giovedì 27 settembre 2007

La Repubblica 23 maggio 2007
Quando la ragione diventò valore di scambio
di Umberto Galimberti


Torna a Trento la seconda edizione del festival dell' Economia. Dal 30 maggio al 3 giugno incontri, spettacoli, mostre e laboratori per ragazzi - Da Prodi al premio Nobel Gary Becker, per discutere della contrapposizione tra l' interesse economico e il fattore umano

È bene ricordare che la parola "ragione", in latino ratio, nasce in ambito economico come regolatrice degli scambi, per cui chi riceve deve corrispondere, a chi dà, qualcosa di equivalente, secondo il principio del reddere rationem. Prima dell' introduzione del "valore di scambio" a regolare i rapporti era lo "scambio simbolico" che si esprimeva nella rapina o nel dono, in cui cioè si celebravano i rispettivi rapporti di forza: o nella forma aggressiva di chi era in grado di appropriarsi dei beni altrui senza contropartita, o nella forma munifica di chi nel dono celebrava la sua potenza e insieme la sudditanza del beneficiario. Introducendo il principio che chi riceve nello stesso tempo deve dare, non è più in gioco l' esercizio di potenza delle soggettività, ma il calcolo oggettivo del valore delle cose. Così nasce il "mercato", che organizza una società in funzione di detto calcolo, al punto da sostituire progressivamente, al dominio dell' uomo sull' uomo, il dominio dell' apparato calcolante, alla cui razionalità si sottomettono sia il lavoratore sia l' imprenditore i quali, sia pure nella differenza delle loro mansioni, si configurano come funzionari dell' apparato. In questo modo si vanifica ogni ipotesi rivoluzionaria perché, come ci insegna Hegel, la rivoluzione è possibile quando in gioco c' è il conflitto di due volontà, ma non quando la razionalità del mercato le subordina entrambe a sé, annullando il loro potenziale conflitto. Disciplinando l' impulso al guadagno e depurandolo dai suoi aspetti irrazionali e violenti, il mercato traduce la ragione occidentale in ragione economica, che, nel tendere a un guadagno non occasionale ma continuativo, evidenzia in ogni passaggio il motivo che solo la razionalità è condizione di redditività, perché, risolvendo ogni attività lavorativa in prestazione funzionale, la depura da ogni ideologia, risolvendola nell' ambito della ragione tecnica. Sotto il dominio della ragione tecnica, l' uomo incomincia ad uscire dalla scena della storia perché: come soggetto di bisogni è assolutamente ininfluente, in quanto i suoi bisogni hanno la possibilità di essere soddisfatti solo se compatibili con la redditività del calcolo economico, mentre come soggetto di azioni (siano esse lavorative, siano esse imprenditoriali) la sua rilevanza è data dalla sua produttività in ordine alla redditività economica, in riferimento alla quale, l' uomo e i suoi scopi sono ridotti a semplici grandezze variabili nel calcolo delle possibilità di guadagno e di profitto. Ma l' economia (di mercato), dopo aver sottratto gli scambi alla logica della rapina e del dono per sottometterli a un regime di razionalità, soffre ancora di quell' elemento irrazionale, tipico delle passioni, che è la passione per il denaro, da cui la tecnica è tendenzialmente immune, perché non ha come suo scopo il profitto, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non svela la verità, semplicemente funziona. E siccome il suo funzionamento è diventato planetario, planetario è diventato il suo tipo di razionalità che si è soliti chiamare "strumentale", in quanto ha la sua misura nel massimo dell' efficienza, espressa dal miglior rapporto tra i costi impiegati e i risultati raggiunti. Per la tecnica, e per la razionalità che la governa, modello di efficienza e di funzionalità è la macchina, che non soffre di quegli "inconvenienti umani" che sono lo stato di salute, la variazione degli umori, i ritmi di efficienza, i livelli di precisione, che fanno sentire l' uomo inadeguato rispetto alle macchine che impiega, anche perché dette macchine, dal computer al cellulare giusto per fare degli esempi, incorporano una quantità tale di cultura oggettivata, da far apparire la cultura soggettiva di chi la impiega in tutto il suo limite e la sua inadeguatezza. Eppure, anche se nel complesso macchinale l' uomo percepisce se stesso come il congegno più asincronizzato, può davvero la ragione strumentale della tecnica, che utilizza solo il pensiero calcolante regolato da criteri di efficienza, produttività, obbiettivi a breve e medio termine, essere all' altezza della globalizzazione del mercato che, per essere compresa, richiede competenze antropologiche per entrare in relazione con altre culture e visioni del mondo di cui il pensiero calcolante è del tutto sprovvisto? Se il tipo di pensiero è limitato al calcolo tipico della ragione strumentale, forse le imprese che si regolano esclusivamente su questo tipo di pensiero si precludono la capacità di anticipare e governare i cambiamenti, col risultato che avranno sì una storia, ma non un futuro, per aver trascurato il capitale umano che ha ritmi di accumulazione radicalmente diversi dal capitale finanziario. Se quest' ultimo infatti si misura sui tempi brevi del rendiconto trimestrale e della quotazione in borsa, il capitale umano esige un respiro più lungo e una forza che si conquista per maturazioni e arricchimenti successivi, di cui il pensiero calcolante non ha la più pallida idea.

La Repubblica 6 luglio 2007
Baruch Spinoza. Ripensò Dio e liberò l' uomo
di Eugenio Scalfari


Un pensiero radicale e per questo molto avversato che cancellava ogni tentazione antropomorfica nella concezione del mondo e della sua creazione
Convivono nei suoi scritti un aspetto distruttivo e uno costruttivo, intrecciati l' uno con l' altro
L' incontro decisivo che egli ebbe e che lo aiutò a definire il suo pensiero fu quello con Descartes
Nietzsche si imbatté in lui negli anni 80 del suo secolo e ne rimase sconvolto: ecco il mio precursore


