mercoledì 26 settembre 2007

l’Unità 26.9.07
Procreazione assistita
Se la legge fa autogol
di Carlo Flamigni


La famigerata legge 40, quella che detta le norme in materia di procreazione medicalmente assistita, recita, all’articolo 13, che «la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso e qualora non siano disponibili metodologie alternative». In altri termini: mai.
Nell’articolo 14, quello dunque immediatamente successivo, al punto 5, si legge invece che «i soggetti di cui all’articolo 5 (cioè i genitori) sono informati sul numero e, su loro richiesta, sullo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell’utero».
Non vorrei sembrare maleducato, ma mi pare evidente che chi ha scritto questa legge soffra di lunghe pause cognitive, come dimostra la palese incompatibilità tra i due articoli: nell’articolo 13 si nega alle coppie la possibilità di eseguire indagini pre-impiantatorie sui propri embrioni, un divieto del quale l’articolo 14 sembra farsi beffe.
Provo a spiegare questo punto, a totale beneficio della senatrice Binetti.
La norma riconosce alle coppie il diritto di essere informate sulla salute degli embrioni prodotti: non dice ootidi, zigoti, blastocisti, dice embrioni. Ora, mentre per sapere se un ootide è normale può anche bastare (entro precisi limiti, ma non voglio complicare il discorso) l’analisi al microscopio, quella consentita dalla legge (ci sono tre pronuclei invece di due? Buttiamo via tutto o ci metteremo nei guai) l’unico modo per conoscere le condizioni di salute di un embrione è l’analisi genetica. Capisco che una parte dei cattolici non voglia ammettere l’esistenza dell’ootide, ma l’idea piace al cardinale Martini e questo mi basta. Che poi il Vaticano abbia il diritto di correggere i termini della biologia e lo eserciti al punto di costringere i suoi più illustri genetisti a cambiare idea sul significato delle parole mi può anche andar bene, purché si conceda ai biologi laici un analogo diritto di critica in materia di esegesi biblica. Se vuoi che un’amicizia si mantenga...
Dunque , ad avviso di molti, la legge 40 ammette la diagnosi genetica pre-impiantatoria e non solo per la ragione che ho citato. Esiste ad esempio un problema di congruità pragmatica: una donna che si vede rifiutare questo accertamento avrà poi modo di eseguire le stesse indagini, in gravidanza, sul feto e di decidere di interrompere la gravidanza se lo scoprirà malato, spero che a nessuno sfugga la crudeltà inutile del primo diniego. Inoltre in queste circostanza è certamente a rischio la salute psicologica della donna e vorrei ricordare che una sentenza della Consulta di circa trent’anni or sono afferma che deve essere privilegiata la salute e l’interesse di chi è già persona nei confronti di chi persona deve ancora diventare.
Nel 2005 una coppia di coniugi di Quartu Sant’Elena portatrice di una comune anomalia genetica (l’anemia mediterranea) aveva fatto ricorso contro il divieto di eseguire una diagnosi pre-impiantatoria con istanza d’urgenza presentata al Tribunale di Cagliari. Il magistrato aveva passato gli atti alla Consulta, la quale aveva dichiarato inammissibile la questione di legittimità perché non posta correttamente. Ricordo il commento del professor Emilio Dolcini, ordinario di diritto penale nell’Università di Milano, il quale aveva interpretato la sentenza come una sorta di incitamento a ripresentare il ricorso presso un tribunale ordinario, cosa che è poi stata regolarmente fatta. Per quanto posso capire, il giudice ha ritenuto di dover privilegiare il diritto della donna alla salute e all’informazione sulle condizioni di salute del nascituro, anche e soprattutto alla luce dei principi costituzionali che ho appena citato. Scelta, a mio avviso, logica, razionale e piena di buon senso.
Mi attendevo le solite convulsioni cattoliche, ma debbo confessare che chi mi da le maggiori soddisfazioni è, come sempre, Paola Binetti, la quale chiama in causa la dichiarazione di inammissibilità della Corte Costituzionale del 2005, della quale non ha evidentemente capito una parola. Ho per la senatrice Binetti una forte simpatia personale (mia moglie lo sa) e, se continua a darmi queste soddisfazioni, non vedo come potrò evitare di chiederle di farmi entrare nel suo nuovo partito.
Molti mi chiedono come si potrà andare avanti a partire da questa piccola vittoria. Anzitutto credo che il tempo dei ricorsi non sia ancora terminato e mi auguro che prima o poi si porti al magistrato- ma in termini più corretti di quelli usati in passato - la questione dell’ootide, l’oocita fecondato nel quale non si è ancora formato un genoma unico e che la legge tedesca, la legge svizzera e un grande numero di teologi cattolici considera «fase pre-zigotica e perciò pre-embrionale». Bisogna però trovare un sinonimo di ootide, termine in molti sensi non grato ai cattolici: nel sito di «Verità e Vita», nella parte dedicata all’«antilingua» il povero ootide figura come «ootite (sic)», che potrebbe aver a che fare con il mal d’orecchi. Una volta questi si chiamavano autogol.
In secondo luogo deve diventare chiaro a tutti che una donna ha il diritto di rifiutare il trasferimento di tre embrioni e che a seguito di questo rifiuto il medico non può che congelare l’embrione o gli embrioni che la donna non ha voluto accogliere nel proprio grembo. In tempi lunghi, mi sembra che la soluzione più logica sia quella di tornare a proporre ai cittadini italiani la solita domanda: ma proprio la volete una legge così stupida e così ingiusta?
In tempi brevi, poco da fare :mi sembra che continui a prevalere l’ormai cronico atteggiamento di rispettosa e modesta rassegnazione che la maggior parte dei parlamentari ha deciso di assumere quando deve confrontarsi, anche da grande distanza, con un qualsiasi rappresentante del Vaticano, Guardie Svizzere incluse. E non mi pare che il Ministero della Salute possa attualmente essere considerato un tempio della laicità, considerate le recenti proposte di adozione per la nascita e i peana in onore di chi accetta un figlio malformato , che alle mie orecchie suonano come sgradevoli e inattese condanne a che ha invece deciso diversamente e che, perbacco, meriterebbe un po’ più di rispetto. Perché, vedete compagni, se vogliamo che il Paese possa respirare la pulita e trasparente aria della laicità bisogna che i nostri attuali politici passino tutti (o quasi tutti) a miglior vita. No, non sto affatto pensando a una epidemia, mi auguro solo che divengano tutti così ricchi da decidere collettivamente di trasferirsi nelle Hawai, dove sembra - dico sembra, non ho prove concrete - che la vita sia senz’altro migliore.

Repubblica 26.9.07
Tutti i veti del Vaticano
di Marco Politi


Invece di lasciare libertà di azione e di discernimento ai credenti nella vita pubblica, la Cei intende esercitare attivamente la sua supervisione

La dura critica del segretario della Cei mons. Betori al tribunale di Cagliari, accusato di emettere sentenze «in contrasto con la legge ed il pronunciamento della Corte Costituzionale», conferma che la gerarchia ecclesiastica difende ad oltranza l´attuale legge sulla procreazione assistita. Normativa che la Cei pretende immutabile.
Vale la pena di ricordare che (contrariamente alla leggenda diffusa dopo la consultazione del 2005) gli italiani non espressero col voto un giudizio di appoggio alla legge, ma disertando le urne hanno lasciato al Parlamento e alla magistratura – così si evince dalle regole fondamentali sui referendum – piena libertà per successive evoluzioni, interpretazioni e modifiche.
Né merita l´oblio ciò che nell´ottobre del 2004 il cattolicissimo Francesco D´Agostino, allora presidente del Comitato nazionale di bioetica, dichiarò a questo giornale sul divieto o meno della diagnosi dell´embrione: «Già nella legge vigente la madre ha il diritto di essere informata sullo stato di salute dell´embrione. Quindi una diagnosi è doverosa, il medico non può mica parlare a casaccio».
E quando gli fu chiesto come regolarsi di fronte all´accertamento di una malformazione congenita, replicò: «L´eugenetica è vietata, ma le norme fanno esplicito riferimento alla legge sull´aborto che autorizza la madre – qualora le malformazioni del feto le possano causare una patologia fisica o psicologica – ad interrompere la gravidanza. Dunque nessun impianto obbligatorio di embrioni con malformazioni, che tra l´altro sono generalmente causa di aborti spontanei». Testuale.
Il dato politico è che la gerarchia ecclesiastica intende continuare a determinare – con veti o interventi diretti – la legislazione italiana su una serie di temi chiave. Da questo punto di vista il recente Consiglio permanente della Cei segna una nuova tappa di una silenziosa escalation. E´ vero, la Chiesa non vuole cavalcare l´antipolitica e anzi esorta i credenti a considerare l´impegno politico uno «strumento essenziale della vita sociale» e a spendersi per una sua «rigenerazione». Non è tempo di disertare la politica, sottolinea il comunicato della Cei, semmai di orientarla. E qui «la parola dei Pastori non potrà essere assente», i politici cattolici sappiano che devono restare «in ascolto del magistero della Chiesa».
Intanto la Cei estende ufficialmente il suo patronato sul Forum delle associazioni familiari, sul comitato Scienza e Vita, sul coordinamento cattolico chiamato RetinOpera. Invece di lasciare libertà di azione e di discernimento ai credenti nella vita pubblica, la Cei intende esercitare attivamente la sua supervisione. In evidente sintonia con la linea ratzingeriana dei principi non negoziabili, che bypassa un secolo di cattolicesimo democratico. «Sono strumenti di confronto del mondo cattolico per promuovere azioni sociali evangelicamente ispirate», ha spiegato mons. Betori. Difficile immaginare che, come già nel referendum del 2005 o nel Family Day, alla fine non si imporrà un modello di cinghie di trasmissione.
Movimenti sotterranei sono in corso nel mondo cattolico e la gerarchia ecclesiastica si prepara a giocare la sua partita in vista di una Terza Repubblica dai contorni ancora incerti. Ai primi di ottobre Savino Pezzotta partirà con il suo movimento di Presenza Cattolica. Verrà lanciato programma e statuto di un soggetto, che intende porsi come «presenza politica organizzata di cattolici» con l´obiettivo di rilanciare un «riformismo popolare democratico di ispirazione cristiana». Alleati intellettuali del progetto sono l´ex presidente di Azione cattolica Alberto Monticone e Andrea Riccardi leader di Sant´Egidio. Tra gli obiettivi: legge elettorale tedesca con sbarramento al 6 per cento, promozione della famiglia, questione meridionale. Non è ancora un partito, ma un domani?

Repubblica 26.9.07
Firenze. An: Toni Negri non deve parlare a Palazzo Vecchio


FIRENZE - No a Toni Negri ospite a Firenze nel palazzo comunale. Il senatore fiorentino di An Achille Totaro chiede di bloccare la presenza di Negri ad un convegno a Palazzo Vecchio, il 4 ottobre. «E´ uno scandalo che il Comune abbia deciso di collaborare con Negri, arrestato nel ‘79 per insurrezione armata contro lo Stato» dice Totaro. Negri parteciperà ad un incontro con l´urbanista Rem Koolhaas, autore di «New York Delirius» e che presenterà la recente raccolta «Junkspace» su globalizzazione e architettura. Un incontro organizzato non dal Comune, ma dall´Osservatorio sull´architettura della Fondazione Targetti. Gianni Biagi, assessore all´urbanistica di Firenze, anche lui invitato a partecipare all´incontro, ribatte: «Il Comune non collabora, e non collaborerà, con Negri: ma in Italia esiste la libertà di esprimere il proprio pensiero».
(m. f.)

Repubblica 26.9.07
Il flirt con An e il fantasma dei fascisti Cofferati fa soffrire Bologna la Rossa
di Luciano Nigro


«Il dialogo con An? Non credo sia un problema in sé. Dipende dai contenuti». Prova a prenderla con un certo distacco il capo dei partigiani Lino "William" Michelini. Poi però sbotta: «Certo, noi con loro non abbiamo niente a che spartire, siamo su sponde opposte». Decisamente irritato Guido Fanti, sindaco negli anni ‘60: «Trattare con una forza di opposizione, soprattutto "quella" - e per me che ho più di 80 anni non è un dettaglio - senza avere discusso con la propria maggioranza e a rischio di una crisi, è semplicemente incomprensibile».
Proprio non va giù, a un pezzo della rossa Bologna, quello che succede a Palazzo d´Accursio dove Sergio Cofferati dialoga con Alleanza nazionale sulla sicurezza e tutta l´ala sinistra dell´Unione da una settimana invia aut aut a ripetizione: se ti accordi con Fini, usciamo per sempre dalla maggioranza. Bologna torna all´epoca dei comizi vietati ad Almirante in piazza Maggiore? Ma non era proprio da queste parti che Berlusconi "sdoganò" nel ‘93 Gianfranco Fini e i suoi?
Sdoganati, evidentemente, non lo sono ancora per tutti i bolognesi. Molti di loro ricordano il vecchio capo di An, Filippo Berselli, minacciare picconate sulla lapide della strage alla stazione, quella che attribuisce ai fascisti la responsabilità della bomba. «Io sono la persona meno adatta per parlare di questa storia, perché ho vissuto la strage fatta dai fascisti - scuote il capo Paolo Bolognesi, il presidente dell´associazione "2 agosto" - . Sulla sicurezza è giusto dialogare con tutti, anche con loro, ma se lo fai senza dire niente alla tua coalizione, a costo di rottura, non capisco più niente».
Insomma il mondo è cambiato, An ha governato, ma a Bologna il confronto con An resta un tabù? Pure se l´obiettivo è minimalistico? Se tutto si limita a «dotare i vigili di spray al peperoncino», come nota Salvatore Caronna, candidato alla segreteria regionale del Pd? «A Bologna il partito di Fini è un problema solo per i più anziani, per chi ha vissuto il fascismo - analizza il politologo Paolo Pombeni che guarda con interesse alle mosse di Cofferati - ma quando si grida "o con noi o con i neofascisti", riaffiorano i ricordi e la città rossa si turba. Insomma, che dialoghi sulla sicurezza, a parte le frange iper-politicizzate, va bene a tutti. Ma se la questione diventa una bandiera...».
Una "bandiera" che ha spinto Prc, Verdi e Sd a minacciare la rottura. E l´assessore alla Cultura Angelo Guglielmi a sospirare: «I nodi sono venuti al pettine». E se un vecchio dirigente del Pci che non vuole litigare con Cofferati definisce la sua tattica «stravagante», l´ex sindaco Fanti, ora assai critico nei confronti del successore, esterna tutta la sua amarezza. «Il mal di pancia di Bologna è grande - protesta - . Rompere una maggioranza faticosamente costruita per il peperoncino ai vigili? Ma questa è una cosa che fa piangere». Non è il solo a non capire le mosse del sindaco. «Dio mio, siamo ridotti così male?» si domanda Luigi Pedrazzi, dossettiano, anima antica del Cattaneo e del Mulino. «Dobbiamo davvero omologarci al peggio di ciò che avvenuto in Italia? Cofferati, benedetto lui, fin dall´inizio ha detto no alle radici di una tradizione comunista che manteneva un´alta qualità. Ora siamo al non senso: se il duetto con An è poca cosa, perché portarlo così avanti? Se invece è importante, capisco l´interesse di Raisi (il segretario bolognese del partito di Fini-ndr), ma non quello di Cofferati».
C´è però anche un chi giura che in questa faccenda «il fascismo non c´entra niente». E´ il caso di un altro politologo, Gianfranco Pasquino. «La città non è preoccupata - è la sua tesi - si chiede soltanto come uno del centrosinistra dialoghi con altri, anche a rischio di rompere la coalizione che lo ha eletto. Bologna non capisce, ma lui, altezzoso, non lo spiega».

Repubblica 26.9.07
La Cassazione: non esiste il diritto all'amplesso
I sessuologi: ma senza sesso non c'è la coppia


ROMA - Esiste, nel matrimonio o nella convivenza, un diritto a fare l´amore? Può uno dei partner imporre all´altro un´astinenza forzata dal sesso? E se il coniuge non ne vuole sapere, lo si può costringere? Sul delicato argomento si è espressa la Cassazione, che ha sancito: «Non esiste un diritto all´amplesso». Ma i sessuologi avvertono: «Senza sesso la coppia non esiste».
La Cassazione - con una sentenza con la quale ha confermato la condanna per violenza sessuale di un marito che aveva costretto la moglie ad avere un rapporto - ha stabilito che non si può esigere dal partner, sia all´interno del matrimonio sia nell´ambito di una convivenza, alcun tipo di prestazione sessuale, specie se con prepotenza. Per la Suprema Corte, «in tema di reati contro la libertà sessuale», scatta la condanna per il reato di violenza sessuale nei casi di «qualsiasi forma di costringimento psico-fisico idonea ad incidere sull´altrui libertà di autodeterminazione, a nulla rilevando l´esistenza di un rapporto di coppia coniugale o paraconiugale tra le parti». Dal momento che, scrive il relatore Giovanni Amoroso, «non esiste all´interno di un tale rapporto un ‘diritto all´amplesso, né conseguentemente il potere di esigere o imporre una prestazione sessuale».
La Corte ha quindi respinto la tesi dell´uomo, in base alla quale in una coppia è da ritenersi che ci sia sempre un «consenso putativo» per il partner all´atto sessuale. Ma la sessuologia non è sulla stessa lunghezza d´onda della Cassazione: «Quando si forma una coppia - spiega Jole Baldaro Verde, presidente della Federazione italiana di sessuologia - si dà all´altro una sorta di diritto-dovere ad avere rapporti sessuali, altrimenti non è una coppia». Il formarsi stesso di una coppia, insomma, comporta che tra le due persone esista un rapporto sessuale. «Se viene a mancare questo piacere creativo e condiviso - conclude Baldaro Verde - la coppia si rompe».
Anche il diritto canonico parla di diritto-dovere dei coniugi di dare o ricevere l´atto coniugale.

Repubblica 26.9.07
Perché in Italia la politica è in crisi
di Massimo L.Salvadori


Prima di svolgere alcune riflessioni sulla natura della crisi presente della nostra politica, vorrei ragionare sulle caratteristiche di crisi passate, tutte accomunate dai seguenti elementi: incapacità dei partiti sia di governo sia di opposizione di dare risposte adeguate a problemi cruciali del paese; situazione di stallo determinata dall´indisponibilità degli uni e degli altri a convergere su urgenti riforme istituzionali, politiche e sociali pur giudicate universalmente indispensabili; diffusione crescente dello scontento nei governati; irruzione sulla scena di nuovi soggetti che danno corso ad una violenta polemica contro i "vecchi partiti" sordi alla "voce del popolo" e promettono di rompere la trama di equilibri esauriti e di rigenerare la politica e il paese; cedimento o quanto meno crisi profonda del sistema. Questi furono in sintesi i sintomi che segnarono il crollo del sistema liberale nel 1919-22 e il sorgere del fascismo; la crisi dei governi di centro-sinistra tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta che portò prima all´emergere dei movimenti sessantottini e dei gruppi eversivi di estrema sinistra ed estrema destra e poi ai tentativi non riusciti di rilancio del sistema politico ad opera per un verso del berlinguerismo e per l´altro del craxismo in competizione reciproca; il deterioramento sfociato nel crollo all´inizio degli anni Novanta, con la scomparsa dei partiti storici della Prima repubblica travolti da Tangentopoli, e l´avvento della Lega e di Forza Italia, le quali fecero la grande promessa fallita di rimettere in sesto l´Italia.
Queste crisi avevano avuto in comune di poggiare su sistemi bloccati, i quali non consentivano le alternative di governo tipiche dei regimi democratici maturi e quindi generavano e facevano crescere, sotto il coperchio che impediva il ricambio delle forze al potere, vapori pronti ad un certo punto ad esplodere. Con l´avvio, finalmente, della possibilità dell´alternanza, si credette e si sperò che questo meccanismo avesse perduto la sua ragion d´essere. Ci si era illusi. E ora ci risiamo. Alle parole e ai buoni propositi di dar vita a una repubblica rinnovata non sono seguiti i fatti, e tanta parte del paese è tornata a mormorare sempre più fortemente. I partiti arrancano tra crescenti difficoltà: a destra e a sinistra; e il nuovo soggetto all´attacco, il quale ha trovato il suo leader in Beppe Grillo, fa irruzione nello schieramento di centrosinistra, bombardato senza risparmio al pari del centrodestra. La storia sembra per aspetti essenziali ripetersi. Dove stiamo andando? La situazione è pesante, e lo è tanto più in quanto il governo Prodi, costretto a misurarsi ogni giorno con la sua maggioranza risicata al Senato e con le tensioni interne alla coalizione, di cose ne fa, e di buone. Buone, ma non sufficienti a conquistare il consenso di cui ha bisogno. Cosa è che propriamente non funziona e scatena i fans di Grillo, e chi sa chi altro dopo di loro? Vorrei provare a indicare le cose che maggiormente non hanno funzionato dopo la fine della Prima repubblica assumendo il punto di vista dell´uomo comune che guarda alla scena politica.
Ciò che questi scorge sopra e prima di tutto è che il meccanismo dell´alternanza e il bipolarismo non hanno raggiunto lo scopo di dare a chi governa la capacità di decidere e alla sua maggioranza di legiferare con tempestività ed efficienza, e che il male ha colpito sia il leader forte Berlusconi con una sicura maggioranza numerica in Parlamento sia il leader assai meno forte Prodi. Il motivo è chiaro: sotto l´apparenza del rinnovamento bipolare si è ricostituito, in forma nuova, il coperchio che blocca l´azione di governo non più perché impedisce l´alternanza ma perché i poli sono troppo eterogenei al loro interno, composti da troppi partiti ciascuno in grado di porre ostacoli continui e al limite veti invalicabili al processo decisionale e legislativo.
In secondo luogo egli vede che, esaurito il (relativo) rinnovamento provocato dal crollo dei primi anni Novanta e che portò all´emergere di uomini del tipo di Bossi e Berlusconi, la classe politica si è di nuovo precocemente fossilizzata, che la scacchiera e le pedine restano più o meno sempre quelle e cambia tutt´al più la loro disposizione, che – singolare peculiarità italiana – nessun leader che perde esce di scena. Vede che la politica di gran lunga più costosa tra quelle dei maggiori paesi europei produce le rese più basse.
In terzo luogo, il cittadino osserva che maggioranza e opposizione, segnate da contrasti che obbediscono ora come sempre alla logica delle scomuniche reciproche, non riescono a trovare accordi sulle maggiori questioni di interesse nazionale. Si tratti della riforma elettorale, della giustizia, delle pensioni, della Rai, della politica estera e via dicendo, è tutto un coro che ammette e proclama le urgenze e il bisogno di decisioni di alto profilo, ma al dunque le urgenze si trascinano senza costrutto o trovano parziali conclusioni le quali inducono una parte a gridare contro l´altra.
In quarto luogo, quel cittadino guarda con speranza al fatto che i partiti sono agitati da propositi di una innovativa ridefinizione degli schieramenti, ma non comprende con sconcerto dove vogliano andare propriamente a parare. DS e Margherita vanno costruendo il Partito democratico, con l´intento di dare al sistema partitico un forte soggetto aggregativo, ma al suo interno si fanno strada da un lato coloro che intendono tener fermo l´asse con le forze alla sua sinistra, dall´altro coloro che, ritenendo queste forze inaffidabili, guardano al centro. Le sinistre di Giordano, Diliberto e Mussi cercano un comune baricentro, ma nulla è chiaro. Casini invoca un Centro nuovo, liberato dalla stretta berlusconiana e voglioso di mietere nel campo dei "moderati" di tutti gli schieramenti e di costituire l´ago della bilancia delle future maggioranze. Forza Italia e An sono ogni giorno a parlare di partito unificato o di federazione senza approdare a nulla.
Se il quadro generale è questo, si può capire come un comico possa diventare un Grillo parlante in grado di coagulare intorno a sé tanto scontento nell´uomo comune disorientato e frustrato e di dirigerlo contro i partiti al governo e all´opposizione. Credo sia chiaro fin d´ora che Grillo si rivelerà un fulmine in un cielo poco sereno. Ma egli ha messo il dito sulla piaga e il suo successo improvviso è la misura delle lunghe miserie altrui. Ebbene, spetta ora ai leader dei partiti, ai Veltroni, Boselli, Giordano, Mussi, Casini, Bossi, Berlusconi, Fini e quanti altri di giocare le loro carte, di prendere le loro decisioni, di mostrare se sono davvero capaci di dare le risposte agli interrogativi pendenti. Devono farlo presto, in una maniera che non confonda ancora di più le acque agitate, e riflettere su quanto il credito dei partiti sia eroso. Questo paese non ha proprio bisogno che si ripeta una crisi di sistema.

