martedì 25 settembre 2007

Corriere della Sera 25.9.07
Nuove carte sui regolamenti di conti tra intellettuali nella Germania post nazista
Heidegger e la Norimberga dei filosofi
Compromesso con il Terzo Reich, fu epurato. Ma Romano Guardini non volle il suo posto
di Armando Torno


Nell'estate del 1945, con la resa incondizionata della Germania, ci fu chi pensò, dopo un processo esemplare ai capi politici, anche a una Norimberga degli intellettuali nazisti. Furono sostanzialmente esclusi, per quel che è noto sino a oggi, gli scienziati che avevano aderito al Terzo Reich e che si divisero tra Urss e Usa, senza problemi. Ma con un artista quale Arno Breker, che pur aveva aiutato Picasso durante la guerra, gli Alleati si comportarono diversamente: i suoi studi furono confiscati e distrutti, circa l'80% delle opere a lui attribuite venne disperso e qualcosa si ritroverà soltanto negli anni '60 in una fonderia, dove le sculture erano vendute a peso (una legge del 1947 gli impedirà anche il riacquisto di quanto fosse riuscito a rintracciare). Né andò meglio per i filosofi.
Già all'indomani del 28 aprile 1945, allorché le truppe francesi entrarono a Friburgo, alcuni professori vennero arrestati per collaborazionismo e l'amministrazione comunale stilò una «lista nera» di quelli che si erano compromessi con il passato regime. I loro appartamenti furono posti sotto sequestro e si formò una «Commissione per l'epurazione», della quale fecero parte docenti appena scarcerati. Sarà questo organismo a proporre di pensionare in anticipo Martin Heidegger, che a Friburgo aveva la cattedra, ma non di allontanarlo dal suo posto. Mentre il filosofo teme la confisca della propria biblioteca, il Senato accademico impugna la decisione e le indagini sul suo conto vengono riaperte.
È in questi momenti che accade qualcosa di unico nel polverone delle vicende. Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz, che insegna Filosofia della religione e Scienza delle religioni comparate alla Technische Universität di Dresda, e che è la massima specialista di Romano Guardini (1885-1968), il pensatore nato a Verona ma completamente tedesco nella vita e nelle opere (dal 1923 al 1939 cattedra a Berlino, nel 1945 a Tubinga, nel 1948 a Monaco di Baviera), ha ritrovato documenti e delineato situazioni che gettano luce sui fatti accennati. L'abbiamo incontrata nella sua casa di Erlangen, poco distante da Norimberga, dove ci ha mostrato gli appunti di un saggio che ricostruisce il rapporto tra i due. Si intitola Romano Guardini e Martin Heidegger. Annotazioni riguardo a un dialogo che non è mai avvenuto direttamente (la traduzione italiana uscirà sul n. 4 della rivista "Humanitas", diretta da Ilario Bertoletti ed edita da Morcelliana).
La Gerl-Falkovitz parla di una serie di incontri tra i due filosofi che non si conoscevano. Per fare un esempio, se ne può ricordare uno del 1933 che vede Heidegger «in tuta blu» mentre è in gita in canoa sul Meno con la moglie. Appena viene a conoscenza di un convegno organizzato da Guardini, interrompe la vacanza per rendere omaggio «al metafisico» e fare colazione con lui. Il giorno seguente, il pensatore cattolico riassumerà quei dialoghi con una battuta a Mathilde Schütter di Monaco: «Ieri sera ho capito che non sono un filosofo». Ovviamente egli non condivide il pensiero dell'autore di Essere e tempo.
La Gerl-Falkovitz elenca le distanze che Guardini prende in diverse occasioni, soprattutto quando Heidegger accetta incarichi dal partito nazista. Ma nel 1945 le loro strade si incontrano, e sarà il cattolico a scrivere un capitolo particolare della storia dell'epurazione.
Dunque: nell'autunno di quel 1945 Guardini riceve proposte da vari atenei tedeschi, tra i quali c'è appunto Friburgo. Anzi, gli viene chiesto da Max Müller (la Gerl-Falkovitz ci mostra la lettera), professore di quella università, di sostituire Heidegger. Ricorda la studiosa tedesca: «Guardini rifiuta senza esitazioni, adducendo come motivo, cosa che comunica direttamente allo stesso Heidegger nel 1946, l'impossibilità di inquadrarsi nell'ambito della filosofia intesa come disciplina specifica». È chiaramente una scusa, un'arrampicarsi sui vetri. La Gerl-Falkovitz aggiunge: «Anche se Guardini in quei mesi soffriva di depressione e le varie proposte lo lusingavano, di fronte al nome di Heidegger non avrebbe mai accettato: lo considerava il più grande». E a chiarimento: «Va precisato che il filosofo cattolico ebbe un singolare rapporto con l'autore di Essere e tempo. Quest'ultimo ne cercò, sin dagli anni '30, sia il plauso che la confidenza. Ma Guardini tenne le distanze: lo considerava il numero uno al mondo, ma lo accusava di aver contaminato la sua filosofia con il nazismo. Anzi, più di una volta pensò fosse una persona disturbata; riteneva il pensiero di Heidegger pericoloso, da confutare ma non da martirizzare. Se lui fosse stato epurato, se si fosse realizzata una Norimberga degli intellettuali, si sarebbe trasformato in una vittima con conseguenze devastanti. La potenza del pensiero di Heidegger era diversa dal suo errore».
Per taluni aspetti, il comportamento di Guardini è parallelo a quello di Jaspers, anche se la rinuncia alla cattedra mostra qualcosa di più (la Gerl-Falkoviotz aggiunge: «Forse Heidegger avrebbe accettato senza obiezioni la chiamata di Guardini»), ma soprattutto impedì che si mettesse in moto un processo di epurazione che avrebbe utilizzato Heidegger come simbolo. In quei mesi, del resto, bastava poco. «Il movimento di denazificazione — aggiunge la studiosa tedesca — del quale stanno emergendo documenti inediti, avrebbe sicuramente travolto Heidegger se Guardini avesse accettato. Non si dimentichi che la moglie Elfride era ancora nazista nel 1945».
L'altro capitolo di questa storia riguarda la proposta che lo stesso Guardini farà l'8 febbraio 1961 alla Bayerische Akademie di belle arti di Monaco per chiamare Heidegger a farne parte. La categoria scelta è «Letteratura»: ha reso «il fenomeno del linguaggio oggetto di particolare ricerca», «ha arricchito la filosofia di una serie di parole» eccetera. Nella parte finale della proposta, Guardini dichiara di essere in disaccordo con Heidegger su importanti questioni, nonostante lo conosca da cinquant'anni. Ma, ribadisce, è un pensatore importante, ha avuto un grande influsso ed è giusto riconoscerlo. Immaginiamoci le perplessità. Tra l'altro emerge dal dibattito, sviluppatosi intorno alla chiamata, la presenza tra gli altri candidati del «comunista italiano Quasimodo», forte di numerosi appoggi. La cosa irrita Guardini. Sono sue parole: «È un dato di fatto che a fronte di uguali elementi si è più indulgenti verso quelli che stanno a sinistra che con quelli che stanno dalla parte opposta». Sottolinea la Gerl-Falkovitz: «La spunterà Guardini, anche se sarà costretto a minacciare le dimissioni. Se non avessero ammesso Heidegger, le avrebbe rassegnate dall'Accademia».
Una storia scritta con tracce di dedizione assoluta. Guardini, che avrà scambi epistolari con Pio XII e Paolo VI, stimava Heidegger sino a compromettersi, prendendo tuttavia sempre le distanze. Lo ha comunque salvato da una Norimberga forse più problematica di quella che toccò ai gerarchi di Hitler.

l’Unità 25.9.07
Fecondazione, alt alla legge
Il tribunale: sì alla diagnosi preimpianto, tutelare il diritto alla salute
Sentenza a Cagliari che smonta un pezzo della legge 40
di Davide Madeddu


LA DIAGNOSI preimpianto si può fare. Il tribunale di Cagliari ha dato ragione ai due coniugi che per poter avere un bimbo avevano chiesto di poter eseguire la diagnosi preimpianto prima di procedere con la fecondazione in vitro. Dopo il diniego dei medici in applicazione del divieto imposto dalla legge 40 sulla fecondazione assistita avevano presentato ricorso prima alla Corte costituzionale poi al tribunale di Cagliari. Ieri mattina la sentenza che ha dato loro ragione. E Maria e Giuseppe, i nomi sono di fantasia, potranno andare avanti con la diagnosi preimpianto e la selezione dell’embrione non colpito da anemia mediterranea. Per l’avvocato della coppia, Luigi Concas, si «supera il problema della legittimità costituzionale», perché «riconosce essere la diagnosi preimpianto consentita sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata della legge 40» e privilegia «il diritto della donna alla salute». Gianni Monni, primario dell’ospedale Microcitemico di Cagliari, non nasconde la sua soddisfazione. «La sentenza scardina le linee e il sistema che stava funzionando - spiega - adesso la signora potrà andare avanti per avere un bimbo che non sia colpito da talassemia». Adesso il medico dovrà controllare lo stato dell’embrione, verificare se possa essere portatore di talassemia e, qualora fosse in buone condizioni, procedere all’impianto e alla gravidanza. «Alla luce di questa sentenza non possiamo che essere soddisfatti - prosegue Monni che proprio alla luce delle direttive della legge 40 aveva dovuto spegnere i macchinari all’avanguardia usati proprio contro la talassemia - la signora, che ha effettuato la fecondazione a Istanbul e oggi e alla trentesima settimana di gestazione, ha detto che dopo questa gravidanza vuole avere anche un altro bimbo». Non si fa attendere la reazione delle associazioni che si sono battute per modificare la legge 40. Per Filomena Gallo e Rocco Berardo, rispettivamente Presidente di Amica Cicogna e vice segretario Associazione Coscioni, la sentenza «è un importante passo in avanti rispetto al superamento delle attuali linee guida».

Corriere della Sera 25.9.07
Flamigni: ha vinto il buonsenso


ROMA — Professor Carlo Flamigni (foto) sarà contento, no?
«E' una sentenza ineccepibile dal punto di vista della logica e del buon senso. Questa donna saprà prima se l'embrione è malato e non sarà costretta a richiedere l'esame sul feto ed abortire. Io lo chiamo pragmatismo. Invece qui si continua a ragionare su basi ideologiche, folli».
Spera che la sentenza apra la strada ad iniziative parlamentari?
«Non ho speranze. Il coraggio manca completamente. Chiunque proponesse la modifica di questo punto della legge sulla diagnosi embrionale si attirerebbe impopolarità. Ora la priorità è non scontentare non dico Oltretevere, ma i cattolici della sinistra».
Lo dice lei, uomo di sinistra?
«Sono molto deluso da questo governo. Mostra un mortificante disinteresse verso la salute della gente e si preoccupa della salute psicologica del Vaticano».

l’Unità 25.9.07
Nel tempio laico e colorato di Rothko
di Stefano Miliani


ANTEPRIMA Una grande mostra nel rinnovato Palaexpo di Roma celebra il grande pittore ebreo americano. Le sue tele astratte, campite in fasce dai bordi nebulosi, nelle aste di tutto il mondo hanno toccato quotazioni da primato

«I dipinti di Rothko, enormi, calmi, con i loro rettangoli fluttuanti dove ogni traccia del caso è stata rimossa, hanno qualcosa di straordinariamente meditativo che sembra magico e misterioso. Quella profondità ha qualcosa di religioso». Sono parole pronunciate da Gerard Richter, pittore tedesco incline ad astrarre visioni e immagini, in un’intervista del 1997 a Mark Rosenthal e pubblicate nel catalogo stampato dalla National Gallery di Washington per una retrospettiva sul pittore delle vaste fasce sfrangiate e dai bordi nebulosi in giallo, rosso, arancione, come in blu, nero, viola, marrone…
La descrizione di Richter, uno dei maggiori artisti oggi in vita, inquadra bene alcuni fondamentali di Mark Rothko: la vastità, la profondità, il senso di mistero di tele astratte capaci di inondare di colori lo spazio e di sensazioni forti chi vi si pari davanti. Eppure il percorso dell’artista che alle aste internazionali raggiunge quote da capogiro (72,8 milioni di dollari da Sotheby’s il suo record) è ancora più complesso. Inizia con una figurazione stravolta negli anni Trenta, risente del surrealismo, conoscerà la gioia di tonalità calde e sensuali, approderà a timbri cupi e insondabili, ma mantenendo sempre - al di là delle apparenze - saldi agganci con la storia dell’arte e dell’umanità. Quei campi astratti dai colori caldi e freddi, magari inframezzati da brani di nero o strisce bianche, rispettano infatti ritmi e proporzioni precise secondo armonie nascoste eppure ben presenti, forti. Ma, soprattutto, le astrazioni di Rothko non sgorgano dal sogno di una presunta irraggiungibile purezza: nascono perché la tragedia della seconda guerra mondiale ha spazzato via ogni fiducia e per l’artista, ebreo, nulla poteva essere più come prima, tanto meno la pittura.
Questo lo si capisce bene ascoltando Oliver Wick, il curatore della prima grande retrospettiva italiana sull’artista successiva alla sua morte (si suicidò nel 1970 a New York) che il 6 ottobre riapre il ristrutturato Palazzo delle Esposizioni di Roma insieme a mostre su Stanley Kubrick e Mario Ceroli. E per il palaexpo capitolino Wick ha intessuto una retrospettiva che, sospetta, l’Europa non potrà vedere forse più per i costi proibitivi dell’allestimento: tra 70 dipinti, 40 opere su carta tra libri e album di schizzi, tante tele di Rothko si misurano infatti in termini di molti metri quadri e sono delicate per cui trasportarle ha costi altissimi di assicurazione né è l’operazione più semplice dell’universo.
Detto questo, Wick ha congegnato l’itinerario per sposarlo in qualche modo con lo spirito di Rothko, ovvero sia una religiosità laica per un uomo laico che non abbracciò alcuna fede religiosa: lo spazio nella navata centrale sotto la cupola resta vuoto, alle ali «quasi come cappelle» le varie sale tracciano il percorso di una vita. A partire dagli inizi figurativi, meno conosciuti: svetta l’unico autoritratto, del 1936, c’è la figura in piedi alla finestra del ’39 dove già si vede la suddivisione in fasce del quadro che diventerà un segno «rothkiano». Nella terza sala i dipinti dei primi anni 40 e l’eco, diciamo così, di un certo surrealismo biomorfo: «Rothko sente che l’arte arrivata fino ad allora non basta più a esprimere l’orrore - spiega il critico - e allora lui, appassionato studioso di Nietzsche, si rivolge al mito, alla caduta di Troia come metafora del crollo del mondo, studia il mito di Antigone, studia e rielabora, influenzato qui da Picasso, la figura mitologica ebrea di Lilith». Neppure questo soddisferà il suo senso del tragico. Così la rassegna romana documenta la «conversione» all’astrattismo pieno e totale a partire da importanti tele del ’48 e ’49 tra ondate di rosa e azzurro grigio per poi approdare, all’altro lato della «navata» del Palaexpo, ad altri capolavori: come un dipinto di 2 metri per 160 centimetri dal Guggenheim di New York, con una striscia nera tra il violetto, il giallo e l’arancio; come gli ampi «campi» di colore che valsero a Rothko l’iscrizione - da lui mai accettata - nel club del Color Field Painting (la pittura dei campi di colore appunto). «Aveva ragione lui - interviene Wick - C’è altro, nella sua pittura. C’è, soprattutto, una fortissima spinta etica: le sue superfici hanno proporzioni che rimandano, nei loro rapporti, alle proporzioni dell’uomo rinascimentale, quindi a un ideale di umanità che lui voleva recuperare attraverso l’arte». E quell’ideale artistico e in fondo umanistico non lo farà indietreggiare davanti «al terrore del mondo», un terrore forse ben esemplificato dagli ultimi quadri dove grandi neri sovrastano fino all’orizzonte oceani di grigio-tortora.