La pubblicazione avvenuta di recente nei "Meridiani" Mondadori dell' opera completa di Baruch Spinoza è un evento importante nella cultura italiana e non soltanto per la vastità degli apparati, la completezza critica dei testi, la qualità dei commenti e in particolare per le introduzioni alle singole opere e per quella generale, dovuta a Filippo Mignini. L' evento sta nel fatto stesso della pubblicazione. Qui ed ora, viene in mente di dire. Perché qui ed ora la filosofia di Spinoza attraversa di nuovo una fase attraente, direi in sintonia con i modi di sentire dell' epoca in cui viviamo; ma sintonia però non consapevole e perciò inadeguata, neppure nella società dei colti e dei filosofi, con alcune importanti eccezioni tra le quali va segnalata quella di Emanuele Severino che di Spinoza è stato da sempre attento e acuto cultore. Il crescere e il tramontare delle filosofie e dei filosofi che le hanno pensate è un attributo permanente è quasi il succedersi di una modalità alla quale sono stati soggetti anche i pensatori più significativi, da Descartes a Hobbes, a Kant, ad Hegel e Schopenhauer a Nietzsche e Heidegger, tanto per restare nel solco della nostra civiltà occidentale. Perfino Platone e Aristotele hanno avuto fasi di luminosità e altre di impallidimento nella memoria collettiva. Ma nessuno ne ha sofferto quanto Spinoza, costretto addirittura a non pubblicare la maggior parte dei suoi scritti che sarebbero comunque incorsi nel sequestro immediato e nell' immediata distruzione, come avvenne per i pochissimi che - lui vivente - videro la luce. Nonostante questo suo silenzio obbligato, fioccarono su Spinoza scomuniche e dannazioni estreme, a cominciare dalla più terribile che gli fu inflitta dalla Sinagoga di Amsterdam, cui seguì l' ostilità dapprima blanda ma poi sempre più intensa fino a diventare furiosa dei circoli cattolici in Olanda, in Francia, in Germania e a Roma. Infine, non meno violenta, la "damnatio" delle Chiese riformate, luterane e calviniste che fossero. Così anche l' opera postuma ebbe scarsa diffusione e possibilità assai limitate di influire sull' evoluzione del pensiero filosofico, anche se fu conosciuta e tenuta in gran conto da alcuni degli illuministi (pochi in verità) la maggior parte di essi accettando semplicisticamente un teismo al cui approfondimento non dedicarono gran tempo. La scoperta di Spinoza arrivò con l' Ottocento, ad un secolo e mezzo di distanza dall' opera sua. Illuminò quell' arco di anni con intensità ma poi di nuovo rientrò nel silenzio e soltanto di recente ricominciarono segni di attenzione. Bisognerebbe domandarsi il perché di questo interesse così discontinuo e precario. La scrittura rocciosa e "geometrica" delle sue argomentazioni non è certo fatta per accattivare, ma non può esser quello il vero ostacolo se solo si pensa alle non minori difficoltà di lettura e di comprensione di filosofi che hanno tenuto a lungo la scena dell' opinione colta, a cominciare da Kant e a finire con Heidegger. Non credo perciò che sia stato quello l' ostacolo, ma piuttosto un altro e cioè la radicalità del pensiero spinoziano nei confronti della salvezza, dell' antropomorfismo e della centralità dell' uomo nel mondo. Non c' è stata finora filosofia più lontana, più indifferente, anzi più impegnata nella dimostrazione che la nostra specie non può vantare alcun privilegio e alcuna posizione dominante nell' universo. Non solo: non può appellarsi né sperare in alcun Dio che possa assicurarci la salvezza e indicarne il percorso. Ma, nello stesso tempo, una filosofia dedicata alla dimostrazione che "Dio c' è" come si direbbe oggi, ed anzi è presente in tutto e dovunque, eterno e assoluto, unica sostanza esistente, della quale tutto l' universo è pervaso fin nelle sue più intime particelle; ma un Dio indifferente, privo di passioni e di affetti, non vendicativo ma neppure misericordioso; un Dio che nulla ha creato, che non conosce se stesso, che nulla vuole perché non ha volontà; un Dio infinito e assoluto, pura potenza che incessantemente si attua nelle infinite forme naturali. Infine un Dio che è "natura naturante" dal quale esplodono senza interruzione le forme della "natura naturata" ciascuna delle quali fondata sulla legge che scaturisce dal suo proprio fondamento. «Questo tuo Dio è un mostro» gli scrisse uno tra i tanti suoi corrispondenti che cercavano di chiarire a loro stessi il suo pensiero sperando (per loro) che esso potesse almeno esser tollerato dalla Chiesa e dalle Università e quindi pubblicamente discusso e diffuso. «Questo tuo Dio è un mostro». Ma lui, a sua volta, non riusciva a comprendere reazioni così violente e rifiuti così totali. E si accaniva a rispondere, a chiarire il suo pensiero, a definire i soggetti e le idee. La definizione era per lui una vera e propria legge. «Questo è vero per definizione» diceva, e si stupiva che gli altri non capissero. La forza della definizione è opera di Spinoza ed assume con lui il valore del "Logos", del "Verbo", della "Parola" celebrati nel Vangelo di Giovanni quale "incipit" della Creazione. Solo che per Spinoza credere nella Creazione era una bestemmia intellettuale: il suo Dio non era creatore ma assoluta potenza necessaria; non manipolava una materia a lui esterna, ma attuava la sua potenza, la sua esplosiva potenza che non poteva che attuarsi. Il suo «tutto è Dio» non era concettualmente lontano dal più radicale ateismo. Anche se la parola ateismo non dovrebbe esser lasciata circolare senza una sua definizione. * * * Convivono nell' opera di Spinoza un aspetto distruttivo ed uno costruttivo, intrecciati l' uno con l' altro e necessari entrambi. L' uno non potrebbe darsi senza l' altro; la sua raffigurazione e dimostrazione del Dio come potenza infinita e assoluta, unica e pervasiva sostanza di tutte le cose, non potrebbe infatti procedere senza aver sgombrato il campo dalle raffigurazioni fallaci e «superstiziose» che ingombravano le religioni monoteistiche e in particolare quelle giudaica e cristiana. Secondo il suo pensiero queste raffigurazioni fallaci sono: il Dio incarnato, le attribuzioni a Dio di "affetti" propri della natura umana, i miracoli, la rivelazione nel suo complesso. Insomma le Scritture, a cominciare dal Genesi, i Vangeli e la figura di Gesù-Dio, morto e risorto; Mosè, Abramo e l' Alleanza intesa come percorso verso la salvezza. E comincia dal punto più sensibile, teologicamente e politicamente: quello del Dio fatto uomo. Scrive ad uno dei suoi corrispondenti cattolici, Hugo Boxel: «Questo io so: che tra infinito e finito non si dà alcuna proporzione» e ad Albert Burgh: «Tu mi compiangi e chiami una chimera la mia filosofia. Oh giovane privo di mente. Chi ti ha incantato fino al punto di portarti a credere che tu possa divorare ed avere negli intestini quel Dio sommo ed eterno?». Ma poiché i suoi interlocutori fingono di non capire e continuano ad incalzarlo con petulanti richieste di chiarimenti, alla fine spazientito risponde a Boxel: «Quando dico che ti sfugge quale Dio io abbia se nego che l' atto di vedere, udire, osservare, volere non si danno in Dio, sospetto che tu creda che non esistano perfezioni maggiori di quelle che sono tipici attributi umani. Ma non mi meraviglio di questo perché credo che anche il triangolo, se avesse la facoltà di parlare, direbbe egualmente che Dio è triangolare e il cerchio direbbe che la divina natura è circolare in modo eminente. Così ognuno ascriverebbe a Dio i suoi attributi, si renderebbe simile a Dio e il resto gli sembrerebbe di forma diversa». Questi pensieri assumeranno forma definitiva nell' Etica, la sua opera più completa dove Dio sarà descritto come «la sostanza eterna, infinita e assoluta che non opera con libera volontà né con intelligenza, non ha alcun rapporto personale e diretto con gli uomini né con alcuna altra specie, non è né misericordioso né vindice o giustiziere, non è affetto da gioia né da tristezza. Non vi è pregiudizio più misero di quello che subordina il presunto amore dell' essere infinito alla venerazione ricevuta da una natura finita. Altrettanto meschina è la convinzione di poter modificare i decreti di Dio per mezzo delle nostre preghiere, come si potrebbe fare con un padre un giudice e un re». Dio - per dirla in breve - produce a getto continuo forme in sé perfette, una esplosione di forme, ciascuna determinata e quindi soggetta alla natura della propria forma. Forme moriture come tutto ciò che deriva da una nascita, ma non create da un Dio che abbia utilizzato «altro da sé» o che abbia ordinato un caos preesistente. Le forme prodotte da Dio sono un' eruzione continua il cui fondamento è Dio stesso il quale, attraverso quelle forme, è ovunque e tutto pervade con un' immanenza totale. Il mondo così descritto non contiene dunque una scintilla divina inserita dentro ad una materia altrimenti inerte o caotica ma, al contrario, il mondo è interamente divino e per questo stesso è infinito. Così ragionava l' ebreo Baruch Spinoza, stupefatto di esser definito ateo e dissacratore, lui che descriveva e sentiva la divinità onnipotente, nel filo d' erba e nel serpente, nella stella e nell' uomo, senza colpe, senza peccati, senza necessità di salvezza né di individuale sopravvivenza, salvo sapere che ogni ente esistente e perituro non ha altra pulsione che la sopravvivenza della propria forma e quindi la paura della propria morte per quelle forme capaci di pensare se stesse e la propria mortalità. * * * L' incontro decisivo che egli ebbe e che contribuì a definire la struttura del suo pensiero fu quello con Descartes che, prima dell' arrivo in campo dell' autore dell' Etica aveva rappresentato la vetta più alta della speculazione filosofica aprendo la strada alla modernità. Il Discorso sul metodo è stato il punto d' arrivo e insieme il punto di partenza della storia della filosofia che gli va tuttora debitrice per tre aspetti essenziali del suo pensiero: la scoperta dell' io quale punto di riferimento della conoscenza, la necessità di ancorare l' attività conoscitiva a certezze di assoluta evidenza, la distinzione tra la "res cogitans" e la "res extensa" che riassume in due polarità l' intera moltitudine degli enti recuperandone l' oggettività dopo aver affermato l' egemonia conoscitiva ed esistenziale del soggettivismo. Con questo stipite del pensiero moderno si misurò Spinoza quindici anni dopo la pubblicazione dei Principi di filosofia e la scomparsa del loro autore. In realtà quell' incontro fu inizialmente una sorta di tributo che Spinoza volle pagare alla grandezza innovativa di Descartes, curandone la traduzione dal latino in lingua olandese ed argomentandone le tesi da par suo. Cartesio in quegli anni era preso di mira dalla tradizionale dottrina della Chiesa. Tradurne i testi in una lingua "volgare" era già di per sé un modo di esporsi all' implacabile giudizio dell' Inquisizione; commentarli positivamente, sia pure con qualche timida riserva, significava addirittura sfidare l' ortodossia della Scolastica e attirare su di sé gli anatemi dei Tribunali ecclesiastici. Il pur prudentissimo Spinoza corse questi rischi, anche se mise bene in chiaro che la sua era stata soltanto un' operazione editoriale e culturale e non già lo schierarsi e identificarsi con le tesi di Cartesio dalle quali anzi in più punti dissentiva. Molti contemporanei attribuirono allora quella presa di distanza da Cartesio alla necessità di non approfondire il solco con la Chiesa e con la sua Inquisizione. Ma le cose non stavano così. Il riconoscimento spinoziano della grandezza di Cartesio era senza dubbio genuino, ma altrettanto genuine le sue riserve, in particolare dalla distinzione tra la cosa "estesa" e la cosa "pensante" che Descartes riteneva fossero due sostanze incomunicabili in tutto fuorché nell' essere entrambe una creazione di un Dio trascendente, mentre Spinoza le vedeva come due attributi di Dio riverberati nella nostra specie come "modalità" dell' unica sostanza divina e immanente a tutte le cose. Quanto al "Cogito ergo sum" Spinoza non si è mai espresso in modo esplicito ma dall' insieme del suo pensiero quell' orgogliosa affermazione dell' autonomia dell' io risulterebbe esser stata fatta propria dall' autore del Tractatus. Per arrivare a questa conclusione occorre però forzare il pensiero di Spinoza su un punto assai delicato: quello dell' autonomia delle forme nelle quali si esplica la sostanza divina. In verità Spinoza usa assai poco o per niente la parola "forma" e molto di più usa il termine "res" privilegiando l' estensione rispetto al pensiero. Se ne comprende la ragione: la "res extensa" coinvolge nella propria dimensione tutto l' universo inorganico oltre a quello organico. La "cogitans" invece si limita alle facoltà della nostra specie. Ma questo è un aspetto soltanto quantitativo del problema e quindi non essenziale per le concezioni spinoziane. Per questa ragione io credo che il termine "forma" sia il più appropriato per designare la molteplicità immanente della "natura naturans" nelle sue infinite espressioni. Ebbene: il fondamento di queste forme dell' immanenza sta appunto nelle "modalità" che le distinguono. La modalità è nata perfetta, senza difetti e senza peccato, come Dio l' ha emessa realizzando la sua potenzialità. L' autonomia di quella forma nei suoi "modi" fa dunque parte della sua definizione e per Spinoza la definizione altro non è che legge di natura. Questo ragionamento mi porta a concludere che il "Cogito ergo sum" fu accettato e inserito nel pensiero spinoziano. Semmai, ai suoi occhi, sarebbe bastato scandire il verbo "esse" con la prima persona singolare. L' uomo in quanto individuo era titolato a pronunciare questa affermazione, la sua pulsione di sopravvivenza lo portava a quell' orgoglioso "sum", l' evidenza del vero era interamente presente. Aggiungo per la chiarezza di noi postumi che la distinzione cartesiana tra l' estensione e il pensiero è stata superata non soltanto per le ragioni esegetiche addotte da Spinoza, ma per altre ancor più decisive. La mente pensante altro non è che un' efflorescenza degli apparati cerebrali. Altre volte ho scritto che la mente sta alle mappe cerebrali come la musica sta al pianoforte e le sue "note" stanno ai tasti di quello strumento. Il funzionamento della mente non è mai lo stesso; come le note vanno rapportate di continuo alla tensione delle corde che le producono. Ne segue che al funzionamento della mente, cioè del pensiero, cospirano tutti gli organi del corpo e non soltanto il cervello. Il quale riceve dagli altri organi, tramite i flussi sanguigni e i terminali nervosi, sensazioni ed elementi in misura diversa di tempo in tempo. La quantità di ossigeno non è mai la stessa, le tossine provenienti dal fegato, dall' intestino, dai reni, non sono mai le stesse e mai gli stessi gli ormoni, gli enzimi, i flussi endocrini. La mente insomma è parte integrata nel corpo, ne è determinata e a sua volta lo determina; sicché nel corpo individuale tutto è al tempo stesso esteso e cogitante, che è poi la stessa tesi spinoziana raggiunta attraverso la fisiologia moderna anziché attraverso le tesi filosofiche dell' immanenza della natura divina. * * * Non è certo questa la sede per rivisitare compiutamente la filosofia di Baruch Spinoza, per la quale si può adottare la conclusione di Filippo Mignini a chiusura della sua introduzione generale: «È stato uno dei rari spiriti che nella storia del mondo hanno ideato per qualunque uomo di ogni religione e cultura un percorso di illuminazione e di libertà». Mi sembra invece interessante mettere in luce i nessi tra lui e il principale tra i pensatori che l' hanno scelto come compagno e maestro. Parlo di Federico Nietzsche, il filosofo che chiude il ciclo della filosofia moderna smantellando il platonismo e le religioni, decostruendo e anzi capovolgendo la scala tradizionale dei valori ed elaborando una visione del mondo, della conoscenza e della civiltà che approda al superamento dell' io e di ogni assoluto. Nietzsche fu più un artista e una «voce» che un filosofo nel senso tradizionale della parola. Raccontò il suo pensiero. Parlò per enigmi, per aforismi, per frammenti, per simboli. Dopo di lui sarebbe impossibile scrivere un trattato o un manuale di filosofia. I pochi che hanno tentato ancora di farlo hanno solo dimostrato la loro irrilevanza. Ma Nietzsche non può esser compreso se non si risale a Spinoza. L' autore del Tractatus e dell' Etica può apparire, se si bada alla forma della sua scrittura, esattamente agli antipodi dell' autore di Zarathustra. Invece basta ascoltare lo stesso Nietzsche per comprendere di quale spessore fosse la consonanza dei loro pensieri. Nietzsche s' imbatté (è il caso di usare questa parola che contiene un elemento fortuito) in Spinoza negli anni Ottanta del suo secolo, ne rimase sconvolto e così ne scrisse all' amico Overbeck: «Sono pieno di meraviglia e di giubilo: ho un precursore, e che precursore! Io non conoscevo quasi Spinoza. Per "istinto" ho desiderato di leggerlo. Questo pensatore, il più abnorme e solitario che sia mai esistito, è il più vicino a me in queste cinque argomentazioni: egli nega il libero arbitrio, la finalità, l' assetto morale del mondo, il non-egoismo, il male. Anche se tra Spinoza e me restano enormi differenze, queste sono da attribuire soprattutto alla differenza dei tempi, della cultura, della scienza. Insomma la mia solitudine - che come capita in montagna alle grandi altitudini, spesso mi toglieva il fiato e mi faceva trasudare sangue dai pori - è ormai una solitudine in due». Non ci poteva essere elogio maggiore e più lucida identificazione. Ma resta, al di là delle differenze dovute ai diversi contesti storici dei tempi, della cultura e della scienza, che l' autore di Zarathustra chiaramente individua, un approccio che pone Nietzsche in una prospettiva diversa anche nei confronti di Spinoza, rispetto alla intera storia della filosofia occidentale da Platone in poi, ed è il rapporto con l' assoluto. Con la verità assoluta. Con la divinità assoluta. Spinoza è infatti il più radicale assertore dell' assolutezza della verità e della divinità dell' immanenza, "sive natura". Dell' essere parmenideo, presente in tutti gli enti che da quell' essere scaturiscono. E della conoscenza che l' intelletto individuale può averne. Per Nietzsche al contrario il solo approccio valido alla conoscenza ha il suo fondamento nell' interpretazione. L' interpretazione è il suo Logos, il suo Verbo, la sola ed unica realtà. L' essere nietzscheano non è quello di Parmenide ma quello di Eraclito per quel tanto che sappiamo di lui; non è lo stare, ma il divenire, il flusso, la rappresentazione prismatica dell' universo. Quando, nella lettera a Overbeck, Nietzsche enumera le cinque argomentazioni di Spinoza nelle quali egli si riconosce interamente, compie a mio avviso un errore auto-interpretativo: afferma, come Spinoza, di negare il valore morale del mondo. Ma sbaglia. Il mondo nietzscheano è un mondo morale proprio perché ogni interpretazione contiene la sua propria moralità. Proprio perché il relativismo nietzscheano nega l' assoluto ma rifiuta il nichilismo. Diciamo dunque che neppure Spinoza riesce a liberarsi dalla metafisica come - dopo Nietzsche - recuperano una sorta di metafisica tutti quei pensatori che riproposero l' essere alla base della loro concezione. Nietzsche è stato il vero solitario in questo punto capitale del pensiero, è stato l' unico ad aver descritto la realtà come una polifonia interpretativa il cui fondamento risiede nello sguardo dell' interprete. Dopo Nietzsche resta in piedi una sola domanda: può l' interprete interpretare anche se stesso? Domanda fondamentale, cui non si può dare risposta se, prima, non si definisca la parola interpretazione e il soggetto che la pronuncia. Una definizione. Ecco che ancora torna in scena Spinoza e il valore che egli attribuisce alla definizione. Vedete? Il Logos, il Verbo, la Parola, la parola-chiave, l' Interpretazione, l' Interprete.... Scrive Giovanni all' inizio del suo Vangelo: «All' inizio ci fu il Logos e il Logos era accanto a Dio, il Logos era Dio». Se non ci fosse il relativismo nietzscheano, saremmo di nuovo in piena metafisica.
l'Unità 27.9.07
Finanziaria, strappo della sinistra radicale
Mussi, Giordano, Diliberto e Pecoraro: no a Padoa Schioppa, la manovra va rifatta


Mastella assente per gli attacchi a Ballarò, premier solidale. Fassino avverte Di Pietro
Prima il confronto con le parti sociali, poi il teso faccia a faccia notturno con i ministri e i leader dell’Unione. Prodi e Padoa-Schioppa si sono trovati davanti al «fuoco» di sbarramento di Rifondazione, Pdci, Verdi e Sd che hanno chiesto di riscrivere l’impianto della manovra. Prodi solidale con Mastella, assente polemico per gli attacchi a Ballarò.