Repubblica 26.9.07
Ammazzarsi di bellezza
di Cinzia Sasso


L´anoressia è quasi un´epidemia: cinquemila nuovi casi l´anno. Vittime le donne, soprattutto tra i 12 e i 25 anni. A rischio quelle che sono e vogliono essere le più brave

Comincia tutto con una battuta, voglio fare la dieta, e poi va che a pranzo si mangia solo un piattino perché non è mica buono, questo primo che hai preparato. Poi al bar non c´è mai la brioche giusta, e nei vasetti di yogurt si inizia a guardare quanti grassi ci sono. Si mangia di meno, sempre di meno; la bilancia scende e la forza sale. «È una malattia infida», dice Fausto Manara, che al suo reparto, al Centro specializzato di Brescia, segue ragazze esili come fringuelli, al braccio le flebo per l´alimentazione, furiose, ieri, per la foto di Toscani. «È una malattia grave e sfuggente, aggiunge Maria Gabriella Gentile, il professore che dirige il Centro disturbi alimentari dell´ospedale milanese di Niguarda, che colpisce il corpo ma parte da un disagio di tipo psichico». Una bruttissima bestia, che dagli anni ´80 è diventata quasi un´epidemia: poco meno di 5.000 nuovi casi l´anno, vittime le donne tra i 12 e i 25 anni, esposte soprattutto le «migliori», quelle che sono e vogliono essere le più brave, quelle che anche in questo, nell´autodistruggersi, utilizzano tutta la loro determinazione. Una malattia che è solo del nostro mondo, quello ricco, evoluto, quello occidentale. Una disturbo etnico, dicono gli esperti.
«Prima - dice Elena Riva, psicoterapeuta al Minotauro, un centro nato per aiutare ad affrontare i problemi dell´adolescenza - era una malattia molto rara. Oggi la gran parte della sofferenza psichica femminile si esprime con disturbi alimentari: l´esordio ha a che fare con l´adolescenza, con la costruzione dell´identità femminile e il distacco dalla famiglia. Candidata è la bambina che cresce con un ideale di perfezione, di tensione al successo». Una ragazza che non si va bene: «Tutto inizia - spiega Gentile - con un senso di inadeguatezza, con poca stima di sé, con l´isolamento dagli altri. Poi interviene l´altro fattore, il condizionamento socio-culturale: il mito diffuso della magrezza, dell´apparenza. La ragazzina insicura che deve inserirsi nel mondo si confronta con canoni irragiungibili, con il mondo dei belli e dei magri». A volte basta poco, la battuta degli amici che dicono che sei grassa, poi guardi la moda, la tivù, le altre e vedi le belle, sempre magrissime.
Passo dopo passo: le etichette dei cibi studiate con cura, la selezione maniacale, la sfida con se stesse verso un traguardo sempre più alto; a volte ci vogliono mesi, la malattia attecchisce lentamente. Quando per tre mesi il ciclo scompare, il segnale è inquietante, davvero può essere anoressia e a quel punto l´unica strada è il medico. Gentile: «Non è una cattiva volontà, e dire a una ragazza di mangiare è come dire a uno con la polmonite di respirare bene. La strada è quella di andare in un centro specializzato». Le cure più efficaci mettono insieme due aspetti: quello psicologico, che coinvolge anche i genitori e quello fisico, con terapie nutrizionali e ricostruzione del corpo. «Oggi - aggiunge la professoressa - arrivano in ospedale troppe pazienti gravissime, invece bisogna intervenire il prima possibile, non aspettare a chiedere aiuto».
Fabiola Le Clercq, anoressica per 23 anni, ha fondato un´associazione (Aba), per aiutare le altre a guarire come è riuscito a lei: «Preoccupante - dice - è che l´età si è abbassata fino ai 10 anni e alzata a donne sopra i 40 mentre cominciano a diventare più numerosi i casi di adolescenti maschi che si ammalano. Le ragazzine anoressiche sono affamate di amore ed è importante che le famiglie, devastate dalla malattia, sappiano che la terapia è un sollievo per tutti». Ai tempi delle maggiorate, in quegli anni difficili, l´anoressia quasi non esisteva: e allora forse ha ragione Zapatero che la nostra miss Italia, troppo magra, non l´avrebbe nemmeno fatta sfilare. Mentre in Francia la foto provocazione di Toscani è stata sconsigliata: non importa quali fossero le intenzioni, ma una donna malata non va esposta così.

Repubblica 26.9.07
Se la Chiesa impone la sua verità
di Umberto Galimberti


Un saggio del teologo Vito Mancuso mette in discussione dogmi fondamentali. E apre il dialogo ai laici. Ma non rinuncia al presupposto che solo nella fede c´è il fondamento per le convinzioni giuste
L´autore denuncia errori e crudeltà commesse contro la libertà di coscienza
Conclude, in linea con papa Ratzinger, sulla conciliabilità tra fede e ragione

Un giorno, incontrando a Firenze Padre Ernesto Balducci, di cui avevo letto due suoi splendidi libri: La terra del tramonto e L´uomo planetario (Edizioni Cultura della Pace), ebbi a dirgli: «Se il Cristianesimo fosse come lei lo interpreta, forse sarei un cristiano anch´io». La sua risposta fu lapidaria: «Non stia a credere professore, noi preti, per quanto diverse siano le nostre interpretazioni, siamo tutti sportelli della stessa banca».
Ne ho avuto conferma leggendo in questi giorni il bellissimo libro del teologo Vito Mancuso che ha per titolo L´anima e il suo destino (Raffaello Cortina, pagg. 324, euro 19,80). Dico "bellissimo" perché è scritto molto bene e argomentato con logica e rigore; perché non teme di denunciare gli errori, quando non le crudeltà, compiute dalla Chiesa nel corso della sua storia a partire dalla lotta condotta contro la libertà di coscienza in materia religiosa; perché si rivolge ai laici che, quando sono alla ricerca della verità, dice di apprezzare più dei credenti quando sono tali solo per un bisogno di appartenenza; perché mette in questione dogmi fondamentali della Chiesa cattolica come la creazione dell´anima da parte di Dio, il peccato originale, la resurrezione della carne, la dannazione eterna dell´inferno, anche se poi alla fine conclude come papa Ratzinger vuole, quando rivendica la perfetta conciliabilità tra fede cristiana e ragione, e quando afferma che solo nella religione cattolica si esprime la verità.
Ma incominciamo dall´anima e dal suo destino immortale che, come ci ricorda Nietzsche, è stato «il colpo di genio del Cristianesimo» perché ha tolto agli uomini il terrore della morte. Io non sono un teologo, ma un filosofo della Storia che segue il metodo "genealogico" di Nietzsche, il quale, a differenza di Platone, non si chiede, ad esempio, «che cos´è l´anima», ma: «Come è venuto al mondo questo concetto, che storia ha avuto, che significati ha assunto, che effetti di realtà ha prodotto?», persuaso come sono che l´essenza di una cosa, il suo senso è nella sua storia.
Ebbene, per gli antichi greci che chiamavano l´uomo il "mortale" e le ipotesi di sopravvivenza ultraterrena "cieche speranze (typhlas elpidas)" non c´era un´anima dentro il corpo. Per Omero l´anima è l´occhio che vede, l´orecchio che sente, il cuore che batte, il corpo vivente insomma, che è diverso dal cadavere perché è espressivo e non rappresentativo di un teatro che si svolge alle sue spalle, nell´anima appunto, come noi oggi crediamo.
Poi venne Platone che, inaugurando la filosofia, ritenne che non ci si poteva fidare della conoscenza sensibile, quella fornita dai sensi del corpo, perché i corpi sono uno diverso dall´altro, invecchiano, si ammalano, sono soggetti a passioni, si alterano, per cui le informazioni che essi forniscono non sono affidabili per costruire un sapere oggettivo. Fu così che Platone introdusse la parola "anima", in greco psyche, capace di costruire un sapere oggettivo con i soli costrutti matematici e ideali che prescindono dall´approssimazione della materia. Si tratta quindi di un´anima che designa la nostra capacità di astrarre dal sensibile, cosa che i bambini non sono capaci di fare, ma poi col tempo e con lo sviluppo delle capacità cerebrali imparano.
L´anima di Platone è dunque un espediente metodologico per inaugurare un tipo di conoscenza costruita con numeri e idee, e non con sensazioni e impressioni, in modo che sia valida per tutti e da tutti riconoscibile, come anche la scienza moderna oggi prevede. Un´anima iscritta nel registro della conoscenza e della ricerca della "verità" e non della "salvezza", come invece poi faranno i cristiani dopo aver prelevato la parola "anima" dalla filosofia di Platone.
Eh sì. Perché anche la tradizione giudaico-cristiana non dispone del concetto di anima. La parola ebraica nefes poi tradotta in greco con psyche e in latino con anima significa semplicemente la vita del corpo. Non si spiegherebbero altrimenti espressioni quali: «Il sangue, questo è la nefes» (Deut. 12, 23), oppure «occhio per occhio, dente per dente, nefes per nefes» (Es. 21, 23). Non si capirebbe cosa intende Sansone quando, sul punto di demolire le colonne del tempio, dice: «Muoia la mia nefes con tutti i Filistei» (Giud. 13, 30) o la proibizione al nazireo di toccare per tutto il tempo della sua consacrazione la nefes met degli animali, che evidentemente non è l´anima morta, ma il cadavere. E qui gli esempi possono continuare numerosi. Valga per tutti l´atto di fede dei cristiani che, quando recitano il Credo, non dicono di credere nell´immortalità dell´anima, ma nella resurrezione dei corpi.
Lo stesso Paolo di Tarso non riconosceva alcuna possibilità alla morte, debellata da Cristo una volta per tutte, ma attendeva con fiducia per i cristiani la diretta assunzione in cielo. Di fronte poi all´imprevista morte di alcuni cristiani, l´apostolo è costretto a mutare opinione e a prospettare per i morti la resurrezione e per i sopravvissuti, tra cui annovera anche se stesso, il rapimento in cielo (1 Tes. 4, 15-17). Alla domanda: «Come resusciteranno i morti?» Paolo risponde «con un corpo spirituale (soma pneumaticos) (1 Cor. 15, 43-44). Quando nell´Areopago di Atene Paolo annunciò la resurrezione dei morti, gli Atti degli Apostoli (17, 31-32) ci riferiscono che gli ateniesi gli dissero: «Questa storia ce la vieni a raccontare un´altra volta».
Fu Agostino, educato dalla filosofia platonica e neoplatonica, a tradurre il "corpo spirituale" di Paolo in "anima", dopo aver prelevato la parola da Platone, e a fare dell´anima il principio dell´identità personale e il luogo della manifestazione di Dio (In interioritate animae habitat Deus). Da allora, e per tutto il corso della cultura occidentale, valse la persuasione che l´uomo è composto di anima e corpo. L´anima incorruttibile è quindi immortale, e il corpo corruttibile è quindi mortale. «Il colpo di genio del Cristianesimo», che esorcizza la morte garantendo a ogni uomo l´immortalità, è diventato persuasione comune che neppure la scienza è riuscita a scalfire, anzi in un certo senso ha concorso a radicare definitivamente questa convinzione.
Infatti nel 1600, con la nascita della scienza moderna, per esigenze metodologiche il corpo fu ridotto a organismo, a pura quantità, a semplice sommatoria di organi, perché solo così poteva essere trattato come tutti gli oggetti da laboratorio su cui ha potere la scienza. Nacque la medicina moderna che, come tutti i malati sanno, non conosce l´uomo che ha di fronte, ma solo il suo organismo.
Un secolo dopo, per le malattie di cui non si reperiva traccia nell´organismo, nacque una nuova scienza: la psichiatria, non per lo studio della psiche, ma per dare una collocazione scientifica a quel "morbus sine materia" che era poi la malattia in seguito detta "mentale", perché, nel corpo ridotto a organismo, non si reperiva la traccia somatica. Ecco come si è rafforzato il concetto di "anima" e di quei suoi derivati che presero il nome di "psiche" o "coscienza". Queste parole, poi credute realtà, sono nate per sopperire a un deficit metodologico, per spiegare cioè tutto quello che non si riusciva a spiegare dopo aver ridotto, per le esigenze della scienza, il corpo a pura quantità, a semplice sommatoria di organi.
Ora che le parole anima, coscienza, mente sono entrate nel nostro linguaggio e si sono radicate nelle nostre abitudini linguistiche, usiamole pure, ma, ricordandone la loro genesi, evitiamo di pensarle come entità o come sostanze che sopravvivono alla morte del nostro corpo. Perché se proprio vogliamo alla parola anima un significato, l´unico possibile è quello che nomina il rapporto che il nostro corpo (e non il nostro organismo) ha con il mondo, essendo il nostro un corpo impegnato in un mondo dove veicola le sue intenzioni e da cui riceve risposte che poi rielabora per ulteriori azioni, finché è corpo vivente. Estinta la relazione col mondo, il corpo diventa cadavere, e l´anima, questa parola che nomina la nostra relazione con il mondo, si estingue con lui.
L´altra questione che percorre le pagine seducenti del libro di Mancuso è la riproposizione della tesi tomista della stretta relazione che esiste tra ragione e fede cristiana, che anche Benedetto XVI non cessa di ribadire senza omettere di precisare che, in caso di conflitto, ad aver torto è naturalmente la ragione in base all´assunto che la fede cristiana coincide con la verità.
A questo proposito voglio ricordare che Tommaso d´Aquino, commentando Paolo di Tarso, dice che la fede, a differenza della scienza espressa dalla ragione umana conduce in captivitatem omnem intellectum, cioè rende l´intelletto prigioniero di un contenuto che non è evidente, e che quindi gli è estraneo (alienus), sicché l´intelletto è inquieto (nondum est quietatus) di fronte alla scienza, nei cui confronti si sente «in infirmitate et timore et tremore multo».
Dov´è finita questa prudenza tomista che non concede di identificare immediatamente la fede con la verità? E se i cattolici sono già in possesso della verità che senso ha per loro studiare e insegnare filosofia se la verità che la filosofia si propone di cercare già la possiedono? Cosa rispondono ad Heidegger là dove scrive che quando la filosofia è accompagnata da un aggettivo, come è il caso di una "filosofia cristiana" ci si trova di fronte a un circolo quadrato o, come vuole l´espressione di Heidegger a un "ferro ligneo"? E infine che tipo di dialogo è possibile con un cristiano, se questi è già convinto di possedere la verità?
A questo punto l´invito di Mancuso, più volte ribadito nel suo libro, di voler aprire un dialogo con i laici riformulando la dogmatica cristiana in una forma compatibile alla razionalità laica è uno stratagemma seducente ma inefficace, o, se proprio vogliamo, una forma di buona educazione che non scalfisce quella che Jaspers chiamava la "minacciosa sicurezza (bedrohende Sicherheit)" con cui i teologi difendono le loro posizioni anche quando si aprono al dialogo che, a questo punto, risulta una pratica inutile.
Dopo aver dichiarato di «appartenere alla Chiesa cattolica e insieme di prendere le distanze pubblicamente da alcune parti della dottrina cattolica con tesi solo formalmente eterodosse», Vito Mancuso, con il suo libro, contribuirà senz´altro - e qui gli va dato merito - alla riformulazione della dogmatica cattolica per adeguarla allo spirito del tempo. E così facendo avrà come suoi interlocutori altri teologi, ma mai e poi mai i laici, ai quali non verrà mai voglia di parlare con chi non è disposto a mettere in gioco le proprie convinzioni religiose perché, già prima dell´apertura del dialogo, le assume come indiscutibili verità

Corriere della Sera 26.9.07
Film di Liliana Cavani sul fisico che enunciò la teoria della relatività Costo di nove milioni di euro, tra i protagonisti Maya Sansa
Einstein e le sue mogli
«La scienziata ambiziosa e la cugina Donne e guai per il genio della fisica»
di Emilia Costantini


«Voglio trasmettere l'immagine di un uomo vitale»

TRIESTE — Tira già la bora a fine settembre: nel porto di Trieste, dalla passerella di un transatlantico, finto, scende Albert Einstein. Siamo sul set del film in doppia versione, per la tv e per le sale, il primo in Italia dedicato al grande scienziato tedesco, con la regia di Liliana Cavani. Si gira la scena dell'arrivo a New York nel 1932: ad attendere Einstein, accompagnato dalla seconda moglie Elsa, un capannello di giornalisti. La fama del Premio Nobel, perseguitato dai nazisti perché ebreo, ha già da tempo varcato l'oceano e ora, nel Nuovo Mondo, l'inventore della teoria della relatività è atteso dalla cattedra presso l'Institute for Advanced Study di Princeton e da molti altri impegni, compreso quello di collaborare al programma atomico americano, nell'intento di sorpassare i tedeschi. «Ma Einstein era un pacifista convinto», avverte la Cavani che, nonostante il gelido vento triestino, sfoggia un panama bianco, sempre sul punto di volarle via.
Prodotto da Rai Fiction con la Ciao Ragazzi di Claudia Mori, in due puntate per il piccolo schermo (su Raiuno nel 2008, il costo è circa 9 milioni di euro), il film racconta la vita dello scienziato, da quando aveva vent'anni fino alla morte, avvenuta a Princeton nel 1955. Protagonista, Vincenzo Amato, con Maya Sansa (nel ruolo della prima moglie Mileva Maric) e Sonia Bergamasco (Elsa Lowennthal). Nel cast, anche Piotr Adamczyk (il Wojtyla della tv) e Andrea Ferreol. Riprende la Cavani: «Era talmente pacifista, che prima ancora dell'avvento di Hitler rinunciò alla nazionalità tedesca, perché non sopportava l'autoritarismo del suo popolo. Einstein era uno che organizzava sit-in contro la guerra ». Ma, ironia della sorte, contribuì in maniera determinante alla costruzione della prima bomba atomica: «Non riuscì mai a perdonarselo — spiega la regista —, Hiroshima e Nagasaki lo sconvolsero, fu assalito dai sensi di colpa e il suo atteggiamento, antimilitarista anche in America, lo pose nelle mire dell'Fbi, che lo ritenne un fiancheggiatore dei comunisti».
Ma Einstein non era solo un genio della fisica, era anche un uomo con i suoi tormenti, i dispiaceri, le debolezze. E se sulla sua vicenda scientifica i biografi sono tutti concordi nell'affermare che è stato il più grande scienziato di tutti i tempi, per quanto riguarda la sua sfera intima i pareri sono discordi. «Aveva un debole per le donne — osserva Amato, che deve sottoporsi a ore di trucco per somigliargli fisicamente e che, al contrario del suo personaggio, in materie scientifiche a scuola aveva 2 meno meno —. Proprio per questa debolezza, si mise anche un po' nei guai, perché se Einstein aveva un limite era di non avere il senso della quotidianità. D'altronde è comprensibile: formulare la teoria della relatività e ricordarsi anche di comprare il pane o del compleanno della moglie non è facile».
La prima moglie, che Albert sposò giovanissimo anche contro il volere dei genitori, era un'acuta matematica, che non esitò a mettere al servizio del suo uomo tutta la sua conoscenza. Racconta la Sansa: «Mileva era intelligente, ambiziosa, una delle poche donne, se non l'unica a essere ammessa al Politecnico di Zurigo.
Per amore, si dedicò completamente al suo Albert e per un bel po' lavorarono insieme: lui aveva geniali intuizioni, lei era forte con i calcoli e traduceva in numeri le sue teorie». Per questo motivo, c'è chi ha dipinto Einstein come un cinico, che sfruttò la genialità di Mileva, senza concederle alcun riconoscimento. «Non è vero — protesta la Sansa —, la loro fu una bella storia d'amore, di complicità, di stima reciproca: erano una squadra. Ma Mileva era anche una donna spigolosa, una serba un po' irsuta, tanto che lui affettuosamente la chiamava "riccio". Quando Albert arrivò al successo, si allontanò ». Il matrimonio entrò in crisi e si innamorò di Elsa, una cugina che non vedeva sin da quando era bambino. Con lei si trasferì in America, lasciando in Europa Mileva e i loro due figli, Hans Albert ed Eduard: quest'ultimo un bambino fragile, malato di schizofrenia. Precisa la Bergamasco: «Sì, ma ai figli e alla ex moglie, non fece mancare mai nulla, si spogliò di tutto per loro. Il fatto è che Elsa era una donna solare, allegra, sapeva prendersi cura di lui: per Einstein era liberatoria, con lei a fianco sentiva di potersi dedicare completamente ai suoi studi, senza problemi».
Insomma, un genio con i piedi per terra e con un notevole senso dell'umorismo: chi non ricorda la foto dove fa la linguaccia? Conclude la Cavani: «Se riusciremo a trasmettere al pubblico l'immagine di un uomo vitale, curioso, ottimista, soprattutto libero, sarò soddisfatta».

BERTINOTTI:

Ritrovare lo spirito dell'Assemblea costituente "non solo per riprogettare le istituzioni e la politica, che sarebbe gia' un grande compito, ma per determinare una nuova fondazione del Paese". (...) Per Bertinotti, "quello che stiamo vivendo e' un passaggio storico di profondo cambiamento che da luogo anche ad effetti drammatici, alla crisi della politica. Dobbiamo ritrovare lo spirito dei padri costituenti per determinare delle nuove forme di coesione sociale e di convivenza politica e civile del Paese. A questo compito la politica non puo' sottrarsi". Il Presidente della Camera e' ritornato sulla questione della cosiddetta "antipolitica", che rispetto alla fase difficile del Paese "non e' causa, ma effetto. Si pone comunque una sfida a cui la politica deve dare risposta, affinche' non vi sia una uscita dalla crisi dalla porta sbagliata. La politica deve trovare in se' le ragioni per affrontare la sua crisi e deve dare al Paese il grande punto di riferimento dell'azione democratica".
''E' necessario intervenire a ricostruire una moralita' pubblica non solo come testimonianza individuale, pur necessaria, ma collettivamente come insieme di classe dirigente, ben oltre lo scontro e il conflitto politico, nella possibilita' di essere percepiti dal Paese appunto come classe dirigente''
Bertinotti ha ricordato il detto secondo cui chi vive nell'attualita' e' spesso un nano sulle spalle di giganti e, in questo caso, i giganti sono i padri costituenti: "La lezione di quei giganti - ha concluso - credo possa ancora avere valere".

Per restituire credibilità alla politica, il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, propone di recuperare le grandi idee forza del passato: sia quelle socialiste che quelle di origine cattolica. Parlando a Conversano all'86mo anniversario dell'assassinio del deputato socialista Giuseppe Di Vagno, il presidente della Camera sottolinea l'importanza che nella storia dell'Italia hanno avuto "le grandi correnti di pensiero, che hanno animato le vicende del nostro Paese anche dopo la vittoria sul nazifascismo. La Repubblica oggi, di fronte alla grave crisi politica e istituzionale che stiamo vivendo, che segna anche il distacco di parti della popolazione dalle istituzioni, deve tornare a riflettere su quelle grandi idee forza, per restituire alla politica la capacità di far vivere al popolo lo spazio pubblico e la Repubblica come cosa propria".
Per Bertinotti, oggi bisogna "rivolgersi a ognuna di queste culture per ricavarne una lezione, ma non considerandole in contrapposizione fra loro".
Bertinotti aggiunge: "Il problema fondamentale è che la politica deve riacquistare credibilità, dando le risposte ai problemi più importanti del Paese, dalla precarietà alla giustizia sociale, alla partecipazione dei cittadini".

Il presidente della Camera Fausto Bertinotti non vuole commentare direttamente le parole del premier Romano Prodi, che ha annunciato che nella Finanziaria la tassazione delle rendite non verrà modificata: "Non so come verranno presentati nella Finanziaria i provvedimenti, li vedremo. Come sapete, anche quando saranno presentati non tocca a me commentarli", dice ai cronisti che lo interpellano nel corso della visita alla mostra sui 60 anni dell'Assemblea costituente, nel Castello Svevo di Bari. A chi gli chiede se tuttavia, a suo giudizio, il programma debba avere valore per un governo, Bertinotti replica lanciando un avvertimento indiretto: "Mi pare quasi tautologico che sì, altrimenti non dovrebbe essere scritto".