Repubblica 25.9.07
Cristo il Corano e il martire islamico
Al-Hallaj che volle essere come Cristo
di Pietro Citati


Fu uno dei più grandi spiriti religiosi del mondo musulmano e portò l´esperienza mistica fino all´estremo punto tragico: il martirio. Un libro ripropone ora i suoi pochi scritti
Il suo rapporto con Dio non passava attraverso le pagine del Corano suscitando scandalo in molti, ma era diretto, immediato, assoluto
Visitò più volte la Mecca Rimase un anno nel cortile interno della moschea, senza muoversi mai, mangiando e bevendo poco
Conobbe la fatica dei lunghi cammini, la promiscuità dei caravanserragli, la solitudine dei monti, la gioia del risveglio in paesi ignoti
A vent´anni lasciò all´improvviso il mondo, gli amici, i libri e si ritirò a vivere nel deserto in una piccola comunità di asceti

Nel Corano, Gesù non nasce nella mangiatoia di Betlemme, adorato dagli angeli e dai pastori, come nei Vangeli. Maria lo partorisce sotto una palma. Quando invoca: «Se fossi morta prima, se fossi una cosa dimenticata», una Voce la chiama: «Non rattristarti, il Signore ha fatto sgorgare un ruscello ai tuoi piedi: scuoti verso di te il tronco della palma, che farà cadere datteri freschi e maturi». Gesù è un bambino miracoloso, che appena nato dice alla sua gente: «In verità io sono il Servo di Dio, il quale mi ha dato il Libro e mi ha fatto profeta, e m´ha prescritto la preghiera e l´elemosina finché sarò in vita, e m´ha fatto dolce con mia madre». Plasma col fango una figura d´uccello, vi soffia sopra, trasformandola in un uccello vivente – una delle migliaia di figure celestiali che popolano l´universo e ricoprono con le ali il tappeto di Salomone. Dopo la nascita, fare miracoli diventa il suo segno: il miracolo del cieco nato, del lebbroso, la resurrezione dei morti, l´ultima cena.
Tra i profeti, Gesù è il messaggero supremo, quello più prossimo a Dio e circondato da un´immensa venerazione. Parla con Dio: viene confermato da lui con lo Spirito di Santità: conosce il Libro, la Saggezza, la Torah e il Vangelo; dichiara lecite alcune cose proibite della tradizione ebraica. Infine, annuncia il messaggero definitivo: Ahmad, Maometto. Ma il rapporto di identità con Dio, proclamato dai Vangeli, viene abolito: Dio è l´Unico, come non accade nella tradizione cristiana: Egli conosce tutto ciò che vive nel cuore di Gesù, mentre Gesù ignora gli arcani supremi: Gesù non è il figlio incarnato, ma soltanto il Verbo, uno spirito venerato, il messaggero amatissimo. Sulla Croce, lo sostituisce un doppio, come raccontavano gli gnostici e i manichei. Alla fine viene innalzato da Dio in un luogo misterioso, dal quale scenderà alla fine dei tempi, per distruggere la corruzione diffusa dall´Anticristo.