SOLIDARIETA’a Clemente Mastella che non va a Palazzo Chigi perché nessuno gli ha espresso considerazione dopo la «trappola» di Ballarò. Si apre così, con lo «sdegno» di Prodi, il vertice dei Trenta. Immaginato dal premier per raggiungere l’obiettivo di blindare la finanziaria con un percorso collegiale. E che ieri ha fatto registrare l’offensiva della sinistra “radicale” contro Padoa Schioppa. Rimandato in via XX Settembre per riscrivere in quarantott’ore una Finanziaria che, a sentire Giordano, Pecoraro Scanio, Mussi, Salvi e Diliberto, non tiene in alcuna considerazione le richieste che provengono da quella parte dell’Unione. «Romano, pensaci tu», dicono in coro i leader Prc, Sd, Pdci e Verdi. E affidano, così, nelle mani del Presidente del Consiglio, un salvagente che serve anche a loro. Perché, alla fine, come aveva ripetuto Franco Giordano davanti alle telecamere di Rai Utile qualche ora prima, il «nostro obiettivo non è quello di far cadere il governo Prodi». E il premier raccoglie la sollecitazione, cerca di sdrammatizzare e para le accuse rivolte da sinistra a Padoa Schioppa. «Il vostro documento è arrivato solo da qualche giorno - spiega- poi sono partito per New York e per l’assemblea dell’Onu. È chiaro che lo terremo nella massima considerazione. Ancora abbiamo a disposizione 48 ore di tempo....».
Scarsa collegialità. È proprio quella l’accusa che muove la sinistra radicale dell’Unione. Che arriva al vertice per cantare in coro che la Finanziaria va «reimpostata e ridiscussa» di sana pianta. Ambiente, welfare, tassazione delle rendite finanziarie, restituzione di risorse ai ceti meno abbienti: le richieste di Pecoraro Scanio, Mussi, Salvi, Diliberto e Giordano scorrono da una parte all’altra della sala verde di Palazzo Chigi dove si riuniscono capigruppo parlamentari e leader di partito.
Mussi spiega che la tassazione delle rendite finanziare era parte integrante del programma dell’Unione. «Attueremo quel programma - assicura il premier - ma non possiamo introdurre la tassazione delle rendite finanziarie in questa Finanziaria. Attenzione a non turbare i mercati. L’anno prossimo ne potremo riparlare». La sinistra è seriamente intenzionata a non cedere terreno all’ala riformista e al centro dell’Unione.
Un pre vertice, nel pomeriggio di ieri, aveva fissato la linea e tutti, Prc, Verdi, Pdci e Sd, hanno fatto squadra.
«La Finanziaria non è l'occasione per regolare conti fra di noi, se ce ne sono - ammoniva Prodi - Ma l’occasione per iniziare una politica di restituzione e di rilancio del Paese e per la ricostituzione del suo capitale». E la legge di Bilancio di quest’anno sarà quella «della normalità» dopo quella «del risanamento» messa in campo lo scorso anno.
«Facciamo squadra, quindi», esorta il Presidente del Consiglio. Considerando che «il debito pubblico inizia la discesa», ma che «purtroppo, questa discesa è appena iniziata».
Diliberto, Giordano, Mussi e Pecoraro Scanio, però, criticano aspramente la relazione di Tommaso Padoa-Schioppa. E il suo intervento all’incontro con le parti sociali che non teneva in alcuna considerazione - lamentano - le posizioni della sinistra “radicale”. «Mancano elementi chiari per giudicare la manovra - spiegano un po’ tutti - e quei pochi che si conoscono sono negativi». Iniziare daccapo, quindi. Il ministro dell’Economia rimandato indietro, costretto a rimettere mano ai numeri in quarantott’ore, visto che venerdì il Consiglio dei ministri è convocato per varare la manovra. Insieme alla manifestazione messa in campo per il 20 ottobre dalla sinistra radicale, la giornata di ieri dà la misura dell’autunno bollente che il governo dovrà cercare di superare. Anche se - va rilevato - i leader della sinistra hanno rimesso la partita nelle mani di Prodi. «Confidiamo nella tua capacità di mediazione - ha dichiarato Diliberto - la nostra fiducia nei tuoi confronti non è mai stata in discussione, ma va ricercata una vera sintesi tra le diverse istanze della coalizione». Doppio passo, quindi. Attacco a Padoa Schioppa e rilancio che mette la palla nelle mani di Prodi. Tendere la corda, ma cercare di non farla spezzare. Prodi, tra l’altro, dovrà vedersela con i diniani che, al Senato, promettono battaglia nel caso in cui il baricentro della Finanziaria dovesse spostarsi verso sinistra. Una navigazione difficile, non c’è che dire.

L’obiettivo è colpire uniti, perché «la Finanziaria è da reimpostare completamente». Anche se Rifondazione comunista, Pdci, Verdi e Sinistra democratica marciano divisi. Le forze che dovrebbero dar vita alla cosiddetta “Cosa rossa” hanno fissato in agenda un pre-vertice prima di vedere in serata Romano Prodi e gli altri alleati e denunciare la «mancanza di collegialità». Scopo dell’incontro, pianificare una strategia unitaria per per far sentire il peso dei 150 parlamentari della sinistra radicale nella discussione sulla Finanziaria. Perché, è scritto nel cahier de doléances portato al tavolo di Palazzo Chigi, «così non va», «non c’è collegialità», «Padoa-Schioppa non ci ascolta», «loro la Finanziaria la fanno come vogliono», «si può discutere come armonizzare la tassazione sulle rendite, non dire che non si fa», e via lamentando e criticando. Con strali tutti puntati su Padoa Schioppa, chiedendo a Prodi di fare una mediazione vera sulle loro richieste, perché fino ad ora questa mediazione non c’è stata. All’appuntamento di preparazione al vertice non si sono però presentati né Oliviero Diliberto né i capigruppo dei Comunisti italiani di Camera e Senato. Alla base del forfait, l’irritazione del segretario Pdci per quella che definisce una «retromarcia» di Rifondazione comunista sui militari italiani in Afghanistan. Ovvero, per il fatto di essere rimasto isolato nel chiedere il ritiro delle nostre truppe. Ma Franco Giordano non ci sta a passare per uno che «ha cambiato idea», come sostiene il Pdci, sull’Afghanistan. Così come gli piace poco vedere uno dei suoi, per quanto della minoranza, come il senatore Fosco Giannini denunciare il fatto che soltanto lui ha difeso Diliberto dagli attacchi della Cdl. Il segretario del Prc rimane convinto che non andava aperta una polemica sul ritiro dei nostri soldati nel giorno del rapimento, e guarda con sospetto agli smarcamenti di esponenti delle minoranze interne. Il timore è che di questo passo il processo unitario della “Cosa rossa” finisca per arenarsi. E a Diliberto, d’altro canto, non è piaciuto sapere del pre-vertice di ieri pomeriggio soltanto dopo che si erano messi d’accordo tra loro Giordano e Fabio Mussi. «A che serve incontrarci di nuovo?», è stata la domanda del segretario del Pdci, «la nostra posizione unitaria è nel documento in 18 punti che abbiamo consegnato a Prodi». E non si è fatto vedere all’incontro convocato a Montecitorio, nell’ala del palazzo riservata al gruppo di Rifondazione comunista. L’assenza di Diliberto non ha però occupato molto spazio, nella discussione. Piuttosto, Giordano, Mussi, Pecoraro Scanio e i capigruppo di Camera e Senato hanno fatto il punto sulla Finanziaria, che domani verrà varata in Consiglio dei ministri. E il bilancio dei leader di Prc, Sd e Verdi è di segno negativo. Sono loro stessi, a farlo sapere, lasciando Montecitorio per trasferirsi a Palazzo Chigi. «Avevamo chiesto collegialità e invece loro la Finanziaria la fanno come vogliono», è la denuncia di Giordano, che però avverte: «Non staremo a guardare, abbiamo un terzo dei parlamentari». Le forze della sinistra radicale non vogliono che passi per una minaccia, ma non ci stanno a veder cadere nel vuoto le loro richieste e quanto scritto nel Dpef: «Non si tratta di una poesia provenzale, è un documento impegnativo che orienta le scelte del governo», dice Mussi. E nel Dpef, viene sottolineato, è prevista l’armonizzazione della tassazione delle rendite finanziarie: «Si può discutere insieme sul come, ma non si può dire semplicemente non si fa», attacca Giordano. Una critica a Prodi, anche se Pecoraro Scanio mette nel mirino Padoa-Schioppa: «Così non va, non c’è collegialità. La settimana scorsa, quando abbiamo presentato il documento con le nostre proposte, Prodi ci ha ascoltato. Ma oggi Padoa-Schioppa non ha fatto alcun riferimento alle nostre richieste». Dice il ministro dell’Ambiente che sia lui che Mussi erano presenti all’incontro pomeridiano a Palazzo Chigi con le parti sociali: «È stata un’illustrazione sconfortante. Nella relazione di Padoa-Schioppa non è stato citato Kyoto né accolta nessuna delle nostre proposte».
Diliberto arriva a Palazzo Chigi da solo, ma per primo, e sminuendo la portata della sua assenza al pre-vertice di Montecitorio. Si dice «preoccupato, per usare un eufemismo» sul futuro. E risponde con un mezzo sorriso a chi gli domanda un commento su quanto detto da Arturo Parisi circa il ruolo del proprio ministero («La Difesa difende la Repubblica»): «E che ci stanno per invadere?».

l'Unità 27.9.07
Il 20 in corteo: «Non è contro il governo». Lo slogan: siamo tutti ministri
Polo (Manifesto) presenta la manifestazione seguita da un concerto. E su queste basi potrebbero aderire anche i Verdi


«LA MANIFESTAZIONE del 20 ottobre non sarà un referendum pro o contro il governo, perché i governi si eleggono e cadono in Parlamento e noi non abbiamo questo potere». Il direttore del Manifesto Gabriele Polo, che assieme ai colleghi di Liberazione (Piero Sansonetti) e Carta (Pierluigi Sullo), ha promosso l’appuntamento nello scorso agosto, prova a sgomberare il campo dalle polemiche che hanno accompagnato il cammino di questa manifestazione. Non si va in piazza contro il governo, afferma Polo. Nè, precisa, per promuovere «la nascita di un nuovo soggetto politico».
Lo slogan «Siamo tutti un programma» (tradotto da Polo anche con un «Siamo tutti ministri») vuole tener dentro l’idea che tutte le persone invitate a scendere in piazza (su una piattaforma che vede al primo posto temi come la pace, i diritti civili, la laicità, il lavoro, l’ambiente e la scuola), arriveranno a Roma «per ricostruire un protagonismo della sinistra», per riallacciare collegamenti con quelle persone, quelle associazioni, quei movimenti che ritengono sia possibile riprendere un lavoro a sinistra. Per dirla con le parole di Polo: «Per ritornare a parlarsi».
Il corteo, perché il corteo si farà, nonostante alcune anticipazioni di stampa che volevano la kermesse trasformata in un unico grande concerto, partirà da piazza Esedra per concludersi, forse, a piazza San Giovanni. All’arrivo non ci saranno interventi di leader politici, ma la lettura di un comunicato comune.
Ma quanti saranno in piazza il 20 ottobre? Le adesioni, individuali o da parte di associazioni, sono per adesso intorno al migliaio. Tra gli altri sono arrivate quelle dell’Unione degli Studenti e dell’Associazione per la Pace (il comitato organizzatore del 20 ottobre parteciperà alla marcia Perugia-Assisi del 7 ottobre).
C’è anche un sito internet (www.20ottobre.org): fornisce informazioni logistiche sulla manifestazione, raccoglie adesioni e appelli.
Spiega ancora Polo: «In questo mese e mezzo sono nati molti comitati sul territorio che vogliono rimanere assieme anche dopo il 20 per fare pressione sulla politica, questo dà l’idea di un bisogno di rappresentanza che la politica non soddisfa». Sui numeri nessuno si sbilancia più di tanto. Su queste basi anche i Verdi potrebbero decidere di prendere parte alla manifestazione. Ieri il presidente Pecoraro Scanio chiariva: «Il 20 ottobre non è contro il governo, ma per attirare l’attenzione su quei punti da noi richiesti e inclusi nel programma dell'Unione, ma non ancora attuati, come il piano energetico nazionale e l’acqua bene pubblico». E il capogruppo alla Camera Angelo Bonelli aggiunge: «Noi Verdi non abbiamo ancora aderito, ma chiediamo una riflessione sulle modalità e sulla piattaforma».
Gabriele Polo per adesso conta 10 treni speciali già confermati e oltre 300 pullman. Sansonetti si augura che «arrivino in tantissimi, perché il 20 ottobre sarà una data fondamentale per l’esistenza di una forza di sinistra nel nostro Paese».
e.d.b.

l'Unità 27.9.07
Veltroni: «Sbagliate le campagne contro i ricchi»
«Lo Stato deve essere amico del sistema imprenditoriale
e ridurre progressivamente la tassazione sulle imprese»


