprare a Brentasecca, vicino a Padova, una bella villa con campagna con quello che aveva ricavato vendendo gli ori e i gioielli avuti in dono dalla danarosa clientela.
Questo accostamento tra le «squillo» e gli uomini di Chiesa dei tempi meno virtuosi, del resto, non deve stupire. Basta rileggere Montesquieu a proposito della città serenissima: «Mai in nessun luogo si sono visti tanti devoti e tanta poca devozione come in Italia. Bisogna tuttavia ammettere che i veneziani e le veneziane hanno una devozione che riesce a stupire: un uomo ha un bel mantenere una puttana, non mancherà certo la sua messa per nessuna cosa al mondo».
Proprio un proverbio veneziano del Settecento riassumeva così la dolce vita suggerita ai nobiluomini: «La matina una messetta, dopo pranzo una bassetta, dopo cena una donnetta». Messa, bisca, amante. E a leggere il libro di Claudio Rendina, che accosta cortigiane e cardinali come sintesi del rapporto che esiste da sempre tra sesso e potere, da Messalina al deputato dell'Udc Cosimo Mele, protagonista del recente festino a luci rosse all'Hotel Flora con due ragazze a pagamento e un po' di cocaina, furono proprio tanti, a seguire l'ipocrita raccomandazione. Al punto che nella chiesa capitolina di Sant'Agostino, come scriveva Georgina Masson nel suo Cortigiane italiane del Rinascimento, «tutto lo spazio compreso tra l'altare e i posti nei quali sedevano i cardinali era occupato da cortigiane » che in una città come Roma «erano assidue frequentatrici di chiese, dato che era anche questa un'eccellente forma di pubblicità, forse la migliore».
Ed ecco la storia di Pietro Riario, figlio adottivo di Papa Sisto IV, che dava nel suo palazzo a Santi Apostoli indimenticabili banchetti di sei ore con 42 portate e aveva come amante una ballerina di nome Tiresia, che appariva alle feste su un cocchio tirato da cigni e che il cardinale, nota il genovese Battista Fregoso, manteneva «con una prodigalità tale che si comprende dall'uso di scarpette ricoperte di perle». Ecco Madama Lucrezia, una bella figliola di Torre del Greco che, dopo esser stata l'amante del re di Napoli Alfonso d'Aragona, reso ben presto, come scrisse il futuro papa Enea Piccolomini, «servo di una femminetta», andò a cercar fortuna a Roma. E Vannozza Cattanei, che diede tre figli (Cesare, Juan e Lucrezia) all'amante Rodrigo Borgia, futuro Alessandro VI, il quale le offriva copertura procurandole uno dietro l'altro tre mariti di comodo, via via defunti. E giù giù fino a Beatrice Ferrarese, immortalata da Raffaello, e alla celeberrima Veronica Franco, che a Venezia ospitò nel suo talamo Enrico III che andava a Parigi a farsi incoronare e gli regalò una poesia da lei composta e un ritratto che le aveva fatto il Tintoretto. Fino alla Divina Imperia, cortigiana di straordinario spessore intellettuale, a Clementina Verdesi che Giuseppe Gioachino Belli ribattezzò «puttana santissima», alle nipoti del cardinale Mazzarino che i maligni chiamavano les mazarinettes, al vescovo col «vizietto» di Frascati Enrico Stuart di York, alla contessa di Castiglione.
Indimenticabile, tra l'altro, la descrizione, ripresa dalle memorie di Giovanni Burcardo, cancelliere del Papa e noto come cardinale d'Argentina, del banchetto organizzato dal duca Valentino «al quale prendono parte cinquanta meretrici oneste, quelle dette cortigiane. Finito di cenare ecco le cortigiane danzare con i servitori e altre persone che si trovano lì; da principio vestite, poi nude. Sempre dopo cena vengono posati in terra i candelabri con le candele accese che illuminano la mensa; dove vengono sparse delle castagne che le meretrici, nude, raccolgono passando fra i candelabri sulle mani o sui piedi. Tutto alla presenza e sotto lo sguardo del Papa, del duca e di sua sorella Lucrezia… ».
È proprio vero: se la Chiesa è sopravvissuta, deve avere sul serio qualcosa di grande…

il manifesto 21.9.07
Un marcatore di grande versatilità
Pubblicati su «Nature» i risultati di una ricerca sulla riproduzione e differenziazione di cellule staminali che apre la strada a inedite possibilità di applicazione. In Italia, invece, si riducono i finanziamenti e prevalgono i pregiudizi ideologici
di Carlo Alberto Redi, Direttore scientifico Fondazione Irccs Policlinico San Matteo di Pavia


Si deve al lavoro di ricercatori della McGilly University (Montreal), nel corso degli anni '50 dell'ultimo secolo, la prova dell'esistenza delle staminali: cellule, cioè, capaci di dividersi in modo da originare una cellula figlia identica alla cellula madre (staminale) e una cellula capace di differenziarsi in un tipo cellulare specifico di uno dei tanti tessuti che compongono il corpo animale. Negli anni '30 e '40 era stata invece sviluppata la tecnica della autoradiografia grazie alla quale è possibile introdurre nello studio delle cellule e dei tessuti, sino ad allora studiati nelle loro relazioni architetturali nelle tre direzioni spaziali, la dimensione tempo. È grazie a questa tecnica che Charles Leblond e i suoi collaboratori hanno dimostrato che le cellule alla base dei villi intestinali sono capaci di dividersi in maniera asimmetrica, come si era ipotizzato, e che sono staminali. Leblond ne dimostra l'esistenza anche nel testicolo, individuando un tipo particolare di spermatogonio capace di assicurare il rinnovo costante delle cellule dell'epitelio seminifero.
La strada della differenziazione
Ai lavori della scuola canadese è seguita una serie di contributi della comunità scientifica, che dimostrano l'esistenza di cellule staminali in tutti i diversi comparti anatomici. E a partire da questi anni c'è stato un lento susseguirsi di tanti piccoli avanzamenti della conoscenza che, come è tipico nelle imprese scientifiche, in breve tempo hanno permesso applicazioni terapeutiche già oggi ben consolidate grazie all'impiego di staminali non embrionali (trapianti di midollo osseo, pelle artificiale, cornea); altre, sia con staminali embrionali che somatiche, sono in via di definizione (Parkinson, infarto, diabete) o del tutto sperimentali (stroke spinali, Altzheimer, sclerosi amiotrofiche).
Le caratteristiche delle cellule staminali ne permettono un impiego nella medicina rigenerativa per terapie cellulari mirate a sostituire le cellule perse nel corso della senescenza o a causa di traumi o patologie. Basti pensare al trapianto di cellule staminali ematopoietiche che, negli ultimi venti anni, ha rappresentato una valida terapia per la cura di alcuni tumori del sangue e per gravi malattie ematologiche anche non neoplastiche.
Ma è nella possibilità di «trans-differenziazione» delle staminali (somatiche o embrionali) che si intravedono le maggiori potenzialità per patologie ancora incurabili. Questa premessa è necessaria per meglio cogliere la portata della scoperta, pubblicata su Nature, da parte di un gruppo di ricerca di cui fanno parte Pier Paolo Pandolfi e Ilaria Falciatori del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center e del dipartimento di Genetica Medica del Howard Hughes Medical Institute, entrambi di New York: l'identificazione di un marcatore molecolare di staminalità specifico di un particolare tipo di cellula staminale presente nell'epitelio seminifero del testicolo di topo. È questo un marcatore (Gpr125, una proteina recettore che regola le relazioni architetturali tra diverse cellule) presente sulla superficie cellulare di cellule germinali progenitrici, quelle che daranno origine agli spermatozooi. La scoperta è avvenuta nel corso di una ricerca i cui primi dati sono stati pubblicati, dallo stesso gruppo, nel 2003 su Nature Biotechnology, mentre conduceva una vasta analisi delle caratteristiche molecolari dei testicoli di topolini, cui venivano cancellate ad una ad una alcune caratteristiche geniche (topi knockouts). Ora, è stato possible isolare (grazie al marcatore scoperto) queste cellule e portarle in coltura, espanderle e dimostrare che mantengono la caratteristica di staminalità e verificare che è possible, in particolari condizioni di terreni di coltura, differenziarle in altri tipi di tessuti. Che siano vere staminali lo dimostra il fatto che in embrioni chimera queste cellule danno origine a tutti i tipi di tessuto e se iniettate in embrioni precoci formano un particolare tipo di tumore (teratomi). La scoperta di questo nuovo marcatore è di grande rilevanza teorica e pratica: indica che il testicolo di individui adulti contiene staminali in grado di trans-differenziarsi (in vitro) in altri tipi di tessuti (muscolo, vasi) rispetto a quello (epitelio seminifero, spermatozooi) a cui danno origine in vivo.
È inoltre quanto mai ragionevole ritenere conservato anche nell'uomo questo marcatore. E dunque, coltivando spermatogoni portatori del marcatore Gpr125 su un letto di particolari cellule (stromali cd341) è possible generare cellule staminali capaci di dare origine di nuovo all'epitelio seminifero, se iniettate in topolini resi sterili da un trattamento chimico o a vasi sanguigni del tutto funzionali (in vivo) o a generare tessuto cardiaco contrattile (in vitro).
La ricerca negata
Il nuovo e specifico marcatore potrà dunque essere impiegato per arricchire le popolazioni cellulari, ottenibili dalle biopsie testicolari, di cellule portatrici del marcatore stesso. Tutto ciò apre la strada alla loro ingegnerizzazione genetica per vasti impieghi di terapie cellulari in medicina rigenerativa quali, ad esempio, la generazione di vasi sanguigni autologhi (senza problemi di rigetto) per la rivascolarizzazione di organi ischemici. Naturalmente con grande cautela e vasti studi preclinici.
L'elenco dei tessuti e degli organi dai quali è possibile ottenere cellule staminali in grado di trans-differenziarsi (in vitro o in vivo) in cellule di altri tipi di tessuti si allunga di giorno in giorno. Di recente, ad esempio, sono state trovate anche nella polpa dei denti decidui. Le conoscenze relative alla biologia delle cellule staminali sono ancora molto limitate e l'opportunità di riconoscerle e svelarne le caratteristiche biologiche per giungere ad applicazioni terapeutiche su vasta scala dipende dai finanziamenti erogati a queste ricerche.
Nel nostro paese, dato il pregiudizio ideologico che impedisce la derivazione di nuove linee di staminali embrionali, non viene neppure perseguita con coerenza la linea di ricerca alternativa, quella sulle staminali somatiche. Un solo dato: mentre il governo Aznar dotava di 100 milioni di euro il solo istituto Carlos Tercero di Madrid per studi sulle staminali somatiche, il governo Berlusconi dotava l'Italia dell'equivalente del biglietto della lotteria di capodanno (5 milioni) per il piano nazionale di studi sulle cellule staminali somatiche.
La ricerca scientifica propone quasi quotidianamente risultati che i media divulgano in termini trionfalistici ed insieme forieri di gravissimi pericoli. Raramente si tenta di spiegare qual è la situazione reale, senza creare false aspettative o timori che spingono i politici a chiusure del quadro giuridico realtivo a ciò che è lecito ricercare. Il dibattito che si sta svolgendo a livello nazionale sulle cellule staminali è un dibattito «falsato»: chiara è la evidenza delle possibilità di terapie che però sono ritenute lecite o illecite in base a convinzioni ideologiche e religiose sulla natura dell'embrione. Ne deriva una giurisprudenza che limita la capacità degli studiosi impegnati in ricerche di avanguardia che possono portare ad abbreviare i tempi delle applicazioni. E così il dibattito si arena su un tema che non può avere soluzioni.
Assenza di responsabilità
Il metodo scientifico potrebbe aiutare là dove dice che è necessario decidere in base al «che fare» degli embrioni già esistenti. L'adozione di una etica della responsabilità nei confronti di questi embrioni porta alla inevitabile conclusione che il loro impiego è più rispettoso che non la loro distruzione. Come è stato recentemente deciso nel Regno Unito: i media hanno però presentato il via libera alla clonazione terapeutica in questo paese (tre licenze in diciotto anni) senza ricordare che le cellule uovo da cui sono stati derivati gli embrioni per preparare linee staminali erano ovociti destinati alla distruzione. Il legislatore britannico ha dunque ritenuto che il loro impiego fosse più rispettoso che non la loro distruzione.
È necessario che la società civile sia in grado di espandere la propria capacità di comprensione delle opportunità e dei limiti intrinseci alla biologia delle cellule staminali. Solo così si potrà raggiungere una più diffusa conoscenza del mondo della ricerca delle cellule staminali e una corretta percezione delle problematiche in campo, senza confondere i fatti scientifici con le fantasie, le paure, gli apriori ideologici e le irrazionalità.

