lunedì 24 settembre 2007

Corriere della Sera 24.9.07
Torna l'«Apocolocintosi», feroce satira del filosofo contro l'imperatore Claudio che prima aveva lodato
Intellettuali e trasformismo Tutti gli eredi di Seneca
Da apologeti a denigratori in ogni cambio di regime
di Luciano Canfora


Un esercito di post sovietici è diventato di colpo anticomunista
Dopo la caduta di Bonaparte molti sostenitori lo rinnegarono

«La cronaca di questi ultimissimi anni e mesi — scriveva Carlo Ferdinando Russo al principio del 1946 — ci ha offerto di continuo molte di queste conversioni ingiuriose, e non sempre da parte di uomini del tutto umili e vili. Il merito di Seneca è di aver dato espressione artistica, o meglio letteraria, a questo stato d'animo ». L'allora ventiquattrenne allievo di Giorgio Pasquali scriveva nel pieno delle tumultuose, repentine, conversioni all'antifascismo dell'Italia del 1945 e ricorreva al termine felicissimo di «conversione ingiuriosa» per indicare quel misto di opportunismo, di risentimento contro se stessi e contro il «tiranno» e anche di schietto ripensamento che dominò le coscienze di «uomini non del tutto umili e vili», cioè in primis del ceto intellettuale.
Un ceto che ha tutta la necessaria attrezzatura per capire più in fretta degli altri e ha, forse da noi più che altrove, un «guicciardinismo » nel dna che, coniugato all'intelligenza veloce dei mutamenti, può dare risultati sconcertanti.
Lo spunto era un commento alla satira contro l'imperatore Claudio appena morto, tramandata come di Seneca e nota anche con il sibillino titolo di Apocolocintosi, parodia di «Apoteosi», dove al posto del termine indicante «dio» c'è «zucca» considerato sinonimo di «stolto». Grande l'attualità di quel feroce sberleffo di Seneca contro il defunto «tiranno» nell'Italia del 1945. Essa scaturiva dalle circostanze in cui l'Apocolocintosi era stata scritta e dalla carriera di chi l'aveva scritta. Seneca «filosofo » era figlio di Seneca «retore» (ma si potrebbe anche dire «storico»). Il padre aveva scritto una storia delle guerre civili romane, una storia alquanto «repubblicaneggiante»: ma aveva preferito non pubblicarla. La pubblicò il figlio, che si era formato in quei sentimenti «di opposizione» e aveva approfittato, forse, di una di quelle parentesi di tolleranza che ogni tanto lampeggiano anche nel corso di un regime autoritario.
Caligola (37-41 d.C.) all'inizio del suo regno aveva addirittura consentito la circolazione delle Storie di Cremuzio Cordo messe al bando sotto Tiberio perché troppo repubblicane. Ma presto tutto era cambiato, e con Claudio (41-54 d.C.) gli spazi di tolleranza filo-senatoria si erano rapidamente ristretti. Per certi versi, come fu scritto da Arnaldo Momigliano nel suo libro giovanile sull'Opera dell'imperatore Claudio (1931), Claudio riproponeva lo stile di Augusto: «Apparente equilibrio tra le antiche classi dominanti e l'imperatore». Insomma la «libertà» (del Senato) fu presto daccapo in pericolo e a Seneca, frequentatore della corte ma forse troppo libero nel condursi, toccò il confino, in Corsica, con l'immancabile accusa di adulterio. Per farsi perdonare si umiliò fino a esaltare un liberto di nome Polibio molto protetto da Claudio. È la malfamata Consolatio ad Polybium. Non senza adeguata attesa, Seneca fu «perdonato». (Come non pensare alle suppliche al Duce dal confino?).
Seneca tornò a corte, protetto da Agrippina, come precettore di Nerone erede designato di Claudio. Si adattò. Claudio muore, probabilmente avvelenato, nel 54. Nerone, nuovo principe diciassettenne, parla davanti ai soldati e davanti al Senato e ai funerali solenni di Claudio comprendenti anche la sua apoteosi (come ormai di prammatica), e parla pronunciando tre discorsi tutti e tre elaborati da Seneca. Compresa la laudatio funebre, che fu talmente esagerata da suscitare l'insofferente reazione degli astanti. Ma negli stessi giorni Seneca — se la satira è opera sua — mette in circolazione la feroce
Apocolocintosi dove l'apoteosi è calpestata. Lì l'arrivo di Claudio tra gli dei si risolve in un disastro e il neo-dio viene ricacciato nell'Ade, dopo una dura filippica di Augusto contro di lui nel Senato celeste. E nell'Ade è condannato a ripetere all'infinito un gesto idiota.
Non è dunque un caso che nel 1944-1948 si siano succedute una serie di edizioni e traduzioni della satira, più importante tra tutte quella di Russo. (Oggi essa viene ritradotta, per la Salerno editrice, da Luciano Paolicchi sulla base dell'edizione Teubneriana di Renata Roncali). «Lo spirito anti-tirannico che aleggia in tutta l'operetta le ha assicurato un largo interesse in Italia subito dopo la caduta del fascismo» ha scritto Scevola Mariotti. Direi ben più che «largo interesse». È stata come lo specchio di una stagione umiliante e atroce. Si potrebbe quasi seguire la storia degli intellettuali italiani nella prima metà del Novecento attraverso le reazioni di fronte a questo scritto e all'intera vicenda di Seneca e Claudio. Nel 1920, dunque prima del «diluvio», Concetto Marchesi, nel suo memorabile saggio su Seneca, esclude che la inaudita laudatio funebre di Claudio potesse averla scritta Seneca proprio mentre componeva quella «beffa spietata». La lunga notte del fascismo, il giuramento coatto di fedeltà al regime, il rovello di averlo dovuto fare e l'empito, dopo il 25 luglio, di «lavare » quella macchia erano ancora di là da venire. Nel 1931, nel momento in cui il fascismo è al suo apice, in prossimità del «decennale », Momigliano legge la Consolatio ad Polybium
(la «supplica» di Seneca dal «confino») come un sottile sarcasmo contro il tiranno. Nel 1945-46 Russo scrive, non a torto: «E' commovente la critica moderna nel suo tentativo di giustificare in ogni modo la Consolatio ad Polybium ». Parole dettate dall'esperienza — scrive il giovanissimo critico— «di questi ultimissimi anni e mesi». I quali avevano visto larga parte del ceto dei dotti e degli «intelligenti » riscrivere se stessi e i propri atti, ovvero occultarli. Pentimenti autentici talvolta, più spesso opportunismi.
La tematica delle «conversioni ingiuriose» è inesauribile, e ritorna a ogni mutar di regime. Dopo la definitiva caduta del Bonaparte (e dopo 25 anni di rivoluzioni e restaurazioni) si poterono allestire in Francia Dizionari delle banderuole e Dizionari dei Protei moderni, che sono diventati dei classici. Quando il fascismo trionfò stormi di intellettuali vi si intrupparono sostenendo di essere stati fascisti sin dal principio con la stessa levitas con cui, alla sua fine, sostennero di essere sempre stati cripto- antifascisti e di aver caricato di sarcasmo l'adulazione. Non bisognerebbe però dimenticare che, quando fa comodo, i pentiti che si pretendono oppositori con valore retroattivo sono guardati con favore. Quanti post-sovietici già stati molto in alto nel periodo sovietico — a cominciare da Eltsin— sono diventati degli enfants gâtés dei tempi nuovi? E quanti anche da noi non si accingono — nel plauso generale — ad un grande futuro dopo aver candidamente sostenuto di «non essere mai stati comunisti»?
Ritoccando pochi anni dopo la sua introduzione, Russo scrisse scherzosamente, prendendo un po' le distanze da se stesso, di voler lasciar perdere «gli storici piagnoni». In certo senso non aveva torto, ma il nuovo stato d'animo era anche l'effetto del raffreddarsi delle passioni. Ciò che però in questa materia inesauribile, e destinata a ciclici ritorni, non va perso di vista è la differenza tra l'intellettuale adulto e calcolatore, pronto alla conversione cronometrica, e il giovane che nasce e si matura quando il regime già c'è e che avrà più dura fatica a uscirne mentre l'altro sapientemente piroetta.

l’Unità 24.9.07
Da Leonardo al web. La vita è una rete
di Gaspare Polizzi


INTERVISTA CON FRITJOF CAPRA, il fisico celebre per aver scritto Il Tao della fisica, un saggio nel quale paragonò concetti scientifici con quelli delle tradizioni spirituali dell’Oriente. Oggi parla di ecologia attraverso lo studio del maestro di Vinci

In Italia per discutere del suo nuovo libro, La scienza universale: arte e natura nel genio di Leonardo (Rizzoli, pp. 413, euro 23,00), Fritjof Capra, fisico di origine viennese, studioso dei sistemi complessi e autore di bestseller mondiali come Il Tao della fisica (1975, tradotto in 23 lingue, con 43 edizioni), incontrerà oggi Paolo Galluzzi, direttore dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza e studioso di Leonardo, in un Dialogo su Leonardo e la scienza moderna (Altana di Palazzo Strozzi, ore 17). Abbiamo colto l’occasione per porre a Capra alcune domande sul suo itinerario di ricerca e discutere della sua interpretazione di Leonardo.
Nella Prefazione al suo ultimo libro, «La scienza universale», ricorda l’impulso che lo spinse a scriverlo, a metà degli anni Novanta, dopo aver «annusato» Leonardo per trent’anni: la mostra di disegni leonardeschi ospitata dalla Queens Galery di Londra. Possiamo dire che l’arte di Leonardo, i suoi disegni, che spaziano dall’architettura all’anatomia, hanno aperto la strada per ricostruire la sua scienza?
«Possiamo dire che l’arte di Leonardo ci inspira a studiare la sua scienza, ma anche questa scienza non può essere compresa senza la sua arte, né l’arte senza la sua scienza. L’approccio di Leonardo alla conoscenza scientifica era visivo; era l’approccio del pittore. “La pittura”, dichiara, “abbraccia in sé tutte le forme della natura”. Credo che questa dichiarazione sia la chiave per capire la scienza leonardiana. Leonardo afferma ripetutamente che la pittura coinvolge lo studio delle forme naturali e sottolinea il collegamento stretto tra la rappresentazione artistica di quelle forme e la comprensione intellettuale della loro natura interiore e dei principi alla loro base».
Il libro su Leonardo è apparentemente distante dai precedenti. Mi sembra opportuno, per i lettori italiani, ripercorrere brevemente il suo itinerario intellettuale. Prima di pubblicare «Il Tao della fisica», ha lavorato come fisico teorico a Parigi, Santa Cruz, Stanford, Londra, Berkeley, studiando soprattutto la fisica delle particelle. Cosa l’ha spinta a lasciare la fisica per la filosofia e la divulgazione scientifica?
«Già da giovane mi ero sempre interessato alla filosofia, e una delle influenze maggiori fu il libro di Werner Heisenberg, Fisica e filosofia che ho letto la prima volta quando ero studente a Vienna. Negli anni Sessanta mi sono interessato alla filosofia orientale, ciò che poi mi ha portato a scrivere il mio primo libro, Il Tao della fisica, paragonando i concetti fondamentali della fisica moderna con quelli delle tradizioni spirituali dell’Oriente. Sono stato anche molto influenzato dai movimenti sociali e culturali degli anni Sessanta, e nel mio secondo libro, Il punto di svolta, ho discusso le implicazioni del nuovo paradigma scientifico per i nostri problemi sociali e politici. Mi sono accorto che per farlo, i concetti della fisica non bastavano, perché questi problemi sociali - la medicina, l’economia, l’ecologia, etc. - avevano tutti da fare con la vita, con i sistemi viventi (organismi, sistemi sociali, ed ecosistemi). E così dalla fisica mi sono rivolto alle scienze della vita, e in particolare all’ecologia».
«Il Tao della Fisica» fu un libro che coglieva bene lo spirito del tempo: cercava di avvicinare l’esigenza di una nuova spiritualità, diffusa negli ambienti giovanili, con la radicale trasformazione della descrizione naturale introdotta soprattutto dalla meccanica quantistica. Ritiene che ancora oggi si possa sostenere una visione «spiritualistica» della descrizione fisica?
«Sì, ma ci sono anche altre strade, e specialmente l’ecologia».
«Il punto di svolta», del 1982, ha avviato un processo di riunificazione tra le scienze della natura e quelle della vita, nel quadro della teoria dei sistemi complessi. Per questa strada veniva definitivamente abbandonato il paradigma meccanicistico proprio della fisica classica e si individuava nelle teorie della complessità il nuovo orizzonte unificante per una descrizione della natura che avesse anche un’attenzione particolare a una «nuova alleanza» tra uomini e mondo. Le teorie della complessità possono oggi configurarsi come un nuovo paradigma per la conoscenza della natura vivente e inanimata?
«Il mio libro La scienza della vita è in un certo modo una nuova versione del Punto di svolta per il nostro nuovo secolo. La teoria della complessità ha un ruolo centrale».
«La rete della vita» (1996) e «La scienza della vita» (2002, ma il titolo inglese è più chiaro: «The Hidden Connections: A Science for Sustainable Living») propongono a livelli diversi una comprensione unificata delle strutture materiali della vita, delle forme della mente e dei sistemi sociali, e si aprono anche a una nuova prospettiva tecnologica e progettuale che pratichi «lo sviluppo sostenibile». Nei suoi molteplici impegni di militante ha affrontato temi politici, economici ed ecologici spaziando dall’economia alla bioarchitettura. Può dirci qualcosa sull’applicabilità del modello delle «Economic Networks», veri e propri ecosistemi di fabbriche a bassissimo inquinamento ambientale?
«In questi libri offro una sintesi della nuova comprensione della vita che è emersa nelle scienze durante gli ultimi 25 anni. Il concetto centrale è la rete. Ci siamo resi conto nella scienza che la rete è lo schema d’organizzazione fondamentale di tutti i sistemi viventi. Gli ecosistemi sono reti di organismi, gli organismi sono reti di cellule, e le cellule reti di molecole. E poi ci sono le reti sociali, ossia le comunità, e le reti tecnologiche di comunicazione. Ovunque vediamo la vita, vediamo reti. L’analisi delle somiglianze e differenze fra le reti biologiche e sociali è la parte centrale della mia sintesi della nuova interpretazione scientifica della vita. Il mio scopo non è solamente di offrire una visione unificata di vita, mente, e società, ma anche di sviluppare un approccio coerente e sistemico ai problemi critici della nostra epoca. Mentre questo nuovo secolo si dispiega, possiamo osservare due sviluppi che avranno un grande impatto sul benessere e il modo di vivere dell’umanità. Tutti e due hanno a che fare con reti e con nuove tecnologie. Uno sviluppo è l’ascesa di un nuovo capitalismo globale; l’altro è la creazione di comunità sostenibili basate sulla pratica dell’”ecodesign”, vuol dire di progettazione ecologica. Mentre nel capitalismo globale si tratta di reti elettroniche e di flussi di denaro e informazioni, nell’ecodesign si tratta di reti ecologiche e di flussi di energia e materia. Lo scopo dell’economia globale, nella sua forma presente, e di alzare al massimo la ricchezza delle sue élites. Lo scopo dell’ecodesign è di alzare al massimo la sostenibilità della rete della vita. La sfida centrale della nostra epoca è di riprogettare le nostre infrastrutture, tecnologie e industrie, in modo da renderle ecologicamente sostenibili».
Torniamo a Leonardo, che legge come promotore di una scienza della qualità e della globalità, come «precursore» delle teorie della complessità. Lei scrive a chiare lettere che valuta «il suo pensiero dalla prospettiva dei progressi più recenti della scienza moderna». Non pensa di rischiare da un lato le critiche dei filologi leonardeschi, che possono considerare tale lettura poco attenta al contesto storico-culturale rinascimentale, e dall’altro quelle della comunità scientifica, che non vede in Leonardo né le equazioni non lineari della dinamica dei sistemi complessi, né la matematica galileiana? L’«Appendice sulla geometria delle trasformazioni» di Leonardo propone la geometria di Leonardo o una geometria da lei formalizzata con gli strumenti matematici attuali? E ancora: si può dire - come sostiene - che Leonardo sperimentò la topologia degli insiemi di punti e la topologia combinatoria?
«Quando si propone una nuova interpretazione dell’opera di un grande artista, filosofo, o scienzato, si rischia sempre di affrontare le conoscenze tradizionali. Però, ho fatto grande attenzione nel presentare il pensiero scientifico di Leonardo nel contesto intellettuale e culturale della sua epoca. Sono stato molto lieto che ciò è stato riconosciuto dal doyen dei leonardisti, Carlo Pedretti, che a visto nel mio libro “una valutazione brillante e rigorosa dell’approccio di Leonardo alla scienza, analizzato nel contesto culturale della sua epoca e attraverso lo sviluppo del pensiero scientifico nei secoli successivi”. L’Appendice presenta la mia interpretazione della geometria leonardiana che egli chiama “geometria che si fa col moto”, e ch’io vedo come una forma rudimentale di topologia.
Un’ultima domanda che scaturisce dalla particolare atmosfera «religiosa» che si respira oggi in Italia. Da un lato si assiste, con papa Ratzinger, a una riaffermazione della tradizione cattolica, anche sul piano teologico, dall’altro lato emerge una spiritualità diffusa, eclettica, a volte confusa. Da scienziato e da filosofo che ama «cogliere le connessioni nascoste tra i fenomeni» come giudica tale atmosfera? Ritiene che la
sua prospettiva ecologica e vitalistica converga con la dimensione
religiosa o si mantenga nel solco del pensiero laico?
«Io ritengo che l’ecologia al livello più profondo converga con la prospettiva spirituale che è al cuore di tutte le religioni».

Repubblica 24.9.07
Ecco per chi vota il Dio d’America
di Vittorio Zucconi


Non solo Bush, "il presidente che piange sulle spalle del Signore". Così da Obama a Hillary la religione sta rivoluzionando la campagna Usa. E la sinistra
La Clinton invece "un po’ fanatica" e Obama assiduo frequentatore di una Chiesa afro
Il pluridivorziato Thompson è di fede tiepida e Giuliani si batte per gay e aborto

Washington. Nella corsa alla Casa Bianca scende in campo anche la religione. O meglio la fede. La novità è che stavolta l´afflato mistico non riguarda i candidati repubblicani, ma quelli democratici. Tutti hanno scelto di avere Dio al loro fianco per conquistare quei 30 milioni di voti che la "Christian Right" sa mobilitare condizionando l´elezione presidenziale. E, mentre i repubblicani sembrano disinteressati, i leader democratici manifestano una passione per i «valori tradizionali» che fino a poco tempo fa parevano estranei al loro elettorato. Così la Clinton informa che la fede l´ha sorretta nella crisi matrimoniale con Bill, Obama frequenta una chiesa di Chicago e persino Edwards ricorda la sua «profonda educazione cristiana».