«LE CAMPAGNE contro i ricchi sono sbagliate, nella nostra società c'è bisogno di ricchezza». Lo ha detto il candidato alla guida del Pd e sindaco di Roma, Walter Veltroni, in un incontro ieri pomeriggio ad Ancona in vista delle primarie del 14 ottobre. Per Veltroni «lo Stato deve essere amico del sistema imprenditoriale e ridurre progressivamente la tassazione sulle imprese per recuperare un margine di competitività».
Passando alla grande novità delle primarie, il voto ai giovani ha aggiunto: «I sedicenni dovrebbero poter votare alle elezioni amministrative: hanno il diritto di decidere chi governa le loro città».
Nel suo intervento al Teatro delle Muse di Ancona, Walter Veltroni ha ricordato alcuni dei temi di impegno del nuovo Partito democratico, tra cui legge elettorale, fisco e sicurezza. «Vogliamo una legge elettorale che dia al paese la capacità di governo e non, come avviene da 14 anni, due grandi aggregazioni contro, che lo bloccano. Il Pd nasce perché si voti «per» qualcosa e non contro qualcosa. Vogliamo un Partito democratico che abbia un lessico diverso, che sia allegro; un luogo in cui i suoi dirigenti, di cui la metà saranno donne, non troveranno una nicchia di potere».
Veltroni si è chiesto: «Perché mai negli altri Paesi la legge finanziaria viene votata in breve tempo e da noi invece si ricorre sempre alla fiducia e due parlamentari possono ricattare il governo minacciando di non votare, se non si aggiungono i loro emendamenti?». Circa il fisco ha sottolineato: «Proviamo a invertire i termini che abbiamo usato finora: anzichè pagare tutti per pagare meno, diciamo pagare meno e pagare tutti: la lotta è contro la povertà, non contro la ricchezza, che invece serve a far crescere» il Paese.

il manifesto 27.9.07
Cospiratori a favore dell'ordine costituito
«Il liberismo è di sinistra», un pamphlet di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi. Apologia del libero mercato, mentre la società è vista come risultato di una contabilità di costi e benefici, dove lo stato si fa garante di un metafisico «patto tra consumatori»
di Marco Bascetta


I precedenti sono illustri. Nello stilare l'elenco di cosa è di sinistra e cosa no, di cosa è rock e cosa è lento, si erano già cimentati Nanni Moretti e Adriano Celentano, mettendo in luce i paradossi e le assurdità di queste tassonomie. Si aggiungono ora Alberto Alesina e Francesco Giavazzi con il loro Il liberismo è di sinistra (Saggiatore, pp. 126, euro 12). Affermazione fatta per stupire, ma che dovrebbe stupire prima di tutti i liberisti.
Si potrebbe infatti dire, che il liberismo consiste in primo luogo nel liberare il mercato da vincoli e ingerenze che ne alterano la dinamica e l'espansione. Un'affermazione che equivarrebbe in qualche modo a sostenere che il mercato è di sinistra. Ma c'è da dubitare che il mercato l'apprezzerebbe, essendosi sempre autorappresentato come l'antitesi di un disegno politico, come un dispositivo spontaneo, quando non come una legge di natura. Comunque qualcosa di Altro dalla politica. E, del resto, anche chiedersi se lo stato (e lo statalismo) siano di destra o di sinistra sarebbe piuttosto ozioso, essendo stati, disgraziatamente, entrambe le cose. Dunque meglio sarebbe chiedersi se il liberismo sia ragionevole, se abbia contribuito a incrementare il benessere dei singoli e la ricchezza della società.
Metafisica del mercato
Prima ancora converrebbe tuttavia interrogarsi se qualcosa come il libero mercato e la concorrenza tra eguali siano mai esistiti nella realtà. Come sarebbe difficile rispondere con un secco no alla prima domanda (è Marx stesso a guardarsene bene) pur avendo sotto gli occhi i disastri della storia del capitalismo, altrettanto azzardato sarebbe rispondere affermativamente alla seconda. I monopoli, le lobby, i poteri corporativi, la corruzione non si sviluppano solo attraverso interventi, per così dire abusivi sul mercato, ma anche a partire dalla sua dinamica interna, dalla sua spontanea evoluzione. Sono un fatto, per dirla all'antica, strutturale.
Tant'è che Alesina e Giavazzi confidano fortemente nelle autorità di controllo indipendenti (Antitrust, Consob, Comunicazioni, Energia, etc.), per imporre il rispetto delle regole auree del mercato. Queste costituirebbero l'ossatura di uno «stato liberista forte». Dietro questa fede si cela un'idea molto platonica della politica. che considera queste entità come una sorta di emanazione della «dea ragione» al riparo da interessi confliggenti, rapporti di forze, scontri di potere. Fuori dalla storia. Idea astratta e ben lontana da una realtà in cui monopoli, cartelli, corporazioni, fioriscono lussureggianti e le regole sono tutt'altro che neutrali. Basterebbe ripercorrere la storia recente dei diritti di proprietà intellettuale per illuminare quanto arbitrio e sopraffazione abbiano agito nella definizione di queste regole.
Ma di siffatte astrazioni il pamphlet di Alesina e Giavazzi è prodigo. Nel cantare le lodi della «meritocrazia» gli autori si guardano bene dall'entrare nel merito del merito, dallo spiegarci, insomma, di che cosa si tratti. Il famigerato Sessantotto ne coltivò, invece, un'idea piuttosto realistica: il merito - sostenne - è l'approvazione dei poteri costituiti. E, in conseguenza, si schierò contro il merito conformista e a favore del talento, che però non è «cratico» tant'è che nessuno ha mai sentito parlare di «talentocrazia». Il merito è un giudizio e dipende da chi lo pronuncia. E dove starebbe oggi quel «tribunale della ragione» incaricato di attribuirlo? Nei quiz demenziali che aprono le porte dell'università? Nell'incubo bancario che domina il corso degli studi? Nell'astuzia ipocrita che sottende le carriere politiche? Nell'insindacabile giudizio dei baroni e degli opinionisti alla moda?
Lo spreco produttivo
Il vizio degli economisti «liberisti e di sinistra» è quello di ridurre tutto a un calcolo costi-benefici e, per di più, di credere che si tratti di una cosa semplice, pacifica, al riparo da fattori imprevisti, anomali, incalcolabili, con il risultato di precipitare continuamente in una gretta contabilità. Per esempio si pretende dall'«azienda universitaria» di ottenere un rapporto ottimale tra input di materia prima (gli studenti) e output di prodotto finito (laureati e diplomati). Fatto sta che gli innumerevoli giovani che hanno partecipato all'acculturazione di massa senza diventare prodotto finito, costituiscono l'insostituibile bacino del consumo culturale a tutti i suoi livelli. E siccome i consumatori sono l'alfa e l'omega dei nostri due autori, non dovrebbero sottovalutare questa circostanza. Il problema dello «spreco», della dispersione, delle eccedenze è molto più complesso di quanto uno schema economicistico possa abbracciare. L'innovazione, il salto di qualità, perfino la competitività spesso si annidano proprio nei fattori che esso non contempla. Se si apprezza il rischio non si può condannare lo spreco. Se si persegue l'eccellenza bisogna migliorare il livello della mediocrità. Quanto alla figura del consumatore, la sua divinizzazione non è meno unilaterale e astratta di quella del produttore e risponde a quella medesima logica che riduce le persone a funzioni. Sostituire un «patto dei consumatori» al «patto dei produttori» non sembra condurre fuori dalla vecchia mentalità riduzionista e conciliatoria.
Non a caso i nostri due liberisti di sinistra concludono con un sentito apprezzamento per le futili politiche repressive adottate dai sindaci d'Italia. Dalla persecuzione bolognese dei nottambuli alla crociata fiorentina contro i lavavetri. Misure appunto rivolte contro quanto di buono ci ha recato il liberalismo storico: libertà di movimento, espansione dei consumi, libera impresa (quella dei lavavetri, dei centri sociali e dei lavoratori autonomi «sfigati»), libertà delle inclinazioni individuali. A dimostrazione inequivocabile che liberismo e libertà stanno divorziando, che lo stato minimo si fa massimamente prescrittivo e proibizionista, che le regole della virtù (e del mercato) continuano ad essere definite dall'alto e nell'interesse dei privilegiati. Con il decisivo contributo del dirigismo di sinistra.
I fronti opposti
Su un punto, ed è un punto importante, con Giavazzi e Alesina si deve convenire. L'idea di ricondurre tutto il lavoro flessibile al tempo indeterminato è fuori dalla storia e dalla ragione. Mantenere in piedi lavoro inutile e costoso invece di sviluppare diverse forme di sostegno al reddito, per salvaguardare l'etica del lavoro e una omogeneità biografica e politica irrimediabilmente tramontata è criminale. Sarebbe come abolire le pale meccaniche per moltiplicare il numero dei braccianti. Ma sulla flessibilità-precarietà (quando non si tratti di una maschera della subordinazione), sulle condizioni di vita, i diritti, le risorse, le libertà di scelta e di movimento del lavoro intermittente e precario la battaglia è aperta ed è improbabile che ci troveremo dalla stessa parte. Indebolire l'autonomia e i diritti dei singoli per accrescere la loro appetibilità sul mercato del lavoro è un'aspirazione che accomuna il sogno conservatore della piena occupazione e le politiche del ricatto care agli sfruttatori del lavoro precario. Liberisti e sinistre. In una stagione ormai remota, una certa corrente politica e intellettuale si autodefiniva «sinistra non marxista». Terminata la lettura di questo pamphlet, verrebbe voglia, se non fosse comunque un po' riduttivo, proclamarsi «marxisti non di sinistra».

l'Unità 27.9.07
SPQR: Sono Profughi Questi Romani
di Alessandro Barbero


IL SEGRETO DEL SUCCESSO dell’impero romano? Il meticciato. L’aver allargato la cittadinanza ai «barbari». Una lungimiranza politica di cui lo storico torinese parlerà al pubblico domenica a Roma nella sua «Lectio di Storia»

L’impero romano era la creazione di un popolo di dominatori che in quanto soli detentori della cittadinanza godevano di tutti i diritti, e mantenevano gli indigeni delle province conquistate in uno stato di subalternità politica e giuridica. Essere cittadino romano significava disporre di privilegi molto concreti, come testimonia la vicenda, raccontata negli Atti degli Apostoli, dell’arresto di san Paolo a Gerusalemme: quando l’apostolo comunicò al comandante romano di possedere la cittadinanza, e per di più dalla nascita, all’ufficiale non restò che rimetterlo in libertà con tante scuse (non senza commentare amaramente: «per poter essere cittadino romano, io ho dovuto pagare una grossa somma di denaro»).
L’episodio dimostra che già al tempo dei primi imperatori la cerchia privilegiata dei cives Romani non aveva più connotazioni razziali: in tutte le province conquistate, l’opportunità politica consigliava di cooptare le élites indigene concedendo loro la cittadinanza, senza troppo preoccuparsi se si trattasse di principi mauri dalla pelle nera e dai capelli ricciuti o di ricchi ebrei dell’Asia Minore come appunto Saulo di Tarso. Qualche volta l’assimilazione falliva, come nel caso di quel Caio Giulio Arminio, cittadino e cavaliere romano, di cui Tacito ci dice che a sentirlo parlare si capiva che il latino l’aveva imparato in caserma, e che a un certo punto si mise alla testa dell’insurrezione germanica contro Roma, distruggendo le legioni di Varo nella Selva di Teutoburgo. Ma in generale l’allargamento della cittadinanza rappresentò uno dei segreti del successo dell’impero romano, come ben sapeva l’imperatore Claudio: per sconfiggere la resistenza dei senatori a una cooptazione di notabili gallici, ricordò loro che Romolo concedeva la cittadinanza ai nemici già il giorno dopo averli sconfitti, e che proprio per aver proseguito su questa strada Roma era diventata sempre più potente, mentre Atene, dove gli stranieri che venivano a vivere in città rimanevano meteci senza diritti, era finita malissimo.
Particolarmente importante sul piano quantitativo era il procedimento per cui gli indigeni, o addirittura i barbari d’oltre confine, che si arruolavano nei reparti ausiliari dell’esercito ricevevano in premio la cittadinanza romana, attestata dai diplomi di bronzo che gli archeologi ritrovano a migliaia in tutta Europa. L’esercito praticò sempre la politica della mescolanza, stanziando reggimenti di Arabi in Germania e di Africani sul Danubio, e contribuì a fare dell’impero un immenso melting-pot, in cui gente di tutte le razze e di tutte le religioni venne rifusa in un unico corpo politico e in un’unica cultura, quella ellenistica. L’editto con cui Caracalla, nel 212 dopo Cristo, concesse la cittadinanza a tutti coloro che abitavano nell’impero, e che ancora molto tempo dopo Sant’Agostino celebrava come «una decisione umanissima», può essere considerato la prima sanatoria della storia: l’idea che fra i sudditi dell’imperatore si potessero distinguere cittadini ed indigeni appariva ormai anacronistica.
A partire da allora, quanti venivano a vivere nell’immenso impero non ebbero più bisogno di un certificato per essere considerati cittadini: bastava risiedere sul territorio romano e riconoscere l’autorità dell’imperatore per avere gli stessi diritti di tutti gli altri. L’impero aveva fame di uomini, per coltivare i campi nelle province spopolate dalla guerra o dalle epidemie e per riempire i ranghi delle «fiorentissime legioni», e non si fece scrupolo di importarli in grande quantità, accogliendo profughi e immigrati e, se necessario, deportando intere tribù. Ai nostri occhi parrebbe che ci dovesse essere una grande differenza fra chi chiedeva asilo nell’impero e chi vi era deportato a forza, ma gli uffici che si occupavano di sistemare questa gente erano gli stessi e, in pratica, le condizioni di accoglienza finivano per essere molto simili: i barbari lavoravano duramente e pagavano le tasse, e i loro figli erano arruolati nell’esercito, finché, come si estasiavano i retori di Costantinopoli, non diventavano «in tutto uguali a noi».
Nella retorica governativa, l’impero romano dopo Costantino si presenta sempre più come la terra promessa di tutta l’umanità. Gli imperatori si rallegrano dei molti popoli che vengono a cercare «la felicità romana», e compiangono quelli che non hanno ancora avuto «l’occasione di essere romani». Questa è anche l’epoca in cui l’impero romano sta diventando cristiano, e naturalmente la Chiesa incoraggia questa politica di apertura universalistica: così come l’impero di Roma è destinato a governare il mondo, così la fede cristiana è destinata a diffondersi su tutta la terra. Il poeta Prudenzio si augura «che tutti i barbari divengano Romani», e che da stirpi diverse nasca un unico popolo, romano e cristiano.
Beninteso, questa ideologia dell’apertura universale si accompagna a un progetto di dominio mondiale, portato avanti con estrema brutalità: sono due facce, quella presentabile e quella meno presentabile, di una stessa politica di superpotenza. Mentre l’imperatore è adulato come «padre non solo del suo popolo, ma del genere umano», c’è chi realizza bei profitti speculando sull’importazione di manodopera per le caserme: le leggi sulla coscrizione parlano senza tanti infingimenti dell’«acquisto delle reclute» (tironum comparatio) e della «compravendita di immigrati» (advenarum coemptio). Le più grandi operazioni umanitarie di accoglienza di profughi, come l’ingresso dei Goti nel 376, diventano l’occasione per abusi di ogni genere, descritti con estrema crudezza dai cronisti contemporanei: fra generali che costringono i profughi a pagare le razioni fornite gratuitamente dal governo e ufficiali che approfittano della separazione delle famiglie per portarsi a casa le ragazzine. Pochi immaginano che proprio sulla capacità di gestire con successo la sfida dell’immigrazione si giocherà, di lì a poco, la sopravvivenza politica dell’impero romano.