Bertinotti in un messaggio alla senatrice Levi Montalcini ha dichiarato: “Sono lieto di inviare il mio più cordiale saluto a Lei, agli autorevoli relatori ed a tutti gli intervenuti in occasione della conferenza odierna su 'L'istruzione: chiave dello sviluppo, promossa dalla Fondazione Rita Levi-Montalcini onlus. Apprezzo vivamente l'iniziativa, che conferma il significativo impegno della Fondazione nella lotta contro l'analfabetismo, in particolar modo delle donne africane, e nella costruzione di un modello di convivenza che, attraverso la forza dei beni immateriali come l'istruzione, la cultura, la conoscenza e l'informazione, sui quali crescita e sviluppo fanno oggi sempre più leva, superi divari e lacerazioni sociali”.
("pastone" da vari lanci d'agenzia)

il manifesto 26.9.07
La partitura teorica per la crisi di un’epoca
Pubblichiamo un brano del volume «Per Gramsci. Crisi e potenza del moderno». Il liberismo come risposta restauratrice alla espansione dei diritti del lavoro
di Alberto Burgio


Non c’è stata nessuna uscita dal Novecento. Le società occidentali sono ancora nel pieno di una classica «rivoluzione passiva» che non ha però determinanto una normalizzazione del paesaggio politico

Viviamo una grave crisi democratica. Non si tratta di una condizione eccezionale né abnorme. Si può sostenere, con un apparente paradosso, che lo stato di crisi è la condizione normale della democrazia, la quale è, a guardar bene, un processo. Quella che chiamiamo democrazia è il processo di conquista della capacità di autogoverno da parte dei corpi sociali. È la dinamica espansiva della cittadinanza che, con parole chiare e semplici, Gramsci chiama «passaggio molecolare dai gruppi diretti al gruppo dirigente». A questa cruciale dinamica si connettono inevitabilmente contraddizioni e conflitti. Crisi, appunto: provocate dalla continua tensione tra inclusione ed esclusione (tra tendenze «espansive» della classe dominante e tendenze «repressive»), e destinate ad influire sulla struttura dei soggetti (sui confini del demos), sulla forma dei poteri, sulla logica e le finalità del loro esercizio.
Così definita, democrazia è sinonimo di modernità. La potenziale coincidenza tra cittadinanza e corpo sociale (popolazione) è infatti l’essenza del «progetto moderno». Ciò comporta che l’intera storia della modernità si comprende alla luce di una peculiare dialettica tra varianti e costanti: le crisi cambiano nel corso del tempo (sono diversi i conflitti che via via segnano il processo, così come diversi sono i soggetti che in essi si cimentano) sullo sfondo della crisi (il processo di conquista dell’autonomia da parte dei corpi sociali) che ne costituisce il contesto invariante.
Ma appunto: le crisi sono diverse l’una dall’altra. Il loro connotato - progressivo o regressivo - dipende dalla configurazione delle forze prevalenti. La grave crisi democratica con la quale oggi siamo costretti a fare i conti è segnata da una possente tendenza alla (ri)appropriazione privata di tutto ciò che ha valore: beni materiali e immateriali; risorse economiche, energetiche e ambientali; poteri e istituzioni; reti di comunicazione; saperi, linguaggi e forme dell’immaginario. Questo processo di (ri)privatizzazione di risorse e strumenti che in una fase recente dello sviluppo storico erano stati faticosamente conquistati dal pubblico (dal demos) impone alla crisi odierna un segno marcatamente regressivo.(...)
Una nuova oligarchia
L’espansione neoliberista del mercato - caratteristica dell’attuale crisi democratica - si compie attraverso il prevalere di soggetti privati che (ri)conquistano funzioni in passato svolte dalla sfera pubblica. Imprese multinazionali, organizzazioni multilaterali (Wto, Fmi, Banca mondiale) e istituzioni private (fondi di investimento e grandi concentrazioni bancarie) dispongono di risorse e poteri confrontabili con quelli di molti Stati nazionali. Ne discende un conflitto sulla sovranità che vede sempre più frequentemente soccombere questi ultimi. Non già - sia chiaro - nel senso della loro sia pur tendenziale scomparsa, secondo quanto avventurosamente «previsto» da fortunate quanto improbabili teorie «imperiali» e da loro varianti subordinate. Bensì nel senso del loro frequente abdicare al proprio statuto di enti per eccellenza pubblici, per farsi essi stessi, con tutta la loro potenza normativa, coercitiva e militare, portavoce e garanti di interessi privati. (...)
Non si tratta dunque solo di economia, ma anche di sistemi politici. Nella misura in cui ridisegna i rapporti di forza nelle società assegnando un potere esorbitante al capitale e all’impresa, il neoliberismo non incide soltanto (delocalizzando, precarizzando, finanziarizzando) sulla produzione e sulla condizione materiale del lavoro. Ridefinisce anche il quadro dei poteri politici e gli obiettivi che essi perseguono. Per usare le parole di Gramsci, è un «ritorno alla pura economicità», in conseguenza del quale la politica viene immediatamente «innestata nell’economia».
Il «trentennio repubblicano»
Del resto proprio Gramsci è tra i più lucidi critici della rappresentazione ideologica del liberismo come scomparsa della politica, come rinuncia dello Stato («minimo») ad interferire nelle vicende dell’economia. Non si ricorderà mai abbastanza la pagina dei Quaderni del carcere che sottolinea come il liberismo sia «una "regolamentazione" di carattere statale», venga «introdotto e mantenuto per via legislativa e coercitiva» e costituisca «un programma politico, destinato a mutare, in quanto trionfa, il personale dirigente di uno Stato e il programma economico dello Stato stesso, cioè a mutare la distribuzione del reddito nazionale». (...)
Con ogni probabilità, per spiegare il trionfo del privato con cui siamo costretti a fare i conti è necessario ripensare l’intera seconda metà del secolo che ci è alle spalle. E per ciò occorre rovesciare il fortunato assunto hobsbawmiano. Il Novecento non è affatto un «secolo breve». Come la guerra dei Trent’anni che marchia a fuoco la prima metà del XX secolo affonda le radici nei conflitti interimperialistici divampati negli anni Ottanta dell’Ottocento, così, per quanto concerne la presunta fine del Novecento, è opinabile la tesi secondo cui essa si consumerebbe con la caduta del Muro di Berlino e con la scomparsa dell’Unione sovietica. Al contrario, il Novecento dura ancora.
La scena mondiale non è il prodotto delle sole conseguenze politiche, sociali ed economiche degli eventi del 1989-91. I processi sui quali stiamo riflettendo derivano con ogni probabilità anche da avvenimenti che hanno occupato l’intera seconda metà del secolo scorso. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, fino alla metà degli anni Settanta, le società occidentali hanno conosciuto trent’anni di dinamica progressiva grazie alla vigorosa iniziativa del movimento operaio, alla competizione tra capitalismo e «socialismo reale» (cioè alla necessità di arginare l’impatto egemonico esercitato da un modello comunque in grado di garantire piena occupazione ed esigibilità dei diritti sociali) e alla avanzata cornice giuridico-istituzionale disegnata dalle Costituzioni post-belliche.
Nel periodo che va dal 1945 al ’75 - che potremmo definire trentennio repubblicano - le società occidentali hanno cambiato volto. Aprendosi, integrandosi, evolvendosi non soltanto sul terreno delle libertà civili, ma anche sul piano della partecipazione democratica e nel riconoscimento concreto dei diritti del lavoro. Non stupisce che questa dinamica progressiva abbia suscitato una furiosa reazione, dispiegatasi, a partire dai tardi anni Settanta, nelle forme di una devastante «rivoluzione passiva». Che dura tuttora. Ancora oggi siamo dentro l’onda lunga della risposta reazionaria seguita al processo espansivo sviluppatosi all’indomani del secondo conflitto mondiale. Di questa scansione temporale e di quanto essa comporta occorre acquisire piena consapevolezza se si ha a cuore la decifrazione dei processi in atto. (...)
La «rivoluzione passiva»
Il concetto di «rivoluzione passiva» (che Gramsci dichiara di ricavare dalle riflessioni del Cuoco sul «tragico esperimento» della Rivoluzione napoletana del 1799) costituisce uno schema di interpretazione che i Quaderni utilizzano in relazione a fenomeni tra loro diversi: la modernizzazione europea verificatasi nel corso del XIX secolo (interpretata da Gramsci come effetto «passivo» della Rivoluzione francese); e le politiche di stabilizzazione adottate nel XX secolo (nella fase storica inaugurata dalla Rivoluzione d’ottobre) nel tentativo di far fronte alla «crisi organica» del capitalismo. (...)Richiamare questo schema interpretativo in relazione agli ultimi trent’anni significa dunque formulare l’ipotesi che la restaurazione capitalistica promossa dalla «rivoluzione conservatrice» reaganiano-thatcheriana abbia svolto, sul piano macrostorico, una funzione analoga a quella assolta da altre «rivoluzioni-restaurazioni», in particolare dalla «rivoluzione passiva» novecentesca posta in essere dai regimi fascisti (sorti come antidoto contro il rischio di contagio rivoluzionario che negli anni Venti minacciò gran parte dei Paesi europei) e dal New Deal rooseveltiano (concepito come risposta allo shock della Grande depressione). (...)
Nella misura in cui replica, mutatis mutandis, questo scenario, la crisi odierna sembra produrre un quadro privo di vie d’uscita. (...)In realtà, se ci fermassimo qui, restituiremmo una rappresentazione unilaterale del processo. Ingannevole perché incapace di coglierne le latenti potenzialità antisistemiche. Nemmeno nelle più acute fase di crisi, nelle quali le forze prevalenti esprimono il massimo potenziale repressivo, il processo si libera delle proprie contraddizioni. La dinamica evolutiva della modernità resta inevitabilmente dialettica. Proprio com’è irriducibilmente dialettico l’individualismo, che è al contempo particolarismo (ciascun individuo è in primo luogo, per sé, se stesso) e universalismo (ciascuno è tuttavia, in sé, uno dei tanti, al pari di ogni altro). La «disassimilazione» e la tendenza al recupero della dinamica castale costituiscono soltanto un aspetto del processo riproduttivo. Con il quale convive sempre l’altro momento, connesso alla vocazione espansiva della modernità: al suo destino dinamico, inscritto nel bisogno incoercibile che il capitale ha di allargare la sfera della riproduzione. E che lo costringe a porre in atto, nel cuore stesso dello sfruttamento, un movimento oggettivamente inclusivo. (...)
Crisi e potenza del moderno
Nonostante tutte le apparenze, la diagnosi di una sostanziale normalizzazione del paesaggio politico globale proprio non convince. Appare al contrario fondata l’impressione che un sentimento di rigetto nei confronti della politica iniqua e distruttiva praticata dai ceti dominanti dei Paesi più industrializzati venga radicandosi nel mondo. Diffondendo avversione nei confronti della guerra, della devastazione ambientale, dell’appropriazione privata delle risorse naturali. Nutrendo una rinnovata consapevolezza dello statuto irriducibilmente pubblico-globale («comune») dei risultati del lavoro sociale, della ricerca scientifica, dell’interazione comunicativa. Promovendo movimenti ed esperienze di lotta contro la precarizzazione del lavoro (si pensi alla battaglia vinta contro il «contratto di primo impiego» la scorsa primavera in Francia) e per la globalizzazione dei diritti e la gestione pubblica dei linguaggi, dei saperi, dei «beni comuni». E assumendo progressivamente i tratti di una potente istanza di delegittimazione, sempre più prossima a valicare il confine che separa i settori più consapevoli dalla massa spoliticizzata per informare di sé un nuovo senso comune.
Altrettanto sembra di poter dire a proposito della calorosa partecipazione con cui sono seguite, in ogni regione del pianeta, le esperienze di autonomia compiute dai Paesi (in particolare in America latina) che più di recente si sono sottratti al giogo coloniale e le lotte popolari di resistenza e di indipendenza. Si pensi allo scacco subìto dalle forze armate statunitensi sul teatro iracheno - quasi un nuovo Vietnam - e alla drammatica vicenda del popolo palestinese. Anche nel caso di questa corale partecipazione e dei suoi presupposti «etico-politici» non si tratta certo di fatti compiuti, ma di processi in corso. Che tuttavia alludono alla costituzione di nuove soggettività critiche, al lento cementarsi di un insieme sempre più vasto e articolato di forze sociali, politiche e statuali anticapitalistiche. (...)
La crisi è luogo di ambivalenze. Di instabilità, di conflitti e di più o meno potenti dinamiche progressive. La dialettica della crisi moderna (la tensione tra vettori espansivi e risposte regressive) è il grande tema dei Quaderni del carcere. Anche quando si interroga sull’avvento del fascismo, Gramsci riflette in base a questo presupposto. Per tale ragione - prigioniero mentre parte dell’Europa soggiace alla tirannide - dichiara quella vittoria «transitoria», al pari della sconfitta subìta dal movimento rivoluzionario nel tentativo di generalizzare l’Ottobre. È questa la sua fondamentale lezione, grazie alla quale ancor oggi - a settant’anni dalla sua morte - leggiamo nei Quaderni la partitura teorica della nostra epoca e della sua crisi.

Scaffali gramsciani
Le lenti per leggere il lungo Novecento
Il volume di Alberto Burgio che presentiamo in questa pagina («Per Gramsci, Crisi e Potenza del moderno», DeriveApprodi, pp 176, euro 13) si differenzia dagli altri saggi finora usciti in occasione del settantesimo anniversario dell’autore dei «Qauderni del Carcere». E mentre Bartolo Anglani scrive sulla «Solitudine di Gramsci» in carcere (Donzelli, pp. 330, euro 26), Angelo Rossi e Giuseppe Vacca provano a cercare il bandolo della matassa sul destino di Gramsci nel volume «Gramsci tra Mussolini e Stalin» (Fazi, pp. 245, euro 19), in questo libro si mettono al lavoro le categorie gramsciane per una lettura critica del presente. Non che Burgio non si misuri sulla ricezione dei testi gramsciani o con gli studi che in questi ultimi anni hanno, molto più all’estero che non in Italia, continuato a interrogare i «Quaderni del Carcere». Lo fa, ma il tentativo su cui l’autore insiste di più è la verifica delle categorie gramsciane attorno al neoliberismo, la crisi della democrazia, la ridefinizione della sovranità nazionale, la globalizzazione.

Avvenire 26.9.07
Camus, Sartre e i cattivi maestri
Anniversari Nel 1957 l’autore della «Peste» riceveva il Nobel, poi rifiutato dallo scrittore-filosofo Quel periodo vide la rottura fra i due: il primo difendeva i diritti umani al di là delle ideologie, il secondo restò sempre legato al comunismo
Di Luca Gallesi


Un uomo ricco soltanto di dubbi, abituato alla solitudine del lavoro e al conforto delle amicizie». Con queste semplici parole, pronunciate a Stoccolma il 10 dicembre del 1957, Albert Camus si presentava all’Accademia che gli aveva appena conferito il Premio Nobel per la letteratura. Dopo mezzo secolo, quel suo discorso fa ancora riflettere, in particolare sullo scopo e la funzione della letteratura, che non è fine a se stessa, ma deve unire e affratellare il numero più grande possibile di persone. «L’artista deve essere umile -continua Camus - e accettare di servire tanto la verità, che è misteriosa, quanto la libertà, che è anche pericolosa. Non deve giudicare, bensì capire, senza mai disprezzare nulla». Molto lontano da questa concezione fu un altro intellettuale francese, che, nel 1964, il Premio Nobel invece lo rifiutò: Jean Paul Sartre, che pure era stato legato ad Albert Camus da una militanza politica e da una amicizia durata una decina d’anni, dal 1944 al 1954. Ammaliati dall’utopia comunista, entrambi però in qualche maniera scendono a patti con i tedeschi invasori della Francia, che apprezzano i testi teatrali di Sartre e le opere di Camus. I primi, infatti, vengono regolarmente rappresentati sui palcoscenici della Parigi occupata, mentre nel 1942, presso Gallimard, escono opere importanti di Camus come il romanzo Lo Straniero e il saggio Il mito di Sisifo, da cui era stato però espunto - con il consenso dell’autore - il capitolo dedicato allo scrittore ebreo Kafka. Nel 1951 Camus pubblica L’uomo in rivolta, un saggio considerato da Sartre reazionario perché critica la violenza delle rivoluzioni, a cui viene invece contrapposta la rivolta del singolo a favore di una solidarietà tra gli uomini che è la sola via d’uscita all’angoscia dell’esistenza. La lontananza tra i due intellettuali si trasforma in rottura nel 1954, quando l’impegno politico di Sartre diventa, nel libro I comunisti e la pace, un elogio acritico della dittatura. Camus non tollera la militanza cieca, pronta e assoluta di Sartre che si trasforma in eccesso di zelo quando impedisce la messa in scena della sua pièce teatrale Le mani sporche, perché interpretabile come una critica del bolscevismo. Un’altra cosa che li unisce, oltre all’ambizione e alla passione politica, è l’ateismo, anche se quello di Camus non gli impedisce di apprezzare il Decalogo, di cui elogia soprattutto la condanna dell’omicidio. La vita, in fondo, è per Camus buona persino quando sembra priva di senso. In Sartre, invece, l’assurdità della condizione umana lo porta all’indifferenza nei confronti della vita umana, che può essere calpestata in nome dell’ideologia. E anche quando, dopo i fatti d’Ungheria, Sartre prenderà a sua volta le distanze dal comunismo russo, non esiterà poi ad abbracciare la causa maoista con la sanguinosa Rivoluzione culturale. Albert Camus, invece, non ci sta; per lui, «la politica e il destino dell’umanità vengono forgiati da uomini privi di ideali e di grandezza. Gli uomini che hanno dentro di loro la grandezza non entrano in politica». Gli sarà quindi facile etichettare gli intellettuali militanti come cattivi maestri: «La loro scusa è la spaventosa grandezza di quest’epoca. C’è in loro qualcosa che aspira alla servitù». E aveva buon gioco a deridere coloro che, dopo aver demolito tutti i dogmi religiosi tradizionali, si facevano chierici di un altro dogma, questa volta ideologico e politico: il marxismo-leninismo. Per Camus l’unità di misura del valore e della grandezza è l’uomo, con la sua capacità di calarsi nella realtà concreta. Quella stessa realtà concreta, fatta di radici ed esperienze, che ad esempio non gli permette di schierarsi a fianco dell’indipendenza dell’Algeria, perché quella scelta lo avrebbe messo contro la madre, pied-noir che in Algeria viveva ancora. Ed è sempre quella concretezza ricca di pietas che lo spinge, appena ricevuto il Nobel, a telefonare riconoscente al suo maestro, per ringraziarlo, commovente testimonianza di un altro stile e un altro mondo, dove gli uomini erano uomini e le scuole scuole. Ma già dal 1947 Camus con La peste aveva indicato nell’amore e nella solidarietà tra gli uomini la via per superare l’angoscia e la disperazione esistenziale. Mentre Sartre supera indenne le mode e la contestazione per giungere, riverito maestro, alle soglie degli anni Ottanta, il fato spezza la vita di Camus il 4 gennaio 1960, quando, ad appena 47 anni, si schianta in macchina con il suo editore, Michel Gallimard. In tasca aveva un biglietto del treno, a cui aveva fatidicamente rinunciato all’ultimo momento, ma che restava il suo mezzo di trasporto preferito, consapevole - come aveva spesso pubblicamente affermato - che la morte in automobile è la più assurda di tutte le morti. Sensibile ai temi che oggi verrebbero definiti «ecologisti», aveva intuito già mezzo secolo fa i pericoli di un mondo corrotto, «dove sono mescolate rivoluzioni fallite, una tecnologia impazzita, divinità morte e ideologie consunte».

Pareri a confronto
Quanti cadaveri nell’armadio, ma almeno senza stupidità
Solo lo scrittore algerino fu paladino di umiliati e offesi

Albert Camus, che ho sempre amato, è un modello eterno, il testimone di un mondo migliore, dove si ha stima per la conoscenza, e si crede che essa sia trasmissibile. Egli è uno scrittore che ama più il singolo che l’umanità, e quindi è capace di descrivere un mondo vivido e concreto, che irrompe dalla pagina. Oggi, invece, rivedrei il giudizio molto severo che ho espresso in passato nei confronti di Sartre. Ritengo che, in fondo, una figura come quella di Sartre sia ben più necessaria di quella dell’«intellettuale che si dimette», per ritirarsi in quella equivoca resistenzialità che, secondo me, è solo una nuova difesa di vecchie rendite di posizione. Le persone come Sartre - e, da noi, come Moravia - sono intellettuali tipici dei Paesi socialisti, dove però godevano di una protezione da parte del Partito. Bisogna capire, senza ipocrisie, che c’è un grande teatro del mondo e che, quindi, certi ruoli vanno ricoperti senza moralismi. Dove lo Stato è assoluto, queste figure diventano anche dei porti franchi, sotto la cui ala protettrice si può persino coltivare il dissenso. Certo, Sartre ha molti aspetti di disonestà intellettuale, ma non arriva mai, come invece succede oggi, a credere nelle menzogne che dice. Sartre fa politica, e quindi ha dei cadaveri nell’armadio; ma i suoi cadaveri mi sembrano meno morti di molti cretini vivi che circolano oggi. Al di là delle sue opere, ne rivaluterei insomma la competenza: Sartre sapeva benissimo cos’è una poesia o un romanzo, e non si farebbe schiacciare dall’attuale dittatura del mercato.
Luca Doninelli

Personalmente, ho sempre apprezzato Camus molto più di Sartre; tra l’altro, il suo discorso in occasione della consegna del Nobel è un testo che ha influito molto sulla mia formazione personale e professionale. Ad un certo punto, per esempio, c’è un’osservazione molto precisa, quando dice che il compito dello scrittore è quello di parlare a nome di chi non può farlo: un’affermazione che quando la lessi - ero ancora un ragazzo - mi colpì come un fulmine. C’è in Albert Camus una responsabilità della parola che egli ribadisce in tutta la sua opera, una responsabilità che mi sento di condividere e che faccio mia. Al contrario, mi sento davvero distante dall’esempio sartriano, che giudico algido, cerebrale, in una parola: troppo intellettuale. Naturalmente devo riconoscere a Sartre una statura importante, anzi, monumentale nel Novecento, ma gli preferisco Camus perché costui è stato davvero il paladino degli umiliati e degli offesi. Camus non ha mai dimenticato di avere origini modeste e di avere vissuto, dopo la morte del padre nella Grande guerra, nel quartiere più povero di Algeri. Nel suo lavoro si riflettono anche queste esperienze, dal ginocchio sbucciato durante i giochi nei cortili delle case popolari alla perenne fatica di tirare avanti.
Eraldo Affinati


La Stampa TuttoScienze 26.9.07
“Caro Darwin, non servi più. Per l’evoluzione c’è il biotech”
Abbiamo cominciato a rimescolare le specie
di Freeman Dyson


In un articolo provocatorio e illuminante - «Una Nuova Biologia per un Nuovo Secolo» - il grande biologo Carl Woese ha messo sotto accusa i limiti della biologia riduzionista e la logica che l’ha guidata nell’ultimo secolo, sottolineando la necessità di una nuova biologia, che si basi sui concetti di comunità e di ecosistemi, anziché su quelli di geni e di molecole. Ma allo stesso tempo ha anche sollevato una questione estremamente importante: quando è cominciata l’evoluzione darwiniana?
Con evoluzione darwininana intende l’evoluzione come la descrisse lo stesso Charles Darwin, basata cioè sull’intensa competizione per la sopravvivenza tra specie diverse. Presenta quindi una serie di prove, secondo le quali l’evoluzione stessa non risale all’alba della vita. All’inizio il processo che lui ha definito come «trasferimento genetico orizzontale» - vale a dire la condivisione degli stessi geni tra specie differenti - era prevalente. E questo diventa sempre più evidente man mano che si retrocede nel tempo.
Woese è il maggiore esperto mondiale nel campo della tassonomia microbica. Qualunque cosa scriva, anche quando sembra tendere ai vertici della pura speculazione, dev’essere preso molto sul serio. Oggi lui postula un’«epoca d’oro» della vita pre-darwiniana durante la quale il «trasferimento genetico orizzonale» era un fenomeno universale e, quindi, non c’era una separazione netta tra le specie. La vita, allora, era una comunità di cellule di vario tipo: tutte condividevano le informazioni genetiche in modo che una serie di processi chimici e catalitici, inventati da una sola creatura, potessero poi essere ereditati dalle altre. L’evoluzione, quindi, era un «affare comune», con un’intera comunità in grado di migliorare la propria efficienza metabolica e riproduttiva, perché venivano scambiati i geni delle cellule più efficienti.
Ma poi, in un giorno nefasto, avvenne che una cellula, che assomigliava a un batterio primitivo, riuscisse a superare le altre in efficienza. Così questa cellula si separò dal gruppo e cominciò a rifiutare la logica della condivisione. La sua discendenza si trasformò nella prima vera e propria specie separata. Grazie alla sua superiore efficienza continuò a prosperare e a evolversi separatamente.
Poi, alcuni milioni di anni più tardi, un’altra celula si separò dal gruppo e anch’essa diventò un’altra specie. E il fenomeno si allargò, finché la vita si suddivise in tante specie, tutte diverse.
I processi biochimici di base della vita si sono quindi evoluti rapidamente durante le poche centinaia di milioni di anni che hanno preceduto l’era darwiniana e sono cambiati molto poco nei seguenti 2 miliardi di anni di evoluzione.