Repubblica 21.9.07
"Basta distinzioni tra sostanze, una ricerca prova che la cannabis aumenta i casi di schizofrenia"
Garattini: "Lo spinello può rovinare la mente"
Se vogliamo tutelare la salute dei nostri ragazzi serve la prevenzione e non la riduzione del danno
di Laura Asnaghi


«Bisogna dire no a tutte le droghe, anche allo spinello. Perché fa male, anzi malissimo. Non è vero, come sostengono in molti, che la cannabis non crea problemi ai giovani. È falso». Il professor Silvio Garattini non ha dubbi. «Ci sono autorevoli e importanti ricerche scientifiche che documentano, con ricchezza di dati, i danni provocati dagli spinelli».
Quali in particolare?
«Di recente su Lancet, importante rivista scientifica, è apparso uno studio sull´incidenza della schizofrenia tra i fumatori di canne. Bene, tra i tossicodipendenti c´è un incremento del 40 per cento di casi rispetto a giovani che non fanno uso di droghe. Ma c´è di più. Tra i forti fumatori di spinelli il rischio raddoppia».
E questi sono campanelli d´allarme molto preoccupanti.
«Certo, perché abbiamo la conferma scientifica che lo spinello mina la salute dei giovani. La schizofrenia è una patologia seria, provoca interferenze con le funzioni cognitive e tanti altri problemi che vanno denunciati con forza. I giovani devono sapere che con le droghe si rovinano».
Ci sono altri rischi legati al fumo di spinelli?
«Sì. Le canne hanno una concentrazione di catrame 7 volte superiore a una normale sigaretta. E quindi bisogna mettere nel conto anche il rischio di un tumore al polmone».
Quindi, no alle droghe senza nessuna tolleranza verso gli spinelli?
«Per me che sono un uomo di scienza la risposta non può che essere un "no" su tutta la linea. Anche perché la distinzione tra droghe leggere e pesante è fuorviante. Se vogliamo tutelare la salute e la vita dei giovani dobbiamo lavorare sulla prevenzione non sulla riduzione del danno».
A Milano, c´è anche il problema della cocaina, i consumatori sono più di 35 mila.
«E questo dato è davvero allarmante. Anche perché spesso la coca è craccata o mescolata ad altre sostanze e la gente muore».
Con quali mezzi bisognerebbe intervenire sui giovani?
«Ci deve essere uno sforzo collettivo. La scuola, la famiglia, la chiesa, il comune. Insomma, deve essere un lavoro corale».

Repubblica Torino 21.9.07
Folla di appassionati agli incontri di "Torino Spiritualità": intellettuali come popstar, pubblico ipnotizzato in attesa dell'evento
In coda per teologi e psichiatri l’assalto del popolo dell´anima
di Clara Caroli


Sveglia antelucana per i fan dello yoga platee rapite alle letture del Kamasutra commuove la rabbina Barbara Aiello Ma c'è anche qualche insoddisfatto

La misura dell´evento, come sempre, è nei dettagli. Alle 6 e mezza di ieri mattina, nella giornata di apertura di "Torino Spiritualità" - al netto del prologo di mercoledì con Shirin Ebadi - davanti all´ingresso della Cavallerizza si è già radunato un gruppo di devoti dello yoga, senza dubbio molto motivati e di fermissima vocazione. Sono gli iscritti al workshop, a numero chiuso, condotto dalla psicopedagogista e danzatrice Alessandra Rito. Li attendono tre ore di "esercizi di armonizzazione" e il "benessere psicofisico" finale è il minimo che si meritano dopo la levataccia. Nel cortile della Cavallerizza, a metà pomeriggio è già pronto il banchetto con i ticket per l´ingresso al "Kamasutra" commentato dalla storica delle religioni Wendy Doniger, vitalissima ex danzatrice che è stata allieva niente meno che di Balanchine e Martha Graham, e dall´indologo Stefano Piano. Sono attese folle.
Folle per Rabbi Barbara Aiello, primo rabbino donna d´Italia, che ha concluso il suo intervento sulla parità tra i sessi nella celebrazione del culto in Sinagoga con una emozionante preghiera. Folle per la psichiatra Monique Selz che con l´aiuto della giornalista Vera Schiavazzi ha provato a difendere l´idea, oggi minacciatissima, di "pudore come garanzia di libertà". Folle per la lezione di Eugenio Borgna, uno dei magister più attesi al festival, che ha spiegato ad una platea quasi ipnotizzata come in questi tempi di malesseri cronici dell´anima e abusi di psicofarmaci «la malattia psichiatrica sia metafora e anello di congiunzione tra corpo e spirito». Folla persino per Suor Clelia Ruffinengo che con il suo "femminismo monastico" ha riempito la Manica Corta della Cavallerizza lasciando fuori una trentina di spettatori. L´evento, l´evento.
«Sono attenti, ascoltano con interesse, annuiscono», commenta soddisfatta la biondissima Manuela E. B. Giolfo, mentre trascina il trolley in via Bogino all´uscita dal suo dialogo con Lilia Zaouali sul "velo islamico". Un dialogo che fatto arrabbiare Nicoletta Birocchi, avvocato assai battagliera, che trascorre - racconta - la maggior parte della sua vita in un paese arabo musulmano, il Marocco, e si è sentita offesa dal «basso profilo dell´incontro». Troppo didascalico, troppe semplificazioni e luoghi comuni. «Ci hanno detto cose ovvie - protesta la signora - . Ci hanno spiegato dettagli estetici sul velo che si possono leggere anche sulle pagine di "Chi". E´ scandaloso che si spendano 600mila euro per un festival di questo livello. E dire che ero rientrata apposta per seguire l´evento. Che delusione!». L´evento, l´evento. La droga, il doping della vita culturale. Tecnico o divulgativo, dotto o popolare? «E´ sempre lo stesso dilemma» sospira Ernesto Ferrero, direttore della Fiera del Libro, al Circolo dei Lettori «per ascoltare l´amica Lilia». E la virtù, come sempre sta nel mezzo. Un po´ dell´uno e dell´altro, per accontentare tutti. E chi sono i molti, i tutti che si sdoppiano tra il Gobetti e la Cavallerizza, il Circolo dei Lettori e Palazzo Carignano (spesso gli appuntamenti sono quasi contemporanei, con sciagurate sovrapposizioni di orario) per seguire corpo e spirito, religione e politica, etica ed estetica? In gran parte signore, in gran parte non giovani, in gran parte con i crismi della sinistra intellettuale - per quel che valgono queste generalizzazioni: scarpe basse, capelli corti, gioielli etnici e sciarpe di seta.
Impossibile perciò non notare due fanciulle in jeans e t-shirt. Stanno guadagnando zitte zitte l´uscita. Giovanissime, debuttanti a Torino Spiritualità. Cecilia Cortese studia comunicazione interculturale, con indirizzo mediorientale, cerca nel programma del festival tutto l´Islam possibile ed è tutto sommato abbastanza soddisfatta di quel che ha appena ascoltato. «Il problema è che non sembrava affatto un dialogo - dice - Le due relatrici si contendevano la scena e sembravano più interessate a vincere il confronto tra protagoniste che a sostenere le proprie tesi. Un atteggiamento che mi pare l´antitesi dello spirito della manifestazione». L´altra, Benedetta Saglietti, sa poco di cultura musulmana perché studia storia della musica ma ha le idee chiare: «Penso che questi incontri, i cosiddetti "dialoghi", dovrebbero coinvolgere di più il pubblico. Altrimenti non c´è differenza tra queste conferenze e un convegno. Allora tanto vale andare all´Università».

giovedì 20 settembre 2007

l’Unità 20.9.07
Quando la milizia del Papa si arrese all’Italia
di Antonio Di Pierro


UN LIBRO di Antonio Di Pierro dedicato alla breccia di Porta Pia a Roma, racconta il 20 settembre 1870, l’Ultimo giorno del Papa re. Del libro pubblichiamo il capitolo sulla presa del Campidoglio