l'Unità 27.9.07
«Heidegger? Nazista sì, ma un po’ strano»
di Marco Dolcetta


ARCHIVI. Dalle carte del Terzo Reich riemerge quel che pensava la polizia politica di Hitler del filosofo dell’Essere: bravo antisemita, cittadino esemplare ma distaccato, pensatore con la testa tra le nuvole.

Recentemente sono ricomparsi una serie di documenti segreti della polizia del Terzo Reich sul filosofo Martin Heidegger, che possono contribuire alla definizione dell’annosa questione della partecipazione del filosofo all’ideologia dello Stato nazista.
Come tutti i cittadini del Terzo Reich anche Martin Heidegger era sottoposto allo stretto controllo della polizia politica tedesca. Un primo rapporto su di lui pubblicato in parte sulla rivista della Rdt Allemagne aujourd’hui nel 1966 è conservato negli archivi del Ministero degli Esteri francese con sede a Colmar, in quanto Friburgo, sua città di residenza alla fine della guerra passò sotto il controllo francese (sez. «Documenti storici»). In data 11 maggio 1938, nell’estratto da questa documentazione, Heidegger nel rispondere ad un questionario della polizia, alla richiesta se si fosse pronunciato a favore del partito nazionalsocialista prima della presa del potere, replica di sì. Altrettanto alla domanda se ricevesse la stampa del partito. Quando gli viene chiesto se i suoi figli sono membri della gioventù nazionalsocialista e se fosse un generoso donatore, risponde sempre di sì. Dice di partecipare, senza regolarità, alle manifestazioni del partito. Dice anche di approvare lo Stato nazionalsocialista e di non aver detto mai nulla di sfavorevole; rispetto agli ebrei dice di non comprare mai nulla da loro e di non aver legami politico-confessionali. La polizia fa delle considerazioni alla fine del questionario. Nella rubrica «Apprezzamento del carattere», c’è scritto: «Carattere un po’ chiuso, non molto vicino al popolo, non vive che per i propri studi, non ha sempre i piedi per terra. Reputazione morale: buona. Reputazione materiale: buona. È un reazionario: no! È un disfattista: no! È un critico: no!».
Nella rubrica «Giudizio d’insieme», si legge: «Capacità importanti visto che è una persona di cultura, avversario deciso del cattolicesimo. Per il resto è un intellettuale tagliato fuori dal mondo, da considerarsi politicamente sicuro». Un altro documento è datato 12 aprile 1938, è un giudizio dettagliato sul suo pensiero: «la sua filosofia è certamente indirizzata verso il nazionalsocialismo, ha in comune con il nazionalsocialismo il rifiuto dell’imborghesimento dello Stato e anche della scienza. Tenta di dimostrare nella sua filosofia come l’integralità della visione del mondo dipenda da un’attitudine fondamentale dell’uomo verso il suo mondo. Ma siccome parte sempre dalla visione individuale, arriva ad una conclusione individualista. Insegna, in altri termini, una filosofia dell’essere individualista e non dell’“essere insieme”. Si può dire quindi che Heidegger rappresenta, nel quadro dell’università di Friburgo, alla luce della attitudine ferma contro i gruppi di potere cattolico, ed altri gruppi cristiani, una forza positiva».
Un altro documento di grande interesse è datato 29 settembre 1941, ed è firmato dal professor Krieck, professore delegato al controllo politico di tutti i cattedratici tedeschi. Il documento di circa 5 pagine è fortemente negativo nei confronti di Heidegger. Volendo considerare solo i dati oggettivi si deduce che Heidegger fu allievo del Collegio Gesuita «Stella Matutina», fu cacciato da questo Collegio a causa della sua debolezza fisica, «razzialmente tipo difficile da definire». Il simbolo della Stella Matutina appare sulla sua tomba, frainteso da molti come stella gnostica. La sua ambiguità è quella di un affabulatore che viene considerato per una sua conferenza culminata con l’affermazione: «La verità è in realtà il falso». Krieck cita spesso la testimonianza del professor Rickert, che conosceva bene Heidegger, è un susseguirsi di accuse, la prima secondo lui è quella di avere relazioni molto strette con gli ebrei, quando organizzava dei corsi universitari a Davos. Altro rimprovero è che Heidegger nel 1932-33 aveva partecipato a degli esercizi spirituali presso i benedettini di Blaubeuren. Altro capo d’accusa sono i rapporti intrattenuti con la setta antroposofica di Rudolf Steiner. Aveva anche frequentato il circolo del poeta Stefan George, accusato di omosessualità, e di cui faceva parte anche von Stauffenberg e gli altri militari che attentarono a Hitler nel 1944. Krieck dice poi di aver letto le note prese da uno studente durante i corsi di Heidegger. In base a queste note trancia un giudizio piuttosto pesante dicendo come gli risulti una straordinaria abilità gesuitica di allusioni, e l’uso già manipolato di parole e concetti, che li rendono volutamente poco comprensibili fino al punto di riscontare come il senso di una parola si contraddica con quella seguente. I giovani sono molto affascinati dalla sua abilità, uomini e donne, nazionalsocialisti ed oppositori, tutti cadono nella sua trappola con una straordinaria facilità. «Ogni filosofia di questo genere a mio avviso - dice Krieck - è innanzitutto caratterizzata dai canoni di un crimine contro la lingua tedesca. Io ho fatto fare una tesi ad un giovane studente della Prussia orientale, Walter Dulz, che ha il titolo Una riflessione sulla filosofia di Martin Heidegger. Devo riconoscere che questo giovane dopo una iniziale fascinazione ha saputo smascherare i tranelli del pensiero di Heidegger». Firmato Krieck.
L’analisi di questi e altri documenti porta a dare un taglio chiaro all’eterna polemica sulla partecipazione o meno del filosofo all’ideologia nazionalsocialista. Non mancano semplici rapporti di polizia ma anche delle SS. Quello che si deduce è che inizialmente Heidegger era considerato da tutti un buon nazista, molto vicino alle SA di Roehm, prima della eliminazione delle camice brune da parte delle SS nell’autunno del 1933, Heidegger viene visto con sospetto dagli ambienti vicini alle SS ma resta comunque ben visto dal partito. Quello che sorprende è che tutto l’apparto di capillare controllo nazionalsocialista non si sia accorto che il buon nazista Heidegger tradisse la ancora più convinta nazista Elfriede, sua moglie, con la sua giovane allieva Annah Arendt, ebrea.

l'Unità 27.9.07
La via heideggeriana al nazionalsocialismo
di Bruno Gravagnuolo


IL CASO Come e quando avvenne l’adesione del filosofo al regime e per quali vie si determinò il distacco: una questione che ha tormentato gli interpreti

I documenti dei quali l’articolo che pubblichiamo in questa pagina ci offre una sintesi, sono un tassello di rilievo nell’ormai stradibattuta questione sulle compromissioni di Heidegger col nazismo. Fino ad oggi nell’istruttoria, avevamo sentito critici, allievi, congiunti, testimoni e lo stesso Heidegger. Che a più riprese, nel 1945, nel 1982, nel 1983 e nel 1966 - nella sua autogiustificazione pubblicata tre volte e in una celebre intervista allo Spiegel - aveva tentato di dar conto del suo rapporto col nazionalsocialismo.
Adesso invece, benché le carte non siano del tutto inedite, abbiamo l’occasione di sentire qualcos’altro: l’opinione della polizia nazista. Corredata da un rapporto di uno dei più noti avversari di regime del filosofo. Il professor Krieck, figura minore e accademico a Medicina, ma che ebbe un certo ruolo nel determinare le dimissioni di Heidegger da Rettore a Friburgo, nel febbraio 1933. E che in seguito condusse una campagna contro di lui sulla sua rivista Il popolo in divenire, coadiuvato da Rosenberg e Baumler, tra le massime autorità culturali di regime.
Ebbene, cosa viene fuori da quei verbali? Una cosa semplice, e al contempo ambivalente. E cioè che il regime considerava il filosofo uno strano nazista. Tiepido, schivo, individualista, un po’ tra le nuvole, non eretico, bizzarro. In ogni caso non un militante fermo, né un intellettuale organico. Insomma reputazione politica buona, ruolo tutto sommato positivo culturalmente. Un cittadino nazista irreprensibile, e tuttavia in qualche modo un enigma. A quanto pare nemmeno l’intemerata di Krieck acclusa ai documenti - linguaggio oscuro, «razza incerta», rapporti coi cattolici - dovettero far cambiare idea ai funzionari di polizia. Sebbene cautele e qualche sospetto vi furono sempre su Heidegger. Laddove lo si lasciò sì insegnare e pubblicare. Ma non si consentirono recensioni sui periodici più diffusi alle sue opere. E si evitò di farlo inserire in delegazioni ufficiali tedesche ai congressi internazionali di filosofia, almeno a partire dal 1935. Tranne un invito per una partecipazione «separata» e individuale ad un convegno parigino su Cartesio, alla quale il filosofo oppose un rifiuto, nonostante la sua presenza a Parigi fosse stata sollecitata da Emile Bréhier, tramite il Ministero del Reich a Berlino.
Dunque Heidegger fu un nazista a modo suo. E anche questi documenti, indirettamente lo confermano. Ma che significa «a modo suo»? Presto detto. Significa che il filosofo consentì in pieno con quello che lui definiva un «movimento», già prima del 1933. Votò nazista nel 1932, su consiglio della moglie Elfride, ma fin dal 1929 nella sua lezione inaugurale pose a tema la questione dell’università come luogo chiave della ricongiunzione tra sapere, nazione e tradizione occidentale della filosofia. Insomma i presupposti del nazismo del 1932-33, stanno in una certa idea anche politica della filosofia: custodia e cura del «senso originario dell’Essere» da affidare anche alle istituzioni. Custodia pratica e teoretica del ruolo del popolo tedesco, il cui destino era quello di incarnare l’eredità metafisica dell’Occidente, delle sue domande «abissali». Governando così il potere della tecnica moderna, e misurandosi con la «potenza» nel regno storico dell’«essente». Tutti temi che tornano nello Heidegger di quegli anni. Poi la svolta: il nazismo come acme alienato della tecnica, che oscura l’Essere e la verità. Conciliazione impossibile tra verità e tecnica. Ed è lo Heidegger post-nazista. Reticente sui suoi abbagli e scivoloso. Figuriamoci poi per la polizia!

l'Unità 27.9.07
Nel nome di Gramsci
Gobetti, Salvemini e Rosselli alfieri della libertà


