venerdì 28 settembre 2007

l’Unità 28.9.07
La manifestazione di Firenze rischia di deragliare
di Giampiero Rossi


Rinaldini solidale con il segretario cittadino della Fiom attaccato perché difende l’accordo sul protocollo welfare

La «manifestazione di lotta» prevista per domani a Firenze sta assumendo ormai dimensioni nazionali e, soprattutto, si sta caricando di tensioni che stanno scuotendo il sindacato. A partire dalla Fiom, l’organizzazione che rappresenta i metalmeccanici e che ha deciso di non appoggiare la scelta della Cgil di sottoscrivere l’accordo sul welfare del luglio scorso. Come conferma il fatto che lo stesso segretario generale della tute blu, Gianni Rinaldini, ha sentito l’esigenza di prendere le distanze da alcune posizioni pericolose che sono affiorate dal fronte degli oppositori più duri al protocollo del 23 luglio.
L’epicentro delle polemiche è Firenze, dove alcune Rsu hanno deciso di promuovere per sabato una manifestazione «contro la precarietà, contro i bassi salari, contro i tagli alla spesa sociale, per il lavoro a tempo indeterminato, per l'uguaglianza di diritti e tutele di tutti i lavoratori e di tutti i cittadini, per giusti salari, per pensioni dignitose». Hanno creato un sito internet per raccogliere adesioni e commenti e, tra i tanti, nei giorni scorsi ne sono comparsi alcuni che hanno fatto scattare qualche campanello di allarme. Prima è apparso un comunicato (poi rimosso) dei Carc (Comitati di appoggio alla resistenza per il comunismo), cioè le frange più estreme della cosiddetta area antagonista. Quindi è arrivato un intervento firmato «Partito dei Comunisti Rivoluzionari Libertari» nel quale viene preso di mira, indicato con nome e cognome, il segretario della Fiom di Firenze, che ha scelto di schierarsi per il sì all’accordo: «Vergognosa è invece la posizione della Fiom fiorentina - si legge - che per bocca del segretario Marcello Corti (ma si facciamo anche il nome che noi siamo educati e non vogliamo mettere nessuno alla gogna!!!!!!!!!) si è opposta al No, sostenendo il "protocollo" e definendolo ricco di "elementi positivi"».
La sequenza ha l’immediata reazione di Rinaldini: «In un comunicato del “Partito dei comunisti libertari lavoro/città” si denuncia come vergognoso, con nome e cognome, il comportamento del segretario generale della Fiom di Firenze perché sostiene l’accordo intercategoriale con il governo - scrive il leader nazionale della Fiom -. Questo atteggiamento è semplicemente inaccettabile perché costituisce la negazione della democrazia sindacale. Pertanto, nel condannare questo comportamento, esprimo al segretario generale della Fiom di Firenze la solidarietà della nostra organizzazione».
Le nubi, però, accompagnano anche i rapporti tra la Cgil e la minoranza interna. Epifani ha scritto giorni fa al leader di “Lavoro e società”, Nicola Nicolosi, ammonendolo sulla scelta di aderire alla manifestazione di Firenze. Sabato, dunque, sarà una giornata tesa per tutto il sindacato.

l’Unità 28.9.07
«Vestitevi di rosso per solidarietà»
Sms e blog dalla parte dei monaci
di Marina Mastroluca


QUALCOSA DI ROSSO, rosso come le tuniche dei monaci picchiati e arrestati nell’ex Birmania. Rosso come quel cordone umano per per giorni ha sfilato per le strade di Yangon, ogni giorno più forte e più applaudito. Viaggia su internet, si sposta sugli sms l’invito a vestirsi di rosso, come segno di solidarietà. «A sostegno dei nostri amici incredibilmente coraggiosi in Birmania: venerdì 28 settembre indossiamo tutti, in tutto il mondo, una maglietta rossa».
Si tinge di rosso anche il Campidoglio, a Roma, dove ieri monaci buddisti hanno intonato canti di preghiera nella sala Giulio Cesare, accolti dal sindaco Walter Veltroni. Le teste rasate e la tracolla per raccogliere le offerte, che ieri sono state le manifestazioni di solidarietà dei tanti rappresentanti politici di tutti gli schieramenti - tra gli altri Fausto Bertinotti, Pecoraro Scanio, Giovanna Melandri, Barbara Pollastrini, Marina Sereni, Enrico Boselli, Luciano Violante, in sala rappresentanti della Cisl, di Azione Giovani e dell’Ugl. I monaci hanno pregato davanti ad un grande ritratto della leader dell’opposizione birmana, Aung San Suu Kyi, che in queste ore - secondo voci ricorrenti - potrebbe essere stata trasferita dalla sua casa prigione ad una vera cella. «Si è grandi potenze non solo per il valore economico e territoriale - ha detto Veltroni - ma lo si è anche se si è in grado di difendere i diritti umani». Un riferimento alla Cina e alla Russia, che hanno impedito al Consiglio di sicurezza dell’Onu di approvare nuove sanzioni contro l’ex Birmania, ma anche all’India, grande potenza democratica rimasta in silenzio, come ha ricordato la ministra Emma Bonino, invitando a non «lasciarci vincere dallo scoramento e dalla voglia di gettare la spugna». Perché qualcosa la comunità internazionale può comunque fare. «È arrivato il momento - sono state le parole del vice-presidente della Commissione Ue, Franco Frattini - che ogni Stato europeo segua l’esempio del presidente francese e chieda alle proprie imprese di smettere gli investimenti fruttuosi e lucrosi in Birmania». Chiudere i rubinetti che finanziano il regime dei generali. E qualcos’altro. «Perché non ritiriamo l’ambasciata italiana dalla Birmania?», chiede Jimpa Santu Lima, rappresentante della comunità tibetana nel nostro paese, accolto dagli applausi.
Non ci sono stati applausi ma una fredda accoglienza per la delegazione del Consiglio regionale del Lazio, che ieri nel cortile dell’ambasciata birmana a Roma ha inalberato nove bandiere della pace, in segno di protesta dopo il rifiuto dei rappresentanti diplomatici di ricevere il presidente del Consiglio regionale Guido Milana e altri otto consiglieri, che intendevano consegnare un documento di condanna delle violenze contro i monaci e i manifestanti. Alla fine c’è stato un breve incontro e il «sit-in» improvvisato dentro l’ambasciata si è sciolto.
Un vero sit in è previsto oggi pomeriggio davanti alla stessa sede diplomatica (17,30, in via della Camilluccia a Roma) e un altro a Milano, promossi da Amnesty International, che ha lanciato un appello on line a favore di politici, monaci e artisti arrestati in questi giorni nell’ex Birmania per «mobilitare opinione pubblica e governi della comunità internazionale, per fermare la violenta repressione delle manifestazioni in corso in Myanmar». Anche la realtà virtuale si mobilita. Blogosfere, il più grande network di blog professionali e di informazione, aderisce alla campagna «Free Burma» e sceglie il rosso come segno di solidarietà, tingendo lo sfondo dei suoi blog e lanciando un invito a tutta la rete «ad unirsi per fermare azioni estreme e violente nei confronti della popolazione civile e dei reporter, che hanno il diritto di fare informazione». «Internet ha in queste occasioni un’importanza fondamentale per diferendere i diritti civili e la libertà di informazione - dice Marco Montemagno, Ad di Blogosfere -. Crediamo che ogni blogger italiano possa contribuire».

l’Unità 28.9.07
Zingaretti: «Inondiamo di e-mail l’ambasciata»
l’e.card è scaricabile dal sito http://www.nicolazingaretti.it/


ROMA Inondare l’ambasciata birmana di messaggi di protesta, far sentire la voce di chi sostiene la protesta dei monaci buddisti e della popolazione birmana. È la proposta avanzata dall’europarlamentare Nicola Zingaretti. «Faccio appello al popolo della rete affinchè si mobiliti e invii, via e-mail, all'ambasciata del Myanmar in Italia una cartolina, scaricabile dal sito www.nicolazingaretti.it e che sarà distribuita in molte iniziative nei prossimi giorni, per chiedere che vengano riconosciute immediatamente le richieste avanzate dal popolo birmano e liberata Aung San Suu Kyi, da troppi anni agli arresti domiciliari». Zingaretti ha voluto sottolineare come sia «necessario che ciascuno nel proprio piccolo faccia qualcosa per dimostrare la nostra vicinanza ad un popolo così coraggioso».
In segno di protesta con la repressione in corso, la Farnesina intanto ha confermato che - alla luce degli sviluppi della situazione a Yangon - il ministero ha deciso di ritirare l'invito esteso a due funzionari birmani del ministero degli esteri birmano per la partecipazione ad un corso di «Diritto umanitario nei conflitti armati». Al corso, che si terrà dall'8 al 19 ottobre prossimo presso l'Istituto Internazionale di Diritto Umanitario di Sanremo, è prevista la partecipazione di 120 funzionari governativi provenienti da vari continenti ma non ci saranno i birmani.
Un appello affinchè il regime dei generali non risponda più con la violenza alle manifestazioni è stato lanciato ieri dal palco dell'assemblea dei piccoli Comuni dell'Anci riuniti a Castelvecchio Pascoli su proposta del coordinatore, Secondo Amalfitano.
«Propongo - ha detto Amalfitano - di approvare un documento perchè il regime di Myanmar non intervenga più con la forza contro chi civilmente e silenziosamente rivendica un futuro per i propri figli e per la democrazia».

l’Unità 28.9.07
La fecondazione e l’accanimento
di Luigi Cancrini


Il modo in cui alcuni personaggi del mondo politico che hanno avuto un ruolo decisivo nella scrittura della legge 40 sulla fecondazione assistita si preoccupano della salute delle donne e dei bambini è stato reso drammaticamente evidente, ieri, dall'On. Volonté, capogruppo dell'Udc alla Camera. Con una interrogazione presentata al ministro della giustizia Mastella, egli ha avuto la sfrontatezza di chiedergli, infatti, un intervento ispettivo ed, eventualmente, disciplinare nei confronti dei magistrati del Tribunale Civile di Cagliari: rei, a suo avviso, di aver offeso la legge e «la volontà del popolo italiano» nel momento in cui hanno deciso di accogliere l'istanza di una donna, portatrice sana di betatalassemia, per la diagnosi preimpianto nel suo embrione congelato. Disponendone l'esecuzione in un Centro ospedaliero fra i più qualificati nel campo della fecondazione medicalmente assistita e della prevenzione delle malattie genetiche e permettendo, così, ad una coppia che correva un rischio alto di mettere al mondo un bambino gravemente e irrimediabilmente malato, condannato ad una breve vita e ad una serie infinita ed ingiusta di sofferenze, di fare le sue valutazioni e di assumere le sue decisioni da subito. Senza dover aspettare, cioè, l'amniocentesi del quarto mese di gravidanza.
Non c'è in realtà paese al mondo in cui si sia arrivati a definire una situazione così assurda.
Ce lo segnalano ogni giorno le coppie che se ne vanno all'estero per ottenere un'assistenza che la legge italiana non consente loro di ottenere qui. Quello che particolarmente mi ha colpito ieri, tuttavia, ascoltando Volonté che parlava alla Camera è il modo in cui un deputato ha sentito la necessità di esprimersi pubblicamente, e con tanta violenza, nei confronti di due persone che hanno esercitato in modo così semplice un loro diritto naturale criticando il Tribunale che ha accettato di tutelarlo.
Serve una mancanza totale di comune senso del pudore, mi veniva da pensare ascoltandolo, per accanirsi così nei confronti di persone che il destino ha messo di fronte ad una scelta così difficile e dolorosa e per opporsi, con tanta rigida imperturbabilità, a quelli che sono per fortuna i progressi della ricerca scientifica. L'on. Volonté dovrebbe ricordarsi forse, a questo punto, che anche un Papa ha deciso, dall'alto della sua «infallibilità», di riconoscere gli errori fatti dalla Chiesa nei confronti di Copernico, di Galilei e di tanti altri scienziati. Ma dovrebbe ricordare anche, un po' più vicino alla materia di cui continua ad interessarsi, che perfino una legge discutibile come la legge 40 non proibisce affatto la diagnosi preimpianto.
È stato solo il ministro Sirchia, infatti, con una circolare faziosa ed alquanto originale, a indicare che tale diagnosi poteva essere fatta solo utilizzando un metodo «osservazionale». Escludendo, cioè, per ragioni da lui mai spiegate (ed in effetti difficilmente spiegabili), non la diagnosi in sé e per sé ma la diagnosi fatta con l'unico strumento davvero efficace, quello legato all'indagine cromosomica. Passando sopra dunque con disinvoltura degna di miglior causa al primo obbligo che un medico ha nell'esercizio della sua professione: quello di occuparsi, in scienza e coscienza, della salute di chi a lui si rivolge utilizzando a tal fine tutti i mezzi che le conoscenze scientifiche mettono a sua disposizione.
Le linee guida di Sirchia possono e debbono essere modificate ora dal ministro Turco che riferirà alla Camera su questo tema nei primi giorni di ottobre. Lo chiede da oggi con chiarezza l'On. Sanna, deputato dell'Ulivo, medico e pediatra, con una interpellanza urgente cui ci siamo uniti in molti. Quella di cui va dato atto al Tribunale di Cagliari, dice Sanna, è una decisione inattaccabile dal punto di vista giuridico, con cui si liberano sia le donne sia i medici dall'obbligo di impiantare embrioni potenzialmente portatori di gravi patologie e sui quali si può intervenire solo con traumatiche interruzioni di gravidanza di cui Sirchia e Volontè non vogliono considerare le dolorose conseguenze cliniche, psicologiche e familiari. Quella di cui va dato atto al capogruppo dell'Udc, d'altra parte, è una indifferenza totale di fronte a sofferenze che per sua fortuna non lo riguardano personalmente. Come accade spesso, purtroppo, a chi aderisce ideologicamente ad una dottrina di cui dimentica il fondamento: la parola di un uomo che si chiamava Gesù.