Sono sempre più stanche e nervosi, demoralizzati perché consapevoli di essere rimasti da soli a difendere l’ultimo baluardo delle istituzioni romane: ma nonostante tutto i pochi soldati pontifici che presidiano il Campidoglio continuano a fare il loro dovere. Hanno già dovuto respingere gli assalti di civili armati. E adesso sono ancora lì, distribuiti a semicerchio sul colle capitolino, gli occhi che scrutano tutt’intorno per poter avvistare ogni minimo movimento sospetto, i fucili puntati verso Botteghe Oscure, San Marco, piazza Venezia, il Foro di Traiano come se si aspettassero da un momento all’altro nuovi attacchi. Non è un timore infondato. Stavolta il nuovo pericolo si preannuncia con un suono cupo, appena percettibile, come l’eco di tuoni lontanissimi accompagnato da un improvviso tremolio del terreno che sembra un’avvisaglia di terremoto. I miliziani del papa si guardano l’un l’altro stupefatti: davanti a loro non si vede anima viva, deserta tutta l’area sotto il loro controllo. Ma questo non li tranquillizza affatto. Anzi, l’inquietudine dei soldati è al massimo anche perché quel rumore che sembra un rombo di tuoni si fa sempre più vicino, quelle vibrazioni che paiono scosse telluriche si fanno sempre più intense. E ancora non si comprende da dove provenga quel suono, che adesso giunge meno ovattato e tendendo le orecchie pare di distinguere voci, cori, urla, squilli di tromba mentre il terreno è scosso da decine, centinaia, migliaia di piedi come se tutti i romani si fossero concentrati lì sotto e ora avanzassero a passo di marcia oppure saltassero dalla gioia.
Poi, all’improvviso, i fanti pontifici cominciano a intravedere qualcosa: è un luccichio di baionette. Sì, da via del Gesù ecco avanzare verso il Campidoglio il 2° Battaglione del 39° Reggimento fanteria comandato dal maggiore Giorgio Tharena. Avanti a tutti procede a passo marziale il sottotenente Gaetano Lugli con la bandiera del reggimento, scortata dall’aiutante maggiore Riccardo Fantanive. Dietro, i soldati che hanno avuto un ruolo determinante nell’attacco di Porta Pia, fucili in spalla, marciano impettiti, orgogliosi di avere avuto il compito di occupare un luogo-simbolo della millenaria storia della città eterna. Ma, più ancora, i fanti del re d’Italia sono raggianti per la grandiosa festa popolare che sta accompagnando la loro avanzata. I civili che avevano tentato l’assalto al Campidoglio ed erano stati respinti dal fuoco pontificio, adesso si sono fatti coraggio e hanno ripreso a farsi sotto le pendici del colle capitolino. E un fiume di cittadini ha cominciato a seguire, a circondare, a precedere, a inneggiare con acclamazioni e battimani il 2° Battaglione che ora è quasi avvolto e sospinto dalla folla. Ma non solo. Dal Foro di Traiano, da via del Corso, dalle Botteghe Oscure, dal teatro di Marcello, tutte le strade che portano al sacro colle sono un brulicare di romani che avanzano sgomitando verso il medesimo obiettivo. Ecco che cos’era quel rumore che pareva un tuono sotterraneo e adesso ha le caratteristiche di un boato che avvolge tutti.
I soldati del papa sono frastornati, sembra che l’intera Roma si sia data convegno lì davanti e i convenuti non sembrano nutrire sentimenti di amicizia nei loro confronti. Sparare sulla folla? Sarebbe una pazzia suicida, in presenza di un intero battaglione dell’esercito italiano che sta avanzando. Molto saggiamente, i comandanti della milizia pontificia ordinano ai loro uomini di non fare uso delle armi e li fanno concentrare davanti al palazzo dei Conservatori, in attesa degli eventi. Pochi minuti dopo, nel tripudio popolare, i fanti del 2° Battaglione cominciano a salire gli scalini della gradinata michelangiolesca e giungono finalmente sulla piazza del Campidoglio. È il maggiore Tharena il primo a farsi avanti verso il drappello papalino per chiedere ai loro comandanti, i capitani Corrado Sussmeyer e Luigi Betti, di arrendersi e di considerarsi tutti prigionieri. Non ci sono alternative. Condotti nel cortile del palazzo dei Conservatori si procede in breve al disarmo dei militari pontifici.
Il Campidoglio è liberato. Il Campidoglio è in festa. Qualcuno sale sulla Torre capitolina e inalbera una bandiera tricolore fissandola nella mano della statua di Roma. La bandiera del 39° Reggimento fanteria, quella stessa che poche ora fa dalla torretta in villa Patrizi ha dato il segnale dell’assalto alla breccia e che è stata sfregiata da dieci palle di fucile, viene appoggiata a un braccio della statua equestre di Marco Aurelio al centro della piazza. Le campane suonano a festa. La banda militare intona la marcia reale. Sono momenti di intensa commozione, mentre dalla folla si levano grida inneggianti all’Italia unita, a Roma italiana, all’esercito. Dice Angelo Giosuè Lucotti: «È una scena che strappa il cuore. Ho visto Edmondo De Amicis non riuscire a trattenersi, gettarsi su uno scalino e piangere dirottamente».
«Bisogna averla sentita suonare la marcia reale per la prima volta in Campidoglio, davanti a quella bandiera gloriosamente forata» conferma pochi minuti più tardi Ugo Pesci; «bisogna aver veduto i popolani di Roma, corsi lassù con le armi portate via ai papalini, brandirle in alto entusiasti; e le donne, i ragazzi, i vecchi, sventolare i fazzoletti, gridare, piangere, abbracciare i soldati immobili in rango al presentat’arm, per poter dire d’aver provato davvero una forte commozione patriottica!».
Più a nord, intanto, le colonne italiane sono giunte davanti a ponte Sant’Angelo, la «porta» del Vaticano. Hanno l’ordine di non oltrepassare quel confine simbolico ma di presidiarlo sì, e di consentire il passaggio delle disarmate truppe pontificie che hanno ricevuto l’ordine di confluire e di concentrarsi in piazza San Pietro.

il manifesto 20.9.07
Montelupo, la villa dei matti
Sembra un hotel di lusso, una bella villa medicea nella campagna toscana. Ma è un Ospedale psichiatrico giudiziario, racchiude sofferenza umana, povertà e squallore. L'Opg di Montelupo fiorentino ospita circa 130 internati, molti in «proroga» della misura di sicurezza perché nessuno si cura di farli uscire. «Questi posti non cambieranno mai»
di Dario Stefano Dell'Aquila


Montelupo Fiorentino. L'Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Montelupo Fiorentino, a vederlo da fuori, è una splendida villa medicea - la Villa dell'Ambrogiana - che si staglia nella campagna toscana. A non saperlo, può appare un albergo, di quelli per ricchi, con idromassaggio e servizio a cinque stelle. Ma basta varcare il primo portone per capire tutta la differenza che passa tra la bellezza dei paesaggi e il dolore degli uomini. Qui fu imprigionato e morì, nel 1910, l'anarchico Giovanni Passanante che attentò, senza riuscirvi, alla vita di re Umberto I.
All'interno della struttura, che mostra tutti i segni del passare del tempo, vi sono circa 130 internati disposti su tre sezioni, divise la seconda dalla terza da un ampio spazio verde. Di questi internati circa la metà sono qui da almeno cinque anni. Molti sono in proroga della misura di sicurezza, meccanismo che ormai in questo nostro giro abbiamo imparato a conoscere. Comminata una prima volta, la misura di sicurezza viene prorogata per un tempo in(de)finito indipendentemente dal reato commesso e dallo stato di salute dell'internato. Montelupo è, tra tutti, l'Opg con meno personale, solo 27 operatori tra educatori, medici, infermieri e psichiatri, e circa 90 agenti di polizia penitenziaria.
La seconda sezione ha l'aria dimessa di un ospizio. Gli internati che si trattengono in un piccolo cortile o passeggiano lungo gli stretti corridoi sono circa quaranta e per lo più anziani, qualcuno davvero in là con gli anni.
Le condizioni delle celle, anguste, riflettono la povertà delle persone e la vecchiaia della struttura. Giacomo S. ha oltre settanta anni. Costretto su una sedia a rotelle, impreca appena ci vede. Nell'altra vita faceva il pastore. E' qui da pochi mesi, privo di quasi tutti i denti, in una piccola cella con altre tre persone. «Non so perché mi hanno portato qua», ripete, e qualche lacrima di rabbia scivola assieme alle imprecazioni». Bruno L., anche lui quasi settanta anni, ci fa entrare nella sua cella, piccola, troppo, dove vivono in due. Nel piccolo spazio sono ammassati due letti, panni, scatole, scarpe, qualche oggetto personale. Si avverte un forte odore di urina in sottofondo.
A un certo punto lungo il percorso fa capolino un vecchietto dall'aria dimessa, con panni lisi a metà tra il pigiama e una logora casacca. Umberto A. ha ottantotto (88) anni, da tre è a Montelupo. Contadino, ha ucciso (accidentalmente è la sua versione, con dolo secondo i giudici) la moglie con un colpo di fucile. Peserà meno di 50 chili. Quale che sia la verità, non è chiaro quale siano le dinamiche di sistema giudiziario che concede a Eric Priebke i domiciliari e costringe Umberto A. in un manicomio giudiziario.
L'altra sezione, la III, è più «frequentata». Al piano terra vediamo la sala con i letti di coercizione. In una cella scura, triste e spoglia, due letti, dai piedi segati, fanno bella mostra di sé. Hanno «ospitato» 69 persone in un anno, secondo i dati ufficiali. Sui tempi rimane un mistero. Sono brevi, ci assicura il direttore Fabrizio Scarpa. Ci indica Luigi P., spiega che è stato più volte in coercizione nell'Opg di Reggio Emilia e che gli effetti, negativi, si vedono tutti. Qui, ce lo spiegano alcuni internati, l'isolamento si chiama «camera di raffreddamento» ed è l'anticamera della coercizione.
Nella cella a fianco, desolatamente vuota, sporca e con odore di urina Domenico S., completamente privo di denti, implora la sua sigaretta. Nei corridoi molti internati riconosco Francesco Caruso, il deputato di Rifondazione comunista qui in visita, e si avvicinano incuriositi. Alessio comprende l'importanza dell'interlocutore e si presenta: «Sono l'imperatore del Portogallo». Gaetano B., trent'anni, era all'Opg di Napoli e sorride felice di vedere «l' onorevole»: «Qui si sta meglio, pensa che ho anche mangiato una pizza, dopo quattro anni. Là era terribile».
Le celle sono comunque affollate, in attesa di lavori di ristrutturazione. Giuseppe, stessa età, è un ex pugile. Ha trascorso otto anni di Opg, per un reato che, se fosse stato ritenuto «capace di intendere», gli costava massimo tre anni di carcere. La sua cella è particolare, una sorta di piccolo negozio etnico. Contrasta con l'affollamento e la miseria delle altre. Merito del suo compagno che anche solo con i pacchetti di sigarette crea articolate costruzioni. Lui vuole rientrare a boxare, se riesce a uscire. «Che dici ce la faccio? Qui i farmaci mi fanno prendere peso». Il dramma di giornata di Davide è invece tutta in un baratto ineguale. Ha scambiato, volontariamente dice, il suo orologio per una calcolatrice, e adesso vorrebbe che il direttore autorizzi l'accordo, perché non via sospetto di imbroglio.
Rileviamo attenzione e disponibilità da parte degli operatori, ma il presente conferma la storia di disperazione di Montelupo. A fine maggio Maurizio Sinatti, un internato di 43 anni, è stato ucciso da un compagno di cella, Giuseppe Cascio, 40 anni. Non erano insieme in cella da molto tempo ed entrambi erano finiti all'Opg, in esecuzione di misure di sicurezza, dopo essere stati coinvolti in reati contro il patrimonio. Un litigio, una convivenza divenuta insopportabile.
Un episodio analogo si era verificato nel '92. Un internato, Nicola Del Degan, era stato strangolato nella sua cella. Episodi rari, che suscitano raccapriccio ma non meraviglia, perché la convivenza forzata è già difficile di per sè, figuriamoci tra persone che soffrono un disagio psichico. Appena una settimana dopo un internato ha tentato di impiccarsi, portando a sei i casi di tentato suicidio negli ultimi due anni.
Quando il portone si richiude, la serenità del paesaggio toscano riprende il sopravvento e contrasta con la disperazione che Montelupo nasconde. E' difficile dare un orizzonte alla speranza, come ha ci ha detto sottovoce un internato: «Altro che camera di raffreddamento, qui è sempre contenzione. Questi posti non cambieranno mai». Non resta sperare che si sbagli.