«In chiesa, io? - brontola la bella voce impostata e illanguidita dall´accento sudista - In chiesa ci vado soltanto quando sono a casa in Tennessee, giusto per fare contenta la mia mamma». E se non c´è la mamma? Si stringe nelle spalle: «Dove abito a Washington, le chiese sono poche e lontane». Sembra soltanto una piccola bugia, la sua, visto che dove abita l´ex senatore Fred Thompson, attore in servizio e ora candidato repubblicano alla Casa Bianca, nel sobborgo virginiano chiamato McLean, ci sono 16 chiese di confessioni cristiane "tutti frutti", Cattolici, Battisti, Episcopali, Ortodossi, Luterani, Presbiteriani, Metodisti, Avventisti. Avrebbe soltanto l´imbarazzo di scegliere il Dio giusto e dire all´autista della limousine dove portarlo.
Ma Fred non è un cittadino americano qualsiasi di tiepida fede. Thompson è il candidato di tendenza, il salvatore atteso e fin troppo annunciato dalla destra di un partito repubblicano che sembrava essersi per sempre venduto l´anima a Dio in cambio del potere politico. Ora la grande speranza bianca di teo-con, neo-con superstiti, cristianisti, crociati, integralisti, "dominionisti" - come li chiama il giornalista Bill Moyers, cioè quelli che usano Gesù Cristo «come un randello da picchiare in testa agli avversari per dominare la politica» - informa gli elettori devoti che lui in chiesa ci va soltanto per far contenta la mamma.
Se Fred Thompson, che nei sondaggi elettorali è schizzato fino a raggiungere il cavallo di testa, il sindaco dell´11 settembre Rudy Giuliani, osa parlare così, qualche cosa di strano è avvenuto nel clima degli umori nazionali. Un cambio di vento si è alzato a scompigliare le rotte dei naviganti verso la Casa Bianca. Quel Dio dell´America, che da dieci anni condiziona e terrorizza ogni candidato con i 30 milioni di voti che la "Christian Right" sa mobilitare, sta cambiando partito? Anche l´Onnipotente si è stancato di essere tirato per la toga dalla destra? Sono oggi i democratici a muoversi in processione salmodiante, a testimoniare una "pietas" cristiana, una passione per i "valori tradizionali" della quale, fino a ieri, l´elettorato aveva scarse tracce. E sono i maggiorenti repubblicani a esibire invece pallide credenziali bibliche.
Mentre Fred Thompson ci confessava di essere un cristiano di complemento, e Rudy Giuliani è fuori dalla cattedrale per la sua tolleranza per gay e aborto, sull´altra sponda si assiste a un germogliare di professioni di fede. Hillary Clinton, che non aveva mai manifestato estasi mistiche, ora ci rivela che «soltanto la mia grande fede in Dio mi ha sorretto durante la crisi del mio matrimonio e gli anni della Casa Bianca». Vade retro Monica. Barack Obama ci informa che frequenta con puntigliosa regolarità, insieme con la moglie, una chiesa molto afro di Chicago, la Trinity United Church. E la terza ruotina del campo democratico, John Edwards il vanesio, dileggiato per un taglio dei bei capelli costato 400 dollari, si inginocchia: «Avevo dimenticato la mia profonda educazione cristiana - sussurra a un confessionale televisivo - ma da qualche tempo la mia fede è tornata a ruggirmi dentro», proprio così dice, «roar», come il leone della Metro. Tutti in coincidenza con l´apertura della stagione elettorale.
Lo schieramento liberal sta cercando di rubare il messalino a una destra che ha troppo abusato di Dio e non gli ha fatto fare una bellissima figura, in Iraq, nella assistenza ai derelitti di New Orleans, nei bordelli e nei gabinetti pubblici frequentati dai campioni della ipocrita moralità valoriale. E nella breccia aperta dalla strumentalizzazione di Bibbie, Vangeli e Lettere degli Apostoli, si tuffano, con eguale spudoratezza elettorale coloro che fino a ieri venivano descritti come gli Anticristi. Gli uffici stampa della Clinton riesumano la lontana fanciullezza della signora quando pare fosse giovinetta assai pia. «Era religiosissima, addirittura un po´ fanatica», ci bisbiglia Rahm Emanuel, il presidente del partito, e il secondo aggettivo pare più credibile del primo. Già si è espressa per una limitazione della libertà di aborto. «È bello vedere quanti politicanti scoprono che la via per la Casa Bianca passa per Damasco», diceva ironico Pat Robertson, lui stesso fondatore e leader di una congregazione cristiana dalla quale cercò di partire per la conquista del potere temporale. «Agli occhi di un candidato, la cabina elettorale si trasforma prodigiosamente in un altare», osserva il politologo E.J. Dionne.
La storia del rovesciamento di campo che il Dio dell´America avrebbe compiuto comincia da una riunione riservata che i capi delle varie famiglie della "destra di Dio" organizzarono nel lusso del Ritz-Carlton ad Amelia Island, in Florida, sette mesi or sono. Era febbraio. Il loro confortevole concilio doveva decidere su quale profeta puntare, per salvare il partito che rischiava di sgretolarsi nella frana dell´Iraq e nella lunga agonia di George W. Bush, il Presidente «che piange sulla spalla di Dio». Di fronte a pezzi grossi quali James Dobson di "Focus on the Family" (antiabortisti implacabili), di Jerry Falwell («l´11 settembre fu il castigo divino contro i gay e i peccatori») dopo poco richiamato nei cieli a render conto delle sue sciocchezze e di Grover Norquist, l´apostolo americano del "meno tasse a Cesare", sfilarono i top model del partito repubblicano.
La sentenza del sinedrio a cinque stelle fu desolata. I buoni cristiani presenti alla sfilata, come il fu governatore dell´Arkansas, Mike Huckabee, un pastore Battista ordinato, o il senatore del Kansas Sam Brownback, eroe dei creazionisti contro gli evoluzionisti, erano simpatici pesi leggeri senza chances di vittoria. Il reverendo Huckabee non supera il 3% dei sostegni, nel suo partito, e Brownback è rumore di fondo. Ma in fatto di credenziali evangeliche e apostoliche, anche i pesi massimi erano deprimenti. Rudy Giuliani, cattolico nominale ma con due divorzi, tre mogli, lampanti adulteri, figli che non gli rivolgono più la parola e preoccupanti frequentazioni (puramente amicali) di gay non può entusiasmare i crociati, né fingere di essere quello che non è. Fred Thompson, ennesima caricatura di Ronald Reagan (un uomo di vaga fede) è anche lui pluridivorziato e risposato a 60 anni con una donna di 30, e con meritata fama di cacciatore di gonne. John McCain «prega regolarmente» in privato, ma non ostenta in pubblico.
L´unico militante dichiarato, Mitt Romney del Massachusetts, è un vescovo, addirittura, ma Mormone, confessione riscritta da un Gesù riapparso di persona nelle Americhe e destinato a ripresentarsi nel Missouri (Gesù, non Romney), un secondo avvento che l´86% dei cristiani fedeli alla versione originale, al Cristo di Nazareth, considera leggermente stravagante. «Il movimento conservatore, quello che è chiamato a combattere la guerra culturale del nostro tempo contro il secolarismo e il relativismo è stato tradito dal partito repubblicano» ha sentenziato Richard Viguerie, che fin dai tempi di Nixon è il maestro elemosiniere del tempio.
Il Dio d´America non ha dunque un titolare in campo, questa volta. E in questa depressione dei cristianisti, si sono create le condizioni atmosferiche per il cambio di vento. Se nessuno può contare sulla falange sudista che non si mobiliterà nel 2008 come fece nel 2004 per Bush, il solo serbatoio di voti possibili al quale attingere sta fra gli Indipendenti, fra quegli americani e americane che dicono credere in Dio (80%), ma non vogliono arrendersi ai Taliban della religione usata come randello. Ecco allora il fedele Mormone Romney ripetere che lui, come già Kennedy, ascolterà la Costituzione, ma non le direttive degli Anziani della sua Chiesa. «Io sarò il Presidente di una nazione, non il Presidente dei Mormoni». Thompson segnala obliquamente che è accettabile andare o non andare alle funzioni, senza per questo essere un terrorista o un comunista. Giuliani ignora la questione religiosa, perché dopo aver danzato sul palcoscenico in calze a rete fra le "rockettes", le ballerine di fila del music hall e avere sposato in chiesa, in prime nozze la propria cugina, ignorando la necessità di una dispensa vescovile, è tardi per presentarsi come un esemplare cristiano.
Nella cattedrale abbandonata e su gregge confuso si avventano i democratici, non per essere i nuovi Hezbollah, il partito del Dio americano, ma per dare sufficienti pretesti agi incerti per votarli e ai devoti per non votare gli avversari. E così la religione, già monopolio dei repubblicani e usata come un´accetta dallo stratega di Bush, Karl Rove, torna in gioco. La Clinton promette di incoraggiare e mantenere quelle forme di assistenza «basate sulla fede» che Bush aveva voluto per dare maggiore potere alle chiese e meno al governo e che avevano creato alla fine della separazione stato-chiesa. John Edwards spaccia la propria immensa ricchezza (400 milioni di dollari, si dice) accumulata querelando le grandi società, come una sorta di missione da buon samaritano, intrapresa per soccorrere «il più piccolo dei miei fratelli». Mentre Barack Obama si getta in una difesa della fede religiosa, come pilastro dei valori civili e sociali della nazione, che avrebbe squalificato come papista quel Kennedy al quale è stato paragonato.
La saggezza popolare americana avverte che «non ci sono mai atei nelle trincee e nelle corsie d´ospedale». Non ce ne sono neppure quando incombono le elezioni, tra i candidati, e neppure tra i neo-teo-dem, tra questi nuovi democratici convertiti che hanno fiutato il profumo del potere tra l´incenso, secondo il memorabile opportunismo di Enrico di Navarra, convertito sulla via di Parigi. Giocare la "God´s Card", la carta Dio, pretendere di essere i suoi rappresentati in terra non dovrebbe servire a far vincere la Casa Bianca, ma soltanto a evitare di perderla. Questa volta il Dio dell´America, con la spalla bagnata dalle lacrime di coccodrillo di chi nominò il suo nome invano, potrebbe astenersi.

Repubblica 24.9.07
Parla John Green, analista del Pew Forum: "Cala l´identificazione con i repubblicani"
"Evangelici e under 30 chi li conquista vince"
Si allenta la coalizione conservatrice, soprattutto tra i più giovani
di Riccardo Staglianò


Nella politica americana Dio sembra avere una crisi di identità. E non sa più da che parte stare. Il monopolio dei repubblicani sui temi religiosi scricchiola. Ed è tutta una corsa, tra i candidati democratici, a raccontare di come la fede sia la bussola principale a orientare le loro scelte. John C. Green è l´analista del Pew Forum on Religion and Public Life che Time ha definito «il principale esperto» di questa materia. Studia da tempo le abitudini elettorali dei 55 milioni di evangelici Usa e ha concluso che, se i più conservatori tra loro restano ancora terreno di caccia esclusivo dei repubblicani, ce ne sarebbero circa 22 milioni più "disponibili". Quelli che lui chiama "evangelici freestyle", tanto preoccupati per la sorte della loro anima quanto per il prezzo della benzina o per la qualità delle scuole dei figli. Per costoro dichiararsi repubblicani non è più un´ovvietà. Se nel 2000 il 50% degli evangelici bianchi si diceva tale con orgoglio, nel 2004 erano il 44% e oggi il numero sarebbe più vicino al 40%.
È l´inizio di uno smottamento?
«Sempre più evangelici scelgono di definirsi, piuttosto, "indipendenti". C´è un allentamento della coalizione repubblicana, soprattutto tra gli under 30. Non è ancora uno spostamento verso i democratici. Si tratta di un´inversione di tendenza piccola ma reale».
Pare che i liberal guadagnino punti anche tra i cattolici. È così?
«Sì, le relazioni stanno migliorando. Per anni i democratici hanno evitato i cattolici per paura che il tema dell´aborto avrebbe dominato la scena. Adesso cercano alleanze su questioni che vanno dall´immigrazione al salario minimo all´Iraq. il voto cattolico, ci si è accorti, è il più ballerino di tutti quelli dell´universo spirituale. Soprattutto da quando quella chiesa è diventata più ferma nel condannare la guerra in Iraq».
Una volta si diceva che solo i repubblicani sapevano sfruttare la religione a fini elettorali. Adesso non più. Perché?
«I repubblicani si sono accorti per primi di poter guadagnare voti facendo propri i temi religiosi. I democratici l´hanno capito dopo e il punto di svolta sono state le elezioni del 2004 quando si è visto che anche un piccolo consenso in più tra gli elettori "religiosi" sarebbe bastato per mandare John Kerry alla Casa Bianca».
È una svolta solo strategica o risponde a valori autentici?
«L´autenticità è sempre materia di dibattito. Ma affinché la strategia funzioni i democratici dovranno convincere l´elettorato religioso di essere sinceri».
Quanto è grande, in termini elettorali, la torta del voto religioso. E a quale fetta possono aspirare i democratici?
«Innanzitutto è molto variegata al suo interno. Io distinguo all´interno dei maggiori gruppi tra "tradizionalisti" (i più conservatori per credo e comportamento), "modernisti" (più liberali), "centristi" e "non praticanti", fedeli più di nome che di fatto».
È vero che gli evangelici sono stati determinanti nelle ultime due elezioni?
«È vero che sono stati importanti per Bush ma conviene guardare più in filigrana e ci si rende conto che, all´interno di quel gruppo, se i tradizionalisti hanno votato per l´87% i conservatori, tra i modernisti questa preferenza scende al 51% contro il 48% pro-liberal. Insomma, il divario si riduce. Lo stesso vale per i protestanti tout court. Nella loro componente centrista il 50,5% si è schierato con Bush contro il 49,5% di Kerry. Ed è proprio per spostare questo centro che i democratici hanno ingaggiato la loro battaglia».

Repubblica 24.9.07
Ai confini del velo
di Renzo Guolo


"Vietare il velo è un atto imperialista" ha detto il ministro Amato sollevando le proteste di chi lo ritiene uno strumento di sottomissione delle donne. Ma la realtà è più complessa: c´è chi lo indossa come segno d´identità, chi per tradizione e chi solo per quieto vivere
"L´appartenenza all´Islam, anche tra i musulmani, è ormai coniugata in molti modi"
"Non sorprende più vedere, a scuola, ragazze con l´hijab e con il piercing"

Giuliano Amato spiega che il divieto di velo è una sorta di manifestazione ideologica dell´imperialismo occidentale. Daniela Santanché firma invece una proposta di legge per impedire che le ragazze possano entrare a scuola con il volto coperto. E così, con congruo ritardo rispetto alla Francia, anche l´Italia si trova alle prese con dibattito sull´indumento-simbolo religioso più contestato dell´occidente.
I termini della questione sono questi: i tenaci avversari del copricapo femminile islamico hanno percepito nelle parole del ministro dell´Interno gli echi di un relativismo filosofico ammantato di argomentazioni multiculturaliste e intriso del "complesso di Kurtz", una sorta di orrore per i valori dell´Occidente perseguiti, invece, senza ipocrisie e sino in fondo, dal conradiano personaggio di "Cuore di tenebra". I critici di Amato sottolineano come il velo sia il frutto di un imposizione e non una libera scelta, soprattutto per le ragazze più giovani.
L´intento dichiarato dei seguaci della Santanché è invece quello di garantire "la piena ed effettiva integrazione di tutti gli studenti, che non devono potersi identificare come appartenenti a comunità diverse". Secondo costoro il velo tra i banchi, anche quello, come l´hijab, che copre solo i capelli, rischia di diventare un simbolo di separazione e diversità, piuttosto che di integrazione tra culture. Ma cos´è il velo o i veli, visto che ne indossano di diverso tipo, per le musulmane in Italia? Molte cose, come del resto nel mondo islamico. Per le donne e le ragazze delle famiglie religiose tradizionali il velo assume innanzitutto la funzione di salvaguardare l´onore familiare.

L´emigrazione, l´urbanizzazione forzata addirittura da un paese e da una cultura all´altra, l´intensificazione dei contatti tra sessi nel lavoro e a scuola hanno, infatti, mutato il tradizionale rapporto uomo/donna nell´islam, fondato sulla coppia intimo/non intimo. Trasformazioni destabilizzanti per un immaginario maschile fondato sulla custodia della purezza femminile. Per queste famiglie il velo ristabilisce, almeno simbolicamente, la separazione tra sessi e traccia il limite del lecito: una donna non velata può essere vista senza copricapo solo da uomini appartenenti alla famiglia con i quali i rapporti sessuali sono interdetti, da bambini o anziani.
Dietro ai casi di donne fermate ad Azano, Dresso o Treviso perché indossavano il burqa o il niqab - il primo copre integralmente anche il volto, il secondo lascia scoperti solo gli occhi - non sempre vi sono militanti dell´islam politico; ma come si è visto una visione tradizionale dei rapporti tra sessi. Le donne e le ragazze che vivono in famiglie militanti dell´islam politico esibiscono invece il velo come dichiarata manifestazione di identità. Indossarlo è per loro non solo un obbligo religioso ma anche il simbolo di rifiuto dell´Occidente. Occidente interno, presente intimamente nei corpi delle donne svelate, che appaiono in televisione o nei manifesti pubblicitari. Nella concezione del mondo islamista la donna si vela anche per non farsi consumare dallo sguardo degli uomini. Qui il velo rinvia volutamente all´idea di una società fondata sulla purezza e, per chi lo porta, assume il significato opposto a quello dell´oppressione femminile.
Quanto alle ragazze delle famiglie che lo portano per tradizione culturale, il velo è oggi un mero strumento di opportunità. Indossarlo permette una relativa autonomia dalla famiglia, i cui i maschi tendono a restringere gli spazi femminili quando vi è un esplicito rifiuto di indossare l´hijab. Queste ragazze usano il velo come strumento di accesso alla scena pubblica. Un «velo-passaporto», che consente loro neutralizzare la disapprovazione sociale e familiare. Un prezzo da pagare per andare a scuola del nuovo paese in cui vivono: un mondo privo di condizionamenti e aperto, in cui oltre a impadronirsi di un´altra cultura, cresce l´autostima e la sicurezza personale. Tanto che la mise islamica si integra progressivamente di segni "spuri". Così non sorprende vedere nelle scuole della grandi città italiane, ragazze che indossano l´hijab ma hanno anche il piercing; sotto il velo portano gli stessi abiti delle loro coetanee con le quali condividono anche gli stessi gusti culturali occidentali. Identità plurime, incoraggiate esteriormente anche dalle donne musulmane che hanno scelto di non indossare il velo, restando o meno credenti. Se fosse impedito di portare loro il velo, sarebbero costrette ad abbandonare la scuole e, per evitare le sanzioni legate all´evasione dell´obbligo scolastico, alcune sarebbero rispedite dai nonni nei paesi d´origine. Per le "passaportiste" il velo dovrebbe aprire qualsiasi porta: anche quelle della piscina, come accaduto a Piacenza e Bolzano, dove alcune ragazze velate si sono tuffate sollevando le proteste dei bagnanti e dei gestori e inducendo alcuni gruppi dell´islam organizzato a cercare di inquadrare la domanda familiare di "moralità", attraverso la richiesta di accessi e orari separati in simili luoghi.
Il velo è entrato a scuola anche dalla parte della cattedra: alcuni anni fa a Ivrea una giovane maestra è riuscita a fare il suo tirocinio in un nido privato nonostante le perplessità dei genitori. Insomma un paese in cui il velo è molte cose; anche la libertà di abbandonarlo. Come testimoniano alcune ricerche effettuate a Torino, dai quali risulta che giovani ragazze ormai più istruite dei genitori, sono riuscite a convincerli che portare il velo dovrebbe essere una scelta e che, forse, un giorno non è detto che non lo reindosseranno.
Per tornare al problema sollevato da Amato, si può allora imporre il divieto di velo per legge? La Francia è l´unico paese che lo ha fatto ma la scelta regge perché il modello laico e assimilazionista che ha adottato considera analogamente, dal punto di vista del valore, tutti i simboli religiosi o identitari. Non è un caso che nessun altro paese europeo abbia scelto questa strada. Oltre che costituzionalmente, sarebbe politicamente possibile - o desiderabile - un simile modello? Il tema dell´eguaglianza tra religioni esploderebbe immediatamente, dando vita a fratture sociali e a conflitti.
La domanda è allora: può uno stato laico e liberale, imporre una propria visione dominante in materia? Si può obbligare cittadine e residenti un comportamento che, a torto o a ragione, esse considerano irreligioso? O forse la laicità consiste, anche, nel garantire la piena libertà religiosa, così come i diritti di quanti ritengano opportuno, in qualsiasi momento, abbandonare senza alcun problema il proprio credo e i propri simboli religiosi? I fautori del divieto di velo non sembrano condividere questa concezione della laicità che interpretano essenzialmente come "laicità identitaria". Il velo diventa, nel tempo segnato dal fantasma dello "scontro di civiltà", il simbolo dell´alterità politica, religiosa e culturale all´Occidente: dunque va bandito! È in questa vulgata ideologica che Amato, con la sua voluta provocazione intellettuale, individua un tipica posizione "suprematista" occidentale.
Certo, non va negato che per molte donne il velo è un imposizione, cui difficilmente possono sfuggire per il peso dei condizionamenti familiari, talvolta anche violenti. Ma senza forzature ideologiche, e con un sano uso del diritto come tutela quando è necessario, non è meglio affidare loro la scelta di indossarlo? Fatte salvo le norme di ordine pubblico, che impedisce giustamente di coprirsi totalmente il volto per rendersi riconoscibili, vietare non serve. E può solo rendere più conflittuale la questione. La trasformazione deve essere culturale. In fin dei conti il velo è tornato in auge da circa trent´anni, dopo che per lungo tempo indossarlo, ameno nei centri urbani del mondo islamico, era diventata pratica circoscritta. Solo il ciclo politico di "risveglio dell´islam" lo ha riproposto con forza. Perché gli incessanti mutamenti indotti dai processi di globalizzazione culturale non dovrebbero incidere a ritroso su un simile fenomeno o trasformarlo in uno dei tanti volti della società del futuro?