Due mesi fitti di eventi (testimonianze, letture, convegni, un ciclo cinematografico, laboratori didattici per le scuole, itinerari e uno spettacolo tetrale) nel nome di quattro alfieri della libertà: Gramsci, Gobetti, Salvemini, Rosselli. Il tutto avviene sotto il titolo di Quando la libertà è altrove, è organizzato dal Comitato Passato-Presente, presieduto da Bianca Guidetti Serra ed è nato su iniziativa del Centro studi Piero Gobetti, della Fondazione Istituto Piemontese Antonio Gramsci, della Fondazione Rosselli e dell’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini. Le manifestzioni, presentate ieri al Circolo dei Lettori di Torino si svolgeranno nel capoluogo piemontese ma si estenderanno anche a Verbania, Asti, Vercelli e Biella.
L’8 e il 9 novembre poi, ancora a Torino, nell’ambito delle celebrazioni del 70° anno della morte di Antonio Gramsci, si terrà il convegno Il nostro Gramsci. Secondo una formula originale, la due giorni (sede del convegno il Circolo dei lettori, via Bogino 9) vedrà confrontarsi giovani studiosi «in formazione» con i più affermati ricercatori del pensiero e dell’opera gramsciana.
Per informazioni sulle sedi e sul calendario dei vari eventi: Comitato Passato-Presente c/o Fondazione Rosselli, tel. 011 19520111, www.liberta-altrove.it

Repubblica 27.9.07
Antipolitica. Per chi suona la campana
di Ezio Mauro


L'antipolitica è soltanto una spia dell'indebolimento di un sentimento pubblico e di uno spirito nazionale

C´è qualcosa di impopolare e tuttavia necessario da dire ancora sull´assalto dell´antipolitica al cielo italiano di questo sgangherato 2007. Niente di ciò che sta avvenendo sarebbe possibile se sotto la crosta sottile di questa crisi dei partiti che diventa crisi di rappresentanza, si allarga alle istituzioni, corrode il discorso pubblico, non ci fosse un´altra crisi ben più profonda che continuiamo a ignorare perché non la vogliamo vedere. E´ la decadenza del Paese, l´indebolimento della coscienza di sé e della percezione esteriore, la perdita di peso specifico e di identità culturale. Ciò che dà forma contemporanea ad un´idea dell´Italia, la custodisce aggiornandola nel passaggio delle generazioni, la testimonia nel mondo, garantendo una sostanza identitaria agli alti e bassi della politica, ai cicli dell´economia, all´autonoma rappresentazione del Paese che la cultura fa nel cinema, nella letteratura, nel teatro, nella musica, nei media o in televisione.
Se questa idea che il Paese ha di se stesso, e che il mondo ha di noi, non si fosse fiaccata fino a confondersi e smarrirsi, il sussulto di ribellione ai costi crescenti della politica, alla lottizzazione di ogni spazio pubblico con l´umiliazione del merito, all´esibizione pubblica dei privilegi avrebbe preso la strada di una spinta forzata al cambiamento e alla riforma. Non di un disincanto che si trasforma in disaffezione democratica mentre la protesta diventa una sorta di secessione dalla vita pubblica: un passaggio in una dimensione parallela – ecco il punto – dove l´idea stessa di cambiamento cede alla ribellione, e alla cattiva politica si risponde cancellando la politica e abrogando i partiti. Come se cambiare l´Italia fosse impossibile. O, peggio, inutile.
Un Paese che dedica quattro serate tv a miss Italia, riunisce una trentina di persone in un vertice di maggioranza attorno a Prodi, inventa un cartoon politico come la Brambilla per esorcizzare il problema politico della successione a Berlusconi, vede restare tranquillamente al suo posto il presidente di Mediobanca rinviato a giudizio con altri 34 per il crac Cirio, forma due partiti anche per discutere l´eredità Pavarotti e dà ogni sera al Papa uno spazio sicuro nel suo maggior telegiornale, ha la proiezione internazionale che questo triste perimetro autunnale disegna. Un´Italia in forte perdita di velocità, dove l´unico leader capace di innovazione è un manager straniero come Sergio Marchionne mentre il ceto politico è l´elemento più statico, immobile, in un sistema che perde peso e ruolo in Europa e nel mondo. Perché la moda, il Chianti e le Langhe non possono da soli sostenere e rinnovare la tradizione e l´ambizione di un Paese che non può essere soltanto l´atelier dell´Occidente, o la sua casa di riposo.
Ma se tutto questo è vero, e purtroppo lo è, l´antipolitica è soltanto una spia – e parziale – dell´indebolimento di un sentimento pubblico e di uno spirito nazionale, qualcosa che va molto al di là delle dimensione strettamente politica e istituzionale. È quel che potremmo chiamare il senso di una perdita progressiva di cittadinanza in un Paese che perde intanto ogni piattaforma identitaria comune, ogni appartenenza sicura, qualsiasi cultura di riferimento. Come può questo Paese non perdere sicurezza, coscienza, peso, capacità di rappresentare se stesso e di valorizzarsi, innovando e modernizzando?
Il "V-day", a mio giudizio, è una prova di questo impoverimento. Solitudini politiche sparse, delusioni individuali, secessioni personali si riuniscono in uno show, come se cercassero "soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche". È quella che Zygmunt Bauman chiama la comunità del talk-show, con gli idoli che sostituiscono i leader, mentre il potere dei numeri – la folla –consegna loro il carisma, capace a sua volta di trasformare gli spettatori in seguaci. Attorno, la celebrità sostituisce la fama, la notorietà vale più della stima, l´evento prende il posto della politica e trasforma i cittadini da attori a spettatori: pubblico.
Ma come si fa a non vedere che in questa atrofia del discorso politico, che cortocircuita se stesso trasformando il "vaffanculo" nella massima espressione di impegno civile dell´Italia 2007, c´è la decadenza di ogni autorità, il venir meno di ciò che si chiamava "l´onore sociale" dei servitori dello Stato, il logoramento vasto del potere nel suo senso più generale: il potere in forza della legalità, in forza "della disposizione all´obbedienza", nell´adempimento di doveri conformi a una regola.
Se è questo che è saltato, il vuoto allora riguarda tutti, non soltanto la classe politica. È l´establishment del Paese nel suo insieme che invece di sentirsi assolto dal pubblico processo al capro espiatorio politico, deve rendere conto di questo deficit complessivo di rappresentanza, di questo impoverimento del sistema-Italia, di questa secessione strisciante, dello smarrimento non solo del senso dello Stato ma anche di uno spirito repubblicano comune e condiviso. Troppo comodo partecipare al valzer dell´antipolitica dagli spalti di un capitalismo asfittico nelle sue scatole cinesi, di una finanza che cerca il comando senza il rischio, di un´industria che dello Stato conosce solo gli aiuti e mai le prerogative.
Quando la crisi è di sistema e l´indebolimento del Paese è l´unico risultato visibile ad occhio nudo, davanti alla secessione strisciante di troppi cittadini dalla cosa pubblica bisognerebbe che l´establishment italiano evitasse di contare in anticipo le monetine da lanciare contro la politica, aspettando la supplenza e sognando l´eredità. Meglio chiedersi, finchè c´è tempo, per chi suona la campana.

Repubblica 27.9.07
Le assurde polemiche sulle analisi pre impianto
di Corrado Augias


Gentile dottor Augias, il tribunale di Cagliari ammette l'analisi pre-impianto sull'embrione e immediata scoppia la crudele polemica: l'accusa di eugenetica cade sulle coppie portatrici di malattie ereditarie. In Italia è vietata dal 2004 una analisi sull'embrione in provetta che non farebbe che anticipare a poche ore dalla fecondazione quello che tutti gli ospedali fanno su embrioni e feti più sviluppati attraverso la villocentesi e l'amniocentesi. Eppure nessuno si sogna di discutere la legittimità della diagnosi prenatale, mentre sulle stesse metodologie applicate alla provetta si scatenano sciocche fantasie miste a richiami cinematografici di dubbio gusto (i figli con gli occhi azzurri!). Ciò che più addolora è il richiamo all'eugenetica, praticata dal regime nazista e che ha nella pulizia etnica la sua ultima atroce espressione. Come si può paragonare la sofferta scelta di una donna che rifiuti un embrione di quattro cellule portatore di una malattia che non dà scampo, al massacro di un popolo? Chi evoca questi fantasmi non mostra alcun rispetto per il dolore di chi ha avuto davvero un figlio morente per una malattia ereditaria. Lascio ad altri la questione se l'embrione sia o meno vita umana, perché è incontrovertibile che quando parliamo di donne e uomini che hanno attraversato simili esperienze, parliamo di vite in carne ed ossa.

Paola Juris paolajuris@yahoo. it

La legge sulla procreazione assistita è l'esempio più grave di legge confessionale varata dal Parlamento. Ci pone, su questo terreno, fuori dall'Europa. Infatti dal punto di vista pratico è anche una legge inefficace perché chi ne abbia i mezzi può andare a fare l'analisi in un qualunque paese fuori dei nostri confini. Non solo in tutta Europa ma anche in Turchia, a Istanbul. A parte ogni altra considerazione, questa legge riproduce infatti la profonda ingiustizia sociale esistente prima delle legge sull'aborto quando chi aveva i mezzi andava ad abortire altrove e chi non ne aveva finiva sul tavolo della mammana e peggio per lei. L'ideologia si dimostra ancora una volta cieca, guarda il principio, ignora le sofferenze umane. Il tribunale di Cagliari ha invece ribaltato questo crudele assioma sentenziando che il diritto alla salute della futura madre e quello dell'informazione per tutelarla, garantiti dalla Costituzione, prevalgono sul divieto di diagnosi. Si tratta di considerazioni lapalissiane rafforzate da due ulteriori elementi. L'impianto forzato dell'embrione è escluso in ogni caso in base al principio giuridico, accettato universalmente, 'nemo ad factum cogi potest': la legge non può costringere ad accettare alcunché contro la volontà del soggetto. Secondo: una donna alla quale sia stato impiantato un embrione malato può sempre abortire nei termini legalmente stabiliti. Il rimedio dunque c'è ma al prezzo di un'ulteriore aggiunta di sofferenza psicofisica e di denaro. La vivace reazione della Cei ha motivazioni politiche. Intende essere un altolà indirizzato al ministro della Salute Livia Turco che nelle prossime settimane dovrebbe riconsiderare le linee guida della famigerata legge 40. Il braccio di ferro è di nuovo cominciato.

Corriere della Sera 27.9.07
Rifondazione guida la rivolta «Siamo stanchi di berci tutto»
Giordano: «Stavolta andremo fino in fondo». Mussi: «Pronti a strappare» In Transatlantico si «gioca» a chi farà la crisi: Di Pietro e Dini «i pericolosi»


ROMA — Ministri che vanno, ministri che vengono nel Transatlantico. La Finanziaria non piace a nessuno e il governo sembra quasi non essere affar loro. «Io questa Finanziaria non la voto e se Prodi non cambia idea, strappiamo»: Fabio Mussi, titolare dell'Università, trattiene a stento la rabbia parlando con i compagni della «Cosa rossa».
Mussi è pronto a rompere, i ministri della Cosa rossa potrebbero non votare la finanziaria se non cambia radicalmente, i malumori, però, non riguardano solo l'ala sinistra. «Qui sopravviviamo, ma per quanto? Forse Tommaso Padoa-Schioppa più che dei conti dovrebbe preoccuparsi dei voti che ci resteranno dopo questa finanziaria»: Beppe Fioroni, ministro della Scuola, reduce da una visita a palazzo Chigi, si sfoga con i colleghi della Margherita davanti all'aula di Montecitorio.
Ma è soprattutto la «Cosa rossa» che è partita all'attacco. Ancora alla Camera, questa volta tra i parlamentari di Rifondazione, nel cortile di Montecitorio. Il leader Franco Giordano si sfoga con i compagni di partito: «Noi abbiamo fatto delle aperture anche sull'Ici. Sull'Afghanistan ci siamo comportati correttamente. E Prodi per tutta risposta incontra Lamberto Dini e subito dopo ci viene a dire che le rendite finanziarie non possono essere tassate. Bene, allora noi gli rispondiamo che questo non lo possiamo accettare. Loro pensano che noi non possiamo fare cadere il governo e che quindi dobbiamo berci tutto? Non è così. Non siamo più disposti a subire, sbagliano se lo credono: non è che per paura di una crisi di governo o del voto noi non andiamo fino in fondo questa volta». L'atmosfera è surriscaldata dalle parti di Rifondazione comunista. L'onorevole Ramon Mantovani è scatenato: «Perché non ci prendiamo il merito di mandare a casa questo esecutivo? Io, del resto, non avrei votato neanche la finanziaria dello scorso anno». Ce l'ha con tutti, Mantovani, anche con Ferrero: «Ho visto che vuole far scrivere sul vino: fa male alla salute. Io farei tatuare sulla sua fronte: il governo fa male alla salute». E il leader del Pdci Diliberto non è meno duro: «Io questa finanziaria non me la posso intestare e non voglio ascoltare una mediocre lezione universitaria sulla finanziaria da Padoa Schioppa».
Si torna in Transatlantico. Continua il via vai dei ministri. Ma ministri per quanto? Il guardasigilli Clemente Mastella è grigio in volto, cambia colore (e diventa rosso) solo quando gli si parla del volo sull'aereo di Stato. E le sorti del governo? «Non mi interessano. Mi sono indifferenti ». Paolo Ferrero, ministro della Solidarietà sociale, uno dei pezzi grossi di Rifondazione comunista, cammina lesto per i corridoi della Camera e spiega a chiunque incontri: «Il no di Prodi alla tassazione delle rendite finanziarie non è accettabile». Ancora Fioroni, con un sorriso forzato, cerca di stemperare la tensione...come può: «Sulla finanziaria non si cade. Poi il governo si troverà di fronte a un bivio. Ma una cosa mi sembra del tutto evidente: se Prodi cade si va al voto perché un governo tecnico o istituzionale Berlusconi non lo sosterrà e lì decide lui, perché tutti gli altri suoi alleati sono dei quaquaraqua».
Sempre in Transatlantico. Tra i leader politici ci si chiede: chi staccherà la spina? La sinistra radicale rompe per ricucire, dicono quasi tutti. «Se fossi in Prodi mi preoccuperei di Di Pietro e Dini» ragiona Mastella. «No, Di Pietro non ce lo vedo, ma effettivamente Dini potrebbe essere il killer», riflette ad alta voce Giordano. Dagli Usa Dini continua a dire ai suoi di tener duro. Di Pietro invece è a Roma. Ha incontrato Prodi. Un colloquio non del tutto rassicurante. Il ministro delle Infrastrutture ha spiegato al presidente del Consiglio che lui non giocherà di conserva con la Cdl, mercoledì prossimo, al Senato, ma in cambio le deleghe di Visco hanno da essere congelate.
Ben più rassicurante per Prodi il colloquio che Di Pietro ha avuto con Fini: «Finché nel centrodestra c'è Berlusconi io non mi posso muovere».
A Palazzo Chigi, intanto, Prodi rimugina su difficoltà e pericoli. La lettura dell'intervista di Marco Follini al Corriere della Sera in cui l'ex leader dell'Udc lo invita a dimettersi dopo la finanziaria lo ha insospettito («bella riconoscenza! ». Perché Follini fa questa sortita proprio adesso? Ma le falle nella maggioranza sono tante e tapparle tutte è impresa improba. Amara la constatazione del premier, costretto a mediare, negare, concedere: «Ogni forza politica cerca visibilità e fa rivendicazioni, ognuno gioca per sé, possibile che non si rendano conto che la caduta di questo governo non equivale a una mia sconfitta ma a una sconfitta di tutto il centrosinistra!?».