il manifesto 20.9.07
Tra cura e detenzione, come trasformare gli Opg
«Regionalizzare» gli Ospedali psichiatrici giudiziari? Il ministero della salute sembra intenzionato a riprendere le proposte di riforma del governo Berlusconi. Ma così l'internamento continua a prevalere sulla cura. Un'alternativa sarebbe usare solo in casi eccezionali la «infermità totale», e decongestionare gli Opg
di Maria Grazia Giannichedda


La situazione degli internati negli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) è tanto drammatica quanto relativamente semplice da affrontare. Delle 1266 persone internate oggi nei sei istituti, oltre la metà hanno commesso reati minori e in gran parte si vedono prorogata la misura di sicurezza più per mancanza di alternative che per una condizione di pericolosità sociale.
Per ridurre, in tempi rapidi, di almeno un terzo il numero degli internati basterebbe utilizzare leggi e strumenti amministrativi che esistono da tempo e che sono, in sintesi, di tre tipi. Innanzi tutto le sentenze della Corte Costituzionale che consentono, quando si accerti che la pericolosità sociale è cessata, sia di ridurre la durata della misura di sicurezza che di utilizzare misure diverse dall'invio automatico in Opg. Ci sono poi le leggi regionali di attuazione della «180», le quali prevedono strutture di vario tipo per accogliere anche persone che abbiano bisogno di assistenza costante.
Far funzionare queste strutture, che in certe regioni sono insufficienti ma in altre semplicemente «evitano» di farsi carico delle persone finite in Opg, può metter fine all'iniquità delle proroghe per mancanza di alternative. Ci sono infine le norme del 1998 e '99 sul passaggio della sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale, che responsabilizzano in modo chiaro Asl e Regioni sulla salute dei detenuti (di questo si è parlato diffusamente su queste pagine il 22 agosto). [vedi "spogli d'agosto 07"]
Non sono necessarie risorse economiche aggiuntive per fare tutto questo: è sufficiente formulare, Asl e amministrazione penitenziaria insieme, progetti individualizzati con la previsione dei cosiddetti «budget di cura» che trasferiscano risorse dall'Opg alla Asl che si prende cura del «suo» cittadino malato. In alcuni (pochi) luoghi questi strumenti sono già utilizzati, e questo spiega l'enorme variabilità nella provenienza degli internati. E' noto, ad esempio, che da due regioni con il medesimo numero di abitanti, Friuli-Venezia Giulia e Sardegna, proviene il numero rispettivamente più basso e più alto di internati, mentre l'Opg di Barcellona Pozzo di Goto (Messina), che è il solo a ricevere internati in maggioranza della propria regione, è quello dove si verifica il numero di proroghe più alto. Se non si vuole ricorrere alle valutazioni del positivismo ottocentesco sui sardi e i siciliani, si deve concludere che il problema sta nei servizi, nelle politiche regionali, nelle inerzie più o meno colpevoli da parte della magistratura e delle Asl.
La Sardegna è finora la sola regione che, dopo aver rifiutato il progetto di accogliere un nuovo Opg, ha cominciato a riprendersi i propri cittadini internati, ma dal centro, dal governo, non è ancora arrivato alcun impulso in questo senso. Eppure l'Unione si era espressa chiaramente. Nel famoso lungo testo su cui si è chiesto il consenso degli elettori, sono inserite infatti alcune affermazioni qualificate in tema di Opg: «Il tentativo ricorrente di ritorno al passato e di ri-manicomializzazione della salute mentale va respinto applicando per intero la legge 180. Siamo per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari e di ogni altra forma di manicomialità». Ma non si è visto, finora, alcun intervento per tradurre in pratiche questa enunciazione.
Nei mesi scorsi qualcosa era sembrato muoversi, suscitando per la verità più preoccupazioni che speranze. Il 6 novembre dello scorso anno, infatti, aveva presentato i suoi risultati il «gruppo di lavoro per i problemi degli Opg» istituito nel 2004 dal governo Berlusconi. Il documento prevedeva una prima fase di interventi per decongestionare gli Opg utilizzando gli strumenti normativi appena citati. Le prospettive di medio e lungo periodo ipotizzate dal documento erano però di ben altro orientamento, perché al posto degli attuali Opg proponeva: 300 posti letto in tre Opg e 200 in centri di psichiatria penitenziaria gestiti dall'amministrazione penitenziaria; 300 letti in centri diagnostico terapeutici di 15 letti ciascuno distribuiti in tutte le regioni; 500 posti letto in «strutture residenziali ad Alta Intensità terapeutica e media sicurezza» nelle varie regioni; 500-1000 posti letto in «strutture residenziali a Media Intensità terapeutica e bassa sicurezza», anch'essi gestiti dalle Asl.
In sostanza: si prevedeva non solo il raddoppio dei circa 1.200 letti degli attuali Opg, ma si attribuiva alle Asl e alle strutture psichiatriche, in contraddizione con quanto disposto dalla «180», sia il controllo di quote di pericolosità sociale che la responsabilità di custodire persone pericolose. Insomma, la riforma degli Opg diventa un modo per far rinascere il dispositivo della «cura-custodia» e l'ospedale psichiatrico in formato ridotto.
Perché preoccuparsi oggi delle proposte di una Commissione del vecchio governo che ha concluso i suoi lavori? Per almeno due ragioni. Facevano parte della Commissione, oltre ai direttori degli Opg di Aversa, Napoli e Barcellona Pozzo di Gotto, due dirigenti sanitari della Campania e il direttore del servizio salute mentale dell'Emilia Romagna, regioni ambedue amministrate dal centro sinistra. E questo può forse spiegare come mai le idee di questa Commissione, ripresentate da un dossier del Sole-Sanità il 9 aprile 2007, siano state riproposte dal consulente della ministra della salute Livia Turco, lo psichiatra Marco D'Alema, che ha illustrato al Corriere della Sera del 19 aprile 2007 «le tre fasi del superamento degli attuali istituti» con l'obiettivo finale di «regionalizzare gli Opg, che devono diventare strutture piccole, a carattere prettamente sanitario, dove l'elemento penitenziario viene ridotto al minimo, e dove saranno ricoverati solo i casi più gravi».
Il dibattito su cosa mettere al posto degli attuali Opg dura da più di trent'anni. Da una parte (e non è questione di destra e di sinistra) vi è quest'idea di distribuire a livello regionale strutture di cura che, come era il caso degli ospedali psichiatrici, devono assicurare anche la custodia. Difficile credere - è questa l'obiezione principale - che in strutture di questo tipo la cura vincerà sulla custodia, che non verranno travestite come pericolosità sociale le condizioni di vita disperate, che l'offerta di strutture di internamento non moltiplicherà una domanda di esclusione mai venuta meno.
L'alternativa, praticata sistematicamente in alcuni (pochi) luoghi, può essere percepita come crudele: si tratta infatti di restringere in modo rigorosamente eccezionale il riconoscimento di infermità totale e di far seguire, alla gran parte delle persone che commettono reati in condizioni di sofferenza mentale, i percorsi ordinari. Questi percorsi non necessariamente conducono alla detenzione, e quando questa non sia evitabile, i servizi di salute mentale seguono le persone malate anche in carcere, dove si deve assicurare la cura della malattia mentale come delle altre, o si deve valutare, caso per caso, la compatibilità tra cura e detenzione. Certo, sappiamo tutti cosa è il carcere oggi, per chi è malato e anche per chi è sano. Ma se la nostra democrazia non è capace di avere carceri decenti come possiamo pensare che lo saranno le strutture di internamento, ancora più opache del carcere e più esposte al rischio di arbitrii?
Una via d'uscita da questo dibattito polarizzato da troppo tempo si potrebbe trovare se questo governo cominciasse finalmente a impegnarsi per decongestionare gli Opg, operazione che sanerebbe tante iniquità e chiarirebbe come e da dove si arriva in Opg, quali strategie possono modificare questi percorsi, quante strutture possono servire in alternativa, di che tipo e per chi. Questo si può fare subito, non servono leggi nuove. Serve la scelta politica di non vivacchiare sull'esistente ma di promuovere e guidare quei processi di trasformazione che, nel caso degli Opg, la legislazione ha già ampiamente innescato.

