Procreazione assistita
Se la legge fa autogol
di Carlo Flamigni
La famigerata legge 40, quella che detta le norme in materia di procreazione medicalmente assistita, recita, all’articolo 13, che «la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso e qualora non siano disponibili metodologie alternative». In altri termini: mai.
Nell’articolo 14, quello dunque immediatamente successivo, al punto 5, si legge invece che «i soggetti di cui all’articolo 5 (cioè i genitori) sono informati sul numero e, su loro richiesta, sullo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell’utero».
Non vorrei sembrare maleducato, ma mi pare evidente che chi ha scritto questa legge soffra di lunghe pause cognitive, come dimostra la palese incompatibilità tra i due articoli: nell’articolo 13 si nega alle coppie la possibilità di eseguire indagini pre-impiantatorie sui propri embrioni, un divieto del quale l’articolo 14 sembra farsi beffe.
Provo a spiegare questo punto, a totale beneficio della senatrice Binetti.
La norma riconosce alle coppie il diritto di essere informate sulla salute degli embrioni prodotti: non dice ootidi, zigoti, blastocisti, dice embrioni. Ora, mentre per sapere se un ootide è normale può anche bastare (entro precisi limiti, ma non voglio complicare il discorso) l’analisi al microscopio, quella consentita dalla legge (ci sono tre pronuclei invece di due? Buttiamo via tutto o ci metteremo nei guai) l’unico modo per conoscere le condizioni di salute di un embrione è l’analisi genetica. Capisco che una parte dei cattolici non voglia ammettere l’esistenza dell’ootide, ma l’idea piace al cardinale Martini e questo mi basta. Che poi il Vaticano abbia il diritto di correggere i termini della biologia e lo eserciti al punto di costringere i suoi più illustri genetisti a cambiare idea sul significato delle parole mi può anche andar bene, purché si conceda ai biologi laici un analogo diritto di critica in materia di esegesi biblica. Se vuoi che un’amicizia si mantenga...
Dunque , ad avviso di molti, la legge 40 ammette la diagnosi genetica pre-impiantatoria e non solo per la ragione che ho citato. Esiste ad esempio un problema di congruità pragmatica: una donna che si vede rifiutare questo accertamento avrà poi modo di eseguire le stesse indagini, in gravidanza, sul feto e di decidere di interrompere la gravidanza se lo scoprirà malato, spero che a nessuno sfugga la crudeltà inutile del primo diniego. Inoltre in queste circostanza è certamente a rischio la salute psicologica della donna e vorrei ricordare che una sentenza della Consulta di circa trent’anni or sono afferma che deve essere privilegiata la salute e l’interesse di chi è già persona nei confronti di chi persona deve ancora diventare.
Nel 2005 una coppia di coniugi di Quartu Sant’Elena portatrice di una comune anomalia genetica (l’anemia mediterranea) aveva fatto ricorso contro il divieto di eseguire una diagnosi pre-impiantatoria con istanza d’urgenza presentata al Tribunale di Cagliari. Il magistrato aveva passato gli atti alla Consulta, la quale aveva dichiarato inammissibile la questione di legittimità perché non posta correttamente. Ricordo il commento del professor Emilio Dolcini, ordinario di diritto penale nell’Università di Milano, il quale aveva interpretato la sentenza come una sorta di incitamento a ripresentare il ricorso presso un tribunale ordinario, cosa che è poi stata regolarmente fatta. Per quanto posso capire, il giudice ha ritenuto di dover privilegiare il diritto della donna alla salute e all’informazione sulle condizioni di salute del nascituro, anche e soprattutto alla luce dei principi costituzionali che ho appena citato. Scelta, a mio avviso, logica, razionale e piena di buon senso.
Mi attendevo le solite convulsioni cattoliche, ma debbo confessare che chi mi da le maggiori soddisfazioni è, come sempre, Paola Binetti, la quale chiama in causa la dichiarazione di inammissibilità della Corte Costituzionale del 2005, della quale non ha evidentemente capito una parola. Ho per la senatrice Binetti una forte simpatia personale (mia moglie lo sa) e, se continua a darmi queste soddisfazioni, non vedo come potrò evitare di chiederle di farmi entrare nel suo nuovo partito.
Molti mi chiedono come si potrà andare avanti a partire da questa piccola vittoria. Anzitutto credo che il tempo dei ricorsi non sia ancora terminato e mi auguro che prima o poi si porti al magistrato- ma in termini più corretti di quelli usati in passato - la questione dell’ootide, l’oocita fecondato nel quale non si è ancora formato un genoma unico e che la legge tedesca, la legge svizzera e un grande numero di teologi cattolici considera «fase pre-zigotica e perciò pre-embrionale». Bisogna però trovare un sinonimo di ootide, termine in molti sensi non grato ai cattolici: nel sito di «Verità e Vita», nella parte dedicata all’«antilingua» il povero ootide figura come «ootite (sic)», che potrebbe aver a che fare con il mal d’orecchi. Una volta questi si chiamavano autogol.
In secondo luogo deve diventare chiaro a tutti che una donna ha il diritto di rifiutare il trasferimento di tre embrioni e che a seguito di questo rifiuto il medico non può che congelare l’embrione o gli embrioni che la donna non ha voluto accogliere nel proprio grembo. In tempi lunghi, mi sembra che la soluzione più logica sia quella di tornare a proporre ai cittadini italiani la solita domanda: ma proprio la volete una legge così stupida e così ingiusta?
In tempi brevi, poco da fare :mi sembra che continui a prevalere l’ormai cronico atteggiamento di rispettosa e modesta rassegnazione che la maggior parte dei parlamentari ha deciso di assumere quando deve confrontarsi, anche da grande distanza, con un qualsiasi rappresentante del Vaticano, Guardie Svizzere incluse. E non mi pare che il Ministero della Salute possa attualmente essere considerato un tempio della laicità, considerate le recenti proposte di adozione per la nascita e i peana in onore di chi accetta un figlio malformato , che alle mie orecchie suonano come sgradevoli e inattese condanne a che ha invece deciso diversamente e che, perbacco, meriterebbe un po’ più di rispetto. Perché, vedete compagni, se vogliamo che il Paese possa respirare la pulita e trasparente aria della laicità bisogna che i nostri attuali politici passino tutti (o quasi tutti) a miglior vita. No, non sto affatto pensando a una epidemia, mi auguro solo che divengano tutti così ricchi da decidere collettivamente di trasferirsi nelle Hawai, dove sembra - dico sembra, non ho prove concrete - che la vita sia senz’altro migliore.
Repubblica 26.9.07
Tutti i veti del Vaticano
di Marco Politi
Invece di lasciare libertà di azione e di discernimento ai credenti nella vita pubblica, la Cei intende esercitare attivamente la sua supervisione
La dura critica del segretario della Cei mons. Betori al tribunale di Cagliari, accusato di emettere sentenze «in contrasto con la legge ed il pronunciamento della Corte Costituzionale», conferma che la gerarchia ecclesiastica difende ad oltranza l´attuale legge sulla procreazione assistita. Normativa che la Cei pretende immutabile.
Vale la pena di ricordare che (contrariamente alla leggenda diffusa dopo la consultazione del 2005) gli italiani non espressero col voto un giudizio di appoggio alla legge, ma disertando le urne hanno lasciato al Parlamento e alla magistratura – così si evince dalle regole fondamentali sui referendum – piena libertà per successive evoluzioni, interpretazioni e modifiche.
Né merita l´oblio ciò che nell´ottobre del 2004 il cattolicissimo Francesco D´Agostino, allora presidente del Comitato nazionale di bioetica, dichiarò a questo giornale sul divieto o meno della diagnosi dell´embrione: «Già nella legge vigente la madre ha il diritto di essere informata sullo stato di salute dell´embrione. Quindi una diagnosi è doverosa, il medico non può mica parlare a casaccio».
E quando gli fu chiesto come regolarsi di fronte all´accertamento di una malformazione congenita, replicò: «L´eugenetica è vietata, ma le norme fanno esplicito riferimento alla legge sull´aborto che autorizza la madre – qualora le malformazioni del feto le possano causare una patologia fisica o psicologica – ad interrompere la gravidanza. Dunque nessun impianto obbligatorio di embrioni con malformazioni, che tra l´altro sono generalmente causa di aborti spontanei». Testuale.
Il dato politico è che la gerarchia ecclesiastica intende continuare a determinare – con veti o interventi diretti – la legislazione italiana su una serie di temi chiave. Da questo punto di vista il recente Consiglio permanente della Cei segna una nuova tappa di una silenziosa escalation. E´ vero, la Chiesa non vuole cavalcare l´antipolitica e anzi esorta i credenti a considerare l´impegno politico uno «strumento essenziale della vita sociale» e a spendersi per una sua «rigenerazione». Non è tempo di disertare la politica, sottolinea il comunicato della Cei, semmai di orientarla. E qui «la parola dei Pastori non potrà essere assente», i politici cattolici sappiano che devono restare «in ascolto del magistero della Chiesa».
Intanto la Cei estende ufficialmente il suo patronato sul Forum delle associazioni familiari, sul comitato Scienza e Vita, sul coordinamento cattolico chiamato RetinOpera. Invece di lasciare libertà di azione e di discernimento ai credenti nella vita pubblica, la Cei intende esercitare attivamente la sua supervisione. In evidente sintonia con la linea ratzingeriana dei principi non negoziabili, che bypassa un secolo di cattolicesimo democratico. «Sono strumenti di confronto del mondo cattolico per promuovere azioni sociali evangelicamente ispirate», ha spiegato mons. Betori. Difficile immaginare che, come già nel referendum del 2005 o nel Family Day, alla fine non si imporrà un modello di cinghie di trasmissione.
Movimenti sotterranei sono in corso nel mondo cattolico e la gerarchia ecclesiastica si prepara a giocare la sua partita in vista di una Terza Repubblica dai contorni ancora incerti. Ai primi di ottobre Savino Pezzotta partirà con il suo movimento di Presenza Cattolica. Verrà lanciato programma e statuto di un soggetto, che intende porsi come «presenza politica organizzata di cattolici» con l´obiettivo di rilanciare un «riformismo popolare democratico di ispirazione cristiana». Alleati intellettuali del progetto sono l´ex presidente di Azione cattolica Alberto Monticone e Andrea Riccardi leader di Sant´Egidio. Tra gli obiettivi: legge elettorale tedesca con sbarramento al 6 per cento, promozione della famiglia, questione meridionale. Non è ancora un partito, ma un domani?