l’Unità 28.9.07
Finanziaria, priorità alla giustizia sociale
di Titti Di Salvo


La legge Finanziaria è lo strumento attraverso cui anno per anno prende forma la politica economica di ogni governo. Non dovrebbe essere così. Sulla manovra finanziaria vengono caricati oneri impropri, politici si intende, e le buone intenzioni di alleggerimento dal ruolo di «madre di tutte le leggi economiche» si sono fermate alle intenzioni.
Allora, a torto o ragione, i contenuti della manovra finanziaria sono inevitabilmente il test della coerenza delle scelte del governo e contemporaneamente la sua occasione per rispondere alle aspettative delle persone. Le aspettative sono molte e, a fronte di risorse limitate, si impongono scelte. Il segno di quelle scelte non può che essere guidato dall'idea di Italia che si ha in mente, e anche dall'idea di quali siano le vie da percorre per rilanciare il suo sviluppo.
Il documento che la sinistra ha consegnato a Prodi sulla manovra finanziaria si muove in questo solco. Ha in mente un'idea dell'Italia, propone allocazioni di risorse coerenti con quell'idea, indica dove reperire risorse aggiuntive, anche in questo caso perseguendo un'idea. I problemi di competitività del sistema Italia, sono fortemente legati alla dimensione delle sue imprese, al modello di specializzazione, alla scarsità (o assenza) di investimenti pubblici e privati su innovazione e ricerca. Qui c'è il primo segno da imprimere alla finanziaria: risorse sulla qualità, l'istruzione, l'innovazione e la ricerca; dunque lo sviluppo ambientalmente sostenibile. L'indice di disuguaglianza del paese rimane altissimo e in crescita, rendendo la nostra società sempre più polarizzata. Per questo la redistribuzione dei redditi ci vuole, non genericamente intesa, verso le lavoratrici e i lavoratori dipendenti, ma anche verso gli incapienti. Con lo stesso approccio e con le stesse motivazioni si può migliorare il protocollo del 23 luglio (quale è il senso del tetto ai lavori usuranti? Perché rinunciare alla scelta netta di arginare la precarietà dei contratti a termine?), esercitando il ruolo proprio del Parlamento, senza venir meno al rispetto dovuto a quel grande evento della democrazia italiana che è la consultazione promossa dal sindacato conferderale. Altrettanto importante è dare il senso di una società capace di assumere la responsabilità collettiva di fronte ai cambiamenti della struttura sociale e alle nuove domande di rappresentanza: in questo senso il fondo per gli anziani non autosufficienti è una esigenza reale e non più rinviabile. Questo è il secondo segno da dare alla Finanziaria: giustizia sociale come priorità e al contempo condizione per lo sviluppo.
Ma il documento non indica soltanto il senso della direzione di marcia e gli obiettivi concreti da perseguire.
Avanza anche proposte per il reperimento di risorse: la tassazione delle rendite finanziarie al 20% come in Europa, i tagli agli sprechi della politica e alle spese militari; anche in questo caso indicando terreni di intervento concreti e coerenti con la nostra idea dell'Italia - che poi è quella del programma dell'Unione - della sua collocazione europea ed internazionale e soprattutto scegliendo l'etica pubblica come tema fondamentale su cui agire per restituire credibilità alla politica.
Molti oggi invocano lo spirito dell'Unione, della compattezza della maggioranza per ricostruire consenso intorno al governo Prodi. C'è una risposta più trasparente, adeguata, convincente, di merito, non ambigua e soprattutto precedente a quegli appelli, dei contenuti del documento della sinistra?
Ma come la mettiamo con le alleanze di nuovo conio?
C'è una proposta meno trasparente, meno adeguata e convincente, più ambigua e pretestuosa del battere moneta nuova, per rinsaldare l'alleanza che attualmente governa e, quindi, rendere più stabile il Governo stesso?
Capogruppo Sinistra Democratica Camera

Repubblica 28.9.07
Ogni anno dallo Stato circa 4 miliardi
I conti della Chiesa ecco quanto ci costa
di Curzio Maltese


Su 5 euro incassati dal gettito Irpef, 1 va alla carità. Il resto tra culto e immobili
La gestione dei fondi "imbriglia" il dibattito. "Fuori dal coro parlano solo ex vescovi..."