La Stampa TuttoScienze 26.9.07
“Nell’infinitamente piccolo la chiave che svela l’Universo”
di Barbara Gallavotti


C’è fermento nel mondo della fisica delle particelle, la disciplina dedicata allo studio delle più piccole componenti della materia. Sono sul punto di chiudersi due gloriosissimi esperimenti: «Babar», negli Usa (al quale hanno lavorato molti ricercatori italiani) e «Belle», in Giappone. E con loro finisce un’epoca: è un po’ come se si smontassero le ultime impalcature del grandioso edificio concettuale costruito da generazioni di fisici per descrivere il mondo dell’infinitamente piccolo.
Questo edificio è una teoria dal nome di Modello Standard che spiega come a formare l’Universo siano appena 12 tipi di particelle elementari, tanto piccole da non essere più divisibili. Alcune sono molto note, come gli elettroni, altre suonano decisamente più esotiche. Queste particelle interagiscono fra loro grazie a quattro forze fondamentali: la forza di gravità, quella elettromagnetica (che mantiene gli elettroni in orbita intorno al nucleo), quella forte (che tiene insieme i nuclei degli atomi) e quella debole.
Proprio le misteriose caratteristiche di quest’ultima hanno fatto arrovellare innumerevoli fisici: un contributo fondamentale per svelarne i segreti, e quindi per mettere a punto il Modello Standard, è stato dato dal fisico italiano Nicola Cabibbo.
Professore, secondo molti, dopo «Babar» e «Belle» i futuri esperimenti provocheranno il crollo proprio del Modello Standard. Ovviamente, per consentire la nascita di una nuova costruzione ancora più splendida. Eppure, ancora all’inizio degli Anni 60, mancavano molti tasselli per realizzare proprio il Modello Standard e la questione delle forze deboli era particolarmente spinosa. E’ così?
«All’inizio degli Anni 60 la forza debole si presentava come una specie di Giano non a due, ma a tre facce. Veniva considerata responsabile della cosiddetta radioattività Beta (un tipo di radioattività studiata da Enrico Fermi), della trasformazione di particelle, chiamate muoni, in elettroni più neutrini e di una curiosa interazione tra protoni, neutroni e un terzo tipo di particelle chiamate “strane”, a riprova di quanto i fisici le trovassero incomprensibili. La difficoltà derivava dal fatto che la forza debole sembrava comportarsi in modo diverso nei tre casi, diminuendo o aumentando di intensità a seconda delle particelle con cui aveva a che fare».
In che modo?
«La differenza maggiore si riscontrava nel caso delle particelle “strane” e il loro comportamento in relazione alla forza debole cominciò ad apparire insopportabilmente scandaloso nel 1961, quando la gran parte delle loro anomalie venne spiegata da Murray Gell Mann. A questo punto i fisici non erano disposti a concedere alle particelle “strane” nessuna eccentricità e, dunque, anche le loro interazioni con protoni e neutroni dovevano essere spiegate secondo le medesime regole che valevano per le altre particelle».
Proprio tra il ‘62 e il ‘63 lei porta a termine lo studio che servirà da bandolo per questa intricata matassa: di che cosa si tratta?
«In quegli anni riuscii a fornire una spiegazione del comportamento della forza debole. Semplificando, potremmo dire che si comporta come un fiume che in uno dei tre casi scorre in tutta la sua potenza, mentre negli altri due si dirama in due bracci, di cui uno più esiguo e l’altro più abbondante».
Così si è aperta la strada alla scoperta dei quark, le particelle elementari che compongono sia i protoni e i neutroni sia le particelle «strane»?
«Sì. Poi, una volta stabilita l’esistenza dei quark, la mia ipotesi poteva essere riformulata seguendo contorni più nitidi. In quest’ottica appariva chiaramente che la nostra forza debole non era altro che l’effetto della trasformazione di due tipi di quark l’uno nell’altro: una trasformazione che ha molta meno probabilità di avvenire nelle interazioni tra protoni e neutroni e particelle “strane” e ciò fa sì che nel loro caso la forza appaia diversa, pur essendo qualitativamente identica».
La stagione della scoperta dei quark è stata particolarmente eccitante. Il suo modello era compatibile con l’esistenza di tre quark, che divennero quattro grazie agli studi di un altro italiano, Luciano Maiani, e di Sheldon Lee Glashow e Jean Iliopoulos. Oggi sappiamo che esistono sei tipi di quark dai nomi curiosi: up, down, charm, strange, top e bottom. Come si è arrivati a questa ipotesi?
«Grazie al lavoro condotto da due giapponesi: Makoto Kobayashi e Toshihide Maskawa. Si sono resi conto che, ipotizzando l’esistenza di sei quark, tre con carica elettrica positiva e tre negativa, e ipotizzando che per effetto della forza debole tutti quelli di carica positiva potessero trasformarsi in quelli con carica negativa e viceversa, si chiarivano altri misteriosi fenomeni collegati alle forze deboli».
Ricapitoliamo: dal 1961 gli studi nati dall’analisi della forza debole permettono di giungere alla conclusione che esistono sei tipi di quark e di identificare tutti i 12 tipi di particelle che si ritiene possano esistere nell’Universo. Ma tutto ciò che cosa c’entra con gli esperimenti «Babar» e «Belle»?
«Finora abbiamo parlato di ipotesi teoriche, che come tutte le ipotesi dovevano essere verificate sperimentalmente. Dovevano cioè essere realizzati esperimenti in grado di produrre i sei tipi di quark e osservare le loro trasformazioni. A questo scopo “Babar” e “Belle” sono stati fondamentali: hanno fornito le prove della concretezza di ciò che avevamo ipotizzato, dando anche un valore preciso all’intensità con cui si manifesta la forza debole nei vari casi. A questo ha contribuito in modo importante anche un test italiano ancora non del tutto concluso, “Kloe”, che si svolge presso i Laboratori Nazionali di Frascati dell’Infn».
«Babar», che si trova presso il laboratorio Slac in California, chiuderà i battenti tra qualche mese, mentre in Giappone si discute su come poter riadattare «Belle» per nuove ricerche. Ma come si presenta il futuro? E’ vero che, come sostiene qualcuno, nel settore della fisica delle particelle ormai è stato scoperto tutto?
«Al contrario! Siamo probabilmente all’inizio di un nuovo ciclo di scoperte. Il Modello Standard spiega molto, ma non è perfetto. Lascia pesanti interrogativi sulla natura della forza di gravità e sulla cosiddetta materia oscura, su cui non sappiamo quasi niente, ma che riteniamo componga la gran parte di ciò che esiste nell’Universo, e su molto altro. Noi fisici siamo alla ricerca di una nuova teoria, che inglobi il Modello Standard, fornendoci però anche molte altre informazioni».
Ancora una volta si tratta di trovare il bandolo di una matassa: come contate di fare?
«Un’idea molto interessante, a cui si sta lavorando, vede ancora una volta al centro i Laboratori Nazionali di Frascati. Qui si cerca di studiare la fattibilità di un apparato sperimentale, chiamato “SuperB”, che permetterebbe di guardare nel mondo dell’infinitamente piccolo con un dettaglio molto superiore a quello concesso dagli esperimenti “Babar” e “Belle”. Se tutto andrà come speriamo, la “SuperB” potrà consentirci di trovare tracce di fenomeni ancora sconosciuti: saranno le basi per costruire un nuovo grandioso edificio teorico che possa spiegarci i grandi misteri dell’Universo».

martedì 25 settembre 2007

Corriere della Sera 25.9.07
Nuove carte sui regolamenti di conti tra intellettuali nella Germania post nazista
Heidegger e la Norimberga dei filosofi
Compromesso con il Terzo Reich, fu epurato. Ma Romano Guardini non volle il suo posto
di Armando Torno


Nell'estate del 1945, con la resa incondizionata della Germania, ci fu chi pensò, dopo un processo esemplare ai capi politici, anche a una Norimberga degli intellettuali nazisti. Furono sostanzialmente esclusi, per quel che è noto sino a oggi, gli scienziati che avevano aderito al Terzo Reich e che si divisero tra Urss e Usa, senza problemi. Ma con un artista quale Arno Breker, che pur aveva aiutato Picasso durante la guerra, gli Alleati si comportarono diversamente: i suoi studi furono confiscati e distrutti, circa l'80% delle opere a lui attribuite venne disperso e qualcosa si ritroverà soltanto negli anni '60 in una fonderia, dove le sculture erano vendute a peso (una legge del 1947 gli impedirà anche il riacquisto di quanto fosse riuscito a rintracciare). Né andò meglio per i filosofi.
Già all'indomani del 28 aprile 1945, allorché le truppe francesi entrarono a Friburgo, alcuni professori vennero arrestati per collaborazionismo e l'amministrazione comunale stilò una «lista nera» di quelli che si erano compromessi con il passato regime. I loro appartamenti furono posti sotto sequestro e si formò una «Commissione per l'epurazione», della quale fecero parte docenti appena scarcerati. Sarà questo organismo a proporre di pensionare in anticipo Martin Heidegger, che a Friburgo aveva la cattedra, ma non di allontanarlo dal suo posto. Mentre il filosofo teme la confisca della propria biblioteca, il Senato accademico impugna la decisione e le indagini sul suo conto vengono riaperte.
È in questi momenti che accade qualcosa di unico nel polverone delle vicende. Hanna-Barbara Gerl-Falkovitz, che insegna Filosofia della religione e Scienza delle religioni comparate alla Technische Universität di Dresda, e che è la massima specialista di Romano Guardini (1885-1968), il pensatore nato a Verona ma completamente tedesco nella vita e nelle opere (dal 1923 al 1939 cattedra a Berlino, nel 1945 a Tubinga, nel 1948 a Monaco di Baviera), ha ritrovato documenti e delineato situazioni che gettano luce sui fatti accennati. L'abbiamo incontrata nella sua casa di Erlangen, poco distante da Norimberga, dove ci ha mostrato gli appunti di un saggio che ricostruisce il rapporto tra i due. Si intitola Romano Guardini e Martin Heidegger. Annotazioni riguardo a un dialogo che non è mai avvenuto direttamente (la traduzione italiana uscirà sul n. 4 della rivista "Humanitas", diretta da Ilario Bertoletti ed edita da Morcelliana).
La Gerl-Falkovitz parla di una serie di incontri tra i due filosofi che non si conoscevano. Per fare un esempio, se ne può ricordare uno del 1933 che vede Heidegger «in tuta blu» mentre è in gita in canoa sul Meno con la moglie. Appena viene a conoscenza di un convegno organizzato da Guardini, interrompe la vacanza per rendere omaggio «al metafisico» e fare colazione con lui. Il giorno seguente, il pensatore cattolico riassumerà quei dialoghi con una battuta a Mathilde Schütter di Monaco: «Ieri sera ho capito che non sono un filosofo». Ovviamente egli non condivide il pensiero dell'autore di Essere e tempo.
La Gerl-Falkovitz elenca le distanze che Guardini prende in diverse occasioni, soprattutto quando Heidegger accetta incarichi dal partito nazista. Ma nel 1945 le loro strade si incontrano, e sarà il cattolico a scrivere un capitolo particolare della storia dell'epurazione.
Dunque: nell'autunno di quel 1945 Guardini riceve proposte da vari atenei tedeschi, tra i quali c'è appunto Friburgo. Anzi, gli viene chiesto da Max Müller (la Gerl-Falkovitz ci mostra la lettera), professore di quella università, di sostituire Heidegger. Ricorda la studiosa tedesca: «Guardini rifiuta senza esitazioni, adducendo come motivo, cosa che comunica direttamente allo stesso Heidegger nel 1946, l'impossibilità di inquadrarsi nell'ambito della filosofia intesa come disciplina specifica». È chiaramente una scusa, un'arrampicarsi sui vetri. La Gerl-Falkovitz aggiunge: «Anche se Guardini in quei mesi soffriva di depressione e le varie proposte lo lusingavano, di fronte al nome di Heidegger non avrebbe mai accettato: lo considerava il più grande». E a chiarimento: «Va precisato che il filosofo cattolico ebbe un singolare rapporto con l'autore di Essere e tempo. Quest'ultimo ne cercò, sin dagli anni '30, sia il plauso che la confidenza. Ma Guardini tenne le distanze: lo considerava il numero uno al mondo, ma lo accusava di aver contaminato la sua filosofia con il nazismo. Anzi, più di una volta pensò fosse una persona disturbata; riteneva il pensiero di Heidegger pericoloso, da confutare ma non da martirizzare. Se lui fosse stato epurato, se si fosse realizzata una Norimberga degli intellettuali, si sarebbe trasformato in una vittima con conseguenze devastanti. La potenza del pensiero di Heidegger era diversa dal suo errore».
Per taluni aspetti, il comportamento di Guardini è parallelo a quello di Jaspers, anche se la rinuncia alla cattedra mostra qualcosa di più (la Gerl-Falkoviotz aggiunge: «Forse Heidegger avrebbe accettato senza obiezioni la chiamata di Guardini»), ma soprattutto impedì che si mettesse in moto un processo di epurazione che avrebbe utilizzato Heidegger come simbolo. In quei mesi, del resto, bastava poco. «Il movimento di denazificazione — aggiunge la studiosa tedesca — del quale stanno emergendo documenti inediti, avrebbe sicuramente travolto Heidegger se Guardini avesse accettato. Non si dimentichi che la moglie Elfride era ancora nazista nel 1945».
L'altro capitolo di questa storia riguarda la proposta che lo stesso Guardini farà l'8 febbraio 1961 alla Bayerische Akademie di belle arti di Monaco per chiamare Heidegger a farne parte. La categoria scelta è «Letteratura»: ha reso «il fenomeno del linguaggio oggetto di particolare ricerca», «ha arricchito la filosofia di una serie di parole» eccetera. Nella parte finale della proposta, Guardini dichiara di essere in disaccordo con Heidegger su importanti questioni, nonostante lo conosca da cinquant'anni. Ma, ribadisce, è un pensatore importante, ha avuto un grande influsso ed è giusto riconoscerlo. Immaginiamoci le perplessità. Tra l'altro emerge dal dibattito, sviluppatosi intorno alla chiamata, la presenza tra gli altri candidati del «comunista italiano Quasimodo», forte di numerosi appoggi. La cosa irrita Guardini. Sono sue parole: «È un dato di fatto che a fronte di uguali elementi si è più indulgenti verso quelli che stanno a sinistra che con quelli che stanno dalla parte opposta». Sottolinea la Gerl-Falkovitz: «La spunterà Guardini, anche se sarà costretto a minacciare le dimissioni. Se non avessero ammesso Heidegger, le avrebbe rassegnate dall'Accademia».
Una storia scritta con tracce di dedizione assoluta. Guardini, che avrà scambi epistolari con Pio XII e Paolo VI, stimava Heidegger sino a compromettersi, prendendo tuttavia sempre le distanze. Lo ha comunque salvato da una Norimberga forse più problematica di quella che toccò ai gerarchi di Hitler.

l’Unità 25.9.07
Fecondazione, alt alla legge
Il tribunale: sì alla diagnosi preimpianto, tutelare il diritto alla salute
Sentenza a Cagliari che smonta un pezzo della legge 40
di Davide Madeddu


LA DIAGNOSI preimpianto si può fare. Il tribunale di Cagliari ha dato ragione ai due coniugi che per poter avere un bimbo avevano chiesto di poter eseguire la diagnosi preimpianto prima di procedere con la fecondazione in vitro. Dopo il diniego dei medici in applicazione del divieto imposto dalla legge 40 sulla fecondazione assistita avevano presentato ricorso prima alla Corte costituzionale poi al tribunale di Cagliari. Ieri mattina la sentenza che ha dato loro ragione. E Maria e Giuseppe, i nomi sono di fantasia, potranno andare avanti con la diagnosi preimpianto e la selezione dell’embrione non colpito da anemia mediterranea. Per l’avvocato della coppia, Luigi Concas, si «supera il problema della legittimità costituzionale», perché «riconosce essere la diagnosi preimpianto consentita sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata della legge 40» e privilegia «il diritto della donna alla salute». Gianni Monni, primario dell’ospedale Microcitemico di Cagliari, non nasconde la sua soddisfazione. «La sentenza scardina le linee e il sistema che stava funzionando - spiega - adesso la signora potrà andare avanti per avere un bimbo che non sia colpito da talassemia». Adesso il medico dovrà controllare lo stato dell’embrione, verificare se possa essere portatore di talassemia e, qualora fosse in buone condizioni, procedere all’impianto e alla gravidanza. «Alla luce di questa sentenza non possiamo che essere soddisfatti - prosegue Monni che proprio alla luce delle direttive della legge 40 aveva dovuto spegnere i macchinari all’avanguardia usati proprio contro la talassemia - la signora, che ha effettuato la fecondazione a Istanbul e oggi e alla trentesima settimana di gestazione, ha detto che dopo questa gravidanza vuole avere anche un altro bimbo». Non si fa attendere la reazione delle associazioni che si sono battute per modificare la legge 40. Per Filomena Gallo e Rocco Berardo, rispettivamente Presidente di Amica Cicogna e vice segretario Associazione Coscioni, la sentenza «è un importante passo in avanti rispetto al superamento delle attuali linee guida».

Corriere della Sera 25.9.07
Flamigni: ha vinto il buonsenso


ROMA — Professor Carlo Flamigni (foto) sarà contento, no?
«E' una sentenza ineccepibile dal punto di vista della logica e del buon senso. Questa donna saprà prima se l'embrione è malato e non sarà costretta a richiedere l'esame sul feto ed abortire. Io lo chiamo pragmatismo. Invece qui si continua a ragionare su basi ideologiche, folli».
Spera che la sentenza apra la strada ad iniziative parlamentari?
«Non ho speranze. Il coraggio manca completamente. Chiunque proponesse la modifica di questo punto della legge sulla diagnosi embrionale si attirerebbe impopolarità. Ora la priorità è non scontentare non dico Oltretevere, ma i cattolici della sinistra».
Lo dice lei, uomo di sinistra?
«Sono molto deluso da questo governo. Mostra un mortificante disinteresse verso la salute della gente e si preoccupa della salute psicologica del Vaticano».

l’Unità 25.9.07
Nel tempio laico e colorato di Rothko
di Stefano Miliani


ANTEPRIMA Una grande mostra nel rinnovato Palaexpo di Roma celebra il grande pittore ebreo americano. Le sue tele astratte, campite in fasce dai bordi nebulosi, nelle aste di tutto il mondo hanno toccato quotazioni da primato

«I dipinti di Rothko, enormi, calmi, con i loro rettangoli fluttuanti dove ogni traccia del caso è stata rimossa, hanno qualcosa di straordinariamente meditativo che sembra magico e misterioso. Quella profondità ha qualcosa di religioso». Sono parole pronunciate da Gerard Richter, pittore tedesco incline ad astrarre visioni e immagini, in un’intervista del 1997 a Mark Rosenthal e pubblicate nel catalogo stampato dalla National Gallery di Washington per una retrospettiva sul pittore delle vaste fasce sfrangiate e dai bordi nebulosi in giallo, rosso, arancione, come in blu, nero, viola, marrone…
La descrizione di Richter, uno dei maggiori artisti oggi in vita, inquadra bene alcuni fondamentali di Mark Rothko: la vastità, la profondità, il senso di mistero di tele astratte capaci di inondare di colori lo spazio e di sensazioni forti chi vi si pari davanti. Eppure il percorso dell’artista che alle aste internazionali raggiunge quote da capogiro (72,8 milioni di dollari da Sotheby’s il suo record) è ancora più complesso. Inizia con una figurazione stravolta negli anni Trenta, risente del surrealismo, conoscerà la gioia di tonalità calde e sensuali, approderà a timbri cupi e insondabili, ma mantenendo sempre - al di là delle apparenze - saldi agganci con la storia dell’arte e dell’umanità. Quei campi astratti dai colori caldi e freddi, magari inframezzati da brani di nero o strisce bianche, rispettano infatti ritmi e proporzioni precise secondo armonie nascoste eppure ben presenti, forti. Ma, soprattutto, le astrazioni di Rothko non sgorgano dal sogno di una presunta irraggiungibile purezza: nascono perché la tragedia della seconda guerra mondiale ha spazzato via ogni fiducia e per l’artista, ebreo, nulla poteva essere più come prima, tanto meno la pittura.
Questo lo si capisce bene ascoltando Oliver Wick, il curatore della prima grande retrospettiva italiana sull’artista successiva alla sua morte (si suicidò nel 1970 a New York) che il 6 ottobre riapre il ristrutturato Palazzo delle Esposizioni di Roma insieme a mostre su Stanley Kubrick e Mario Ceroli. E per il palaexpo capitolino Wick ha intessuto una retrospettiva che, sospetta, l’Europa non potrà vedere forse più per i costi proibitivi dell’allestimento: tra 70 dipinti, 40 opere su carta tra libri e album di schizzi, tante tele di Rothko si misurano infatti in termini di molti metri quadri e sono delicate per cui trasportarle ha costi altissimi di assicurazione né è l’operazione più semplice dell’universo.
Detto questo, Wick ha congegnato l’itinerario per sposarlo in qualche modo con lo spirito di Rothko, ovvero sia una religiosità laica per un uomo laico che non abbracciò alcuna fede religiosa: lo spazio nella navata centrale sotto la cupola resta vuoto, alle ali «quasi come cappelle» le varie sale tracciano il percorso di una vita. A partire dagli inizi figurativi, meno conosciuti: svetta l’unico autoritratto, del 1936, c’è la figura in piedi alla finestra del ’39 dove già si vede la suddivisione in fasce del quadro che diventerà un segno «rothkiano». Nella terza sala i dipinti dei primi anni 40 e l’eco, diciamo così, di un certo surrealismo biomorfo: «Rothko sente che l’arte arrivata fino ad allora non basta più a esprimere l’orrore - spiega il critico - e allora lui, appassionato studioso di Nietzsche, si rivolge al mito, alla caduta di Troia come metafora del crollo del mondo, studia il mito di Antigone, studia e rielabora, influenzato qui da Picasso, la figura mitologica ebrea di Lilith». Neppure questo soddisferà il suo senso del tragico. Così la rassegna romana documenta la «conversione» all’astrattismo pieno e totale a partire da importanti tele del ’48 e ’49 tra ondate di rosa e azzurro grigio per poi approdare, all’altro lato della «navata» del Palaexpo, ad altri capolavori: come un dipinto di 2 metri per 160 centimetri dal Guggenheim di New York, con una striscia nera tra il violetto, il giallo e l’arancio; come gli ampi «campi» di colore che valsero a Rothko l’iscrizione - da lui mai accettata - nel club del Color Field Painting (la pittura dei campi di colore appunto). «Aveva ragione lui - interviene Wick - C’è altro, nella sua pittura. C’è, soprattutto, una fortissima spinta etica: le sue superfici hanno proporzioni che rimandano, nei loro rapporti, alle proporzioni dell’uomo rinascimentale, quindi a un ideale di umanità che lui voleva recuperare attraverso l’arte». E quell’ideale artistico e in fondo umanistico non lo farà indietreggiare davanti «al terrore del mondo», un terrore forse ben esemplificato dagli ultimi quadri dove grandi neri sovrastano fino all’orizzonte oceani di grigio-tortora.