Repubblica 26.9.07
Firenze. An: Toni Negri non deve parlare a Palazzo Vecchio
FIRENZE - No a Toni Negri ospite a Firenze nel palazzo comunale. Il senatore fiorentino di An Achille Totaro chiede di bloccare la presenza di Negri ad un convegno a Palazzo Vecchio, il 4 ottobre. «E´ uno scandalo che il Comune abbia deciso di collaborare con Negri, arrestato nel ‘79 per insurrezione armata contro lo Stato» dice Totaro. Negri parteciperà ad un incontro con l´urbanista Rem Koolhaas, autore di «New York Delirius» e che presenterà la recente raccolta «Junkspace» su globalizzazione e architettura. Un incontro organizzato non dal Comune, ma dall´Osservatorio sull´architettura della Fondazione Targetti. Gianni Biagi, assessore all´urbanistica di Firenze, anche lui invitato a partecipare all´incontro, ribatte: «Il Comune non collabora, e non collaborerà, con Negri: ma in Italia esiste la libertà di esprimere il proprio pensiero».
(m. f.)
Repubblica 26.9.07
Il flirt con An e il fantasma dei fascisti Cofferati fa soffrire Bologna la Rossa
di Luciano Nigro
«Il dialogo con An? Non credo sia un problema in sé. Dipende dai contenuti». Prova a prenderla con un certo distacco il capo dei partigiani Lino "William" Michelini. Poi però sbotta: «Certo, noi con loro non abbiamo niente a che spartire, siamo su sponde opposte». Decisamente irritato Guido Fanti, sindaco negli anni ‘60: «Trattare con una forza di opposizione, soprattutto "quella" - e per me che ho più di 80 anni non è un dettaglio - senza avere discusso con la propria maggioranza e a rischio di una crisi, è semplicemente incomprensibile».
Proprio non va giù, a un pezzo della rossa Bologna, quello che succede a Palazzo d´Accursio dove Sergio Cofferati dialoga con Alleanza nazionale sulla sicurezza e tutta l´ala sinistra dell´Unione da una settimana invia aut aut a ripetizione: se ti accordi con Fini, usciamo per sempre dalla maggioranza. Bologna torna all´epoca dei comizi vietati ad Almirante in piazza Maggiore? Ma non era proprio da queste parti che Berlusconi "sdoganò" nel ‘93 Gianfranco Fini e i suoi?
Sdoganati, evidentemente, non lo sono ancora per tutti i bolognesi. Molti di loro ricordano il vecchio capo di An, Filippo Berselli, minacciare picconate sulla lapide della strage alla stazione, quella che attribuisce ai fascisti la responsabilità della bomba. «Io sono la persona meno adatta per parlare di questa storia, perché ho vissuto la strage fatta dai fascisti - scuote il capo Paolo Bolognesi, il presidente dell´associazione "2 agosto" - . Sulla sicurezza è giusto dialogare con tutti, anche con loro, ma se lo fai senza dire niente alla tua coalizione, a costo di rottura, non capisco più niente».
Insomma il mondo è cambiato, An ha governato, ma a Bologna il confronto con An resta un tabù? Pure se l´obiettivo è minimalistico? Se tutto si limita a «dotare i vigili di spray al peperoncino», come nota Salvatore Caronna, candidato alla segreteria regionale del Pd? «A Bologna il partito di Fini è un problema solo per i più anziani, per chi ha vissuto il fascismo - analizza il politologo Paolo Pombeni che guarda con interesse alle mosse di Cofferati - ma quando si grida "o con noi o con i neofascisti", riaffiorano i ricordi e la città rossa si turba. Insomma, che dialoghi sulla sicurezza, a parte le frange iper-politicizzate, va bene a tutti. Ma se la questione diventa una bandiera...».
Una "bandiera" che ha spinto Prc, Verdi e Sd a minacciare la rottura. E l´assessore alla Cultura Angelo Guglielmi a sospirare: «I nodi sono venuti al pettine». E se un vecchio dirigente del Pci che non vuole litigare con Cofferati definisce la sua tattica «stravagante», l´ex sindaco Fanti, ora assai critico nei confronti del successore, esterna tutta la sua amarezza. «Il mal di pancia di Bologna è grande - protesta - . Rompere una maggioranza faticosamente costruita per il peperoncino ai vigili? Ma questa è una cosa che fa piangere». Non è il solo a non capire le mosse del sindaco. «Dio mio, siamo ridotti così male?» si domanda Luigi Pedrazzi, dossettiano, anima antica del Cattaneo e del Mulino. «Dobbiamo davvero omologarci al peggio di ciò che avvenuto in Italia? Cofferati, benedetto lui, fin dall´inizio ha detto no alle radici di una tradizione comunista che manteneva un´alta qualità. Ora siamo al non senso: se il duetto con An è poca cosa, perché portarlo così avanti? Se invece è importante, capisco l´interesse di Raisi (il segretario bolognese del partito di Fini-ndr), ma non quello di Cofferati».
C´è però anche un chi giura che in questa faccenda «il fascismo non c´entra niente». E´ il caso di un altro politologo, Gianfranco Pasquino. «La città non è preoccupata - è la sua tesi - si chiede soltanto come uno del centrosinistra dialoghi con altri, anche a rischio di rompere la coalizione che lo ha eletto. Bologna non capisce, ma lui, altezzoso, non lo spiega».
Repubblica 26.9.07
La Cassazione: non esiste il diritto all'amplesso
I sessuologi: ma senza sesso non c'è la coppia
ROMA - Esiste, nel matrimonio o nella convivenza, un diritto a fare l´amore? Può uno dei partner imporre all´altro un´astinenza forzata dal sesso? E se il coniuge non ne vuole sapere, lo si può costringere? Sul delicato argomento si è espressa la Cassazione, che ha sancito: «Non esiste un diritto all´amplesso». Ma i sessuologi avvertono: «Senza sesso la coppia non esiste».
La Cassazione - con una sentenza con la quale ha confermato la condanna per violenza sessuale di un marito che aveva costretto la moglie ad avere un rapporto - ha stabilito che non si può esigere dal partner, sia all´interno del matrimonio sia nell´ambito di una convivenza, alcun tipo di prestazione sessuale, specie se con prepotenza. Per la Suprema Corte, «in tema di reati contro la libertà sessuale», scatta la condanna per il reato di violenza sessuale nei casi di «qualsiasi forma di costringimento psico-fisico idonea ad incidere sull´altrui libertà di autodeterminazione, a nulla rilevando l´esistenza di un rapporto di coppia coniugale o paraconiugale tra le parti». Dal momento che, scrive il relatore Giovanni Amoroso, «non esiste all´interno di un tale rapporto un ‘diritto all´amplesso, né conseguentemente il potere di esigere o imporre una prestazione sessuale».
La Corte ha quindi respinto la tesi dell´uomo, in base alla quale in una coppia è da ritenersi che ci sia sempre un «consenso putativo» per il partner all´atto sessuale. Ma la sessuologia non è sulla stessa lunghezza d´onda della Cassazione: «Quando si forma una coppia - spiega Jole Baldaro Verde, presidente della Federazione italiana di sessuologia - si dà all´altro una sorta di diritto-dovere ad avere rapporti sessuali, altrimenti non è una coppia». Il formarsi stesso di una coppia, insomma, comporta che tra le due persone esista un rapporto sessuale. «Se viene a mancare questo piacere creativo e condiviso - conclude Baldaro Verde - la coppia si rompe».
Anche il diritto canonico parla di diritto-dovere dei coniugi di dare o ricevere l´atto coniugale.
Repubblica 26.9.07
Perché in Italia la politica è in crisi
di Massimo L.Salvadori
Prima di svolgere alcune riflessioni sulla natura della crisi presente della nostra politica, vorrei ragionare sulle caratteristiche di crisi passate, tutte accomunate dai seguenti elementi: incapacità dei partiti sia di governo sia di opposizione di dare risposte adeguate a problemi cruciali del paese; situazione di stallo determinata dall´indisponibilità degli uni e degli altri a convergere su urgenti riforme istituzionali, politiche e sociali pur giudicate universalmente indispensabili; diffusione crescente dello scontento nei governati; irruzione sulla scena di nuovi soggetti che danno corso ad una violenta polemica contro i "vecchi partiti" sordi alla "voce del popolo" e promettono di rompere la trama di equilibri esauriti e di rigenerare la politica e il paese; cedimento o quanto meno crisi profonda del sistema. Questi furono in sintesi i sintomi che segnarono il crollo del sistema liberale nel 1919-22 e il sorgere del fascismo; la crisi dei governi di centro-sinistra tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta che portò prima all´emergere dei movimenti sessantottini e dei gruppi eversivi di estrema sinistra ed estrema destra e poi ai tentativi non riusciti di rilancio del sistema politico ad opera per un verso del berlinguerismo e per l´altro del craxismo in competizione reciproca; il deterioramento sfociato nel crollo all´inizio degli anni Novanta, con la scomparsa dei partiti storici della Prima repubblica travolti da Tangentopoli, e l´avvento della Lega e di Forza Italia, le quali fecero la grande promessa fallita di rimettere in sesto l´Italia.
Queste crisi avevano avuto in comune di poggiare su sistemi bloccati, i quali non consentivano le alternative di governo tipiche dei regimi democratici maturi e quindi generavano e facevano crescere, sotto il coperchio che impediva il ricambio delle forze al potere, vapori pronti ad un certo punto ad esplodere. Con l´avvio, finalmente, della possibilità dell´alternanza, si credette e si sperò che questo meccanismo avesse perduto la sua ragion d´essere. Ci si era illusi. E ora ci risiamo. Alle parole e ai buoni propositi di dar vita a una repubblica rinnovata non sono seguiti i fatti, e tanta parte del paese è tornata a mormorare sempre più fortemente. I partiti arrancano tra crescenti difficoltà: a destra e a sinistra; e il nuovo soggetto all´attacco, il quale ha trovato il suo leader in Beppe Grillo, fa irruzione nello schieramento di centrosinistra, bombardato senza risparmio al pari del centrodestra. La storia sembra per aspetti essenziali ripetersi. Dove stiamo andando? La situazione è pesante, e lo è tanto più in quanto il governo Prodi, costretto a misurarsi ogni giorno con la sua maggioranza risicata al Senato e con le tensioni interne alla coalizione, di cose ne fa, e di buone. Buone, ma non sufficienti a conquistare il consenso di cui ha bisogno. Cosa è che propriamente non funziona e scatena i fans di Grillo, e chi sa chi altro dopo di loro? Vorrei provare a indicare le cose che maggiormente non hanno funzionato dopo la fine della Prima repubblica assumendo il punto di vista dell´uomo comune che guarda alla scena politica.