Liberazione 23.9.07
Lo sceriffo buono era un traditore, venduto e vigliacco
Pat Garrett, l'infame
di Stefano Bocconetti


Fa parte della banda che ha sloggiato i lavavetri dai semafori. Non è in primissima linea, stavolta, ma agli altri piace sempre fare quello che dice lui. E ancora di più sarà così dopo il 14 ottobre. Naturalmente si parla di Veltroni. L'altro giorno, nel suo tour elettorale - non quello per le politiche anticipate, quello comincerà magari dopo le primarie - in una tappa della sua campagna per farsi eleggere leader del piddì, ai giornalisti che gli chiedevano qualcosa sulla sicurezza ha risposto che a lui «non piace essere definito sceriffo». In ogni caso però, «bisogna sempre ricordare che gli sceriffi erano i buoni». Almeno nei film, ha aggiunto.
In quelli di John Wayne può darsi. Ma l'America che Veltroni ha sempre raccontato di amare, l'altra America che il sindaco giura di aver scoperto prima degli altri, racconta storie diverse. Perché parlare di sceriffi e di film significa parlare di Pat Garrett. Come ha fatto nel suo capolavoro Sam Peckimpah, 34 anni fa. Pat Garrett, allora. Lo sceriffo che si fece dare una stella di latta, e tanti soldi, per uccidere Billy The Kid. Il bandito bambino, suo amico, compagno di tante scorrerie. Il fuorilegge amato e nascosto dai messicani. Non perché fosse un Robin Hood - rubava per sè e uccideva, anche se aveva un suo personalissimo codice: mai una violenza "inutile", diceva, "mano alla Colt solo se necessario" - ma perché in qualche modo era già diventato un simbolo. E tanto più lo sarà dopo. Perché la sua vita, la sua storia svelano l'imbroglio dell'epica della frontiera. Le chances non erano per tutti. Non sono le stesse per tutti.
C'è chi non ce la fa. C'è chi è nato senza quella chance. Come Billy. Si chiamava in realtà Henry McCarty, e venne al mondo forse nel 1859, negli "slums" irlandesi, nei quartieri poverissimi di New York. Piccoli furti, una grande passione per la musica, timido. Poi, a diaciassette anni, la prima accusa di omicidio. In Arizona, un giocatore di poker, un baro che stava massacrando di botte un suo amico.
E allora la fuga, e le razzie di cavalli. Treni e banche no, invece. Nessuno sa perchè ma Billy The Kid non assaltò mai armato un vagone, nè uno sportello di qualche agenzia. Anche questo faceva parte di un suo particolarissimo codice.
Che i suoi compari invece non rispettavano. Perché Pat Garrett era ricercato quanto lui, forse più di lui. Di lui si raccontava che avesse ripulito qualche banca.
Garrett era un duro, un uomo senza principi. La persona giusta per catturare Billy. Gli misero una stella al petto e tanti soldi in mano. Con quelli corruppe Peter Maxwell, un contadino che dava ospitalità al ragazzo fuggiasco. Pat Garrett aspettò in casa Billy, al buio, e lo uccise.
Anche se la leggenda vuole che il bandito bambino non si sarebbe mai fatto sorprendere se non l'avesse voluto. Forse era stanco di scappare. Di correre.
Forse era disgustato che un suo amico, una persona di cui si fidava, fosse passato dall'altra parte. A dargli la caccia. Il «buono», lo sceriffo dovette cambiar nome, tanto era il disprezzo che lo circondava. Il «cattivo» finì così, andando bussare alle porte del paradiso, come ci ha insegnato Bob Dylan proprio in quel film. O forse no. Scappa ancora. Da un semaforo all'altro.

Liberazione 23.9.07
Firenze, i leader della sinistra: «Basta parole, ora i fatti»
di Angela Mauro


Prc, Pdci, Sd e Verdi rispondono alla base che chiede la Costituente: «La Federazione è il primo passo verso il soggetto unitario. Diamo inzio alle riunioni operative»

Molte le sigle presenti al corteo: Prc, Cobas, Movimento di lotta per la casa, Comitato per la Costituzione, Movimento antagonista toscano, le comunita' di immigrati, Comunità delle Piagge, Emergency, Comitato Fermiamo la guerra. C'è il prete don Alessandro Santoro, che da venerdì è in sciopero della fame contro l'ordinanza Cioni, in collegamento con un neonato blog: "digiunoastaffetta". C'è lo storico Paul Ginsborg, impegnato in un percorso unitario della sinistra fiorentina che proprio questo weekend svolge una tre giorni di dibattiti. C'è Bruno Paladini del Movimento Antagonista Toscano che annuncia l'occupazione simbolica dei monumenti di Firenze «se non saremo ascoltati». Cosa è successo dal 2002 ad oggi?
Succede che qualcuno a Firenze prova a resistere e a sfondare l'ansia securitaria della maggioranza in municipio e nella città. Qualcuno che si fa vedere in piazza, ma non solo. C'è anche chi non si presenta con nome e cognome, ma che prova a reagire e a fare comunicazione. Succede così che su molti palazzi, tra le ormai rare bandiere arcobaleno, campeggi una scritta: "Cioni ti odia". La vedi ovunque, non è dato conoscerne la paternità, ma in città c'è chi la ricollega a gruppi di attivisti anonimi che in passato si sono fatti vivi con iniziative simili. "Cioni ti odia", non "Cioni ti odio": semplice e schietto avvertimento di sapore nonviolento.
Segni che nel Palazzo Vecchio non recepiscono. Invitato dai giornalisti a commentare la manifestazione dei lavavetri, il ministro Amato glissa in modo anche volgare: «Non rispondo su temi che non riguardano il convegno, sono qui per parlare di integrazione, non mi occupo di lavastoviglie». Domenici poi ne approfitta per mirare dritto al cuore del problema, attaccando la sinistra radicale, che in consiglio comunale a Firenze si è mossa unita contro l'ordinanza Cioni (nonostante che il Prc sia all'opposizione, mentre Sd, Verdi e Pdci sono in maggioranza). «Mi chiedo - dice il sindaco - se oggi ci siano ancora le condizioni per continuare a governare insieme».
E' il benvenuto per Franco Giordano, Oliviero Diliberto, Titti Di Salvo, Alfonso Pecoraro Scanio arrivati in città nel pomeriggio di ieri per la seconda giornata di dibattiti organizzati dalla sinistra "unita e plurale" fiorentina. «Quanto ancora Catilina abuserà della nostra pazienza?"», è una delle domande del confronto alla Flog. Cioè: la sinistra può ancora stare al governo con questo Partito Democratico? La citazione di Cicerone fa sbilanciare anche l'ex diessina Di Salvo: «E' difficile stare al governo con chi caccia i lavavetri». «Domenici è come Rutelli, come Mastella, come Di Pietro: ci vogliono espellere come corpi estranei da un centrosinistra che così diventa centro», dice il segretario del Pdci. «Se facessi come Massimo Cacciari e dessi del matto a Domenici saremmo già alla crisi di governo - risponde il segretario del Prc - Veniamo dallo stesso ceppo che voleva contrastare la povertà. Ora loro contrastano i poveri. Cosa è successo?». Dalla platea urlano che nel 2002 Domenici ha accolto il popolo noglobal solo «perché in vista c'erano le elezioni». Oggi, Giordano avverte Domenici: «Se lo fai per fini elettorali, sappi che alla copia la gente preferisce la destra originale». Per il segretario di Rifondazione il punto è «la costruzione culturale del Piddì, tutta piegata sul governo, sull'acquisizione del palazzo d'inverno. Possiamo vincere se ricostruiamo il legame sociale. Dobbiamo riempire le piazze, non semplicemente con le notti bianche».
Il pensiero va al 20 ottobre che serve per chiedere che «il governo rispetti il popolo che lo ha votato e il programma». «Guardate che ci conteranno - dice Diliberto - Dovete venire in massa, altrimenti la Finanziaria la faranno come vogliono loro». Nonostante il documento unitario presentato da Prc, Sd, Verdi e Pdci a Prodi, «inizio della produzione di idee della sinistra», sottolinea Di Salvo. Sul 20 ottobre la platea fiorentina applaude, ma vuole di più e lo ha mandato a dire ai leader già venerdì scorso, nel primo dibattito della tre giorni coordinato da Ginsborg. Osare di più della federazione della sinistra, organizzare una costituente per fondere le identità e garantire la partecipazione. Come si risponde?
Diliberto è diretto: «Questo è l'ultimo dibattito sull'unità a sinistra al quale partecipo. A furia di dibattiti si muore. Dobbiamo fare un passo avanti». Cioè «riunioni operative per individuare come si fa, non quando si fa l'unità a sinistra». Le proposte: «Forme che garantiscano la partecipazione di tutti, una testa un voto per eleggere i propri rappresentanti; organismi composti per il 50 per cento da entrambi i sessi e dopo due mandati si "scende" tutti dal Parlamento, a cominciare da me». Per Di Salvo la ricetta è: «Organizzare insieme una campagna d'ascolto nel paese, coordinare i gruppi parlamentari, avere l'ambizione di costruire, nel percorso unitario, un nuovo gruppo dirigente». Per Pecoraro c'è bisogno di «contenuti». Guardate il Partito Democratico, è l'invito del leader dei Verdi: «Non hanno contenuti forti che aggreghino. Il risultato è che in Senato dal Pd sono nati quattro nuovi gruppi: Sd, l'Ulivo e poi quello di Dini, quello di Bordon e Manzione». Insomma, «frammentazione». Invece, la sinistra deve porsi l'obiettivo di individuare «le sue dieci grandi riforme» e di «aggregare non solo chi sta fuori dal Pd, ma puntando a non essere marginali nel centrosinistra». Giordano: "«Rifondazione si mette a disposizione per un soggetto unitario e plurale che entro l'anno vivrà la sua assise fondativa con gli stati generali della sinistra». Quindi, la risposta ad Asor Rosa, rammaricato al dibattito di venerdì scorso per il fallimento della "sua" Camera di consultazione. I tentativi di unità sperimentati in passato sono falliti per un «vizio verticistico», dice Giordano. Adesso, la federazione è il primo passo verso una «sinistra pacifista, antiliberista, laica, ambientalista che investa nella partecipazione», che combatta «passività e americanizzazione», che si sappia contrapporre ai «Mastella che sognano Casini nel governo, ai Letta che flirtano con Tremonti. Ma allora la destra vera - domanda il segretario del Prc - chi dovrebbe avere al governo? Jack lo squartatore?».
Risate in platea, ma nemmeno troppe. Perché si sa: potrebbe non esserci un'altra occasione, sulla Finanziaria 2008 si pone un problema di "efficacia" della sinistra. Il ministro Paolo Ferrero, alla Flog in mattinata, mantiene la calma e provoca gli alleati di governo: «I punti che poniamo non hanno contraddizioni nell'Unione. Avete mai sentito qualcuno che dica di prendere ai poveri per dare ai ricchi come faceva il governo Berlusconi? No. Dunque, si può trovare l'accordo e se questo governo farà una

domenica 23 settembre 2007

Il Corriere della Sera 12 marzo 1978
Psicoanalisi d'assemblea all'Università
A Roma è scoppiato l'Anti-Freud
di Giuliano Zincone


Roma – "Ho sognato che rimproveravo mio figlio. Poi stiravo un suo grembiule, usando acqua distillata, e il grembiule diventava un fazzoletto. Cambia scena, ci sono dei bambini che giocano. Parlo con uno di loro, il suo muco mi va in bocca. Penso alla nascita". Siamo in un’aula dell’istituto di psichiatria dell’università di Roma, assistiamo a uno dei tre seminari settimanali tenuti dal professor Massimo Fagioli. La stanza è affollata da duecento persone, arrivate con due ore di anticipo per assicurarsi i posti migliori. Per curarsi collettivamente, raccontando i propri sogni, Fagioli risponde: "Tu annulli la nascita. Al tuo bambino dai un fazzoletto per piangere, invece di dargli investimento sessuale (interesse). La madre tenta sempre di annullare la nascita, l'Io del bambino". Gli analizzandi sono quasi tutti giovani: studenti, psicanalisti in crisi, casalinghe, gente del cinema, intellettuali. I seminari sono gratuiti, il metodo analitico è fondato sulle teorie di Massimo Fagioli, contenute nei suoi tre libri, Istinto di morte e conoscenza, La marionetta e il burattino. Psicoanalisi della nascita e castrazione umana (Ed. Armando), Freud non è solo rifiutato, ma severamente sbeffeggiato. Senza il minimo riguardo, Fagioli lo definisce come "il vecchio imbecille sadico". Jung, invece, è paragonato a un "manicomio medioevale". I pazienti vengono da esperienze di estrema sinistra, molti sono tuttora militanti. Il loro atteggiamento, nei seminari, non manifesta, in genere, disturbi gravi o disperazioni, ma una specie di ansietà, una scontentezza profonda e diffusa. La fame di benessere mentale sta diventando un fenomeno di massa, tra i giovani e gli intellettuali delle nostre città. Le radio private trasmettono sempre più spesso conversazioni, sfoghi, interpretazioni selvagge dei sogni. Si moltiplicano i gruppi d'incontro, i gruppi reichiani, si importa dall’America la "terapia dell’urlo", la "terapia del contatto". Le istituzioni psichiatriche sono screditate, i movimenti dell’antipsichiatria, i "manicomi aperti", oscillano tra la negazione della malattia mentale e la ammissione della propria impotenza. Molti psicoanalisti confessano candidamente di non credere nell’efficacia terapeutica del proprio mestiere. Fagioli, invece, ci crede. Ha comunicato nel 1975 questo lavoro all’università, con un piccolo seminario per colleghi sfiduciati. E adesso ha in cura tre grossi gruppi, seicento persone in tutto, legate a lui (e tra di loro) dalla voglia di liberarsi della "corazza caratteriale" del "linguaggio della razionalità cosciente" di "debellare le tre streghe che rendono pazzi gli uomini: "invidia, bramosia, fantasia di sparizione" e di riscoprire il proprio Io, "l’inconscio mare calmo". La famiglia e la coppia, istituzioni che i rotocalchi danno per sepolte, sono al centro dei sogni e delle ansie degli analizzandi: Le interpretazioni di Fagioli tentano costantemente di recuperare i racconti e le preoccupazioni individuali alla dimensione collettiva, al rapporto con l'esperienza analitica e col gruppo. "Sogno che la mia ragazza è incinta". Nasce un bambino. I preparativi per il parto comprendono l’uso di sacchi di plastica: dentro ci mettiamo carne, latte". Risponde Fagioli: "All’inizio non riuscivi a capire il lavoro di analisi, perché l’analisi è frustrazione. Ma non è vero che non hai capito: il bambino è nato. Vorresti metterlo nella plastica, come per dire che non ha un Io. E invece lo ha: il vecchio Imbecille (Freud) non ci convince. Ti fa rabbia che il bambino, cioè l'Io, venga fuori a tuo dispetto. Ma in una situazione di analisi collettiva è proprio così: che tu lo voglia o no, l’inconscio reagisce". Un altro giovane: "Per motivi materiali mi riesce difficile separarmi dai miei genitori. Tento di farlo, ma con odio e desiderio di vendetta": Fagioli: "No, l’odio e la rabbia li hai nei nostri confronti, perché il seminario ti impedisce di fare i tuoi giochetti furbastri". Certo, per un osservatore esterno, molte allusioni (come questa sui "giochetti furbastri") sono incomprensibili. Chi partecipa, invece, non solo capisce tutto, ma stabilisce con gli altri dei rapporti molto particolari, fino a sognare soggetti analoghi. Alcuni analizzandi provano a mettersi (o a rimettersi) in proprio, a "curare" a pagamento altre persone. Ma incorrono nella scomunica: con estrema durezza, Fagioli accusa in pubblico i rei confessi di seminare ansia e paralisi nella assemblea, di derubare e rovinare i loro "pazienti". Ecco un’analista selvaggia ammettere in lacrime la propria colpa: "La settimana scorsa hai detto cose terribili sul mio conto. Ho sognato tanto sangue che usciva da tutte le aperture del mio corpo". Fagioli le risponde seccamente di restituire alle sue vittime i soldi che ha rubato. "I miei genitori si separarono quando avevo quattro anni – racconta una ragazza -. Mio padre sparò a mia madre, tentò di uccidere anche me, mi rincorse con una pistola. Adesso sogno ancora che mio padre vuole uccidermi. Sogno un bambino sgozzato. Molto sangue. Sogno che un giudice mi chiede di raccontare i momenti belli della mia vita. E io mi sento in colpa: non posso rispondere, perché di momenti belli non ne ho avuti mai". Interpreta Fagioli: "il bambino sgozzato è l’Io. Per recuperarlo devi superare l’identificazione con tuo padre e con tua madre. Devi mettere la tua storia personale in un discorso sociale, in un rapporto. Non sei sola. Molti padri, molti psicoanalisti tentano di ammazzare i figli, pazienti". Prevalgono nei seminari, la fede nel maestro e l’ansia di esserne gratificati. Ma ci sono anche casi di scetticismo. "Massimo, mi chiamo Emilia, devo assolutamente parlarti. E’ la prima volta che vengo, non mi convinci, a sentire tutti questi sogni non mi sono divertita per niente…..". La interrompe un’altra donna, piangendo: "Quando neghi il ruolo di Massimo uccidi i bambini. Ho sognato che ero a Parigi, in una situazione di post-sessantotto, al pronto soccorso, vedo una testa e le tolgo il cervello. Ho fatto cose tremende nella realtà materiale, faccio male ai bambini, lunedì scorso mi hai detto quel che mi merito, mi sono sentita una delinquente, e mia figlia mi dice sempre vaffanculo. L’unico che aiuta sei tu". Il marito di questa signora è riuscito a scrivere una sceneggiatura e lei lo invidia. Il giorno dopo, Fagioli dirà al marito: "Ieri tua moglie Caterina ha avuto una crisi di invidia nei tuoi confronti. Lei non ammette che una persona possa realizzarsi, fare progressi". No, Fagioli non è certo un analista permissivo, non usa la bacchetta magica per far sparire i sentimenti di colpa dei pazienti. Ma questa, forse, è una delle cause del suo successo, nei confronti di un gruppo sociale per il quale la contestazione del principio d’autorità ha coinciso con la caduta di un intero sistema di valori. A noi sembra che (al di là dei suoi compiti specifici) Fagioli interpreti in modo piuttosto "contemporaneo" un ideale di società fraterna (non gerarchica) capace di darsi discipline e regole del gioco orientate verso finalità comuni. "Bisogna prima far l’amore con la madre, e poi uccidere il padre", dice Fagioli, capovolgendo la storia di Edipo. Il che significa (se interpretiamo correttamente) che, prima di abbattere l’autorità, è necessario esser certi della propria identità e dei propri fini. Molti giovani e molti intellettuali, orfani di utopie e delusi dall’azzeramento culturale generato dalle loro esperienze recenti, vogliono sentirsi dire proprio questo. E, in attesa della "società fraterna" accettano di buon grado l’autorità ("liberante" ma ben presente) di Massimo Fagioli. Parliamo col professore. E’ molto severo. Condanna l'omosessualità ("è annullamento, è legata alla pulsione di morte"), condanna la masturbazione ("è fantasticheria sadomasochista"), condanna i suoi colleghi che negano il loro ruolo ("ma poi ricorrono ai farmaci"). "Io – dice – credo nella cura, credo nella conoscenza e nella trasformazione, come Marx. Individuo le dimensioni disumane (indifferenza, invidia, bramosia) e le frustro. La frustrazione genera interesse, desiderio di cambiare, di guarire. Con l’analisi collettiva il salto di qualità è enorme, il lavoro è molto più efficace. Ma alla base ci sono le mie teorie. Io ho avuto il coraggio e la capacità di rifiutare Freud, l’imbecille che non aveva capito niente, che era al livello di un medico che crede che il fegato sia nella coscia sinistra". La teoria di Fagioli è abbastanza complicata da riferire. L’analista ce ne offre uno schema: "La malattia mentale non è congenita. Tutti gli uomini nascono sani. Trasformano l’esperienza materiale del loro rapporto col liquido amniotico in «inconscio mare calmo». La prima fantasia-ricordo (Io) è l’inconscio mare calmo che corrisponde a interesse e desiderio. Questo sentimento dovrebbe trovare risposta nella madre, che invece non lo soddisfa. Anzi, la madre tratta il bambino con fastidio, come un oggetto vile da plasmare, educare. Il desiderio infantile di ricevere latte e interesse diventa delusione. Il desiderio delusione si scinde in odio, rabbia, invidia, bramosia. Genera rapporti sadomasochisti o indifferenza. Eliminare l'indifferenza e frustrare il sadomasochismo porta alla scoperta dell’inconscio mare calmo, al recupero dell'Io, alla guarigione". Una teoria come questa, fondata sui "rapporti", privilegia necessariamente la dimensione collettiva e sociale. "Per me – dice Fagioli – non c’è sessualità senza socialismo, e non c’è socialismo senza sessualità. La società borghese è masturbatoria, divide nettamente il comportamento pubblico da quello privato. Nella società borghese, uno può essere un buon cittadino anche se violenta la moglie e picchia i figli, basta che rispetti il codice penale. Ci si meraviglia se i bambini diventano pazzi. Ecco, questa cose bisogna combatterle, non rassegnarsi, non assumere un atteggiamento consolatorio. Un analista che consola, condanna a morte il paziente. Viviamo in una società dove la famiglia ha ancora un enorme potere distruttivo, dove c’è una miseria sessuale tremenda. La gente, a casa, si annulla, assume dei ruoli astratti: i genitori, i figli, non sono più persone con le quali stare bene, ma autorità, sudditi, maschere". Fagioli è severo anche con quei gruppi di psichiatri che privilegiano l’azione politica rispetto alla terapia. "Loro – dice – pensano che tutti i mali vengano dalla società e che quindi o si fa la rivoluzione o non si può curare nessuno E invece non è vero, non è automatico che tutto si aggiusti, dopo aver risolto i problemi politici ed economici. Ci vuole un interesse specifico per la dimensione psichica. Questo è il nostro compito. La trasformazione politica spetta ai partiti di sinistra. E, nel frattempo, rassegnarsi è un delitto, bisogna lavorare nonostante le istituzioni, nonostante la società. Altrimenti si finisce in un vicolo cieco: devo fare la rivoluzione perché la società mi condiziona, ma siccome la società mi condiziona non posso fare la rivoluzione. Troppo comodo". G. Zi.