Le diverse tradizioni spirituali dell´Islam risalgono ai diversi profeti; e tutte passano attraverso Maometto, che ricapitola in sé ogni rivelazione. Tra i profeti, Gesù possiede «la scienza delle lettere»: la parola che insuffla la vita, dà esistenza alle idee, esprime l´inespresso, manifesta l´occulto. Se l´universo è formato da due dimensioni, la lunghezza e la larghezza, che rappresentano lo spirito e la natura, l´invisibile e il sensibile, Gesù unisce le due dimensioni, formando la Croce, dove lo spirito divino scende dall´alto incontrando la natura creata. Così «la divinità splendente» appare nel mondo «sotto forma d´uno che mangia e che beve»: una formulazione singolarmente vicina a quelle della teologia cristiana.
Ancora popolarissimo nell´Islam d´oggi, Al-Husayn ibn Mansur al-Hallaj incarna la componente «cristica» dell´Islam. Egli è uno dei più grandi spiriti religiosi del mondo musulmano, e porta l´esperienza mistica fino all´estremo punto tragico, dove diventa martirio, sangue, cenere sparsa sulle acque. Nella collezione Islamica (Il Cristo dell´Islam, Mondadori, pagg. XXXII-168, euro 15, da domani in libreria), Alberto Ventura raccoglie con grande intelligenza i pochi scritti di al-Hallaj sopravvissuti alla distruzione: il meraviglioso Canzoniere, pieno di lampi, di folgorazioni, di fratture, di scarti, di ardue allusioni: il Libro dei Tawasin e i Detti ispirati.
***
Attorno all´857 dopo Cristo, al-Hallaj nacque vicino a Persepoli. Il nonno aveva ancora venerato gli dèi di Zarathustra. Il padre faceva il cardatore di cotone; e il figlio venne chiamato cardatore di segreti, perché districava i nodi più profondi della coscienza umana. Aveva dei capelli biondo-rossi, e una carnagione bianchissima. «Un bianco di pelle», scrisse un poeta, «che chiede pioggia alle nuvole, soccorsi per gli orfani, protezione per le vedove». Salutava per primo i passanti, e, se incontrava qualche amico o compagno, prendeva le mani dell´altro, chiudendole e stringendole fra le sue, come fosse dominato da un incontenibile ardore di gentilezza. Gli amici restavano attratti dal calore di quello slancio: ma nessuno osava ricambiarlo, perché ognuno sentiva che i pensieri di al-Hallaj abitavano molto lontano, in un luogo dove era impossibile penetrare. Tornato a casa, al-Hallaj scriveva: «I compagni che frequento sono, per me, altrettanti veli. Che parli poco o molto, parlo solo a me stesso. Perché cercare un interlocutore?» Così, abbandonati gli amici, le compagnie, le frequentazioni del mondo, si chiudeva in una piccola stanza, insieme ai suoi libri, ai quali confidava i propri dolori, i propri sogni, i presentimenti ancora confusi del suo destino tremendo.
Quando andava a letto, non poteva dormire. Cercava di cacciare dalla mente le idee che la gremivano: ma appena ne aveva cacciata una, dieci altre la invadevano, e infuriavano dentro di lui come una tempesta di neve. Qualche volta veniva assalito dall´angoscia. A cosa servivano tutti i libri ai quali aveva consacrato la sua esistenza? A cosa servivano i pensieri lontani e le riflessioni vertiginose tra cui rischiava di perdersi? Intorno a lui si estendeva un paese gelido e vuoto, dove si sentiva straniero. Mentre la notte stava per finire, avvertiva dentro di sé un´ebbrezza che lo spingeva oltre ogni limite. In quei momenti capiva che non avrebbe mai conosciuto riposo. Il suo destino era quello di avanzare sempre più lontano, oltre i confini dove gli uomini amano rinchiudersi per saggezza o per pigrizia. In quel punto regnava qualcosa di terribile e di oscuro, col quale sarebbe presto venuto alle prese. Il più giovane dei suoi amici lo capì meglio di tutti: «Di quale fuoco, di quale splendore spirituale», egli scrisse, «brilla al-Hallaj! Non ho mai incontrato nessuno che gli assomigli. Ma temo per lui l´eccesso della sua foga. Temo che il suo ardore diventi la causa della sua perdita».
A vent´anni lasciò all´improvviso il mondo, gli amici, i libri, e si ritirò a vivere nel deserto salato, in una piccola comunità di asceti. Nell´Islam trionfante del IX secolo, questi eremiti rinnovavano lo scandalo della Tebaide cristiana. Al-Hallaj scelse un maestro, che aveva trascorso anche lui la giovinezza tra i libri. Gli chiese consiglio. «Se ti ritirerai in un luogo dove nessuno ti veda e dal quale non vedrai nessuno», il maestro rispose, «troverai una grande felicità. Io sono grato a colui che non mi saluta quando mi incontra, o che non chiede mie notizie quando sono ammalato. Appena giunge la notte, sono felice della solitudine: sono felice di non vedere i visi degli uomini, e di non udire le loro parole». Al-Hallaj domandò ancora: «Come hai potuto trovare l´Altissimo?» «Non devi pensarci», rispose il maestro; «Quando Dio ti avrà scelto, ti possederà con violenza, ti ridurrà in polvere, ti ucciderà, ti seppellirà. E poi, se egli vorrà, ti risusciterà a nuova vita».
Incominciò a viaggiare. Conobbe la fatica dei lunghi cammini, la promiscuità dei caravanserragli, la solitudine tra le montagne, la gioia del risveglio tra i paesi ignoti, la bellezza dei tramonti sugli altopiani. Viaggiò nel Turkestan e in India, insieme alle carovane che portavano verso Oriente i tessuti di Persia, e a Baghdad la seta e la carta di Cina. Attraversò il Mar Rosso con le esili navi delle popolazioni costiere, che innalzavano al vento vele fabbricate con foglie di palma: insieme a centinaia di pellegrini, ammucchiati gli uni sugli altri, senza cibo e quasi senz´acqua. Molti gli attribuirono miracoli. Aveva evocato dal nulla dei piatti di montone arrostito: dei datteri; e un boccale di vetro pieno di confetti, giunto da un paese dello Yemen. Qualcuno pensò che fosse uno stregone, e che un gruppo di demoni eseguisse i suoi desideri.
In Siria e nel Libano, scorse migliaia di colonne, la maggior parte a terra, infrante dal tempo o frantumate dalla mano dell´uomo. Poi scese in Palestina. Molte tombe erano scavate nel fianco delle montagne, e il popolo indicava il luogo dove erano stato sepolti i corpi di Abramo e di Sara, di Giobbe e dei suoi figli, di Isacco e di sua moglie, di Giuseppe e dei suoi fratelli, di Esaù, di Simeone, di Esdra, di Jetro. Quando giunse a Gerusalemme, senza un albero verde, visitò la moschea, la grande pianura dove avranno luogo la resurrezione della carne e l´ultimo Giudizio, e si mescolò alla folla venuta a finirvi i suoi giorni. Con la devozione del pellegrino, contemplò i luoghi consacrati dalla Bibbia. Si fermò a lungo nella moschea sotterranea. Secondo una tradizione islamica, là era nato Gesù e si trovava la sua culla di pietra. Sopra un pilastro, osservò l´impronta di due dita, come se qualcuno avesse afferrato con forza il marmo. Un pellegrino gli disse che Maria vi aveva posato le mani durante il parto.
Visitò più volte la Mecca. Rimase un anno nel cortile interno della moschea, senza muoversi mai. Non badava alla pioggia: stava seduto al sole nelle ore più calde mentre il sudore gli colava da tutto il corpo; beveva due sorsi d´acqua e mangiava due bocconi di gallette al giorno, come il più selvaggio tra gli asceti cristiani. Qualcuno disse: «Vedrai cosa succederà a quell´uomo. Dio l´affliggerà con una sofferenza tale, che non potrà sopportarla. Sta seduto là, nella sua follia, a rivaleggiare in costanza con Dio». Mentre egli sfidava Dio, i fedeli baciavano la pietra sacra della Ka´ba, nera quanto il velluto più scuro e il carbone, dove brillavano dei piccoli cristalli rossastri: la pietra che Adamo aveva trafugato dal Paradiso.
Mentre i pellegrini si affollavano, al-Hallaj non penetrò mai nella Ka´ba, come se avesse cancellato dalla memoria il desiderio che l´aveva spinto alla Mecca.
***
Dopo l´ultimo pellegrinaggio alla Mecca, al-Hallaj si trasferì con la moglie e i figli a Baghdad, abitando una casa sulla riva occidentale del Tigri, che trasformò in un luogo di riunione. Era fermo, sicuro di sé, deciso a percorrere sino alla fine la strada che gli era stata segnata. Predicava nelle moschee, nei mercati, nelle piazze, nei piccoli vicoli della città tumultuosa. Parlava ai visir, ai filosofi, ai generali, al popolo di mercantucci, di artigiani e di contadini inurbati che gremivano Baghdad come una ronzante arnia di api. Con un gesto interiore, distrusse la barriera di freddezza intellettuale che lo aveva tenuto lontano dagli uomini. Il suo discorso era insieme ragionato e spontaneo, dialettico e vibrante, lirico e grottesco: usciva dalle ultime profondità della mente, si nutriva di una cultura ricchissima e toccava gli incolti e gli indotti. Qualcuno disse che, mentre ascoltava al-Hallaj, si sentiva folgorato da una luce quasi intollerabile: ma appena egli si allontanava, gli sembrava di essere gettato tra onde di pensieri che lo sconvolgevano. La notte, al-Hallaj lasciava la città, e si nascondeva a meditare e a pregare in un angolo del cimitero di Quraysch, chiamato «le tombe dei martiri».
Vivere accanto a Dio era una condizione terribile. Non conosceva mai la beatitudine continua. Tutto era vagabondaggio, deserto, esilio, desolazione, insonnia, solitudine, silenzio, battito forsennato del cuore, violazione, infamia, sangue sparso, morte. Appena entrava nella valle dell´Amore, aveva l´impressione di tuffarsi nel fuoco. Se era immerso nell´amore di Dio, sentiva dentro di sé una fiamma ardentissima, e temeva che il fuoco si comunicasse al cuore e lo distruggesse. Spesso era incapace di tollerare quella violenza; e chiedeva a un amico di parlargli e di distrarlo, allontanandolo dalla famigliarità con il Signore. Non aveva mai sofferto tanto. Eppure, si accorse che soltanto il dolore gli dava pace. La sofferenza gli rivelava Dio in modo molto più immediato della felicità: perché la felicità discende da Lui, come un soffio di vento dal cielo, mentre la sofferenza è Lui.
Ai discepoli raccontava volentieri un apologo. Una notte le farfalle si riunirono, tormentate dal desiderio di conoscere la candela e di unirsi alla sua fiamma. Dissero: «Bisogna che qualcuna di noi ci dia notizie intorno alla meta della nostra ricerca amorosa». Una farfalla andò fino a un castello sulle montagne, e scorse una candela ardere dietro le finestre. Quando tornò, descrisse la bianca forma che si stava consumando, lo stoppino acceso, la fiamma nera e rossastra, la luce che proiettava, la paurosa zona d´ombra intorno alla luce. Ma la vecchia farfalla che presiedeva la riunione sostenne che l´esploratrice non sapeva nulla della candela. Un´altra partì per il castello, trovò una finestra aperta, volò nella stanza, batté le ali nella tiepida luce. Al ritorno, parlò con voce esaltata ed entusiasta, ma la vecchia farfalla le disse: «La tua spiegazione non è più precisa di quella della tua compagna». Finalmente si levò una terza farfalla. Attraverso la finestra aperta, penetrò nella stanza e andò a giocare con la grazia del fuoco. Non comprendeva la natura della luce né quella del calore: non capiva perché la candela ardesse e si consumasse; e si precipitò violentemente nella fiamma, tendendo le zampe anteriori. Le sue membra arsero completamente. Essa si consumò, si volatilizzò, rimase senza lineamenti, senza figura, senza corpo, senza persona, senza nome, senza segni riconoscibili. Le compagne la attesero invano. Quando la vecchia farfalla vide che la candela aveva bruciato la terza messaggera, disse: «Ha appreso ciò che voleva sapere: ma lei sola lo conosce e lo comprende». Al-Hallaj commentava: «Anch´io sono come quella farfalla. Mi brucio nel fuoco di Dio, ma non lo conosco e non lo comprendo, così come non conosco me stesso».
Il suo rapporto con Dio non passava attraverso le pagine del Corano: ciò che suscitò scandalo in molti; era diretto, immediato. Egli non cercava, come i cristiani, figure intermediarie: Gesù, Maria, lo Spirito Santo: voleva raggiungere l´Unico - «solo con Lui stesso». Dio parlava senza voce, senza rumore di parole, senza vocali, senza consonanti, persino senza musica. Irrompeva dentro di lui con tocchi improvvisi e folgoranti, con dolori intensissimi e insopportabili, con pensieri seguiti da sguardi, che lo sollecitavano ad andare ancora più oltre, a denudarsi ancora più profondamente, per raggiungere il luogo dove Egli lo aspettava. Questi tocchi duravano un istante, venivano cancellati e poi riprendevano, sino a lasciarlo senza respiro. Poteva parlare di istanti? In quei baleni di luce e di tenebre, gli pareva di essere immerso nel mare della grazia di Dio. Ogni istante era una goccia d´eternità, distillata soltanto per lui. Poteva lasciare sulla carta soltanto un cenno velatissimo, un´allusione quasi inesplicabile alla sua esperienza. Diceva: «Chi anela alla conoscenza rinuncia ad essa, chi rinuncia ad essa se ne esilia, chi se ne esilia la vede sorgere mentre declina e declinare mentre sorge».
Come nell´apologo, la farfalla cercava l´unione con Dio. «Il Tuo spirito - scriveva - si è impastato col mio, come l´ambra col muschio. Se qualcosa Ti tocca, mi tocca: non c´è più differenza, perché Tu sei me». «Nel mio occhio la Tua immagine, nella mia bocca la Tua menzione, nel mio cuore la Tua dimora». Molti fedeli scorgevano in queste parole l´empietà suprema. Come è possibile che un uomo - quest´essere di carne, questo peccatore confuso, questa goccia di tenebra - proclami di essere identico a Dio? Ma al-Hallaj portava il paradosso all´estremo per confutarlo. Dio era l´Unico, e nessuno poteva confondersi e mischiarsi con lui. C´era solo un modo per identificarsi con Dio. Se in Cristo il divino si era incarnato nell´umano, al-Hallaj, al contrario di Cristo, doveva annullarsi come uomo, scomparendo come un´ombra, un fantasma, un granello di cenere. Solo allora pronunciava la frase scandalosa: «Io sono il Vero». In lui parlava soltanto la Voce senza voce: l´Unico, l´Eterno, il Vero, senza nemmeno una lontana eco della musica terrena.
***
Una notte, un discepolo di al-Hallaj andò al cimitero di Baghdad, per pregare sulla tomba di un martire. La luna illuminava ogni angolo del cimitero. Da lontano, vide un uomo in piedi, che pregava col viso rivolto alla Mecca. Era al-Hallaj. Piangeva e diceva: «La tua testimonianza è la giustizia, senza che tu ti giustifichi: la tua testimonianza è la nostra dannazione, senza che tu ti allontani; la tua assenza è il velo imposto sul nome, senza che tu parta. Ti supplico, per riguardo alla prossimità sacra che fai discendere sopra di me: ti supplico, non restituirmi a me stesso, dopo avermi rapito a me stesso. Non mostrarmi la mia anima, ora che me l´hai sottratta. Moltiplica il numero dei miei nemici nelle tue città, e di coloro che chiedono la mia morte tra i tuoi fedeli». In quel momento al-Hallaj interruppe la preghiera, si voltò, e scorse il discepolo sotto il chiaro di luna. I suoi occhi iniettati di sangue brillavano come carboni ardenti. Gettò tre gridi, cadde al suolo con la bocca schiumante, e con la mano fece cenno al discepolo di andarsene. La mattina dopo, il discepolo incontrò il maestro in una moschea. Al-Hallaj lo prese per mano, lo trascinò in un angolo e gli disse: «In nome di Dio! Non dire a nessuno le parole che ieri hai ascoltato da me».
Non conservò a lungo il proprio segreto. Qualche mese dopo, girava nelle moschee di Baghdad, dove si raccoglieva la folla dei suoi amici e dei suoi nemici, gridando: «Sappiate che Dio ha reso il mio sangue lecito per voi. Uccidetemi! Uccidetemi dunque, amici miei, la mia vita è la morte, e la morte è la mia vita. Io sento che la mia cancellazione è il più nobile dono che possiate farmi». Al-Hallaj voleva morire. Voleva consumarsi d´amore, come la farfalla si precipita nella fiamma della candela, arde, si volatilizza, resta senza lineamenti, senza figura, senza nome. Voleva essere messo in croce, come Cristo. Mentre era vivo, Dio gli parlava con poche parole silenziose o con qualche balbettio informe, che spesso egli non riusciva ad intendere; e i tocchi dolorosi, attraverso i quali egli sentiva la presenza divina nel cuore, gli sembravano separati da intervalli lunghi come millenni. Se avesse offerto il proprio corpo in olocausto, Dio avrebbe abitato stabilmente nella camera del suo cuore, diventando l´anima della sua anima.
Si sentiva colpevole. Malgrado la proibizione della legge, aveva rivelato agli uomini il segreto dell´unione con Dio: come l´eterno possa scendere nel tempo, il creatore nel creato, il necessario tra le cose non necessarie. Facendo così, obbediva al proprio destino. Ma pensava di aver commesso la più grave delle colpe perché aveva varcato un limite; e si era addentrato troppo lontano sulla strada impossibile che conduce verso il Signore. Per questo doveva essere ucciso. Un giorno, un discepolo entrò da lui. Al-Hallaj era stranamente calmo: la sua voce era bassa e lieve, senza gli ardori che lo accendevano negli ultimi tempi; «Caro figlio», disse, «certuni testimoniano a favore della mia santità, altri dicono che sono un empio. Ora quelli che parlano della mia empietà mi sono più cari, e sono più cari al Signore, di quanti sostengono che io sono un santo». «Perché, maestro?» chiese il discepolo. «Quelli che mi dicono santo» egli rispose, «lo fanno perché pensano bene di me: quanti mi dichiarano empio, lo fanno per zelo del loro culto. Ora chi ama il suo culto mi è più caro, ed è più caro a Dio, di chi stima una creatura come io sono».
Nel 913, al-Hallaj fu processato da un tribunale, che lo accusò di aver predicato al popolo di essere Dio. Gli aguzzini gli tagliarono la barba bianca e lo legarono alla gogna, mentre un banditore pubblico annunciava: «Ecco un eretico, venite a guardarlo». Dapprima venne rinchiuso nel carcere dei delinquenti comuni, e incatenato dalla nuca ai talloni. Alla fine, venne assolto. Ma per nove anni fu trattenuto nel palazzo come un sorvegliato speciale: rinchiuso in una cella separata, dove poteva ricevere visite. Attratti dalla sua fama, i grandi della corte andarono a trovarlo, e ognuno di loro chiedeva il dono di una parola, la grazia di una preghiera. La leggenda racconta che al-Hallaj liberava gli altri prigionieri con un semplice cenno delle dita, faceva aprire miracolosamente le porte del carcere e, se veniva torturato, la voce di Dio lo confortava. Durante questi anni, lo spirito di al-Hallaj oscillò tra la certezza e la disperazione. Pregava per ore intere, chinando la guancia a terra e piangendo, fino a quando il suolo era umido delle sue lacrime.
Nel marzo del 922, fu condannato a morte. La notte prima del martirio, implorò a lungo, avvolto nel suo mantello, con le mani rivolte verso la Mecca, e sembrava voler allontanare da sé il calice che aveva desiderato. «Eccomi», disse, «per servirti da testimonio. Nella tua grazia, io cerco rifugio. Nello splendore eterno della tua gloria, io cerco la chiarità: perché tu faccia apparire finalmente quello che vuoi. Tu hai preso la mia essenza perché ti serva da simbolo. Tu mi hai elevato fino al trono della tua eternità. Come è possibile, dunque, che io stia per essere portato a morte? Che io stia per essere messo in croce, e che le mie ceneri vengano abbandonate ai venti dei fiumi?» Tacque, e si distese a terra dentro il mantello, ripetendo: «Illusione, illusione!» Appena l´alba cominciò a imbiancare le mura della sua cella, si riscosse, gridò: «Verità, verità!», e si alzò in piedi per aspettare i carnefici.
Tutti i dubbi e le angosce lo avevano abbandonato. Attendeva la decapitazione e il rogo come chi attende il compimento della propria missione. Quando i carnefici lo condussero sul piazzale della prefettura, qualche discepolo lo seguiva. Erano incerti e impauriti, e al-Hallaj li confortò. «Non turbatevi» disse loro. «Ritornerò in mezzo a voi tra trenta giorni, come il Cristo». Sebbene fosse legato e incatenato, danzava di giubilo. Sorrideva di gioia, e il viso, segnato dai pensieri e dalle sofferenze degli ultimi anni, aveva ritrovato la luce della giovinezza. «O maestro», gli chiese un discepolo, «da dove viene la tua letizia?» «E´ la civetteria della bellezza divina, che attrae a sé la gente dell´unione d´amore». Ritornò grave: «Tu hai nascosto alla vista di tutti gli altri le fiamme del tuo volto», pregò. «Tu hai interdetto a tutti gli altri di gettare lo sguardo sulle cose nascoste nel tuo mistero. Accordami dunque il dono di ringraziarti. Gloria a te in quello che fai, gloria a te per quello che vuoi».
Alla fine della preghiera, si intrattenne col Signore in silenzio. Il capo dei carnefici si avvicinò e lo schiaffeggiò così forte, che il sangue macchiò quel viso troppo bianco, «che aveva chiesto pioggia alle nuvole, protezione per gli orfani». Lo flagellarono, gli tagliarono le mani e i piedi, lo misero sulla croce. Rimase lassù tutta la notte, vegliato da poche guardie e dagli ultimi, timorosi discepoli. La mattina dopo, sulla piazza, si adunò una folla immensa. Mentre lo calavano dalla croce, al-Hallaj gridò con voce altissima: «Quello che conta, per l´amante, è l´Unico - solo con lui stesso». Poi mormorò i versetti del Corano: «Coloro che non credono all´ora ultima la sollecitano, mentre quelli che credono hanno timore, perché sanno che è vera». Furono le sue ultime parole. Il carnefice lo decapitò: la testa rimase esposta per due ore, in mezzo alle mani e ai piedi tagliati; poi tutto quello che restava di al-Hallaj venne gettato nel fuoco, dove il tronco si torceva e guizzava, come se fosse ancora vivo. Le ceneri furono portate su un minareto, perché il vento le disperdesse. Quando si depositarono sul Tigri - racconta la leggenda - galleggiarono e assunsero la forma della parola Allah.
Dopo la condanna, i suoi numerosi scritti, accusati di eresia cristiana, furono dispersi: ma i discepoli e gli eredi, che ne prolungarono per secoli l´insegnamento, ne raccolsero frammenti e citazioni. Le sue parole vennero tramandate. I mistici islamici si riconobbero in lui: le corporazioni artigiane lo assunsero come patrono. Quanto ai seguaci più vicini, che attesero invano il suo ritorno, lo riconobbero come il nuovo Gesù Cristo, che aveva realizzato sul patibolo le estreme verità dell´amore.