Ciò che questi scorge sopra e prima di tutto è che il meccanismo dell´alternanza e il bipolarismo non hanno raggiunto lo scopo di dare a chi governa la capacità di decidere e alla sua maggioranza di legiferare con tempestività ed efficienza, e che il male ha colpito sia il leader forte Berlusconi con una sicura maggioranza numerica in Parlamento sia il leader assai meno forte Prodi. Il motivo è chiaro: sotto l´apparenza del rinnovamento bipolare si è ricostituito, in forma nuova, il coperchio che blocca l´azione di governo non più perché impedisce l´alternanza ma perché i poli sono troppo eterogenei al loro interno, composti da troppi partiti ciascuno in grado di porre ostacoli continui e al limite veti invalicabili al processo decisionale e legislativo.
In secondo luogo egli vede che, esaurito il (relativo) rinnovamento provocato dal crollo dei primi anni Novanta e che portò all´emergere di uomini del tipo di Bossi e Berlusconi, la classe politica si è di nuovo precocemente fossilizzata, che la scacchiera e le pedine restano più o meno sempre quelle e cambia tutt´al più la loro disposizione, che – singolare peculiarità italiana – nessun leader che perde esce di scena. Vede che la politica di gran lunga più costosa tra quelle dei maggiori paesi europei produce le rese più basse.
In terzo luogo, il cittadino osserva che maggioranza e opposizione, segnate da contrasti che obbediscono ora come sempre alla logica delle scomuniche reciproche, non riescono a trovare accordi sulle maggiori questioni di interesse nazionale. Si tratti della riforma elettorale, della giustizia, delle pensioni, della Rai, della politica estera e via dicendo, è tutto un coro che ammette e proclama le urgenze e il bisogno di decisioni di alto profilo, ma al dunque le urgenze si trascinano senza costrutto o trovano parziali conclusioni le quali inducono una parte a gridare contro l´altra.
In quarto luogo, quel cittadino guarda con speranza al fatto che i partiti sono agitati da propositi di una innovativa ridefinizione degli schieramenti, ma non comprende con sconcerto dove vogliano andare propriamente a parare. DS e Margherita vanno costruendo il Partito democratico, con l´intento di dare al sistema partitico un forte soggetto aggregativo, ma al suo interno si fanno strada da un lato coloro che intendono tener fermo l´asse con le forze alla sua sinistra, dall´altro coloro che, ritenendo queste forze inaffidabili, guardano al centro. Le sinistre di Giordano, Diliberto e Mussi cercano un comune baricentro, ma nulla è chiaro. Casini invoca un Centro nuovo, liberato dalla stretta berlusconiana e voglioso di mietere nel campo dei "moderati" di tutti gli schieramenti e di costituire l´ago della bilancia delle future maggioranze. Forza Italia e An sono ogni giorno a parlare di partito unificato o di federazione senza approdare a nulla.
Se il quadro generale è questo, si può capire come un comico possa diventare un Grillo parlante in grado di coagulare intorno a sé tanto scontento nell´uomo comune disorientato e frustrato e di dirigerlo contro i partiti al governo e all´opposizione. Credo sia chiaro fin d´ora che Grillo si rivelerà un fulmine in un cielo poco sereno. Ma egli ha messo il dito sulla piaga e il suo successo improvviso è la misura delle lunghe miserie altrui. Ebbene, spetta ora ai leader dei partiti, ai Veltroni, Boselli, Giordano, Mussi, Casini, Bossi, Berlusconi, Fini e quanti altri di giocare le loro carte, di prendere le loro decisioni, di mostrare se sono davvero capaci di dare le risposte agli interrogativi pendenti. Devono farlo presto, in una maniera che non confonda ancora di più le acque agitate, e riflettere su quanto il credito dei partiti sia eroso. Questo paese non ha proprio bisogno che si ripeta una crisi di sistema.
Repubblica 26.9.07
Ammazzarsi di bellezza
di Cinzia Sasso
L´anoressia è quasi un´epidemia: cinquemila nuovi casi l´anno. Vittime le donne, soprattutto tra i 12 e i 25 anni. A rischio quelle che sono e vogliono essere le più brave
Comincia tutto con una battuta, voglio fare la dieta, e poi va che a pranzo si mangia solo un piattino perché non è mica buono, questo primo che hai preparato. Poi al bar non c´è mai la brioche giusta, e nei vasetti di yogurt si inizia a guardare quanti grassi ci sono. Si mangia di meno, sempre di meno; la bilancia scende e la forza sale. «È una malattia infida», dice Fausto Manara, che al suo reparto, al Centro specializzato di Brescia, segue ragazze esili come fringuelli, al braccio le flebo per l´alimentazione, furiose, ieri, per la foto di Toscani. «È una malattia grave e sfuggente, aggiunge Maria Gabriella Gentile, il professore che dirige il Centro disturbi alimentari dell´ospedale milanese di Niguarda, che colpisce il corpo ma parte da un disagio di tipo psichico». Una bruttissima bestia, che dagli anni ´80 è diventata quasi un´epidemia: poco meno di 5.000 nuovi casi l´anno, vittime le donne tra i 12 e i 25 anni, esposte soprattutto le «migliori», quelle che sono e vogliono essere le più brave, quelle che anche in questo, nell´autodistruggersi, utilizzano tutta la loro determinazione. Una malattia che è solo del nostro mondo, quello ricco, evoluto, quello occidentale. Una disturbo etnico, dicono gli esperti.
«Prima - dice Elena Riva, psicoterapeuta al Minotauro, un centro nato per aiutare ad affrontare i problemi dell´adolescenza - era una malattia molto rara. Oggi la gran parte della sofferenza psichica femminile si esprime con disturbi alimentari: l´esordio ha a che fare con l´adolescenza, con la costruzione dell´identità femminile e il distacco dalla famiglia. Candidata è la bambina che cresce con un ideale di perfezione, di tensione al successo». Una ragazza che non si va bene: «Tutto inizia - spiega Gentile - con un senso di inadeguatezza, con poca stima di sé, con l´isolamento dagli altri. Poi interviene l´altro fattore, il condizionamento socio-culturale: il mito diffuso della magrezza, dell´apparenza. La ragazzina insicura che deve inserirsi nel mondo si confronta con canoni irragiungibili, con il mondo dei belli e dei magri». A volte basta poco, la battuta degli amici che dicono che sei grassa, poi guardi la moda, la tivù, le altre e vedi le belle, sempre magrissime.
Passo dopo passo: le etichette dei cibi studiate con cura, la selezione maniacale, la sfida con se stesse verso un traguardo sempre più alto; a volte ci vogliono mesi, la malattia attecchisce lentamente. Quando per tre mesi il ciclo scompare, il segnale è inquietante, davvero può essere anoressia e a quel punto l´unica strada è il medico. Gentile: «Non è una cattiva volontà, e dire a una ragazza di mangiare è come dire a uno con la polmonite di respirare bene. La strada è quella di andare in un centro specializzato». Le cure più efficaci mettono insieme due aspetti: quello psicologico, che coinvolge anche i genitori e quello fisico, con terapie nutrizionali e ricostruzione del corpo. «Oggi - aggiunge la professoressa - arrivano in ospedale troppe pazienti gravissime, invece bisogna intervenire il prima possibile, non aspettare a chiedere aiuto».
Fabiola Le Clercq, anoressica per 23 anni, ha fondato un´associazione (Aba), per aiutare le altre a guarire come è riuscito a lei: «Preoccupante - dice - è che l´età si è abbassata fino ai 10 anni e alzata a donne sopra i 40 mentre cominciano a diventare più numerosi i casi di adolescenti maschi che si ammalano. Le ragazzine anoressiche sono affamate di amore ed è importante che le famiglie, devastate dalla malattia, sappiano che la terapia è un sollievo per tutti». Ai tempi delle maggiorate, in quegli anni difficili, l´anoressia quasi non esisteva: e allora forse ha ragione Zapatero che la nostra miss Italia, troppo magra, non l´avrebbe nemmeno fatta sfilare. Mentre in Francia la foto provocazione di Toscani è stata sconsigliata: non importa quali fossero le intenzioni, ma una donna malata non va esposta così.
Repubblica 26.9.07
Se la Chiesa impone la sua verità
di Umberto Galimberti
Un saggio del teologo Vito Mancuso mette in discussione dogmi fondamentali. E apre il dialogo ai laici. Ma non rinuncia al presupposto che solo nella fede c´è il fondamento per le convinzioni giuste
L´autore denuncia errori e crudeltà commesse contro la libertà di coscienza
Conclude, in linea con papa Ratzinger, sulla conciliabilità tra fede e ragione
Un giorno, incontrando a Firenze Padre Ernesto Balducci, di cui avevo letto due suoi splendidi libri: La terra del tramonto e L´uomo planetario (Edizioni Cultura della Pace), ebbi a dirgli: «Se il Cristianesimo fosse come lei lo interpreta, forse sarei un cristiano anch´io». La sua risposta fu lapidaria: «Non stia a credere professore, noi preti, per quanto diverse siano le nostre interpretazioni, siamo tutti sportelli della stessa banca».
Ne ho avuto conferma leggendo in questi giorni il bellissimo libro del teologo Vito Mancuso che ha per titolo L´anima e il suo destino (Raffaello Cortina, pagg. 324, euro 19,80). Dico "bellissimo" perché è scritto molto bene e argomentato con logica e rigore; perché non teme di denunciare gli errori, quando non le crudeltà, compiute dalla Chiesa nel corso della sua storia a partire dalla lotta condotta contro la libertà di coscienza in materia religiosa; perché si rivolge ai laici che, quando sono alla ricerca della verità, dice di apprezzare più dei credenti quando sono tali solo per un bisogno di appartenenza; perché mette in questione dogmi fondamentali della Chiesa cattolica come la creazione dell´anima da parte di Dio, il peccato originale, la resurrezione della carne, la dannazione eterna dell´inferno, anche se poi alla fine conclude come papa Ratzinger vuole, quando rivendica la perfetta conciliabilità tra fede cristiana e ragione, e quando afferma che solo nella religione cattolica si esprime la verità.