Corriere della Sera 10 novembre 2004
Ritorno agli anni Settanta
I ragazzi delle psico assemblee
di Giuliano Zincone


Nella penombra di Villa Piccolomini (Roma), ecco le schiere ordinate e pazienti di giovani che s’avviano verso il capannone dove si celebra l’Evento. La quantità di chi accorre è stupefacente. In fondo si tratta soltanto della presentazione di un libro pacifista di Fausto Bertinotti. Ritenevamo che l’incontro fosse riservato a pochi curiosi della politica. E invece gli spettatori sono almeno duemila, molti seduti in terra con le loro tecnoscarpette, le pance graziose e gli sguardi attenti. C’è perfino un maxischermo, per quelli che non trovano posto nella maxitenda. Quale sarà il segreto di quest’incredibile affollamento? Non certo la fama della libreria organizzatrice (Amore & Psiche), e nemmeno il fascino di Bertinotti, che si sorprende e quasi si spaventa, di fronte a una platea tanto folta. Il segreto si chiama Massimo Fagioli, psicanalista eretico che invita a smascherare «quell’imbecille chiamato Freud» e che, negli anni Settanta, intercettò le disperazioni di molti studenti e di molti intellettuali delusi dai loro sogni rivoluzionari. Noi credevamo che quella stagione fosse superata. E invece, no. Ancora oggi, migliaia di giovani seguono le psico-assemblee di Fagioli. La moltitudine che applaude Bertinotti è proprio la stessa che frequenta i seminari di «analisi collettiva» guidati dal Maestro. E il leader di Rifondazione se la cava piuttosto bene di fronte a questo pubblico febbrile, parlando della non violenza, senza sconti per la sua tradizione politica. Anzi: egli sostiene che nessuna aggressione è scusabile, per nessun fine, e che è stolto giustificare la prepotenza di sinistra mentre si condanna quella di destra.
Dopo Bertinotti, parlano anche Marco Bellocchio, regista discepolo di Fagioli, e Pietro Ingrao. Entrambi, ormai, si dichiarano buonissimi. Il cineasta rinnega le crudeltà dei suoi film migliori, il vecchio dirigente comunista esprime il proprio disgusto per la «guerra preventiva» di Bush, sorvolando su tutte le «guerre di liberazione» e su tutte le «violenze proletarie» che egli approvò fino all'altro ieri. Applausi, applausi, a Villa Piccolomini: soprattutto per il pacifista libertario Bertinotti, che qui non parla di comunismo e che farebbe bene a cancellare questa parolaccia dal nome del suo partito.
Mentre a Roma si celebrava il trionfo dell'antagonismo non violento di Massimo Fagioli, dei suoi fedeli e del convertito Fausto, nell'intera Penisola esplodeva l'immortale dibattito sul disagio giovanile, un discorso che ci sentiamo ripetere fin dai tempi d'Assurbanipal e che sembra sempre fresco, poiché le recenti statistiche ci spiegano che «un ragazzo su cinque soffre di disturbi mentali». Oddìo, che cosa sono questi disturbi? Sono quelli che si decantano nei seminari di Fagioli? Sono quelli delle persone che non trovano più identità (disciplina, organizzazione) in nessun gruppo o gruppetto d'opposizione radicale? Oppure sono quelli di coloro che vengono disprezzati, quando esprimono la loro estraneità, di fronte alle parole politiche anziane e incredibili megafonate dai teleschermi?
Che cosa sta accadendo, nel cosiddetto pianeta giovanile? Niente di «progressista» diremmo. A Milano, qualche studente del Parini allaga la scuola, e l'esempio dei teppisti contagia altri due istituti italiani. Negli anni Settanta, molte scuole venivano vandalizzate o bruciate, nei quartieri poveri del Sud. Ma allora, accanto alla brutalità, c'erano (penose) motivazioni ideologiche: alcuni estremisti distruggevano le aule perché le consideravano simboli dello Stato capitalista. Adesso le aggrediscono perché hanno paura del compito in classe. Analogo è il percorso degli «espropri proletari». A Roma, i «disobbedienti» del gruppo San Precario hanno rubato volumi (li leggeranno?) alla libreria Feltrinelli e merci varie in un ipermercato. Con azioni simili a queste, gli autonomi degli anni Settanta pretendevano di «creare isole di comunismo». Sbagliavano e delinquevano, ma coltivavano, tra l'altro, un (folle) progetto politico. I ladri d'oggi, invece, protestano contro il carovita, e si vantano di donare ai proletari i pani e i pesci dei giorni nostri: schermi ultrapiatti e telefonini.
C'è, infine, la recrudescenza della criminalità giovanile napoletana. La classe dirigente locale continua a squittire slogan contro l'assenza dello Stato, che invece è fin troppo presente, con i suoi carabinieri, con i suoi poliziotti e con i suoi inascoltati sermoni. Chiaro: la delinquenza esiste dappertutto. Ma a Napoli essa viene tollerata, giustificata e assecondata da una parte considerevole della popolazione. Perché negarlo? A parte Raffaele La Capria, che è un solitario fuoriclasse, le forze politiche, gli intellettuali e i giornali non osano sbattere la verità sulla faccia dei loro lettori/elettori vesuviani: hanno paura di perdere consensi.
Però, altrove, ci sono anche i giovani che affollano i seminari di Massimo Fagioli e (addirittura) la presentazione di un libro che parla della non violenza. Sono ragazzi affamati di appartenenze, ma anche di dubbi. Persone normali, insomma.
Apcom 22.9.07
Bertinotti: La valorizzazione del patrimonio artistico è un'operazione politica nel senso nobile del termine
Il Presidente Camera inaugura la mostra a palazzo Diamanti a Ferrara


Ferrara, 22 set. (Apcom) - Giornata ferrarese per il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, che nel pomeriggio ha inaugurato a palazzo Diamanti e Schifanoia la mostra 'Cosmé Tura e Francesco Del Cosse. L'arte a Ferrara nell'età di Borso d'Este'. Parlando proprio della mostra, il presidente della Camera ha voluto sottolineare come "questa è la strada che coglie la grandissima potenzialità del Paese. In quale altro Paese d'Europa - ha chiesto Bertinotti ai cronisti - una città come Ferrara, con 135mila abitanti circa, entra nel circuito internazionale della cultura e del turismo?".

"La valorizzazione del patrimonio artistico è un'operazione politica nel senso nobile del termine - ha spiegato il presidente della Camera - rispetto alla politica deteriore, la politica nobile è quella che mette a valore le risorse, e grazie a questa politica Ferrara oggi è una delle città italiane più visibilmente portatrici di un patrimonio culturale fruibile da parte della popolazione, e utilizzabile come risorsa economica".

In mattinata il presidente della Camera aveva visitato il museo del Duomo, la chiesa di San Cristoforo alla Certosa, recentemente restaurata, le Mura e altri luoghi simbolo della città estense. Per lui un vero e proprio bagno di folla; tra gli incontri della giornata anche quello, casuale, con l'allenatore Fabio Capello, presente a Ferrara per l'anniversario della Spal, e quello con una sposa completamente vestita di rosso che ha 'preteso' delle foto con la terza carica dello Stato.

Nel pomeriggio, in Municipio, dopo l'incontro con i genitori di Federico Aldrovandi, il ragazzo deceduto nel settembre 2005 dopo essere stato fermato dalla Polizia, l'incontro con il sindaco di Ferrara, Gaetano Sateriale, il presidente della Provincia, Piergiorgio Dall'Acqua, e le autorità militari e civili. Dopo la firma sul Libro d'onore della città, il sindaco ha fatto dono a Bertinotti di un'antica mappa di Ferrara e due volumi della collana 'Mirabilia Italia' edita da Panini di palazzo Schifanoia.

Tra i rappresentanti del mondo politico venuti a salutare la terza carica dello Stato anche Dario Franceschini, capogruppo dell'Ulivo alla Camera, in corsa con Veltroni per la leadership del nuovo Pd, presente in quanto ferrarese doc e, come ha spiegato lo stesso Franceschini, per "dovere di ospitalità".

l’Unità 23.9.07
Tiziano ultimo atto, la luce oltre le tenebre
di Renato Barilli


È UN VECELLIO anziano quello che dipinge le tele in mostra a Belluno. Ed è un maestro che supera se stesso. Sembra lavori col pollice anziché col pennello. Mentre affronta la sfida estrema: dipingere il buio

Bisogna riconoscere che la Provincia di Belluno ha fatto del suo meglio, nel capoluogo e a Pieve di Cadore, per onorare adeguatamente Tiziano, il suo grande figlio nato proprio nella «pieve» nel cuore delle Dolomiti, forse nel 1490, e morto onusto di gloria a Venezia, nel 1576. Mezzi messi in gioco a profusione, nell’allestimento della mostra a Belluno appunto e a Pieve di Cadore, e l’orgoglio di condurre la celebrazione non certo di striscio, marginalmente, ma affrontando al contrario uno dei temi di maggior impegno nel percorso del grande artista, l’Ultimo atto, come suona il titolo dell’evento, ovvero, all’incirca, l’ultimo ventennio di attività del Vecellio, quando si comporta un po’ come i cavalli che «rompono» il passo, lasciano un controllato e misurato trotto per erompere in uno sfrenato galoppo. Nel caso del grande Cadorino, ciò significa che negli ultimi anni di lavoro egli andò riducendo la distanza tra il suo occhio e i temi affrontati, portandosi a pochi palmi da cose e persone, quasi pretendendo di afferrarle, di renderle coi polpastrelli piuttosto che col pennello, e abbandonando oltretutto la mediazione di una buona luce solare per frugare nelle tenebre. Un procedere che ci ricorda altri grandi finali, magari più vicini ai nostri tempi: del vecchio Degas, che affronta le sue bagnanti in tinozza quasi a colpi di quella sorta di verga che nelle sue mani era il pastello; o di Monet che si tuffa fino all’asfissia nello stagno delle Ninfee.
Fu una fase di mirabile ardimento, come ha riconosciuto, una volta per tutte e in nome di tutti, Giorgio Vasari, nel profilo delle Vite dedicato a Tiziano, in cui si è confermato, se mai ce ne fosse stato il bisogno, di essere non solo un erudito e un filologo, ma prima di tutto un mirabile critico.
Però, ahimé, per illustrare in giusta misura questa fase tizianesca estrema ci volevano le maggiori istituzioni mondiali, il Prado, le National Galleries di Londra o di Washington, Venezia stessa, mentre si deve pur dire che Belluno, pur con la migliore buona volontà, ha affrontato un passo più lungo della gamba, non riuscendo a portare in casa nessuno dei dipinti più celebri e più indicativi di quell’«ultimo atto». La mostra bellunese ha dovuto accontentarsi di opere minori, talvolta di non totale autografia, e del resto anche la sede disponibile, il pur maestoso Palazzo Crepadona, fatto di due deliziose logge, ma strette e basse, non era certo il luogo migliore per ospitare le grandi tele del Maestro, anche se a porre rimedio si è ricorsi al talento architettonico di Mario Botta, che ha chiuso il cortile del Palazzo, ricavandone una vasta sala degna appunto del Prado o del Louvre, mentre nella città natale, a Pieve di Cadore, presso la Magnifica Comunità montana, ci si è limitati a offrire una valida serie di documenti.
Sia ben chiaro che anche così, pur su un piano di realizzazione parziale, le tele messe in mostra a Belluno rendono il sapore di quell’«ultimo atto», e anzi, ne forniscono una valida verifica proprio perché ricavata su testi meno noti. A dir il vero, in alto, al secondo piano del Palazzo, prima che lo spazio si riduca in lunghi e stretti loggiati, campeggia un capolavoro assoluto, la Venere e Cupido, generosamente concessa dagli Uffizi, fuori delle acque qui indagate, in quanto il superbo destriero tizianesco a quei tempi procedeva ancora con passo classico e composto. Ma accanto, e nella corte d’onore a pianterreno, figurano taluni dipinti in cui si evidenziano gli ardimenti di questo Tiziano estremo, come per esempio un’Orazione nell’orto proveniente dal Prado, dove a tutta prima lo spettatore nulla vede, come se fosse immesso di colpo in una stanza buia, in cui non penetra più quella calda luce solare che nelle fasi precedenti il grande artista aveva saputo catturare così bene. Ma poi, se ci si abitua all’oscurità, e con l’aiuto di minime fonti luminose, quali una luna quasi cancellata dalle nuvole, e una lanterna, collocata in un angolo a limitarne ulteriormente gli effetti, si intravedono barbagli, scie, fosforescenze, gli elementi metallici della scena emanano qualche riflesso, come succede con la maglia che copre le spalle di un armigero, o con l’elmo e lo scudo di un suo compagno. Ma certo tocca a noi ricostruire la scena, strapparne i dettagli, senza smarrirci tra le frasche che ostruiscono il campo visivo. Anche l’Hermitage di San Pietroburgo non è stato avaro, si veda un Cristo portacroce, dove il motivo stesso della croce aiuta l’artista a rifiutare le distanze prospettiche, esso vale a spartire il quadro in due zone, onde consentire che in ciascuna di esse venga a galla, come da profondità acquee, una testa, del Cristo stesso e del devoto che lo aiuta a reggere il peso. Non c’è più un rapporto ottico, con la croce e con i due volti, bensì tattile, «aptico», quasi che l’artista avesse voluto servirsi delle stesse materie di cui sono fatti i relativi oggetti, una scabra superficie lignea, una trave miserabile, in pessimo stato, coi bulloni che emettono fiochi riflessi, oppure una tela rozza, scolorita, per il manto di Cristo, mentre anche le epidermidi dei due volti si fanno livide, irsute, senza soluzione di continuità tra le parti glabre e le altre invase dalle manifestazioni delle chiome, scomposte, madide di sudore e di pena.