Repubblica 25.9.07
Cristo il Corano e il martire islamico
Al-Hallaj che volle essere come Cristo
di Pietro Citati


Fu uno dei più grandi spiriti religiosi del mondo musulmano e portò l´esperienza mistica fino all´estremo punto tragico: il martirio. Un libro ripropone ora i suoi pochi scritti
Il suo rapporto con Dio non passava attraverso le pagine del Corano suscitando scandalo in molti, ma era diretto, immediato, assoluto
Visitò più volte la Mecca Rimase un anno nel cortile interno della moschea, senza muoversi mai, mangiando e bevendo poco
Conobbe la fatica dei lunghi cammini, la promiscuità dei caravanserragli, la solitudine dei monti, la gioia del risveglio in paesi ignoti
A vent´anni lasciò all´improvviso il mondo, gli amici, i libri e si ritirò a vivere nel deserto in una piccola comunità di asceti

Nel Corano, Gesù non nasce nella mangiatoia di Betlemme, adorato dagli angeli e dai pastori, come nei Vangeli. Maria lo partorisce sotto una palma. Quando invoca: «Se fossi morta prima, se fossi una cosa dimenticata», una Voce la chiama: «Non rattristarti, il Signore ha fatto sgorgare un ruscello ai tuoi piedi: scuoti verso di te il tronco della palma, che farà cadere datteri freschi e maturi». Gesù è un bambino miracoloso, che appena nato dice alla sua gente: «In verità io sono il Servo di Dio, il quale mi ha dato il Libro e mi ha fatto profeta, e m´ha prescritto la preghiera e l´elemosina finché sarò in vita, e m´ha fatto dolce con mia madre». Plasma col fango una figura d´uccello, vi soffia sopra, trasformandola in un uccello vivente – una delle migliaia di figure celestiali che popolano l´universo e ricoprono con le ali il tappeto di Salomone. Dopo la nascita, fare miracoli diventa il suo segno: il miracolo del cieco nato, del lebbroso, la resurrezione dei morti, l´ultima cena.
Tra i profeti, Gesù è il messaggero supremo, quello più prossimo a Dio e circondato da un´immensa venerazione. Parla con Dio: viene confermato da lui con lo Spirito di Santità: conosce il Libro, la Saggezza, la Torah e il Vangelo; dichiara lecite alcune cose proibite della tradizione ebraica. Infine, annuncia il messaggero definitivo: Ahmad, Maometto. Ma il rapporto di identità con Dio, proclamato dai Vangeli, viene abolito: Dio è l´Unico, come non accade nella tradizione cristiana: Egli conosce tutto ciò che vive nel cuore di Gesù, mentre Gesù ignora gli arcani supremi: Gesù non è il figlio incarnato, ma soltanto il Verbo, uno spirito venerato, il messaggero amatissimo. Sulla Croce, lo sostituisce un doppio, come raccontavano gli gnostici e i manichei. Alla fine viene innalzato da Dio in un luogo misterioso, dal quale scenderà alla fine dei tempi, per distruggere la corruzione diffusa dall´Anticristo.

Le diverse tradizioni spirituali dell´Islam risalgono ai diversi profeti; e tutte passano attraverso Maometto, che ricapitola in sé ogni rivelazione. Tra i profeti, Gesù possiede «la scienza delle lettere»: la parola che insuffla la vita, dà esistenza alle idee, esprime l´inespresso, manifesta l´occulto. Se l´universo è formato da due dimensioni, la lunghezza e la larghezza, che rappresentano lo spirito e la natura, l´invisibile e il sensibile, Gesù unisce le due dimensioni, formando la Croce, dove lo spirito divino scende dall´alto incontrando la natura creata. Così «la divinità splendente» appare nel mondo «sotto forma d´uno che mangia e che beve»: una formulazione singolarmente vicina a quelle della teologia cristiana.
Ancora popolarissimo nell´Islam d´oggi, Al-Husayn ibn Mansur al-Hallaj incarna la componente «cristica» dell´Islam. Egli è uno dei più grandi spiriti religiosi del mondo musulmano, e porta l´esperienza mistica fino all´estremo punto tragico, dove diventa martirio, sangue, cenere sparsa sulle acque. Nella collezione Islamica (Il Cristo dell´Islam, Mondadori, pagg. XXXII-168, euro 15, da domani in libreria), Alberto Ventura raccoglie con grande intelligenza i pochi scritti di al-Hallaj sopravvissuti alla distruzione: il meraviglioso Canzoniere, pieno di lampi, di folgorazioni, di fratture, di scarti, di ardue allusioni: il Libro dei Tawasin e i Detti ispirati.
***
Attorno all´857 dopo Cristo, al-Hallaj nacque vicino a Persepoli. Il nonno aveva ancora venerato gli dèi di Zarathustra. Il padre faceva il cardatore di cotone; e il figlio venne chiamato cardatore di segreti, perché districava i nodi più profondi della coscienza umana. Aveva dei capelli biondo-rossi, e una carnagione bianchissima. «Un bianco di pelle», scrisse un poeta, «che chiede pioggia alle nuvole, soccorsi per gli orfani, protezione per le vedove». Salutava per primo i passanti, e, se incontrava qualche amico o compagno, prendeva le mani dell´altro, chiudendole e stringendole fra le sue, come fosse dominato da un incontenibile ardore di gentilezza. Gli amici restavano attratti dal calore di quello slancio: ma nessuno osava ricambiarlo, perché ognuno sentiva che i pensieri di al-Hallaj abitavano molto lontano, in un luogo dove era impossibile penetrare. Tornato a casa, al-Hallaj scriveva: «I compagni che frequento sono, per me, altrettanti veli. Che parli poco o molto, parlo solo a me stesso. Perché cercare un interlocutore?» Così, abbandonati gli amici, le compagnie, le frequentazioni del mondo, si chiudeva in una piccola stanza, insieme ai suoi libri, ai quali confidava i propri dolori, i propri sogni, i presentimenti ancora confusi del suo destino tremendo.
Quando andava a letto, non poteva dormire. Cercava di cacciare dalla mente le idee che la gremivano: ma appena ne aveva cacciata una, dieci altre la invadevano, e infuriavano dentro di lui come una tempesta di neve. Qualche volta veniva assalito dall´angoscia. A cosa servivano tutti i libri ai quali aveva consacrato la sua esistenza? A cosa servivano i pensieri lontani e le riflessioni vertiginose tra cui rischiava di perdersi? Intorno a lui si estendeva un paese gelido e vuoto, dove si sentiva straniero. Mentre la notte stava per finire, avvertiva dentro di sé un´ebbrezza che lo spingeva oltre ogni limite. In quei momenti capiva che non avrebbe mai conosciuto riposo. Il suo destino era quello di avanzare sempre più lontano, oltre i confini dove gli uomini amano rinchiudersi per saggezza o per pigrizia. In quel punto regnava qualcosa di terribile e di oscuro, col quale sarebbe presto venuto alle prese. Il più giovane dei suoi amici lo capì meglio di tutti: «Di quale fuoco, di quale splendore spirituale», egli scrisse, «brilla al-Hallaj! Non ho mai incontrato nessuno che gli assomigli. Ma temo per lui l´eccesso della sua foga. Temo che il suo ardore diventi la causa della sua perdita».
A vent´anni lasciò all´improvviso il mondo, gli amici, i libri, e si ritirò a vivere nel deserto salato, in una piccola comunità di asceti. Nell´Islam trionfante del IX secolo, questi eremiti rinnovavano lo scandalo della Tebaide cristiana. Al-Hallaj scelse un maestro, che aveva trascorso anche lui la giovinezza tra i libri. Gli chiese consiglio. «Se ti ritirerai in un luogo dove nessuno ti veda e dal quale non vedrai nessuno», il maestro rispose, «troverai una grande felicità. Io sono grato a colui che non mi saluta quando mi incontra, o che non chiede mie notizie quando sono ammalato. Appena giunge la notte, sono felice della solitudine: sono felice di non vedere i visi degli uomini, e di non udire le loro parole». Al-Hallaj domandò ancora: «Come hai potuto trovare l´Altissimo?» «Non devi pensarci», rispose il maestro; «Quando Dio ti avrà scelto, ti possederà con violenza, ti ridurrà in polvere, ti ucciderà, ti seppellirà. E poi, se egli vorrà, ti risusciterà a nuova vita».
Incominciò a viaggiare. Conobbe la fatica dei lunghi cammini, la promiscuità dei caravanserragli, la solitudine tra le montagne, la gioia del risveglio tra i paesi ignoti, la bellezza dei tramonti sugli altopiani. Viaggiò nel Turkestan e in India, insieme alle carovane che portavano verso Oriente i tessuti di Persia, e a Baghdad la seta e la carta di Cina. Attraversò il Mar Rosso con le esili navi delle popolazioni costiere, che innalzavano al vento vele fabbricate con foglie di palma: insieme a centinaia di pellegrini, ammucchiati gli uni sugli altri, senza cibo e quasi senz´acqua. Molti gli attribuirono miracoli. Aveva evocato dal nulla dei piatti di montone arrostito: dei datteri; e un boccale di vetro pieno di confetti, giunto da un paese dello Yemen. Qualcuno pensò che fosse uno stregone, e che un gruppo di demoni eseguisse i suoi desideri.
In Siria e nel Libano, scorse migliaia di colonne, la maggior parte a terra, infrante dal tempo o frantumate dalla mano dell´uomo. Poi scese in Palestina. Molte tombe erano scavate nel fianco delle montagne, e il popolo indicava il luogo dove erano stato sepolti i corpi di Abramo e di Sara, di Giobbe e dei suoi figli, di Isacco e di sua moglie, di Giuseppe e dei suoi fratelli, di Esaù, di Simeone, di Esdra, di Jetro. Quando giunse a Gerusalemme, senza un albero verde, visitò la moschea, la grande pianura dove avranno luogo la resurrezione della carne e l´ultimo Giudizio, e si mescolò alla folla venuta a finirvi i suoi giorni. Con la devozione del pellegrino, contemplò i luoghi consacrati dalla Bibbia. Si fermò a lungo nella moschea sotterranea. Secondo una tradizione islamica, là era nato Gesù e si trovava la sua culla di pietra. Sopra un pilastro, osservò l´impronta di due dita, come se qualcuno avesse afferrato con forza il marmo. Un pellegrino gli disse che Maria vi aveva posato le mani durante il parto.
Visitò più volte la Mecca. Rimase un anno nel cortile interno della moschea, senza muoversi mai. Non badava alla pioggia: stava seduto al sole nelle ore più calde mentre il sudore gli colava da tutto il corpo; beveva due sorsi d´acqua e mangiava due bocconi di gallette al giorno, come il più selvaggio tra gli asceti cristiani. Qualcuno disse: «Vedrai cosa succederà a quell´uomo. Dio l´affliggerà con una sofferenza tale, che non potrà sopportarla. Sta seduto là, nella sua follia, a rivaleggiare in costanza con Dio». Mentre egli sfidava Dio, i fedeli baciavano la pietra sacra della Ka´ba, nera quanto il velluto più scuro e il carbone, dove brillavano dei piccoli cristalli rossastri: la pietra che Adamo aveva trafugato dal Paradiso.
Mentre i pellegrini si affollavano, al-Hallaj non penetrò mai nella Ka´ba, come se avesse cancellato dalla memoria il desiderio che l´aveva spinto alla Mecca.
***
Dopo l´ultimo pellegrinaggio alla Mecca, al-Hallaj si trasferì con la moglie e i figli a Baghdad, abitando una casa sulla riva occidentale del Tigri, che trasformò in un luogo di riunione. Era fermo, sicuro di sé, deciso a percorrere sino alla fine la strada che gli era stata segnata. Predicava nelle moschee, nei mercati, nelle piazze, nei piccoli vicoli della città tumultuosa. Parlava ai visir, ai filosofi, ai generali, al popolo di mercantucci, di artigiani e di contadini inurbati che gremivano Baghdad come una ronzante arnia di api. Con un gesto interiore, distrusse la barriera di freddezza intellettuale che lo aveva tenuto lontano dagli uomini. Il suo discorso era insieme ragionato e spontaneo, dialettico e vibrante, lirico e grottesco: usciva dalle ultime profondità della mente, si nutriva di una cultura ricchissima e toccava gli incolti e gli indotti. Qualcuno disse che, mentre ascoltava al-Hallaj, si sentiva folgorato da una luce quasi intollerabile: ma appena egli si allontanava, gli sembrava di essere gettato tra onde di pensieri che lo sconvolgevano. La notte, al-Hallaj lasciava la città, e si nascondeva a meditare e a pregare in un angolo del cimitero di Quraysch, chiamato «le tombe dei martiri».
Vivere accanto a Dio era una condizione terribile. Non conosceva mai la beatitudine continua. Tutto era vagabondaggio, deserto, esilio, desolazione, insonnia, solitudine, silenzio, battito forsennato del cuore, violazione, infamia, sangue sparso, morte. Appena entrava nella valle dell´Amore, aveva l´impressione di tuffarsi nel fuoco. Se era immerso nell´amore di Dio, sentiva dentro di sé una fiamma ardentissima, e temeva che il fuoco si comunicasse al cuore e lo distruggesse. Spesso era incapace di tollerare quella violenza; e chiedeva a un amico di parlargli e di distrarlo, allontanandolo dalla famigliarità con il Signore. Non aveva mai sofferto tanto. Eppure, si accorse che soltanto il dolore gli dava pace. La sofferenza gli rivelava Dio in modo molto più immediato della felicità: perché la felicità discende da Lui, come un soffio di vento dal cielo, mentre la sofferenza è Lui.
Ai discepoli raccontava volentieri un apologo. Una notte le farfalle si riunirono, tormentate dal desiderio di conoscere la candela e di unirsi alla sua fiamma. Dissero: «Bisogna che qualcuna di noi ci dia notizie intorno alla meta della nostra ricerca amorosa». Una farfalla andò fino a un castello sulle montagne, e scorse una candela ardere dietro le finestre. Quando tornò, descrisse la bianca forma che si stava consumando, lo stoppino acceso, la fiamma nera e rossastra, la luce che proiettava, la paurosa zona d´ombra intorno alla luce. Ma la vecchia farfalla che presiedeva la riunione sostenne che l´esploratrice non sapeva nulla della candela. Un´altra partì per il castello, trovò una finestra aperta, volò nella stanza, batté le ali nella tiepida luce. Al ritorno, parlò con voce esaltata ed entusiasta, ma la vecchia farfalla le disse: «La tua spiegazione non è più precisa di quella della tua compagna». Finalmente si levò una terza farfalla. Attraverso la finestra aperta, penetrò nella stanza e andò a giocare con la grazia del fuoco. Non comprendeva la natura della luce né quella del calore: non capiva perché la candela ardesse e si consumasse; e si precipitò violentemente nella fiamma, tendendo le zampe anteriori. Le sue membra arsero completamente. Essa si consumò, si volatilizzò, rimase senza lineamenti, senza figura, senza corpo, senza persona, senza nome, senza segni riconoscibili. Le compagne la attesero invano. Quando la vecchia farfalla vide che la candela aveva bruciato la terza messaggera, disse: «Ha appreso ciò che voleva sapere: ma lei sola lo conosce e lo comprende». Al-Hallaj commentava: «Anch´io sono come quella farfalla. Mi brucio nel fuoco di Dio, ma non lo conosco e non lo comprendo, così come non conosco me stesso».
Il suo rapporto con Dio non passava attraverso le pagine del Corano: ciò che suscitò scandalo in molti; era diretto, immediato. Egli non cercava, come i cristiani, figure intermediarie: Gesù, Maria, lo Spirito Santo: voleva raggiungere l´Unico - «solo con Lui stesso». Dio parlava senza voce, senza rumore di parole, senza vocali, senza consonanti, persino senza musica. Irrompeva dentro di lui con tocchi improvvisi e folgoranti, con dolori intensissimi e insopportabili, con pensieri seguiti da sguardi, che lo sollecitavano ad andare ancora più oltre, a denudarsi ancora più profondamente, per raggiungere il luogo dove Egli lo aspettava. Questi tocchi duravano un istante, venivano cancellati e poi riprendevano, sino a lasciarlo senza respiro. Poteva parlare di istanti? In quei baleni di luce e di tenebre, gli pareva di essere immerso nel mare della grazia di Dio. Ogni istante era una goccia d´eternità, distillata soltanto per lui. Poteva lasciare sulla carta soltanto un cenno velatissimo, un´allusione quasi inesplicabile alla sua esperienza. Diceva: «Chi anela alla conoscenza rinuncia ad essa, chi rinuncia ad essa se ne esilia, chi se ne esilia la vede sorgere mentre declina e declinare mentre sorge».
Come nell´apologo, la farfalla cercava l´unione con Dio. «Il Tuo spirito - scriveva - si è impastato col mio, come l´ambra col muschio. Se qualcosa Ti tocca, mi tocca: non c´è più differenza, perché Tu sei me». «Nel mio occhio la Tua immagine, nella mia bocca la Tua menzione, nel mio cuore la Tua dimora». Molti fedeli scorgevano in queste parole l´empietà suprema. Come è possibile che un uomo - quest´essere di carne, questo peccatore confuso, questa goccia di tenebra - proclami di essere identico a Dio? Ma al-Hallaj portava il paradosso all´estremo per confutarlo. Dio era l´Unico, e nessuno poteva confondersi e mischiarsi con lui. C´era solo un modo per identificarsi con Dio. Se in Cristo il divino si era incarnato nell´umano, al-Hallaj, al contrario di Cristo, doveva annullarsi come uomo, scomparendo come un´ombra, un fantasma, un granello di cenere. Solo allora pronunciava la frase scandalosa: «Io sono il Vero». In lui parlava soltanto la Voce senza voce: l´Unico, l´Eterno, il Vero, senza nemmeno una lontana eco della musica terrena.
***
Una notte, un discepolo di al-Hallaj andò al cimitero di Baghdad, per pregare sulla tomba di un martire. La luna illuminava ogni angolo del cimitero. Da lontano, vide un uomo in piedi, che pregava col viso rivolto alla Mecca. Era al-Hallaj. Piangeva e diceva: «La tua testimonianza è la giustizia, senza che tu ti giustifichi: la tua testimonianza è la nostra dannazione, senza che tu ti allontani; la tua assenza è il velo imposto sul nome, senza che tu parta. Ti supplico, per riguardo alla prossimità sacra che fai discendere sopra di me: ti supplico, non restituirmi a me stesso, dopo avermi rapito a me stesso. Non mostrarmi la mia anima, ora che me l´hai sottratta. Moltiplica il numero dei miei nemici nelle tue città, e di coloro che chiedono la mia morte tra i tuoi fedeli». In quel momento al-Hallaj interruppe la preghiera, si voltò, e scorse il discepolo sotto il chiaro di luna. I suoi occhi iniettati di sangue brillavano come carboni ardenti. Gettò tre gridi, cadde al suolo con la bocca schiumante, e con la mano fece cenno al discepolo di andarsene. La mattina dopo, il discepolo incontrò il maestro in una moschea. Al-Hallaj lo prese per mano, lo trascinò in un angolo e gli disse: «In nome di Dio! Non dire a nessuno le parole che ieri hai ascoltato da me».
Non conservò a lungo il proprio segreto. Qualche mese dopo, girava nelle moschee di Baghdad, dove si raccoglieva la folla dei suoi amici e dei suoi nemici, gridando: «Sappiate che Dio ha reso il mio sangue lecito per voi. Uccidetemi! Uccidetemi dunque, amici miei, la mia vita è la morte, e la morte è la mia vita. Io sento che la mia cancellazione è il più nobile dono che possiate farmi». Al-Hallaj voleva morire. Voleva consumarsi d´amore, come la farfalla si precipita nella fiamma della candela, arde, si volatilizza, resta senza lineamenti, senza figura, senza nome. Voleva essere messo in croce, come Cristo. Mentre era vivo, Dio gli parlava con poche parole silenziose o con qualche balbettio informe, che spesso egli non riusciva ad intendere; e i tocchi dolorosi, attraverso i quali egli sentiva la presenza divina nel cuore, gli sembravano separati da intervalli lunghi come millenni. Se avesse offerto il proprio corpo in olocausto, Dio avrebbe abitato stabilmente nella camera del suo cuore, diventando l´anima della sua anima.
Si sentiva colpevole. Malgrado la proibizione della legge, aveva rivelato agli uomini il segreto dell´unione con Dio: come l´eterno possa scendere nel tempo, il creatore nel creato, il necessario tra le cose non necessarie. Facendo così, obbediva al proprio destino. Ma pensava di aver commesso la più grave delle colpe perché aveva varcato un limite; e si era addentrato troppo lontano sulla strada impossibile che conduce verso il Signore. Per questo doveva essere ucciso. Un giorno, un discepolo entrò da lui. Al-Hallaj era stranamente calmo: la sua voce era bassa e lieve, senza gli ardori che lo accendevano negli ultimi tempi; «Caro figlio», disse, «certuni testimoniano a favore della mia santità, altri dicono che sono un empio. Ora quelli che parlano della mia empietà mi sono più cari, e sono più cari al Signore, di quanti sostengono che io sono un santo». «Perché, maestro?» chiese il discepolo. «Quelli che mi dicono santo» egli rispose, «lo fanno perché pensano bene di me: quanti mi dichiarano empio, lo fanno per zelo del loro culto. Ora chi ama il suo culto mi è più caro, ed è più caro a Dio, di chi stima una creatura come io sono».
Nel 913, al-Hallaj fu processato da un tribunale, che lo accusò di aver predicato al popolo di essere Dio. Gli aguzzini gli tagliarono la barba bianca e lo legarono alla gogna, mentre un banditore pubblico annunciava: «Ecco un eretico, venite a guardarlo». Dapprima venne rinchiuso nel carcere dei delinquenti comuni, e incatenato dalla nuca ai talloni. Alla fine, venne assolto. Ma per nove anni fu trattenuto nel palazzo come un sorvegliato speciale: rinchiuso in una cella separata, dove poteva ricevere visite. Attratti dalla sua fama, i grandi della corte andarono a trovarlo, e ognuno di loro chiedeva il dono di una parola, la grazia di una preghiera. La leggenda racconta che al-Hallaj liberava gli altri prigionieri con un semplice cenno delle dita, faceva aprire miracolosamente le porte del carcere e, se veniva torturato, la voce di Dio lo confortava. Durante questi anni, lo spirito di al-Hallaj oscillò tra la certezza e la disperazione. Pregava per ore intere, chinando la guancia a terra e piangendo, fino a quando il suolo era umido delle sue lacrime.
Nel marzo del 922, fu condannato a morte. La notte prima del martirio, implorò a lungo, avvolto nel suo mantello, con le mani rivolte verso la Mecca, e sembrava voler allontanare da sé il calice che aveva desiderato. «Eccomi», disse, «per servirti da testimonio. Nella tua grazia, io cerco rifugio. Nello splendore eterno della tua gloria, io cerco la chiarità: perché tu faccia apparire finalmente quello che vuoi. Tu hai preso la mia essenza perché ti serva da simbolo. Tu mi hai elevato fino al trono della tua eternità. Come è possibile, dunque, che io stia per essere portato a morte? Che io stia per essere messo in croce, e che le mie ceneri vengano abbandonate ai venti dei fiumi?» Tacque, e si distese a terra dentro il mantello, ripetendo: «Illusione, illusione!» Appena l´alba cominciò a imbiancare le mura della sua cella, si riscosse, gridò: «Verità, verità!», e si alzò in piedi per aspettare i carnefici.
Tutti i dubbi e le angosce lo avevano abbandonato. Attendeva la decapitazione e il rogo come chi attende il compimento della propria missione. Quando i carnefici lo condussero sul piazzale della prefettura, qualche discepolo lo seguiva. Erano incerti e impauriti, e al-Hallaj li confortò. «Non turbatevi» disse loro. «Ritornerò in mezzo a voi tra trenta giorni, come il Cristo». Sebbene fosse legato e incatenato, danzava di giubilo. Sorrideva di gioia, e il viso, segnato dai pensieri e dalle sofferenze degli ultimi anni, aveva ritrovato la luce della giovinezza. «O maestro», gli chiese un discepolo, «da dove viene la tua letizia?» «E´ la civetteria della bellezza divina, che attrae a sé la gente dell´unione d´amore». Ritornò grave: «Tu hai nascosto alla vista di tutti gli altri le fiamme del tuo volto», pregò. «Tu hai interdetto a tutti gli altri di gettare lo sguardo sulle cose nascoste nel tuo mistero. Accordami dunque il dono di ringraziarti. Gloria a te in quello che fai, gloria a te per quello che vuoi».
Alla fine della preghiera, si intrattenne col Signore in silenzio. Il capo dei carnefici si avvicinò e lo schiaffeggiò così forte, che il sangue macchiò quel viso troppo bianco, «che aveva chiesto pioggia alle nuvole, protezione per gli orfani». Lo flagellarono, gli tagliarono le mani e i piedi, lo misero sulla croce. Rimase lassù tutta la notte, vegliato da poche guardie e dagli ultimi, timorosi discepoli. La mattina dopo, sulla piazza, si adunò una folla immensa. Mentre lo calavano dalla croce, al-Hallaj gridò con voce altissima: «Quello che conta, per l´amante, è l´Unico - solo con lui stesso». Poi mormorò i versetti del Corano: «Coloro che non credono all´ora ultima la sollecitano, mentre quelli che credono hanno timore, perché sanno che è vera». Furono le sue ultime parole. Il carnefice lo decapitò: la testa rimase esposta per due ore, in mezzo alle mani e ai piedi tagliati; poi tutto quello che restava di al-Hallaj venne gettato nel fuoco, dove il tronco si torceva e guizzava, come se fosse ancora vivo. Le ceneri furono portate su un minareto, perché il vento le disperdesse. Quando si depositarono sul Tigri - racconta la leggenda - galleggiarono e assunsero la forma della parola Allah.
Dopo la condanna, i suoi numerosi scritti, accusati di eresia cristiana, furono dispersi: ma i discepoli e gli eredi, che ne prolungarono per secoli l´insegnamento, ne raccolsero frammenti e citazioni. Le sue parole vennero tramandate. I mistici islamici si riconobbero in lui: le corporazioni artigiane lo assunsero come patrono. Quanto ai seguaci più vicini, che attesero invano il suo ritorno, lo riconobbero come il nuovo Gesù Cristo, che aveva realizzato sul patibolo le estreme verità dell´amore.