Ma incominciamo dall´anima e dal suo destino immortale che, come ci ricorda Nietzsche, è stato «il colpo di genio del Cristianesimo» perché ha tolto agli uomini il terrore della morte. Io non sono un teologo, ma un filosofo della Storia che segue il metodo "genealogico" di Nietzsche, il quale, a differenza di Platone, non si chiede, ad esempio, «che cos´è l´anima», ma: «Come è venuto al mondo questo concetto, che storia ha avuto, che significati ha assunto, che effetti di realtà ha prodotto?», persuaso come sono che l´essenza di una cosa, il suo senso è nella sua storia.
Ebbene, per gli antichi greci che chiamavano l´uomo il "mortale" e le ipotesi di sopravvivenza ultraterrena "cieche speranze (typhlas elpidas)" non c´era un´anima dentro il corpo. Per Omero l´anima è l´occhio che vede, l´orecchio che sente, il cuore che batte, il corpo vivente insomma, che è diverso dal cadavere perché è espressivo e non rappresentativo di un teatro che si svolge alle sue spalle, nell´anima appunto, come noi oggi crediamo.
Poi venne Platone che, inaugurando la filosofia, ritenne che non ci si poteva fidare della conoscenza sensibile, quella fornita dai sensi del corpo, perché i corpi sono uno diverso dall´altro, invecchiano, si ammalano, sono soggetti a passioni, si alterano, per cui le informazioni che essi forniscono non sono affidabili per costruire un sapere oggettivo. Fu così che Platone introdusse la parola "anima", in greco psyche, capace di costruire un sapere oggettivo con i soli costrutti matematici e ideali che prescindono dall´approssimazione della materia. Si tratta quindi di un´anima che designa la nostra capacità di astrarre dal sensibile, cosa che i bambini non sono capaci di fare, ma poi col tempo e con lo sviluppo delle capacità cerebrali imparano.
L´anima di Platone è dunque un espediente metodologico per inaugurare un tipo di conoscenza costruita con numeri e idee, e non con sensazioni e impressioni, in modo che sia valida per tutti e da tutti riconoscibile, come anche la scienza moderna oggi prevede. Un´anima iscritta nel registro della conoscenza e della ricerca della "verità" e non della "salvezza", come invece poi faranno i cristiani dopo aver prelevato la parola "anima" dalla filosofia di Platone.
Eh sì. Perché anche la tradizione giudaico-cristiana non dispone del concetto di anima. La parola ebraica nefes poi tradotta in greco con psyche e in latino con anima significa semplicemente la vita del corpo. Non si spiegherebbero altrimenti espressioni quali: «Il sangue, questo è la nefes» (Deut. 12, 23), oppure «occhio per occhio, dente per dente, nefes per nefes» (Es. 21, 23). Non si capirebbe cosa intende Sansone quando, sul punto di demolire le colonne del tempio, dice: «Muoia la mia nefes con tutti i Filistei» (Giud. 13, 30) o la proibizione al nazireo di toccare per tutto il tempo della sua consacrazione la nefes met degli animali, che evidentemente non è l´anima morta, ma il cadavere. E qui gli esempi possono continuare numerosi. Valga per tutti l´atto di fede dei cristiani che, quando recitano il Credo, non dicono di credere nell´immortalità dell´anima, ma nella resurrezione dei corpi.
Lo stesso Paolo di Tarso non riconosceva alcuna possibilità alla morte, debellata da Cristo una volta per tutte, ma attendeva con fiducia per i cristiani la diretta assunzione in cielo. Di fronte poi all´imprevista morte di alcuni cristiani, l´apostolo è costretto a mutare opinione e a prospettare per i morti la resurrezione e per i sopravvissuti, tra cui annovera anche se stesso, il rapimento in cielo (1 Tes. 4, 15-17). Alla domanda: «Come resusciteranno i morti?» Paolo risponde «con un corpo spirituale (soma pneumaticos) (1 Cor. 15, 43-44). Quando nell´Areopago di Atene Paolo annunciò la resurrezione dei morti, gli Atti degli Apostoli (17, 31-32) ci riferiscono che gli ateniesi gli dissero: «Questa storia ce la vieni a raccontare un´altra volta».
Fu Agostino, educato dalla filosofia platonica e neoplatonica, a tradurre il "corpo spirituale" di Paolo in "anima", dopo aver prelevato la parola da Platone, e a fare dell´anima il principio dell´identità personale e il luogo della manifestazione di Dio (In interioritate animae habitat Deus). Da allora, e per tutto il corso della cultura occidentale, valse la persuasione che l´uomo è composto di anima e corpo. L´anima incorruttibile è quindi immortale, e il corpo corruttibile è quindi mortale. «Il colpo di genio del Cristianesimo», che esorcizza la morte garantendo a ogni uomo l´immortalità, è diventato persuasione comune che neppure la scienza è riuscita a scalfire, anzi in un certo senso ha concorso a radicare definitivamente questa convinzione.
Infatti nel 1600, con la nascita della scienza moderna, per esigenze metodologiche il corpo fu ridotto a organismo, a pura quantità, a semplice sommatoria di organi, perché solo così poteva essere trattato come tutti gli oggetti da laboratorio su cui ha potere la scienza. Nacque la medicina moderna che, come tutti i malati sanno, non conosce l´uomo che ha di fronte, ma solo il suo organismo.
Un secolo dopo, per le malattie di cui non si reperiva traccia nell´organismo, nacque una nuova scienza: la psichiatria, non per lo studio della psiche, ma per dare una collocazione scientifica a quel "morbus sine materia" che era poi la malattia in seguito detta "mentale", perché, nel corpo ridotto a organismo, non si reperiva la traccia somatica. Ecco come si è rafforzato il concetto di "anima" e di quei suoi derivati che presero il nome di "psiche" o "coscienza". Queste parole, poi credute realtà, sono nate per sopperire a un deficit metodologico, per spiegare cioè tutto quello che non si riusciva a spiegare dopo aver ridotto, per le esigenze della scienza, il corpo a pura quantità, a semplice sommatoria di organi.
Ora che le parole anima, coscienza, mente sono entrate nel nostro linguaggio e si sono radicate nelle nostre abitudini linguistiche, usiamole pure, ma, ricordandone la loro genesi, evitiamo di pensarle come entità o come sostanze che sopravvivono alla morte del nostro corpo. Perché se proprio vogliamo alla parola anima un significato, l´unico possibile è quello che nomina il rapporto che il nostro corpo (e non il nostro organismo) ha con il mondo, essendo il nostro un corpo impegnato in un mondo dove veicola le sue intenzioni e da cui riceve risposte che poi rielabora per ulteriori azioni, finché è corpo vivente. Estinta la relazione col mondo, il corpo diventa cadavere, e l´anima, questa parola che nomina la nostra relazione con il mondo, si estingue con lui.
L´altra questione che percorre le pagine seducenti del libro di Mancuso è la riproposizione della tesi tomista della stretta relazione che esiste tra ragione e fede cristiana, che anche Benedetto XVI non cessa di ribadire senza omettere di precisare che, in caso di conflitto, ad aver torto è naturalmente la ragione in base all´assunto che la fede cristiana coincide con la verità.
A questo proposito voglio ricordare che Tommaso d´Aquino, commentando Paolo di Tarso, dice che la fede, a differenza della scienza espressa dalla ragione umana conduce in captivitatem omnem intellectum, cioè rende l´intelletto prigioniero di un contenuto che non è evidente, e che quindi gli è estraneo (alienus), sicché l´intelletto è inquieto (nondum est quietatus) di fronte alla scienza, nei cui confronti si sente «in infirmitate et timore et tremore multo».
Dov´è finita questa prudenza tomista che non concede di identificare immediatamente la fede con la verità? E se i cattolici sono già in possesso della verità che senso ha per loro studiare e insegnare filosofia se la verità che la filosofia si propone di cercare già la possiedono? Cosa rispondono ad Heidegger là dove scrive che quando la filosofia è accompagnata da un aggettivo, come è il caso di una "filosofia cristiana" ci si trova di fronte a un circolo quadrato o, come vuole l´espressione di Heidegger a un "ferro ligneo"? E infine che tipo di dialogo è possibile con un cristiano, se questi è già convinto di possedere la verità?
A questo punto l´invito di Mancuso, più volte ribadito nel suo libro, di voler aprire un dialogo con i laici riformulando la dogmatica cristiana in una forma compatibile alla razionalità laica è uno stratagemma seducente ma inefficace, o, se proprio vogliamo, una forma di buona educazione che non scalfisce quella che Jaspers chiamava la "minacciosa sicurezza (bedrohende Sicherheit)" con cui i teologi difendono le loro posizioni anche quando si aprono al dialogo che, a questo punto, risulta una pratica inutile.
Dopo aver dichiarato di «appartenere alla Chiesa cattolica e insieme di prendere le distanze pubblicamente da alcune parti della dottrina cattolica con tesi solo formalmente eterodosse», Vito Mancuso, con il suo libro, contribuirà senz´altro - e qui gli va dato merito - alla riformulazione della dogmatica cattolica per adeguarla allo spirito del tempo. E così facendo avrà come suoi interlocutori altri teologi, ma mai e poi mai i laici, ai quali non verrà mai voglia di parlare con chi non è disposto a mettere in gioco le proprie convinzioni religiose perché, già prima dell´apertura del dialogo, le assume come indiscutibili verità
Corriere della Sera 26.9.07
Film di Liliana Cavani sul fisico che enunciò la teoria della relatività Costo di nove milioni di euro, tra i protagonisti Maya Sansa
Einstein e le sue mogli
«La scienziata ambiziosa e la cugina Donne e guai per il genio della fisica»
di Emilia Costantini
«Voglio trasmettere l'immagine di un uomo vitale»
TRIESTE — Tira già la bora a fine settembre: nel porto di Trieste, dalla passerella di un transatlantico, finto, scende Albert Einstein. Siamo sul set del film in doppia versione, per la tv e per le sale, il primo in Italia dedicato al grande scienziato tedesco, con la regia di Liliana Cavani. Si gira la scena dell'arrivo a New York nel 1932: ad attendere Einstein, accompagnato dalla seconda moglie Elsa, un capannello di giornalisti. La fama del Premio Nobel, perseguitato dai nazisti perché ebreo, ha già da tempo varcato l'oceano e ora, nel Nuovo Mondo, l'inventore della teoria della relatività è atteso dalla cattedra presso l'Institute for Advanced Study di Princeton e da molti altri impegni, compreso quello di collaborare al programma atomico americano, nell'intento di sorpassare i tedeschi. «Ma Einstein era un pacifista convinto», avverte la Cavani che, nonostante il gelido vento triestino, sfoggia un panama bianco, sempre sul punto di volarle via.