Repubblica 25.9.07
Rifondazione: "Colpiamo i ricchi tassa sulle rendite al 20 per cento"
di Roberto Pietrini


ROMA - «E´ tempo di colpire i ricchi». A ridosso del vertice di maggioranza, previsto per domani, la sinistra radicale va all´attacco e chiede, attraverso il ministro di Rifondazione, Paolo Ferrero (Politiche sociali) di inserire in Finanziaria il provvedimento che eleva al 20 per cento la tassazione sui redditi da capitale, con una franchigia di 150 mila euro per i piccoli patrimoni. La sortita segue il manifesto dei 18 punti presentato dai quattro leader dell´ala sinistra della maggioranza a Prodi nei giorni scorsi, dove si sollevava il medesimo tema, e riecheggia il manifesto presentato lo scorso autunno che recitava: «Anche i ricchi piangano». Ferrero ha ricordato che dal 1983 ad oggi 150 miliardi di euro si sono spostati dai salari alle rendite e ai profitti. A dar man forte al pressing sono giunte le dichiarazioni del sottosegretario all´Economia Alfiero Grandi: con la tassazione delle rendite, escludendo l´intervento sui Bot - ha detto - si potrebbe raggranellare circa 1 miliardo. Anche se Grandi si è mostrato scettico sull´ipotesi che il provvedimento possa entrare in finanziaria: «Se ne sta parlando ma che si riesca a farlo è più complicato», ha dichiarato.
Un monito al rigore è giunto ieri dal viceministro dell´Economia Vincenzo Visco. «Non possiamo esaudire tutte le richieste», ha detto e ha aggiunto: «Chi pensa che le richieste di ministri, enti locali, comuni, regioni, e di chiunque passi a Piazza Colonna possano essere tutte soddisfatte, si sbaglia di grosso». Visco ha tuttavia assicurato che la Finanziaria sarà un provvedimento «equilibrato» e che bisogna tentare «la massima riduzione della spesa pubblica, senza toccare i diritti acquisiti e qualche taglio all´imposizione fiscale».
Sul piano delle misure si continua a lavorare al pacchetto fiscale e alle coperture (mancano ancora un paio di miliardi) mentre per oggi è previsto un vertice con le Regioni: la Finanziaria si conferma di 10 più 7,5 del decreto, con un «impatto» complessivo sull´economia di circa 18 miliardi. Si confermano gli interventi su Ici prima casa e una pari detrazione per chi è in affitto con contratto registrato, Ires al 28 per cento con anticipo a novembre, forfait per micro imprese. Ancora si discute se introdurre anche un primo intervento su detrazioni e assegni familiari per i redditi più bassi.
L´attenzione si focalizza anche sul Mezzogiorno: ieri in un convegno il ministro per lo Sviluppo Bersani ha parlato di un «impegno formidabile» per il Mezzogiorno e ha annunciato «meno incentivi e più investimenti pubblici». Il ministro dell´Interno Giuliano Amato ha invitato a «spendere bene» i soldi per il Sud.
Infine il Welfare: il ministro del Lavoro Damiano ha ribadito che il protocollo di luglio sulle pensioni finirà in Finanziaria «così com´è».

Repubblica 25.9.07
L'allarme dei ginecologi
Ragazze italiane, no contraccettivi per una sue due


BERLINO - Le donne italiane fanno sesso senza precauzioni, rischiando in gravidanze indesiderate e salute. Non solo arrivano impreparate alla prima volta (una su tre non usa alcun metodo anticoncezionale quando incontra il sesso verso i 17 anni) ma anche negli anni seguenti sembra prediligere il rischio, l´improvvisazione, la casualità. Il 30% continua infatti a sfidare la sorte, senza utilizzare alcun metodo contraccettivo o facendo affidamento sul coito interrotto (20%). In pratica, solo una ragazza su due usa metodi sicuri ed efficaci.
Questi i risultati più allarmanti del sondaggio "Io e il sesso" promosso dalla Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia (Sigo), presentati a Berlino, scelta come capitale della Prima Giornata Mondiale della Contraccezione, che si celebrerà oggi in tutto il pianeta.
«La fotografia che abbiamo scattato non è per nulla confortante. E ci spinge a insistere nella battaglia di informazione ed educazione sessuale che stiamo portando avanti in questi anni con la campagna "Scegli Tu" - commenta il professor Emilio Arisi, Direttore dell´Ostetricia e Ginecologia del Santa Chiara di Trento e Consigliere Nazionale del Sigo. Oltre 1.100 le ragazze che hanno acconsentito a rispondere alle domande. Il 90% ha già avuto rapporti e l´età media della prima volta è 17 anni. Sesso è ancora uguale ad amore per 6 ragazze su 10 ma solo il 2% è contrario ai rapporti prematrimoniali. La maggioranza vive un rapporto stabile e la mamma rimane la prima persona a cui si rivolgerebbero in caso di una gravidanza inattesa. Si ritengono ben informate ma molte dichiarano una cultura "fai da te" (46% dei casi). Il 20% delle ragazze considera il coito interrotto come un metodo affidabile e lo sceglie.

Repubblica 25.9.07
Matrimonio straniero
Erano il 3%, oggi sono il 10, nessun Paese in Europa ha avuto un boom così
di Paolo Rumiz e Vladimiri Polchi


(...)

Il record delle nuove unioni è in Emilia Romagna. E se gli uomini preferiscono le donne venute dall´Est le italiane scelgono invece marocchini e tunisini. Funzionano? Mediamente sì, ma in caso di divorzio la conflittualità aumenta

"Giovane, romena, residente nel Nord Italia, cerca anima gemella". Ecco un annuncio con alte probabilità di successo: in Italia è infatti boom di matrimoni misti (soprattutto al settentrione) e il 25% degli uomini che cercano moglie oltre confine, prediligono le romene.
Alle nozze tra coniugi stranieri l´ultimo numero di Reset in edicola dedica due studi. Il fenomeno è in crescita: erano meno del 5% del totale a metà anni Novanta, oggi sono oltre il 10% (e i bambini con almeno un genitore straniero sono passati dal 2% al 13%). Non c´è dunque da stupirsi se l´acquisto della cittadinanza italiana avviene nell´85% dei casi proprio grazie al matrimonio. Oltre alle nozze, bisognerebbe poi considerare le coppie di fatto con almeno un partner straniero (sarebbero oltre 600mila). «Secondo l´ultimo dato disponibile dell´Istat per il 2005 - scrive il demografo Alessandro Rosina su Reset - le unioni coniugali tra italiani e stranieri ammontano a 23.500, il 10% del totale (contro oltre il 15% della Francia). Negli ultimi anni il fenomeno è cresciuto molto più rapidamente nel nostro Paese che altrove, nel giro di poco più di dieci anni i matrimoni misti sono triplicati» anche se con un´incidenza maggiore al Centro-Nord (e record in Emilia Romagna). «Nei confronti dei cugini d´oltralpe - prosegue Rosina - è interessante notare che da noi a essere più bassa è soprattutto la quota di donne che sposano uno straniero. Su 100 matrimoni misti, in Francia lo sposo è autoctono nel 56% dei casi, in Italia lo è in quasi l´80%». Non solo. «La differenza d´età tra coniugi è molto bassa nei matrimoni misti con sposa italiana, mentre è molto ampia (circa 8 anni) nelle unioni con sposo italiano». Tradotto: l´uomo sposa donne straniere molto più giovani di lui.
Differenti anche i Paesi d´origine degli sposi. In quasi 1 caso su 4 gli uomini italiani che nel 2005 hanno formato un´unione coniugale mista, hanno sposato una romena. Con la stessa frequenza (circa il 25%) le donne italiane hanno invece scelto un nordafricano. «Ciò è in parte spiegato dal fatto che è molto forte la prevalenza delle donne nei flussi da Romania, Ucraina e Polonia mentre è netta l´eccedenza maschile per chi arriva da Marocco e Tunisia». Esistono poi comunità più chiuse di altre: in quella cinese ci si sposa tra connazionali nell´85% dei casi.
Quanto sono stabili le coppie miste? «Gli costituiscono circa il 10% delle separazioni totali». Ma quello che conta è «che i dati sui procedimenti di separazione con rito contenzioso segnalano un tasso di conflittualità maggiore per le coppie miste: vi ricorre il 16%, contro il 12% delle coppie con coniugi italiani. Cruciale - secondo Rosina - è la questione dei figli». Non mancano insomma le difficoltà. «Il lavoro transculturale di una famiglia mista - conferma la sociologa Chiara Saraceno, nel secondo studio pubblicato su Reset - per certi versi non finisce mai». Ci sarebbe inoltre una "demografia della secolarizzazione": «Quanto più una società è multi-religiosa e quanto più aumenta il numero dei matrimoni misti, tanto più diviene secolarizzata. Si può quindi comprendere - conclude la sociologa - come mai le religioni forti siano ostili ai matrimoni interreligiosi».

Repubblica 25.9.07
Sit in davanti alla Maya Desnuda di Goya a Madrid contro chi non consente di nutrire i neonati in pubblico
"Vietato allattare" le mamme in rivolta
di Cristina Nadotti


Il seno della Maya Desnuda sì, quello della mamma che allatta, no. Il 7 agosto Cindy Piccard si è messa ad allattare il figlio di sei mesi nella sala del museo madrileno del Prado dove è esposto il quadro di Francisco Goya ed è stata allontanata da un sorvegliante. «Non può allattare qui, deve andare nella caffetteria o alla toilette», ha detto l´uomo alla donna, che voleva acquietare il bambino e continuare a guardare i quadri. Domenica scorsa Cindy è tornata al museo del Prado con una ventina di mamme, tutte con i figli in braccio. Si sono sedute sui divanetti della sala 16B e hanno allattato i bambini in mezzo ai tanti visitatori domenicali.
Questa volta nessuno si è avvicinato per invitare le donne ad andare altrove, nonostante in precedenza a Cindy fosse arrivata una lettera della direzione del Museo, con la quale la struttura giustificava il comportamento del sorvegliante e rendeva noto che presto al Prado sarà messa a disposizione delle madri una stanza dove allattare i figli in tranquillità. «Non è questo il punto - ha detto Cindy Piccard per spiegare la protesta di domenica - non serve soltanto uno spazio dedicato alle madri, serve una diversa considerazione del gesto. Vogliamo che mostrare il seno per allattare i nostri figli sia considerato normale».
In Spagna, come in Italia, negli Stati Uniti e nella maggior parte dei paesi europei, non c´è una legge che impedisce di scoprire il seno in pubblico per allattare, tuttavia molte donne si sentono a disagio e sono talvolta invitate o costrette a nascondersi quando devono occuparsi dei figli. Nel novembre 2006 a Dallas, in Texas, una donna americana fu fatta scendere da un aereo quando rifiutò di nascondersi sotto una coperta per offrire il seno al bambino. Ne seguì un´azione legale e numerose proteste con sessioni di allattamento collettive negli aeroporti di tutti gli Stati Uniti. Lo scorso febbraio a Roma la proprietaria di un bar si è messa a urlare «Qui certe cose non sono permesse!» e ha cacciato dal locale una donna che, mentre faceva colazione come tutte le mattine, si era fermata al tavolino anche per allattare il bambino che nel frattempo si era messo a piangere.
La gente reagisce in modo negativo a un seno scoperto per paura, secondo i sociologi. «Si tratta di reazioni sessuofobiche - è la spiegazione di Enrico Pugliese, dell´Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali - per cui un seno nudo è visto come richiamo sessuale». Colpa però anche della confusione generata nella gente dalle tante teorie per il corretto allevamento dei bambini, che spesso si sono sostituite alla tradizione, al buon senso materno: «Nella società moderna spesso è prevalsa la teoria per cui del neonato si deve prendere cura la collettività più che la madre come individuo - continua Pugliese - Non a caso uno dei paesi dove più numerosi sono i casi di discriminazione delle donne che allattano sono gli Stati Uniti. Qui, a una società in cui l´elemento puritano è molto presente si sono aggiunte teorie sulla cura dell´infanzia volubili e cicliche».
Nessuno discute più sul fatto che allattare al seno sia preferibile e consigliato, eppure farlo in pubblico è difficile. Non ci sono neanche precauzioni igieniche a sconsigliarlo: «I microbi che possono arrivare al bambino perché viene allattato in un luogo pubblico non sono più di quelli che gli passa la gente che lo accarezza o che vengono dal ciuccio - dice Roberta Lodi, microbiologa esperta di produzioni alimentari e latte in particolare - Il bambino non deve vivere in una campana di vetro e per lo sviluppo del suo sistema immunitario il latte materno è la migliore garanzia». E Donatella Poretti, la deputata della Rosa nel Pugno che dopo l´elezione in Parlamento ha chiesto le venisse messa a disposizione una stanza per allattare la figlia durante le sedute a Palazzo Chigi rivela: «Ho chiesto un luogo dedicato perché mi avevano relegato in infermeria, dove i rischi di infezione sono reali. Non ho mai avuto problemi a dare il seno a mia figlia in pubblico e non li avrei avuti neanche nel Transatlantico, ma quando ho detto come provocazione che l´avrei fatto ho percepito chiaramente il disagio dei colleghi, che ritenevano scandalosa una cosa che per me era del tutto naturale. In Italia siamo ancora all´anno zero in fatto di sostegno alle madri. Le donne dovrebbero invece essere messe in condizione di poter scegliere dove e come prendersi cura del proprio figlio, con strutture e possibilità che non mirino a isolarle, ma a rendere più semplice il loro compito».

Corriere della Sera 25.9.07
Annullata la sentenza della Corte d'appello di Brescia che assolveva due suore del Bergamasco
«Abusi, i minori non dicono bugie»
La Cassazione: attendibili le loro testimonianze. Facile smascherare le falsità
di Luigi Corvi


ROMA — I bambini piccoli non sanno mentire. E se dicono qualche bugia sono facilmente smascherabili. Per questo la loro testimonianza, sino a prova contraria, è attendibile. Nero su bianco, in 22 pagine, i giudici della Cassazione (terza sezione penale) hanno fissato un principio destinato a fare giurisprudenza in un momento in cui, sull'utilizzo dei bambini come testimoni di abusi sessuali, si accendono polemiche e scontri tra periti, avvocati e giudici. La suprema Corte era chiamata a pronunciarsi su un caso di abusi che due suore, di 60 e 74 anni, avrebbero compiuto tra 1999 e 2000 su otto bambini (età da 3 a 5 anni) dell'asilo di Cazzano Sant'Andrea, nella Bergamasca.
Era accaduto che una mamma avesse notato comportamenti strani del figlio e ne avesse parlato con altre madri, ma per un anno non era successo nulla. Sino a quando un altro bimbo, in preda a paure immotivate, interrogato dai genitori raccontò: «Le suore ci portano in una stanza buia, ci tolgono le mutandine e fanno con noi il gioco del coniglietto mentre il signor Giorno ci riprende con la telecamera».
Successivamente altri bambini, sempre interrogati dai genitori, aggiunsero particolari via via più scabrosi.
Suor Casta e suor Caterina, questi i nomi delle due religiose, in tribunale vennero riconosciute colpevoli e condannate a 9 anni e mezzo di carcere, solo sulla base dei racconti fatti dai bambini (non furono trovati riscontri, la stanza buia non fu identificata e il «signor Giorno » rimase sconosciuto). Difese dall'avvocato Guglielmo Gu-lotta, le suore fecero però ricorso e nel 2004 la Corte d'appello di Brescia le mandò assolte con una sentenza che ruotava essenzialmente intorno all'asserita inattendibilità dei piccoli testimoni: «I bambini di questa età sono facilmente influenzabili, tendono ad adeguarsi alle aspettative degli interroganti, si lasciano trasportare dalla fantasia, scambiano la fantasia con la realtà, facilmente sostituiscono nei loro ricordi personaggi fantastici con soggetti reali (sono nozioni di esperienza, che non richiedono particolari specializzazioni e nemmeno l'ausilio dei periti)».
«Affermazioni stravaganti», «vizi di logica», «fragilità discorsiva », «mere disquisizioni psico- sociologiche», scrivono ora di quella sentenza i giudici della Cassazione (presidente Guido De Maio) che il 23 maggio scorso l'hanno annullata, ritenendola priva di motivazione, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Brescia. Secondo la suprema Corte, in sostanza, non si possono fare affermazioni di quel tipo senza il supporto di fatti concreti o di studi scientifici. «Se la Corte di merito aveva forti dubbi e riserve sulla capacità a testimoniare di quei bambini, piuttosto che proclamare in termini apodittici la loro assoluta inaffidabilità, avrebbe potuto disporre di una perizia psicologica».
Poco più avanti, citando «la letteratura di un certo peso dottrinario», i giudici affermano che «non è agevole pensare a quei piccoli come a persone capaci di sofisticate bugie e fantasticherie, perché la regola è che a quell'età sono strutturalmente incapaci di occultare o riprodurre falsamente i fatti di quelle prime esperienze». E se anche dovessero scappare delle bugie, queste «sono senza malizia, grossolane, trasparenti, ma soprattutto fuggevoli e agevolmente smascherabili».