Apcom 20.9.07
Bertinotti su Grillo: La politica riprenda la parola in Parlamento e nel Paese


Roma, 20 set. (Apcom) - La politica deve "riprendere la parola nel Paese, e non solo nelle Aule parlamentari", poiché "deve trovare il modo per rispondere alla crisi o la crisi si allarga". Lo ha detto il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, rispondendo ad una domanda sul grillismo che, secondo Bertinotti, "piuttosto che essere un contributo alla risposta rischiano di aggravarla" ma che, tuttavia, non può costituire "una giustificazione" alla politica medesima. Il vero problema per Bertinotti è che manca "ancora un protagonismo organizzato delle forze politiche. Vogliamo dirlo nel modo più radicale? E' morto il Re, viva il Re. Non esiste - sottolinea - una soluzione fuori dalla politica per la vitalità democratica e neanche per affrontare i problemi di una fase di passaggio che contiene anche elementi dolori e drammatici. La politica o contribuisce ad aggravare la situazione o è una chance ma poiché è una chance deve essere messa in campo". E "necessaria" la presenza riconoscibile di forze politiche organizzate e "non può essere una risposta adattata. La politica deve uscire da una situazione adattata che è stata la condizione della sua sconfitta. Adesso - tiene a sottolineare il presidente della Camera - si vede quanto costa la scomparsa delle grandi forze organizzate capaci di compiere anche una operazione pedagogica. E' la sconfitta della politica leggera e del pensiero debole. E per riprendere la strada della legittimità deve farlo dalle sue fondamenta da un pensiero forte e da una struttura pesante". Quanto al comico genovese, Bertinotti ritiene che non si possa parlare di grillismo: "francamente non parlerei di grillismo. Quando si parla di ismi si tratta di femomeni di grande peso nella società, nel bene o nel male: di fascismo, comunismo, socialismo. E non è questo il caso. Io l'ho detto dall'inizio che quando c'è un vuoto c'è qualcuno che lo riempie, ma man mano che questi materiali si sviluppano, piuttosto che essere un contributo alla risposta rischiano di aggravarla".

Liberazione 20.9.07
Alcune idee di E. Letta su diritto e lavoro
Leggi ad personam di nuovo conio
di Piero Sansonetti


Nel corso di una trasmissione televisiva ( Ballarò ), l'altra sera, c'è stato tra l'altro uno scontro tra Giorgio Cremaschi ed Enrico Letta che, francamente, mi ha colpito. Non tanto per il contenuto, ma per il modo di ragionare di Letta. Mi sembra che in politica stiano entrando nuovi "parametri", pericolosissimi, che modificano le basi di ogni discussione. Sostituendo all'etica - al buon senso, al diritto, ai principi, alle opinioni, alle leggi - un unico grande e supremo Dio: "il margine del profitto". Che ha il potere di sospendere e tacitare ogni discussione.
Riassumo. Cremaschi ha protestato contro uno dei punti del famoso patto di luglio tra governo e sindacati (che sarà sottoposto ad ottobre a consultazione sindacale). E precisamente il punto che prevede la "decontribuzione" degli straordinari. Cosa vuol dire decontribuzione? Semplicemente che le aziende non pagheranno i contributi (cioè non verseranno soldi all'Inps) relativi alle retribuzioni del lavoro straordinario. In questo modo alle aziende converrà imporre molti straordinari ai lavoratori (e assumerne, quindi, di meno) perché avranno la possibilità di sfruttarli di più, controllarli di più, pagarli di meno. In cambio l'Inps ci rimetterà un bel po' di quattrini. Se voi pensate che questa misura viene a coronare una manovra che aveva come obiettivi quelli di aumentare l'occupazione e migliorare i conti dell'Inps (riducendo le pensioni) capirete bene che la protesta di Cremaschi è del tutto ragionevole.
Come ha risposto Enrico Letta, ministro del centrosinistra e candidato leader del Piddì? Con due argomenti disarmanti. Il primo: gli imprenditori attualmente pagano in nero gli straordinari, cioè evadono la contribuzione, cioè non pagano l'Inps e così facendo commettono un reato. Decidendo la decontribuzione - ha spiegato - noi eliminiamo il reato e quindi rendiamo più trasparente e legale il diritto del lavoro.
Secondo argomento: pagando meno gli straordinari gli imprenditori aumenteranno i margini del profitto e dunque la competitività dell'azienda italia.
In sostanza Letta ha detto che il modo migliore per combattere le illegalità è abolire i reati. Cosa che già fece cinque anni fa Berlusconi, con alcune leggi (che furono definite "ad personam") come quella che cancellò il falso in bilancio. Non so se occorre ragionare molto per spiegare che queste leggi ad personam di nuovo conio sono preoccupanti. Sono persino più gravi di quelle di Berlusconi, perché non solo colpiscono l'idea di legalità, ma concretamente colpiscono gli interessi diretti dei lavoratori.
E ancor più preoccupante è l'dea che un ministro di centrosinistra esponga, senza neanche giri di parole e tentativi di "nascondimento", la sua tesi secondo la quale il modo migliore per aumentare la competitività (e la competitività è un imperativo categorico che non ammette discussione) sia quello di aumentare il tasso di sfruttamento del lavoro.