Repubblica 23.9.07
La prova d’orchestra di pifferi e tromboni
di Eugenio Scalfari


La pessima esibizione del Senato nel dibattito sulla Rai di giovedì scorso è stata in realtà una sorta di prova generale di quanto potrà avvenire nell´appuntamento parlamentare con la legge finanziaria 2008. La sessione di bilancio: così si chiama quell´appuntamento che ha inizio con la presentazione del disegno di legge al capo dello Stato e al Parlamento e si conclude tassativamente entro la fine dell´anno sgombrando in quei tre mesi ogni altra iniziativa legislativa salvo i casi di urgenza e la conversione in legge di eventuali decreti pendenti.
Una prova generale assolutamente «sui generis». Infatti – a differenza delle prove generali vere – qui non c´era un regista. Ciascuno recitava a soggetto e ciascuno aveva un soggetto proprio e mai come in questa deplorevole occasione è utilissimo riandarsi a vedere «Prova d´orchestra», uno dei più bei film di Federico Fellini, indimenticabile lezione artistica, umana, politica.
In «Prova d´orchestra» un gruppo di orchestrali che fino a quel giorno avevano lavorato insieme sotto la guida d´un celebre direttore, decidono di fare da loro. Il direttore tenta in tutti i modi di battere il tempo con la sua bacchetta e di far rispettare a ciascuno il suo ruolo e la corretta esecuzione dello spartito, ma ogni suo sforzo è vano, i violini vanno per conto loro e così i bassi, il clarinetto, l´oboe, i timpani, i tromboni. Finisce in una vera e propria rissa a colpi di archetto e di tamburo.
Ero amico di Fellini e un paio di volte andai ad intervistarlo a Cinecittà durante la lavorazione dei suoi film. Gli chiesi in una di quelle interviste quale fosse il film che gli era più caro.
Non ne siamo sicuri. Crediamo, invece, che la delegittimazione non origini dal distacco della classe politica dalla società, ma dall´esatto contrario. La perdita di ogni differenza rispetto alla "gente comune". Di cui i politici riflettono e riproducono, amplificati, i vizi più delle virtù. Come pretendere che i cittadini possano provare rispetto o timore nei loro confronti?
Per la stessa ragione, dubitiamo che sia giusto definire la classe politica una "casta". Termine usato per indicare un gruppo sociale distinto e diverso dagli altri, in base a motivi (religiosi, come in India) socialmente condivisi. I cui membri, se occupano posizioni più elevate, possono accedere a privilegi specifici. Se la classe politica fosse davvero una "casta", dunque, i riconoscimenti e i vantaggi di cui gode non provocherebbero scandalo. Sarebbero considerati "benefici di status" legittimi, legati al loro ruolo di rappresentanza e di governo. D´altronde, è quanto avviene altrove ed è avvenuto in passato anche in Italia, senza il "rigetto" popolare di questa fase. Gli innumerevoli scandali, denunciati da tutti i media, a nostro avviso, c´entrano solo in parte con questa ondata di sdegno. Conta di più, semmai, l´insoddisfazione per le "prestazioni" dei politici. La convinzione diffusa che siano poco competenti e poco efficaci. Che, per questo, i privilegi loro accordati siano un "costo" sociale improduttivo. Senza benefici per la società. D´altronde il Presidente della Repubblica Francese, Nicolas Sarkozy, oggi tanto ammirato, in Italia, da destra a sinistra, ha dichiarato esplicitamente: "se un uomo politico è capace ed efficiente, non vedo perché dovrebbe, in aggiunta, vivere modestamente". Appunto: se è "capace ed efficiente". Altrimenti, come in Italia, esplode il risentimento popolare.
Tuttavia, neppure questa spiegazione, da sola, ci pare sufficiente. Quando la sfiducia si trasforma in dileggio generalizzato e sfocia nello "sputo di massa", non si tratta solo di dissenso. E´ qualcosa di peggio: "banalizzazione". Perdita delle distinzioni fra i cittadini e chi li rappresenta e governa. La classe politica, in altri termini, è al centro delle polemiche non perché sia una "casta", lontana da noi. Ma, al contrario, perché ci somiglia troppo. Difetti, debolezze ed egoismi quotidiani compresi. Ma se i politici sono come noi, perché dovrebbero godere di tanti privilegi e favori?
Il problema è che, da molti anni, i politici fanno di tutto per mostrarsi e per apparire "persone come noi". Anzi: fanno di tutto per "mostrarsi" e "apparire". Hanno accettato la logica e le regole della "berlusconizzazione". Senza considerare che solo Berlusconi è "padrone delle televisioni". Tutti gli altri, perlopiù copie modeste, si sono tuffati nei "media" senza mai un ripensamento. Hanno inflazionato le televisioni con la loro presenza. Convinti che fra "immagine" e "potere", fra "popolarità" e "autorità" vi sia un legame di reciprocità. Più immagine = più potere. Più popolarità = più autorità. E viceversa.
I politici. Hanno creduto che divenire personaggi televisivi familiari li avrebbe resi simpatici e, al tempo stesso, credibili. Ne avrebbe fatto crescere il consenso e la legittimità. Così, eccoli, all´assalto delle tivù, nazionali o locali non importa. A cucinare, cantare, danzare, giocare a biliardo, simulare orgasmi. Insieme a veline, cuochi, ballerini, tronisti, psicologi, sociologi, criminologi, criminali, enologi, attori, attrici, missitalia, calciatori, allenatori, motociclisti. Leader politici e di governo che nei cabaret televisivi duettano con i loro imitatori. Fino a rendere difficile individuare l´originale. Li abbiamo visti ricevere torte in faccia, lanciate da soubrettes dalle grandi forme, generosamente esibite. Hanno riempito le riviste di informazione gossip. Soprattutto quelle dove, scorrendo nomi e fotografie, non riconosci quasi nessuno. I soliti ignoti. La "Penisola dei famosi", descritta con quotidiana e chirurgica ferocia dai reportage di Dagospia. Un sito di riferimento per capire se uno esiste. Se "conta".
Gli uomini politici. Tutti impegnati a conquistare un posto al sole. Nei salotti tivù più esposti, più visibili. Porta a porta, ma anche Ballarò, Anno Zero, Matrix. Pronti alla mischia. Accettando (spesso cercando) la rissa, l´insulto, la frase a effetto. Pronti a darsi sulla voce, perché non è importante convincere e spiegare, ma gridare più degli altri. Avere l´ultima parola. Non importa quale.
Per cui ha fatto bene il Presidente Giorgio Napolitano, a diffidare gli uomini che hanno cariche pubbliche da questa bulimia televisiva. Il suo ammonimento, però, arriva tardi. Assai prima che Grillo invadesse la rete e – di recente – le piazze, la classe politica si era già squalificata da sola. Come ha commentato Altan, con disarmante ferocia, sulla prima pagina della Repubblica di qualche giorno fa. Quando fa dire alla caricatura del "politico" medio: "Basta con la demagogia. Siamo perfettamente in grado di mandarci a fanculo da soli".
Il fatto è che il potere suscita prestigio e timore. Quando è "legittimo", riconosciuto, evoca rispetto. "Deferenza". E i riti, gli stessi privilegi che lo accompagnano, contribuiscono ad alimentarlo e a riprodurlo. Per questo, gli uomini che dispongono davvero di "potere" non hanno bisogno di esibirlo. Non hanno bisogno di parole. Bastano il ruolo e i "segni" che lo distinguono. Il timore che possa esercitarlo. Basta la fama che lo circonda. Ciampi non ha mai messo piede in uno studio televisivo. E Cuccia: mai una parola, un´immagine. Lo ricordate? Staffelli, il mastino di "Striscia la notizia" che lo tallona, lo interroga, microfono e telecamera addosso. E lui: non una frase. Neppure una parola. Una piega del viso. E De Gaulle? Parlava il meno possibile. Certo: altri tempi. L´era del marketing e dell´immagine ha cambiato tutto. E´ la democrazia del pubblico. La comunicazione diventa una risorsa. Perfino una necessità. Però, Blair (ieri) e Sarkozy (oggi) i media non solo li conoscono, ma li "usano". Nel senso che non si fanno "usare". Invece, in Italia, avviene il contrario. Ma ve lo immaginate Sarkozy interpellato dal Trio Medusa, delle Iene, sull´ultimo provvedimento in tema di immigrazione. E poi, immancabilmente, irriso a ogni risposta? Oppure incalzato dalla "Iena" Enrico Lucci, che, come normalmente fa con "grandi" politici e imprenditori italiani, scherza con lui come fosse un amicone. Un compagno di notti brave. Riuscite a immaginarlo?
Per questo è inutile prendersela con Grillo. Il quale ha guadagnato popolarità, in passato, andando in tivù. E si è conquistato credito e potere, in seguito, quando ha smesso di andarci. Sulle piazze egli si limita a replicare uno spettacolo che va in onda quotidianamente sugli schermi. Sui media. Stessi protagonisti, stesse comparse. Così le sue prediche corrosive, magari divertono, poi indignano. Ma alla fine lasciano un senso di vuoto. Perché evocano la storia di un Paese minore: il nostro. Dove privilegi grandi e piccoli vengono esibiti senza vergogna da tanti piccoli potenti. Pardon: tanti piccoli impotenti. Che non suscitano più né rispetto, né deferenza. E neppure paura. Perché li abbiamo sempre sotto gli occhi. Seguiti ovunque dalle telecamere. Più che una "casta", il "cast" di una politica ridotta ad avanspettacolo. A un reality show. Se la democrazia esige che le stanze del potere abbiano pareti di cristallo, per noi è come guardare la casa del "Grande Fratello".

Repubblica 23.9.07
Polemica sulla sicurezza, Rifondazione e Sd minacciano di uscire dalla giunta
Cofferati sull’orlo della crisi la sinistra boccia l'intesa con An
di Valerio Varesi


BOLOGNA - Le «relazioni pericolose» del sindaco di Bologna Sergio Cofferati con An sul tema della sicurezza, fanno vacillare la giunta di Bologna fino al limite di una possibile rottura. A buttare il cerino nella polveriera è stata proprio An che, tramite il suo esponente di spicco sotto le due torri, il deputato Enzo Raisi, ha annunciato ieri l´accordo raggiunto con il «cinese». Accordo che ha avuto il beneplacito di Gianfranco Fini da sempre attento all´evoluzione politica della sua città. La reazione di Verdi e Rifondazione non si è fatta attendere. «Dico chiaramente che se fosse confermato un accordo politico tra il sindaco e An - ha tuonato il capogruppo Roberto Sconciaforni - questo sarebbe una delegittimazione della coalizione che ha vinto le elezioni nel 2004». Parole chiarissime che sono state rafforzate dal segretario provinciale Tiziano Loreti: «Si tratta di una rottura, ma è il sindaco che esce dalla maggioranza e rende incompatibile la presenza di Rifondazione comunista nella coalizione». Tra il partito di Giordano e il «cinese» la convivenza è sempre stata difficile a partire dai tempi degli sgomberi dei rom e della campagna contro i lavavetri, ma questa volta i presupposti della crisi sono più che incombenti. Già in Consiglio comunale Rifondazione, Verdi e un consigliere autonomo, riuniti sotto la definizione di «Altrasinistra», appoggiano dall´esterno la giunta non esprimendo assessori. Ma questa volta, al loro malumore per l´asse Cofferati-An, si sono aggiunti altri due consiglieri della corrente che fa capo al ministro Fabio Mussi. In totale, la fronda in seno alla maggioranza di palazzo d´Accursio, metterebbe assieme sei consiglieri facendo venire meno la maggioranza.
E mentre Rifondazione ironizza sul fatto che An è «diventata portavoce del sindaco» annunciando l´accordo con Cofferati (ieri muto in attesa di trovare una via d´uscita dal clima incandescente che circonda la sua giunta), a parlare sono i maggiorenti dei partiti che fanno da fulcro a una maggioranza ormai piena di crepe. Il segretario Ds di Bologna Andrea De Maria ritiene che «Rifondazione alzi i toni senza motivo. Nessuno - prosegue gettando acqua sul fuoco - sta mettendo in discussione la maggioranza, ma è una cosa naturale cercare una convergenza con l´opposizione su temi di interesse generale». Insomma, un accordo operativo che nulla ha di politico. Sulla stessa linea il coordinatore cittadino della Margherita Luca Rizzo Nervo. Ma gli inviti all´unità non convincono la sinistra estrema che pretende un chiarimento dal sindaco anche perché An continua a dimostrare grande intesa con il «cinese» pure su un altro argomento molto spinoso come la costruzione della nuova moschea cittadina fonte di grandi polemiche. «Siamo disposti a collaborare con il sindaco - dichiara Raisi - delineando un percorso di reale partecipazione dei cittadini».

Repubblica 23.9.07
Amato, sì al velo islamico "Vietarlo è imperialismo"
Il ministro: l'immigrato che lavora ha diritto alla casa
di Alberto Custodero


FIRENZE - «Vietare il velo in modo indiscriminato significa imporre la propria ideologia occidentale imperialista su qualcuno che ci vede in modo diverso». Alla prima Conferenza nazionale sull´immigrazione, a Firenze, Giuliano Amato, ministro dell´Interno, non ha voluto commentare l´ordinanza lavavetri del sindaco fiorentino («non mi occupo di lavastoviglie»). In compenso, è tornato a parlare del velo («in certe occasioni una prevaricazione»), suscitando le critiche della parlamentare di An Daniela Santanchè («Sono imperialisti paesi come Tunisia e Marocco che il velo lo vietano nelle scuole e nei luoghi di lavoro?»). Amato ha parlato di «cultura dell´alterità» intrinseca a quella cristiana europea, ha ammesso che «la diversità musulmana è un problema». E ha scomodato Gesù. «Certo - ha detto Amato - non s´è seguito solo lo spirito dell´"alterità" ai tempi delle Crociate e della Controriforma». «Ma è un dato di fatto - ha aggiunto - che il primo e colossale sovversivo della storia è stato il profeta Cristo quando predicò e praticò esemplarmente l´uguaglianza di tutti in una società fondata sull´economia della schiavitù». Ma è ancora la religione, con le relative «nefandezze vissute in nome di dio», il canovaccio del ministro.
È ben vero, ha ammesso Amato, che «in altre fasi della storia c´era più par condicio» nell´uccidersi l´un l´altro per motivi religiosi. Poi ha fatto sobbalzare sulla sedia Agostino Marchetto, segretario del Pontificio consiglio della pastorale per i Migranti, apostrofandolo con un «lei lo sa, anche la cristianità, non la Chiesa, ci è andata pesante quando le bambine musulmane erano infilzate dalle baionette e attaccate alle porte delle case nei Balcani». «Sappiamo bene - ha aggiunto Amato - che si è commesso il delitto di profanare dio uccidendo in suo nome». E ancora: «In questa fase della storia, tuttavia, chi usa dio per massacrare il prossimo è di là, dalla parte del fondamentalismo islamico. È un dato di fatto».
Dalla storia di ieri all´attualità, dalla religione all´economia. Ed ecco partire il j´accuse del dottor Sottile addirittura contro la Corte di Cassazione. «Sono contro la Cassazione che ha ritenuto di concedere le attenuanti generiche a chi commette lo stupro in condizioni di degrado. Lo stupro è sempre stupro, non c´è degrado che assolva a questa violazione dei rapporti umani». Il ministro ha scandito il suo intervento con molte frasi ad effetto. Eccone alcune. «Il clandestino non ha il Dna che lo fa delinquere». «Non è detto che la realtà propenda verso la nostra visione cristiana secondo la quale l´essere umano, in quanto figlio dello stesso dio, sia uguale all´altro». E ancora: «Poiché dal Sud i nostri laureati emigrano direttamente all´estero, spendiamo per l´Istruzione a beneficio di altri Paesi». Riferendosi alla vita precaria dei clandestini in Italia, Amato, riferendosi alle sue origini («vengo dal Mezzogiorno»), ha ricordato «quanti siciliani abbiano vissuto l´esperienza della "campata", come arrivare a sera cominciando la mattina senza sapere se e quando si mangerà». Ma l´affondo del ministro è arrivato contro la schizofrenia e l´intollerenza, talvolta leghista, del Nord, «dove, finché fa le 8 ore in fabbrica, l´immigrato è il benvenuto, però subito dopo deve sparire e non deve pretendere di avere una casa. Questa è una vergogna». Per evitarla, la vergogna, è giusta per Amato la domanda dei sindaci per una politica della casa che tenga conto, però, del fatto «che gli italiani non accettano che davanti a loro arrivino gli immigrati». Altrimenti, ha chiosato, «siamo noi la causa del conflitto».

Corriere della Sera 23.9.07
Video-Bertinotti
Il Kaká dei politici un fuoriclasse da Porta a Porta
di Aldo Cazzullo


Settantanove convocazioni da Vespa, più di Totti in Nazionale; e senza mai sbagliare l'abbinamento calzini-cravatta. Dev'essersi sentito chiamato in causa Fausto Bertinotti, tra i primi a lodare «la saggezza » di Napolitano: «La politica non è passerella, troppi politici in tv…». Il presidente della Camera detiene il record assoluto di presenze a «Porta a Porta», staccando nettamente Berlusconi, Fassino, Mastella.
E poi: assiso sul trono di Anna La Rosa a Telecamere. Plurinvitato da Santoro, da Formigli, da Floris, da Piroso, da Mentana, che ancora l'altra sera ha mandato in onda l'imitazione pressoché perfetta di Max Tortora, ultima di una lunga serie inaugurata da Corrado Guzzanti (l'imitato andò ad applaudirlo al teatro Olimpico, e poi nei camerini a congratularsi per la precisione del timbro di voce) e da Stefano Masciarelli, che a Bertinotti si era ispirato per il personaggio del comunista che con la erre blesa sdottoreggia in tv di piattaforme contrattuali e riforme di struttura.
Prima di salire sullo scranno più alto di Montecitorio e girare il mondo ad abbracciare leader sudamericani in maglione etnico o uniforme, Bertinotti era il politico più coccolato in televisione. Non senza motivo. «Fausto davanti a una telecamera è come Kaká in Champions League: un fuoriclasse — teorizza Vespa —. È tra i pochissimi che parla di contenuti. E, se per una volta i contenuti scarseggiano, li incarta con tale maestria che comunque si è meritato l'invito».
Per un comunista, non è scontato. E infatti spesso si sono levate voci, anche da sinistra, a rimproverargli un presenzialismo eccessivo. Lui ha risposto così: «Io posso fare queste cose perché non temo la contaminazione. Vado serenamente in tv, nei salotti, sui rotocalchi perché chi ha valori radicati, chi è di sinistra nella profondità del suo animo, non può essere contaminato». Neppure da Fiorello, che alla radio gli tese un agguato maligno: lettura integrale dell'inno di Forza Italia, omettendo solo il «forza» («Italia/ è tempo di credere/ Italia/ che siamo tantissimi...»); Bertinotti ci cascò clamorosamente e lesse tutto d'un fiato interrompendosi una volta sola a protestare, per l'eccesso di erre.
Gli va riconosciuto di non essere mai caduto nella rissa, ma di aver sempre tentato di volare alto. In tv Bertinotti ha citato Gandhi e Brecht, San Paolo e Kavafis, e poi finalmente Tex Willer, Fausto Coppi e Dylan Dog; talora con sigaro spento, quasi sempre con portaocchiali civettuolo. Non sono in molti a poter evocare il materialismo dialettico senza provocare crolli di audience; lui sì, anche se il ragionamento complesso e la pronuncia imperfetta non aiutano la comprensione. Insomma, Bertinotti padroneggia il mezzo. Al punto da non sembrare comunista. O, comunque, non un ribelle, un antagonista, un antisistema; semmai, un liberal italiano, compreso il gesticolare rapido ma non scomposto, l'eloquio profondo ma non noioso, e ovviamente la ricercatezza maniacale. A commentare i risultati elettorali dell'aprile 2006 andò in gessato, come un altro arbitro d'eleganza, l'amico Mario D'Urso (le cravatte sono di Luca Roda, lo stilista che rifornisce pure Bush e Marcello Pera e firma le pashmine di Lilli Gruber. Ma, intervistato da Alain Elkann, Bertinotti chiarì: «Ho messo la cravatta per la prima volta a cinquant'anni, come antidoto al tempo che passa». Sia chi ne è affascinato, sia chi lo considera un simpatico istrione può uscire da una sua performance televisiva rinfrancato nelle proprie convinzioni. E comunque, in una delle 79 volte a Porta a Porta (che diventano di più considerando le interviste fuori studio), colse l'occasione di spiegare di non aver mai comprato un solo capo in cachemire, tranne un golfino regalato di cui promise solennemente in diretta di disfarsi al più presto.
Tutto si poteva dire di lui, prima dell'ascesa al posto che fu del suo mito Ingrao, tranne che temesse la sovraesposizione. Un getto continuo di libri a sfondo autobiografico che nemmeno Proust: «Tutti i colori del rosso», «Io ci provo», «Il ragazzo con la maglietta a strisce» (oltre ai saggi «Due sinistre» e «La città degli uomini»). Serate a casa delle dame romane, dalla gauchiste Sandra Verusio come da Maria Angiolillo vedova del fondatore del
Tempo, ampiamente documentate sul sito Dagospia. E frequenti esternazioni della moglie signora Lella, di cui non si può non ricordare l'intervista del 2004 ad Antonella Piperno di Panorama: «Sono io che tengo l'agenda a Fausto, ed è una faticaccia. Passo i pomeriggi al telefono con gli amici che mi chiedono "dai Lella dammi una data", "Lella ti prego quando avete un buco?". E io niente, non so come accontentarli; la prima sera libera è tra un mese». Talora ricevono anche i Bertinotti, magari per una serata di musica napoletana con il cantautore Mimmo Di Francia quello di «Champagne».
Ogni volta che l'Osservatorio di Pavia annunciava un nuovo primato di presenze tv, il leader storico di Rifondazione era subissato di critiche. Gli ultimi a invitarlo a boicottare almeno Porta a Porta sono stati Katia Bellillo, Furio Colombo, Claudio Martini presidente della Toscana («Vespa mi aveva chiamato a commentare le regionali; avrei potuto fare bella figura visto che avevo vinto, ma ho preferito essere coerente e ho detto no!»). Bertinotti disse invece: «Nel '98 siamo stati massacrati sistematicamente dalla televisione di centrosinistra, con un'operazione di regime; e devo ringraziare un uomo autorevole come Vespa che mi ha tenuto aperto uno spazio ». Siderale, si direbbe. Ma non c'è da temere, assicura Fausto: «Mi sento forte delle mie idee, del mio impegno, della mia storia di trent'anni di lotte in difesa dei lavoratori. E vado dappertutto ».