Corriere della Sera 27.9.07
Una biografia rivoluziona il giudizio sull'autore dei «Fiori del male». Un altro scrittore propone una lettura opposta
Se Baudelaire fu precursore di Céline
Montesano: «Un simbolo della rivolta». «No, dandy reazionario»
di Alessandro Piperno


Il poeta francese fu un ribelle e pose il '48 al centro della sua opera
È il capostipite della scuola del risentimento, ostile a liberalismo e democrazia

Supponiamo che un tipo desideroso di farsi un'idea su Charles Baudelaire acquistasse due libroni usciti di recente: Il ribelle in guanti rosa, la biografia baudelairiana di Giuseppe Montesano, e il saggio da me pubblicato qualche tempo fa (di cui taccio il titolo per riparare alla sconcezza dell'autocitazione). Di certo rimarrebbe sconcertato da quella lettura simultanea. Come è possibile che due libri sullo stesso autore offrano ritratti così antitetici? Da un parte il Baudelaire di Montesano: ribelle educato alla scuola di Swedenborg e Proudhon. Dall'altra un flaccido pretino inacidito nel culto di de Maistre. Ebbene il nostro lettore avrebbe di che farsi una cattiva opinione della critica letteraria. Come dare credito a una scienza che autorizza chi se ne avvale a partire dalle stesse premesse per giungere a conclusioni contrapposte?
In realtà Montesano e io non abbiamo inventato niente, improvvisando su spartiti scritti da due Giganti della critica novecentesca quali Walter Benjamin e Jean-Paul Sartre.
Parlo di questo ipotetico lettore ipoteticamente perplesso per dare conto dell'ammirato disagio con cui ho sbranato il libro di Montesano. Ritengo Montesano uno dei nostri narratori più importanti ( Il corpo di Napoli era una meraviglia satirica piena di furore). E non dimentico la gratitudine che devo a chi ha curato, con tanta scintillante precisione, il Meridiano Baudelaire. Ma il disagio resta.
È una vera armata quella schierata da Montesano per sottrarre Baudelaire allo stereotipo del «dandy reazionario». La sua ricostruzione del periodo precedente alla svolta autoritaria del Secondo impero è mirabile e funzionale al suo discorso: dando voce a Hugo, a Nerval, a Sainte-Beuve, a Blanqui, Montesano mostra come la situazione a quel tempo fosse assai più ideologicamente confusa di come noi la percepiamo. Un socialismo diluito nel misticismo cristiano, un progressismo che si mescola all'odio per il progresso, un ribellismo che rischia di degenerare in una non meno velleitaria retorica dandy.
In questa Parigi vive Baudelaire: confuso, arrabbiato, privo di solidi riferimenti, angustiato da bisogni materiali e da risentimenti privati.
È così vero, si chiede d'un tratto Montesano, che il culto di de Maistre professato da Baudelaire lo assimili al credo reazionario espresso da quel profeta del terrore? «In realtà de Maistre era letto e commentato anche da chi era politicamente ai suoi antipodi», ci spiega. E subito si affaccia la questione più impellente: l'insurrezione del '48. La vulgata vuole che Baudelaire vi abbia aderito con lo spirito di un teppista. È questa l'immagine che Montesano vuole demolire. E non è il solo. Molti, sulla scia di Benjamin, hanno amato descrivere Baudelaire come una sorta di eroe omerico che protesta virilmente la sua disperazione per le vie di Parigi.
Montesano ci va più cauto. Tiene a ricordarci che Baudelaire è un rivoltoso, non un rivoluzionario. Ma, allo stesso tempo, gli interessa porre il '48 al centro della sua ispirazione poetica. Sì, il '48 come convitato di pietra delle
Fleurs. Così come l'odio per il Secondo impero, per Napoleone III e i suoi borghesi filistei, per la Parigi magniloquente di Haussmann. Insomma ecco a voi il Bruto infingardo che usa i versi per dichiarare il suo odio per la tirannide. Capisco l'intento di Montesano: lui vuole storicizzare il dolore baudelairiano, ideologizzare il suo famoso Spleen, dare un volto civile alla sua depressione e un movente politico alla sua inconsolabilità.
Il problema è che questo lo spinge, anzitutto, a stravolge una verità di fatto (ha senso impedire a Baudelaire il diritto di professarsi reazionario solo perché questo non ci piace?), eppoi a svuotare il dolore baudelairiano della sua essenza metafisico-universale. Poniamo pure, come dice Montesano, che il capolavoro Le Cygne sia stato ispirato a Baudelaire dall'indignazione per la strage di popolo commessa in una celebre rappresaglia del '48. Non è un errore storicizzare una lirica che si pone ai vertici della poesia occidentale per la sua potenza allegorica? Non è un abuso leggere Voyage — uno dei più opprimenti documenti del nichilismo baudelairiano — come la raffigurazione metaforica della «festa perpetua del Secondo impero »?
È un vizio novecentesco quello in cui Montesano indulge: qualche decennio fa era di moda raccontare Leopardi come un marxista ante litteram.
Per non dire di quel libro in cui Julia Kristeva faceva di Mallarmé un terrorista al servizio delle forze più progressive della sua epoca. Ciò avviene quando il critico si fa sacerdote e vuole salvare l'anima di un sommo scrittore assimilandolo a sé.
Ecco il punto. Sebbene Montesano riconosca la contraddittorietà del caso-Baudelaire («Baudelaire si annodava nelle contraddizioni »), ciò non di meno sembra volergli negare il diritto di scegliere l'odio e non la pietà, il risentimento reazionario e non l'oblatività umanitaria. A me sembra, invece, che il rancore di Baudelaire indiscriminatamente volto contro l'illuminismo, il liberalismo, il capitalismo, il progresso, la democrazia, il giudaismo, l'America, la gente normale lo renda il capostipite di quel club esclusivo che, stravolgendo una definizione di Harold Bloom, vorrei chiamare «La scuola del risentimento». L'odio che Baudelaire nutre per il suo mondo e per il suo tempo è la malattia spirituale descritta da George L. Mosse ne Le origini culturali del Terzo Reich o dalla Arendt ne Le origini del totalitarismo.
Quello che ho appena detto è il contrario di ciò che Montesano afferma. Tanto che, a un certo punto, arriva a dire che la ragione per cui La capitale delle scimmie — opera estrema scritta in odio all'umanità — fu pubblicato solo dopo la Seconda guerra mondiale dipende dal fatto che «il lutto a getto continuo di cui parlavano quei foglietti si era avverato oltre ogni possibile immaginazione e i delitti sulle cui bandiere era scritto "industria e progresso" erano diventati stermini di massa».
Baudelaire che profetizza l'avvento del nazismo? Sì, ma in un senso affatto contrario a quello suggerito da Montesano. E se non mi credete, guardate cosa annotava Baudelaire in quegli anni: «Cospirazione da organizzare per lo sterminio della Razza ebraica». Sì, a questo si era spinta l'aberrazione baudelairiana. Un grido di dolore e distruzione che prefigurava quello non meno stridulo di Céline, e che sembrava ben lungi dall'annunciare le forze libertarie che avrebbero combattuto e distrutto il nazismo.

Corriere della Sera 27.9.07
Magris - Schiavone. Tra filosofia e scienza: dialogo sui possibili scenari prossimi venturi
L'uomo di domani cambierà la sua natura
Sulle orme di Nietzsche, un nuovo stadio antropologico nell'evoluzione
di Claudio Magris