mercoledì 19 settembre 2007

l’Unità 19.9.07
Pedoflia
Castrazione perché no
di Luigi Manconi e Federica Resta


Il sillogismo è semplice e infallibile. Tutte le volte che il richiamo a mezzi forti e norme speciali, provvedimenti d’eccezione e misure drastiche non è accompagnato da rigorosi (meglio se preventivi) test sulla loro reale efficacia, lì si ha demagogia. Vale per le norme sulla violenza negli stadi come per l’emersione del lavoro nero. E vale - forse ancor più - per quanto riguarda gli strumenti destinati a intervenire su quell’inestricabile groviglio che è l’intreccio tra psicopatologia e criminalità. Appena qualche settimana fa, sull’onda di una notizia proveniente dalla Francia, per due giorni si è ripreso a chiacchierare, all’interno del dibattito politico-giornalistico, di «castrazione dei pedofili».
È un tema ricorrente.
Press’apoco come quello della scomparsa delle stagioni e della dieta punti. In questo caso, la futilità dell’approccio è resa più grottesca dal fatto che la questione rimanda a problemi tragici e la cui soluzione è, a dir poco, impervia. Cessato il clamore, vale la pena tuttavia di riprendere il discorso perché la ferita - quella dei minori abusati e degli adulti pedofili, spesso a loro volta abusati quando bambini - rimane aperta e dolente.
Si dovrebbe partire, pertanto, da una rigorosissima distinzione tra i diversi trattamenti (terapia psicologica o farmacologia), tra i differenti protocolli (terapia scelta o imposta) e dalla attenta valutazione delle esperienze già realizzate e farne tesoro. Accade raramente in Italia. Non accadde ad esempio quando, nel luglio 2003, l’allora ministro della Giustizia, Roberto Castelli, in risposta a un’interrogazione alla Camera dei Deputati, preannunciò - un disegno di legge che affidasse «coattivamente all’uso di ritrovati farmacologici la possibilità di impedire la reiterazione del reato nei soggetti già condannati». Era, palesemente, non più che un messaggio ideologico: e tale rimase. Eppure, qualche mese prima, il Comitato nazionale di bioetica aveva già espresso un parere negativo sulla proposta, avanzata dal Procuratore generale presso la Cassazione, di «introdurre un trattamento obbligatorio successivo alla espiazione della pena, modellato sullo schema della misura di sicurezza». Il Comitato nazionale di bioetica auspicava, invece, che il legislatore non prendesse «in considerazione l’ipotesi di introdurre nel nostro sistema un trattamento sanitario obbligatorio e permanente nei confronti delle persone con tendenza pedofiliache: istanze bioetiche fondamentali (...) inducono a ritenere che tale trattamento - anche se fosse capace di estinguere le pulsioni pedofile nel soggetto (il che è ben lungi dall’essere dimostrabile scientificamente) - acquisterebbe il carattere di una indebita violenza, tanto più grave in quanto motivabile (...) a partire da ragioni di difesa sociale e di equilibrio del sistema penale e non da una attenta considerazione del bene oggettivo delle persone umane che verrebbero coattivamente sottoposte al trattamento».
Nonostante ciò, forse anche per l’allarme suscitato dalla vicenda di Rignano Flaminio, in Italia, e da analoghi casi, in Francia, oggi si torna a discutere di «castrazione» per chi abusi sessualmente di minori. Questione che non può non dividere, opponendo chi invoca la «tolleranza zero» per quanti si macchino di reati così gravi (connotati, peraltro, da un alto tasso di recidiva, che con la castrazione si vorrebbe scongiurare) e chi osserva come, in una democrazia, la pena non debba mai arrivare al punto da incidere in maniera tanto profonda sul corpo, la vita, l’integrità e la personalità del condannato (cosa che avverrebbe se si precludesse irreversibilmente una funzione vitale come quella sessuale). Tanto più in un’epoca in cui, come dice Foucault, «la pena, da ’arte di sensazioni insopportabili’, ha progressivamente reciso i suoi legami con il corpo e la vita, per farsi economia di diritti sospesi».
Dalla castrazione fisica, dunque, alla sospensione fisica del diritto alla sessualità. Ma queste potrebbero apparire come «sofisticherie» di fronte al dramma irrisarcibile di un minore abusato. Pertanto, della pedofilia e della sua prevenzione (e repressione) si deve discutere, senza preclusioni e tabù, consapevoli che si tratta di uno dei problemi «più difficili del mondo».
Che riguarda una forma particolare di devianza (quella sessuale), ma anche e soprattutto quel rapporto tra le generazioni, adulti e bambini, che Freud avrebbe potuto definire il vero «disagio della civiltà». Di questo «disagio» parlano i fatti di cronaca ma anche le leggi, mai come in questa materia, tanto frequenti quanto, troppo spesso, inefficaci. E il tema della «castrazione» è quantomai delicato.
Non solo perché, come spiega Lino Rossi, da un lato, essa provoca un temporaneo abbassamento del desiderio sessuale e, dall’altro, rende il soggetto più aggressivo (cosa già di per sé meritevole di attentissima considerazione per i pericoli che comporta): anche perché chi abusa esprime un disturbo psicologico e non patologico-organico. La pedofilia non è una malattia psichiatrica da potersi curare facilmente con rimedi farmacologici; secondo la più accreditata letteratura scientifica, è piuttosto ’parafilia’, ovvero disturbo della personalità o del comportamento, qualificata dalla deviazione dell’interesse sessuale verso i minori.
Si spiega così (oltre che sulla base di ragioni giuridico-costituzionali, relative all’indisponibilità dei diritti fondamentali) perché, rispetto alla soluzione ’farmacologica’, prevalga (almeno nei paesi europei) il modello della terapia psicologica. Il condannato, per potere fruire dei benefici penitenziari o comunque a titolo di misura di sicurezza, è sottoposto a terapia psicologica, individuale o di gruppo, negli «istituti di terapia sociale». La prima condizione di questo trattamento è che per ridurre la recidiva (per essere, cioè, efficace) presuppone la volontaria adesione del condannato al programma riabilitativo.
Questo spiega perchè nella maggior parte dei paesi (ad esempio, Finlandia, Spagna, Belgio, e molti stati nordamericani) la «castrazione» è prevista come esclusivamente volontaria. Invece, i sostenitori della legge tedesca, che ha previsto la terapia psicologica come obbligatoria, affermano che anche i condannati restii o contrari, dopo un primo periodo di terapia, superano le resistenze e portano a termine il percorso riabilitativo con buoni risultati (si stima una riduzione fino al 50% del tasso di recidiva, ma i dati sono decisamente contraddittori).
Discorso diverso richiede la «castrazione chimica» volontaria, prevista in Germania, Svezia, Norvegia, California e Canada. In Danimarca, poi, dove i violentatori possono scegliere fra lo scontare interamente la condanna in carcere o accettare di seguire un trattamento medico, beneficiando cosi’ di una liberazione anticipata, la terapia sembra aver dato risultati efficaci; i casi trattati (25 dal 1989 al 2005) non hanno registrato recidiva. E, tuttavia, questo non consente di eludere alcune domande di fondo.
Di fronte al pericolo di ulteriori violenze sui minori, qual è il limite del diritto e della pena? Fino a che punto si può accettare di comprimere i diritti fondamentali dell’imputato, in nome della protezione di un’infanzia indifesa? Qual è il limite oltre il quale il bisogno di tutelare i bambini non può imporre deroghe alle forme ordinarie e garantiste del diritto penale? Difficile rispondere. Ad aiutarci è quella stessa mozione del Comitato nazionale di bioetica prima ricordata. Essa non corrisponde solo ed esclusivamente a una sacrosanta affermazione di principi inviolabili: in un breve inciso è contenuto un argomento formidabile, e da troppi - irresponsabilmente - trascurato.
L’efficacia della «castrazione chimica», anche «se fosse capace di estinguere le pulsioni pedofile», è «ben lungi dall’essere dimostrabile scientificamente». Ecco il passaggio cruciale da tenere ben presente. Non disponiamo per ora di ricerche su campioni sufficientemente rappresentativi per trarre un bilancio definitivo, e definitivamente attendibile, dei risultati della «castrazione chimica». I dati sono spesso controversi: e, tuttavia, alcuni devono farci seriamente riflettere.
Consideriamo ancora una ricerca, quella condotta nel 1991 in California, che ha dimostrato come nel 7, 4 % dei casi, neppure la "castrazione chimica" ha potuto impedire la commissione di abusi sessuali nei cinque anni successivi al trattamento. La "castrazione chimica" rischia quindi di essere quindi non soltanto una misura di dubbia legittimità (giuridica, morale, politica), ma anche inefficace, proprio perché non garantisce la prevenzione della recidiva. Se questa ultima ricerca fosse generalizzabile e, dunque, la adottassimo come parametro incontrovertibile dell’efficacia del trattamento in questione, le conseguenze sarebbero obbligate. L’argomento più diffuso e «popolare» contro le preoccupazioni garantiste e la tutela dei diritti fondamentali dell’autore del reato - che cos’è la violazione di quei diritti di fronte allo scempio di un bambino? - perde la gran parte della sua forza.
Quella percentuale di fallimento tende a vanificare l’argomento prima citato. I diritti in alternativa - quello alla tutela del bambino e quello all’integralità del suo abusatore - risultano inconciliabili e portano, inevitabilmente, a privilegiare il primo quando la deroga al secondo dimostri la sua assoluta necessità (e utilità). Ma se nel 7,4% dei casi non è così, quel 92,6% di successo non è sufficiente a motivare la rinuncia a un diritto per definizione irrinunciabile. E impone, piuttosto, la ricerca di soluzioni diverse, la cui efficacia sia maggiore e la cui capacità di ledere diritti fondamentali sia minore. Tutto ciò - lo sappiamo bene - è opinabile, ma ci sembra consentire un approccio più corretto e produttivo al problema. Problema che si conferma, come dicevamo, tra i «più difficili del mondo».
Forse perché, come scrive Theodor W. Adorno, «il tabù più forte di tutti (...) è oggi quello che va sotto la voce di ’minorenne’(...) Il sentimento di colpa, universale e motivato, del mondo degli adulti non può fare a meno di ciò che essi definiscono l’innocenza dei bambini, come della sua immagine speculare e del suo rifugio, ed ogni mezzo per difenderla per loro va bene».

l’Unità 19.9.07
«Il dolce e l’amaro», uno sguardo dentro Cosa Nostra
di Vincenzo Vasile


Alla fine di un'estate spesa a disquisire a vuoto della pericolosità dei lavavetri, meriterebbe assai maggiore attenzione e rispetto (da parte della critica, mentre il pubblico ha già dato una buona risposta al botteghino) Il dolce e l'amaro, film di Andrea Porporati presentato alla Mostra di Venezia. È la storia di un piccolo gregario palermitano di Cosa Nostra, interpretato da Luigi Lo Cascio. È la vicenda di un ragazzino cresciuto per le strade del quartiere palermitano della Kalsa, che ha a disposizione uno smilzo repertorio di valori e di modelli, e si lascia affascinare dal mito mafioso. Si tratta delle stesse strade e delle stesse piazze dove nacquero e vissero la loro infanzia Falcone e Borsellino: e il ragazzino futuro killer protagonista di questo film vi incrocia un Fabrizio Gifuni destinato alla toga e a una simile vita (e morte) parallela.
Sono gli anni Settanta e seguenti, e nell'arco di un trentennio viene raccontata la vita quotidiana di un mafioso. Si narra del come e del perché si entri in quel tipo di vita, e del come e del perché se ne possa uscire. Il fatto è che Masino-Lo Cascio un giorno «si pente», cioè inizia a «collaborare» con la giustizia, personificata proprio nel magistrato suo coetaneo interpretato da Gifuni. E ciò avviene per la spinta decisiva di una ragazza - il ruolo è di Donatella Finocchiaro, che cinque anni fa aveva esordito in un intenso ruolo analogo con Angela di Roberta Torre -, e qui pur di non condividere il destino del killer che intanto è arrivato all'apice della sua carriera criminale, ha abbandonato la città: non vuole avere più niente a che fare con un delinquente.
È proprio l'incrinatura di questo rapporto sentimentale a spingere il protagonista «Saro» al «pentimento». Questo film ha una sua cruda sobrietà, ricalca episodi di cronaca dimenticati: spiazzati dagli stereotipi correnti, alcuni critici hanno considerato alla stregua di pennellate di colore quel boss detenuto, Renato Carpinteri, che si attribuisce con tanto di firma i quadri di alcuni gregari carcerati (lo faceva abitualmente Luciano Liggio con i pittori-detenuti Gaspare Mutolo e Alessandro Bronzino). E hanno ingiustamente stroncato come fantasioso e iperbuonista un percorso che, al contrario, è stato spesso praticato da «pentiti» piccoli e grandi della mafia siciliana: Nino Calderone fu letteralmente convinto dalla moglie e dalla figlia a collaborare con Falcone; Marino Mannoia fu sospinto dall'amante; Giuseppe La Barbera venne accompagnato dalla fidanzata a colloquio con l'attuale capo della polizia, Manganelli.
Ci sono, insomma, nella storia della mafia, proprio come si racconta ne Il dolce e l'amaro, anche le vicende esemplari dei «pentiti per amore». O meglio, in diversi casi i mafiosi si pentirono, oltre che per convenienza, non avendo più nulla da perdere, anche «per amore». Quasi tutti sono episodi accaduti negli anni Settanta e Ottanta (durante i quali è ambientato il film). Come a volerci ricordare - controcorrente rispetto alle campagne politico-mediatiche che hanno svilito il contributo dei pentiti - che il pentitismo mafioso cominciò ancor prima della legislazione premiale, e spesso si verificò per la coincidenza di una ricorrente crisi di valori e di sentimenti (tra i pentiti «per amore») con le crisi interne all'organizzazione militare di Cosa Nostra.
Ci sono in questo film padri mafiosi che mandano i figli a uccidere in trasferta, come si fa normalmente per la prima gita fuori porta; e figli mafiosi che favoriranno l'omicidio del padre; i delitti che compiono, tra loro questi ragazzi li chiamano «ammazzatine»; e il primo attentato per conto del racket del «pizzo» assomiglia a un semplice atto di bullismo contro un omosessuale, e viene festeggiato con un bagno, tutti nudi, a Mondello con le turiste scandinave.
Scandalizzati dal montaggio in sequenza delle scene d'amore dei due protagonisti con la crudele esecuzione di due «scippatori» bambini, i critici si sono mostrati tanto avari di stellette per questo film di pregio, semplicemente perché non hanno capito tutto il mistero di un secolare stillicidio di crudeltà e umanità; tutta la banalità del male di una quotidiana industria della violenza, che - a differenza dei modelli più propagandati della camorra napoletana - in Cosa Nostra «programma» delitti e affari, governa e «punisce» la piccola criminalità, alterna stragi e trattative, stempera le urla di dolore nella mesta risata - «incomprensibile», come hanno scritto alcuni nostri colleghi da Venezia - di protagonisti un poco feroci, un poco umani, un poco assassini, un poco pentiti, un poco dolci e un poco amari.

il Riformista 19.9.07
Il referendum dei lavoratori? Un lascito di Di Vittorio
di Paolo Franchi