Corriere della Sera 23.9.07
Sondaggio a sorpresa nella «città rossa»
Simbolo del «buon governo»? Fini batte tutti. Imbarazzo a Siena
di Marco Gasperetti


6,9 Il voto ottenuto da Gianfranco Fini relativo alla competenza.
Secondo è arrivato Walter Veltroni che ha ottenuto una media di 6,5

SIENA – Più che un sondaggio doveva essere «il sondaggio». Numeri rigorosamente scientifici, trasparenti, naturalmente. Ma allo stesso tempo buoni per un incoronazione sul trono del buon governo: quella di Veltroni.
Qualcuno aveva ipotizzato una ripresina anche di Prodi e invece è arrivata la beffa. La ricerca dell'Università di Siena commissionata dal Comune, che oggi sarà presentata al pubblico di «Alla ricerca del buon governo» — kermesse di nove giorni tra politica, cultura e spettacolo appena aperta a Siena — racconta un'altra, imbarazzante, verità. L'uomo del buon governo, per un campione di 800 italiani, è Gianfranco Fini, vincitore di strettissima misura su Walter Veltroni. Al terzo posto Rosy Bindi, seguita da Berlusconi. Ultimo, Romano Prodi.
All'arrivo dei primi risultati qualcuno ha sorriso, ma c'è anche chi si è arrabbiato.
Perché a Siena, città simbolo dei ds, del Monte dei Paschi e dell'allora magnifico rettore, il comunista e poi diessino, Luigi Berlinguer, incoronare Fini come l'uomo del probabile buon governo, è come festeggiare il palio della Torre nella contrada dell'Oca, nemica di sempre. Sorpreso anche l'uomo del sondaggio, al secolo Pierangelo Isernia, direttore del Laboratorio analisi politica e sociale e ordinario di Scienza della politica.
«Non mi aspettavo questi risultati. E non immaginavo che Prodi e Berlusconi ne uscissero così male. Comunque Fini e Veltroni sono vicinissimi». A superare il piccolo shock ci penserà il festival. Dice il sindaco Maurizio Cenni: «A Siena ci interroghiamo sul buon governo dal 1300.
L'antipolitica non è la risposta alla democrazia. Semmai bisogna ascoltare di più i cittadini». Molti i personaggi in arrivo: Rosy Bindi, Nicola Rossi, Bruno Tabacci, Francesco Cossiga, Luciano Violante. E ancora Giuliano Ferrara, Paolo Flores d'Arcais, Luca Sofri, Paolo Ermini, Antonio Socci. Dibattiti, ma anche spettacoli, pièce, concerti e una mostra sulla satira al potere con vignette inedite di Emilio Giannelli e Giuliano Rossetti.

Corriere della Sera 23.9.07
Capitalismi. La società liberale e i soggetti deboli
di Sergio Marchionne


Se una società liberale vuole durare deve sostenere chi è colpito dal cambiamento. Non esiste, però, un unico modello di capitalismo ed è la responsabilità sociale che differenzia l'Europa dagli Usa.

Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat, ha pronunciato al convegno della rivista «L'Industria» un applaudito intervento sui modelli di capitalismo e la responsabilità sociale. Eccone i passaggi più significativi.


La storia della Fiat richiede di essere collocata e compresa all'interno del contesto sociale in cui il turnaround è stato realizzato. Gestire un'impresa in Europa significa prima di tutto avere a che fare con un modello di capitalismo che ha caratteristiche molto specifiche. Alcuni economisti sono convinti che il sistema europeo — per migliorare produttività, efficienza e profitti — debba convergere verso il modello americano. Non credo che questo tipo di convergenza sia possibile nel medio termine, ma non credo neppure sia auspicabile. Le organizzazioni europee sono nate e cresciute in un terreno culturale fertilizzato da due condizioni storiche: una tradizione di apertura al mercato relativamente recente e un forte senso di responsabilità sociale.
Non esiste un unico modello di capitalismo. Stati Uniti, Asia, Europa sono tutti in competizione fra loro ma nessuno converge verso nessun altro.
L'unico denominatore comune è il mercato. Queste organizzazioni danno il meglio di sé quando sono messe a bagno nella concorrenza aperta e globale.
È il concetto di responsabilità sociale che differenzia l'Europa dagli Stati Uniti.
Secondo un'analisi dell'Ocse, la spesa pubblica sociale è circa il 27% del Pil in Francia, Germania e Italia — in Svezia addirittura il 38% — mentre si aggira intorno al 16% negli Usa. La differenza tra i livelli di spesa pubblica — europeo e americano — si manifesta in modo evidente a partire dal 1975. Da quel momento vi è un notevole aumento della spesa in Europa mentre in Usa si mantiene costante nel tempo. Indagare quali siano i motivi è compito dei politici.
Qualunque sia la ragione, queste differenze esistono e chiunque operi in Europa deve considerare questo particolare contesto sociale e politico. Sono convinto, non solo sulla base della mia esperienza in Fiat, ma anche in altre realtà industriali europee, che si può e si deve cercare il dialogo costruttivo. E che le soluzioni si possono trovare. In Fiat abbiamo ottenuto risultati importanti sulla via del dialogo. Dopo dieci anni— e senza un'ora di sciopero, che è un caso più unico che raro per l'Italia— è stato rinnovato il contratto integrativo aziendale. Dopo dieci anni sono stati assunti in fabbrica i primi giovani, in cambio di turni straordinari di lavoro. Abbiamo siglato un importante accordo con le istituzioni locali per la riqualificazione di Mi-rafiori, il più grande complesso industriale italiano, che ha comportato anche l'avvio di una nuova linea di produzione e l'assorbimento della cassa integrazione congiunturale.
I risultati raggiunti da Fiat dimostrano che trasformazioni simili sono possibili, anche in un Paese con una forte coscienza sindacale e con quello che la maggior parte dei commentatori anglosassoni chiamerebbero «struttura del lavoro poco flessibile». Se dovessi scegliere tra cercare di risolvere la relazione di General Motors con i suoi sindacati (Uaw) o di trattare i livelli occupazionali in Europa, io preferirei la seconda. Non c'è dubbio che la produttività e la flessibilità rimangono gli elementi chiave del nostro sviluppo industriale. In questo contesto, l'Italia è decisamente indietro rispetto al resto dell'Europa, ma resto convinto che è sulla strada del dialogo costruttivo che i problemi si possono risolvere. Se una società liberale deve durare nel tempo, è nel suo interesse sostenere coloro che sono colpiti dal cambiamento.
L'Europa può e deve distinguersi nella creazione e nella gestione di mercati liberi, riconoscendo e trattando in modo efficace le conseguenze delle loro attività sui propri membri. E deve farlo in maniera onesta e giusta, senza cadere preda di certi meccanismi troppo protettivi che sono già in uso in alcuni paesi membri e che, soprattutto in Italia, possono seriamente minacciare la ripresa industriale del Paese. Ma l'impegno esiste e non può essere ignorato.
Lo sviluppo di un'impresa non è solo una questione di tecnologia o di risorse finanziarie. È prima di tutto una questione di cultura. Le nostre imprese hanno bisogno di abbracciare la sfida del nuovo e pensare al futuro come a una grande opportunità. Hanno bisogno di un contesto trasparente e altamente competitivo. Hanno bisogno di vivere la cultura del cambiamento come una necessità. Di misurarsi ogni giorno sul merito, di fondare le proprie radici sui valori della concorrenza e del mercato. Quello che ogni Paese può fare è garantire che questa partita si giochi alla pari, che le opportunità siano le stesse offerte ad altre imprese in altri Paesi. In Italia non sempre queste condizioni sono così facili da trovare.
Qualche ragione c'è se gli investimenti esteri sono ancora così bassi. E queste ragioni si chiamano burocrazia, servizi, infrastrutture, tasse e costi di gestione. Dalla mia esperienza personale, ho visto che i vincoli burocratici alla fine proteggono aziende inefficienti, aziende che non hanno prospettive di sviluppo e nella maggior parte dei casi scaricano i costi sui clienti. La burocrazia non fa che alimentare se stessa. Perché porta la società a chiudersi a riccio, a proteggere quello che già esiste, senza mai affrontare le sfide del cambiamento. Allo stesso modo, ci sono altri elementi importanti per costruire un sistema economico che possa mostrarsi «attrattivo» non soltanto per chi opera già oggi in Italia ma anche per le aziende estere. Penso al miglioramento dei servizi pubblici, alla creazione di una rete di infrastrutture efficiente e moderna, a cominciare dal sistema viario e dei trasporti in genere. Ma penso anche alla riduzione della pressione fiscale e ad un tema come il costo dell'energia che in Italia è decisamente eccessivo rispetto al resto dei Paesi più industrializzati.
Tutti questi ragionamenti valgono a maggior ragione per il Sud Italia, dove è prioritario colmare il gap nei confronti del resto del Paese. Ma la prospettiva con cui ci si deve muovere non può essere quella assistenziale. La cultura dell'assistenzialismo produce dipendenza e spegne lo spirito di iniziativa e il senso di responsabilità. Il lavoro si crea solo se i meccanismi economici sono efficienti e se gli stimoli del mercato sono forti. In questo modo anche la cultura del cambiamento e della competizione possono trovare un terreno fertile.
Credo che il caso della Fiat sia solo un esempio della ristrutturazione dell'industria in Europa e della forza positiva del cambiamento. Il nostro cambiamento è stato realizzato da un gruppo di manager internazionali, molti dei quali italiani, che hanno abbracciato l'idea della competizione globale e che sono disposti a mettersi in gioco e a coinvolgere gli altri stakeholders nel sistema economico per raggiungere i necessari livelli di competitività. Grandi organizzazioni sono il risultato dell'esercizio della leadership di uomini e di donne che comprendono il concetto di servizio, di comunità, di rispetto fondamentale per gli altri e che ispirano.
C'è una storia che oggi non vi ho raccontato. In un certo senso è troppo presto per raccontarla, è la storia della trasformazione personale dei leader che sono stati coinvolti nel rilancio della Fiat e delle persone che gestivano. Ci sono dozzine di esempi simili e indubbiamente più validi e significativi: General Electric negli ultimi 25 anni, prima con Jack Welch ed adesso con Jeff Immelt; la resurrezione di Ibm operata da Lou Gerstner, le esperienze di Robert Oppenheimer nel Manhattan project con il team che ha costruito la bomba atomica, l'incredibile vittoria di Bili Clinton nelle elezioni presidenziali del 1992. Ma l'elemento comune a tutti questi casi è che tutti hanno lasciato un segno indelebile sulla formazione e sulla crescita dei leader. Sono cambiati per sempre.
Stiamo imparando come si vive da sopravvissuti e stiamo sviluppando le capacità di pensare al futuro in modo aggressivo e positivo. E lo stiamo facendo in un paese che è stato spesso etichettato dall'Economist strutturalmente e cronicamente perdente con titoli quali «Arrivederci. dolce vita» e «Don't cry for me, Italia». Ma questa è la prova che c'è speranza per tutti noi: nemmeno gli inglesi hanno la capacità di andare oltre i limiti della credulità e dell'immaginazione. Dopo tutto, la storia della Fiat è la storia del potere della leadership e della mancanza di paura di un gruppo di leader integri impegnati a raggiungere gli obiettivi. Come dice Mel Gibson nel film Braveheart: «Gli uomini non seguono gli uomini. Gli uomini seguono il coraggio». E forse dobbiamo dare ragione a un teorico politico molto frainteso — Niccolò Machiavelli — che circa 600 anni fa disse: «Il ritorno al principio è spesso determinato dalla semplice virtù di un uomo. Il suo esempio ha una tale influenza che gli uomini buoni desiderano imitarlo e quelli cattivi si vergognano di condurre una vita contraria al suo esempio». In Fiat stiamo costruendo un gruppo guidato da uomini e donne di virtù. Ed è grazie al loro coraggio e alla loro virtù se oggi posso concludere citando la fine del libro ‘‘Una storia tra due città'' di Charles Dickens e parafrasando le ultime parole: «It is a far, far better thing Fiat does, than it has ever done. It is a far, far better place it is going to than it has ever gone». Tradotto: «Fiat sta facendo molto, molto meglio di quanto non abbia mai fatto. Sta andando verso un posto migliore, molto migliore di quanto non sia mai stata».

Corriere della Sera 23.9.07
Esce una nuova edizione di «Immagini di città». Claudio Magris rilegge «l'infatuazione marxista» del pensatore Benjamin
La miopia di un genio, tradito dall'ideologia nella Mosca rossa non vide i germi del terrore


Pubblichiamo alcuni brani della prefazione di Claudio Magris a «Immagini di città. Nuova edizione» di Walter Benjamin (in libreria da martedì per Einaudi, pp.144, e16). Il volume, arricchito di tre scritti rispetto all'edizione del 1955, è a cura di Enrico Ganni e ha una postfazione di Peter Szondi

Il suo sguardo sull'Unione Sovietica rimase abbagliato e colse soltanto la tensione rivoluzionaria al riscatto
Nato a Berlino nel 1892, morì suicida a Portbou (in Spagna), nel 1940. Il viaggio a Mosca è del 1926

In una celebre e fulminea parabola Borges parla di un pittore che dipinge paesaggi; regni, montagne, isole, persone. Alla fine della sua vita si accorge di aver dipinto, in quelle immagini, il suo volto; scopre che quella rappresentazione della realtà è il suo autoritratto. La nostra identità è il nostro modo di vedere e incontrare il mondo: la nostra capacità o incapacità di capirlo, di amarlo, di affrontarlo e cambiarlo. Si attraversa il mondo e le sue figure, sulle quali si fissa lo sguardo, ci rimandano come uno specchio la nostra immagine, le nostre immagini che, man mano si avanza verso la meta finale del viaggio, restano indietro, appartengono via via a un tempo non più nostro, relitti che si accumulano nel passato.
Forse nessuno come Benjamin ha tracciato questo autoritratto attraverso le cose e le figure del mondo, che il corso della storia individuale e collettiva — il progresso — fa a pezzi. Il mondo, per lui, non è la natura, già perduta in un'epoca tanto anteriore alla sua vita e alla sua infanzia; perduta in un tempo mitico distrutto dal progresso storico, essa balena nell'epifania di qualche scheggia solo nelle pagine di alcuni scrittori epici del passato, come Leskov. Il mondo per lui è la città: la Berlino dei suoi anni infantili, la Mosca o la Marsiglia dei suoi viaggi, la Parigi capitale del XIX secolo con i suoi passages che conducono da un'epoca — e da una vita — a un'altra.
Le città, da lui colte in istantanee che fermano l'effimero nell'eternità dell'immagine, sono vive, malinconiche o amabili; la loro aura è la seduzione del sensibile e del presente. Ma le loro case, le loro strade e i volti dei loro passanti hanno delle crepe che, sebbene dissimulate, annunciano, come le rughe su un viso, lo sgretolarsi della vita e della storia, il loro franare e precipitare irredente nel cumulo di rovine del passato.
Chissà come Benjamin guarderebbe Portbou, la cittadina catalana dove nel 1940, con la Gestapo alle calcagna e la polizia franchista davanti, si è suicidato e dove oggi il Memorial di Dany Karavan lo ricorda col vuoto, con l'assenza: un semplice corridoio, un passaggio che scende, fra gli ulivi nel vento, a un mare di un blu insostenibile.
La città è, fin dalle origini, un simbolo di potenza subito avvolta dalla caducità; la sua poesia è spesso quella della sua caduta e delle sue superbe rovine, dal lamento per l'antichissima Ur alle elegie anglosassoni per i centri romani distrutti, dalle città di Kipling sepolte dalla giungla a quelle di Brecht, di cui si dice che di esse resterà solo il vento che le attraversa.
La distruzione si addice a Benjamin che, in una celebre pagina, descrive il cammino della Storia come una corsa verso il futuro che lascia dietro di sé cumuli di rovine, seppellendo le vittime cadute durante l'avanzata del progresso. Benjamin — che nella sua utopia di riscatto dei vinti e dei cancellati fondeva Marx e il Talmud — era avverso, come altri grandi rivoluzionari critici, a ogni regressiva nostalgia del passato e dell'arcaico, così ferocemente ingiusti e violenti; non disconosceva la liberazione che il progresso ha significato per milioni di persone, ma sapeva che il progresso, lungi dall'essere una marcia inarrestabile e illimitata verso un mondo sempre più felice, crea — con le sue stesse conquiste — nuovi problemi e infligge nuove ferite, che occorre sanare restando fedeli ai suoi fini, tornando magari indietro per curare quelle nuove piaghe, per soccorrere chi è stato travolto dalla marcia che gli è passata sopra, ma per continuare poi a procedere, in un continuo processo a spirale. Il suo «Angelus Novus», l'angelo della storia e del progresso, avanza nel futuro, ma si volge indietro a guardare le rovine provocate dal suo incedere e chi vi è rimasto travolto.
Se il tronfio e ottuso ottimismo circa il fatale e infinito accrescimento del benessere dell'umanità è caduto da un pezzo, oggi è il progresso in sé che appare a rischio o insostenibile, rendendo nuovamente e ancor più attuale il pensiero negativo e la teoria critica degli Adorno e dei Benjamin, non certo superati ma semmai inattuali, osservava Cesare Cases, non perché troppo bensì perché troppo poco apocalittici, inadeguati a quell'apocalissi crescente prolungata dai media, che ha distrutto lo stesso senso di realtà indistinguibile ormai dalla sua simulazione.
Peter Szondi, forse il più acuto e congeniale interprete di Benjamin, ha osservato che la descrizione della città — e in particolare della propria città — è un viaggio nel tempo piuttosto che nello spazio. La città diviene così doppiamente straniera: straniera e sconosciuta come lo era per il bambino che vi muoveva i primi passi senza conoscerla ancora e straniera perché non è più quella di una volta, quando il bambino la scopriva muovendovi quei primi suoi passi. Ma lo sguardo si fa veggente solo se vede l'estraneità delle cose, la loro alienazione e lontananza. Ogni viaggio è un ritorno all'infanzia; non la nostalgia di un bene perduto, ma di una possibilità di felicità che balenava nell'infanzia e che il futuro, anziché realizzare, ha soffocato; di una stendhaliana promesse de bonheur che la vita e la storia, nel loro corso successivo, hanno smentito.
A Marsiglia, il viaggiatore si accorge, aiutato dall'hashish, che col trascorrere del tempo «le cose si fanno più estranee». Con o senza droga, vorrebbe recuperare ciò che non ha mai avuto: il futuro, la possibilità — concreta, latente nel reale — di un futuro umano. Egli va alla ricerca dei «futuri abortiti» (...). Il viaggiatore — il bambino – diviene così il «rabdomante della malinconia»; scopre che la storia — anche la sua — è una storia di vinti. (...) Memoria del presente, ha scritto Antonio Martí Monterde; ritrovare ciò che si sta perdendo nell'attimo stesso dell'accadere. Benjamin è insieme affascinato e inorridito dall'oblio. Quest'ultimo, da una parte, è il marchio del cattivo progresso, che non solo accumula rovine ma le consegna pure alla dimenticanza insieme alle oscure vittime che esse ricoprono; l'oblio è un'ulteriore violenza nei confronti di quest'ultime, cui il cattivo tribunale della cattiva trionfante storia malvagiamente universale nega il diritto ad ogni forma di esistenza. Occorre dunque discendere, sprofondare nel passato per ritrovare quei sepolti e quei loro — e nostri — futuri sepolti (...). Ma il magico acciarino, che potrebbe liberare il futuro sepolto dal passato riscattando pure quest'ultimo, non si trova. Resta la dolce e materna infanzia protetta da una calda signorilità borghese, cui lo sguardo dei grandi aruspici del negativo quali Benjamin e Adorno — scriveva anni fa in uno splendido saggio Tito Perlini — non cessa in fondo mai di rivolgersi. L'albero di Natale «immola all'oscurità rami e aghi, per non essere null'altro che una costellazione inattingibile e tuttavia vicina nella buia finestra di un appartamento».
Quell'accogliente intimità borghese, così profondamente amata da Benjamin nel suo calore edipico, è irrecuperabile e qualsiasi tentativo di riproporla artificialmente come un valore è per lui una truffa ideologica, una falsificazione reazionaria, piccolo-borghese e fascistoide, ad uso del dominio e della repressione sociale. La deformazione dell'intimità, che caratterizza la modernità (e la postmodernità) occidentale esige allora la fine della privacy, della vita privata, e l'avvento di una nuova esistenza collettiva, che recuperi in una nuova dimensione sociale liberata l'arcaica coralità delle origini.
Benjamin crede di trovarla nella «porosa» Napoli (la «porosità» è la chiave di volta della sua lettura della città partenopea), con la gente che non entra nelle case ma ne esce, facendo vita comune sulle scale o nel vicolo. Ma soprattutto si convince di trovarla a Mosca: «Il bolscevismo ha eliminato la vita privata », proclama con entusiasmo (...). Coglie con vivezza l'epopea della nuova Russia, il suo fervore del futuro, l'aura della rivoluzione che avvolge il popolo, la giocosità infantile dei russi, quasi trasfigurata in quell'infanzia che la rivoluzione deve ritrovare o meglio creare per la prima volta e donare agli uomini in un mondo liberato. Egli coglie l'accelerazione impressa da Lenin al corso degli avvenimenti; accelerazione che rende rapidamente remota pure la sua immagine. Ma il suo sguardo micrologico – di solito acutissimo nello scorgere le crepe della negatività e nell'attendersi da esse piuttosto che da una gloriosa fanfara la redenzione — stavolta si lascia velare dalla partecipazione emotiva (...).
Come nella sua città natale e d'infanzia, pure a Mosca Benjamin incontra il desiderio obliato, il germe del futuro che quell'infanzia prometteva di far sbocciare. A Mosca lo scambia per un futuro non abortito ma realizzato o in via di realizzazione; come Carlo Levi, anch'egli crede che il futuro abbia un cuore antico e non si accorge dell'involuzione, già in atto, verso il terrore e l'apparato burocratico del terrore. Tuttavia quello sguardo su Mosca — ancorché talora abbagliato, come del resto quello di quasi tutti coloro che visitavano l'Unione Sovietica in quegli anni e anche negli anni seguenti — coglie un elemento infinitamente prezioso: la reale speranza e tensione rivoluzionaria al riscatto e alla salvezza, che già prima dello stalinismo il regime aveva irrigidito e soffocato, ma che per la storia e il futuro dell'umanità restano — come le promesse di ogni infanzia per la vita individuale – un lievito imprescindibile, un'esigenza insopprimibile e dunque il seme di un futuro umano.
«Una volta — ha detto Karl Valentin, il geniale cabarettista amico e in certo senso maestro di Brecht — il futuro era migliore». L'utopia messianica, l'attesa di un Messia che probabilmente non viene ma l'attesa del quale cambia comunque il mondo, è la resistenza a quella beffarda diagnosi, la quale d'altronde è fin troppo fondata. Il selvaggio anarco-capitalismo postmoderno, persuaso che la storia sia finita, nega ogni futuro e ogni sostanziale possibilità di cambiamento; instaura il suo impero in una specie di presente indefinitamente prolungato, ripetibile come le sue simulazioni mediatiche dalle quali non si distingue. Il viaggiatore, nomade come tutti i profeti, è talvolta sopraffatto dalla malinconia, ma continua testardo a leggere nelle cose ciò che verrà e ad annunciarlo. Le smentite della storia non lo scoraggiano; ciò che tarda, dice la Scrittura, avverrà.