Prodotto da Rai Fiction con la Ciao Ragazzi di Claudia Mori, in due puntate per il piccolo schermo (su Raiuno nel 2008, il costo è circa 9 milioni di euro), il film racconta la vita dello scienziato, da quando aveva vent'anni fino alla morte, avvenuta a Princeton nel 1955. Protagonista, Vincenzo Amato, con Maya Sansa (nel ruolo della prima moglie Mileva Maric) e Sonia Bergamasco (Elsa Lowennthal). Nel cast, anche Piotr Adamczyk (il Wojtyla della tv) e Andrea Ferreol. Riprende la Cavani: «Era talmente pacifista, che prima ancora dell'avvento di Hitler rinunciò alla nazionalità tedesca, perché non sopportava l'autoritarismo del suo popolo. Einstein era uno che organizzava sit-in contro la guerra ». Ma, ironia della sorte, contribuì in maniera determinante alla costruzione della prima bomba atomica: «Non riuscì mai a perdonarselo — spiega la regista —, Hiroshima e Nagasaki lo sconvolsero, fu assalito dai sensi di colpa e il suo atteggiamento, antimilitarista anche in America, lo pose nelle mire dell'Fbi, che lo ritenne un fiancheggiatore dei comunisti».
Ma Einstein non era solo un genio della fisica, era anche un uomo con i suoi tormenti, i dispiaceri, le debolezze. E se sulla sua vicenda scientifica i biografi sono tutti concordi nell'affermare che è stato il più grande scienziato di tutti i tempi, per quanto riguarda la sua sfera intima i pareri sono discordi. «Aveva un debole per le donne — osserva Amato, che deve sottoporsi a ore di trucco per somigliargli fisicamente e che, al contrario del suo personaggio, in materie scientifiche a scuola aveva 2 meno meno —. Proprio per questa debolezza, si mise anche un po' nei guai, perché se Einstein aveva un limite era di non avere il senso della quotidianità. D'altronde è comprensibile: formulare la teoria della relatività e ricordarsi anche di comprare il pane o del compleanno della moglie non è facile».
La prima moglie, che Albert sposò giovanissimo anche contro il volere dei genitori, era un'acuta matematica, che non esitò a mettere al servizio del suo uomo tutta la sua conoscenza. Racconta la Sansa: «Mileva era intelligente, ambiziosa, una delle poche donne, se non l'unica a essere ammessa al Politecnico di Zurigo.
Per amore, si dedicò completamente al suo Albert e per un bel po' lavorarono insieme: lui aveva geniali intuizioni, lei era forte con i calcoli e traduceva in numeri le sue teorie». Per questo motivo, c'è chi ha dipinto Einstein come un cinico, che sfruttò la genialità di Mileva, senza concederle alcun riconoscimento. «Non è vero — protesta la Sansa —, la loro fu una bella storia d'amore, di complicità, di stima reciproca: erano una squadra. Ma Mileva era anche una donna spigolosa, una serba un po' irsuta, tanto che lui affettuosamente la chiamava "riccio". Quando Albert arrivò al successo, si allontanò ». Il matrimonio entrò in crisi e si innamorò di Elsa, una cugina che non vedeva sin da quando era bambino. Con lei si trasferì in America, lasciando in Europa Mileva e i loro due figli, Hans Albert ed Eduard: quest'ultimo un bambino fragile, malato di schizofrenia. Precisa la Bergamasco: «Sì, ma ai figli e alla ex moglie, non fece mancare mai nulla, si spogliò di tutto per loro. Il fatto è che Elsa era una donna solare, allegra, sapeva prendersi cura di lui: per Einstein era liberatoria, con lei a fianco sentiva di potersi dedicare completamente ai suoi studi, senza problemi».
Insomma, un genio con i piedi per terra e con un notevole senso dell'umorismo: chi non ricorda la foto dove fa la linguaccia? Conclude la Cavani: «Se riusciremo a trasmettere al pubblico l'immagine di un uomo vitale, curioso, ottimista, soprattutto libero, sarò soddisfatta».
BERTINOTTI:
Ritrovare lo spirito dell'Assemblea costituente "non solo per riprogettare le istituzioni e la politica, che sarebbe gia' un grande compito, ma per determinare una nuova fondazione del Paese". (...) Per Bertinotti, "quello che stiamo vivendo e' un passaggio storico di profondo cambiamento che da luogo anche ad effetti drammatici, alla crisi della politica. Dobbiamo ritrovare lo spirito dei padri costituenti per determinare delle nuove forme di coesione sociale e di convivenza politica e civile del Paese. A questo compito la politica non puo' sottrarsi". Il Presidente della Camera e' ritornato sulla questione della cosiddetta "antipolitica", che rispetto alla fase difficile del Paese "non e' causa, ma effetto. Si pone comunque una sfida a cui la politica deve dare risposta, affinche' non vi sia una uscita dalla crisi dalla porta sbagliata. La politica deve trovare in se' le ragioni per affrontare la sua crisi e deve dare al Paese il grande punto di riferimento dell'azione democratica".
''E' necessario intervenire a ricostruire una moralita' pubblica non solo come testimonianza individuale, pur necessaria, ma collettivamente come insieme di classe dirigente, ben oltre lo scontro e il conflitto politico, nella possibilita' di essere percepiti dal Paese appunto come classe dirigente''
Bertinotti ha ricordato il detto secondo cui chi vive nell'attualita' e' spesso un nano sulle spalle di giganti e, in questo caso, i giganti sono i padri costituenti: "La lezione di quei giganti - ha concluso - credo possa ancora avere valere".
Per restituire credibilità alla politica, il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, propone di recuperare le grandi idee forza del passato: sia quelle socialiste che quelle di origine cattolica. Parlando a Conversano all'86mo anniversario dell'assassinio del deputato socialista Giuseppe Di Vagno, il presidente della Camera sottolinea l'importanza che nella storia dell'Italia hanno avuto "le grandi correnti di pensiero, che hanno animato le vicende del nostro Paese anche dopo la vittoria sul nazifascismo. La Repubblica oggi, di fronte alla grave crisi politica e istituzionale che stiamo vivendo, che segna anche il distacco di parti della popolazione dalle istituzioni, deve tornare a riflettere su quelle grandi idee forza, per restituire alla politica la capacità di far vivere al popolo lo spazio pubblico e la Repubblica come cosa propria".
Per Bertinotti, oggi bisogna "rivolgersi a ognuna di queste culture per ricavarne una lezione, ma non considerandole in contrapposizione fra loro".
Bertinotti aggiunge: "Il problema fondamentale è che la politica deve riacquistare credibilità, dando le risposte ai problemi più importanti del Paese, dalla precarietà alla giustizia sociale, alla partecipazione dei cittadini".
Il presidente della Camera Fausto Bertinotti non vuole commentare direttamente le parole del premier Romano Prodi, che ha annunciato che nella Finanziaria la tassazione delle rendite non verrà modificata: "Non so come verranno presentati nella Finanziaria i provvedimenti, li vedremo. Come sapete, anche quando saranno presentati non tocca a me commentarli", dice ai cronisti che lo interpellano nel corso della visita alla mostra sui 60 anni dell'Assemblea costituente, nel Castello Svevo di Bari. A chi gli chiede se tuttavia, a suo giudizio, il programma debba avere valore per un governo, Bertinotti replica lanciando un avvertimento indiretto: "Mi pare quasi tautologico che sì, altrimenti non dovrebbe essere scritto".
Bertinotti in un messaggio alla senatrice Levi Montalcini ha dichiarato: “Sono lieto di inviare il mio più cordiale saluto a Lei, agli autorevoli relatori ed a tutti gli intervenuti in occasione della conferenza odierna su 'L'istruzione: chiave dello sviluppo, promossa dalla Fondazione Rita Levi-Montalcini onlus. Apprezzo vivamente l'iniziativa, che conferma il significativo impegno della Fondazione nella lotta contro l'analfabetismo, in particolar modo delle donne africane, e nella costruzione di un modello di convivenza che, attraverso la forza dei beni immateriali come l'istruzione, la cultura, la conoscenza e l'informazione, sui quali crescita e sviluppo fanno oggi sempre più leva, superi divari e lacerazioni sociali”.
("pastone" da vari lanci d'agenzia)
il manifesto 26.9.07
La partitura teorica per la crisi di un’epoca
Pubblichiamo un brano del volume «Per Gramsci. Crisi e potenza del moderno». Il liberismo come risposta restauratrice alla espansione dei diritti del lavoro
di Alberto Burgio
Non c’è stata nessuna uscita dal Novecento. Le società occidentali sono ancora nel pieno di una classica «rivoluzione passiva» che non ha però determinanto una normalizzazione del paesaggio politico
Viviamo una grave crisi democratica. Non si tratta di una condizione eccezionale né abnorme. Si può sostenere, con un apparente paradosso, che lo stato di crisi è la condizione normale della democrazia, la quale è, a guardar bene, un processo. Quella che chiamiamo democrazia è il processo di conquista della capacità di autogoverno da parte dei corpi sociali. È la dinamica espansiva della cittadinanza che, con parole chiare e semplici, Gramsci chiama «passaggio molecolare dai gruppi diretti al gruppo dirigente». A questa cruciale dinamica si connettono inevitabilmente contraddizioni e conflitti. Crisi, appunto: provocate dalla continua tensione tra inclusione ed esclusione (tra tendenze «espansive» della classe dominante e tendenze «repressive»), e destinate ad influire sulla struttura dei soggetti (sui confini del demos), sulla forma dei poteri, sulla logica e le finalità del loro esercizio.