Corriere della Sera 25.9.07
Un saggio di Roberto Esposito
L'idea di persona eredità cristiana
di Ernesto Galli Della Loggia


Non si può sorvolare sull'origine evangelica dei diritti

Spesso la filosofia sconfina o addirittura si sovrappone alla storia delle idee: questa è la ragione per cui anche chi filosofo di professione non è — come è il caso di chi scrive — può tentare di occuparsene. In particolare, se si tratta dell'ultimo libro di Roberto Esposito (Terza persona. Politica della vita e filosofia dell'impersonale, Einaudi, pp. 184, e 17), che in realtà è molto di più di un libro di filosofia e per giunta affronta in modo assai poco convenzionale la questione oggi decisiva dei diritti umani. La non convenzionalità è data dalla domanda da cui parte e intorno a cui ruota tutto il saggio di Esposito; e cioè: se i diritti umani falliscono tanto spesso nel loro obiettivo primario di salvaguardare la vita dalla fame, dall'oppressione, dalla guerra, ciò non accade forse proprio perché essi si fondano su quell'ideologia della persona che pure a noi continua ad apparire decisiva per la loro esistenza? Cioè «che sia proprio il dispositivo della persona, destinato, nell'intenzione degli estensori della Dichiarazione dei diritti umani, a riempire la frattura tra uomo e cittadino lasciata aperta da quella dell'89 — a produrre uno scarto altrettanto profondo tra diritto e vita»?
Esposito ne è convinto, e spiega tale apparente contraddizione sostenendo che è proprio l'ideologia della persona a separare di fatto il corpo, la fisicità del «bios» di ogni essere umano, da quella che si potrebbe chiamare la sua sovrastruttura ideologico- culturale, la «persona » appunto, attribuendo rilievo decisivo solo a questa precisamente perché entità diversa e superiore alla pura fisicità. La quale, pertanto, risulterebbe protetta sì, ma solo in quanto propaggine, rivestimento esteriore, della suddetta «persona».
In pagine dense e acute l'autore mostra l'ambiguità, e anche la pericolosità, di questa idea intrinsecamente scissa di persona la quale, non dimentichiamolo, è anche alla base di tutte le costruzioni della moderna democrazia politica. Proprio in essa si anniderebbe l'ovvio e duplice pericolo — mille volte manifestatosi nella storia — consistente sia nel rifiutare al corpo qualunque attributo in senso superiore «umano» (è il caso del razzismo), sia nel ridurlo a entità manipolabile e disponibile a piacere (è il caso dei vari deliri eugenetici). Rifiuto e riduzione alla fine riconducibili entrambi all'agghiacciante affermazione del premio Nobel per la Medicina Charles Richet, che nel 1922 poteva scrivere: «Una massa di carne umana senza intelligenza umana non è niente. Si tratta di materia vivente che non è degna di alcun rispetto e compassione ».
Dopo aver ripercorso l'itinerario che dal diritto romano in avanti costruisce la frattura tra capacità giuridica della persona da un lato e la nuda naturalità dell'essere umano dall'altro — frattura che neppure con la Rivoluzione francese riuscì a essere superata, certificando così l'impossibilità di qualcosa come i «diritti umani » — Esposito suggerisce, infine, che solamente una filosofia dell'umano impersonale, della «terza persona», del «neutro», diciamo pure di «depersonalizzazione della vita», è in grado di rappresentare il punto di partenza per fondare «una relazione intrinseca tra umanità e diritto sottratta al taglio soggettivo della persona giuridica».
Che cosa può osservare uno storico in merito a tutto ciò? A me pare che possa, e debba, esprimere almeno una sorpresa. Circa il fatto, cioè, che nel corso della sua lunga ricostruzione (storica, appunto) del problema, Esposito abbia sostanzialmente sorvolato, trattandone solo sporadicamente, su quello che nella nostra tradizione culturale è uno dei capisaldi in assoluto della definizione e della strutturazione teorico- concettuale dell'idea di «persona» (certo enormemente più importante di qualunque degli autori su cui egli si diffonde). Mi riferisco all'apporto rappresentato dal Cristianesimo e in particolare, come si capisce, alla sua idea centrale di «incarnazione » (una parola che, se ho letto bene, neppure ricorre nel testo in questione). Eppure a me sembra che se c'è stato un tentativo di raggiungere proprio ciò che queste pagine indicano come l'obiettivo, vale a dire l'unitarietà della persona, evitando da un lato la depersonalizzazione del corpo, la cancellazione di un suo legame con un'imprescindibile eccedenza spirituale, e dall'altro evitando un'indebita spiritualizzazione dell'idea di persona, ebbene questo tentativo teorico- pratico è stato per l'appunto rappresentato dal Cristianesimo e dalla sua declinazione di diritto naturale, ripresa dal giusnaturalismo liberale di ascendenza lockiana. L'idea cristiana di «incarnazione », del Dio che diviene corpo umano «generico », costituisce, essa sì mi sembra, un ostacolo insuperabile vuoi per ogni riduzionismo biologistico razziale o eugenetico che sia, vuoi per l'idea che sia solo una cittadinanza o un qualunque altro patto politico, o una qualunque sovranità, a conferire a un essere umano dei diritti. Certo, nessuno vorrà affermare che quello cristiano, e dunque quello occidentale, sia stato un tentativo privo di contraddizioni e fallimenti. Ma alla fine, se nella nostra cultura (e solo in essa) c'è l'idea dei diritti umani, l'idea di un diritto universale oltre gli Stati e oltre le culture della terra, a cos'altro mai si deve?

il manifesto 25,9.07
Fritjof Capra
Influssi di onde cosmiche nel segno di Leonardo da Vinci
di Luca Tomassini


Al grande artista e scienziato del Rinascimento Fritjof Capra, noto soprattutto per il best seller «Il Tao della fisica», ha dedicato il suo ultimo libro, «La scienza universale». Un incontro con il fisico, che negli ultimi anni ha dato vita a un centro per divulgare l'ecologia nelle scuole

«Tutto è cominciato con un libro che ho letto quando ancora ero un ragazzo. In quel libro, Fisica e filosofia di Werner Heisenberg, il grande scienziato, uno dei creatori della meccanica quantistica, sottolineava le profonde analogie della nuova fisica con le filosofie orientali». A parlare è Fritjof Capra, fisico ma anche guru indiscusso del movimento New Age grazie al celeberrimo Tao della fisica, pubblicato per la prima volta nel 1975 da una piccola casa editrice underground degli States e oggi tradotto in oltre venti lingue. L'allora trentaseienne professore resuscitava nella Berkeley scossa dalla crisi della sinistra a stelle e strisce quell'interesse per buddismo, taoismo e induismo che molti tra i fondatori della moderna teoria dell'atomo avevano professato apertamente. Basti pensare, oltre a Heisenberg, a Niels Bohr che per non lasciare dubbi sui suoi orientamenti filosofici si fece realizzare uno stemma familiare nel quale spiccava il simbolo del tai-chi, o a Erwin Schroedinger dedito per tutta la vita allo studio dell'induismo, o anche al padre della bomba atomica Robert J. Oppenheimer.
Fritjiof Capra è arrivato la settimana scorsa in Italia per presentare il suo ultimo libro, La scienza universale (Rizzoli, pp. 409, euro 23), dedicato alla figura di Leonardo da Vinci. Invitato a Sansepolcro, in Toscana, dall'azienda di prodotti erboristici Aboca, ha parlato a una platea piccola ma molto eterogenea, dall'imprenditore in gessato scuro allo studente di psicologia deciso a mostrargli la sua tesi su nuova scienza e medicina alternativa, dal fondatore di un noto centro per il benessere psicofisico al consigliere comunale verde.
Con il passare del tempo il suo stile è cambiato, così come si sono evoluti i suoi interessi. Trent'anni fa nel Tao della fisica così descriveva l'inizio, l'illuminazione: «In un pomeriggio di fine estate, seduto in riva all'oceano, osservavo il moto delle onde e sentivo il ritmo del mio respiro, quando all'improvviso ebbi la consapevolezza che tutto intorno a me prendeva parte a una gigantesca onda cosmica». Negli anni, il grande affresco tracciato dal fisico per descrivere la transizione verso una nuova scienza si è arricchito di nuovi elementi: teoria dei sistemi, caos, emergenza, complessità, tutte le idee innovative che tanto hanno mutato il panorama del dibattito scientifico-epistemologico sono state incorporate da Capra nel suo «sistema», che oggi prende la forma di un ecologismo radicale e spiritualeggiante, di cui egli resta figura di primo piano.

Quali sono state le principali linee di sviluppo del suo pensiero dopo «Il Tao della fisica»?
Ho continuato con Il punto di svolta (1982) a esplorare le conseguenze nelle altre scienze e nella società del cambiamento di paradigma avvenuto nella fisica. E poi questa nuova visione del mondo si è ulteriormente sviluppata in termini di descrizione dei sistemi viventi, di complessità, incorporata nella Rete della vita (1996). Per certi versi con Leonardo torno al Tao della fisica, all'indagine sulla natura della scienza, della conoscenza, dell'arte, dell'ecologia, e delle loro relazioni.

Cambiamento di paradigma - ovvero, come ha insegnato Thomas Kuhn, trasformazione di quell'insieme di conoscenze che delimitano il campo, la logica e la prassi della ricerca stessa. Può essere più preciso?
Mi riferisco al passaggio dalla concezione dell'universo come macchina perfetta governata da leggi matematiche, elaborata da Galileo e da Cartesio e perfezionata da Newton. Certo, rilevanti integrazioni furono necessarie nel corso del tempo: mi riferisco per esempio alla scoperta del ruolo della chimica nel mondo vivente o all'elaborazione della teoria dell'evoluzione. Ma la sostanza sopravvisse, gli animali erano ancora dei congegni, seppure molto più complicati di un semplice orologio: il dogma di una riducibilità delle leggi della biologia a quelle della fisica e della chimica è duro a morire. Ho spesso espresso la sostanza del punto di vista della nuova scienza in termini di consapevolezza che tutto è connesso con tutto, in una inscindibile unità.

Eppure lei stesso ha sottolineato che alcuni elementi sono più connessi di altre, e che la preminenza di talune relazioni costituisce l'inevitabile punto di partenza di ogni indagine. Qual è allora la differenza rispetto al tradizionale invito galileiano a «difalcare gli impedimenti», a trascurare ciò che non è rilevante ai fini dell'indagine?
Se tutto è interconnesso non possiamo sperare di determinare quantità precise, a causa degli insuperabili limiti di osservazione degli strumenti. Possiamo però rilevare gli schemi di relazioni. Nella scienza dobbiamo sempre concentrarci su quelle più importanti, non possiamo considerarle tutte. Siamo insomma costretti a fare una scelta. Quali siano i criteri che la orientano è questione di gusto, di obiettivi. È così che la scienza avanza. Nel caso dell'ecologia per esempio sono stati scelti differenti principi, che trovano la loro origine nella convinzione che i sistemi viventi siano immersi in un tutto pieno di relazioni. L'ecologia è una scienza di relazioni, c'è una comunità ecologica fatta di animali, piante, microorganismi, tutti in costante interazione con un ambiente. Noi abbiamo individuato una serie di concetti di base: la rete, i cicli, il flusso, l'equilibri dinamico, lo sviluppo, il fatto che ci sono sempre sistemi dentro altri sistemi (in analogia con la struttura dei frattali, ndr). Ma avremmo potuto selezionarne altri, come la diversità o la flessibilità.

Nel suo ultimo libro individua in Leonardo un anticipatore di questo approccio «olistico». Perché?
Ho deciso di intraprendere la scrittura di questo libro quando mi sono reso conto che, nonostante gli innumerevoli trattati dedicati alla sua opera, i lavori sulla sua scienza sono pochissimi, poco più di una decina. E tutti la leggono in una prospettiva meccanicistica, paragonando Leonardo a Galileo. Ma Leonardo ha sviluppato qualcosa di molto diverso, una scienza delle forme in trasformazione, delle qualità. Ho scoperto una sua bellissima frase, nella quale invocando la necessità di una teoria della pittura sostiene che essa abbraccia in sé tutte le forme della natura. Per Leonardo dipingere apparteneva alla sfera mentale, e forse è proprio questa la ragione per cui spesso non terminava i suoi quadri: importante era risolvere un problema, trovare nuove combinazioni. Il suo era un mondo di forme organiche in trasformazione, che mi sembra avere molti punti in comune con il paradigma della complessità, dell'ecologia. Lo definirei uno scienziato ecologico.

E il Leonardo ingegnere e costruttore di macchine, anche da guerra?
È senza dubbio un paradosso, ma si tratta di un personaggio così complesso da essere necessariamente contraddittorio. Leonardo progettava queste macchine per avere una posizione sicura, per poter fare la sua scienza, ma era certamente affascinato dalla violenza, dalle esplosioni, dai proiettili. Ciò nonostante era un pacifista, definiva la guerra «pazzia bestialissima».