Repubblica 25.9.07
Rifondazione: "Colpiamo i ricchi tassa sulle rendite al 20 per cento"
di Roberto Pietrini


ROMA - «E´ tempo di colpire i ricchi». A ridosso del vertice di maggioranza, previsto per domani, la sinistra radicale va all´attacco e chiede, attraverso il ministro di Rifondazione, Paolo Ferrero (Politiche sociali) di inserire in Finanziaria il provvedimento che eleva al 20 per cento la tassazione sui redditi da capitale, con una franchigia di 150 mila euro per i piccoli patrimoni. La sortita segue il manifesto dei 18 punti presentato dai quattro leader dell´ala sinistra della maggioranza a Prodi nei giorni scorsi, dove si sollevava il medesimo tema, e riecheggia il manifesto presentato lo scorso autunno che recitava: «Anche i ricchi piangano». Ferrero ha ricordato che dal 1983 ad oggi 150 miliardi di euro si sono spostati dai salari alle rendite e ai profitti. A dar man forte al pressing sono giunte le dichiarazioni del sottosegretario all´Economia Alfiero Grandi: con la tassazione delle rendite, escludendo l´intervento sui Bot - ha detto - si potrebbe raggranellare circa 1 miliardo. Anche se Grandi si è mostrato scettico sull´ipotesi che il provvedimento possa entrare in finanziaria: «Se ne sta parlando ma che si riesca a farlo è più complicato», ha dichiarato.
Un monito al rigore è giunto ieri dal viceministro dell´Economia Vincenzo Visco. «Non possiamo esaudire tutte le richieste», ha detto e ha aggiunto: «Chi pensa che le richieste di ministri, enti locali, comuni, regioni, e di chiunque passi a Piazza Colonna possano essere tutte soddisfatte, si sbaglia di grosso». Visco ha tuttavia assicurato che la Finanziaria sarà un provvedimento «equilibrato» e che bisogna tentare «la massima riduzione della spesa pubblica, senza toccare i diritti acquisiti e qualche taglio all´imposizione fiscale».
Sul piano delle misure si continua a lavorare al pacchetto fiscale e alle coperture (mancano ancora un paio di miliardi) mentre per oggi è previsto un vertice con le Regioni: la Finanziaria si conferma di 10 più 7,5 del decreto, con un «impatto» complessivo sull´economia di circa 18 miliardi. Si confermano gli interventi su Ici prima casa e una pari detrazione per chi è in affitto con contratto registrato, Ires al 28 per cento con anticipo a novembre, forfait per micro imprese. Ancora si discute se introdurre anche un primo intervento su detrazioni e assegni familiari per i redditi più bassi.
L´attenzione si focalizza anche sul Mezzogiorno: ieri in un convegno il ministro per lo Sviluppo Bersani ha parlato di un «impegno formidabile» per il Mezzogiorno e ha annunciato «meno incentivi e più investimenti pubblici». Il ministro dell´Interno Giuliano Amato ha invitato a «spendere bene» i soldi per il Sud.
Infine il Welfare: il ministro del Lavoro Damiano ha ribadito che il protocollo di luglio sulle pensioni finirà in Finanziaria «così com´è».

Repubblica 25.9.07
L'allarme dei ginecologi
Ragazze italiane, no contraccettivi per una sue due


BERLINO - Le donne italiane fanno sesso senza precauzioni, rischiando in gravidanze indesiderate e salute. Non solo arrivano impreparate alla prima volta (una su tre non usa alcun metodo anticoncezionale quando incontra il sesso verso i 17 anni) ma anche negli anni seguenti sembra prediligere il rischio, l´improvvisazione, la casualità. Il 30% continua infatti a sfidare la sorte, senza utilizzare alcun metodo contraccettivo o facendo affidamento sul coito interrotto (20%). In pratica, solo una ragazza su due usa metodi sicuri ed efficaci.
Questi i risultati più allarmanti del sondaggio "Io e il sesso" promosso dalla Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia (Sigo), presentati a Berlino, scelta come capitale della Prima Giornata Mondiale della Contraccezione, che si celebrerà oggi in tutto il pianeta.
«La fotografia che abbiamo scattato non è per nulla confortante. E ci spinge a insistere nella battaglia di informazione ed educazione sessuale che stiamo portando avanti in questi anni con la campagna "Scegli Tu" - commenta il professor Emilio Arisi, Direttore dell´Ostetricia e Ginecologia del Santa Chiara di Trento e Consigliere Nazionale del Sigo. Oltre 1.100 le ragazze che hanno acconsentito a rispondere alle domande. Il 90% ha già avuto rapporti e l´età media della prima volta è 17 anni. Sesso è ancora uguale ad amore per 6 ragazze su 10 ma solo il 2% è contrario ai rapporti prematrimoniali. La maggioranza vive un rapporto stabile e la mamma rimane la prima persona a cui si rivolgerebbero in caso di una gravidanza inattesa. Si ritengono ben informate ma molte dichiarano una cultura "fai da te" (46% dei casi). Il 20% delle ragazze considera il coito interrotto come un metodo affidabile e lo sceglie.

Repubblica 25.9.07
Matrimonio straniero
Erano il 3%, oggi sono il 10, nessun Paese in Europa ha avuto un boom così
di Paolo Rumiz e Vladimiri Polchi


(...)

Il record delle nuove unioni è in Emilia Romagna. E se gli uomini preferiscono le donne venute dall´Est le italiane scelgono invece marocchini e tunisini. Funzionano? Mediamente sì, ma in caso di divorzio la conflittualità aumenta

"Giovane, romena, residente nel Nord Italia, cerca anima gemella". Ecco un annuncio con alte probabilità di successo: in Italia è infatti boom di matrimoni misti (soprattutto al settentrione) e il 25% degli uomini che cercano moglie oltre confine, prediligono le romene.
Alle nozze tra coniugi stranieri l´ultimo numero di Reset in edicola dedica due studi. Il fenomeno è in crescita: erano meno del 5% del totale a metà anni Novanta, oggi sono oltre il 10% (e i bambini con almeno un genitore straniero sono passati dal 2% al 13%). Non c´è dunque da stupirsi se l´acquisto della cittadinanza italiana avviene nell´85% dei casi proprio grazie al matrimonio. Oltre alle nozze, bisognerebbe poi considerare le coppie di fatto con almeno un partner straniero (sarebbero oltre 600mila). «Secondo l´ultimo dato disponibile dell´Istat per il 2005 - scrive il demografo Alessandro Rosina su Reset - le unioni coniugali tra italiani e stranieri ammontano a 23.500, il 10% del totale (contro oltre il 15% della Francia). Negli ultimi anni il fenomeno è cresciuto molto più rapidamente nel nostro Paese che altrove, nel giro di poco più di dieci anni i matrimoni misti sono triplicati» anche se con un´incidenza maggiore al Centro-Nord (e record in Emilia Romagna). «Nei confronti dei cugini d´oltralpe - prosegue Rosina - è interessante notare che da noi a essere più bassa è soprattutto la quota di donne che sposano uno straniero. Su 100 matrimoni misti, in Francia lo sposo è autoctono nel 56% dei casi, in Italia lo è in quasi l´80%». Non solo. «La differenza d´età tra coniugi è molto bassa nei matrimoni misti con sposa italiana, mentre è molto ampia (circa 8 anni) nelle unioni con sposo italiano». Tradotto: l´uomo sposa donne straniere molto più giovani di lui.
Differenti anche i Paesi d´origine degli sposi. In quasi 1 caso su 4 gli uomini italiani che nel 2005 hanno formato un´unione coniugale mista, hanno sposato una romena. Con la stessa frequenza (circa il 25%) le donne italiane hanno invece scelto un nordafricano. «Ciò è in parte spiegato dal fatto che è molto forte la prevalenza delle donne nei flussi da Romania, Ucraina e Polonia mentre è netta l´eccedenza maschile per chi arriva da Marocco e Tunisia». Esistono poi comunità più chiuse di altre: in quella cinese ci si sposa tra connazionali nell´85% dei casi.
Quanto sono stabili le coppie miste? «Gli costituiscono circa il 10% delle separazioni totali». Ma quello che conta è «che i dati sui procedimenti di separazione con rito contenzioso segnalano un tasso di conflittualità maggiore per le coppie miste: vi ricorre il 16%, contro il 12% delle coppie con coniugi italiani. Cruciale - secondo Rosina - è la questione dei figli». Non mancano insomma le difficoltà. «Il lavoro transculturale di una famiglia mista - conferma la sociologa Chiara Saraceno, nel secondo studio pubblicato su Reset - per certi versi non finisce mai». Ci sarebbe inoltre una "demografia della secolarizzazione": «Quanto più una società è multi-religiosa e quanto più aumenta il numero dei matrimoni misti, tanto più diviene secolarizzata. Si può quindi comprendere - conclude la sociologa - come mai le religioni forti siano ostili ai matrimoni interreligiosi».

Repubblica 25.9.07
Sit in davanti alla Maya Desnuda di Goya a Madrid contro chi non consente di nutrire i neonati in pubblico
"Vietato allattare" le mamme in rivolta
di Cristina Nadotti


Il seno della Maya Desnuda sì, quello della mamma che allatta, no. Il 7 agosto Cindy Piccard si è messa ad allattare il figlio di sei mesi nella sala del museo madrileno del Prado dove è esposto il quadro di Francisco Goya ed è stata allontanata da un sorvegliante. «Non può allattare qui, deve andare nella caffetteria o alla toilette», ha detto l´uomo alla donna, che voleva acquietare il bambino e continuare a guardare i quadri. Domenica scorsa Cindy è tornata al museo del Prado con una ventina di mamme, tutte con i figli in braccio. Si sono sedute sui divanetti della sala 16B e hanno allattato i bambini in mezzo ai tanti visitatori domenicali.
Questa volta nessuno si è avvicinato per invitare le donne ad andare altrove, nonostante in precedenza a Cindy fosse arrivata una lettera della direzione del Museo, con la quale la struttura giustificava il comportamento del sorvegliante e rendeva noto che presto al Prado sarà messa a disposizione delle madri una stanza dove allattare i figli in tranquillità. «Non è questo il punto - ha detto Cindy Piccard per spiegare la protesta di domenica - non serve soltanto uno spazio dedicato alle madri, serve una diversa considerazione del gesto. Vogliamo che mostrare il seno per allattare i nostri figli sia considerato normale».
In Spagna, come in Italia, negli Stati Uniti e nella maggior parte dei paesi europei, non c´è una legge che impedisce di scoprire il seno in pubblico per allattare, tuttavia molte donne si sentono a disagio e sono talvolta invitate o costrette a nascondersi quando devono occuparsi dei figli. Nel novembre 2006 a Dallas, in Texas, una donna americana fu fatta scendere da un aereo quando rifiutò di nascondersi sotto una coperta per offrire il seno al bambino. Ne seguì un´azione legale e numerose proteste con sessioni di allattamento collettive negli aeroporti di tutti gli Stati Uniti. Lo scorso febbraio a Roma la proprietaria di un bar si è messa a urlare «Qui certe cose non sono permesse!» e ha cacciato dal locale una donna che, mentre faceva colazione come tutte le mattine, si era fermata al tavolino anche per allattare il bambino che nel frattempo si era messo a piangere.
La gente reagisce in modo negativo a un seno scoperto per paura, secondo i sociologi. «Si tratta di reazioni sessuofobiche - è la spiegazione di Enrico Pugliese, dell´Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali - per cui un seno nudo è visto come richiamo sessuale». Colpa però anche della confusione generata nella gente dalle tante teorie per il corretto allevamento dei bambini, che spesso si sono sostituite alla tradizione, al buon senso materno: «Nella società moderna spesso è prevalsa la teoria per cui del neonato si deve prendere cura la collettività più che la madre come individuo - continua Pugliese - Non a caso uno dei paesi dove più numerosi sono i casi di discriminazione delle donne che allattano sono gli Stati Uniti. Qui, a una società in cui l´elemento puritano è molto presente si sono aggiunte teorie sulla cura dell´infanzia volubili e cicliche».
Nessuno discute più sul fatto che allattare al seno sia preferibile e consigliato, eppure farlo in pubblico è difficile. Non ci sono neanche precauzioni igieniche a sconsigliarlo: «I microbi che possono arrivare al bambino perché viene allattato in un luogo pubblico non sono più di quelli che gli passa la gente che lo accarezza o che vengono dal ciuccio - dice Roberta Lodi, microbiologa esperta di produzioni alimentari e latte in particolare - Il bambino non deve vivere in una campana di vetro e per lo sviluppo del suo sistema immunitario il latte materno è la migliore garanzia». E Donatella Poretti, la deputata della Rosa nel Pugno che dopo l´elezione in Parlamento ha chiesto le venisse messa a disposizione una stanza per allattare la figlia durante le sedute a Palazzo Chigi rivela: «Ho chiesto un luogo dedicato perché mi avevano relegato in infermeria, dove i rischi di infezione sono reali. Non ho mai avuto problemi a dare il seno a mia figlia in pubblico e non li avrei avuti neanche nel Transatlantico, ma quando ho detto come provocazione che l´avrei fatto ho percepito chiaramente il disagio dei colleghi, che ritenevano scandalosa una cosa che per me era del tutto naturale. In Italia siamo ancora all´anno zero in fatto di sostegno alle madri. Le donne dovrebbero invece essere messe in condizione di poter scegliere dove e come prendersi cura del proprio figlio, con strutture e possibilità che non mirino a isolarle, ma a rendere più semplice il loro compito».

Corriere della Sera 25.9.07
Annullata la sentenza della Corte d'appello di Brescia che assolveva due suore del Bergamasco
«Abusi, i minori non dicono bugie»
La Cassazione: attendibili le loro testimonianze. Facile smascherare le falsità
di Luigi Corvi


ROMA — I bambini piccoli non sanno mentire. E se dicono qualche bugia sono facilmente smascherabili. Per questo la loro testimonianza, sino a prova contraria, è attendibile. Nero su bianco, in 22 pagine, i giudici della Cassazione (terza sezione penale) hanno fissato un principio destinato a fare giurisprudenza in un momento in cui, sull'utilizzo dei bambini come testimoni di abusi sessuali, si accendono polemiche e scontri tra periti, avvocati e giudici. La suprema Corte era chiamata a pronunciarsi su un caso di abusi che due suore, di 60 e 74 anni, avrebbero compiuto tra 1999 e 2000 su otto bambini (età da 3 a 5 anni) dell'asilo di Cazzano Sant'Andrea, nella Bergamasca.
Era accaduto che una mamma avesse notato comportamenti strani del figlio e ne avesse parlato con altre madri, ma per un anno non era successo nulla. Sino a quando un altro bimbo, in preda a paure immotivate, interrogato dai genitori raccontò: «Le suore ci portano in una stanza buia, ci tolgono le mutandine e fanno con noi il gioco del coniglietto mentre il signor Giorno ci riprende con la telecamera».
Successivamente altri bambini, sempre interrogati dai genitori, aggiunsero particolari via via più scabrosi.
Suor Casta e suor Caterina, questi i nomi delle due religiose, in tribunale vennero riconosciute colpevoli e condannate a 9 anni e mezzo di carcere, solo sulla base dei racconti fatti dai bambini (non furono trovati riscontri, la stanza buia non fu identificata e il «signor Giorno » rimase sconosciuto). Difese dall'avvocato Guglielmo Gu-lotta, le suore fecero però ricorso e nel 2004 la Corte d'appello di Brescia le mandò assolte con una sentenza che ruotava essenzialmente intorno all'asserita inattendibilità dei piccoli testimoni: «I bambini di questa età sono facilmente influenzabili, tendono ad adeguarsi alle aspettative degli interroganti, si lasciano trasportare dalla fantasia, scambiano la fantasia con la realtà, facilmente sostituiscono nei loro ricordi personaggi fantastici con soggetti reali (sono nozioni di esperienza, che non richiedono particolari specializzazioni e nemmeno l'ausilio dei periti)».
«Affermazioni stravaganti», «vizi di logica», «fragilità discorsiva », «mere disquisizioni psico- sociologiche», scrivono ora di quella sentenza i giudici della Cassazione (presidente Guido De Maio) che il 23 maggio scorso l'hanno annullata, ritenendola priva di motivazione, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Brescia. Secondo la suprema Corte, in sostanza, non si possono fare affermazioni di quel tipo senza il supporto di fatti concreti o di studi scientifici. «Se la Corte di merito aveva forti dubbi e riserve sulla capacità a testimoniare di quei bambini, piuttosto che proclamare in termini apodittici la loro assoluta inaffidabilità, avrebbe potuto disporre di una perizia psicologica».
Poco più avanti, citando «la letteratura di un certo peso dottrinario», i giudici affermano che «non è agevole pensare a quei piccoli come a persone capaci di sofisticate bugie e fantasticherie, perché la regola è che a quell'età sono strutturalmente incapaci di occultare o riprodurre falsamente i fatti di quelle prime esperienze». E se anche dovessero scappare delle bugie, queste «sono senza malizia, grossolane, trasparenti, ma soprattutto fuggevoli e agevolmente smascherabili».

Corriere della Sera 25.9.07
Un saggio di Roberto Esposito
L'idea di persona eredità cristiana
di Ernesto Galli Della Loggia


Non si può sorvolare sull'origine evangelica dei diritti

Spesso la filosofia sconfina o addirittura si sovrappone alla storia delle idee: questa è la ragione per cui anche chi filosofo di professione non è — come è il caso di chi scrive — può tentare di occuparsene. In particolare, se si tratta dell'ultimo libro di Roberto Esposito (Terza persona. Politica della vita e filosofia dell'impersonale, Einaudi, pp. 184, e 17), che in realtà è molto di più di un libro di filosofia e per giunta affronta in modo assai poco convenzionale la questione oggi decisiva dei diritti umani. La non convenzionalità è data dalla domanda da cui parte e intorno a cui ruota tutto il saggio di Esposito; e cioè: se i diritti umani falliscono tanto spesso nel loro obiettivo primario di salvaguardare la vita dalla fame, dall'oppressione, dalla guerra, ciò non accade forse proprio perché essi si fondano su quell'ideologia della persona che pure a noi continua ad apparire decisiva per la loro esistenza? Cioè «che sia proprio il dispositivo della persona, destinato, nell'intenzione degli estensori della Dichiarazione dei diritti umani, a riempire la frattura tra uomo e cittadino lasciata aperta da quella dell'89 — a produrre uno scarto altrettanto profondo tra diritto e vita»?
Esposito ne è convinto, e spiega tale apparente contraddizione sostenendo che è proprio l'ideologia della persona a separare di fatto il corpo, la fisicità del «bios» di ogni essere umano, da quella che si potrebbe chiamare la sua sovrastruttura ideologico- culturale, la «persona » appunto, attribuendo rilievo decisivo solo a questa precisamente perché entità diversa e superiore alla pura fisicità. La quale, pertanto, risulterebbe protetta sì, ma solo in quanto propaggine, rivestimento esteriore, della suddetta «persona».
In pagine dense e acute l'autore mostra l'ambiguità, e anche la pericolosità, di questa idea intrinsecamente scissa di persona la quale, non dimentichiamolo, è anche alla base di tutte le costruzioni della moderna democrazia politica. Proprio in essa si anniderebbe l'ovvio e duplice pericolo — mille volte manifestatosi nella storia — consistente sia nel rifiutare al corpo qualunque attributo in senso superiore «umano» (è il caso del razzismo), sia nel ridurlo a entità manipolabile e disponibile a piacere (è il caso dei vari deliri eugenetici). Rifiuto e riduzione alla fine riconducibili entrambi all'agghiacciante affermazione del premio Nobel per la Medicina Charles Richet, che nel 1922 poteva scrivere: «Una massa di carne umana senza intelligenza umana non è niente. Si tratta di materia vivente che non è degna di alcun rispetto e compassione ».
Dopo aver ripercorso l'itinerario che dal diritto romano in avanti costruisce la frattura tra capacità giuridica della persona da un lato e la nuda naturalità dell'essere umano dall'altro — frattura che neppure con la Rivoluzione francese riuscì a essere superata, certificando così l'impossibilità di qualcosa come i «diritti umani » — Esposito suggerisce, infine, che solamente una filosofia dell'umano impersonale, della «terza persona», del «neutro», diciamo pure di «depersonalizzazione della vita», è in grado di rappresentare il punto di partenza per fondare «una relazione intrinseca tra umanità e diritto sottratta al taglio soggettivo della persona giuridica».
Che cosa può osservare uno storico in merito a tutto ciò? A me pare che possa, e debba, esprimere almeno una sorpresa. Circa il fatto, cioè, che nel corso della sua lunga ricostruzione (storica, appunto) del problema, Esposito abbia sostanzialmente sorvolato, trattandone solo sporadicamente, su quello che nella nostra tradizione culturale è uno dei capisaldi in assoluto della definizione e della strutturazione teorico- concettuale dell'idea di «persona» (certo enormemente più importante di qualunque degli autori su cui egli si diffonde). Mi riferisco all'apporto rappresentato dal Cristianesimo e in particolare, come si capisce, alla sua idea centrale di «incarnazione » (una parola che, se ho letto bene, neppure ricorre nel testo in questione). Eppure a me sembra che se c'è stato un tentativo di raggiungere proprio ciò che queste pagine indicano come l'obiettivo, vale a dire l'unitarietà della persona, evitando da un lato la depersonalizzazione del corpo, la cancellazione di un suo legame con un'imprescindibile eccedenza spirituale, e dall'altro evitando un'indebita spiritualizzazione dell'idea di persona, ebbene questo tentativo teorico- pratico è stato per l'appunto rappresentato dal Cristianesimo e dalla sua declinazione di diritto naturale, ripresa dal giusnaturalismo liberale di ascendenza lockiana. L'idea cristiana di «incarnazione », del Dio che diviene corpo umano «generico », costituisce, essa sì mi sembra, un ostacolo insuperabile vuoi per ogni riduzionismo biologistico razziale o eugenetico che sia, vuoi per l'idea che sia solo una cittadinanza o un qualunque altro patto politico, o una qualunque sovranità, a conferire a un essere umano dei diritti. Certo, nessuno vorrà affermare che quello cristiano, e dunque quello occidentale, sia stato un tentativo privo di contraddizioni e fallimenti. Ma alla fine, se nella nostra cultura (e solo in essa) c'è l'idea dei diritti umani, l'idea di un diritto universale oltre gli Stati e oltre le culture della terra, a cos'altro mai si deve?

il manifesto 25,9.07
Fritjof Capra
Influssi di onde cosmiche nel segno di Leonardo da Vinci
di Luca Tomassini


Al grande artista e scienziato del Rinascimento Fritjof Capra, noto soprattutto per il best seller «Il Tao della fisica», ha dedicato il suo ultimo libro, «La scienza universale». Un incontro con il fisico, che negli ultimi anni ha dato vita a un centro per divulgare l'ecologia nelle scuole

«Tutto è cominciato con un libro che ho letto quando ancora ero un ragazzo. In quel libro, Fisica e filosofia di Werner Heisenberg, il grande scienziato, uno dei creatori della meccanica quantistica, sottolineava le profonde analogie della nuova fisica con le filosofie orientali». A parlare è Fritjof Capra, fisico ma anche guru indiscusso del movimento New Age grazie al celeberrimo Tao della fisica, pubblicato per la prima volta nel 1975 da una piccola casa editrice underground degli States e oggi tradotto in oltre venti lingue. L'allora trentaseienne professore resuscitava nella Berkeley scossa dalla crisi della sinistra a stelle e strisce quell'interesse per buddismo, taoismo e induismo che molti tra i fondatori della moderna teoria dell'atomo avevano professato apertamente. Basti pensare, oltre a Heisenberg, a Niels Bohr che per non lasciare dubbi sui suoi orientamenti filosofici si fece realizzare uno stemma familiare nel quale spiccava il simbolo del tai-chi, o a Erwin Schroedinger dedito per tutta la vita allo studio dell'induismo, o anche al padre della bomba atomica Robert J. Oppenheimer.
Fritjiof Capra è arrivato la settimana scorsa in Italia per presentare il suo ultimo libro, La scienza universale (Rizzoli, pp. 409, euro 23), dedicato alla figura di Leonardo da Vinci. Invitato a Sansepolcro, in Toscana, dall'azienda di prodotti erboristici Aboca, ha parlato a una platea piccola ma molto eterogenea, dall'imprenditore in gessato scuro allo studente di psicologia deciso a mostrargli la sua tesi su nuova scienza e medicina alternativa, dal fondatore di un noto centro per il benessere psicofisico al consigliere comunale verde.
Con il passare del tempo il suo stile è cambiato, così come si sono evoluti i suoi interessi. Trent'anni fa nel Tao della fisica così descriveva l'inizio, l'illuminazione: «In un pomeriggio di fine estate, seduto in riva all'oceano, osservavo il moto delle onde e sentivo il ritmo del mio respiro, quando all'improvviso ebbi la consapevolezza che tutto intorno a me prendeva parte a una gigantesca onda cosmica». Negli anni, il grande affresco tracciato dal fisico per descrivere la transizione verso una nuova scienza si è arricchito di nuovi elementi: teoria dei sistemi, caos, emergenza, complessità, tutte le idee innovative che tanto hanno mutato il panorama del dibattito scientifico-epistemologico sono state incorporate da Capra nel suo «sistema», che oggi prende la forma di un ecologismo radicale e spiritualeggiante, di cui egli resta figura di primo piano.