«Quando sono arrivato alla Cei, nel 1986, si trovavano a malapena i soldi per pagare gli stipendi di quattro impiegati». Camillo Ruini non esagera. A metà anni Ottanta le finanze vaticane sono una scatola vuota e nera. Un anno dopo l´arrivo di Ruini alla Cei, soltanto il passaporto vaticano salva il presidente dello Ior, monsignor Paul Marcinkus, dall´arresto per il crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. La crisi economica è la ragione per cui Giovanni Paolo II chiama a Roma il giovane vescovo di Reggio Emilia, allora noto alle cronache solo per aver celebrato il matrimonio di Flavia Franzoni e Romano Prodi, ma dotato di talento manageriale. Poche scelte si riveleranno più azzeccate. Nel "ventennio Ruini", segretario dall´86 e presidente dal ´91, la Cei si è trasformata in una potenza economica, quindi mediatica e politica. In parallelo, il presidente dei vescovi ha assunto un ruolo centrale nel dibattito pubblico italiano e all´interno del Vaticano, come mai era avvenuto con i predecessori, fino a diventare il grande elettore di Benedetto XVI.
Le ragioni dell´ascesa di Ruini sono legate all´intelligenza, alla ferrea volontà e alle straordinarie qualità di organizzatore del personaggio. Ma un´altra chiave per leggerne la parabola si chiama "otto per mille". Un fiume di soldi che comincia a fluire nelle casse della Cei dalla primavera del 1990, quando entra a regime il prelievo diretto sull´Irpef, e sfocia ormai nel mare di un miliardo di euro all´anno. Ruini ne è il dominus incontrastato. Tolte le spese automatiche come gli stipendi dei preti, è il presidente della conferenza episcopale, attraverso pochi fidati collaboratori, ad avere l´ultima parola su ogni singola spesa, dalla riparazione di una canonica alla costruzione di una missione in Africa agli investimenti immobiliari e finanziari.
Dall´otto per mille, la voce più nota, parte l´inchiesta di Repubblica sul costo della chiesa cattolica per gli italiani. Il calcolo non è semplice, oltre che poco di moda. Assai meno di moda delle furenti diatribe sul costo della politica. Il "prezzo della casta" è ormai calcolato in quattro miliardi di euro all´anno. "Una mezza finanziaria" per "far mangiare il ceto politico". "L´equivalente di un Ponte sullo Stretto o di un Mose all´anno".
Alla cifra dello scandalo, sbattuta in copertina da Il Mondo e altri giornali, sulla scia di La Casta di Rizzo e Stella e Il costo della democrazia di Salvi e Villone, si arriva sommando gli stipendi di 150 mila eletti dal popolo, dai parlamentari europei all´ultimo consigliere di comunità montane, più i compensi dei quasi trecentomila consulenti, le spese per il funzionamento dei ministeri, le pensioni dei politici, i rimborsi elettorali, i finanziamenti ai giornali di partito, le auto blu e altri privilegi, compresi buvette e barbiere di Montecitorio.
Per la par condicio bisognerebbe adottare al "costo della Chiesa" la stessa larghezza di vedute. Ma si arriverebbe a cifre faraoniche quanto approssimative, del genere strombazzato nei libelli e in certi siti anticlericali.
Con più prudenza e realismo si può stabilire che la Chiesa cattolica costa in ogni caso ai contribuenti italiani almeno quanto il ceto politico. Oltre quattro miliardi di euro all´anno, tra finanziamenti diretti dello Stato e degli enti locali e mancato gettito fiscale. La prima voce comprende il miliardo di euro dell´otto per mille, i 650 milioni per gli stipendi dei 22 mila insegnanti dell´ora di religione («Un vecchio relitto concordatario che sarebbe da abolire», nell´opinione dello scrittore cattolico Vittorio Messori), altri 700 milioni versati da Stato ed enti locali per le convenzioni su scuola e sanità. Poi c´è la voce variabile dei finanziamenti ai Grandi Eventi, dal Giubileo (3500 miliardi di lire) all´ultimo raduno di Loreto (2,5 milioni di euro), per una media annua, nell´ultimo decennio, di 250 milioni. A questi due miliardi 600 milioni di contributi diretti alla Chiesa occorre aggiungere il cumulo di vantaggi fiscali concessi al Vaticano, oggi al centro di un´inchiesta dell´Unione Europea per "aiuti di Stato". L´elenco è immenso, nazionale e locale. Sempre con prudenza si può valutare in una forbice fra 400 ai 700 milioni il mancato incasso per l´Ici (stime "non di mercato" dell´associazione dei Comuni), in 500 milioni le esenzioni da Irap, Ires e altre imposte, in altri 600 milioni l´elusione fiscale legalizzata del mondo del turismo cattolico, che gestisce ogni anno da e per l´Italia un flusso di quaranta milioni di visitatori e pellegrini. Il totale supera i quattro miliardi all´anno, dunque una mezza finanziaria, un Ponte sullo Stretto o un Mose all´anno, più qualche decina di milioni.
La Chiesa cattolica, non eletta dal popolo e non sottoposta a vincoli democratici, costa agli italiani come il sistema politico. Soltanto agli italiani, almeno in queste dimensioni. Non ai francesi, agli spagnoli, ai tedeschi, agli americani, che pure pagano come noi il "costo della democrazia", magari con migliori risultati.
Si può obiettare che gli italiani sono più contenti di dare i soldi ai preti che non ai politici, infatti se ne lamentano assai meno. In parte perché forse non lo sanno. Il meccanismo dell´otto per mille sull´Irpef, studiato a metà anni Ottanta da un fiscalista all´epoca "di sinistra" come Giulio Tremonti, consulente del governo Craxi, assegna alla Chiesa cattolica anche le donazioni non espresse, su base percentuale. Il 60 per cento dei contribuenti lascia in bianco la voce "otto per mille" ma grazie al 35 per cento che indica "Chiesa cattolica" fra le scelte ammesse (le altre sono Stato, Valdesi, Avventisti, Assemblee di Dio, Ebrei e Luterani), la Cei si accaparra quasi il 90 per cento del totale. Una mostruosità giuridica la definì già nell´84 sul Sole 24 Ore lo storico Piero Bellini.
Ma pur considerando il meccanismo "facilitante" dell´otto per mille, rimane diffusa la convinzione che i soldi alla Chiesa siano ben destinati, con un ampio "ritorno sociale". Una mezza finanziaria, d´accordo, ma utile a ripagare il prezioso lavoro svolto dai sacerdoti sul territorio, la fatica quotidiana delle parrocchie nel tappare le falle sempre più evidenti del welfare, senza contare l´impegno nel Terzo Mondo. Tutti argomenti veri. Ma "quanto" veri?
Fare i conti in tasca al Vaticano è impresa disperata. Ma per capire dove finiscono i soldi degli italiani sarà pur lecito citare come fonte insospettabile la stessa Cei e il suo bilancio annuo sull´otto per mille. Su cinque euro versati dai contribuenti, la conferenza dei vescovi dichiara di spenderne uno per interventi di carità in Italia e all´estero (rispettivamente 12 e 8 per cento del totale). Gli altri quattro euro servono all´autofinanziamento. Prelevato il 35 per cento del totale per pagare gli stipendi ai circa 39 mila sacerdoti italiani, rimane ogni anno mezzo miliardo di euro che il vertice Cei distribuisce all´interno della Chiesa a suo insindacabile parere e senza alcun serio controllo, sotto voci generiche come "esigenze di culto", "spese di catechesi", attività finanziarie e immobiliari. Senza contare l´altro paradosso: se al "voto" dell´otto per mille fosse applicato il quorum della metà, la Chiesa non vedrebbe mai un euro.
Nella cultura cattolica, in misura ben maggiore che nelle timidissime culture liberali e di sinistra, è in corso da anni un coraggioso, doloroso e censuratissimo dibattito sul "come" le gerarchie vaticane usano il danaro dell´otto per mille «per troncare e sopire il dissenso nella Chiesa». Una delle testimonianze migliori è il pamphlet "Chiesa padrona" di Roberto Beretta, scrittore e giornalista dell´Avvenire, il quotidiano dei vescovi. Al capitolo "L´altra faccia dell´otto per mille", Beretta osserva: «Chi gestisce i danari dell´otto per mille ha conquistato un enorme potere, che pure ha importantissimi risvolti ecclesiali e teologici». Continua: «Quale vescovo per esempio – sapendo che poi dovrà ricorrere alla Cei per i soldi necessari a sistemare un seminario o a riparare la cattedrale – alzerà mai la mano in assemblea generale per contestare le posizioni della presidenza?». «E infatti – conclude l´autore – i soli che in Italia si permettono di parlare schiettamente sono alcuni dei vescovi emeriti, ovvero quelli ormai in pensione, che non hanno più niente da perdere…».
A scorrere i resoconti dei convegni culturali e le pagine di "Chiesa padrona", rifiutato in blocco dall´editoria cattolica e non pervenuto nelle librerie religiose, si capisce che la critica al "dirigismo" e all´uso "ideologico" dell´otto per mille non è affatto nell´universo dei credenti. Non mancano naturalmente i "vescovi in pensione", da Carlo Maria Martini, ormai esiliato volontario a Gerusalemme, a Giuseppe Casale, ex arcivescovo di Foggia, che descrive così il nuovo corso: «I vescovi non parlano più, aspettano l´input dai vertici… Quando fanno le nomine vescovili consultano tutti, laici, preti, monsignori, e poi fanno quello che vogliono loro, cioè chiunque salvo il nome che è stato indicato». Il già citato Vittorio Messori ha lamentato più volte "il dirigismo", "il centralismo" e "lo strapotere raggiunto dalla burocrazia nella Chiesa". Alfredo Carlo Moro, giurista e fratello di Aldo, in uno degli ultimi interventi pubblici ha lanciato una sofferta accusa: «Assistiamo ormai a una carenza gravissima di discussione nella Chiesa, a un impressionante e clamoroso silenzio; delle riunioni della Cei si sa solo ciò che dichiara in principio il presidente; i teologi parlano solo quando sono perfettamente in linea, altrimenti tacciono».
La Chiesa di vent´anni fa, quella in cui Camillo Ruini comincia la sua scalata, non ha i soldi per pagare gli impiegati della Cei, con le finanze scosse dagli scandali e svuotate dal sostegno a Solidarnosc. La cultura cattolica si sente derisa dall´egemonia di sinistra, ignorata dai giornali laici, espulsa dall´universo edonista delle tv commerciali, perfino ridotta in minoranza nella Rai riformata. Eppure è una Chiesa ancora viva, anzi vitalissima. Tanto pluralista da ospitare nel suo seno mille voci, dai teologi della liberazione agli ultra tradizionalisti seguaci di monsignor Lefebrve. Capace di riconoscere movimenti di massa, come Comunione e Liberazione, e di "scoprire" l´antimafia, con le omelie del cardinale Pappalardo, il lavoro di don Puglisi a Brancaccio, l´impegno di don Italo Calabrò contro la ‘ndrangheta.
Dopo vent´anni di "cura Ruini" la Chiesa all´apparenza scoppia di salute. È assai più ricca e potente e ascoltata a Palazzo, governa l´agenda dei media e influisce sull´intero quadro politico, da An a Rifondazione, non più soltanto su uno. Nelle apparizioni televisive il clero è secondo soltanto al ceto politico. Si vantano folle oceaniche ai raduni cattolici, la moltiplicazione dei santi e dei santuari, i record di audience delle fiction di tema religioso. Le voci di dissenso sono sparite. Eppure le chiese e le sagrestie si svuotano, la crisi di vocazioni ha ridotto in vent´anni i preti da 60 a 39 mila, i sacramenti religiosi come il matrimonio e il battesimo sono in diminuzione.
Il clero è vittima dell´illusoria equazione mediatica "visibilità uguale consenso", come il suo gemello separato, il ceto politico. Nella vita reale rischia d´inverarsi la terribile profezia lanciata trent´anni fa da un teologo progressista: «La Chiesa sta divenendo per molti l´ostacolo principale alla fede. Non riescono più a vedere in essa altro che l´ambizione umana del potere, il piccolo teatro di uomini che, con la loro pretesa di amministrare il cristianesimo ufficiale, sembrano per lo più ostacolare il vero spirito del cristianesimo». Quel teologo si chiamava Joseph Ratzinger.
(Hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)


Repubblica 28.9.07
Il segretario del Prc Franco Giordano: "Vogliamo vedere le nostre richieste accolte nero su bianco"
di Umberto Rosso


ROMA - «È tutto aperto. Dipende da quel che ci presentano, nero su bianco, al Consiglio dei ministri. Sarà un test della verità, e quindi il nostro orientamento e il nostro voto dipenderanno concretamente dai fatti e dai testi». Le ultime telefonate con Prodi, in un pomeriggio frenetico seguito alla tempestosa nottata del vertice, e le rassicurazioni verbali a quanto pare da sole non bastano. Rifondazione aspetta i passi concreti oggi in Cdm. Così, alle otto della sera, Franco Giordano appare meno ottimista del collega verde Pecoraro Scanio («non so, magari lui avrà avuto da Palazzo Chigi notizie migliori»), e non esclude nessuno scenario per la riunione che in giornata dovrebbe licenziare la Finanziaria. Si potrebbe andare dalla ricucitura allo strappo. Compresa la possibilità di un´astensione o addirittura di un voto contrario di Ferrero e degli altri ministri della Cosa rossa? Il segretario di Rifondazione non scarta neanche questa soluzione estrema. «Lo potremo valutare solo quando avremo di fronte il provvedimento, solo a quel punto prenderemo una decisione». Per il momento, le offerte del premier rispetto alla richieste della sinistra radicale, lo lasciano «sospettoso». Nessuna schiarita certa? «Io non mi sento per nulla rassicurato da quel che sta avvenendo in queste ore - dice Giordano - . Questo è il momento di verificare concretamente. In passato, troppe volte non si è scesi dalle parole ai fatti. Questa volta perciò siamo assolutamente intransigenti. Il nostro voto dipende esclusivamente dall´accoglimento delle nostre proposte, senza di che non è possibile alcuna schiarita». Sì, ma il Professore che sta mettendo sul tavolo della trattativa, che segnali ha spedito nel lungo filo diretto con Giordano?
Nel pacchetto per l´intesa, come si dice, ci sono precari, scuola, ambiente, Ici, rendite? In che modo viene incontro all´ultimatum sulla riscrittura della manovra di bilancio? Il segretario del Prc resta freddo e «coperto». «Prodi ha provato a lavorare attorno ad alcune delle nostre richieste, mi pare di capire». Stop. Forse, siamo al punto più basso nell´asse Prc-Professore, alla crisi di quel rapporto preferenziale fra i comunisti di Bertinotti e gli ulivisti di Prodi che tante volte ha smesso in scacco Ds e Margherita. Tanto che il film del vertice di maggioranza che Giordano racconta ha una trama diversa dal solito. A Rutelli, a Fassino, a Franceschini va il riconoscimento di aver aperto la porta, «hanno cercato il dialogo, si sono confrontati con le nostre posizioni». A differenza di Prodi. Che è apparso fermo, intransigente. Per non parlare di Tommaso Padoa-Schioppa, la vera bestia nera della Cosa rossa. «Si è presentato alla riunione - racconta Giordano - venendo a dirci quel che già era noto, di cui aveva già parlato in commissione al Senato. Senza farci vedere ancora un testo scritto. A due giorni dall´approvazione della Finanziaria, vi pare una cosa sensata? Non una delle nostre proposte dunque era stata formalmente accolta e recepita. Da qui la tensione che ne è scaturita. Molto forte. Ecco perché abbiamo sollevato la questione della collegialità, insieme al nodo che riguarda i contenuti».
Che sono questi. «Drastica diminuzione dei costi della politica. Intervento fiscale a favore dei lavoratori dipendenti. Riduzione dell´Ici ma solo per i meno abbienti, e accompagnata a misure sugli affitti. Investimenti per cultura, innovazione e ricerca. Misure per il precariato pubblico». E la tassazione delle rendite, la madre di tutte le battaglie? «Certo che la chiediamo. È un errore non armonizzare le rendite, i piccoli risparmiatori hanno tutto da guadagnare portando dal 27 al 20 per cento le tasse sui conti correnti e i depositi postali». E le agevolazioni alle imprese? «Nettamente contrario. La Finanziaria così com´è è nettamente sbilanciata a loro favore. Ho molti dubbi che la riduzione dell´Ires e dell´Irap sia davvero a costo zero».
Solo che dietro e attorno alla trattativa sui singoli punti, pesano i reciproci sospetti sulla volontà di dare la spallata al governo. Giordano teme che qualcuno abbia già messo nel conto la cacciata della sinistra da Palazzo Chigi? «Io dico che sarebbe un suicidio per tutti. Che ci sarebbe dopo, un governo istituzionale? Dubito assai che qualcuno si avventuri su questa strada. Perché Berlusconi ha interesse solo ad andare al voto anticipato. Cacciare noi perciò vuol dire consegnare il paese all´ex premier. Ciò detto, non saremo certo noi i pugnalatori del governo. Basta seguire le cronache parlamentari: tutti i guai per Prodi sono sempre venuti dall´ala di centro della coalizione».