Lei è considerato uno dei principali esponenti della «New Age». Quanto grande è stata l'influenza del terremoto politico e sociale degli anni Sessanta e Settanta nell'evoluzione della sua visione del mondo?
Assolutamente determinante. Negli anni Settanta si dividevano la scena due grandi movimenti che potremmo descrivere come vere e proprie espansioni della coscienza. Una andava nella direzione di una nuova centralità dell'elemento spirituale, l'altra verso la dimensione sociale. Io ho seguito la prima, ma avevo molti amici che militavano nella sinistra. Sono anche stato a Parigi nel '68, un'esperienza che ha avuto per me un'importanza enorme. Durante gli anni Ottanta, ho cominciato a scrivere sullo stato della società e sulle prospettive future e il mio interesse per le scienze della vita ha continuato a crescere, portandomi ad aderire al movimento ecologista. Nel 1986, quando è nata mia figlia, il problema del futuro dei nostri bambini e della loro educazione, si è fatto più personale e nel 1995 ho contribuito a fondare il Center for Ecoliteracy. Oggi portiamo l'ecologia nelle scuole, favorendone lo studio a tutti i livelli. Il nostro obiettivo è trasformare la società per mezzo dell'educazione, verso modelli compatibili con le risorse del nostro pianeta.

Un tema, quello dell'educazione, certamente al centro di ogni ragionevole strategia di trasformazione della società. Ma la spinta alla crescita dei consumi non è forse intimamente legata a un'organizzazione della produzione esclusivamente finalizzata alla massimizzazione del profitto?
Penso sia molto importante per la fondazione di una nuova economia tornare alla critica del capitalismo. Ma non posiamo accontentarci dell'originale impostazione marxiana, nonostante ci siano in essa elementi che conservano il loro valore. Il capitalismo di oggi è molto diverso da quello della rivoluzione industriale, è globale, riposa e si diffonde sulla base di informazioni, conoscenze. Non a caso in molti parlano di knowledge economy. L'organizzazione della produzione è ormai in gran parte strutturata intorno a reti finanziarie e di informazione, e queste reti a loro volta obbediscono a regole che vanno sotto il nome di «libero mercato». Ma libero non è certo da intendersi nel senso di democratico, indica solamente il potere delle imprese di fare come vogliono, guidate da un principio fondamentale: accumulare denaro è sempre più importante di qualunque altra cosa, dell'ambiente, della democrazia. Uso il termine denaro e non profitto perché anche questo concetto è cambiato, si è fatto ancora più astratto in quanto riferito a un futuro incerto e nebuloso. Come nel caso del cosiddetto share-holder value o del mercato dei futures. È da qui che dobbiamo partire, perché le stesse reti finanziarie e di informazione potrebbero essere utilizzate ad altri fini, etici e ecologici. Si farebbe profitto nella stessa maniera, ma tutelando l'ambiente e i lavoratori. E allora dobbiamo cambiare i valori per mantenere la dignità umana e la sostenibilità ecologica. Questa è la grande sfida.

Lei stesso ha sottolineato come gli attuali livelli di consumo siano incompatibili con la sopravvivenza del nostro pianeta. Un'osservazione che è il punto di partenza anche delle proposte imperniate sul tema della decrescita. Qual è la sua opinione a riguardo?
Mantenere la nostra industria senza petrolio è possibile, ci sono strategie e progetti, abbiamo le energie alternative, la bioarchitettura, l'ecodesign. Perché non li usiamo? Perché Bush pensa che dobbiamo fare la guerra per andare a prendere il petrolio? Molto potrebbe essere fatto insomma, ma occorre ricordare che il 20 per cento dell'umanità consuma circa l'80 per cento delle risorse. Questo significa che per garantire a tutti la ricchezza materiale dell'Occidente sarebbero necessari quattro pianeti Terra. In fondo, è ovvio da un punto di vista ecologico che un'espansione infinita su un pianeta finito è una follia: l'unico esempio che mi viene in mente di crescita indefinita è il cancro.


Il Messaggero 25.9.07
«Fanatico chi attacca Freud»
di Doriano Fasoli


IN Italia è uscito per i tipi di Quodlibet L’anti-libro nero della psicoanalisi, traduzione italiana di un libro uscito in Francia l’anno scorso (a cura di Jacques-Alain Miller). L’introduzione all’edizione italiana è stata affidata ad Antonio Di Ciaccia, membro dell’École de la Cause freudienne de Paris, della Scuola Europea di Psicoanalisi e presidente dell’Istituto freudiano per la clinica, la terapia e la scienza di Roma.
Professor Di Ciaccia, qual è il contesto in cui si inserisce ”l’anti-libro nero della psicoanalisi”?
«Il contesto è originariamente quello francese. Il libro viene pubblicato in seguito all’uscita di un volume dal titolo Il libro nero della psicoanalisi, anche questo tradotto in Italia (Fazi editore). In realtà quest’ultimo volume non meritava di per sé una risposta, non essendo altro che un libro che denigra Freud e la psicoanalisi con vecchi argomenti senza apportare elementi nuovi al dibattito. Come nota Elisabeth Roudinesco in un’intervista che noi abbiamo pubblicato nell’edizione italiana dell’Anti-libro nero: “Lo scopo di questo testo (Il libro nero della psicoanalisi), dal titolo accattivante, non è di criticare la psicoanalisi, ma di nuocere a una disciplina e ai suoi rappresentanti (...). Non si tratta di un libro scientificamente serio, è una requisitoria fanatica che si situa nella tradizione delle scuole cosiddette ”revisioniste”».
Ma allora, se ”Il libro nero” non è scientificamente serio, o, perché rispondergli con ”L’Anti-libro nero”?
«Per smascherare – divertendosi, come nota Jacques-Alain Miller nell’introduzione - il gioco subdolo che si trama sotto traccia. La psicoanalisi viene attaccata non per istaurare un dibattito, eventualmente anche aspro. La si attacca, da un lato, per denigrarla ma, d’altro canto, per presentare una nuova scienza psicologica che sarebbe all’altezza dei tempi, una dottrina psicologica finalmente scientifica che darebbe risultati clinici statisticamente validi».
Ma si tratta allora di un problema tra due correnti di pensiero nel campo della psicoterapia?
«Non proprio. Ed è qui che L’Anti-libro nero rivela il gioco subdolo che si sta giocando in Francia. In Francia la psicoanalisi è messa all’angolo non tanto da forme di psicoterapie cosiddette più moderne. In questo caso potrebbe svilupparsi una dibattito serio e proficuo per tutti. E’ messa all’angolo dai burocrati dello Stato i quali hanno individuato nelle psicoterapie di formazione cognitivo-comportamentali quelle più adatte per rispondere ai loro criteri e alle loro valutazioni».
E’ tuttavia un problema strettamente francese, dato che in Italia la ”legge Ossicini” assicura a ogni forma di psicoterapia dignità e autonomia...
«Certo, da questo punto di vista la “Ossicini” è una buona legge. E grazie a questa legge in Italia non esiste una psicoterapia scientifica ufficiale o statale. Lo Stato esige, e giustamente, che gli psicoterapeuti siano formati. Ma la formazione è compito delle società o delle scuole che sono tenute a far evolvere e a valutare costantemente il modello formativo che viene impartito ai loro allievi. Tuttavia il problema è attuale anche da noi poiché anche in Italia la burocrazia tende a schematizzare o a semplificare nonostante l’aumento di protocolli da fare e da firmare…».
Il problema di fondo è che nel campo mentale il problema è sempre complesso...
«Infatti. E le psicoterapie non possono essere valutate unicamente secondo le capacità di adattamento ai valori socialmente riconosciuti. E voler semplificare e uniformare il problema tramite la burocrazia è la soluzione peggiore. Quello che la psicoanalisi rivendica è il rapporto unico, personale, eccezionale di ciascuno con la propria soggettività. A volte la follia affiora in un soggetto. Sempre, in ognuno, affiora il sintomo. Ma non sono manifestazioni da eliminare per rendere statisticamente normale la persona. Sono invece manifestazioni da lasciar parlare, da interrogare, da far evolvere, da inquadrare certo, ma non in schemi predefiniti, ma mettendo a profitto quella forza interna che è il motore del sintomo affinché se ne liberi una creatività nuova per il soggetto. Il segreto della psicoanalisi è che il sintomo stesso contiene una forza che è una grande risorsa per il soggetto. Il sintomo, invece di essere un patimento di cui il soggetto non può farne a meno, può trasmutarsi invece in una grande occasione per la sua soggettività. E quando capita questo, tutti intorno a lui ne possono gioire e godere».


Il Messaggero 25.9.07
Ristampato l’epistolario tra Heidegger e la Arendt
Uniti contro il totalitarismo
di Luca Archibugi


LA vicenda privata fra Martin Heidegger e Hannah Arendt non può essere considerata soltanto una controversa storia d’amore fra maestro ed allieva. Gli accadimenti e l’evoluzione della storia concernenti l’origine e l’affermazione del nazionalsocialismo ne fanno un portato insostituibile della storia dello spirito del XX° secolo. Lo scambio epistolare, ristampato da Einaudi (Hannah Arendt-Martin Heidegger, Lettere 1925-1975 e altre testimonianze, pp. 318, € 22,00) dimostra a sufficienza come l’incontro di due personalità così potenti non potesse non deflagrare. Ma l’esplosione non tocca i due individui, ma i simboli che li hanno circondati; dal punto di vista privato Arendt e Heidegger hanno continuato a stimarsi e ad ammirarsi senza pausa. Persino quando Heidegger viene tacciato di antisemitismo, lei comprende le ragioni del maestro, e certo l’allieva non era un esempio d’indulgenza. C’è una testimonianza straordinaria, una lettera datata 32/33 (nel periodo più acuminato della questione, dove s’interrompe lo scambio epistolare, in cui Heidegger è costretto a ribattere alle accuse di antisemitismo rivoltegli), che molti denigratori faciloni dovrebbero rileggere (o proprio leggere): «Le dicerie che t’inquietano sono calunnie. Che io non saluti gli ebrei è una calunnia così maligna che me la ricorderò per il futuro». Heidegger continua elencando una lunga serie di ebrei a cui insegna e a cui ha fatto ottenere borse di studio. Poi conclude: «Chi voglia chiamare tutto ciò “antisemitismo militante”, lo faccia pure».
Hannah Arendt si rende conto di quanto per Heidegger sia difficile barcamenarsi dopo l’adesione al nazismo del 1933 nel discorso del Rettorato, ma si rende anche conto - intelligentemente – di quanto potesse essere difficile abdicare al nazionalsocialismo dopo esservi appena entrato.In tale lettera, peraltro, Heidegger chiarisce anche un aspetto fondamentale del tormentato rapporto con Edmund Husserl. I dissidi con il suo maestro ebreo-tedesco furono di ordine squisitamente privato e filosofico, non certo razziale.
Quando Hannah Arendt corrobora la propria personalità filosofica, la distanza col maestro – naturalmente - si fa più acuta. Eppure, non pochi sostengono che alcuni punti decisivi del pensiero della Arendt siano di filiazione heideggeriana, non già di derivazione, giacché il pensiero della Arendt ha un timbro inequivocabilmente originale. Sarebbe più interessante, pertanto, sul piano della storia delle idee, non tanto discutere degli enzimi di nazionalsocialismo persistenti nel pensatore tedesco dopo l’uscita dal partito, quanto vedere il suo influsso sul pensiero della Arendt, quanto di più lontano vi sia dalle idee naziste (ammesso che tali idee possano dirsi tali). Al di là della presunta connivenza heideggeriana, si vede facilmente come - anche nel caso della Arendt - il suo magistero abbia prodotto tutt’altro. Nella temperie della loro relazione, anzitutto una storia d’amore, il bersaglio comune – senza ombra di dubbio - è stato il totalitarismo. Per Hannah Arendt, ebrea trasmigrata in Europa e negli Stati Uniti, in forma esplicita; per Heidegger, resistente baluardo germanico (ma non per questo nazista, eccezion fatta per l’adesione conclamata in un periodo circoscritto), in forma teoretica, attraverso la sua lunga riflessione sullo smarrimento dell’essere come destino del dominio della tecnica. Per il filosofo di Messkirch, in ogni caso, ogni forma di dominio, sia dittatoriale che democratica, contraeva una comune radice in quello che Heidegger chiamò «oblio dell’essere»: Günther Anders, altro suo allievo, nonché primo marito della Arendt, dedicò alcune fra le sue migliori energie all’interpretazione dell’evento di Hiroshima e Nagasaki.