Così definita, democrazia è sinonimo di modernità. La potenziale coincidenza tra cittadinanza e corpo sociale (popolazione) è infatti l’essenza del «progetto moderno». Ciò comporta che l’intera storia della modernità si comprende alla luce di una peculiare dialettica tra varianti e costanti: le crisi cambiano nel corso del tempo (sono diversi i conflitti che via via segnano il processo, così come diversi sono i soggetti che in essi si cimentano) sullo sfondo della crisi (il processo di conquista dell’autonomia da parte dei corpi sociali) che ne costituisce il contesto invariante.
Ma appunto: le crisi sono diverse l’una dall’altra. Il loro connotato - progressivo o regressivo - dipende dalla configurazione delle forze prevalenti. La grave crisi democratica con la quale oggi siamo costretti a fare i conti è segnata da una possente tendenza alla (ri)appropriazione privata di tutto ciò che ha valore: beni materiali e immateriali; risorse economiche, energetiche e ambientali; poteri e istituzioni; reti di comunicazione; saperi, linguaggi e forme dell’immaginario. Questo processo di (ri)privatizzazione di risorse e strumenti che in una fase recente dello sviluppo storico erano stati faticosamente conquistati dal pubblico (dal demos) impone alla crisi odierna un segno marcatamente regressivo.(...)
Una nuova oligarchia
L’espansione neoliberista del mercato - caratteristica dell’attuale crisi democratica - si compie attraverso il prevalere di soggetti privati che (ri)conquistano funzioni in passato svolte dalla sfera pubblica. Imprese multinazionali, organizzazioni multilaterali (Wto, Fmi, Banca mondiale) e istituzioni private (fondi di investimento e grandi concentrazioni bancarie) dispongono di risorse e poteri confrontabili con quelli di molti Stati nazionali. Ne discende un conflitto sulla sovranità che vede sempre più frequentemente soccombere questi ultimi. Non già - sia chiaro - nel senso della loro sia pur tendenziale scomparsa, secondo quanto avventurosamente «previsto» da fortunate quanto improbabili teorie «imperiali» e da loro varianti subordinate. Bensì nel senso del loro frequente abdicare al proprio statuto di enti per eccellenza pubblici, per farsi essi stessi, con tutta la loro potenza normativa, coercitiva e militare, portavoce e garanti di interessi privati. (...)
Non si tratta dunque solo di economia, ma anche di sistemi politici. Nella misura in cui ridisegna i rapporti di forza nelle società assegnando un potere esorbitante al capitale e all’impresa, il neoliberismo non incide soltanto (delocalizzando, precarizzando, finanziarizzando) sulla produzione e sulla condizione materiale del lavoro. Ridefinisce anche il quadro dei poteri politici e gli obiettivi che essi perseguono. Per usare le parole di Gramsci, è un «ritorno alla pura economicità», in conseguenza del quale la politica viene immediatamente «innestata nell’economia».
Il «trentennio repubblicano»
Del resto proprio Gramsci è tra i più lucidi critici della rappresentazione ideologica del liberismo come scomparsa della politica, come rinuncia dello Stato («minimo») ad interferire nelle vicende dell’economia. Non si ricorderà mai abbastanza la pagina dei Quaderni del carcere che sottolinea come il liberismo sia «una "regolamentazione" di carattere statale», venga «introdotto e mantenuto per via legislativa e coercitiva» e costituisca «un programma politico, destinato a mutare, in quanto trionfa, il personale dirigente di uno Stato e il programma economico dello Stato stesso, cioè a mutare la distribuzione del reddito nazionale». (...)
Con ogni probabilità, per spiegare il trionfo del privato con cui siamo costretti a fare i conti è necessario ripensare l’intera seconda metà del secolo che ci è alle spalle. E per ciò occorre rovesciare il fortunato assunto hobsbawmiano. Il Novecento non è affatto un «secolo breve». Come la guerra dei Trent’anni che marchia a fuoco la prima metà del XX secolo affonda le radici nei conflitti interimperialistici divampati negli anni Ottanta dell’Ottocento, così, per quanto concerne la presunta fine del Novecento, è opinabile la tesi secondo cui essa si consumerebbe con la caduta del Muro di Berlino e con la scomparsa dell’Unione sovietica. Al contrario, il Novecento dura ancora.
La scena mondiale non è il prodotto delle sole conseguenze politiche, sociali ed economiche degli eventi del 1989-91. I processi sui quali stiamo riflettendo derivano con ogni probabilità anche da avvenimenti che hanno occupato l’intera seconda metà del secolo scorso. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, fino alla metà degli anni Settanta, le società occidentali hanno conosciuto trent’anni di dinamica progressiva grazie alla vigorosa iniziativa del movimento operaio, alla competizione tra capitalismo e «socialismo reale» (cioè alla necessità di arginare l’impatto egemonico esercitato da un modello comunque in grado di garantire piena occupazione ed esigibilità dei diritti sociali) e alla avanzata cornice giuridico-istituzionale disegnata dalle Costituzioni post-belliche.
Nel periodo che va dal 1945 al ’75 - che potremmo definire trentennio repubblicano - le società occidentali hanno cambiato volto. Aprendosi, integrandosi, evolvendosi non soltanto sul terreno delle libertà civili, ma anche sul piano della partecipazione democratica e nel riconoscimento concreto dei diritti del lavoro. Non stupisce che questa dinamica progressiva abbia suscitato una furiosa reazione, dispiegatasi, a partire dai tardi anni Settanta, nelle forme di una devastante «rivoluzione passiva». Che dura tuttora. Ancora oggi siamo dentro l’onda lunga della risposta reazionaria seguita al processo espansivo sviluppatosi all’indomani del secondo conflitto mondiale. Di questa scansione temporale e di quanto essa comporta occorre acquisire piena consapevolezza se si ha a cuore la decifrazione dei processi in atto. (...)
La «rivoluzione passiva»
Il concetto di «rivoluzione passiva» (che Gramsci dichiara di ricavare dalle riflessioni del Cuoco sul «tragico esperimento» della Rivoluzione napoletana del 1799) costituisce uno schema di interpretazione che i Quaderni utilizzano in relazione a fenomeni tra loro diversi: la modernizzazione europea verificatasi nel corso del XIX secolo (interpretata da Gramsci come effetto «passivo» della Rivoluzione francese); e le politiche di stabilizzazione adottate nel XX secolo (nella fase storica inaugurata dalla Rivoluzione d’ottobre) nel tentativo di far fronte alla «crisi organica» del capitalismo. (...)Richiamare questo schema interpretativo in relazione agli ultimi trent’anni significa dunque formulare l’ipotesi che la restaurazione capitalistica promossa dalla «rivoluzione conservatrice» reaganiano-thatcheriana abbia svolto, sul piano macrostorico, una funzione analoga a quella assolta da altre «rivoluzioni-restaurazioni», in particolare dalla «rivoluzione passiva» novecentesca posta in essere dai regimi fascisti (sorti come antidoto contro il rischio di contagio rivoluzionario che negli anni Venti minacciò gran parte dei Paesi europei) e dal New Deal rooseveltiano (concepito come risposta allo shock della Grande depressione). (...)
Nella misura in cui replica, mutatis mutandis, questo scenario, la crisi odierna sembra produrre un quadro privo di vie d’uscita. (...)In realtà, se ci fermassimo qui, restituiremmo una rappresentazione unilaterale del processo. Ingannevole perché incapace di coglierne le latenti potenzialità antisistemiche. Nemmeno nelle più acute fase di crisi, nelle quali le forze prevalenti esprimono il massimo potenziale repressivo, il processo si libera delle proprie contraddizioni. La dinamica evolutiva della modernità resta inevitabilmente dialettica. Proprio com’è irriducibilmente dialettico l’individualismo, che è al contempo particolarismo (ciascun individuo è in primo luogo, per sé, se stesso) e universalismo (ciascuno è tuttavia, in sé, uno dei tanti, al pari di ogni altro). La «disassimilazione» e la tendenza al recupero della dinamica castale costituiscono soltanto un aspetto del processo riproduttivo. Con il quale convive sempre l’altro momento, connesso alla vocazione espansiva della modernità: al suo destino dinamico, inscritto nel bisogno incoercibile che il capitale ha di allargare la sfera della riproduzione. E che lo costringe a porre in atto, nel cuore stesso dello sfruttamento, un movimento oggettivamente inclusivo. (...)
Crisi e potenza del moderno
Nonostante tutte le apparenze, la diagnosi di una sostanziale normalizzazione del paesaggio politico globale proprio non convince. Appare al contrario fondata l’impressione che un sentimento di rigetto nei confronti della politica iniqua e distruttiva praticata dai ceti dominanti dei Paesi più industrializzati venga radicandosi nel mondo. Diffondendo avversione nei confronti della guerra, della devastazione ambientale, dell’appropriazione privata delle risorse naturali. Nutrendo una rinnovata consapevolezza dello statuto irriducibilmente pubblico-globale («comune») dei risultati del lavoro sociale, della ricerca scientifica, dell’interazione comunicativa. Promovendo movimenti ed esperienze di lotta contro la precarizzazione del lavoro (si pensi alla battaglia vinta contro il «contratto di primo impiego» la scorsa primavera in Francia) e per la globalizzazione dei diritti e la gestione pubblica dei linguaggi, dei saperi, dei «beni comuni». E assumendo progressivamente i tratti di una potente istanza di delegittimazione, sempre più prossima a valicare il confine che separa i settori più consapevoli dalla massa spoliticizzata per informare di sé un nuovo senso comune.
Altrettanto sembra di poter dire a proposito della calorosa partecipazione con cui sono seguite, in ogni regione del pianeta, le esperienze di autonomia compiute dai Paesi (in particolare in America latina) che più di recente si sono sottratti al giogo coloniale e le lotte popolari di resistenza e di indipendenza. Si pensi allo scacco subìto dalle forze armate statunitensi sul teatro iracheno - quasi un nuovo Vietnam - e alla drammatica vicenda del popolo palestinese. Anche nel caso di questa corale partecipazione e dei suoi presupposti «etico-politici» non si tratta certo di fatti compiuti, ma di processi in corso. Che tuttavia alludono alla costituzione di nuove soggettività critiche, al lento cementarsi di un insieme sempre più vasto e articolato di forze sociali, politiche e statuali anticapitalistiche. (...)