Repubblica 28.9.07
E Dini incassa lo stop sulle rendite "Il premier non seguirà Rifondazione"
di Francesco Bei


Dalla sinistra radicale una impostazione alternativa a quella del presidente del Consiglio, non va bene
Alzare le aliquote su titoli e Bot è giusto in linea di principio, ma non è questo il momento opportuno

Lamberto Dini è soddisfatto: «Quella di Prodi è una buona impostazione della Finanziaria» La sinistra della "Cosa Rossa" lo accusa di aver «ricattato» il premier, minacciando di far cadere il governo al Senato. Il capogruppo di Rifondazione alla Camera, Gennaro Migliore, sospetta addirittura «che a lui non dispiaccia troppo la possibilità che torni Berlusconi». La sostanza comunque è che Dini sembra abbia vinto il primo round del match contro la sinistra radicale, portando palazzo Chigi a condividere il rinvio sine die dell´aumento della tassazione sulle rendite finanziarie. "Lambertow" è a New York per alcuni incontri al vertice, oggi sarà di ritorno a Roma per verificare se il capo del governo avrà saputo tener duro in Consiglio dei ministri. Forte dell´intesa con Prodi, Dini non ha più interesse a polemizzare con l´ala sinistra e definisce «giusto» in teoria il principio dell´innalzamento delle aliquote sulle rendite. A patto, s´intende, di applicarlo in un altro momento.
Con lo stop all´aumento della tassazione sui titoli di Stato e sulle plusvalenze di borsa avete segnato un punto a vostro favore contro la sinistra dell´Unione. E´ soddisfatto?
«Mi pare che lo stesso presidente del Consiglio consideri che questo non sia il momento adatto per prendere la decisione di uniformare la tassazione delle rendite al 20 per cento. E´ un principio giusto che il governo cercherà di attuare nel corso del tempo, quando i mercati saranno più calmi. In ogni caso mi è stato riferito che Prodi, nel corso del vertice a palazzo Chigi, abbia puntualizzato che non si tratterebbe di cambiare la tassazione sui titoli di Stato già emessi ma solo su quelli di nuova emissione. Un principio sacrosanto, altrimenti finiremmo con il penalizzare i risparmiatori italiani che hanno investito i loro risparmi in buoni del Tesoro».
L´armonizzazione della tassazione su rendite e lavoro è un punto del programma di governo, lo metterete in pratica il prossimo anno?
«Sarà fatto al momento opportuno, ma comunque non sui titoli già emessi ma solo su quelli a venire e sulle plusvalenze».
La sinistra radicale insiste su questo punto: se nel Consiglio dei ministri di oggi dovesse astenersi o votare contro si dovrebbe aprire la crisi?
«Io mi auguro che questo non avvenga. Ma ieri, alla riunione di maggioranza, si sono presentati chiedendo un´impostazione alternativa rispetto a quella annunciata dal presidente del Consiglio, un´impostazione tutta centrata sulla redistribuzione. Purtroppo questi signori non parlano mai di crescita dell´economia, di come creare occupazione, della crescita della ricchezza o di come superare il declino dell´Italia. Questo non va bene e certamente il presidente del Consiglio non li potrà seguire su questa strada».
Prodi sulle rendite ha tenuto il punto, come valuta l´operato del premier?
«A me pare che l´impostazione che sta dando il presidente del Consiglio - riduzione della pressione fiscale e riduzione della spesa corrente - sia una buona impostazione, quella di cui l´Italia ha bisogno».
«Buona» perché va nella vostra direzione?
«Va nella direzione di cui ha bisogno il Paese e quindi per noi va bene».

Repubblica 28.9.07
Il padre dello 007 ferito accusa "Tutti assassini, mio figlio muore"
di Carlo Picozza


ROMA - «Mio figlio è morto. È vivo ma senza speranze: con colpi così non si sopravvive». Si sfoga Mario D´Auria, padre di Lorenzo, il trentenne militare del Sismi ferito nei giorni scorsi in Afghanistan nel blitz organizzato per liberare lui e un altro 007 italiano, entrambi sequestrati nella provincia di Farah. Ora di quel giovane si conosce nome e vita, contrariamente a quanto in genere avviene per gli uomini "senza volto" dei Servizi. «Avrei delle denunce da fare: è tutto uno schifo», attacca il padre. E lancia dai microfoni di Sky Tg24 un´accusa pesante: «Sono tutti assassini, Prodi e Berlusconi». Che il ministro della Difesa Arturo Parisi smorza subito: «Il dolore giustifica ogni parola. Ancora di più il dolore di un padre per l´unico figlio maschio per anni cercato e profondamente amato».
«Sono venuti a prendermi per portarmi a Roma», continua Mario D´Auria. «Non sono andato perché altrimenti lì mi arrestano. Mio figlio è solo un ragazzo. Ha scelto di partire militare, ma io sono sempre stato contrario. Non sappiamo neanche cosa facesse. Per senso del dovere non diceva mai niente, neanche agli amici più cari». «Non sapremo mai chi gli ha sparato», continua. «Ultimamente non voleva più andare, era triste. O aveva ricevuto minacce o intuiva il pericolo. Domenica sarebbe dovuto tornare a casa».
Intubato, nella Rianimazione dell´ospedale militare del Celio, Lorenzo D´Auria resta immobile. Ha la testa fasciata. Sotto, una grave lesione cerebrale. La sua vita è appesa a un respiratore. Di fronte alle dichiarazioni di Mario D´Auria sulle speranze di vita di suo figlio i sanitari militari restano impietriti. Sembra si fosse trasferito a Livorno con la moglie e i figli da Modena, dove la sua famiglia di origine era arrivata da Gragnano (Napoli). Ma dalla città toscana non arrivano conferme. A far da barriera, le coperture sulla vita da 007. Sembra che D´Auria abbia indossato il basco amaranto degli incursori del Col Moschin. «Non possiamo parlare», dice il colonnello Renato Perrotti. Ma nelle caserme dei parà c´è un clima teso. «Ho un amico in fin di vita», confida un ufficiale. «Il dolore della sua famiglia è anche il mio. Non chiedetemi altro: lui è un agente segreto, la riservatezza garantisce la sicurezza dei suoi cari». Che ora dovranno decidere se far spegnere le macchine che lo tengono in vita.
Intanto, ieri, quattro operatori della Croce rossa internazionale, due afgani, un macedone e un birmano, in missione per la liberazione dell´ostaggio tedesco sequestrato lo scorso luglio e di cinque afgani, sono stati rapiti dai talebani. «Trattenuti da un gruppo armato», ha spiegato a Ginevra un portavoce del Comitato internazionale della Croce rossa. «Dovevano andare a prendere i sei per riportarli. Non è andata così. Ora tenteremo di stabilire un contatto per la loro liberazione».

Repubblica 28.9.07
Società civile. È davvero migliore del Palazzo?
di Paul Ginsborg


Un´esperienza storica che nasce in Europa con l´affermarsi della borghesia
L´origine dei movimenti nel nostro paese e nel resto dell´Europa

Una geniale vignetta di Altan di qualche settimana fa (la Repubblica, 4 settembre) raffigura un signore di mezz´età, in giacca e cravatta, chiaramente appartenente ai ceti medi italiani, che annuncia solenne alla moglie: «Dobbiamo aprirci alla società civile». E lei, forse maestra o impiegata, certamente casalinga, gli chiede, tra il perplesso e il titubante: «Vengono loro da noi, o andiamo noi da loro?».
Effettivamente, non è facile capire dov´è la società civile e neanche cos´è. Le definizioni abbondano e con esse le dispute accademiche. Suggerisco una prima distinzione operativa, molto anglosassone, fra società e società civile. La società è un contenitore vasto in cui si può trovare di tutto, dal cittadino onesto alla criminalità organizzata. La società civile, invece, è uno spazio più ristretto che si distingue sia per la sua forma organizzativa sia per il suo sistema valoriale.
Società civile vuol dire in primo luogo una vasta rete di associazioni, circoli, club - alcuni molto grandi e di forte impatto internazionale come Amnesty International, altri più modesti e meno stabili che operano soprattutto a livello locale, ad esempio un circolo di giovani auto-organizzati contro la mafia o un laboratorio per la democrazia. Ma società civile vuol dire anche determinati valori e ambizioni, che sono variati attraverso le epoche della storia contemporanea ma hanno un ceppo comune nell´Illuminismo.
Oggi in Europa si possono attribuire alla società civile ambizioni specifiche: promuovere la diffusione piuttosto che la concentrazione del potere, indicare mezzi pacifici anziché violenti, agire per la parità di genere e l´equità sociale, costruire solidarietà orizzontali piuttosto che verticali, incoraggiare la tolleranza e il dibattito anziché il conformismo e l´obbedienza. La società civile è lontana dall´essere una sfera perfetta, di rapporti idilliaci e armoniosi. Riflette fortemente la società di cui fa parte, il modo in cui le persone sono già state formate dalle loro esperienze familiari. Nondimeno costituisce una risorsa preziosissima per la democrazia e rispecchia l´impegno, profuso di solito a titolo gratuito, di una minoranza di cittadini per migliorare sia la società che le istituzioni.
Casa prediletta della società civile europea sono i paesi nordici – Olanda e Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia. Sono loro che hanno il numero più alto di cittadini iscritti ad almeno una associazione di qualsiasi tipo – Svezia 53,4 per cento, Regno Unito 41,8 per cento, Italia 24,3 per cento. Ma sono anche i paesi con la più alta percentuale di cittadini iscritti alle associazioni che si riconoscono nel sistema valoriale della società civile appena descritta.
L´esperienza storica italiana della società civile durante i decenni della Repubblica è piuttosto eterogenea . Alcuni elementi sono fortemente positivi. In Italia la longevità democratica della Repubblica ha garantito le condizioni strutturali per il fiorire della società civile – la libertà di opinione, la stampa libera, il diritto di associazione. L´Italia è un paese in cui il funzionamento delle istituzioni lascia molto a desiderare, ma è anche un paese, sotto il profilo storico, molto libero, perfino iperdemocratico, ricco di iniziative e discussioni. Forse – ed è una triste constatazione – è proprio il mancato funzionamento delle istituzioni che produce questa vivacità di reazione, questa micro-democrazia che non dà segnali di placarsi.
In secondo luogo, la società civile italiana è come un fiume carsico. Non si distingue per il suo alto numero di associazioni ma per la sua capacità di irrompere improvvisamente sulla scena nazionale con grandissima forza e altissimi numeri. L´enorme raduno della Cgil del marzo 2002 al Circo Massimo, contro l´abolizione dell´articolo 18 dello statuto dei lavoratori del 1970, ne è un esempio eclatante.
Per contrasto, l´organizzazione territoriale della società civile italiana è più squilibrata rispetto agli altri paesi europei, con una grande concentrazione dell´associazionismo civico nel centro e nord del paese. Fu in queste regioni, nella seconda metà dell´Ottocento, che nacque la rete delle associazioni di mutuo soccorso, una rete che fece molta fatica a estendersi al Mezzogiorno. Ci sono stati momenti nella storia del Sud in cui questo quadro si è modificato, soprattutto negli ultimi decenni del Novecento, ma oggi la situazione è di nuovo molto incerta, con la forte ripresa dell´immigrazione delle forze giovanili dal Sud.
L´Italia dunque è un paese cui le pre-condizioni per la società civile sono ben radicate, dove esiste una tradizione, come in Francia, di movimenti di cittadini che irrompono periodicamente con grande forza sulla scena politica, ma dove l´associazionismo è squilibrato in termini geografici. A queste caratteristiche di fondo, bisogna aggiungerne altre, purtroppo tutte negative. Manca in Italia una vera tradizione di autonomia della società civile. Quest´assenza, legata alla debolezza della tradizione liberale, ha permesso ai partiti di occupare i posti di comando delle istituzioni e della società, mossi non dal desiderio di democratizzare stato e società, come vorrebbe la società civile, ma con l´intento di imporre un modello ferreo di auto-perpetuazione, di origine democristiana.
Un ultimo e decisivo punto. Ho sempre avuto l´impressione che in Italia, a differenza dei paesi nordici europei, le famiglie contassero troppo e la sfera pubblica troppo poco. In questo campo l´insegnamento del Vaticano non è mai stato di grande aiuto. Era Pio XII che nel settembre del 1951 disse: «La famiglia non è per la società; è la società che è per la famiglia». Il messaggio che filtra dopo ventiquattro anni ininterrotti di televisione commerciale berlusconiana è piuttosto simile: «mettete al primo posto la vostra famiglia, i vostri interessi, i vostri consumi». Non deve sorprendere se la signora della vignetta di Altan pensa che la società civile sia un servizio a domicilio.