Corriere della Sera 23.9.07
«Mamme acrobate» di Elena Rosci
Se la madre è postmoderna
di Silvia Vegetti Finzi


Pubblichiamo una sintesi dell'introduzione di Silvia Vegetti Finzi al libro «Mamme acrobate. In equilibrio sul filo della vita senza rinunciare alla felicità» di Elena Rosci, in questi giorni in libreria (Rizzoli, pp.240, e 17).

Credo che i genitori di oggi amino più che mai i loro figli: li desiderano, ne limitano il numero per non privarli di nulla e, per quanto possibile, li seguono personalmente preoccupandosi del presente e del futuro. Spesso però, di fronte a scelte, problemi e conflitti non sanno come comportarsi e si sentono spaesati e frastornati.
In una società, che ha ormai infranto gli stampi della tradizione, sono lasciati soli perché la famiglia patriarcale non esiste più e quella nucleare si rivela quanto mai fragile. La scuola è in crisi di autorevolezza e i luoghi deputati all'infanzia — da quelli istituzionali come l'oratorio, a quelli spontanei come il campetto, il cortile e la strada — hanno perso di attrattiva o non esistono più.
In compenso i mass-media dilagano offrendo, anzi imponendo, domande e risposte, bisogni e desideri che ottemperano, più che altro, a leggi di mercato. Le persone contano e vengono contate in base alla loro capacità d'acquisto e non importa se le proposte plasmano le domande e le suggestioni suscitando comportamenti indotti. (...) È in questo contesto problematico che Elena Rosci, dal suo osservatorio di donna impegnata nella famiglia, nella professione e nella società, apre uno spazio di parola in cui invita le sue interlocutrici privilegiate, le madri. Mamme acrobate perché in bilico tra passato e futuro, contese tra la realizzazione degli altri e la realizzazione di sé, incerte sui valori da perseguire e sulle priorità da assegnare. Certe soltanto di non voler rinunciare a ciò che considerano essenziale, pronte a qualsiasi sacrificio che non sia il sacrificio di sé e dei propri figli. (...) Storicamente nulla sembra più evidente della madre. La relazione materna sta alla base della certezza del diritto: la madre è tale da sempre e per sempre. Un'atemporalità che il libro contesta proiettando la maternità in una storia di lunga durata che la sottopone a mutamenti epocali, efficacemente rappresentati dalle opere culturali che animano il nostro immaginario. (...) Tra gli snodi più interessanti di questa singolare storia della donna in quanto madre, segnalo il passaggio dalla modernità alla postmodernità perché corrisponde al rapporto generazionale delle madri attuali con le loro madri, rapporto spesso idealizzato ma raramente indagato nelle sue contraddizioni. In questo senso il più efficace dispositivo di cambiamento viene individuato nella realizzazione di sé che, per la donna moderna, coincide con il benessere della famiglia, per quella postmoderna con la possibilità di esprimere e valorizzare potenzialità e aspirazioni personali.
Un mutamento che s'intreccia con i due grandi processi che coinvolgono le donne: quello di emancipazione, finalizzato a ottenere eguaglianza di diritti e di doveri tra i due generi, e quello di liberazione volto a riconoscere la specificità femminile e la differenza sessuale. La loro sinergia ha reso possibili straordinarie conquiste civili come il nuovo diritto di famiglia, il divorzio, l'interruzione volontaria di gravidanza, una legge più equa sulla violenza sessuale. Ma ha anche provocato una serie di ricadute non ancora ricomposte in un modello unitario e che, probabilmente, non lo saranno mai perché attraversate da contraddizioni strutturali. E perciò stesso dinamiche. (...) Il modello femminile non è più, come negli anni Ottanta, la «donna in carriera» o «in corriera» come insinuavano i suoi detrattori, ma la donn a-madre che cerca di trovare nuovi equilibri tra il lavoro, la coniugalità e la maternità.
Quest'ultima rappresenta il nucleo più saldo in una rete di relazioni ad alto indice di precarietà. «La donna postmoderna» si legge in uno dei passaggi più interessanti del libro «non rinuncia ad avere numerose gravidanze perché è una "carrierista sfrenata", tutt'altro. Vuole comporre "una vita nella quale ci stia tutto ciò che è importante": l'amore, il lavoro, l'amicizia, la cura del corpo, gli interessi personali, la maternità, la tessitura dei legami affettivi».
Nell'impresa di assemblare le parti in un insieme dotato di significato e di senso, «sono i figli la base sicura e stabile della famiglia mentre la relazione fra i coniugi costituisce l'anello debole della catena». (...) Mentre la donna degli anni Cinquanta risultava dalla somma di due addendi, femminilità e maternità, a quella di oggi si aggiunge la promozione di sé. Per ora è solo un'avanguardia, ma le ricadute delle sue conquiste saranno decisive per tutti: «È una pioniera» afferma Elena Rosci «e il nostro contributo sarà pionieristico ». La mamma postmoderna, ben diversa dalla precedente madre sacrificale, è il «prodotto di una mutazione antropologica tanto radicale e recente da rendere ardue definizioni esaurienti e definitive».
Oggi la donna punta a soddisfare una pluralità di esigenze

Corriere della Sera 23.9.07
Elio Gioanola mette in campo i suoi studi sulla follia dell'autore siciliano
«La vita o si vive o si scrive» Pirandello la raccontò e il suo destino divenne opera
di Claudio Di Stefano


Si potrebbe definire un romanzo, ma tutto è rigorosamente attestato dalle opere e dai documenti epistolari. Si potrebbe definire un saggio, ma ha un impianto narrativo con tanto di dialoghi. Si potrebbe definire allora una biografia, ma non è la storia di una vita. Piuttosto, è la storia di una non-vita. Questo per dire che Pirandello's Story di Elio Gioanola non è classificabile entro i generi canonici. Il critico psicoanalitico, che è anche romanziere in proprio, mette in campo i suoi studi sulla follia dello scrittore siciliano, «schizoide sano di mente», ma senza farli pesare al lettore. E attraverso otto nuclei tematici interni all'opera teatrale e narrativa, costruisce uno straordinario va e vieni (anche cronologico) nella non-vita di Luigi Pirandello.
Perché l'idea motrice è nel sottotitolo ed evoca un pensiero pirandelliano: La vita o si vive o si scrive. Pirandello, si sa, impossibilitato a viverla, la sua vita, decise di scriverla. O al contrario rinunciò a viverla per l'ostinazione di scriverla. Fatto sta che tra un'esistenza totalmente «vampirizzata» dalla scrittura e la scrittura stessa non può esserci soluzione di continuità. Per questo Gioanola preferisce parlare di «storia di un destino che è diventato opera». Si parte dalla fine. Dal 13 ottobre 1935, quando il «Conte di Savoia» proveniente dal porto di New York, attraccò a Napoli portando con sé il premio Nobel, ormai anziano, malato e deluso dalla missione americana e dal fallito sogno hollywoodiano. Nel primo capitolo, che ricostruisce anche il duro incontro con Einstein in esilio (il fisico accusò senza mezzi termini Pirandello di aver espresso le sue pubbliche lodi al regime fascista), contiene già in nuce i nuclei successivi: il difficile rapporto tra padre e figli, e la famiglia come inferno (è lo stesso Einstein a chiedergli le ragioni di questa ossessione); la passione, divenuta repulsione, per il teatro, la forma espressiva che lo rese famoso; la tormentata dedizione senile per Marta Abba: la presenza-assenza dell'amore come nostalgia originaria generatrice della scrittura; la paura della follia «possibilità (che) è condizione di tutta l'opera». Infine il cuore, in senso fisico «previsto punto di cedimento della propria compagine vitale» ma anche in senso ideale. E con il cuore si ritorna all'inzio, cioè alla fine, a quel doloroso viaggio di ritorno a bordo del transatlantico partito da New York. Pirandello's Story è un libro affascinante, forse una nuova strategia di lettura testuale capace di non scindere mai, neanche per un solo momento, l'uomo dallo scrittore. La lettura in forma narrativa, appunto, di un destino.
• Il libro: Elio Gioanola, «Pirandello's Story», editore Jaca Book, pagine 357, e 24

Corriere della Sera 23.9.07
La belle époque di Ferrara
Vanitosi, crudeli, simpatici al popolo Quei principi che fecero sognare l'Italia
di Carlo Bertelli


La città rivive la felice stagione vissuta a metà del '400 sotto il regno di Borso d'Este grazie alla rivalità tra i pittori Cosmè Tura e Francesco del Cossa.
E ora un patto con l'Ermitage di San Pietroburgo la pone al centro degli studi sul Rinascimento

Immaginiamo una Ferrara più piccola. Com'era prima dell'Addizione Erculea. Nella piazza, tra il duomo e la colonna con la statua equestre di Niccolò III, era allora non infrequente vedere Borso d'Este che s'intratteneva con i sudditi. «Mostrare l'amore per il popolo» era nel programma di un sovrano italiano del tempo. Il fratello di Borso, Lionello, l'aveva scritto espressamente ad Alfonso d'Aragona in un messaggio affidato proprio al fratello: occorre «ritenere per fermo che le fortezze degli stati consistono principalmente nell'amore dei sudditi». Niccolò Machiavelli rimproverò l'aspetto militare del castello di Milano, eretto quasi per intimidire i cittadini. Ma da tempi i Visconti figuravano nella letteratura politica fiorentina come esempi di tirannide. Tanto più, dunque, bisognava dimostrare di essere da loro diversi. «Non è più il tempo del duca Borso», pare che si dicesse a Ferrara ricordando la belle époque della città, quando il duca dava pubblici ricevimenti nel casino di Schifanoia, specialmente nel salone dove erano rappresentati gli astri e dove era dipinto il palio, la grande festa popolare che dal '200 univa tutti gli strati cittadini.
Modello ideale di questi principi era l'«ottimo imperatore» Traiano che aveva fermato l'esercito in marcia per rendere giustizia a una vedova. E difatti le loro idee di governo si erano formate leggendo i classici, in particolare a Ferrara, alla scuola dell'umanista Guarino Guarini. Esisteva, come sempre, una non piccola distanza tra gli ideali e la realtà.
Di uno dei principi illuminati, il patrono di Leon Battista Alberti, Matteo de' Pasti e Agostino di Duccio, tracciò un quadro spietato il papa Pio II Piccolomini. Crudele e lussurioso, nelle parole del Papa, Sigismondo era pure il devoto impietrito davanti al suo patrono nell'affresco di Piero della Francesca eseguito nell'edificio più sereno e classico che vi fosse mai stato, quella chiesa di San Francesco, a Rimini, trasformata nel Tempio Malatestiano.
Amato dal popolo era il nemico giurato di Sigismondo, Federico di Montefeltro. Su di lui gravava il sospetto di avere addirittura fatto uccidere il legittimo erede al trono per impossessarsene. I suoi balzelli non erano troppo pesanti e lo stato si sosteneva con le ricchissime prebende che venivano al principe dalle condotte militari. La fama di condottiero imbattibile era tale che talvolta Federico era pagato dalle due parti purché non scendesse in battaglia. Un suo ritratto eseguito dallo spagnolo Pedro Berruguete lo raffigura ormai vecchio, ancora in armi, ma intento alla lettura.
La biblioteca era il vanto di questi condottieri letterati. Federico era dottissimo, Malatesta Novello, il fratello di Sigismondo, mise tutte le sue fortune nella creazione della biblioteca di Cesena. L'incomparabile Bibbia di Borso d'Este rappresenta da sola tutta la grande scuola di miniatori ferrarese.
L'etichetta, le forme esteriori del potere erano giunte alle corti italiane dalla Francia e dalla Borgogna. Anche il gusto del bibliofilo era arrivato a Gian Galeazzo Visconti dall'esempio dei Savoia. Ma al contatto con gli ideali classici degli umanisti il mondo cortese si trasformò in una tensione verso quell'ideale del bello che noi identifichiamo con il rinascimento. E fu allora che l'Italia ebbe cose nuove da insegnare all'Europa.

Corriere della Sera 23.9.07
Ferrara diventa il laboratorio Ermitage
Il museo russo la sceglie per studiare e restaurare il suo patrimonio italiano
di Fabio Cutri

Dal 19 ottobre al Castello estense la nuova base italiana. «Molte le nostre opere da catalogare, ci aspettiamo grandi sorprese»

Un accordo culturalmente prestigioso, una collaborazione di amplissimo respiro scientifico e, aspetto non meno importante, un'ottima occasione per un gruppo di giovani ricercatori: tutto è pronto per l'inaugurazione — il 19 ottobre, ci sarà anche il presidente della Repubblica Napolitano — del progetto Ermitage Italia. Dopo Londra, Amsterdam e Las Vegas, il celebre museo di San Pietroburgo ha scelto proprio Ferrara come «base» italiana: la suggestiva cornice del Castello estense e il complesso di Parco Giglioli ospiteranno un centro studi italo-russo connesso alla collezione d'arte italiana che è custodita all'Ermitage.
«Sarà innanzitutto un laboratorio che permetterà agli esperti dei due Paesi di scambiarsi competenze sul restauro, la conservazione e la valorizzazione delle opere d'arte», spiega Irina Artemieva, responsabile della pittura veneta dell'Ermitage e direttore russo dell'iniziativa. «Il nostro obiettivo è assai ambizioso — aggiunge il direttore italiano e docente dell'università di Ferrara Francesca Cappelletti —: seguendo le rotte delle numerose opere che dal Settecento in poi iniziano a circolare tra Italia e Russia, cercheremo di offrire un contributo importante alla storia del collezionismo europeo, una delle correnti oggi più vitali della storia dell'arte».
Il patrimonio italiano conservato nel Palazzo lungo la Neva è straordinariamente ricco, comprende tra l'altro il più grande nucleo al mondo delle sculture del Canova e un migliaio di dipinti che vanno dal primo Rinascimento fino al Novecento (Leonardo, Raffaello, Tiziano, Caravaggio e Tiepolo, solo per citarne alcuni). Non ci sono solo capolavori che non sono mai stati esposti nel nostro Paese («e mai lo saranno», aggiunge la Artemieva: «spostare quadri di dimensioni imponenti come la "Giuditta" del Giorgione o "La disputa dei padri della Chiesa" di Guido Reni è praticamente impossibile»), ma anche opere ancora in attesa di essere catalogate: «Ci aspettiamo moltissime sorprese, come quella che ci ha fatto pochi mesi fa la Artemieva rivelando di aver ritrovato nei depositi del museo una Madonna con Bambino di Lorenzo Lotto che si credeva perduta — racconta la Cappelletti —. Per quanto riguarda la catalogazione (finora l'Ermitage ha pubblicato il volume dedicato alla scultura), ciò che resta ancora da fare apre ottime prospettive di ricerca per gli italiani: da gennaio cominceremo ad assegnare le prime borse di studio».
La «filiale» dell'Ermitage a Ferrara, nata dalla candidatura avanzata dalla Provincia nel dicembre di due anni fa, sarà gestita da una fondazione che potrà contare, tra finanziamenti pubblici e privati, su un budget di 400 mila euro l'anno. Oltre alla ricerca, ogni due anni il Castello estense ospiterà una grande mostra. Si comincia nel marzo prossimo proprio con un omaggio alla pittura ferrarese del Cinquecento. Pezzo forte dell'esposizione sarà Garofalo, artista definito il «Raffaello di Ferrara»: da San Pietroburgo arriveranno tre grandi dipinti, «Le nozze di Cana», la «Via Crucis» e un'«Allegoria del Vecchio e del Nuovo Testamento» rimasta arrotolata per oltre cinquant'anni e tornata finalmente fruibile dopo il restauro.
I due direttori ci tengono però a sottolineare che l'aspetto espositivo resterà sempre una parentesi rispetto alla natura scientifica del progetto. E che il via vai tra Ferrara e Pietroburgo riguarderà più le persone e le idee piuttosto che le opere d'arte. «Diciamo che queste mostre vanno considerate un "assaggino"... — sorride la Artemieva —. Le opere dell'Ermitage vanno viste all'Ermitage: è un incantesimo che non deve essere spezzato».