Quali sono state le principali linee di sviluppo del suo pensiero dopo «Il Tao della fisica»?
Ho continuato con Il punto di svolta (1982) a esplorare le conseguenze nelle altre scienze e nella società del cambiamento di paradigma avvenuto nella fisica. E poi questa nuova visione del mondo si è ulteriormente sviluppata in termini di descrizione dei sistemi viventi, di complessità, incorporata nella Rete della vita (1996). Per certi versi con Leonardo torno al Tao della fisica, all'indagine sulla natura della scienza, della conoscenza, dell'arte, dell'ecologia, e delle loro relazioni.

Cambiamento di paradigma - ovvero, come ha insegnato Thomas Kuhn, trasformazione di quell'insieme di conoscenze che delimitano il campo, la logica e la prassi della ricerca stessa. Può essere più preciso?
Mi riferisco al passaggio dalla concezione dell'universo come macchina perfetta governata da leggi matematiche, elaborata da Galileo e da Cartesio e perfezionata da Newton. Certo, rilevanti integrazioni furono necessarie nel corso del tempo: mi riferisco per esempio alla scoperta del ruolo della chimica nel mondo vivente o all'elaborazione della teoria dell'evoluzione. Ma la sostanza sopravvisse, gli animali erano ancora dei congegni, seppure molto più complicati di un semplice orologio: il dogma di una riducibilità delle leggi della biologia a quelle della fisica e della chimica è duro a morire. Ho spesso espresso la sostanza del punto di vista della nuova scienza in termini di consapevolezza che tutto è connesso con tutto, in una inscindibile unità.

Eppure lei stesso ha sottolineato che alcuni elementi sono più connessi di altre, e che la preminenza di talune relazioni costituisce l'inevitabile punto di partenza di ogni indagine. Qual è allora la differenza rispetto al tradizionale invito galileiano a «difalcare gli impedimenti», a trascurare ciò che non è rilevante ai fini dell'indagine?
Se tutto è interconnesso non possiamo sperare di determinare quantità precise, a causa degli insuperabili limiti di osservazione degli strumenti. Possiamo però rilevare gli schemi di relazioni. Nella scienza dobbiamo sempre concentrarci su quelle più importanti, non possiamo considerarle tutte. Siamo insomma costretti a fare una scelta. Quali siano i criteri che la orientano è questione di gusto, di obiettivi. È così che la scienza avanza. Nel caso dell'ecologia per esempio sono stati scelti differenti principi, che trovano la loro origine nella convinzione che i sistemi viventi siano immersi in un tutto pieno di relazioni. L'ecologia è una scienza di relazioni, c'è una comunità ecologica fatta di animali, piante, microorganismi, tutti in costante interazione con un ambiente. Noi abbiamo individuato una serie di concetti di base: la rete, i cicli, il flusso, l'equilibri dinamico, lo sviluppo, il fatto che ci sono sempre sistemi dentro altri sistemi (in analogia con la struttura dei frattali, ndr). Ma avremmo potuto selezionarne altri, come la diversità o la flessibilità.

Nel suo ultimo libro individua in Leonardo un anticipatore di questo approccio «olistico». Perché?
Ho deciso di intraprendere la scrittura di questo libro quando mi sono reso conto che, nonostante gli innumerevoli trattati dedicati alla sua opera, i lavori sulla sua scienza sono pochissimi, poco più di una decina. E tutti la leggono in una prospettiva meccanicistica, paragonando Leonardo a Galileo. Ma Leonardo ha sviluppato qualcosa di molto diverso, una scienza delle forme in trasformazione, delle qualità. Ho scoperto una sua bellissima frase, nella quale invocando la necessità di una teoria della pittura sostiene che essa abbraccia in sé tutte le forme della natura. Per Leonardo dipingere apparteneva alla sfera mentale, e forse è proprio questa la ragione per cui spesso non terminava i suoi quadri: importante era risolvere un problema, trovare nuove combinazioni. Il suo era un mondo di forme organiche in trasformazione, che mi sembra avere molti punti in comune con il paradigma della complessità, dell'ecologia. Lo definirei uno scienziato ecologico.

E il Leonardo ingegnere e costruttore di macchine, anche da guerra?
È senza dubbio un paradosso, ma si tratta di un personaggio così complesso da essere necessariamente contraddittorio. Leonardo progettava queste macchine per avere una posizione sicura, per poter fare la sua scienza, ma era certamente affascinato dalla violenza, dalle esplosioni, dai proiettili. Ciò nonostante era un pacifista, definiva la guerra «pazzia bestialissima».

Lei è considerato uno dei principali esponenti della «New Age». Quanto grande è stata l'influenza del terremoto politico e sociale degli anni Sessanta e Settanta nell'evoluzione della sua visione del mondo?
Assolutamente determinante. Negli anni Settanta si dividevano la scena due grandi movimenti che potremmo descrivere come vere e proprie espansioni della coscienza. Una andava nella direzione di una nuova centralità dell'elemento spirituale, l'altra verso la dimensione sociale. Io ho seguito la prima, ma avevo molti amici che militavano nella sinistra. Sono anche stato a Parigi nel '68, un'esperienza che ha avuto per me un'importanza enorme. Durante gli anni Ottanta, ho cominciato a scrivere sullo stato della società e sulle prospettive future e il mio interesse per le scienze della vita ha continuato a crescere, portandomi ad aderire al movimento ecologista. Nel 1986, quando è nata mia figlia, il problema del futuro dei nostri bambini e della loro educazione, si è fatto più personale e nel 1995 ho contribuito a fondare il Center for Ecoliteracy. Oggi portiamo l'ecologia nelle scuole, favorendone lo studio a tutti i livelli. Il nostro obiettivo è trasformare la società per mezzo dell'educazione, verso modelli compatibili con le risorse del nostro pianeta.

Un tema, quello dell'educazione, certamente al centro di ogni ragionevole strategia di trasformazione della società. Ma la spinta alla crescita dei consumi non è forse intimamente legata a un'organizzazione della produzione esclusivamente finalizzata alla massimizzazione del profitto?
Penso sia molto importante per la fondazione di una nuova economia tornare alla critica del capitalismo. Ma non posiamo accontentarci dell'originale impostazione marxiana, nonostante ci siano in essa elementi che conservano il loro valore. Il capitalismo di oggi è molto diverso da quello della rivoluzione industriale, è globale, riposa e si diffonde sulla base di informazioni, conoscenze. Non a caso in molti parlano di knowledge economy. L'organizzazione della produzione è ormai in gran parte strutturata intorno a reti finanziarie e di informazione, e queste reti a loro volta obbediscono a regole che vanno sotto il nome di «libero mercato». Ma libero non è certo da intendersi nel senso di democratico, indica solamente il potere delle imprese di fare come vogliono, guidate da un principio fondamentale: accumulare denaro è sempre più importante di qualunque altra cosa, dell'ambiente, della democrazia. Uso il termine denaro e non profitto perché anche questo concetto è cambiato, si è fatto ancora più astratto in quanto riferito a un futuro incerto e nebuloso. Come nel caso del cosiddetto share-holder value o del mercato dei futures. È da qui che dobbiamo partire, perché le stesse reti finanziarie e di informazione potrebbero essere utilizzate ad altri fini, etici e ecologici. Si farebbe profitto nella stessa maniera, ma tutelando l'ambiente e i lavoratori. E allora dobbiamo cambiare i valori per mantenere la dignità umana e la sostenibilità ecologica. Questa è la grande sfida.

Lei stesso ha sottolineato come gli attuali livelli di consumo siano incompatibili con la sopravvivenza del nostro pianeta. Un'osservazione che è il punto di partenza anche delle proposte imperniate sul tema della decrescita. Qual è la sua opinione a riguardo?
Mantenere la nostra industria senza petrolio è possibile, ci sono strategie e progetti, abbiamo le energie alternative, la bioarchitettura, l'ecodesign. Perché non li usiamo? Perché Bush pensa che dobbiamo fare la guerra per andare a prendere il petrolio? Molto potrebbe essere fatto insomma, ma occorre ricordare che il 20 per cento dell'umanità consuma circa l'80 per cento delle risorse. Questo significa che per garantire a tutti la ricchezza materiale dell'Occidente sarebbero necessari quattro pianeti Terra. In fondo, è ovvio da un punto di vista ecologico che un'espansione infinita su un pianeta finito è una follia: l'unico esempio che mi viene in mente di crescita indefinita è il cancro.


Il Messaggero 25.9.07
«Fanatico chi attacca Freud»
di Doriano Fasoli


IN Italia è uscito per i tipi di Quodlibet L’anti-libro nero della psicoanalisi, traduzione italiana di un libro uscito in Francia l’anno scorso (a cura di Jacques-Alain Miller). L’introduzione all’edizione italiana è stata affidata ad Antonio Di Ciaccia, membro dell’École de la Cause freudienne de Paris, della Scuola Europea di Psicoanalisi e presidente dell’Istituto freudiano per la clinica, la terapia e la scienza di Roma.
Professor Di Ciaccia, qual è il contesto in cui si inserisce ”l’anti-libro nero della psicoanalisi”?
«Il contesto è originariamente quello francese. Il libro viene pubblicato in seguito all’uscita di un volume dal titolo Il libro nero della psicoanalisi, anche questo tradotto in Italia (Fazi editore). In realtà quest’ultimo volume non meritava di per sé una risposta, non essendo altro che un libro che denigra Freud e la psicoanalisi con vecchi argomenti senza apportare elementi nuovi al dibattito. Come nota Elisabeth Roudinesco in un’intervista che noi abbiamo pubblicato nell’edizione italiana dell’Anti-libro nero: “Lo scopo di questo testo (Il libro nero della psicoanalisi), dal titolo accattivante, non è di criticare la psicoanalisi, ma di nuocere a una disciplina e ai suoi rappresentanti (...). Non si tratta di un libro scientificamente serio, è una requisitoria fanatica che si situa nella tradizione delle scuole cosiddette ”revisioniste”».
Ma allora, se ”Il libro nero” non è scientificamente serio, o, perché rispondergli con ”L’Anti-libro nero”?
«Per smascherare – divertendosi, come nota Jacques-Alain Miller nell’introduzione - il gioco subdolo che si trama sotto traccia. La psicoanalisi viene attaccata non per istaurare un dibattito, eventualmente anche aspro. La si attacca, da un lato, per denigrarla ma, d’altro canto, per presentare una nuova scienza psicologica che sarebbe all’altezza dei tempi, una dottrina psicologica finalmente scientifica che darebbe risultati clinici statisticamente validi».
Ma si tratta allora di un problema tra due correnti di pensiero nel campo della psicoterapia?
«Non proprio. Ed è qui che L’Anti-libro nero rivela il gioco subdolo che si sta giocando in Francia. In Francia la psicoanalisi è messa all’angolo non tanto da forme di psicoterapie cosiddette più moderne. In questo caso potrebbe svilupparsi una dibattito serio e proficuo per tutti. E’ messa all’angolo dai burocrati dello Stato i quali hanno individuato nelle psicoterapie di formazione cognitivo-comportamentali quelle più adatte per rispondere ai loro criteri e alle loro valutazioni».
E’ tuttavia un problema strettamente francese, dato che in Italia la ”legge Ossicini” assicura a ogni forma di psicoterapia dignità e autonomia...
«Certo, da questo punto di vista la “Ossicini” è una buona legge. E grazie a questa legge in Italia non esiste una psicoterapia scientifica ufficiale o statale. Lo Stato esige, e giustamente, che gli psicoterapeuti siano formati. Ma la formazione è compito delle società o delle scuole che sono tenute a far evolvere e a valutare costantemente il modello formativo che viene impartito ai loro allievi. Tuttavia il problema è attuale anche da noi poiché anche in Italia la burocrazia tende a schematizzare o a semplificare nonostante l’aumento di protocolli da fare e da firmare…».
Il problema di fondo è che nel campo mentale il problema è sempre complesso...
«Infatti. E le psicoterapie non possono essere valutate unicamente secondo le capacità di adattamento ai valori socialmente riconosciuti. E voler semplificare e uniformare il problema tramite la burocrazia è la soluzione peggiore. Quello che la psicoanalisi rivendica è il rapporto unico, personale, eccezionale di ciascuno con la propria soggettività. A volte la follia affiora in un soggetto. Sempre, in ognuno, affiora il sintomo. Ma non sono manifestazioni da eliminare per rendere statisticamente normale la persona. Sono invece manifestazioni da lasciar parlare, da interrogare, da far evolvere, da inquadrare certo, ma non in schemi predefiniti, ma mettendo a profitto quella forza interna che è il motore del sintomo affinché se ne liberi una creatività nuova per il soggetto. Il segreto della psicoanalisi è che il sintomo stesso contiene una forza che è una grande risorsa per il soggetto. Il sintomo, invece di essere un patimento di cui il soggetto non può farne a meno, può trasmutarsi invece in una grande occasione per la sua soggettività. E quando capita questo, tutti intorno a lui ne possono gioire e godere».


Il Messaggero 25.9.07
Ristampato l’epistolario tra Heidegger e la Arendt
Uniti contro il totalitarismo
di Luca Archibugi


LA vicenda privata fra Martin Heidegger e Hannah Arendt non può essere considerata soltanto una controversa storia d’amore fra maestro ed allieva. Gli accadimenti e l’evoluzione della storia concernenti l’origine e l’affermazione del nazionalsocialismo ne fanno un portato insostituibile della storia dello spirito del XX° secolo. Lo scambio epistolare, ristampato da Einaudi (Hannah Arendt-Martin Heidegger, Lettere 1925-1975 e altre testimonianze, pp. 318, € 22,00) dimostra a sufficienza come l’incontro di due personalità così potenti non potesse non deflagrare. Ma l’esplosione non tocca i due individui, ma i simboli che li hanno circondati; dal punto di vista privato Arendt e Heidegger hanno continuato a stimarsi e ad ammirarsi senza pausa. Persino quando Heidegger viene tacciato di antisemitismo, lei comprende le ragioni del maestro, e certo l’allieva non era un esempio d’indulgenza. C’è una testimonianza straordinaria, una lettera datata 32/33 (nel periodo più acuminato della questione, dove s’interrompe lo scambio epistolare, in cui Heidegger è costretto a ribattere alle accuse di antisemitismo rivoltegli), che molti denigratori faciloni dovrebbero rileggere (o proprio leggere): «Le dicerie che t’inquietano sono calunnie. Che io non saluti gli ebrei è una calunnia così maligna che me la ricorderò per il futuro». Heidegger continua elencando una lunga serie di ebrei a cui insegna e a cui ha fatto ottenere borse di studio. Poi conclude: «Chi voglia chiamare tutto ciò “antisemitismo militante”, lo faccia pure».
Hannah Arendt si rende conto di quanto per Heidegger sia difficile barcamenarsi dopo l’adesione al nazismo del 1933 nel discorso del Rettorato, ma si rende anche conto - intelligentemente – di quanto potesse essere difficile abdicare al nazionalsocialismo dopo esservi appena entrato.In tale lettera, peraltro, Heidegger chiarisce anche un aspetto fondamentale del tormentato rapporto con Edmund Husserl. I dissidi con il suo maestro ebreo-tedesco furono di ordine squisitamente privato e filosofico, non certo razziale.
Quando Hannah Arendt corrobora la propria personalità filosofica, la distanza col maestro – naturalmente - si fa più acuta. Eppure, non pochi sostengono che alcuni punti decisivi del pensiero della Arendt siano di filiazione heideggeriana, non già di derivazione, giacché il pensiero della Arendt ha un timbro inequivocabilmente originale. Sarebbe più interessante, pertanto, sul piano della storia delle idee, non tanto discutere degli enzimi di nazionalsocialismo persistenti nel pensatore tedesco dopo l’uscita dal partito, quanto vedere il suo influsso sul pensiero della Arendt, quanto di più lontano vi sia dalle idee naziste (ammesso che tali idee possano dirsi tali). Al di là della presunta connivenza heideggeriana, si vede facilmente come - anche nel caso della Arendt - il suo magistero abbia prodotto tutt’altro. Nella temperie della loro relazione, anzitutto una storia d’amore, il bersaglio comune – senza ombra di dubbio - è stato il totalitarismo. Per Hannah Arendt, ebrea trasmigrata in Europa e negli Stati Uniti, in forma esplicita; per Heidegger, resistente baluardo germanico (ma non per questo nazista, eccezion fatta per l’adesione conclamata in un periodo circoscritto), in forma teoretica, attraverso la sua lunga riflessione sullo smarrimento dell’essere come destino del dominio della tecnica. Per il filosofo di Messkirch, in ogni caso, ogni forma di dominio, sia dittatoriale che democratica, contraeva una comune radice in quello che Heidegger chiamò «oblio dell’essere»: Günther Anders, altro suo allievo, nonché primo marito della Arendt, dedicò alcune fra le sue migliori energie all’interpretazione dell’evento di Hiroshima e Nagasaki.

Repubblica salute 20.9.07
Diagnosi ora si cambia
Disturbi mentali: la "rivoluzione" di neuroscienze e nuove patologie Un lavoro che confluirà, entro 4 anni, nel DSM-V, "bibbia" sulle patologie della mente. Polemiche e questioni aperte su dipendenze, psicosi, demenze
di Francesco Cro


Diagnosi psichiatriche, si cambia. Sono in corso i lavori, coordinati dall'Associazione degli Psichiatri Americani, per ridefinire l'agenda della ricerca in psichiatria e mettere a punto una revisione degli attuali criteri diagnostici, che dovrà sfociare nella pubblicazione, prevista per il 2011, della quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-V).
Dal 2004 ad oggi sono state affrontate, in altrettante conferenze programmatiche, le più cruciali questioni aperte, relative alle principali patologie psichiatriche. La prima di queste conferenze, ad Arlington (Virginia) a fine 2004, ha affrontato i cosiddetti disturbi di personalità, che, più che essere veri e propri "disturbi mentali", rappresentano un modo di essere dell'individuo, che non si adatta al contesto culturale e sociale in cui questi vive, procurandogli perciò problemi nella vita relazionale, lavorativa e in altre aree importanti: alcuni di questi "disturbi" sono caratterizzati da diffidenza, isolamento ed eccentricità, altri da problemi comportamentali, impulsività, relazioni instabili, ricerca frenetica di attenzione ed ammirazione; altri ancora da inibizione, sottomissione e dipendenza dagli altri, perfezionismo o scrupolosità eccessiva. Gli attuali criteri del DSM (quarta edizione) per diagnosticare un disturbo di personalità non rendono giustizia alla complessità di tali configurazioni esistenziali (oggi si fa riferimento ad un elenco di caratteristiche). Tra l'altro per molte delle categorie diagnostiche non c'è una base scientifica accertata; è, inoltre, difficile stabilire una soglia che separi nettamente il "normale" dal "patologico". Proprio quest'ultima considerazione ha fornito uno stimolo per lo sviluppo della cosiddetta diagnosi "dimensionale": la complessità della mente umana non va schematizzata in "categorie", ma, piuttosto, osservata lungo "dimensioni" (ad esempio l'introversione, l'estroversione, l'instabilità emotiva, l'impulsività, l'aggressività), presenti anche nella normalità, ma che nelle situazioni patologiche possono assumere un'intensità abnorme. È stato sottolineato che le dimensioni della personalità sono universali e si estendono a tutte le culture, occidentali e non. Sono stati anche fatti tentativi di mettere in relazione alcuni tratti della personalità e del temperamento con alcune variabili biochimiche: in questo campo il modello più noto è quello di Robert Cloninger (Washington University di Saint Louis), tuttavia, con l'eccezione del documentato ruolo della serotonina nel controllo dell'impulsività, le ricerche in questa direzione sono ben lontane dal fornire modelli definitivi.
In una seconda conferenza si sono affrontati i disturbi da sostanze stupefacenti. Problemi aperti: l'abuso di sostanze in età adolescenziale e la possibilità di introdurre nel manuale la sindrome d'astinenza da cannabis. Il dibattito si è sviluppato anche intorno alla terminologia da usare: secondo alcuni il termine addiction (dedizione) sarebbe preferibile a quello, strettamente farmacologico, di dependence (dipendenza), perché riassumerebbe in sé anche la dipendenza psicologica, la perdita di controllo nell'uso della sostanza e l'irrefrenabile desiderio di assunzione; per altri, però, addiction sarebbe da evitare perché associato, nell'opinione pubblica, alla discriminazione ed alla criminalizzazione dei tossicodipendenti. È stata, infine, sottolineata la similitudine tra la dipendenza da sostanze ed il gioco d'azzardo patologico, caratterizzato anch'esso da perdita del controllo e dipendenza; questo introduce all'argomento di un'altra conferenza, incentrata sui "disturbi dello spettro ossessivo-compulsivo", apparentemente diversi tra loro ma che presentano caratteristiche cliniche (pensieri e comportamenti ripetitivi) e meccanismi neurofisiologici comuni. Unaa vasta categoria patologica che va da alcuni disturbi di personalità alla tendenza patologica ad accumulare oggetti, alcune forme di tic, alcuni disturbi del movimento, l'ipocondria e il disturbo di dismorfismo corporeo, l'abitudine a strapparsi i capelli (tricotillomania), la piromania, la cleptomania, alcuni disturbi alimentari, la dipendenza da internet, il gioco d'azzardo patologico, lo shopping compulsivo, l'abuso/dipendenza da sostanze e una particolare forma di schizofrenia ("schizo-ossessiva").
La schizofrenia ed il disturbo bipolare sono state affrontate nel febbraio 2006. Robin Murray del Maudsley Hospital di Londra ha ipotizzato che la schizofrenia ed il disturbo bipolare (alternarsi di forme depressive e momenti di esaltazione) nascano da una predisposizione genetica di base alle psicosi, che porterebbe all'uno o all'altro disturbo a seconda che siano presenti o meno altri fattori di rischio, genetici o ambientali. Murray propone inoltre di superare la terminologia attuale e di denominare le psicosi "disturbi da disregolazione della dopamina", distinguendo i pazienti che ne sono affetti in base allo sviluppo intellettivo e alla gravità dei sintomi. Mary Phillips dell'Università di Pittsburgh (Pennsylvania) ha invocato un approccio multidisciplinare alla diagnosi del disturbo bipolare, che si accompagna spesso a disturbi del sonno, dell'alimentazione, della circolazione e del metabolismo, nonché ad ansia ed abuso di sostanze; Mario Maj dell'Università di Napoli ha, infine, affrontato il problema dei sintomi psicotici (deliri e allucinazioni) nella depressione.
Altra conferenza sulle demenze: si è discusso, in particolare, di quelle forme di declino cognitivo lieve, non caratterizzate da perdita della memoria, che non sempre conducono ad una forma conclamata di malattia di Alzheimer.
A Pechino, nel settembre 2006, si è parlato di disturbi somatoformi (disagi psicologici che si manifestano principalmente con sintomi fisici). Robert Dantzer, docente di psiconeuroimmunologia all'Università di Urbana (Illinois), ha descritto le interazioni tra sistema immunitario e cervello, sottolineando il ruolo che i processi infiammatori, attivi in molte malattie fisiche, hanno nel sensibilizzare i sistemi cerebrali che producono la sensazione di "essere malati" e i sintomi ad essa conseguenti: inappetenza, disturbi gastrointestinali, deperimento, dolore, affaticamento, alterazioni dell'umore e della sfera cognitiva. Susan Levenstein, internista a Roma presso l'ospedale San Camillo-Forlanini, la casa di cura Salvator Mundi e l'American Hospital, ha sottolineato invece che un sintomo fisico non può essere etichettato come disturbo psichiatrico solo perché il medico non riesce a spiegarlo altrimenti, oppure perché il paziente è ansioso o depresso.
* Psichiatra, Servizio Diagnosi e Cura, Viterbo