Corriere della Sera 28.9.07
Bertinotti e la sinistra: se perderà impari da Mitterand
di Paolo Conti


Il presidente della Camera: arrivò all'Eliseo dopo sconfitte e riorganizzazioni

ROMA — «La risposta della politica non deve, non può essere immediata. Bisogna impegnarsi in un lavoro di medio, anzi di lungo periodo. La politica sbaglierebbe a dare risposte hic et nunc... così correrebbe alla ricerca del consenso... di quel piacere al maggior numero di persone in un solo istante che è una delle ragioni della crisi della politica. Bisogna spezzare questa sudditanza anche passando per qualche sconfitta». Parola di Fausto Bertinotti, presidente della Camera, che affronta in un piovoso pomeriggio romano una platea di studenti del liceo «Giulio Cesare » Per intenderci, quello cantato da Antonello Venditti che, in quanto ex alunno, lo abbraccia e lo bacia .
L'occasione dell'incontro è un dibattito sull'ultimo film di Ken Loach, In questo mondo libero, duro atto d'accusa sul mondo dei contratti a termine e del lavoro parcellizzato e senza garanzie. Ma si discute subito della crisi della politica. Entrando affronta un'incursione delle Iene di Italia 1 sui lavoratori impegnati nel cantiere di Montecitorio senza caschetto di protezione. Poi parla per tre quarti d'ora con i ragazzi. Risponde per esempio a una puntuale domanda dell'ex alunno Vittorio Occorsio, ora al secondo anno di Giurisprudenza, membro del comitato elettorale di Veltroni, nipote del giudice assassinato da Ordine Nuovo il 10 luglio 1976: «Una volta la sinistra aveva una visione della marginalità quasi prossima alla giustificazione del crimine come conseguenza della sconfitta. Oggi la sinistra vive una svolta legalitaria: Cofferati, Veltroni... Vede una contraddizione o un naturale adeguamento alla realtà?». Bertinotti replica avvertendo di essere «ingessato dal ruolo» ma dice che la sinistra invece di «procedere a una ridefinizione delle coordinate generali» ha provato a legittimarsi «attraverso la scorciatoia di andare al governo. Non dico che non sia importante. Ma se questa sostituzione dell'idea di società diventa il tuo nuovo Palazzo d'Inverno... riduci la politica a un processo adattativo». Per questo la sinistra oggi «dà ragione ad ogni stormir di fronda, all'ultimo che ha parlato per prendere un voto domani. Tutto questo ti corrode dentro... E allora prende lucciole per lanterne. Invece di risalire il fenomeno, si ferma all'ultimo epifenomeno. E pensa che la vera minaccia arrivi dai lavavetri».
Poi, uscendo, a chi gli chiede se l'idea della possibile sconfitta riguardi direttamente la sinistra alle prossime elezioni risponde: «Non dico questo. Però osservo che un Mitterrand, prima di arrivare all'Eliseo, rifondò il Partito socialista e affrontò molte sconfitte. Lo stesso è capitato a Lula... Così la politica sta sotto schiaffo, diventa una carta assorbente che si limita a registrare le opinioni. È una ricerca dell'auditel». Sotto la pioggia Antonello Venditti annuncia che uno dei brani del suo nuovo disco si intitolerà «Comunisti al sole». Non una parola di più. Chissà che ne direbbe Ken Loach.

Corriere della Sera 28.9.07
Così nella Roma antica il Senato difese i privilegi
Gli oligarchi non esitarono ad uccidere il tribuno Tiberio Gracco
di Luciano Canfora


Chi cerchi di intendere cosa fosse, quanto pesasse e cosa significasse il Senato romano dovrebbe, credo, far capo a quella pagina mirabile in cui Appiano di Alessandria descrive la uccisione di Tiberio Gracco (estate del 133 a.C.). Lo scontro riguardava la rielezione del tribuno. Il Senato, interferendo pesantemente, attraverso suoi uomini fidati, nell'autonoma gestione di quel vitale organo di difesa popolare che doveva essere, in linea di principio, il tribunato, si opponeva.
Ed ecco i fatti. Quando i seguaci di Tiberio Gracco spezzano, armandosi di bastoni, il cerchio paralizzante dell'ostruzionismo procedurale degli avversari pilotati dal Senato, quest'ultimo decide di reagire con la forza. Lo storico alessandrino si chiede perché mai non abbiano fatto ricorso ad uno strumento estremo tipico dei momenti di crisi, quale la nomina di un dictator.
Invece il Senato vuole «dare una lezione» e, dopo una rapida seduta tenuta nel tempio di Fides, scende direttamente in battaglia, e si lancia nello scontro fisico, non senza aver fatto circolare la falsa voce che Tiberio si fosse fatto proclamare tribuno senza votazione. «Mossero verso il Campidoglio — scrive lo storico —. Li precedeva, primo fra tutti, il pontefice massimo, Cornelio Scipione Nasica, il quale urlava che tutti lo seguissero; e si era tirato intorno al capo l'estremità della toga». Con sarcasmo lo storico si chiede se ricorresse a quel gesto per rimarcare il suo rango di pontefice massimo, o per mimare l'elmo e incitare così ancor più alla lotta, o non piuttosto «per nascondere agli dei ciò che stava per compiere». Sintomatico è quel che accade subito dopo. I graccani arretrano, perché lui è il pontefice massimo, e perché dietro di sé ha quasi tutto il Senato. Allora i senatori, «strappate le spranghe di legno dalle mani dei graccani, li colpivano, li inseguivano, li gettavano giù dai dirupi. Molti perirono e lo stesso Tiberio Gracco, bloccato davanti al tempio, fu ucciso sul posto. Il cadavere suo e degli altri fu gettato nottetempo nel Tevere ». Il fotogramma dei graccani paralizzati e come ipnotizzati dall'autorità di questa orda di senatori inferociti e omicidi è una scena di per sé chiarificatrice dell'illimitata efficacia dell'auctoritas senatoria anche in situazioni estreme.
I senatori non erano del tutto nuovi a queste imprese se si considera che, secondo una tradizione nota a Dionigi di Alicarnasso (Antichità Romane), lo stesso Romolo era stato massacrato in Senato dagli stessi senatori, ormai persuasi che il suo governo fosse troppo «tirannico». Accusa fatale quella di «tirannide» (costerà la vita anche a Cesare), cui il Senato ricorre per bollare un leader e segnarne la condanna. Anche con Tiberio Gracco avevano utilizzato quell'accusa di «regnum» con cui facevano fuori gli avversari. Lo sappiamo da Plutarco (Vita di Tiberio Gracco) il quale dà un dettaglio in più, che dovrebbe meglio spiegare lo scatenamento belluino di Scipione Nasica: «I graccani — scrive Plutarco — si preparavano a respingere gli assalitori facendo a pezzi le aste con cui le guardie trattenevano la folla. Quelli che erano più lontani, stupiti, chiesero che cosa fosse successo. Tiberio, non potendo farsi udire, si mise una mano sulla testa, con un gesto che voleva significare pericolo. Ma gli avversari, a quella vista, corsero in Senato ad annunciare che Tiberio chiedeva la corona: ciò — insinuavano — significava quel gesto. Nasica chiese al console di venire in soccorso dello Stato abbattendo il tiranno ». E poco dopo partì alla carica, piegate rapidamente le perplessità del console, accusato di inadempienza ai suoi doveri.
Com'è chiaro dall'intera, lunghissima storia di questo potente organismo, fondato sulla cooptazione e sopravvissuto gagliardamente anche alla cosiddetta fine della Repubblica, il Senato romano aveva superato ben presto i limiti d'azione propri di un organo consultivo. E fu sempre più la vera sede decisionale: pronto a gridare al «tiranno» ogni volta che le altre forme di potere gli si sono parate dinanzi.
Negli ordinamenti arcaici, a partire dalla «gerusìa» omerica, un Senato è il tassello più importante. Mentre in Atene (dove le funzioni di tale organo sono proprie dell'Areopago) il potere si disloca via via altrove, è a Sparta che la «gerusìa » conserva — in stretta collaborazione con gli efori e con i re — il potere effettivo. I «geronti» (o «senatori») a Sparta venivano nominati per acclamazione: ma per rientrare tra gli eleggibili ci volevano requisiti quali l'appartenenza a determinate grandi famiglie, come si ricava chiaramente da alcuni passi della Politica di Aristotele. Dunque anche sotto questo rispetto l'accostamento tra ordinamenti romani e ordinamenti spartani, ricorrente nella riflessione costituzionale antica, appare pertinente. Polibio di Megalopoli, greco passato ai romani non solo perché prigioniero di guerra ma anche perché spiritualmente conquistato dal modello politico dei vincitori, ha descritto meglio di ogni altro l'ordinamento romano rappresentandolo come originale variante del modello spartano, e soprattutto come esempio — secondo lui imperituro — di «costituzione mista ». Costituzione, o pratica, in cui un corpo non elettivo ma di cooptazione, qual è appunto il Senato, assume il ruolo chiave nella dialettica tra esecutivo e massa popolare- elettorale. Polibio entrò in crisi quando il conflitto esploso intorno alle leggi graccane sembrò dimostrare che anche la «perfetta » macchina costituzionale romana scricchiolava. Ma noi, cui è toccato il privilegio di sapere «come è andata a finire», sappiamo ormai che il sistema misto ha vinto quantunque rivestito delle esteriorità o ritualità elettoralistiche che costituiscono un prezioso strumento di legittimazione per quei corpi tecnici, di competenti non certo di elettoralmente reclutati, nelle cui mani è il potere effettivo. Non più ostentato come al tempo di Scipione Nasica, ma al riparo dall'indiscreta «democrazia», e perciò tanto più (si può immaginare) durevole.

il manifesto 28.9.07
Cofferati difende l'accordo con An
di Giusi Marcante


Il sindaco di Bologna rivendica la «convergenza» con la destra sul tema della sicurezza. Poi chiede alle sinistre l'ingresso nella giunta, offrendo loro le deleghe alla casa e ai giovani. Il Prc rifiuta: prima deve ritirare l'accordo con Alleanza Nazionale. Sd invece è più possibilista

Doveva essere il giorno del verdetto e invece è stato ancora il giorno del rinvio di una crisi di maggioranza che a questo punto chissà se mai ci sarà. Sergio Cofferati, in una sala stampa zeppa di cronisti, esponenti politici e curiosi ieri ha detto cosa pensa dell'intesa con An sulle politiche di sicurezza e anche del documento dei consiglieri della Sinistra ( Rifondazione Comunista, Verdi, Cantiere e Sinistra Democratica), difendendo il patto con i nazional-alleati e facendo il buono con la sinistra.
E così ancora una volta il sindaco ha saputo rimescolare le carte e lasciare il cerino in mano alla sinistra, che nel pomeriggio si è incontrata per una riunione fiume da cui è uscita con in mano un ennesimo documento di attesa. Cofferati non ha sconfessato il percorso con Alleanza Nazionale (benedetto tra l'altro anche dal segretario di An Gianfranco Fini), anzi ha detto che continuerà a portarlo avanti, e l'ha ricostruito puntualmente dicendo che An è stato l'unico partito che ha risposto quando lui stesso ha lanciato le «convergenze» in tema appunto di sicurezza.
Il sindaco di Bologna ha poi lanciato un'altra sfida alla sinistra radicale e ha aggiunto che l'unica strada per mandarlo a casa è quella che questi consiglieri preparino una mozione per sfiduciarlo che naturalmente sarebbe votata anche da An, ribaltando il concetto che sia lui a fare gli accordi con il partito di opposizione. Il sindaco ha parlato anche del documento di otto punti stilato dai consiglieri della sinistra. Otto punti ritenuti «irrinunciabili» da questi per la fine del mandato. E sulla base di questi punti ha offerto loro un assessorato facendo anche i nomi dei papabili: il capogruppo di Rifondazione comunista Roberto Sconciaforni e il consigliere di Sd ed ex segretario regionale della Fiom Gianguido Naldi. Per entrambi il sindaco ipotizza, sulla base del documento, la delega alla casa e ai giovani. Se Sconciaforni ha risposto a stretto giro che quella dell'assessore è un'offerta «svilente e sbagliata» e che il partito non è rappresentato in giunta perché ha «un dissenso politico su come viene amministrata la città», Naldi si è dimostrato più possibilista lasciando uno spiraglio sulla posizione di Sd che però passa prima da un'intesa con i partiti della sinistra, che Cofferati ha convocato per il prossimo tre ottobre.
Su questo incontro si è giocato il lungo confronto del pomeriggio tra i consiglieri, al termine del quale è stato stilato un documento.
«Nell'incontro previsto per il 3 ottobre ci aspettiamo un confronto positivo - si legge nel testo - sul documento programmatico che abbiamo presentato, e riteniamo necessaria ed indifferibile una dichiarazione del sindaco formalmente e sostanzialmente inequivocabile, di rinuncia all'accordo politico-programmatico con Alleanza nazionale». Sempre nel documento si giudica poi «non corretta» l'offerta degli assessorati, facendo anche dei nomi. Congelata quindi per il momento la prospettiva di crisi che comunque i partiti della sinistra dimostrano di affrontare in modo diverso tra le aperture di Sd e le dichiarazioni del segretario provinciale del Prc. Il segretario cittadino di Rifondazione comunista Tiziano Loreti ha detto che se il sindaco non farà retromarcia su An e non darà una risposta positiva ai punti del documento, «almeno per quanto ci riguarda il passaggio successivo saranno le dimissioni» dagli incarichi istituzionali tenuti dai rappresentanti del partito. Tra l'altro nell'offerta di un assessorato a Naldi di Sd c'è un esito decisamente a vantaggio di Cofferati. Con la sua uscita entrerebbe come consigliere Giovanni De Rose, presidente Arci e diessino di ferro, che farebbe risalire a 19 i consiglieri comunali dei Ds.