La crisi è luogo di ambivalenze. Di instabilità, di conflitti e di più o meno potenti dinamiche progressive. La dialettica della crisi moderna (la tensione tra vettori espansivi e risposte regressive) è il grande tema dei Quaderni del carcere. Anche quando si interroga sull’avvento del fascismo, Gramsci riflette in base a questo presupposto. Per tale ragione - prigioniero mentre parte dell’Europa soggiace alla tirannide - dichiara quella vittoria «transitoria», al pari della sconfitta subìta dal movimento rivoluzionario nel tentativo di generalizzare l’Ottobre. È questa la sua fondamentale lezione, grazie alla quale ancor oggi - a settant’anni dalla sua morte - leggiamo nei Quaderni la partitura teorica della nostra epoca e della sua crisi.
Scaffali gramsciani
Le lenti per leggere il lungo Novecento
Il volume di Alberto Burgio che presentiamo in questa pagina («Per Gramsci, Crisi e Potenza del moderno», DeriveApprodi, pp 176, euro 13) si differenzia dagli altri saggi finora usciti in occasione del settantesimo anniversario dell’autore dei «Qauderni del Carcere». E mentre Bartolo Anglani scrive sulla «Solitudine di Gramsci» in carcere (Donzelli, pp. 330, euro 26), Angelo Rossi e Giuseppe Vacca provano a cercare il bandolo della matassa sul destino di Gramsci nel volume «Gramsci tra Mussolini e Stalin» (Fazi, pp. 245, euro 19), in questo libro si mettono al lavoro le categorie gramsciane per una lettura critica del presente. Non che Burgio non si misuri sulla ricezione dei testi gramsciani o con gli studi che in questi ultimi anni hanno, molto più all’estero che non in Italia, continuato a interrogare i «Quaderni del Carcere». Lo fa, ma il tentativo su cui l’autore insiste di più è la verifica delle categorie gramsciane attorno al neoliberismo, la crisi della democrazia, la ridefinizione della sovranità nazionale, la globalizzazione.
Avvenire 26.9.07
Camus, Sartre e i cattivi maestri
Anniversari Nel 1957 l’autore della «Peste» riceveva il Nobel, poi rifiutato dallo scrittore-filosofo Quel periodo vide la rottura fra i due: il primo difendeva i diritti umani al di là delle ideologie, il secondo restò sempre legato al comunismo
Di Luca Gallesi
Un uomo ricco soltanto di dubbi, abituato alla solitudine del lavoro e al conforto delle amicizie». Con queste semplici parole, pronunciate a Stoccolma il 10 dicembre del 1957, Albert Camus si presentava all’Accademia che gli aveva appena conferito il Premio Nobel per la letteratura. Dopo mezzo secolo, quel suo discorso fa ancora riflettere, in particolare sullo scopo e la funzione della letteratura, che non è fine a se stessa, ma deve unire e affratellare il numero più grande possibile di persone. «L’artista deve essere umile -continua Camus - e accettare di servire tanto la verità, che è misteriosa, quanto la libertà, che è anche pericolosa. Non deve giudicare, bensì capire, senza mai disprezzare nulla». Molto lontano da questa concezione fu un altro intellettuale francese, che, nel 1964, il Premio Nobel invece lo rifiutò: Jean Paul Sartre, che pure era stato legato ad Albert Camus da una militanza politica e da una amicizia durata una decina d’anni, dal 1944 al 1954. Ammaliati dall’utopia comunista, entrambi però in qualche maniera scendono a patti con i tedeschi invasori della Francia, che apprezzano i testi teatrali di Sartre e le opere di Camus. I primi, infatti, vengono regolarmente rappresentati sui palcoscenici della Parigi occupata, mentre nel 1942, presso Gallimard, escono opere importanti di Camus come il romanzo Lo Straniero e il saggio Il mito di Sisifo, da cui era stato però espunto - con il consenso dell’autore - il capitolo dedicato allo scrittore ebreo Kafka. Nel 1951 Camus pubblica L’uomo in rivolta, un saggio considerato da Sartre reazionario perché critica la violenza delle rivoluzioni, a cui viene invece contrapposta la rivolta del singolo a favore di una solidarietà tra gli uomini che è la sola via d’uscita all’angoscia dell’esistenza. La lontananza tra i due intellettuali si trasforma in rottura nel 1954, quando l’impegno politico di Sartre diventa, nel libro I comunisti e la pace, un elogio acritico della dittatura. Camus non tollera la militanza cieca, pronta e assoluta di Sartre che si trasforma in eccesso di zelo quando impedisce la messa in scena della sua pièce teatrale Le mani sporche, perché interpretabile come una critica del bolscevismo. Un’altra cosa che li unisce, oltre all’ambizione e alla passione politica, è l’ateismo, anche se quello di Camus non gli impedisce di apprezzare il Decalogo, di cui elogia soprattutto la condanna dell’omicidio. La vita, in fondo, è per Camus buona persino quando sembra priva di senso. In Sartre, invece, l’assurdità della condizione umana lo porta all’indifferenza nei confronti della vita umana, che può essere calpestata in nome dell’ideologia. E anche quando, dopo i fatti d’Ungheria, Sartre prenderà a sua volta le distanze dal comunismo russo, non esiterà poi ad abbracciare la causa maoista con la sanguinosa Rivoluzione culturale. Albert Camus, invece, non ci sta; per lui, «la politica e il destino dell’umanità vengono forgiati da uomini privi di ideali e di grandezza. Gli uomini che hanno dentro di loro la grandezza non entrano in politica». Gli sarà quindi facile etichettare gli intellettuali militanti come cattivi maestri: «La loro scusa è la spaventosa grandezza di quest’epoca. C’è in loro qualcosa che aspira alla servitù». E aveva buon gioco a deridere coloro che, dopo aver demolito tutti i dogmi religiosi tradizionali, si facevano chierici di un altro dogma, questa volta ideologico e politico: il marxismo-leninismo. Per Camus l’unità di misura del valore e della grandezza è l’uomo, con la sua capacità di calarsi nella realtà concreta. Quella stessa realtà concreta, fatta di radici ed esperienze, che ad esempio non gli permette di schierarsi a fianco dell’indipendenza dell’Algeria, perché quella scelta lo avrebbe messo contro la madre, pied-noir che in Algeria viveva ancora. Ed è sempre quella concretezza ricca di pietas che lo spinge, appena ricevuto il Nobel, a telefonare riconoscente al suo maestro, per ringraziarlo, commovente testimonianza di un altro stile e un altro mondo, dove gli uomini erano uomini e le scuole scuole. Ma già dal 1947 Camus con La peste aveva indicato nell’amore e nella solidarietà tra gli uomini la via per superare l’angoscia e la disperazione esistenziale. Mentre Sartre supera indenne le mode e la contestazione per giungere, riverito maestro, alle soglie degli anni Ottanta, il fato spezza la vita di Camus il 4 gennaio 1960, quando, ad appena 47 anni, si schianta in macchina con il suo editore, Michel Gallimard. In tasca aveva un biglietto del treno, a cui aveva fatidicamente rinunciato all’ultimo momento, ma che restava il suo mezzo di trasporto preferito, consapevole - come aveva spesso pubblicamente affermato - che la morte in automobile è la più assurda di tutte le morti. Sensibile ai temi che oggi verrebbero definiti «ecologisti», aveva intuito già mezzo secolo fa i pericoli di un mondo corrotto, «dove sono mescolate rivoluzioni fallite, una tecnologia impazzita, divinità morte e ideologie consunte».
Pareri a confronto
Quanti cadaveri nell’armadio, ma almeno senza stupidità
Solo lo scrittore algerino fu paladino di umiliati e offesi
Albert Camus, che ho sempre amato, è un modello eterno, il testimone di un mondo migliore, dove si ha stima per la conoscenza, e si crede che essa sia trasmissibile. Egli è uno scrittore che ama più il singolo che l’umanità, e quindi è capace di descrivere un mondo vivido e concreto, che irrompe dalla pagina. Oggi, invece, rivedrei il giudizio molto severo che ho espresso in passato nei confronti di Sartre. Ritengo che, in fondo, una figura come quella di Sartre sia ben più necessaria di quella dell’«intellettuale che si dimette», per ritirarsi in quella equivoca resistenzialità che, secondo me, è solo una nuova difesa di vecchie rendite di posizione. Le persone come Sartre - e, da noi, come Moravia - sono intellettuali tipici dei Paesi socialisti, dove però godevano di una protezione da parte del Partito. Bisogna capire, senza ipocrisie, che c’è un grande teatro del mondo e che, quindi, certi ruoli vanno ricoperti senza moralismi. Dove lo Stato è assoluto, queste figure diventano anche dei porti franchi, sotto la cui ala protettrice si può persino coltivare il dissenso. Certo, Sartre ha molti aspetti di disonestà intellettuale, ma non arriva mai, come invece succede oggi, a credere nelle menzogne che dice. Sartre fa politica, e quindi ha dei cadaveri nell’armadio; ma i suoi cadaveri mi sembrano meno morti di molti cretini vivi che circolano oggi. Al di là delle sue opere, ne rivaluterei insomma la competenza: Sartre sapeva benissimo cos’è una poesia o un romanzo, e non si farebbe schiacciare dall’attuale dittatura del mercato.
Luca Doninelli
Personalmente, ho sempre apprezzato Camus molto più di Sartre; tra l’altro, il suo discorso in occasione della consegna del Nobel è un testo che ha influito molto sulla mia formazione personale e professionale. Ad un certo punto, per esempio, c’è un’osservazione molto precisa, quando dice che il compito dello scrittore è quello di parlare a nome di chi non può farlo: un’affermazione che quando la lessi - ero ancora un ragazzo - mi colpì come un fulmine. C’è in Albert Camus una responsabilità della parola che egli ribadisce in tutta la sua opera, una responsabilità che mi sento di condividere e che faccio mia. Al contrario, mi sento davvero distante dall’esempio sartriano, che giudico algido, cerebrale, in una parola: troppo intellettuale. Naturalmente devo riconoscere a Sartre una statura importante, anzi, monumentale nel Novecento, ma gli preferisco Camus perché costui è stato davvero il paladino degli umiliati e degli offesi. Camus non ha mai dimenticato di avere origini modeste e di avere vissuto, dopo la morte del padre nella Grande guerra, nel quartiere più povero di Algeri. Nel suo lavoro si riflettono anche queste esperienze, dal ginocchio sbucciato durante i giochi nei cortili delle case popolari alla perenne fatica di tirare avanti.