L'uomo, scrive Nietzsche, è un ponte che deve essere superato. Uomo significa l'attuale stadio antropologico, l'individuo così come lo conosciamo da alcuni millenni, convinti che sia eterno o comunque che, seppure si è evoluto da forme primordiali lontanissime dalla sua configurazione odierna, abbia raggiunto un'identità definitiva e immutabile. Ci è impossibile pensare che i nostri anche lontanissimi discendenti possano essere altrettanto diversi da noi quanto i nostri avi di milioni di anni fa e assumere forme per noi inimmaginabili, come quelle delle creature della fantascienza.
Nietzsche è stato fra i pochissimi a vedere al di là di questi paraocchi difensivi, che ci impediscono di guardare nell'abisso senza fondo della nostra incessante metamorfosi oggi vertiginosamente accelerata e che ci proteggono da questa vertigine; non a caso ne è stato distrutto. Ma ha capito e previsto quello che sta succedendo, anzi iniziando, appena adesso; il suo "oltre-uomo", del quale egli annuncia l'avvento, è un nuovo stadio antropologico nella parabola dell'evoluzione, una nuova forma d'uomo, che sta cambiando la realtà e pure se stesso (in bene e/o in male) con una velocità sconvolgente. Su questa realtà affascinante e conturbante Aldo Schiavone ha scritto un libro conciso e mirabile, Storia e destino, che Ernesto Galli della Loggia, in un articolo incisivo sul Corriere, ha celebrato per la sua capacità di pensare all'ingrande e di andare al cuore delle cose ultime dell'esistenza, della società e della storia.
Partendo dalla possibilità di vedere oggi come in una fotografia — grazie alla radiazione cosmica di fondo — la nascita della luce, il momento vicinissimo al big bang in cui i fotoni si liberano e si mettono in viaggio (il momento in cui Dio ordina fiat lux) e analizzando le conoscenze scientifiche, le rappresentazioni mitiche e le rivelazioni religiose, Schiavone fa toccare con mano, con una ricchezza di temi unita a un'eccezionale capacità di chiara sintesi, la differenza tra il tempo profondo dell'evoluzione naturale, così lenta da non essere quasi avvertita e da essere scambiata per eterna, e il tempo breve e rapido dell'evoluzione dell'uomo, una manciata di millenni rispetto ai miliardi di anni dell'universo.
Schiavone sottolinea altresì la crescente accelerazione dell'evoluzione umana; un'accelerazione che aumenta in progressione geometrica, facendo sì che oggi in una o due generazioni la vita cambi più di quanto sia cambiata in certi secoli del passato. Questa metamorfosi sta trasformando la vita e il modo di interpretarla e di raccontarla, la nostra struttura biologica e dunque pure intellettuale ed esistenziale, il nostro essere.
In questo senso Storia e destino è uno smilzo libretto essenziale per capire chi siamo, chi saremo, chi vogliamo o non vogliamo essere, dove andiamo. Fra i tanti motivi della sua analisi, quello centrale è l'abisso che si è spalancato fra l'evoluzione scientifica e tecnica e quella spirituale, sostanzialmente immutata rispetto al passato. La meccanica quantistica scopre che, in una data condizione, un gatto può essere contemporaneamente vivo e morto, ma noi pensiamo e sentiamo ancora come Aristotele e non riusciamo a capire cosa ciò significhi, a integrarlo nella nostra mente. Tutto ciò sconvolge anche giudizi morali, gerarchie di valori. È necessario un nuovo umanesimo, dice Schiavone, per metabolizzare questa trasformazione in una nuova visione del mondo. Ma, gli chiedo incontrandolo nella sua Firenze, quale umanesimo?
Schiavone: Per me "nuovo umanesimo" vuol dire costruzione di un'antropologia culturale, politica e morale dell'uomo tecnologico, cioè di un soggetto che non abbia più la propria "naturalità" come presupposto immodificabile rispetto al suo agire. È un compito assai complesso, ma al quale non siamo del tutto impreparati. Del resto, se mi permetti, cos'è tutta la tua ricerca, se non il tentativo di disegnare una mappa dell'umano che abbia fatto i conti sino in fondo con le prospettive della modernità?
Magris: Ernesto Galli della Loggia, giustamente entusiasta del tuo libro, ha mosso obiezioni al tuo ottimismo circa questo sviluppo, sottolineando i pericoli che la scienza e la tecnica, difficilmente controllabili, possono costituire per la libertà e la democrazia. Inoltre il pericolo di una catastrofe nucleare è molto più grande oggi di ieri, visto che ogni staterello e ogni satrapo incosciente possono scatenarla. Le spaventose tensioni del mondo ci fanno vivere sull'orlo di un vulcano, che da un momento all'altro può distruggerci come Pompei. Un umanesimo, ossia una visione dei problemi del mondo e un progetto su come gestirli, non c'è, il che apre fosche prospettive. Una volta, diceva Karl Valentin, il futuro era migliore. Proprio quel divario tra progresso tecnologico e arretratezza spirituale mi sembra renda l'uomo non tanto onnipossente immagine e somiglianza di Dio, quanto apprendista stregone e assetato di violenza, inetto a dominare ciò che mette in moto e, in questo senso, stupido, ancora sulla "nave dei folli" dell'umanità. Erwin Chargaff, il grande biologo le cui ricerche furono fondamentali per la scoperta del Dna da parte di Crick e Watson, ha detto che la croce a doppia elica sta diventando la firma degli analfabeti della nostra epoca.
Schiavone: Ernesto Galli della Loggia vede bene, il rapporto fra democrazia e rivoluzione tecnologica è forse l'aspetto più problematico e inquietante del nostro futuro. Ma oggi il rischio nucleare è — diciamo — locale, per quanto sempre tremendo, non più globale, come prima: possiamo figurarci singoli disastri, non l'apocalisse. È vero invece che stiamo vivendo un gravissimo sbilanciamento tra avanzamento tecnologico e cultura complessiva della civiltà (politica, etica, spiritualità): l'inverso di quanto accadeva nell'antichità classica. Ed è perciò che abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo, che riequilibri la potenza della tecnica.
Magris: Tu scrivi che l'uomo si è emancipato dalla natura, non la subisce ma la domina e la altera. Ma non credi che anche questa metamorfosi della nostra specie rientri nella natura, che può mutarci velocemente così come ci ha mutati lentamente in passato, che ci può far diventare bisessuali — posto che lo faccia — come ha modellato in altre specie la riproduzione per scissione o come ha estinto i dinosauri? Forse anche la nostra attiva manipolazione della natura è una sua astuzia, così come lo sarà forse domani il dominio dei batteri sulla terra. Tutto è messo in scena dalla natura, dice un inno di Goethe, anche ciò che sembra negarla.
Schiavone: Sarebbe scrivere un libro bellissimo raccontare l'idea "letteraria" di natura da Lucrezio a Goethe. Non so se esista un lavoro simile. La natura non è altro che storia — solo più fredda e lenta. E questa storia ci sta trascinando verso un punto cruciale: il limite oltre il quale la forma della nostra specie non sarà più decisa dai meccanismi dell'evoluzione, ma dalla nostra stessa intelligenza. Siamo sul punto di staccare l'"umano" dal "naturale": e questo ci riporta al tuo Nietzsche. Se vuoi, l'estremo superamento di se stessa mette in scena davvero il trionfo finale della natura.
Magris: Nel tuo libro tu saluti con fiducia il prossimo avvento di un'umanità radicalmente diversa dalla nostra, vittoriosa sulla morte, padrona della propria corporeità, capace di orientare a piacere il proprio patrimonio genetico e di connettere i propri neuroni a circuiti elettronici artificiali, portatrice di una sessualità che non ha nulla a che fare con quella che, più o meno, è ancora la nostra. Però ci sono anche gli attriti del progresso: si fecondano ovuli animali con Dna umano, ma il raffreddore e la calvizie sono ancora invitti. Comunque, se questa mutazione di cui parli avverrà, saremo ancora noi, sarà ancora la nostra specie o un'altra, così diversa da non aver sostanzialmente più nulla a che fare con noi così come siamo? Questa metamorfosi potrebbe essere forse un progresso (per chi?), ma anche la fine della nostra specie. E come dunque si potrebbero elaborare, come tu dici, valori morali comunque non negoziabili? Per la vita dell'universo, dal big bang ai buchi neri, Auschwitz non ha più peso della fine dei dinosauri, per noi invece sì. Ma se noi non saremo più noi, quand'anche fossimo oltre- uomini più sviluppati di noi?
Schiavone: Questo della continuità e dell'identità è un grande tema. Ho paura di non avere una vera risposta. Credo fermamente che di fronte a quel che ci aspetta noi siamo solo preistoria. Ma questo non vuol dire che non abbiamo elaborato caratteri destinati a durare oltre l'imminente metamorfosi. Ricordi la vecchia storia del neanderthaliano in jeans nel metrò? Lo riconosceremmo come diverso? E, per citarti ancora, dove comincia esattamente il fiume che chiamiamo Danubio? La nostra è una specie di straordinario successo. Noi abbiamo spinto lo sguardo alle origini dell'universo. Noi, non i dinosauri, e ciò non sarà senza conseguenze.

Corriere della Sera 27.9.07
Lo studioso sostiene che la nostra civiltà si fonda sul primato della ragione affermato dal pensiero greco
Pellicani: più pagane che cristiane le radici dell'Europa liberale
di Antonio Carioti


Il convegno: si tiene a Roma oggi e domani, presso la Sala convegni dell'Autorità per la privacy (piazza Montecitorio, 123/a), l'incontro «La risposta laica ai fondamentalismi religiosi», organizzato dalla rivista «Mondoperaio»

Radici cristiane dell'Europa? Macché: secondo Luciano Pellicani, alle origini della civiltà moderna c'è soprattutto il lascito della cultura classica greco-romana. Una tesi polemica, che lo studioso socialista sostiene nel libro di prossima uscita Le radici pagane dell'Europa (Rubbettino), di cui anticipa le conclusioni sulla rivista da lui diretta, Mondoperaio.
Pellicani scrive che lo sviluppo dei sistemi pluralisti non è stato altro che «la storia della progressiva emancipazione della società dalla dittatura spirituale del cristianesimo e delle sue istituzioni ». E che per conseguirla è stato necessario riscoprire due idee pagane: quella della «piena sovranità della ragione » e quella «che non ci sia altra realtà che questo mondo».
Eppure l'impero romano era una monarchia dispotica, in cui il sovrano era sacralizzato e i cristiani venivano perseguitati. «In realtà — replica Pellicani — nell'antica Roma lo Stato era laico e quasi tutte le religioni erano tollerate e garantite. Il cristianesimo fu colpito perché era percepito come una minaccia politica, in quanto i suoi fedeli rifiutavano di fare sacrifici all'imperatore, cioè di compiere un atto di lealtà al potere costituito. Inoltre le classi colte del mondo antico avevano del mondo una visione laica, fondata sul primato della ragione». Quindi anticipavano l'Illuminismo: «Non a caso il cristiano Soren Kierkegaard considerava neopagana tutta la filosofia moderna. Del resto gli antichi romani non avevano teologia, né testi sacri, né clero. I loro sacerdoti erano semplici magistrati dello Stato. Cicerone, da pontefice massimo della Repubblica romana, scrive un trattato in cui si domanda se le divinità esistono. Si può immaginare un papa che dubita dell'esistenza di Dio e lo mette per iscritto?».
Pellicani peraltro non disconosce il contributo della fede cristiana all'Occidente: «Il suo merito maggiore è consistito nell'introdurre un principio di solidarietà verso i deboli, la caritas, che il mondo pagano non conosceva. Però il cristianesimo è solo una componente della nostra civiltà, non ne è l'unica origine. Il punto essenziale è che il Dio della Bibbia esprime una verità rivelata: pronuncia dall'alto sentenze, comandi e divieti, senza argomentarli. Invece la filosofia greca ritiene che ogni proposizione vada giustificata in termini razionali: un principio fatto proprio dalla democrazia moderna».
Però Benedetto XVI afferma che i diritti umani derivano dal cristianesimo, secondo il quale noi siamo creature generate da Dio a sua immagine. «Il fondamento religioso della dignità e delle libertà personali — risponde Pellicani — non è l'unico possibile. Già il filosofo romano Seneca, stoico e pagano, affermava che l'uomo è la cosa più sacra per l'uomo. Inoltre il rispetto per l'individuo comprende la tutela del suo diritto di professare qualsiasi fede, o anche di non credere, un principio che la Chiesa ha sempre combattuto. Per la civiltà moderna la legittimazione dell'eresia, cioè la libertà di coscienza, è il valore supremo, mentre Sant'Agostino sosteneva che il diritto all'errore è la peste dell'anima, da cui deriva la perdizione: per lui l'eretico è figlio di Satana e deve essere perseguitato nel suo stesso interesse. Al contrario l'imperatore romano Tiberio diceva: se gli dei vengono offesi, ci penseranno loro a punire i colpevoli di empietà, non deve occuparsene lo Stato».

BIOETICA: SCOPPIA CASO CNB, TRE COMPONENTI CONTRO PRESIDENTE- ROMA, 27 SET
Scoppia un caso all'interno del Comitato nazionale di bioetica (Cnb): in una lettera pubblicata su 'Left-Avvenimentì in edicola domani, e resa nota dallo stesso settimanale, alcuni componenti si scagliano infatti contro il presidente Francesco Paolo Casavola accusandolo, tra l'altro, di «pochezza di risultati». A mettere 'alla sbarrà il presidente del Cnb sono tre componenti del comitato: Carlo Flamigni, Demetrio Neri e Gilberto Corbellini, ai quali si associa il presidente della Consulta di Bioetica, il bioetista Maurizio Mori. I tre esperti parlano di «pochezza di risultati», «scarsa informazione», «gestione unilaterale» e «poco rispettosa del regolamento vigente». La pioggia di critiche si abbatte a nove mesi dalla nomina di Casavola, alla vigilia di una riunione di chiarimenti. Nella lettera, indirizzata allo stesso Casavola, i tre componenti mettono sotto accusa proprio «le modalità di gestione»: il loro timore è che «penalizzino valori e punti di vista morali che in democrazia - scrivono - hanno la stessa dignità culturale e politica di quelli che Lei personalmente tende a privilegiare». E Mori aggiunge: l'azione del Cnb «sembra rispecchiare la trista situazione della politica: invece di esser esempio di riflessione intellettuale ai massimi livelli, mostra di esser rivolta alla mera propaganda di tesi precostituite». Ecco i fatti controversi riportati nella lettera. Il primo: la nomina del genetista Bruno Dallapiccola nella commissione incaricata di rivedere le linee guida della legge 40 «effettuata senza consultare il Cnb». I tre si riferiscono alla Commissione presieduta dal presidente del Consiglio Superiore di Sanità, Francesco Cuccurullo, che ha dato un suo parere sulle linee guida della legge. Al di là della «inappropriatezza politica della scelta, ovvero di nominare in quella commissione - notano i tre - il presidente del comitato 'Scienza e Vita', a destare preoccupazione è stata anche la modalità con cui Lei ha gestito in plenaria le richieste di chiarimenti: un goffo tentativo di negare l'evidenza». Il secondo fatto: «la modalità irrituale con la quale Lei ha indicato i professori Bompiani, Marini, Dallapiccola come membri di una commissione dedicata allo stoccaggio delle cellule staminali. Prassi vuole che in queste nomine venga rispettato il pluralismo di idee e quindi non si capisce perchè Lei abbia privilegiato, di nuovo, tre esponenti del Cnb di analogo orientamento (e sempre afferenti a Scienza e Vita)». Il terzo: «la nomina senza consultare l'assemblea del prof. Marini come delegato italiano presso il Forum dei comitati etici dei paesi dell'Ue». (ANSA). BR 27-SET-07 18:08 NNN

CAPPATO (RADICALI),COMITATO NON ADEMPIE MANDATO - ROMA, 27 SET
«I bioeticisti laici hanno ragione, il Comitato nazionale di bioetica non adempie al suo mandato». Lo afferma Marco Cappato, segretario dell'Associazione Luca Coscioni e deputato europeo radicale, commentando la lettera dei professori Corbellini, Flamigni e Neri al Presidente del Comitato Nazionale di Bioetica. la lettera, afferma, «è una chiara denuncia dell'attuale paralisi del Cnb». Il documento, rileva Cappato, «non è una mera comunicazione sul merito di alcune scelte n‚ tantomeno di uno scontro fra laici e cattolici. Tratta invece del metodo perseguito dall'attuale Presidente del CNB che, di fatto, ha paralizzato i lavori del Comitato piegandolo totalmente ai diktat d'Oltretevere. Al Comitato Nazionale di Bioetica è affidata statutariamente anche la funzione di 'garantire una corretta informazione dell'opinione pubblica sugli aspetti problematici e sulle implicazioni dei trattamenti terapeutici, delle tecniche diagnostiche e dei progressi delle scienze biomedichè. Nonostante ciò - prosegue Cappato - a oggi il CNB non ha organizzato veri confronti, che coinvolgessero gli italiani sui temi di rilevanza per la società e la politica». «Alle preferenze delle gerarchie vaticane - è l'accusa di Cappato - sono state riservate tutte le nomine di rilievo, fino alla designazione, come rappresentante del CNB nella Commissione per la revisione delle linee guida della legge 40, di Bruno Dalla Piccola, leader ufficiale del boicottaggio del referendum di due anni fa». (ANSA). CR 27-SET-07 18:16 NNN