il manifesto 28.9.07
Neonazisti
Lettera minatoria all'Anpi di Bologna


Due croci uncinate naziste e la firma «Cuori neri Curva Andrea Costa» (gli ultrà bolognesi) in calce alla lettera minatoria recapitata ieri al presidente dell'Anpi di Bologna, William Michelini. « Dopo gli sfregi alle due statue dei partigiani a Porta Lame, perpetrati da ignoti», scrive in una nota l'Anpi provinciale, arriva ora la lettera con «le minacce agli uomini della Resistenza». L'associazione dei partigiani «stigmatizza questi fatti che coincidono con il rinvenimento, nel covo di Forza Nuova a Rimini, delle armi destinate ad una imminente spedizione punitiva cruenta, come è stato accertato dalla Polizia provvedendo all'arresto dei responsabili. Di fronte a questi gravi episodi si invitano le forze politiche e la società civile tutta a considerare l'evidente loro pericolosità e ad assumere le necessarie iniziative a difesa dell'ordine democratico».

«se di vita si può parlare, siamo ancora ben lontani dal poter parlare di "vita umana"»
Liberazione 28.9.07
Quando l'embrione balla il twist
di Maria Rosa Cutrufelli


Nel 700 lo scienziato Anton Van Leeuwenhouek scoprì al microscopio gli spermatozoi, il che per molto tempo fece credere che là dentro (negli spermatozoi, per l'appunto) si celasse un omino bell'e fatto (preformato), che doveva solo "ingrandirsi" per venire al mondo.
Mi è tornata alla memoria questa credenza quando ho visto l'ultimo spot pubblicitario di Ferrarelle, l'acqua che frizza "naturalmente". Molti di voi lo conosceranno, penso, perché è passato spesso, sia in televisione che sugli schermi cinematografici. Lo spot fa vedere un feto-bambino, con i tratti somatici ancora approssimativi, che d'un tratto comincia a sorridere e a muoversi mimando una danza nel ventre della madre. La quale, per l'appunto, sta bevendo l'acqua effervescente. Sono immagini semplici, che suscitano un moto di tenerezza. E tuttavia… No, non sono immagini così "neutre" come vorrebbero essere. Fanno intuire, piuttosto, che qualcosa è cambiato (o sta cambiando) nell'immaginario collettivo.
La tecnica ci ha permesso di "guardare" - letteralmente - dentro il nostro corpo, di spiarlo in ogni suo processo interno. E ci ha mostrato l'ovulo fecondato, l'embrione, il feto nelle sue varie fasi di sviluppo. Qualcuno ha colto l'occasione per dire: ecco, guardate la Vita! Be', hanno obiettato gli scienziati (e non solo loro), se di vita si può parlare, siamo ancora ben lontani dal poter parlare di "vita umana" o, tanto meno, di "persona", che è tutt'altra faccenda. Ma non è per affrontare questo argomento che sto scrivendo…
Quello che m'interessa, qui e ora, è mettere in evidenza come la tecnica, col semplice mostrarci ciò che prima era impossibile vedere, sta cambiando un comune sentire, senza che ce ne accorgiamo. E il fatto di non accorgersene - di non averne coscienza - può essere fonte di equivoci e confusioni emotive che non sono senza conseguenze quando poi si tratta di legiferare su certi argomenti "sensibili".
Voglio dire insomma che, a forza di "effetti speciali", la nostra fantasia opera dei cortocircuiti che rendono "normale" ciò che fino a poco tempo fa non lo era.
Così, per esempio, non mi meraviglia che solo oggi sia stato infranto un tabù molto pesante e che ciò che ieri entrava nei documentari orroristici dei movimenti per la vita, sia infine entrato anche in una narrazione d'autore. Sto parlando del film sull'aborto del regista rumeno Mungiu, che ha vinto la Palma d'oro al festival di Cannes. Dico subito che il film ( 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni ) a me è piaciuto. Ma non è questo il punto. Il punto è che per la prima volta (a quanto ne so) la macchina da presa, in un racconto d'invenzione (e sottolineo di nuovo questo particolare, a mio parere significativo) si sofferma sopra un feto espulso da un ventre di donna. Un'immagine in qualche modo superflua, non strettamente necessaria allo svolgersi della storia. Un sovrappiù d'orrore. Una scena "supercostruita", per usare le parole di Roland Barthes, in cui il regista «freme per noi, riflette per noi, giudica per noi… così che di fronte a una simile scena ci troviamo defraudati della nostra facoltà di giudizio». E' anche questa la potenza dell'arte. Che dunque non è mai neutra, checché se ne dica. Al suo fondo c'è sempre lo sguardo soggettivo dell'autore o dell'autrice… Ma non è nemmeno di questo che voglio parlare. Vorrei solo farvi prendere nota che il tabù è stato infranto. E questo è il dato che m'interessa.
Insomma, il processo biologico della generazione è entrato a far parte di un bagaglio d'immagini fruibili da tutti noi, che da tutti vengono utilizzate (a fini medici o scientifici, ma non solo) e introiettate. La nostra immaginazione le elabora e rielabora in modo conscio ma anche inconscio ed è ovvio che prima o poi ce le ripresenti sotto forma di racconto e di "spettacolo".
D'altronde non è forse diventata prassi abbastanza comune, tra le coppie dei neo-genitori, attaccare l'ecografia prenatale sull'album fotografico del bambino, come fosse appunto la prima "foto"? E tuttavia non siamo di fronte a una pratica così pacifica come sembrerebbe, se è vero quello che dice Sophie Marinopoulos, psicologa presso il reparto maternità di un ospedale francese. Dice la Marinopoulos che l'ecografia rappresenta sempre, per la madre, una prova difficile: «E' un momento, questo delle immagini, ricco di conseguenze». E non si tratta soltanto della comprensibile ansia di sapere se tutto procede per il verso giusto. E' comunque un'intrusione nel rapporto col figlio immaginario (il "bambino della notte", l'ha chiamato Silvia Vegetti Finzi) e questa intrusione "tecnica", per quanto necessaria, a volte rischia d'interrompere quel difficile processo di pensiero che accompagna il processo biologico e che rende fecondo il legame madre-figlio.
E il problema è che le donne si trovano ad affrontare tutto ciò in solitudine, perché i medici hanno altro a cui badare ed è difficile trasmettere questo stato d'animo al proprio compagno, anche quando l'intesa è ottima. «Il disturbo della rappresentazione del bambino», così lo definisce la Marinopoulos, è quasi impossibile da mettere in parole. Anche se è precisamente quello che bisognerebbe fare, perché è con la parola che possiamo arginare l'invadenza ossessiva, perturbante e ingannatrice delle immagini.
Un tempo, ha detto lo scrittore spagnolo Arturo Pèrez-Reverte in una recente intervista, quando la fotografia era ai suoi inizi, le immagini sembravano più vicine delle parole a una presunta "verità". Ma adesso è palese che le immagini possono essere ancor più bugiarde (e manipolabili). Perciò oggi abbiamo nuovamente bisogno delle parole. Di nuovo le parole tornano a essere necessarie.
E dunque, parliamone.

Minc, Alain. Spinoza, un romanzo ebreo. Milano, Baldini & Castoldi, 2002
recensione di Francesco Mandica
Per chi non volesse essere trascinato nel vortice concettuale e spesso difficile del filosofo maledetto, è da poco uscito in libreria “Spinoza, un romanzo ebreo” del politologo francese Alain Minc. Minc non è certo un progressista, né tanto meno un rivoluzionario, è uno dei vigilantes che tengono sotto controllo il quotidiano francese “Le Monde” di rinomata tradizione gauche. Ma il paradosso spinoziano è bello per questo, il suo pensiero è nomade e transculturale, ebreo, errante è un errore ed un ossimoro. A metà strada fra romanzo fantastico, cronaca, confronto delle due biografie che di Spinoza ci sono giunte (quelle di Colerus e Lucas entrambe in Italia pubblicate da Quodlibet) è passaggio morbido e intrigante per chi si vuole avvicinare alla finestra di casa Spinoza senza per questo voler bussare alla porta del suo magistero filosofico. “Deus sive Natura / Dio ovvero la natura, spiega Minc, «rimbomba come un colpo di pistola in un salotto», il libro fa del credibile real immaginario attorno alla figura ben cesellata di uno Spinoza un po' borghese, un po' guitto ma soprattutto ateo immortale (come brillantemente l'autore lo definisce)

giovedì 27 settembre 2007

La Repubblica 23 maggio 2007
Quando la ragione diventò valore di scambio
di Umberto Galimberti


Torna a Trento la seconda edizione del festival dell' Economia. Dal 30 maggio al 3 giugno incontri, spettacoli, mostre e laboratori per ragazzi - Da Prodi al premio Nobel Gary Becker, per discutere della contrapposizione tra l' interesse economico e il fattore umano