Eraldo Affinati
La Stampa TuttoScienze 26.9.07
“Caro Darwin, non servi più. Per l’evoluzione c’è il biotech”
Abbiamo cominciato a rimescolare le specie
di Freeman Dyson
In un articolo provocatorio e illuminante - «Una Nuova Biologia per un Nuovo Secolo» - il grande biologo Carl Woese ha messo sotto accusa i limiti della biologia riduzionista e la logica che l’ha guidata nell’ultimo secolo, sottolineando la necessità di una nuova biologia, che si basi sui concetti di comunità e di ecosistemi, anziché su quelli di geni e di molecole. Ma allo stesso tempo ha anche sollevato una questione estremamente importante: quando è cominciata l’evoluzione darwiniana?
Con evoluzione darwininana intende l’evoluzione come la descrisse lo stesso Charles Darwin, basata cioè sull’intensa competizione per la sopravvivenza tra specie diverse. Presenta quindi una serie di prove, secondo le quali l’evoluzione stessa non risale all’alba della vita. All’inizio il processo che lui ha definito come «trasferimento genetico orizzontale» - vale a dire la condivisione degli stessi geni tra specie differenti - era prevalente. E questo diventa sempre più evidente man mano che si retrocede nel tempo.
Woese è il maggiore esperto mondiale nel campo della tassonomia microbica. Qualunque cosa scriva, anche quando sembra tendere ai vertici della pura speculazione, dev’essere preso molto sul serio. Oggi lui postula un’«epoca d’oro» della vita pre-darwiniana durante la quale il «trasferimento genetico orizzonale» era un fenomeno universale e, quindi, non c’era una separazione netta tra le specie. La vita, allora, era una comunità di cellule di vario tipo: tutte condividevano le informazioni genetiche in modo che una serie di processi chimici e catalitici, inventati da una sola creatura, potessero poi essere ereditati dalle altre. L’evoluzione, quindi, era un «affare comune», con un’intera comunità in grado di migliorare la propria efficienza metabolica e riproduttiva, perché venivano scambiati i geni delle cellule più efficienti.
Ma poi, in un giorno nefasto, avvenne che una cellula, che assomigliava a un batterio primitivo, riuscisse a superare le altre in efficienza. Così questa cellula si separò dal gruppo e cominciò a rifiutare la logica della condivisione. La sua discendenza si trasformò nella prima vera e propria specie separata. Grazie alla sua superiore efficienza continuò a prosperare e a evolversi separatamente.
Poi, alcuni milioni di anni più tardi, un’altra celula si separò dal gruppo e anch’essa diventò un’altra specie. E il fenomeno si allargò, finché la vita si suddivise in tante specie, tutte diverse.
I processi biochimici di base della vita si sono quindi evoluti rapidamente durante le poche centinaia di milioni di anni che hanno preceduto l’era darwiniana e sono cambiati molto poco nei seguenti 2 miliardi di anni di evoluzione.
La Stampa TuttoScienze 26.9.07
“Nell’infinitamente piccolo la chiave che svela l’Universo”
di Barbara Gallavotti
C’è fermento nel mondo della fisica delle particelle, la disciplina dedicata allo studio delle più piccole componenti della materia. Sono sul punto di chiudersi due gloriosissimi esperimenti: «Babar», negli Usa (al quale hanno lavorato molti ricercatori italiani) e «Belle», in Giappone. E con loro finisce un’epoca: è un po’ come se si smontassero le ultime impalcature del grandioso edificio concettuale costruito da generazioni di fisici per descrivere il mondo dell’infinitamente piccolo.
Questo edificio è una teoria dal nome di Modello Standard che spiega come a formare l’Universo siano appena 12 tipi di particelle elementari, tanto piccole da non essere più divisibili. Alcune sono molto note, come gli elettroni, altre suonano decisamente più esotiche. Queste particelle interagiscono fra loro grazie a quattro forze fondamentali: la forza di gravità, quella elettromagnetica (che mantiene gli elettroni in orbita intorno al nucleo), quella forte (che tiene insieme i nuclei degli atomi) e quella debole.
Proprio le misteriose caratteristiche di quest’ultima hanno fatto arrovellare innumerevoli fisici: un contributo fondamentale per svelarne i segreti, e quindi per mettere a punto il Modello Standard, è stato dato dal fisico italiano Nicola Cabibbo.
Professore, secondo molti, dopo «Babar» e «Belle» i futuri esperimenti provocheranno il crollo proprio del Modello Standard. Ovviamente, per consentire la nascita di una nuova costruzione ancora più splendida. Eppure, ancora all’inizio degli Anni 60, mancavano molti tasselli per realizzare proprio il Modello Standard e la questione delle forze deboli era particolarmente spinosa. E’ così?
«All’inizio degli Anni 60 la forza debole si presentava come una specie di Giano non a due, ma a tre facce. Veniva considerata responsabile della cosiddetta radioattività Beta (un tipo di radioattività studiata da Enrico Fermi), della trasformazione di particelle, chiamate muoni, in elettroni più neutrini e di una curiosa interazione tra protoni, neutroni e un terzo tipo di particelle chiamate “strane”, a riprova di quanto i fisici le trovassero incomprensibili. La difficoltà derivava dal fatto che la forza debole sembrava comportarsi in modo diverso nei tre casi, diminuendo o aumentando di intensità a seconda delle particelle con cui aveva a che fare».
In che modo?
«La differenza maggiore si riscontrava nel caso delle particelle “strane” e il loro comportamento in relazione alla forza debole cominciò ad apparire insopportabilmente scandaloso nel 1961, quando la gran parte delle loro anomalie venne spiegata da Murray Gell Mann. A questo punto i fisici non erano disposti a concedere alle particelle “strane” nessuna eccentricità e, dunque, anche le loro interazioni con protoni e neutroni dovevano essere spiegate secondo le medesime regole che valevano per le altre particelle».
Proprio tra il ‘62 e il ‘63 lei porta a termine lo studio che servirà da bandolo per questa intricata matassa: di che cosa si tratta?
«In quegli anni riuscii a fornire una spiegazione del comportamento della forza debole. Semplificando, potremmo dire che si comporta come un fiume che in uno dei tre casi scorre in tutta la sua potenza, mentre negli altri due si dirama in due bracci, di cui uno più esiguo e l’altro più abbondante».
Così si è aperta la strada alla scoperta dei quark, le particelle elementari che compongono sia i protoni e i neutroni sia le particelle «strane»?
«Sì. Poi, una volta stabilita l’esistenza dei quark, la mia ipotesi poteva essere riformulata seguendo contorni più nitidi. In quest’ottica appariva chiaramente che la nostra forza debole non era altro che l’effetto della trasformazione di due tipi di quark l’uno nell’altro: una trasformazione che ha molta meno probabilità di avvenire nelle interazioni tra protoni e neutroni e particelle “strane” e ciò fa sì che nel loro caso la forza appaia diversa, pur essendo qualitativamente identica».
La stagione della scoperta dei quark è stata particolarmente eccitante. Il suo modello era compatibile con l’esistenza di tre quark, che divennero quattro grazie agli studi di un altro italiano, Luciano Maiani, e di Sheldon Lee Glashow e Jean Iliopoulos. Oggi sappiamo che esistono sei tipi di quark dai nomi curiosi: up, down, charm, strange, top e bottom. Come si è arrivati a questa ipotesi?
«Grazie al lavoro condotto da due giapponesi: Makoto Kobayashi e Toshihide Maskawa. Si sono resi conto che, ipotizzando l’esistenza di sei quark, tre con carica elettrica positiva e tre negativa, e ipotizzando che per effetto della forza debole tutti quelli di carica positiva potessero trasformarsi in quelli con carica negativa e viceversa, si chiarivano altri misteriosi fenomeni collegati alle forze deboli».
Ricapitoliamo: dal 1961 gli studi nati dall’analisi della forza debole permettono di giungere alla conclusione che esistono sei tipi di quark e di identificare tutti i 12 tipi di particelle che si ritiene possano esistere nell’Universo. Ma tutto ciò che cosa c’entra con gli esperimenti «Babar» e «Belle»?
«Finora abbiamo parlato di ipotesi teoriche, che come tutte le ipotesi dovevano essere verificate sperimentalmente. Dovevano cioè essere realizzati esperimenti in grado di produrre i sei tipi di quark e osservare le loro trasformazioni. A questo scopo “Babar” e “Belle” sono stati fondamentali: hanno fornito le prove della concretezza di ciò che avevamo ipotizzato, dando anche un valore preciso all’intensità con cui si manifesta la forza debole nei vari casi. A questo ha contribuito in modo importante anche un test italiano ancora non del tutto concluso, “Kloe”, che si svolge presso i Laboratori Nazionali di Frascati dell’Infn».
«Babar», che si trova presso il laboratorio Slac in California, chiuderà i battenti tra qualche mese, mentre in Giappone si discute su come poter riadattare «Belle» per nuove ricerche. Ma come si presenta il futuro? E’ vero che, come sostiene qualcuno, nel settore della fisica delle particelle ormai è stato scoperto tutto?
«Al contrario! Siamo probabilmente all’inizio di un nuovo ciclo di scoperte. Il Modello Standard spiega molto, ma non è perfetto. Lascia pesanti interrogativi sulla natura della forza di gravità e sulla cosiddetta materia oscura, su cui non sappiamo quasi niente, ma che riteniamo componga la gran parte di ciò che esiste nell’Universo, e su molto altro. Noi fisici siamo alla ricerca di una nuova teoria, che inglobi il Modello Standard, fornendoci però anche molte altre informazioni».
Ancora una volta si tratta di trovare il bandolo di una matassa: come contate di fare?
«Un’idea molto interessante, a cui si sta lavorando, vede ancora una volta al centro i Laboratori Nazionali di Frascati. Qui si cerca di studiare la fattibilità di un apparato sperimentale, chiamato “SuperB”, che permetterebbe di guardare nel mondo dell’infinitamente piccolo con un dettaglio molto superiore a quello concesso dagli esperimenti “Babar” e “Belle”. Se tutto andrà come speriamo, la “SuperB” potrà consentirci di trovare tracce di fenomeni ancora sconosciuti: saranno le basi per costruire un nuovo grandioso edificio teorico che possa spiegarci i grandi misteri dell’Universo».