Liberazione 25.9.07
Ultimatum a Cofferati: «O stai con la sinistra o con An»
di Angela Mauro


L'intesa in fieri tra il sindaco e Alleanza nazionale rompe tutti gli equilibri. I gruppi della sinistra, tutti insieme, presentano un documento in sette punti irrinunciabili per rilanciare l'azione del comune, e chiedono la fine del "flirt" con la destra

O noi o Alleanza Nazionale. Sergio Cofferati dica con chiarezza cosa vuole fare della maggioranza di centrosinistra al municipio di Bologna. Per la sinistra in consiglio comunale la misura è colma: se il sindaco prosegue sulla via intrapresa di stringere un accordo con An sulla sicurezza, non fa che stravolgere la maggioranza eletta tre anni fa. E a quel punto i consiglieri dell'Altra Sinistra (Prc, Verdi e il Cantiere), insieme all'indipendente eletto con il Prc Valerio Monteventi e ai due consiglieri di Sinistra Democratica, non potranno che prendere le dovute decisioni: passare all'opposizione. Per ora la sinistra unita si limita a suonare il campanello d'allarme, lanciando un ultimatum al primo cittadino al quale proprio ieri ha inviato un programma in sette punti da attuare nei due restanti anni di mandato. Trentuno pagine «per un nuovo percorso democratico e partecipativo, per una città sicura e solidale, per la tutela dell'ambiente e del territorio, per la casa e strutture collettive di alloggio, per i giovani, la scuola, la cultura, sui costi e l'efficacia della politica». Cofferati dica, è l'invito unitario, se intende confrontarsi con le proposte della sinistra, cioè con quella che è la sua maggioranza, oppure se intende coronare il flirt con il partito di Fini. Una cosa esclude l'altra.
Da parte sua, il sindaco prende tempo, si dice assolutamente tranquillo («C'ho l'aria preoccupata?», replica ai giornalisti con aria serafica alla buvette di Palazzo D'Accursio) e annuncia che risponderà a «tutti e a tutto» in una conferenza stampa giovedì prossimo. Poi, in un incontro con i consiglieri comunali Naldi di Sd e Panzacchi dei Verdi, nel tardo pomeriggio di ieri, assicura la disponibilità ad un vertice di maggioranza sulle proposte della sinistra.
Ma intanto su Cofferati preme Alleanza Nazionale: «Un passo indietro sarebbe disastroso», avverte il capogruppo di An in consiglio comunale Enzo Raisi, dichiarandosi «pronto a firmare» l'intesa discussa la scorsa settimana. E per il sindaco questo non è l'unico problema, visto che la sua relazione con i finiani manda su tutte le furie non solo la sinistra, ma anche lo Sdi («Riconosca gli errori e cerchi il dialogo») e, se non bastasse, pure la Margherita, con l'effetto di frantumare il Partito Democratico bolognese alla vigilia delle primarie.
«Il sindaco sta sbagliando», afferma il capogruppo dei Dl in consiglio Mazzanti, mentre il suo omologo diessino, Merighi, difende l'apertura ad An con un «nessun passo indietro».
Ma che gioco fa Cofferati, oltre a quello di dare attuazione pratica all'ossessione securitaria abbracciata dal Pd a livello nazionale e locale? I rumors raccontano che il sindaco si sarebbe fatto i conti sulla base di sondaggi che lo darebbero per sconfitto, qualora si ricandidasse alle amministrative di Bologna nel 2009, rispetto ad una eventuale candidatura dell'ex sindaco Guazzaloca da parte della Cdl e nel caso in cui la sinistra presentasse un proprio candidato. I giochetti con An mirerebbero dunque a spaccare il centrodestra, come già sta avvenendo in quanto Forza Italia e Lega non condividono la scelta dei finiani di aprire all'ex leader della Cgil. Quanto ad Alleanza Nazionale, nel dialogo con Cofferati troverebbe un proprio tornaconto sia in termini di risultati sulla sicurezza ("braccata" com'è da La Destra di Storace che ha appena aperto una sede anche a Bologna) che nei propositi di spaccare il centrosinistra.
Di certo, l'effetto immediato del marasma fin qui descritto rafforza il patto di unità a sinistra. Il "tradimento" con An spinge anche Sinistra Democratica ad accarezzare propositi di uscita dalla maggioranza, anche se al momento gli sforzi sono tutti concentrati a salvare il risultato delle amministrative del 2004. Spiega il consigliere Gianguido Naldi: «Vorrei che discutessimo sul nostro terreno, non su quello di Cofferati. Abbiamo presentato il nostro contributo alla maggioranza: non si può assemblarlo a quello di An. Cofferati deve scegliere e di certo non potrà dire che non ci vogliamo occupare di sicurezza». Perchè il documento è esplicito nel marcare una linea di confine tra l'idea di sicurezza della destra («soluzioni aggressive e violente») e quella sinistra: «solidarietà e accoglienza, contrasto alla criminalità organizzata e alla microcriminalità senza ricercare ricette inutili ed esclusivamente propagandistiche». Al centro del patto che Cofferati ha discusso e che potrebbe firmare con An c'è invece l'idea di assegnare spray urticanti e manganelli ai vigili urbani (le nuove squadre di quartiere dovrebbero essere operative da ottobre), imporre l'obbligo di chiusura alle 21 ai negozi di generi alimentari in alcune zone della città (per diminuire il consumo di alcool, ma ne verrebbero direttamente colpiti gli esercizi gestiti dagli extracomunitari), probabile istituzione di un assessorato alla sicurezza.
Il consigliere indipendente del Prc Monteventi richiama l'attenzione sulle questioni pratiche: «Il 15 ottobre sarà definitivamente chiuso il blocco degli sfratti e il Comune, a meno di un mese da quella data, non ha ancora fatto nulla». A fronte della «5mila domande» di case popolari presentate, «ci sono solo 400-430 alloggi disponibili». E ancora, sull'affitto a canone calmierato: «delle 1.700 domande avanzate - dice Monteventi - ne sono state accolte solo 171, senza contare che, per il fondo sociale per l'affitto, nel 2000 sono stati stanziati 6 milioni a fronte di 2.000 domande, mentre oggi ci sono solo 4,5 milioni per 6.000 domande». Emergenze che, dice la sinistra unita nel documento presentato a Cofferati, devono essere «il primo obiettivo del prossimo bilancio».
In attesa del "verdetto" di giovedì, il sindaco sceglie la via della replica indiretta alla sinistra, parlando di sicurezza ieri in una lezione ai 50 migliori laureati d'Italia alla Alma Graduate School di Bologna. «La difesa della legge è una cosa di sinistra», ribadisce, precisando di non voler fare il «Sarkozy di Corticella», di non essere alla ricerca di «modelli da imitare» e avvertendo che il «"benaltrismo" ha fatto solo male alla sinistra». «Io mi sento una persona di sinistra, i miei valori sono lì», conclude.
Il punto allora è capire di quali abusi può soffrire la parola sinistra nel futuro Piddì. Perchè «se Veltroni parla a livello nazionale di maggioranze variabili, qui Cofferati le mette in pratica alleandosi con An, invece di firmare accordi con la sua maggioranza», fa notare il capogruppo del Prc in consiglio comunale Roberto Sconciaforni. «Un'operazione spregiudicata, incredibile, irricevibile», dice il segretario regionale di Rifondazione Nando Mainardi. «Cofferati non discute con la maggioranza con cui è stato eletto e sceglie di fare i patti con la destra: agli italiani il giudizio», osserva Michele De Palma della segreteria nazionale del Prc. «Quanto succede a Bologna è un problema per il Piddì nazionale».

Liberazione 25.9.07
"Arancia meccanica" in tv, 36 anni dopo
Dopo le recenti polemiche su "Eyes Wide Shut", l'arte dissacrante del maestro americano si prende la rivincita
di Davide Turrini


L 'annuncio è di quelli da segnare sul calendario degli eventi. Arancia meccanica di Stanley Kubrick verrà programmato stasera su La7 alle 22.30. Assolutamente imperdibile visto che le due ore e diciassette dell'opera del maestro newyorkese non verranno tagliate nemmeno di un secondo. Insomma, tutta l' Arancia per intero. Addirittura preceduta dallo speciale "La meccanica dell'arancia", condotto da Alex Infascelli, con interviste a diversi protagonisti di quei tempi e di quell'evento. Un evento unico, per questo capolavoro vietato all'epoca ai 18 anni e che solo nel '98 un ricorso della Warner Bros, accolto con sentenza dal consiglio di Stato, rese accessibile ai giovani sopra ai 14 anni. Via libera accolto però solo dalle tv a pagamento che decisero di mandarlo in onda nel 1999 e poi mai più. Lasciato al passaparola di strada, il film di Kubrick, datato 1971, è diventato nel tempo sinonimo di violenza umana incontrollata, di furia bruta senza motivo.
Un occhio ancora ieri ad una delle maggiori agenzie di stampa e si poteva trovare scritto: «Arancia meccanica a Tor Vergata», per indicare un gruppo di rapinatori particolarmente efferati in azione tra le case romane. Sintomo che la popolarità intrinseca del concetto ha valicato l'effettiva conoscenza dell'opera d'arte. Ma anche che il film di Kubrick, tratto dal vorticoso romanzo di Anthony Burgess, ha superato il confine cinematografico per entrare di prepotenza in un linguaggio comune e condiviso.
Tutti conosciamo la storia dei Drughi, il gruppo di tute bianche che in una Londra scenograficamente pop picchiano e seviziano reietti della società, oltreché menare le mani contro i gruppi di teppisti rivali. In termini quantitativi di botte e violenza tra bande, I guerrieri della notte (di Walter Hill), classico titolo da Bellissimi di Rete4 stravisto in tv, supera di gran lunga le vicende di Alex e compagni. L'indifferenza del censore televisivo ha fatto calare l'oblio prolungato per ben altro: è lo stupro che la banda dei Drughi commette ai danni della donna dello scrittore ad essere incriminato. Lo stesso Kubrick denunciava nel 1972 l'ostracismo subito dal film per quella specifica sequenza: «il film è stato accettato come opera d'arte dai maggiori festival e nessuna opera d'arte ha mai fatto un danno sociale, anzi una gran quantità di danni sociali li hanno fatti coloro che hanno cercato di difendere la società dalle opere d'arte che ritenevano pericolose». Problema etico ed estetico che va riattualizzato e ricalibrato sui tempi e sulle concessioni del mezzo televisivo: ultima mastodontica diga alla pluralizzazione dell'arte, alla tangibile globalizzazione della visione. La censura, vizio superato per il disgraziato mezzo cinema, si è spostata sul nuovo debordante media e sulla scelta dei film "adatti" alla televisione. Qui lo scontro cruciale con il fuoco di fila del Moige (ricorderete i toni da tregenda, giustamente sottolineati sul nostro giornale, per la messa in onda di Eyes Wide Shut all'ora proibita delle 21.30), dove Stanley Kubrick veniva paragonato alla stregua di un regista per sessioni sadomaso/orgy group del web. Ma è la televisione stessa, e chi la impone, ad avere timore di una riflessione critica sulla propria dimensione costrittiva.
Nel caso del film di Kubrick, tenuto nelle cantine televisive dal '71, non si è voluto cogliere lo humor, il ruolo dissacrante dell'occhio della cinecamera, la parabola surreale (Bunuel partì prevenuto ma amò tantissimo il film) legata alla critica dell'esercizio del potere politico e culturale sull'inerme massa. Ricordiamo che di lì a quattro anni uno come Pasolini girò Salò, anch'esso pezzo forte bandito dal piccolo schermo.
Giorgio Cremonini studioso di mass-media e autore di un saggio su Arancia meccanica ha scritto: «al cinema della crisi e alla crisi della ragione Kubrick oppone un cinema della ragione e della critica, la quale non ha affatto come primo dovere quello di essere costruttiva. Non ci vuole insegnare che fare, egli stesso non lo sa (…) l'importante è pensarci. Ed è altrettanto importante che il cinema ritrovi il suo modo di essere pensiero». Una traslazione di senso che per una sera applichiamo alla televisione. Esclusivo mezzo comunicativo divenuto esso stesso temibile e rieducativa "cura Ludovico" per le sue nuove masse di spettatori. Grazie a La7 per il piccolo miracolo autocritico e riparatore. Eyes wide open tonight, please.

Epolis Roma 25.9.07
Arendt, appunti sul tempo
Da giovedì saranno nelle librerie i Diari dell’intellettuale editi da Neri Pozza. Un viaggio nella filosofia che parte da Platone e arriva fino a Heidegger. Riflessioni sulla nascita e sulla morte
di Livia Profeti


Il pensiero di Hannah Arendt è una delle risorse più preziose che il secolo scorso ci ha lasciato in eredità. Nata ad Hannover nel 1906, ebrea, con l’avvento del nazismo si trasferisce a Parigi; dopo anni di vita da profuga, nel ’41 riesce a mettersi in salvo in America, dove visse e insegnò teoria politica sino al 1975, anno della sua morte. Una vita intensamente vissuta, a stretto contatto con gli eventi più tragici e i pensatori più significativi del ‘900, che si riflette nel tono dei suoi scritti, caratterizzati dal rifiuto dell’astrazione fine a se stessa e da una particolare forma di “concretezza”, anche quando si occupa di temi impalpabili come il pensiero.
Chiunque abbia avuto la fortuna di incontrarla nel cammino delle proprie letture non può che essere rimasto affascinato dalla malìa del suo linguaggio, che non teme le grandi visioni e i nessi veloci, colmi di senso. I lettori italiani hanno ora la possibilità di confrontarlo con quella privato degli appunti, impressioni e riflessioni che hanno accompagnato gran parte del suo lavoro. Dal 27 settembre saranno infatti nelle librerie i suoi Diari curati da Chantal Marazia per Neri Pozza, che coprono un arco di tempo che va dal 1950 al ‘74, ovvero subito successivo all’opera che l’ha resa famosa, Le origini del totalitarismo, sino ad altre fondamentali come La condizione umana e La banalità del male.
Dai diari emerge un vero corpo a corpo con il pensiero dei filosofi che a partire da Platone hanno inciso sulla nostra civiltà; una “lotta” che si fa ancora più intensa quando gli interlocutori prendono il nome di Marx, Nietzsche e Heidegger. E nel confronto con quest’ultimo (di cui fu anche giovane allieva e amante) emerge un elemento che potrebbe essere alla base del suo approccio così “diverso” ai problemi, forse legato al suo essere donna in un universo da sempre più che maschile. Questo elemento è il modo di guardare al tempo. Sia Heidegger che la Arendt, infatti, attribuiscono al tempo una condizione fondamentale nell’esistenza umana. Però, se la filosofia heideggeriana - che ha avuto un influsso enorme sulla nostra cultura - è tutta orientata verso la fine, cioè la morte, le riflessioni della Arendt ruotano intorno al polo opposto: la nascita, quell’“inizio” da sempre trascurato. Si legge appunto nei Diari: «è come se, da Platone in poi, gli uomini non avessero potuto prendere sul serio il fatto di esser-nati, ma solo quello di morire (…) Nel momento in cui (…) si pensa anche solo alla possibilità della morte del genere umano, l’intero ambito terreno e politico non ha più senso».
Al contrario di tutta una tradizione più che millenaria dunque, la nascita è centrale per la Arendt, ed è strettamente connessa alla politica nel senso più alto del termine, perché sulla natalità si fonda la capacità umana di iniziare qualcosa di assolutamente nuovo nel mondo. Un aspetto del suo pensiero di grande attualità, ancora molto da esplorare, del quale i Diari ci aiutano a comprendere senso e significato.

Corriere della Sera 30.6.07
Il pensatore del Seicento, lontano dalla religione ma tentato di negare il mondo
Spinoza, Dio e il Nulla
Il paradosso del grande filosofo: un legame segreto lo avvicina a Cristo
di Emanuele Severino


La filosofia nasce volendo essere libera: indipendente da miti, fedi, religioni, opinioni, istinti, costumi sociali, oltre che da ogni costrizione e comandamento che provengano dall'esterno di ciò che essa porta alla luce, chiamandolo «verità». Ma lungo la sua storia la filosofia si è posta sempre in rapporto con tutte queste forze, da cui essa non intende farsi guidare, per indagarne il significato e la consistenza: soprattutto con le religioni monoteistiche (e con il potere politico) — e in particolare col cristianesimo. All'interno della grande epoca della tradizione filosofica, cioè del pensiero che pone l'Eterno al di sopra o nel cuore del Tempo, e al suo fondamento, Spinoza è certamente il più lontano dal mondo religioso. Si può dire che quello di Spinoza sia addirittura «il più radicale e alternativo sistema della storia filosofica dell'Occidente dopo la venuta di Cristo»? Lo sostiene Filippo Mignini, che con grande perizia e acume ha curato la prima edizione italiana di tutte le opere del filosofo, con la collaborazione di un'altro specialista, Omero Proietti, per i Meridiani di Arnoldo Mondadori editore: Spinoza Opere; quasi duemila pagine, ottime traduzioni inedite; un evento culturale importante.
Sono note le vicende di questo grande, probo e pacifico pensatore ebreo, cacciato dalla Sinagoga e condannato, oltre che dagli ebrei, dai cristiani, protestanti e cattolici, e dagli Stati. Nonostante l'ammirazione di un ristretto circolo di amici, lo si considera «l'uomo empio e pericoloso di questo secolo», come scrive Arnauld, approvato da Leibniz (che però nel 1671 invia a Spinoza, a cui riconosce «insigne perizia nell'ottica», il proprio scritto Notizia sui progressi dell'ottica, per averne il giudizio). Anche Boyle, il grande precursore della chimica moderna, indirettamente in contatto con Spinoza, contribuisce a denunciare l'empietà. «Ateo, fatalista, materialista, dissacratore della Scrittura e di ogni religione, corruttore della morale e dalla stessa convivenza umana»: queste, ricorda Mignini, le accuse principali rivolte al filosofo.
Ma il giorno di Natale del 1784 Herder dona a Goethe gli Opera Posthuma di Spinoza: «Rechi oggi il santo Cristo in dono di amicizia il santo Spinoza», scrive; «Spinoza sia sempre per voi il santo Cristo». Odiato o dimenticato per un secolo, a partire dagli ultimi lustri del XVIII secolo il pensiero di Spinoza viene riconosciuto in tutta la sua potenza. Jacobi, Fichte, Schelling, Herder, Goethe, Schiller, Lessing, Hegel, Schopenhauer, Nietzsche, Borges, Einstein, tra gli artefici e i testimoni di questa rinascita. Che anche oggi è attuale — soprattutto per le tesi sul rapporto tra Stato e Chiesa, fede e ragione e per la difesa della democrazia. «La libertà di filosofare — si legge sul frontespizio del Tractatus theologico-politicus — si può concedere senza danno per la pietà e la pace dello Stato, ma, anche, essa non si può togliere senza togliere la pietà e la pace dello Stato». Sullo sfondo di queste tematiche, la decisione del filosofo di «ricercare un bene vero e condivisibile »: «qualcosa grazie al quale, una volta scoperto e acquisito, godessi in eterno una gioia continua e suprema».
Tale bene è Dio. Un Dio, certo, molto diverso da quello pensato dalla filosofia dopo l'annuncio cristiano: ad esempio non è persona, non ha volontà né scopi, include la natura, e quindi anche ciò che erroneamente gli uomini credono male e peccato. E tuttavia possiede quei caratteri della potenza e dell'eternità che sono propri di ogni modo in cui la tradizione filosofica ha pensato il divino.
Si tratterebbe di comprendere che anche alle radici di una filosofia come quella di Spinoza, così lontana dalle (sia pur grandi) abitudini concettuali della civiltà occidentale, è presente l'essenza stessa di quelle abitudini, il tratto decisivo rispetto al quale le pur profonde differenze tra Spinoza e i suoi avversari passano in secondo piano. «Alle radici», diciamo: perché si tratterebbe di scendere sul fondo dell'abisso su cui è sospeso il pensiero dell'uomo occidentale, e ormai dell'uomo planetario. Sin dall'inizio dell'Etica, il suo capolavoro, Spinoza distingue ciò che esiste necessariamente, cioè non è mai inesistente, ed è Dio, l'Eterno, da ciò che invece non esiste necessariamente, nel senso che non è sempre esistente ed è l'insieme delle «cose prodotte da Dio», esistenti nel Tempo. Ora, essenzialmente, radicalmente più decisiva del modo in cui Spinoza «dimostra » l'esistenza di Dio — e più decisiva di ogni altra «dimostrazione» di tale esistenza, proposta lungo la storia del pensiero occidentale — e la convinzione che le cose del mondo non esistono necessariamente: nel senso, appunto, che non sono sempre esistenti (anche se accadono necessariamente). Spinoza condivide questa convinzione con ogni altra forma (anche religiosa, dunque) del pensiero dell'Occidente.
Si dirà: è ovvio che la condivida! Infatti è la verità più evidente di tutte! E oggi si aggiunge: ed unica verità evidente!— Questo dire e questa aggiunta sono inevitabili. Infatti, anche se la cosa è tutt'altro che facile a comprendersi, l'onnipresente essenza della civiltà occidentale e appunto la convinzione che le cose del mondo non siano sempre esistenti e che questa loro non necessaria esistenza sia l'evidenza originaria o, addirittura, come oggi si conviene, l'unica evidenza assoluta.
Perché, allora, perdere tempo con ciò che oggi è rimasta l'unica verità fuori discussione, e non impegnarsi invece per diradare un poco le nebbie dell'incertezza che avvolge la vita dell'uomo? Proviamo a rispondere così: perché quanto sembra l'unica verità veramente fuori discussione è invece l'errare più profondo, e anche più nascosto. Ma come possiamo azzardarci a dir questo? Che presunzione! Ancora maggiore, la presunzione, se si tiene presente, che anche per la scienza moderna le cose del mondo non esistono sempre: esse sono, dopo non essere state, e tornano a non essere: sporgono provvisoriamente dal nulla.
Certo, sembra proprio un azzardo e una presunzione. Con i quali, tuttavia, acquista un maggior spicco il motivo per cui affermiamo che anche una filosofia come quella di Spinoza, così lontana dalle abitudini morali e concettuali dell'Occidente cristiano, e, ciò nonostante, profondamente solidale con l'essenza di tali abitudini. Anche a Nietzsche (che vede in Spinoza il pensatore a lui «più vicino») compete questa solidarietà.
Poi, si tratterà di pensare la follia di quell'essenza. Credere che le cose escano e ritornino nel nulla — ad opera di un Dio o da sole — non è forse credere che le cose siano nulla? non è forse credere che ciò che non è nulla sia nulla? e questa fede non è forse la mano più terribile e violenta? non uccide forse uomini e cose nel modo più originario e radicale, quello che sta al fondamento della violenza visibile che tutti sono capaci di scorgere? Sul fondamento di questa fede, ogni santità è la culla dell'omicidio e di ogni altra forma di annientamento.
Certo, è indiscutibile che per Spinoza (sulla scia di Seneca e in generale dello stoicismo) le decisioni umane e tutte le cose avvengono per «fatale necessità» (fatalis necessitas); che nessuna cosa può esistere diversamente da come esiste e che dunque ogni cosa è necessaria. Certamente! Ma nel senso che ogni cosa del mondo si genera e si corrompe necessariamente: non nel senso che non si generi e non si corrompa. Che tali cose escano dal nulla e vi ritornino seguendo o non seguendo un percorso inevitabile indica due prospettive che per quanto fortemente opposte hanno tuttavia in comune la convinzione decisiva e abissale: che le cose del mondo sono nulla. La stessa convinzione che accomuna nell'essenziale le esperienze in cui, lungo la storia dell'Occidente, si pone un Dio alla guida della produzione e distruzione delle cose e le esperienze dove invece si ritiene che tale produzione-distruzione non abbia bisogno di alcun Dio. Questa accomunante convinzione è l'«intima mano», assolutamente più intima e terribile di quanto possa supporre Herder, quando, volgendosi al «santo Cristo» e al «santo Spinoza», si chiede: «Quale intima mano congiunge i due in uno»?