È bene ricordare che la parola "ragione", in latino ratio, nasce in ambito economico come regolatrice degli scambi, per cui chi riceve deve corrispondere, a chi dà, qualcosa di equivalente, secondo il principio del reddere rationem. Prima dell' introduzione del "valore di scambio" a regolare i rapporti era lo "scambio simbolico" che si esprimeva nella rapina o nel dono, in cui cioè si celebravano i rispettivi rapporti di forza: o nella forma aggressiva di chi era in grado di appropriarsi dei beni altrui senza contropartita, o nella forma munifica di chi nel dono celebrava la sua potenza e insieme la sudditanza del beneficiario. Introducendo il principio che chi riceve nello stesso tempo deve dare, non è più in gioco l' esercizio di potenza delle soggettività, ma il calcolo oggettivo del valore delle cose. Così nasce il "mercato", che organizza una società in funzione di detto calcolo, al punto da sostituire progressivamente, al dominio dell' uomo sull' uomo, il dominio dell' apparato calcolante, alla cui razionalità si sottomettono sia il lavoratore sia l' imprenditore i quali, sia pure nella differenza delle loro mansioni, si configurano come funzionari dell' apparato. In questo modo si vanifica ogni ipotesi rivoluzionaria perché, come ci insegna Hegel, la rivoluzione è possibile quando in gioco c' è il conflitto di due volontà, ma non quando la razionalità del mercato le subordina entrambe a sé, annullando il loro potenziale conflitto. Disciplinando l' impulso al guadagno e depurandolo dai suoi aspetti irrazionali e violenti, il mercato traduce la ragione occidentale in ragione economica, che, nel tendere a un guadagno non occasionale ma continuativo, evidenzia in ogni passaggio il motivo che solo la razionalità è condizione di redditività, perché, risolvendo ogni attività lavorativa in prestazione funzionale, la depura da ogni ideologia, risolvendola nell' ambito della ragione tecnica. Sotto il dominio della ragione tecnica, l' uomo incomincia ad uscire dalla scena della storia perché: come soggetto di bisogni è assolutamente ininfluente, in quanto i suoi bisogni hanno la possibilità di essere soddisfatti solo se compatibili con la redditività del calcolo economico, mentre come soggetto di azioni (siano esse lavorative, siano esse imprenditoriali) la sua rilevanza è data dalla sua produttività in ordine alla redditività economica, in riferimento alla quale, l' uomo e i suoi scopi sono ridotti a semplici grandezze variabili nel calcolo delle possibilità di guadagno e di profitto. Ma l' economia (di mercato), dopo aver sottratto gli scambi alla logica della rapina e del dono per sottometterli a un regime di razionalità, soffre ancora di quell' elemento irrazionale, tipico delle passioni, che è la passione per il denaro, da cui la tecnica è tendenzialmente immune, perché non ha come suo scopo il profitto, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non svela la verità, semplicemente funziona. E siccome il suo funzionamento è diventato planetario, planetario è diventato il suo tipo di razionalità che si è soliti chiamare "strumentale", in quanto ha la sua misura nel massimo dell' efficienza, espressa dal miglior rapporto tra i costi impiegati e i risultati raggiunti. Per la tecnica, e per la razionalità che la governa, modello di efficienza e di funzionalità è la macchina, che non soffre di quegli "inconvenienti umani" che sono lo stato di salute, la variazione degli umori, i ritmi di efficienza, i livelli di precisione, che fanno sentire l' uomo inadeguato rispetto alle macchine che impiega, anche perché dette macchine, dal computer al cellulare giusto per fare degli esempi, incorporano una quantità tale di cultura oggettivata, da far apparire la cultura soggettiva di chi la impiega in tutto il suo limite e la sua inadeguatezza. Eppure, anche se nel complesso macchinale l' uomo percepisce se stesso come il congegno più asincronizzato, può davvero la ragione strumentale della tecnica, che utilizza solo il pensiero calcolante regolato da criteri di efficienza, produttività, obbiettivi a breve e medio termine, essere all' altezza della globalizzazione del mercato che, per essere compresa, richiede competenze antropologiche per entrare in relazione con altre culture e visioni del mondo di cui il pensiero calcolante è del tutto sprovvisto? Se il tipo di pensiero è limitato al calcolo tipico della ragione strumentale, forse le imprese che si regolano esclusivamente su questo tipo di pensiero si precludono la capacità di anticipare e governare i cambiamenti, col risultato che avranno sì una storia, ma non un futuro, per aver trascurato il capitale umano che ha ritmi di accumulazione radicalmente diversi dal capitale finanziario. Se quest' ultimo infatti si misura sui tempi brevi del rendiconto trimestrale e della quotazione in borsa, il capitale umano esige un respiro più lungo e una forza che si conquista per maturazioni e arricchimenti successivi, di cui il pensiero calcolante non ha la più pallida idea.

La Repubblica 6 luglio 2007
Baruch Spinoza. Ripensò Dio e liberò l' uomo
di Eugenio Scalfari


Un pensiero radicale e per questo molto avversato che cancellava ogni tentazione antropomorfica nella concezione del mondo e della sua creazione
Convivono nei suoi scritti un aspetto distruttivo e uno costruttivo, intrecciati l' uno con l' altro
L' incontro decisivo che egli ebbe e che lo aiutò a definire il suo pensiero fu quello con Descartes
Nietzsche si imbatté in lui negli anni 80 del suo secolo e ne rimase sconvolto: ecco il mio precursore