Fausto Bertinotti non potrà partecipare, domenica, alla tavola rotonda su Giuseppe Di Vittorio con Guglielmo Epifani, Emanuele Macaluso, Innocenzo Cipolletta e lo storico Francesco Barbagallo organizzata dal nostro giornale, nell’ambito del progetto Storie Interrotte, all’Auditorium di Roma. Aveva molte cose da dire, però, sul passato e sul presente, e ci teneva a dirle: le ha affidate a questa conversazione col Riformista.
È convinto, Bertinotti, che Di Vittorio abbia lasciato, sulla Cgil e sul sindacalismo italiano, un’impronta fortissima, molto più forte di quella che De Gasperi, Togliatti e Nenni lasciarono sui loro partiti: «Nei partiti di massa ci furono dei cambiamenti di fondo, persino dove, è il caso del Pci, il continuismo era più forte. Nella Cgil no. Di Vittorio è il fondatore del sindacato moderno in Italia, anche e soprattutto nel senso che ne ha fondato la visione del mondo: “un sindacato autonomo dai padroni, dal governo, dai partiti”, come diceva lui. Ogni volta che la Cgil ha allentato questo ancoraggio, ha perso la bussola». Stiamo parlando del Protocollo, della consultazione, della manifestazione del 20 ottobre, presidente? «Io non so se l’accordo tra sindacati e governo sia, diciamo così, figlio di Di Vittorio. Il referendum indetto da Cgil, Cisl e Uil tra i lavoratori sicuramente sì. E altrettanto sicuramente ha molto da spartire con il lascito di Di Vittorio il fatto che, scandinavi a parte, i sindacati italiani, che pure vivono tante difficoltà, sono i più forti d’Europa. Persino per quanto riguarda il punto più dolente: in Francia di contratti nazionali non si parla più da un pezzo, in Spagna tanto meno, persino in Germania questo istituto è stato ampiamente sforacchiato».

l’Unità 19.9.07
«Bentornati lettori nel mio Medioevo»
di Maria Serena Palieri


KEN FOLLETT accompagna l’uscita in Italia - in «prima» mondiale - di Mondo senza fine: diciotto anni dopo, ecco il sequel del romanzo considerato da critica e pubblico il suo capolavoro, I pilastri della terra. L’abbiamo incontrato

Giacché i tessuti svolgono un ruolo centrale nel nuovo romanzo di Ken Follett, e visto, in aggiunta, che Follett è un uomo che tiene moltissimo alla propria personale eleganza, descriviamo in dettaglio com’è vestito: abito a un petto in tropical wear quadrettato bianco e nero, camicia candida, cravatta viola a bande. Chioma d’argento, viso roseo, gentilezza squisita, Ken Follett è a Roma, prima tappa del minitour con cui accompagna l’uscita in Italia per Mondadori, in «prima» mondiale, di Mondo senza fine, il romanzo che, diciotto anni dopo,consegna ai lettori, in più di 1.300 pagine da leggere d’un fiato, il seguito dei Pilastri della terra (stasera alle 21,30,lo scrittore sarà a Firenze in piazza della Repubblica per un reading). Tessuti? Sì, perché l’immaginaria cittadina di Kingsbridge, già teatro in quell’alto Medioevo dell’impresa architettonica di mastro Tom - la costruzione della cattedrale - con i suoi filatori, tessitori e tintori è ora, due secoli dopo, in questo Trecento quasi-borghese, sede di un importante mercato della lana. E perchè sarà con un’innovativa tecnica di tintura - il gioioso «scarlatto» copiato dai maestri italiani e che vince sul medioevale, triste bruno - che la protagonista femminile, Caris, ne salverà l’economia. Mentre la controparte maschile, il suo amato Merthin, duecento anni dopo prosegue, e con che genio, l’opera di Tom, edificando il più bello dei ponti e la più alta delle torri da cattedrale. Intorno, l’Inghilterra di Edoardo III, l’inizio della guerra dei cent’anni e la calamità della «morte nera», la peste. Ma anche il duello che nuove mentalità combattono con la nobiltà feudale e con una Chiesa oscurantista, dipinta come una sentina d’ogni vizio. Ken Follett è un bestsellerista. Perché il suo personale record di copie vendute è undici milioni, con I pilastri della terra. E perché ha ben chiaro di voler piacere al suo pubblico: quando nel 2004 lo incontrammo al Festivaletteratura di Mantova ci spiegò benissimo, per esempio, qual è il mix di domesticità e suspense che tiene avvinto il lettore. Però Follett è un bestsellerista sui generis: la sua popolarità non deriva, com’è di solito, dall’incontro col «low», con la corda «bassa» del pubblico. Follett è un re delle vendite che incanta con personaggi che inseguono valori libertari, anticonformisti. Appunto, partiamo da Caris, fanciulla il cui sex appeal consiste nell’intelligenza, imprenditrice della lana, accusata di stregoneria, poi monaca miscredente, medico, badessa e solo alla fine - quando lei decide che è ora - moglie del suo Merthin.
Caris, a noi lettori, appare nel romanzo come il suo vero alter ego. Più che il protagonista maschile, Marthin. Sbagliamo?
«No, ora che ci penso credo che lei abbia ragione. Anche se Caris è una donna. Sennò come avrei potuto scrivere di lei per tante pagine, ed esplorandola così a fondo? Non condivido la sua ambizione, perchè Caris aspira a fare la guaritrice visto che, nel suo tempo, da donna le è interdetto fare il medico. Io, medico, non ho mai voluto esserlo. Ma è una ribelle, ha un conto aperto con l’autorità, e di questo so qualcosa».
Per la prima volta, in un’opera di fiction, un personaggio femminile abortisce e non trascorre le successive mille pagine a farsene una colpa. Caris, incinta per di più dell’uomo che ama, rinuncia lucidamente al figlio. Come mai lei ha deciso di infrangere questo, che sembra rimasto l’ultimo tabù?
«Nella mia esperienza io vedo donne che rimpiangono profondamente un aborto fatto. Altre che non lo rimpiangono affatto, non si pentono e, anzi, sentono d’aver effettuato la scelta giusta. Credo che questo dipenda da dove una donna si trova, in quale momento della sua vita, quando ciò accade. E se è stata una decisione che ha preso lei stessa, liberamente».
Lei coltiva un’amicizia con Erica Jong. C’è lo zampino dell’autrice di «Paura di volare» nelle sfide che i suoi personaggi femminili pongono a se stessi?
«A Erica noi scrittori dobbiamo essere tutti grati perché è stata la scrittrice che, nei primi anni Settanta, ha chiarito sulla pagina che l’umanità è divisa in due generi ben definiti. Mi ricordo lo stupore con cui in una riunione “controculturale”, così le chiamavamo all’epoca, sul Vietnam o qualcosa del genere, accogliemmo la tipa che si alzò in piedi e osservò “Sì, siamo tutti uguali. Ma com’è che sono sempre donne a battere a macchina e a preparare il tè?”. Simone de Beauvoir, Erica Jong, Germaine Greer, Betty Friedan, ecco quattro nomi che hanno cambiato il mondo. Per fortuna nostra, tutte in quello scorcio di anni.»
Visto che ha citato Germaine Greer, cosa pensa del suo giudizio, dato nel decennale della morte, su Lady Diana, a suo parere un’«incapace nevrotica»?
«Questa è Germaine. Dice quello che pensa e se ne infischia delle conseguenze».
Perché, dando un seguito ai «Pilastri della terra», l’ha ambientato nel Trecento?
«Ho pensato da subito a un sequel di quel romanzo. E mi sono chiesto per quindici anni se fosse giusto scriverlo. Cercavo un argomento, uan sfida grandiosa come, nel primo, era la costruzione d’una cattedrale. E ho trovato la peste nera, l’epidemia incredibilmente devastante che, nel 1348, cambiò il mondo».
A Kingsbridge, tra la prima e l’ultima pagina di «Mondo senza fine», vince la luce: feudatari tiranni e monaci oscurantisti vengono sconfitti. Lei crede che la storia sia una freccia che va verso il meglio, crede nel Progresso?
«No, quella è un’idea che si annida nelle pagine di Hegel o di Marx. Io, da non credente, ho una visione singolarmente, in qualche modo, teologica: noi umani non siamo candidati alla perfezione. Ma la storia è fatta di uomini e donne che combattono e questo porta al cambiamento. Non è detto, però, che la fine sia migliore dell’inizio».
Ambientazione rigorosa, psicologie anacronistiche, cioè simili alle nostre: è questa la ricetta vincente dei suoi romanzi storici?
«Di anacronismo mi accusano. Ma, se scrivo d’un personaggio femminile nel Medio Evo, posso sceglierne uno che ubbidisce ale convenzioni? No. E di ribelli, certo, ce n’erano».
Da Eco a Follett, perché il Medioevo piace tanto al pubblico?
«Perché era un’epoca in cui si viveva in condizioni per noi intollerabili,, sporcizia, violenza, povertà... Però quelli di allora erano esseri umani come noi».
La sua Caris coltiva come un tesoro il proprio scetticismo, in fatto di religione. Lei?
«Caris si ribella alla tirannia intellettuale di monaci e preti, gli unici abilitati a fare i medici. Loro ritengono che la medicina consista nell’ubbidire agli antichi testi, lei che debba avere la precedenza l’esprienza. Io condivido la sua rabbia: è quella che provo quando sento certi gruppi americani sostenere che non c’è evoluzione, che Dio seimila anni fa creò personalmente ogni pianta e ogni singola specie».
Nel 2004 - blairiano - era un sostenitore convinto dell’intervento in Iraq. Oggi cosa ne pensa?
«Sbagliavo. Il mio governo ha sbagliato. Il mio paese ha sbagliato. Pensavo lo si facesse per sconfiggere un tiranno che, su base razziale, aveva ucciso migliaia di persone. Ma, peggio di Saddam Hussein, è il disastro che ha provocato la morte di un milione di iracheni. È una catastrofe a cui non vedo via d’uscita. Secondo alcuni ogni invasione è tale. Altri dicono che no, che per esempio in Kosovo è servita. Io non so dare una risposta».