Repubblica salute 20.9.07
Diagnosi ora si cambia
Disturbi mentali: la "rivoluzione" di neuroscienze e nuove patologie Un lavoro che confluirà, entro 4 anni, nel DSM-V, "bibbia" sulle patologie della mente. Polemiche e questioni aperte su dipendenze, psicosi, demenze
di Francesco Cro


Diagnosi psichiatriche, si cambia. Sono in corso i lavori, coordinati dall'Associazione degli Psichiatri Americani, per ridefinire l'agenda della ricerca in psichiatria e mettere a punto una revisione degli attuali criteri diagnostici, che dovrà sfociare nella pubblicazione, prevista per il 2011, della quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-V).
Dal 2004 ad oggi sono state affrontate, in altrettante conferenze programmatiche, le più cruciali questioni aperte, relative alle principali patologie psichiatriche. La prima di queste conferenze, ad Arlington (Virginia) a fine 2004, ha affrontato i cosiddetti disturbi di personalità, che, più che essere veri e propri "disturbi mentali", rappresentano un modo di essere dell'individuo, che non si adatta al contesto culturale e sociale in cui questi vive, procurandogli perciò problemi nella vita relazionale, lavorativa e in altre aree importanti: alcuni di questi "disturbi" sono caratterizzati da diffidenza, isolamento ed eccentricità, altri da problemi comportamentali, impulsività, relazioni instabili, ricerca frenetica di attenzione ed ammirazione; altri ancora da inibizione, sottomissione e dipendenza dagli altri, perfezionismo o scrupolosità eccessiva. Gli attuali criteri del DSM (quarta edizione) per diagnosticare un disturbo di personalità non rendono giustizia alla complessità di tali configurazioni esistenziali (oggi si fa riferimento ad un elenco di caratteristiche). Tra l'altro per molte delle categorie diagnostiche non c'è una base scientifica accertata; è, inoltre, difficile stabilire una soglia che separi nettamente il "normale" dal "patologico". Proprio quest'ultima considerazione ha fornito uno stimolo per lo sviluppo della cosiddetta diagnosi "dimensionale": la complessità della mente umana non va schematizzata in "categorie", ma, piuttosto, osservata lungo "dimensioni" (ad esempio l'introversione, l'estroversione, l'instabilità emotiva, l'impulsività, l'aggressività), presenti anche nella normalità, ma che nelle situazioni patologiche possono assumere un'intensità abnorme. È stato sottolineato che le dimensioni della personalità sono universali e si estendono a tutte le culture, occidentali e non. Sono stati anche fatti tentativi di mettere in relazione alcuni tratti della personalità e del temperamento con alcune variabili biochimiche: in questo campo il modello più noto è quello di Robert Cloninger (Washington University di Saint Louis), tuttavia, con l'eccezione del documentato ruolo della serotonina nel controllo dell'impulsività, le ricerche in questa direzione sono ben lontane dal fornire modelli definitivi.
In una seconda conferenza si sono affrontati i disturbi da sostanze stupefacenti. Problemi aperti: l'abuso di sostanze in età adolescenziale e la possibilità di introdurre nel manuale la sindrome d'astinenza da cannabis. Il dibattito si è sviluppato anche intorno alla terminologia da usare: secondo alcuni il termine addiction (dedizione) sarebbe preferibile a quello, strettamente farmacologico, di dependence (dipendenza), perché riassumerebbe in sé anche la dipendenza psicologica, la perdita di controllo nell'uso della sostanza e l'irrefrenabile desiderio di assunzione; per altri, però, addiction sarebbe da evitare perché associato, nell'opinione pubblica, alla discriminazione ed alla criminalizzazione dei tossicodipendenti. È stata, infine, sottolineata la similitudine tra la dipendenza da sostanze ed il gioco d'azzardo patologico, caratterizzato anch'esso da perdita del controllo e dipendenza; questo introduce all'argomento di un'altra conferenza, incentrata sui "disturbi dello spettro ossessivo-compulsivo", apparentemente diversi tra loro ma che presentano caratteristiche cliniche (pensieri e comportamenti ripetitivi) e meccanismi neurofisiologici comuni. Unaa vasta categoria patologica che va da alcuni disturbi di personalità alla tendenza patologica ad accumulare oggetti, alcune forme di tic, alcuni disturbi del movimento, l'ipocondria e il disturbo di dismorfismo corporeo, l'abitudine a strapparsi i capelli (tricotillomania), la piromania, la cleptomania, alcuni disturbi alimentari, la dipendenza da internet, il gioco d'azzardo patologico, lo shopping compulsivo, l'abuso/dipendenza da sostanze e una particolare forma di schizofrenia ("schizo-ossessiva").
La schizofrenia ed il disturbo bipolare sono state affrontate nel febbraio 2006. Robin Murray del Maudsley Hospital di Londra ha ipotizzato che la schizofrenia ed il disturbo bipolare (alternarsi di forme depressive e momenti di esaltazione) nascano da una predisposizione genetica di base alle psicosi, che porterebbe all'uno o all'altro disturbo a seconda che siano presenti o meno altri fattori di rischio, genetici o ambientali. Murray propone inoltre di superare la terminologia attuale e di denominare le psicosi "disturbi da disregolazione della dopamina", distinguendo i pazienti che ne sono affetti in base allo sviluppo intellettivo e alla gravità dei sintomi. Mary Phillips dell'Università di Pittsburgh (Pennsylvania) ha invocato un approccio multidisciplinare alla diagnosi del disturbo bipolare, che si accompagna spesso a disturbi del sonno, dell'alimentazione, della circolazione e del metabolismo, nonché ad ansia ed abuso di sostanze; Mario Maj dell'Università di Napoli ha, infine, affrontato il problema dei sintomi psicotici (deliri e allucinazioni) nella depressione.
Altra conferenza sulle demenze: si è discusso, in particolare, di quelle forme di declino cognitivo lieve, non caratterizzate da perdita della memoria, che non sempre conducono ad una forma conclamata di malattia di Alzheimer.
A Pechino, nel settembre 2006, si è parlato di disturbi somatoformi (disagi psicologici che si manifestano principalmente con sintomi fisici). Robert Dantzer, docente di psiconeuroimmunologia all'Università di Urbana (Illinois), ha descritto le interazioni tra sistema immunitario e cervello, sottolineando il ruolo che i processi infiammatori, attivi in molte malattie fisiche, hanno nel sensibilizzare i sistemi cerebrali che producono la sensazione di "essere malati" e i sintomi ad essa conseguenti: inappetenza, disturbi gastrointestinali, deperimento, dolore, affaticamento, alterazioni dell'umore e della sfera cognitiva. Susan Levenstein, internista a Roma presso l'ospedale San Camillo-Forlanini, la casa di cura Salvator Mundi e l'American Hospital, ha sottolineato invece che un sintomo fisico non può essere etichettato come disturbo psichiatrico solo perché il medico non riesce a spiegarlo altrimenti, oppure perché il paziente è ansioso o depresso.
* Psichiatra, Servizio Diagnosi e Cura, Viterbo

Liberazione 25.9.07
Ultimatum a Cofferati: «O stai con la sinistra o con An»
di Angela Mauro


L'intesa in fieri tra il sindaco e Alleanza nazionale rompe tutti gli equilibri. I gruppi della sinistra, tutti insieme, presentano un documento in sette punti irrinunciabili per rilanciare l'azione del comune, e chiedono la fine del "flirt" con la destra

O noi o Alleanza Nazionale. Sergio Cofferati dica con chiarezza cosa vuole fare della maggioranza di centrosinistra al municipio di Bologna. Per la sinistra in consiglio comunale la misura è colma: se il sindaco prosegue sulla via intrapresa di stringere un accordo con An sulla sicurezza, non fa che stravolgere la maggioranza eletta tre anni fa. E a quel punto i consiglieri dell'Altra Sinistra (Prc, Verdi e il Cantiere), insieme all'indipendente eletto con il Prc Valerio Monteventi e ai due consiglieri di Sinistra Democratica, non potranno che prendere le dovute decisioni: passare all'opposizione. Per ora la sinistra unita si limita a suonare il campanello d'allarme, lanciando un ultimatum al primo cittadino al quale proprio ieri ha inviato un programma in sette punti da attuare nei due restanti anni di mandato. Trentuno pagine «per un nuovo percorso democratico e partecipativo, per una città sicura e solidale, per la tutela dell'ambiente e del territorio, per la casa e strutture collettive di alloggio, per i giovani, la scuola, la cultura, sui costi e l'efficacia della politica». Cofferati dica, è l'invito unitario, se intende confrontarsi con le proposte della sinistra, cioè con quella che è la sua maggioranza, oppure se intende coronare il flirt con il partito di Fini. Una cosa esclude l'altra.
Da parte sua, il sindaco prende tempo, si dice assolutamente tranquillo («C'ho l'aria preoccupata?», replica ai giornalisti con aria serafica alla buvette di Palazzo D'Accursio) e annuncia che risponderà a «tutti e a tutto» in una conferenza stampa giovedì prossimo. Poi, in un incontro con i consiglieri comunali Naldi di Sd e Panzacchi dei Verdi, nel tardo pomeriggio di ieri, assicura la disponibilità ad un vertice di maggioranza sulle proposte della sinistra.
Ma intanto su Cofferati preme Alleanza Nazionale: «Un passo indietro sarebbe disastroso», avverte il capogruppo di An in consiglio comunale Enzo Raisi, dichiarandosi «pronto a firmare» l'intesa discussa la scorsa settimana. E per il sindaco questo non è l'unico problema, visto che la sua relazione con i finiani manda su tutte le furie non solo la sinistra, ma anche lo Sdi («Riconosca gli errori e cerchi il dialogo») e, se non bastasse, pure la Margherita, con l'effetto di frantumare il Partito Democratico bolognese alla vigilia delle primarie.
«Il sindaco sta sbagliando», afferma il capogruppo dei Dl in consiglio Mazzanti, mentre il suo omologo diessino, Merighi, difende l'apertura ad An con un «nessun passo indietro».
Ma che gioco fa Cofferati, oltre a quello di dare attuazione pratica all'ossessione securitaria abbracciata dal Pd a livello nazionale e locale? I rumors raccontano che il sindaco si sarebbe fatto i conti sulla base di sondaggi che lo darebbero per sconfitto, qualora si ricandidasse alle amministrative di Bologna nel 2009, rispetto ad una eventuale candidatura dell'ex sindaco Guazzaloca da parte della Cdl e nel caso in cui la sinistra presentasse un proprio candidato. I giochetti con An mirerebbero dunque a spaccare il centrodestra, come già sta avvenendo in quanto Forza Italia e Lega non condividono la scelta dei finiani di aprire all'ex leader della Cgil. Quanto ad Alleanza Nazionale, nel dialogo con Cofferati troverebbe un proprio tornaconto sia in termini di risultati sulla sicurezza ("braccata" com'è da La Destra di Storace che ha appena aperto una sede anche a Bologna) che nei propositi di spaccare il centrosinistra.
Di certo, l'effetto immediato del marasma fin qui descritto rafforza il patto di unità a sinistra. Il "tradimento" con An spinge anche Sinistra Democratica ad accarezzare propositi di uscita dalla maggioranza, anche se al momento gli sforzi sono tutti concentrati a salvare il risultato delle amministrative del 2004. Spiega il consigliere Gianguido Naldi: «Vorrei che discutessimo sul nostro terreno, non su quello di Cofferati. Abbiamo presentato il nostro contributo alla maggioranza: non si può assemblarlo a quello di An. Cofferati deve scegliere e di certo non potrà dire che non ci vogliamo occupare di sicurezza». Perchè il documento è esplicito nel marcare una linea di confine tra l'idea di sicurezza della destra («soluzioni aggressive e violente») e quella sinistra: «solidarietà e accoglienza, contrasto alla criminalità organizzata e alla microcriminalità senza ricercare ricette inutili ed esclusivamente propagandistiche». Al centro del patto che Cofferati ha discusso e che potrebbe firmare con An c'è invece l'idea di assegnare spray urticanti e manganelli ai vigili urbani (le nuove squadre di quartiere dovrebbero essere operative da ottobre), imporre l'obbligo di chiusura alle 21 ai negozi di generi alimentari in alcune zone della città (per diminuire il consumo di alcool, ma ne verrebbero direttamente colpiti gli esercizi gestiti dagli extracomunitari), probabile istituzione di un assessorato alla sicurezza.
Il consigliere indipendente del Prc Monteventi richiama l'attenzione sulle questioni pratiche: «Il 15 ottobre sarà definitivamente chiuso il blocco degli sfratti e il Comune, a meno di un mese da quella data, non ha ancora fatto nulla». A fronte della «5mila domande» di case popolari presentate, «ci sono solo 400-430 alloggi disponibili». E ancora, sull'affitto a canone calmierato: «delle 1.700 domande avanzate - dice Monteventi - ne sono state accolte solo 171, senza contare che, per il fondo sociale per l'affitto, nel 2000 sono stati stanziati 6 milioni a fronte di 2.000 domande, mentre oggi ci sono solo 4,5 milioni per 6.000 domande». Emergenze che, dice la sinistra unita nel documento presentato a Cofferati, devono essere «il primo obiettivo del prossimo bilancio».
In attesa del "verdetto" di giovedì, il sindaco sceglie la via della replica indiretta alla sinistra, parlando di sicurezza ieri in una lezione ai 50 migliori laureati d'Italia alla Alma Graduate School di Bologna. «La difesa della legge è una cosa di sinistra», ribadisce, precisando di non voler fare il «Sarkozy di Corticella», di non essere alla ricerca di «modelli da imitare» e avvertendo che il «"benaltrismo" ha fatto solo male alla sinistra». «Io mi sento una persona di sinistra, i miei valori sono lì», conclude.
Il punto allora è capire di quali abusi può soffrire la parola sinistra nel futuro Piddì. Perchè «se Veltroni parla a livello nazionale di maggioranze variabili, qui Cofferati le mette in pratica alleandosi con An, invece di firmare accordi con la sua maggioranza», fa notare il capogruppo del Prc in consiglio comunale Roberto Sconciaforni. «Un'operazione spregiudicata, incredibile, irricevibile», dice il segretario regionale di Rifondazione Nando Mainardi. «Cofferati non discute con la maggioranza con cui è stato eletto e sceglie di fare i patti con la destra: agli italiani il giudizio», osserva Michele De Palma della segreteria nazionale del Prc. «Quanto succede a Bologna è un problema per il Piddì nazionale».