La pubblicazione avvenuta di recente nei "Meridiani" Mondadori dell' opera completa di Baruch Spinoza è un evento importante nella cultura italiana e non soltanto per la vastità degli apparati, la completezza critica dei testi, la qualità dei commenti e in particolare per le introduzioni alle singole opere e per quella generale, dovuta a Filippo Mignini. L' evento sta nel fatto stesso della pubblicazione. Qui ed ora, viene in mente di dire. Perché qui ed ora la filosofia di Spinoza attraversa di nuovo una fase attraente, direi in sintonia con i modi di sentire dell' epoca in cui viviamo; ma sintonia però non consapevole e perciò inadeguata, neppure nella società dei colti e dei filosofi, con alcune importanti eccezioni tra le quali va segnalata quella di Emanuele Severino che di Spinoza è stato da sempre attento e acuto cultore. Il crescere e il tramontare delle filosofie e dei filosofi che le hanno pensate è un attributo permanente è quasi il succedersi di una modalità alla quale sono stati soggetti anche i pensatori più significativi, da Descartes a Hobbes, a Kant, ad Hegel e Schopenhauer a Nietzsche e Heidegger, tanto per restare nel solco della nostra civiltà occidentale. Perfino Platone e Aristotele hanno avuto fasi di luminosità e altre di impallidimento nella memoria collettiva. Ma nessuno ne ha sofferto quanto Spinoza, costretto addirittura a non pubblicare la maggior parte dei suoi scritti che sarebbero comunque incorsi nel sequestro immediato e nell' immediata distruzione, come avvenne per i pochissimi che - lui vivente - videro la luce. Nonostante questo suo silenzio obbligato, fioccarono su Spinoza scomuniche e dannazioni estreme, a cominciare dalla più terribile che gli fu inflitta dalla Sinagoga di Amsterdam, cui seguì l' ostilità dapprima blanda ma poi sempre più intensa fino a diventare furiosa dei circoli cattolici in Olanda, in Francia, in Germania e a Roma. Infine, non meno violenta, la "damnatio" delle Chiese riformate, luterane e calviniste che fossero. Così anche l' opera postuma ebbe scarsa diffusione e possibilità assai limitate di influire sull' evoluzione del pensiero filosofico, anche se fu conosciuta e tenuta in gran conto da alcuni degli illuministi (pochi in verità) la maggior parte di essi accettando semplicisticamente un teismo al cui approfondimento non dedicarono gran tempo. La scoperta di Spinoza arrivò con l' Ottocento, ad un secolo e mezzo di distanza dall' opera sua. Illuminò quell' arco di anni con intensità ma poi di nuovo rientrò nel silenzio e soltanto di recente ricominciarono segni di attenzione. Bisognerebbe domandarsi il perché di questo interesse così discontinuo e precario. La scrittura rocciosa e "geometrica" delle sue argomentazioni non è certo fatta per accattivare, ma non può esser quello il vero ostacolo se solo si pensa alle non minori difficoltà di lettura e di comprensione di filosofi che hanno tenuto a lungo la scena dell' opinione colta, a cominciare da Kant e a finire con Heidegger. Non credo perciò che sia stato quello l' ostacolo, ma piuttosto un altro e cioè la radicalità del pensiero spinoziano nei confronti della salvezza, dell' antropomorfismo e della centralità dell' uomo nel mondo. Non c' è stata finora filosofia più lontana, più indifferente, anzi più impegnata nella dimostrazione che la nostra specie non può vantare alcun privilegio e alcuna posizione dominante nell' universo. Non solo: non può appellarsi né sperare in alcun Dio che possa assicurarci la salvezza e indicarne il percorso. Ma, nello stesso tempo, una filosofia dedicata alla dimostrazione che "Dio c' è" come si direbbe oggi, ed anzi è presente in tutto e dovunque, eterno e assoluto, unica sostanza esistente, della quale tutto l' universo è pervaso fin nelle sue più intime particelle; ma un Dio indifferente, privo di passioni e di affetti, non vendicativo ma neppure misericordioso; un Dio che nulla ha creato, che non conosce se stesso, che nulla vuole perché non ha volontà; un Dio infinito e assoluto, pura potenza che incessantemente si attua nelle infinite forme naturali. Infine un Dio che è "natura naturante" dal quale esplodono senza interruzione le forme della "natura naturata" ciascuna delle quali fondata sulla legge che scaturisce dal suo proprio fondamento. «Questo tuo Dio è un mostro» gli scrisse uno tra i tanti suoi corrispondenti che cercavano di chiarire a loro stessi il suo pensiero sperando (per loro) che esso potesse almeno esser tollerato dalla Chiesa e dalle Università e quindi pubblicamente discusso e diffuso. «Questo tuo Dio è un mostro». Ma lui, a sua volta, non riusciva a comprendere reazioni così violente e rifiuti così totali. E si accaniva a rispondere, a chiarire il suo pensiero, a definire i soggetti e le idee. La definizione era per lui una vera e propria legge. «Questo è vero per definizione» diceva, e si stupiva che gli altri non capissero. La forza della definizione è opera di Spinoza ed assume con lui il valore del "Logos", del "Verbo", della "Parola" celebrati nel Vangelo di Giovanni quale "incipit" della Creazione. Solo che per Spinoza credere nella Creazione era una bestemmia intellettuale: il suo Dio non era creatore ma assoluta potenza necessaria; non manipolava una materia a lui esterna, ma attuava la sua potenza, la sua esplosiva potenza che non poteva che attuarsi. Il suo «tutto è Dio» non era concettualmente lontano dal più radicale ateismo. Anche se la parola ateismo non dovrebbe esser lasciata circolare senza una sua definizione. * * * Convivono nell' opera di Spinoza un aspetto distruttivo ed uno costruttivo, intrecciati l' uno con l' altro e necessari entrambi. L' uno non potrebbe darsi senza l' altro; la sua raffigurazione e dimostrazione del Dio come potenza infinita e assoluta, unica e pervasiva sostanza di tutte le cose, non potrebbe infatti procedere senza aver sgombrato il campo dalle raffigurazioni fallaci e «superstiziose» che ingombravano le religioni monoteistiche e in particolare quelle giudaica e cristiana. Secondo il suo pensiero queste raffigurazioni fallaci sono: il Dio incarnato, le attribuzioni a Dio di "affetti" propri della natura umana, i miracoli, la rivelazione nel suo complesso. Insomma le Scritture, a cominciare dal Genesi, i Vangeli e la figura di Gesù-Dio, morto e risorto; Mosè, Abramo e l' Alleanza intesa come percorso verso la salvezza. E comincia dal punto più sensibile, teologicamente e politicamente: quello del Dio fatto uomo. Scrive ad uno dei suoi corrispondenti cattolici, Hugo Boxel: «Questo io so: che tra infinito e finito non si dà alcuna proporzione» e ad Albert Burgh: «Tu mi compiangi e chiami una chimera la mia filosofia. Oh giovane privo di mente. Chi ti ha incantato fino al punto di portarti a credere che tu possa divorare ed avere negli intestini quel Dio sommo ed eterno?». Ma poiché i suoi interlocutori fingono di non capire e continuano ad incalzarlo con petulanti richieste di chiarimenti, alla fine spazientito risponde a Boxel: «Quando dico che ti sfugge quale Dio io abbia se nego che l' atto di vedere, udire, osservare, volere non si danno in Dio, sospetto che tu creda che non esistano perfezioni maggiori di quelle che sono tipici attributi umani. Ma non mi meraviglio di questo perché credo che anche il triangolo, se avesse la facoltà di parlare, direbbe egualmente che Dio è triangolare e il cerchio direbbe che la divina natura è circolare in modo eminente. Così ognuno ascriverebbe a Dio i suoi attributi, si renderebbe simile a Dio e il resto gli sembrerebbe di forma diversa». Questi pensieri assumeranno forma definitiva nell' Etica, la sua opera più completa dove Dio sarà descritto come «la sostanza eterna, infinita e assoluta che non opera con libera volontà né con intelligenza, non ha alcun rapporto personale e diretto con gli uomini né con alcuna altra specie, non è né misericordioso né vindice o giustiziere, non è affetto da gioia né da tristezza. Non vi è pregiudizio più misero di quello che subordina il presunto amore dell' essere infinito alla venerazione ricevuta da una natura finita. Altrettanto meschina è la convinzione di poter modificare i decreti di Dio per mezzo delle nostre preghiere, come si potrebbe fare con un padre un giudice e un re». Dio - per dirla in breve - produce a getto continuo forme in sé perfette, una esplosione di forme, ciascuna determinata e quindi soggetta alla natura della propria forma. Forme moriture come tutto ciò che deriva da una nascita, ma non create da un Dio che abbia utilizzato «altro da sé» o che abbia ordinato un caos preesistente. Le forme prodotte da Dio sono un' eruzione continua il cui fondamento è Dio stesso il quale, attraverso quelle forme, è ovunque e tutto pervade con un' immanenza totale. Il mondo così descritto non contiene dunque una scintilla divina inserita dentro ad una materia altrimenti inerte o caotica ma, al contrario, il mondo è interamente divino e per questo stesso è infinito. Così ragionava l' ebreo Baruch Spinoza, stupefatto di esser definito ateo e dissacratore, lui che descriveva e sentiva la divinità onnipotente, nel filo d' erba e nel serpente, nella stella e nell' uomo, senza colpe, senza peccati, senza necessità di salvezza né di individuale sopravvivenza, salvo sapere che ogni ente esistente e perituro non ha altra pulsione che la sopravvivenza della propria forma e quindi la paura della propria morte per quelle forme capaci di pensare se stesse e la propria mortalità. * * * L' incontro decisivo che egli ebbe e che contribuì a definire la struttura del suo pensiero fu quello con Descartes che, prima dell' arrivo in campo dell' autore dell' Etica aveva rappresentato la vetta più alta della speculazione filosofica aprendo la strada alla modernità. Il Discorso sul metodo è stato il punto d' arrivo e insieme il punto di partenza della storia della filosofia che gli va tuttora debitrice per tre aspetti essenziali del suo pensiero: la scoperta dell' io quale punto di riferimento della conoscenza, la necessità di ancorare l' attività conoscitiva a certezze di assoluta evidenza, la distinzione tra la "res cogitans" e la "res extensa" che riassume in due polarità l' intera moltitudine degli enti recuperandone l' oggettività dopo aver affermato l' egemonia conoscitiva ed esistenziale del soggettivismo. Con questo stipite del pensiero moderno si misurò Spinoza quindici anni dopo la pubblicazione dei Principi di filosofia e la scomparsa del loro autore. In realtà quell' incontro fu inizialmente una sorta di tributo che Spinoza volle pagare alla grandezza innovativa di Descartes, curandone la traduzione dal latino in lingua olandese ed argomentandone le tesi da par suo. Cartesio in quegli anni era preso di mira dalla tradizionale dottrina della Chiesa. Tradurne i testi in una lingua "volgare" era già di per sé un modo di esporsi all' implacabile giudizio dell' Inquisizione; commentarli positivamente, sia pure con qualche timida riserva, significava addirittura sfidare l' ortodossia della Scolastica e attirare su di sé gli anatemi dei Tribunali ecclesiastici. Il pur prudentissimo Spinoza corse questi rischi, anche se mise bene in chiaro che la sua era stata soltanto un' operazione editoriale e culturale e non già lo schierarsi e identificarsi con le tesi di Cartesio dalle quali anzi in più punti dissentiva. Molti contemporanei attribuirono allora quella presa di distanza da Cartesio alla necessità di non approfondire il solco con la Chiesa e con la sua Inquisizione. Ma le cose non stavano così. Il riconoscimento spinoziano della grandezza di Cartesio era senza dubbio genuino, ma altrettanto genuine le sue riserve, in particolare dalla distinzione tra la cosa "estesa" e la cosa "pensante" che Descartes riteneva fossero due sostanze incomunicabili in tutto fuorché nell' essere entrambe una creazione di un Dio trascendente, mentre Spinoza le vedeva come due attributi di Dio riverberati nella nostra specie come "modalità" dell' unica sostanza divina e immanente a tutte le cose. Quanto al "Cogito ergo sum" Spinoza non si è mai espresso in modo esplicito ma dall' insieme del suo pensiero quell' orgogliosa affermazione dell' autonomia dell' io risulterebbe esser stata fatta propria dall' autore del Tractatus. Per arrivare a questa conclusione occorre però forzare il pensiero di Spinoza su un punto assai delicato: quello dell' autonomia delle forme nelle quali si esplica la sostanza divina. In verità Spinoza usa assai poco o per niente la parola "forma" e molto di più usa il termine "res" privilegiando l' estensione rispetto al pensiero. Se ne comprende la ragione: la "res extensa" coinvolge nella propria dimensione tutto l' universo inorganico oltre a quello organico. La "cogitans" invece si limita alle facoltà della nostra specie. Ma questo è un aspetto soltanto quantitativo del problema e quindi non essenziale per le concezioni spinoziane. Per questa ragione io credo che il termine "forma" sia il più appropriato per designare la molteplicità immanente della "natura naturans" nelle sue infinite espressioni. Ebbene: il fondamento di queste forme dell' immanenza sta appunto nelle "modalità" che le distinguono. La modalità è nata perfetta, senza difetti e senza peccato, come Dio l' ha emessa realizzando la sua potenzialità. L' autonomia di quella forma nei suoi "modi" fa dunque parte della sua definizione e per Spinoza la definizione altro non è che legge di natura. Questo ragionamento mi porta a concludere che il "Cogito ergo sum" fu accettato e inserito nel pensiero spinoziano. Semmai, ai suoi occhi, sarebbe bastato scandire il verbo "esse" con la prima persona singolare. L' uomo in quanto individuo era titolato a pronunciare questa affermazione, la sua pulsione di sopravvivenza lo portava a quell' orgoglioso "sum", l' evidenza del vero era interamente presente. Aggiungo per la chiarezza di noi postumi che la distinzione cartesiana tra l' estensione e il pensiero è stata superata non soltanto per le ragioni esegetiche addotte da Spinoza, ma per altre ancor più decisive. La mente pensante altro non è che un' efflorescenza degli apparati cerebrali. Altre volte ho scritto che la mente sta alle mappe cerebrali come la musica sta al pianoforte e le sue "note" stanno ai tasti di quello strumento. Il funzionamento della mente non è mai lo stesso; come le note vanno rapportate di continuo alla tensione delle corde che le producono. Ne segue che al funzionamento della mente, cioè del pensiero, cospirano tutti gli organi del corpo e non soltanto il cervello. Il quale riceve dagli altri organi, tramite i flussi sanguigni e i terminali nervosi, sensazioni ed elementi in misura diversa di tempo in tempo. La quantità di ossigeno non è mai la stessa, le tossine provenienti dal fegato, dall' intestino, dai reni, non sono mai le stesse e mai gli stessi gli ormoni, gli enzimi, i flussi endocrini. La mente insomma è parte integrata nel corpo, ne è determinata e a sua volta lo determina; sicché nel corpo individuale tutto è al tempo stesso esteso e cogitante, che è poi la stessa tesi spinoziana raggiunta attraverso la fisiologia moderna anziché attraverso le tesi filosofiche dell' immanenza della natura divina. * * * Non è certo questa la sede per rivisitare compiutamente la filosofia di Baruch Spinoza, per la quale si può adottare la conclusione di Filippo Mignini a chiusura della sua introduzione generale: «È stato uno dei rari spiriti che nella storia del mondo hanno ideato per qualunque uomo di ogni religione e cultura un percorso di illuminazione e di libertà». Mi sembra invece interessante mettere in luce i nessi tra lui e il principale tra i pensatori che l' hanno scelto come compagno e maestro. Parlo di Federico Nietzsche, il filosofo che chiude il ciclo della filosofia moderna smantellando il platonismo e le religioni, decostruendo e anzi capovolgendo la scala tradizionale dei valori ed elaborando una visione del mondo, della conoscenza e della civiltà che approda al superamento dell' io e di ogni assoluto. Nietzsche fu più un artista e una «voce» che un filosofo nel senso tradizionale della parola. Raccontò il suo pensiero. Parlò per enigmi, per aforismi, per frammenti, per simboli. Dopo di lui sarebbe impossibile scrivere un trattato o un manuale di filosofia. I pochi che hanno tentato ancora di farlo hanno solo dimostrato la loro irrilevanza. Ma Nietzsche non può esser compreso se non si risale a Spinoza. L' autore del Tractatus e dell' Etica può apparire, se si bada alla forma della sua scrittura, esattamente agli antipodi dell' autore di Zarathustra. Invece basta ascoltare lo stesso Nietzsche per comprendere di quale spessore fosse la consonanza dei loro pensieri. Nietzsche s' imbatté (è il caso di usare questa parola che contiene un elemento fortuito) in Spinoza negli anni Ottanta del suo secolo, ne rimase sconvolto e così ne scrisse all' amico Overbeck: «Sono pieno di meraviglia e di giubilo: ho un precursore, e che precursore! Io non conoscevo quasi Spinoza. Per "istinto" ho desiderato di leggerlo. Questo pensatore, il più abnorme e solitario che sia mai esistito, è il più vicino a me in queste cinque argomentazioni: egli nega il libero arbitrio, la finalità, l' assetto morale del mondo, il non-egoismo, il male. Anche se tra Spinoza e me restano enormi differenze, queste sono da attribuire soprattutto alla differenza dei tempi, della cultura, della scienza. Insomma la mia solitudine - che come capita in montagna alle grandi altitudini, spesso mi toglieva il fiato e mi faceva trasudare sangue dai pori - è ormai una solitudine in due». Non ci poteva essere elogio maggiore e più lucida identificazione. Ma resta, al di là delle differenze dovute ai diversi contesti storici dei tempi, della cultura e della scienza, che l' autore di Zarathustra chiaramente individua, un approccio che pone Nietzsche in una prospettiva diversa anche nei confronti di Spinoza, rispetto alla intera storia della filosofia occidentale da Platone in poi, ed è il rapporto con l' assoluto. Con la verità assoluta. Con la divinità assoluta. Spinoza è infatti il più radicale assertore dell' assolutezza della verità e della divinità dell' immanenza, "sive natura". Dell' essere parmenideo, presente in tutti gli enti che da quell' essere scaturiscono. E della conoscenza che l' intelletto individuale può averne. Per Nietzsche al contrario il solo approccio valido alla conoscenza ha il suo fondamento nell' interpretazione. L' interpretazione è il suo Logos, il suo Verbo, la sola ed unica realtà. L' essere nietzscheano non è quello di Parmenide ma quello di Eraclito per quel tanto che sappiamo di lui; non è lo stare, ma il divenire, il flusso, la rappresentazione prismatica dell' universo. Quando, nella lettera a Overbeck, Nietzsche enumera le cinque argomentazioni di Spinoza nelle quali egli si riconosce interamente, compie a mio avviso un errore auto-interpretativo: afferma, come Spinoza, di negare il valore morale del mondo. Ma sbaglia. Il mondo nietzscheano è un mondo morale proprio perché ogni interpretazione contiene la sua propria moralità. Proprio perché il relativismo nietzscheano nega l' assoluto ma rifiuta il nichilismo. Diciamo dunque che neppure Spinoza riesce a liberarsi dalla metafisica come - dopo Nietzsche - recuperano una sorta di metafisica tutti quei pensatori che riproposero l' essere alla base della loro concezione. Nietzsche è stato il vero solitario in questo punto capitale del pensiero, è stato l' unico ad aver descritto la realtà come una polifonia interpretativa il cui fondamento risiede nello sguardo dell' interprete. Dopo Nietzsche resta in piedi una sola domanda: può l' interprete interpretare anche se stesso? Domanda fondamentale, cui non si può dare risposta se, prima, non si definisca la parola interpretazione e il soggetto che la pronuncia. Una definizione. Ecco che ancora torna in scena Spinoza e il valore che egli attribuisce alla definizione. Vedete? Il Logos, il Verbo, la Parola, la parola-chiave, l' Interpretazione, l' Interprete.... Scrive Giovanni all' inizio del suo Vangelo: «All' inizio ci fu il Logos e il Logos era accanto a Dio, il Logos era Dio». Se non ci fosse il relativismo nietzscheano, saremmo di nuovo in piena metafisica.