Repubblica Firenze 19.9.07
"Così la peste distrusse Firenze"
Parla Ken Follett stasera in piazza col suo nuovo libro
di Fulvio Paloscia

Un palco di otto metri per il primo reading di "Mondo senza fine"
Ancora un´ambientazione medievale con un capitolo sull´epidemia del 1348
"Dopo la strage si affermò una classe medica decisa a rinnovare le conoscenze"
Polemico attacco di Franco Cardini: "Quelle descrizioni troppo fantasiose"

Piazza della Repubblica trasformata in un auditorium a cielo aperto. Un palcoscenico di otto metri per quattro, una platea di centinaia di sedie e un´accoglienza da rockstar. Il re della spy story Ken Follett ha scelto Firenze come prima città dove presentare, con un reading, il nuovo libro Mondo senza fine, pubblicato in anteprima mondiale da Mondadori (ad anno nuovo l´uscita nel resto d´Europa). L´evento, organizzato dalla libreria Edison, dal Comune e dalla Cassa di Risparmio, è stasera in piazza della Repubblica alle 21.30 (ingresso libero): l´attore Fabio Baronti leggerà pagine della traduzione italiana. Come un assassino che torna sul luogo del delitto, Follett immerge il libro nella stessa Inghilterra medioevale de I pilastri della terra, il suo bestseller più conosciuto insieme alla Cruna dell´ago: stesso il paese da cui parte la storia, Kingsbridge, stessa la temperie misteriosa e nera, ma il salto è di due secoli.
Diciassette anni dopo quello straordinario successo, lo scrittore inglese pedina la vita di quattro bambini che, la sera di Ognissanti, dopo aver assistito a un delitto, fuggono ognuno per la sua strada. Cresceranno, s´innamoreranno, ognuno andrà incontro al suo destino di partenze e di ritorni, ma le loro vite resteranno indissolubilmente legate, e quell´omicidio di cui sono stati testimoni peserà sulla loro esistenza come un macigno. Follett studia le loro reazioni ad un mondo in veloce cambiamento; li mette a dura prova sbattendoli contro eventi giganteschi: dalla guerra dei Cento anni alla spaventosa epidemia di peste che, a metà del Trecento, si diffonde in tutta Europa, mietendo vittime ovunque.
Uno di loro, diventato nel frattempo geniale architetto, si troverà a combattere la «morte nera» a Firenze, dove progetta palazzi per i mercanti della città: qui, entra in contatto con una società nuova, una brulicante metropoli ante litteram, nel 1348 ferita a morte dall´epidemia, deserta, impaurita. «Ho scelto Firenze - dice Follett - perché era la città più importante del quattordicesimo secolo: intratteneva rapporti commerciali con l´Inghilterra che si riforniva dei suoi meravigliosi tessuti. Per scrivere il capitolo su questo luogo che sperimentava nuove pratiche politiche e un nuovo modello di società, dominata non dai potenti, da re o duchi ma da litigiose famiglie mercantili, ho consultato manoscritti, documenti dell´epoca, testi storici».
Ma è proprio uno storico fiorentino a non stare al gioco e ad accusare Follett di «poca credibilità». Nei giorni scorsi Franco Cardini, già acerrimo detrattore di Dan Brown e del suo Codice da Vinci, sulle pagine dell´Avvenire ha denunciato le incongruenze e i falsi storici del romanzo, accusando Follett di «sciocchezze, banalità, errori». Soprattutto sul clero, di cui lo scrittore inglese offre una raffigurazione al limite del catastrofico, e sul conflitto tra Chiesa e ricerca scientifica davanti al diffondersi della pestilenza. Scrive Cardini: «Follett è liberissimo di essere ateo e anticlericale: ma, se decide di parlare del Medioevo, non è affatto libero d´ignorare tutto dell´autentica passione per la ricerca e l´innovazione che investe personaggi come Gerberto d´Aurillac, Ruggero Bacone e tanti altri: chierici, sacerdoti, religiosi e mistici, non qualche isolato sognatore alchimista o ereticheggiante».
Follett si difende: «Io non ho scritto un attacco alla Chiesa dall´esterno, ma un conflitto interno: la maggior parte dei medici facevano parte del clero, e tra di loro c´erano due scuole di pensiero in antitesi. Una era formata da tradizionalisti arroccati nella vecchiaia usurata delle loro idee, l´altra da progressisti propensi alla sperimentazione di nuove cure. Che, fortunatamente ha avuto la meglio, come spesso è accaduto durante la storia dell´umanità: altrimenti saremmo ancora qui a curarci con il guano». A Cardini, Follett consiglia «di leggere tutte le 1400 pagine del libro».

La Stampa 18.9.07
Islam: il dilemma della democrazia
L’iraniana Shirin Ebadi, Nobel per la pace 2003
, sarà domani alla prima giornata di Torino Spiritualità. Introdotta da Farian Sabahi, inaugurerà la sezione «Il corpo politico» con una lectio su Islam: il dilemma della democrazia. Anticipiamo uno stralcio del suo intervento.

Di fronte a governi islamici non democratici che giustificano l'oppressione abusando del nome dell'Islam, sono sorti moderni pensatori e studiosi islamici, formando un fronte unico di musulmani di diverse nazionalità che, mantenendo la sacralità dell'Islam, ha intrapreso una lotta contro i governi totalitari. Questo fronte unico non ha un nome, non ha un leader, non ha sede o filiali, ma ha luogo nella mente di ogni pensatore musulmano che, mantenendo la religione dei propri padri e dei propri antenati, rispetta la democrazia e non vuole ubbidire a nessun pretesto errato e non tollera l'ingiustizia. Crede fermamente che i governi che rifiutano la democrazia e i diritti umani siano obsoleti tiranni che, mascherando la loro natura oppressiva con una cosiddetta cultura nazionale o religiosa, intendono violare i diritti dei propri popoli.
L'Islam, invece, è una religione di eguaglianza. Il Profeta Maometto disse sempre: non c'è differenza tra il nero e il bianco, tra un arabo e un non arabo. Il Profeta, dopo aver conquistato la Mecca, decise di fondare un governo islamico. Prese in mano la guida della società in veste di governatore e di leader politico, chiedendo la «lealtà» del popolo, musulmano e non. Esprimere «la Lealtà» (Bei’at) significava votare. Secondo quanto racconta la storia, ci furono persone che non espressero la lealtà ma vissero liberamente nel paese islamico.
Il Profeta baciava la mano di sua figlia Fatima e la rispettava molto. Allora come si può, in una religione come questa, umiliare le donne e privarle dei loro diritti, e come si può proclamare errato il pluralismo culturale e dire apertamente che la democrazia non è compatibile con l'Islam?
Il vero problema non è nella natura dell'Islam. La questione importante è che, per varie ragioni, alcuni governi islamici non vogliono che sia presentata un'interpretazione dell'Islam compatibile con la democrazia e con i diritti umani. Per questo la cultura che governa i paesi islamici, compresa la loro cultura politica, ha bisogno di democrazia per poter comprendere le verità sociali con gli occhi aperti e per varare le leggi secondo le esigenze di oggi.
Il passo più importante da intraprendere per l'adeguamento culturale è di insegnare le fondamenta dell'Islam nella maniera corretta. Bisogna insegnare ai musulmani l'Islam all'avanguardia, bisogna insegnar loro che si può essere musulmani e vivere meglio, che si può essere musulmani e rispettare i princìpi dei diritti umani e della democrazia e realizzarli. Bisogna far sapere ai musulmani che la chiave del paradiso non è nelle mani dei governi islamici e che non tutto quello che si fa a nome dell'Islam è islamico.
Contro questi pensieri, oltre agli obsoleti fondamentalisti e ai governi non democratici, hanno protestato anche altri gruppi: quelli che cercano di far passare i comportamenti errati di alcuni musulmani o gruppi di musulmani come il vero Islam, presentando l'Islam agli occhi del mondo sotto il nome di «terrorismo», per promuovere meglio la loro teoria sullo scontro tra le civiltà e per poter giustificare le guerre nel Medio Oriente.
L'Islam progressista, che approva la democrazia, rispetta il pluralismo culturale, crede nei diritti umani, è attaccato da due fronti: dai fondamentalisti che giustificano i propri misfatti in nome dell'Islam e dai nemici dell'Islam che, distorcendone l'immagine, cercano di giustificare le proprie azioni belliche; questo è il punto comune tra gli amici ignoranti e i nemici consapevoli dell'Islam. Il dovere critico dei musulmani consapevoli in questo momento storico cruciale è di presentare il vero volto dell'Islam, che è colmo di affetto, di generosità e misericordia ed è contro la violenza e il terrorismo.
L'Islam non è una religione di terrore e di violenza. Se viene assassinata una persona in nome dell'Islam, siate certi che è stato compiuto un abuso in suo nome. L'Islam è contro la dittatura. I Governi islamici abusano in nome dell'Islam. Abusare in nome della religione non appartiene solo ai musulmani: non si dimentichino i campi di lavori forzati staliniani della Siberia o il massacro degli studenti in Cina. Quei governi giustificavano e giustificano le loro crudeltà con il socialismo. Le pagine della storia sono testimoni delle crudeltà commesse dalla Chiesa nel Medioevo, da chi si considerava cristiano e abusava in nome del cristianesimo.
Il modo migliore di affrontare i governi non democratici che operano in nome di un'ideologia o di una religione è di disarmarli di quest'arma - di non permettere che la religione e l'ideologia diventino i pilastri del governo. La religione è un fatto personale e intimo di ogni persona. I governi non devono approfittare della religione per promuovere i propri interessi e scopi politici.
Essendo questo un discorso sull'Islam e sul suo rapporto con la democrazia e i diritti umani, devo aggiungere anche questo: in seguito alla «Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo» i governi islamici, come anche il governo dell'Iran, hanno sottoscritto la «Dichiarazione islamica dei diritti dell'uomo». Io più volte ho dichiarato di essere contraria alla «Dichiarazione islamica dei diritti dell'uomo», perché se i musulmani vogliono avere una dichiarazione dei diritti umani separata, motivando questo con la loro religione, dovrà essere concessa la stessa cosa ai credenti delle altre religioni; e quindi saremo testimoni della dichiarazione ebraica dei diritti dell'uomo, la dichiarazione buddista dei diritti dell'uomo e migliaia di altre dichiarazioni dei diritti dell'uomo. Governare il mondo in base a tutte le religioni esistenti sulla terra è una cosa impossibile.
Quello dei diritti umani è un concetto universale e si adatta a tutte le culture e le religioni, non c'entra con l'Oriente o l'Occidente, è uguale per tutti. Anche i musulmani lo devono rispettare. Dobbiamo cominciare dai principi che sono condivisi da tutti e non quelli nei quali crediamo solo noi. Invece di scontro tra le civiltà, possiamo parlare di dialogo tra le civiltà. Lo scontro tra le civiltà non porta che alla rovina. È molto più probabile che il dialogo tra le civiltà possa trovare la soluzione più logica per i problemi del mondo.