Liberazione 25.9.07
"Arancia meccanica" in tv, 36 anni dopo
Dopo le recenti polemiche su "Eyes Wide Shut", l'arte dissacrante del maestro americano si prende la rivincita
di Davide Turrini


L 'annuncio è di quelli da segnare sul calendario degli eventi. Arancia meccanica di Stanley Kubrick verrà programmato stasera su La7 alle 22.30. Assolutamente imperdibile visto che le due ore e diciassette dell'opera del maestro newyorkese non verranno tagliate nemmeno di un secondo. Insomma, tutta l' Arancia per intero. Addirittura preceduta dallo speciale "La meccanica dell'arancia", condotto da Alex Infascelli, con interviste a diversi protagonisti di quei tempi e di quell'evento. Un evento unico, per questo capolavoro vietato all'epoca ai 18 anni e che solo nel '98 un ricorso della Warner Bros, accolto con sentenza dal consiglio di Stato, rese accessibile ai giovani sopra ai 14 anni. Via libera accolto però solo dalle tv a pagamento che decisero di mandarlo in onda nel 1999 e poi mai più. Lasciato al passaparola di strada, il film di Kubrick, datato 1971, è diventato nel tempo sinonimo di violenza umana incontrollata, di furia bruta senza motivo.
Un occhio ancora ieri ad una delle maggiori agenzie di stampa e si poteva trovare scritto: «Arancia meccanica a Tor Vergata», per indicare un gruppo di rapinatori particolarmente efferati in azione tra le case romane. Sintomo che la popolarità intrinseca del concetto ha valicato l'effettiva conoscenza dell'opera d'arte. Ma anche che il film di Kubrick, tratto dal vorticoso romanzo di Anthony Burgess, ha superato il confine cinematografico per entrare di prepotenza in un linguaggio comune e condiviso.
Tutti conosciamo la storia dei Drughi, il gruppo di tute bianche che in una Londra scenograficamente pop picchiano e seviziano reietti della società, oltreché menare le mani contro i gruppi di teppisti rivali. In termini quantitativi di botte e violenza tra bande, I guerrieri della notte (di Walter Hill), classico titolo da Bellissimi di Rete4 stravisto in tv, supera di gran lunga le vicende di Alex e compagni. L'indifferenza del censore televisivo ha fatto calare l'oblio prolungato per ben altro: è lo stupro che la banda dei Drughi commette ai danni della donna dello scrittore ad essere incriminato. Lo stesso Kubrick denunciava nel 1972 l'ostracismo subito dal film per quella specifica sequenza: «il film è stato accettato come opera d'arte dai maggiori festival e nessuna opera d'arte ha mai fatto un danno sociale, anzi una gran quantità di danni sociali li hanno fatti coloro che hanno cercato di difendere la società dalle opere d'arte che ritenevano pericolose». Problema etico ed estetico che va riattualizzato e ricalibrato sui tempi e sulle concessioni del mezzo televisivo: ultima mastodontica diga alla pluralizzazione dell'arte, alla tangibile globalizzazione della visione. La censura, vizio superato per il disgraziato mezzo cinema, si è spostata sul nuovo debordante media e sulla scelta dei film "adatti" alla televisione. Qui lo scontro cruciale con il fuoco di fila del Moige (ricorderete i toni da tregenda, giustamente sottolineati sul nostro giornale, per la messa in onda di Eyes Wide Shut all'ora proibita delle 21.30), dove Stanley Kubrick veniva paragonato alla stregua di un regista per sessioni sadomaso/orgy group del web. Ma è la televisione stessa, e chi la impone, ad avere timore di una riflessione critica sulla propria dimensione costrittiva.
Nel caso del film di Kubrick, tenuto nelle cantine televisive dal '71, non si è voluto cogliere lo humor, il ruolo dissacrante dell'occhio della cinecamera, la parabola surreale (Bunuel partì prevenuto ma amò tantissimo il film) legata alla critica dell'esercizio del potere politico e culturale sull'inerme massa. Ricordiamo che di lì a quattro anni uno come Pasolini girò Salò, anch'esso pezzo forte bandito dal piccolo schermo.
Giorgio Cremonini studioso di mass-media e autore di un saggio su Arancia meccanica ha scritto: «al cinema della crisi e alla crisi della ragione Kubrick oppone un cinema della ragione e della critica, la quale non ha affatto come primo dovere quello di essere costruttiva. Non ci vuole insegnare che fare, egli stesso non lo sa (…) l'importante è pensarci. Ed è altrettanto importante che il cinema ritrovi il suo modo di essere pensiero». Una traslazione di senso che per una sera applichiamo alla televisione. Esclusivo mezzo comunicativo divenuto esso stesso temibile e rieducativa "cura Ludovico" per le sue nuove masse di spettatori. Grazie a La7 per il piccolo miracolo autocritico e riparatore. Eyes wide open tonight, please.

Epolis Roma 25.9.07
Arendt, appunti sul tempo
Da giovedì saranno nelle librerie i Diari dell’intellettuale editi da Neri Pozza. Un viaggio nella filosofia che parte da Platone e arriva fino a Heidegger. Riflessioni sulla nascita e sulla morte
di Livia Profeti


Il pensiero di Hannah Arendt è una delle risorse più preziose che il secolo scorso ci ha lasciato in eredità. Nata ad Hannover nel 1906, ebrea, con l’avvento del nazismo si trasferisce a Parigi; dopo anni di vita da profuga, nel ’41 riesce a mettersi in salvo in America, dove visse e insegnò teoria politica sino al 1975, anno della sua morte. Una vita intensamente vissuta, a stretto contatto con gli eventi più tragici e i pensatori più significativi del ‘900, che si riflette nel tono dei suoi scritti, caratterizzati dal rifiuto dell’astrazione fine a se stessa e da una particolare forma di “concretezza”, anche quando si occupa di temi impalpabili come il pensiero.
Chiunque abbia avuto la fortuna di incontrarla nel cammino delle proprie letture non può che essere rimasto affascinato dalla malìa del suo linguaggio, che non teme le grandi visioni e i nessi veloci, colmi di senso. I lettori italiani hanno ora la possibilità di confrontarlo con quella privato degli appunti, impressioni e riflessioni che hanno accompagnato gran parte del suo lavoro. Dal 27 settembre saranno infatti nelle librerie i suoi Diari curati da Chantal Marazia per Neri Pozza, che coprono un arco di tempo che va dal 1950 al ‘74, ovvero subito successivo all’opera che l’ha resa famosa, Le origini del totalitarismo, sino ad altre fondamentali come La condizione umana e La banalità del male.
Dai diari emerge un vero corpo a corpo con il pensiero dei filosofi che a partire da Platone hanno inciso sulla nostra civiltà; una “lotta” che si fa ancora più intensa quando gli interlocutori prendono il nome di Marx, Nietzsche e Heidegger. E nel confronto con quest’ultimo (di cui fu anche giovane allieva e amante) emerge un elemento che potrebbe essere alla base del suo approccio così “diverso” ai problemi, forse legato al suo essere donna in un universo da sempre più che maschile. Questo elemento è il modo di guardare al tempo. Sia Heidegger che la Arendt, infatti, attribuiscono al tempo una condizione fondamentale nell’esistenza umana. Però, se la filosofia heideggeriana - che ha avuto un influsso enorme sulla nostra cultura - è tutta orientata verso la fine, cioè la morte, le riflessioni della Arendt ruotano intorno al polo opposto: la nascita, quell’“inizio” da sempre trascurato. Si legge appunto nei Diari: «è come se, da Platone in poi, gli uomini non avessero potuto prendere sul serio il fatto di esser-nati, ma solo quello di morire (…) Nel momento in cui (…) si pensa anche solo alla possibilità della morte del genere umano, l’intero ambito terreno e politico non ha più senso».
Al contrario di tutta una tradizione più che millenaria dunque, la nascita è centrale per la Arendt, ed è strettamente connessa alla politica nel senso più alto del termine, perché sulla natalità si fonda la capacità umana di iniziare qualcosa di assolutamente nuovo nel mondo. Un aspetto del suo pensiero di grande attualità, ancora molto da esplorare, del quale i Diari ci aiutano a comprendere senso e significato.

Corriere della Sera 30.6.07
Il pensatore del Seicento, lontano dalla religione ma tentato di negare il mondo
Spinoza, Dio e il Nulla
Il paradosso del grande filosofo: un legame segreto lo avvicina a Cristo
di Emanuele Severino


La filosofia nasce volendo essere libera: indipendente da miti, fedi, religioni, opinioni, istinti, costumi sociali, oltre che da ogni costrizione e comandamento che provengano dall'esterno di ciò che essa porta alla luce, chiamandolo «verità». Ma lungo la sua storia la filosofia si è posta sempre in rapporto con tutte queste forze, da cui essa non intende farsi guidare, per indagarne il significato e la consistenza: soprattutto con le religioni monoteistiche (e con il potere politico) — e in particolare col cristianesimo. All'interno della grande epoca della tradizione filosofica, cioè del pensiero che pone l'Eterno al di sopra o nel cuore del Tempo, e al suo fondamento, Spinoza è certamente il più lontano dal mondo religioso. Si può dire che quello di Spinoza sia addirittura «il più radicale e alternativo sistema della storia filosofica dell'Occidente dopo la venuta di Cristo»? Lo sostiene Filippo Mignini, che con grande perizia e acume ha curato la prima edizione italiana di tutte le opere del filosofo, con la collaborazione di un'altro specialista, Omero Proietti, per i Meridiani di Arnoldo Mondadori editore: Spinoza Opere; quasi duemila pagine, ottime traduzioni inedite; un evento culturale importante.
Sono note le vicende di questo grande, probo e pacifico pensatore ebreo, cacciato dalla Sinagoga e condannato, oltre che dagli ebrei, dai cristiani, protestanti e cattolici, e dagli Stati. Nonostante l'ammirazione di un ristretto circolo di amici, lo si considera «l'uomo empio e pericoloso di questo secolo», come scrive Arnauld, approvato da Leibniz (che però nel 1671 invia a Spinoza, a cui riconosce «insigne perizia nell'ottica», il proprio scritto Notizia sui progressi dell'ottica, per averne il giudizio). Anche Boyle, il grande precursore della chimica moderna, indirettamente in contatto con Spinoza, contribuisce a denunciare l'empietà. «Ateo, fatalista, materialista, dissacratore della Scrittura e di ogni religione, corruttore della morale e dalla stessa convivenza umana»: queste, ricorda Mignini, le accuse principali rivolte al filosofo.
Ma il giorno di Natale del 1784 Herder dona a Goethe gli Opera Posthuma di Spinoza: «Rechi oggi il santo Cristo in dono di amicizia il santo Spinoza», scrive; «Spinoza sia sempre per voi il santo Cristo». Odiato o dimenticato per un secolo, a partire dagli ultimi lustri del XVIII secolo il pensiero di Spinoza viene riconosciuto in tutta la sua potenza. Jacobi, Fichte, Schelling, Herder, Goethe, Schiller, Lessing, Hegel, Schopenhauer, Nietzsche, Borges, Einstein, tra gli artefici e i testimoni di questa rinascita. Che anche oggi è attuale — soprattutto per le tesi sul rapporto tra Stato e Chiesa, fede e ragione e per la difesa della democrazia. «La libertà di filosofare — si legge sul frontespizio del Tractatus theologico-politicus — si può concedere senza danno per la pietà e la pace dello Stato, ma, anche, essa non si può togliere senza togliere la pietà e la pace dello Stato». Sullo sfondo di queste tematiche, la decisione del filosofo di «ricercare un bene vero e condivisibile »: «qualcosa grazie al quale, una volta scoperto e acquisito, godessi in eterno una gioia continua e suprema».
Tale bene è Dio. Un Dio, certo, molto diverso da quello pensato dalla filosofia dopo l'annuncio cristiano: ad esempio non è persona, non ha volontà né scopi, include la natura, e quindi anche ciò che erroneamente gli uomini credono male e peccato. E tuttavia possiede quei caratteri della potenza e dell'eternità che sono propri di ogni modo in cui la tradizione filosofica ha pensato il divino.
Si tratterebbe di comprendere che anche alle radici di una filosofia come quella di Spinoza, così lontana dalle (sia pur grandi) abitudini concettuali della civiltà occidentale, è presente l'essenza stessa di quelle abitudini, il tratto decisivo rispetto al quale le pur profonde differenze tra Spinoza e i suoi avversari passano in secondo piano. «Alle radici», diciamo: perché si tratterebbe di scendere sul fondo dell'abisso su cui è sospeso il pensiero dell'uomo occidentale, e ormai dell'uomo planetario. Sin dall'inizio dell'Etica, il suo capolavoro, Spinoza distingue ciò che esiste necessariamente, cioè non è mai inesistente, ed è Dio, l'Eterno, da ciò che invece non esiste necessariamente, nel senso che non è sempre esistente ed è l'insieme delle «cose prodotte da Dio», esistenti nel Tempo. Ora, essenzialmente, radicalmente più decisiva del modo in cui Spinoza «dimostra » l'esistenza di Dio — e più decisiva di ogni altra «dimostrazione» di tale esistenza, proposta lungo la storia del pensiero occidentale — e la convinzione che le cose del mondo non esistono necessariamente: nel senso, appunto, che non sono sempre esistenti (anche se accadono necessariamente). Spinoza condivide questa convinzione con ogni altra forma (anche religiosa, dunque) del pensiero dell'Occidente.
Si dirà: è ovvio che la condivida! Infatti è la verità più evidente di tutte! E oggi si aggiunge: ed unica verità evidente!— Questo dire e questa aggiunta sono inevitabili. Infatti, anche se la cosa è tutt'altro che facile a comprendersi, l'onnipresente essenza della civiltà occidentale e appunto la convinzione che le cose del mondo non siano sempre esistenti e che questa loro non necessaria esistenza sia l'evidenza originaria o, addirittura, come oggi si conviene, l'unica evidenza assoluta.
Perché, allora, perdere tempo con ciò che oggi è rimasta l'unica verità fuori discussione, e non impegnarsi invece per diradare un poco le nebbie dell'incertezza che avvolge la vita dell'uomo? Proviamo a rispondere così: perché quanto sembra l'unica verità veramente fuori discussione è invece l'errare più profondo, e anche più nascosto. Ma come possiamo azzardarci a dir questo? Che presunzione! Ancora maggiore, la presunzione, se si tiene presente, che anche per la scienza moderna le cose del mondo non esistono sempre: esse sono, dopo non essere state, e tornano a non essere: sporgono provvisoriamente dal nulla.
Certo, sembra proprio un azzardo e una presunzione. Con i quali, tuttavia, acquista un maggior spicco il motivo per cui affermiamo che anche una filosofia come quella di Spinoza, così lontana dalle abitudini morali e concettuali dell'Occidente cristiano, e, ciò nonostante, profondamente solidale con l'essenza di tali abitudini. Anche a Nietzsche (che vede in Spinoza il pensatore a lui «più vicino») compete questa solidarietà.
Poi, si tratterà di pensare la follia di quell'essenza. Credere che le cose escano e ritornino nel nulla — ad opera di un Dio o da sole — non è forse credere che le cose siano nulla? non è forse credere che ciò che non è nulla sia nulla? e questa fede non è forse la mano più terribile e violenta? non uccide forse uomini e cose nel modo più originario e radicale, quello che sta al fondamento della violenza visibile che tutti sono capaci di scorgere? Sul fondamento di questa fede, ogni santità è la culla dell'omicidio e di ogni altra forma di annientamento.
Certo, è indiscutibile che per Spinoza (sulla scia di Seneca e in generale dello stoicismo) le decisioni umane e tutte le cose avvengono per «fatale necessità» (fatalis necessitas); che nessuna cosa può esistere diversamente da come esiste e che dunque ogni cosa è necessaria. Certamente! Ma nel senso che ogni cosa del mondo si genera e si corrompe necessariamente: non nel senso che non si generi e non si corrompa. Che tali cose escano dal nulla e vi ritornino seguendo o non seguendo un percorso inevitabile indica due prospettive che per quanto fortemente opposte hanno tuttavia in comune la convinzione decisiva e abissale: che le cose del mondo sono nulla. La stessa convinzione che accomuna nell'essenziale le esperienze in cui, lungo la storia dell'Occidente, si pone un Dio alla guida della produzione e distruzione delle cose e le esperienze dove invece si ritiene che tale produzione-distruzione non abbia bisogno di alcun Dio. Questa accomunante convinzione è l'«intima mano», assolutamente più intima e terribile di quanto possa supporre Herder, quando, volgendosi al «santo Cristo» e al «santo Spinoza», si chiede: «Quale intima mano congiunge i due in uno»?