Corriere della Sera 23.9.07
Il significato degli affreschi di Palazzo Schifanoia
Signori e contadini, tutti in un romanzo astrologico
di Francesca Bonazzoli

Il palazzo Schifanoia, costruito come luogo di piacere dove andare a «schivare la noia», è arrivato fino a noi come la più splendida testimonianza della «demonologia astrologica» del XV secolo. Fatto ampliare e decorare da Borso intorno al 1464, è la perla del gusto dotto, raffinato e stravagante che si coltivava a Ferrara nelle cosiddette «delizie estensi», ville e palazzi purtroppo oggi per lo più scomparsi.
Nel grande salone al piano nobile un ciclo di affreschi, con un programma iconografico dettato forse dall'astrologo e bibliotecario di corte Pellegrino Prisciani, celebra l'investitura papale a duca di Ferrara di Borso, figlio illegittimo di Lionello d'Este. L'esaltazione del suo buon governo avviene attraverso elaborate immagini astrologiche che mettono in relazione gli arcani del cielo con le attività sublunari del sovrano.
Le pareti sono divise in dodici partiture verticali corrispondenti ai mesi dell'anno (di cui oggi sono leggibili solo sette); ogni mese è diviso in tre fasce orizzontali sovrapposte: nella più alta è affrescato il trionfo della divinità che la mitologia pagana abbinava ad ogni mese; nella fascia centrale compaiono le allegorie dei segni zodiacali con i rispettivi «decani», ovvero le tre decadi in cui gli antichi Egizi suddividevano ogni segno e giunti fino a noi attraverso la mediazione dei testi arabi; infine, nella fascia più bassa, la glorificazione di Borso d'Este che sovrintende ai differenti lavori agricoli legati ai mesi. Il signore è dunque il tramite fra l'ordine divino delle stelle e l'ordine che regna sulla terra: il trascorrere del tempo, regolato nel cielo dalle divinità astrali, è affidato in terra alla sovrintendenza di un principe illuminato e saggio, che asseconda l'armonia delle sfere celesti e le leggi della natura.
La decorazione di Schifanoia non è una stravaganza senza precedenti: nel basso Medio Evo infatti, attraverso i testi dei filosofi arabi, era rinato l'interesse per la «fede negli astri» che poi fiorì con gli studi umanistici. Rappresentazioni astrologiche si trovavano miniate nei codici, tessute negli arazzi o affrescate nelle volte, ma a Ferrara il programma iconografico ha un respiro ampio e unitario senza confronti. La raffigurazione dei mesi collegata ai lavori agricoli e alle altre attività dell'uomo (la semina, la vendemmia, il mercato), è ripresa da una tradizione che risale a tempi antichissimi; mentre è solo a partire dal Medio Evo che ai mesi furono associate anche rappresentazioni della vita di corte come il gioco delle carte o le cacce.

Corriere della Sera 23.9.07

Tura e del Cossa, la grande gara per dare splendore agli Este
Attorno ai due protagonisti, i tesori dell'«Officina ferrarese»
di Francesca Montorfano

Monumentale il primo, immaginifico il secondo. E in quell'ambiente cosmopolita, la terza star fu de' Roberti

Il portamento fiero, lo sguardo diretto e limpido, l'incisività del tratto. Poche altre immagini come il celeberrimo «Ritratto d'uomo» dipinto da Francesco del Cossa negli anni Settanta del Quattrocento possono testimoniare tutta la vivacità del fermento artistico e culturale che Ferrara stava vivendo in quei tempi e che avrebbe fatto della splendida corte estense una protagonista di primo piano dell'arte europea. Ma la strada verso il successo era stata lunga per l'artista. Tanti erano i maestri con cui aveva dovuto confrontarsi, tenuti in grande stima dalla corte. E non si trattava solo di Pisanello, Van der Weyden, Jacopo Bellini o Andrea Mantegna, per quanto celebratissimi, ma di quel Cosmè Tura, ferrarese a cui Borso aveva affidato la decorazione dello Studiolo di Belfiore, consacrandolo ancora giovane tra i pittori più noti di area padana.
Ma è proprio dall'antagonismo tra i due, o meglio dai differenti apporti del loro stile e dei loro modelli artistici, che nascerà un nuovo, stupefacente codice espressivo. Un linguaggio fantasioso e ricercato, eccentrico e ornato, che ben presto diventerà la cifra distintiva dell'arte rinascimentale ferrarese e che la grande mostra aperta dal 23 settembre nelle due sedi di Palazzo dei Diamanti e Palazzo Schifanoia, si propone di ricostruire nella sua magnificenza.
«Sicuramente Borso d'Este era preoccupato più della sua immagine che delle arti, considerate come strumenti politici finalizzati a magnificare la sua persona. Ma non va dimenticato che i vent'anni del suo governo, dal 1450 al 1471, hanno portato alla realizzazione di capolavori straordinari», precisa Mauro Natale, curatore della mostra.
«La pittura ferrarese- aggiunge- ha avuto una triste sorte. Dopo l'allontanamento degli Este alla fine del XVI secolo, molte delle opere più importanti sono state smembrate e acquistate da collezionisti e musei di tutto il mondo. E' questa la prima volta dalla grande mostra del '33 che si possono vedere riuniti anche dipinti frammentati o dispersi, ripercorrendo la parabola artistica di quella che gli storici hanno chiamato "età dell'oro" della corte estense».
Le premesse di tale rivoluzione espressiva sono da ricercarsi nel decennio che precede l'avvento di Borso. Ed è per questo che la rassegna si apre con l'evocazione del clima cosmopolita della Ferrara di Lionello e le opere dei maestri del gotico che tanta influenza ebbero sui gusti della corte, come dimostra quel San Girolamo di Bono da Ferrara così incredibilmente simile ai modi di Pisanello. Oltre 150 sono le opere in mostra, tra dipinti, sculture, miniature, disegni, medaglie, oreficerie e tessuti. Una ricchezza di tecniche e materiali ben illustrata nella sezione dedicata a quella che Roberto Longhi definì «Officina ferrarese», dove una posizione di rilievo spetta ai messali, ai libri d'ore, alle tavole astrologiche che Giorgio d'Alemagna e Taddeo Crivelli mirabilmente impreziosirono, fondendo il gusto decorativo tardogotico con le forme geometriche e luminose del Rinascimento. Ma la chiave di lettura che la mostra propone è un'altra ancora. Sottolineare i contributi che al nuovo codice espressivo diedero Cosmè Tura e Francesco del Cossa, artisti diversi per formazione e temperamento. Pittore di corte, interprete esclusivo degli ambiziosi progetti estensi Tura, che a parte un soggiorno giovanile a Padova non lascerà Ferrara. La sua formazione non sarà tuttavia provinciale, come documenta la deliziosa «Madonna col Bambino » della National Gallery di Londra legata alla cultura gotica o lo strepitoso capolavoro della Pietà di Venezia, dove il linguaggio dell'artista si aprirà alla lezione di Mantegna e dell'arte fiamminga. Sarà poi il Polittico di San Giacomo, qui ricostruito nelle sue tre parti, a testimoniare l'evoluzione in senso monumentale della sua pittura. Un percorso più diversificato, arricchito da importanti esperienze in terra fiorentina e bolognese, compie invece Francesco del Cossa, che nella sua scrittura asciutta, prospettica, felicemente cromatica, evidenzierà la conoscenza delle composizioni solari e volumetriche del Rinascimento toscano, come nell'intensa Pietà di Parigi restaurata per l'evento. Un'altra impresa dovrà ancora affrontare il pittore, raggiungendo i vertici della sua arte potente e immaginifica: la decorazione di uno dei cicli più affascinanti del Rinascimento, quello del Salone dei Mesi a Schifanoia che vedrà l'entrata in scena di Ercole de' Roberti, terzo grande protagonista della stagione e a cui lunghi restauri hanno oggi restituito piena leggibilità. Sarà questa l'ultimo eccesso, l'ultima «pazzia» della grandeur estense.

il manifesto 23.9.07
Strage di Cefalonia, assassini in libertà
di Marcella De Negri e Franco Giustolisi


Ricorre in questi giorni la strage di Cefalonia. Su quell'isola dello Ionio, dal 16 al 25 settembre 1943, vennero uccisi a tradimento, dopo aver deposto le armi, dai 4000 ai 5500 soldati italiani che avevano resistito ai tedeschi. Li si commemora il 24 settembre, quando il generale Gandin e gli ufficiali della divisione Acqui furono fucilati.
La ricorrenza impone di chiedere giustizia: in Italia, visto che la Germania - come ha riferito il manifesto l'11 agosto - ha archiviato in silenzio l'inchiesta condotta a Dortmund su Cefalonia. Già nel settembre 2006 la procura di Monaco aveva deciso di non procedere, per prescrizione di un omicidio «senza aggravanti», contro il sottotenente Otmar Mühlhauser, al comando del plotone che fucilò Gandin. L'87enne Mühlhauser vive indisturbato a Dillingen, in Baviera.
Che si facesse giustizia lo chiedemmo già il 22 agosto su queste pagine, con una lettera aperta ai presidenti della Repubblica e del Consiglio, ai ministri degli esteri, della difesa e della giustizia. Non hanno trovato il tempo per rispondere, anche se il tempo si trova per deporre corone. Ma la giustizia dove la mettiamo?
Il solo generale Hubert Lanz, che trasmise l'ordine di Hitler di «non fare prigionieri», fu condannato per Cefalonia, nel 1948 da una corte militare americana. Ma pure questo giudizio si risolse in una beffa: dei dodici anni inflittigli, Lanz ne scontò solo tre. Fu liberato nel 1951, perché i generali della Wehrmacht, per collaborare al riarmo, esigevano che si scarcerassero i loro commilitoni.
In Italia, in nome della fratellanza d'armi atlantica, due ministri, Martino e Taviani, intervennero per bloccare le inchieste. I giudici istruttori militari sentenziarono il non luogo a procedere nel 1957 e nel 1960. La procura militare di Roma, dopo l'apertura dell'«armadio della vergogna», confermò le archiviazioni, constatando la morte di quanti furono indagati negli anni '50. Senza chiedersi, come fecero i colleghi tedeschi qualche anno dopo, se non ci fossero altri responsabili ancora in vita. E c'erano.
Alla nostra lettera ha però reagito, il 30 agosto su questo giornale, il procuratore militare di Roma Antonino Intelisano, annunciando la sua disponibilità a riaprire «eventualmente» un'inchiesta italiana, quando avrà esaminato il provvedimento d'archiviazione di Dortmund. È una disponibilità dovuta. Ma non sapevamo che Roma dipendesse da Dortmund: che bisogno c'era, per un'inchiesta autonoma, di aspettare l'affossamento di quella tedesca?
Il manifesto ha precisato che non ci fu un'offerta esplicita della procura di Dortmund di trasmettere a Roma le risultanze delle sue indagini. Ma non è questo il punto. Chi scrive chiese già in passato a Intelisano, in tempi diversi, come mai non avesse aperto un'indagine che l'obbligatorietà dell'azione penale sembrava imporre.
Per la fucilazione di Gandin si aveva dal 12 dicembre 2001 una pubblica ammissione di responsabilità, quando la Repubblica riferì dell'intervista concessa da Otmar Mühlhauser, con uno pseudonimo, a Christiane Kohl: «Fui io a comandare il plotone di esecuzione». Mühlhauser lo ripeté allo stesso quotidiano, col suo vero nome, l'11 agosto 2004.
Nel maggio 2003 il procuratore di Dortmund informò personalmente sulle indagini Intelisano, che accolse le richieste di rogatoria dalla Germania. Gli elementi per aprire un fascicolo sulle fucilazioni degli ufficiali si presentavano su un piatto d'argento. E non mancavano spunti per risalire ai responsabili di altre uccisioni.
* figlia del capitano Francesco De Negri, fucilato a Cefalonia
** giornalista, autore dell'«Armadio della vergogna»


il manifesto 23.9.07
Il fascino di un Islam in bilico tra teologia e libero pensiero
«Averroè» di Massimo Campanini per Il Mulino. Dal conflitto con gli ulema conservatori al commento delle opere di Aristotele. La vita di un teologo dell'XII secolo che ha influenzato la filosofia medievale eterodossa, Giordano Bruno e Spinoza
di Augusto Illuminati


Vi sono molti modi per affrontare Ibn Rushd-Averroè, e questo per l'ambiguo statuto dell'autore: traduttore e diffusore di Aristotele o pensatore originale? Teologo islamico o precursore dell'illuminismo? Ideologo della dinastia almohade o eroe del libero pensiero? La scelta di Massimo Campanini (Averroè, Il Mulino, pp. 159, euro 11) è, nel suo equilibrio, quella più pertinente per la conoscenza di un pensiero troppo spesso forzato e travisato in una delle predette direzioni. Eppure, come lo stesso Campanini ammette, tali accentuazioni possiedono un valore speculativo e politico.
Travisamento di un pensiero
La storia dell'averroismo e le controversie suscitate dall'interpretazione di quel pensiero sono spesso più interessanti e decisive di quanto l'autore stesso ha pensato o voluto lasciar trapelare; infatti Ibn Rushd, intellettuale organico a un progetto di potere, non aveva lo stile nevrotico di Maimonide, leader politico-religioso di una minoranza spesso perseguitata, che espone copertamente nel testo le contraddizioni, fino a diventare l'emblema della doppiezza intrinseca alla filosofia, secondo la geniale ricostruzione di Leo Strauss.
Dunque non direttamente Averroè (che pure si scontrò con gli ulema fondamentalisti e subì per un breve periodo esilio e rogo delle opere) ma piuttosto l'averroismo rende testimonianza piena delle implicazioni sovversive di un pensiero originale, velato caso mai dall'equivoco passare attraverso l'interpretazione di Aristotele. Non che la sua versione in arabo di Aristotele, poi trasferita in ebraico e in latino, non fosse corretta, anzi filologicamente fu la migliore disponibile in assenza dei testi greci. Ma i concetti peripatetici venivano forzati fino all'estremo limite: tenuti fermi contro alcuni principi della religione rivelata (eternità del mondo, rifiuto dell'immortalità individuale dell'anima), piegati alle esigenze del nuovo tempo (partecipazione all'eternità, governo illuminato della comunità).
Al servizio della dinastia
Fu questo l'Averroè che entusiasmò il pensiero medievale eterodosso, Giordano Bruno e Spinoza. Su questa strada si potrebbe andare avanti, con la stessa amorevole spregiudicatezza con cui Averroè salvò Aristotele travisandolo. Ma torniamo all'esposizione di Campanini, che mira a sottolineare la coerenza del razionalismo giuridico e filosofico con la fede islamica di Averroè. Egli si colloca storicamente nel contesto di una complessa operazione politica della dinastia degli almohadi, subentrata nella Spagna del XII secolo a quella almoravide, dissolta in una miriade di staterelli impotenti davanti alla reconquista spagnola. Sebbene l'ideologia almohade a partire dal suo ispiratore Ibn Tûmart fosse ancor più puritana della precedente, l'afflato messianico che la pervadeva, oltre a essere utilissimo per la riscossa militare, la poneva in rotta di collisione con il conservatorismo degli ulema almoravidi.
Averroè, che era soprattutto giurista e uomo politico, fu il perfetto rappresentante di quel tanto di razionalismo riformista che si addiceva alla nuova dinastia nel periodo dei successi militari, così come la perfetta vittima sacrificale da offrire provvisoriamente ai fondamentalisti in fase di sconfitta. Il razionalismo giuridico fu piuttosto moderato, anche se adeguato per far prevalere la fonte coranica sulle tradizioni interpretative, patrimonio degli ulema riluttanti al nuovo regime. Il razionalismo filosofico fu invece ben più radicale e incoraggiato dal sovrano Abû Ya'qûb Yûsuf, che lo stimava come pensatore ma soprattutto come medico personale.
Campanini insiste sul ruolo centrale che nell'opera di Ibn Rushd assume il Trattato decisivo, restato ignoto ai latini, una fatwà, opinione ufficiosa che il magistrato, gran cadì a Córdoba e Sevilla, formula sulla legittimità della filosofia e la sua conciliabilità con la religione, distinguendo i pubblici separati dei dotti e delle masse, cui si rivolgono i rispettivi linguaggi senza quelle commistioni arbitrarie cui perniciosamente indulgono i teologi. Operazione censoria contro gli ulema conservatori più che dottrina della «doppia verità», come sarà interpretata nel mondo cristiano, dove completamente diverso era lo statuto della teologia e il potere della Chiesa e quindi l'averroismo si configurerà come pericolosa eresia. Sulla stessa linea, con argomenti specificamente metafisici, si sviluppa l'Incoerenza dell'incoerenza, volta contro al-Ghazâlî e Avicenna.
L'opera sistematica di commento di Aristotele si sviluppò fra il 1159 e il 1194 attraverso i tre generi dei compendi, apparentemente più liberi in realtà scolastici e marcati dal giovanile neoplatonismo, parafrasi o commentari medi e infine grandi commentari con traduzione integrale incorporata, che contengono l'elaborazione più originale del Commentator - come fu chiamato dai Latini, in coppia con il Philosophus per eccellenza, Aristotele.
L'involontario materialismo
L'architrave di tali scritti è un'epistemologia realista, in cui vi è un rapporto speculare fra struttura razionale del mondo e del pensiero, quasi una identità mediata dal linguaggio. Di qui la riduzione della possibilità e della contingenza a potenzialità e il rifiuto del mistero e dei mondi possibili. Quasi un'anticipazione di quella che, in una fase post-aristotelica sarà l'opposizione tra Spinoza e Leibniz. L'averroismo diverrà quindi, in versione latina, un naturalismo assai influente nel Rinascimento. Discorso peraltro non applicabile meccanicamente in ambito islamico: basterebbe pensare che la referenza fisica della teologia asharita e di al-Ghazâlî era l'atomismo democriteo, che nella sua veste lucreziana sarà alla base del più intenso materialismo nel mondo cristiano.
Si innestano su questo fondo le due idee più innovative di Averroè: l'unicità dell'intelletto materiale, che in versione dantesca diventa esplicitamente il comune patrimonio istituzionale, culturale e tecnologico dell'umanità, una specie di general intellect su cui ogni volta si definisce la singolarità, e la felicità mentale ovvero la congiunzione del sapiente in vita con l'«Intelligenza Agente», equivalente laico dell'esperienza mistica, che conferisce uno statuto privilegiato al filosofo, un eccesso sul suo ruolo sociale. Anche qui verrebbe da evocare la beatitudine spinoziana e l'amor Dei intellectualis.