sabato 29 settembre 2007

l’Unità 29.9.07
Più soldi ai deboli, la Finanziaria va
È tregua con la Cosa rossa: «Abbiamo difeso i più deboli»
Mussi insoddisfatto. Apprezzati i miglioramenti per i più poveri. Sarà battaglia, però, su Welfare e rendite
di Simone Collini


UN’ALTRA Finanziaria è possibile. Lo avevano intimato al burrascoso vertice di metà settimana Rifondazione comunista, Sinistra democratica, Verdi e Pdci.

Quarantott’ore e parecchie discussioni dopo, la Cosa rossa incassa i risultati ottenuti - compreso un miliardo in più rispetto al previsto da destinare a ricerca, ambiente e politiche sociali - e si prepara per le prossime battaglie. Ovvero, innalzamento della tassazione delle rendite finanziarie al 20% e modifica del protocollo sul welfare siglato a luglio dal governo con le parti sociali. Due nodi volutamente lasciati fuori dalla manovra di bilancio. Che, a sentire gli esponenti della sinistra radicale, grazie a loro è uscita dal Consiglio dei ministri diversa rispetto a quella prospettata soltanto due giorni prima da Tommaso Padoa-Schioppa nel vertice notturno di Palazzo Chigi.
«Senza la nostra iniziativa unitaria - è la frase che torna dalle parti del Prc quanto del Pdci, di Sinistra democratica quanto dei Verdi - la Finanziaria non sarebbe stata di questo segno». E il dito indica i 7 miliardi e mezzo di euro che in gran parte sono da destinare agli incapienti, alle famiglie e anche alla cooperazione internazionale (1 miliardo), su cui Rifondazione era pronta a dare battaglia perché nella bozza iniziale non erano previsti i fondi promessi (la viceministra degli Esteri Patrizia Sentinelli aveva annunciato nel pomeriggio che non avrebbe più partecipato a incontri di governo a livello internazionale «perché sarebbe davvero una vergogna: anziché parlare di contributo dell’Italia alla cooperazione allo sviluppo si tratterebbe solo di turismo politico»). E il dito va anche sugli sgravi fiscali sulla prima casa ma anche su chi paga l’affitto e ha un reddito inferiore ai 15 mila e 30 mila euro (150 e 300 euro annui). Ma questo, dopo ore e ore di discussioni.
Paolo Ferrero, Fabio Mussi, Alfonso Pecoraro Scanio e Alessandro Bianchi sono arrivati a Palazzo Chigi non nascondendo una certa diffidenza nei confronti delle rassicurazioni date da Romano Prodi nei colloqui privati della vigilia. «Dalle notizie che emergono già ci sono notevoli problemi sul contenuto della Finanziaria», faceva sapere poche ore prima dell’avvio dei lavori Ferrero, irritato anche per l’«incredibile situazione» per cui «i giornalisti hanno parti intere del testo, mentre i ministri ne sono sprovvisti». Conclusione del ministro per la Solidarietà sociale: «Si tratta di un fatto inaccettabile che renderà tutto più difficile». Negli stessi minuti usciva una nota di Palazzo Chigi in cui si diceva che le bozze circolate non erano da prendere in considerazione perché «superate dal lavoro in corso». Un messaggio agli alleati. Così come un messaggio alla sinistra radicale Prodi lo ha voluto dare nella parte iniziale del Consiglio dei ministri, quando ha sottolineato che la Finanziaria 2008 non prevede ulteriori aiuti alle imprese, dopo il taglio del cuneo fiscale del 2007, ma solo misure di semplificazione e rimodulazione fiscale. Cioè «operazioni a saldo zero», che non sottraggono quindi fondi da destinare alle politiche sociali.
Nonostante le rassicurazioni iniziali, non sono comunque mancati nel corso dei lavori momenti di tensione. Ma alla fine, quando ormai si era fatta notte, il varo della Finanziaria è arrivato senza che i quattro ministri si mettessero di traverso. I quattro, anzi, hanno potuto intestarsi il merito di aver reindirizzato circa un miliardo e mezzo di euro a favore dei redditi bassi, degli incapienti, dell’ambiente, della ricerca e l’università. Anche se il ministro Mussi, che in mattinata era andato a Palazzo Chigi per discutere nuovamente con Prodi dei fondi da destinare al suo dicastero, continua a ritenere insufficienti i soldi stanziati per le università e la ricerca (la cifra alla fine dovrebbe essere di circa 400 milioni di euro, mentre la richiesta del suo dicastero era di 700). Porterà avanti la battaglia, anche perché la cifra prevista dalla manovra rischia di essere di poco superiore ai tagli imposto al ministero di cui è titolare. Il più soddisfatto, tra i quattro ministri della sinistra radicale, è invece Pecoraro Scanio, che ha incassato anche la detrazione del 55% per le opere riguardanti la riqualificazione eco-sostenibile degli edifici. «È un decreto più equilibrato», dice il titolare dell’Ambiente, perché «contiene segnali positivi per le fasce più deboli».

l’Unità 29.9.07
Piazze vuote
Il sangue e l’indifferenza
di Umberto De Giovannangeli


Le immagini di violenza e di morte irrompono nelle nostre case. Ma non riempiono le piazze. Quanto è distante la Birmania da noi? Da noi democratici, da noi popolo della sinistra, dal nostro (sopito?) diritto-dovere all’indignazione? Stavolta, per favore, non s’intenti un processo all’informazione. Da giorni quotidiani e telegiornali aprono con le sconvolgenti notizie che giungono dalla Birmania. Mostrano giovani colpiti a morte, percossi brutalmente. Mostrano l’esecuzione a freddo di un videoreporter giapponese. Quelle immagini raccontano di un popolo eroico che sfida un potere sanguinario.
Quei monaci scalzi che rivendicano diritti, giustizia, libertà e per questi valori rischiano la vita, avrebbero dovuto scaldare i nostri cuori, smuovere le nostre coscienze, modificare l’agenda politica. Riempire le piazze. Così non è. E sì che ciò che sta accadendo in questi giorni, in queste ore in Birmania non si presta ad equivoci: lì è chiaro dove sia il Bene e dove il Male; lì è evidente che l’unica «trincea» su cui assestarsi è quella della tonache in rosso. Rosso speranza. Ma anche rosso sangue.
Quei ragazzi che sfidano a mani nude soldati in assetto di guerra riportano alla memoria altri ragazzi che osarono sfidare in altre piazze regimi pronti a tutto pur di spazzare via ogni vento di libertà. Fu così per piazza Tienanmen. Quanti morti dovranno passare perché l’indignazione torni a riempire le nostre piazze? Certo, gli appelli non mancano. Le parole di condanna si sprecano. Come i moniti. Ma il «silenzio» delle nostre piazze resta assordante. E lo è tanto più a fronte della considerazione, questa sì ridondante in scritti e interviste di politici di ogni colore e levatura, che dobbiamo imparare a muoverci in un mondo sempre più globalizzato. Il «silenzio birmano» dice che questa percezione fa fatica a farsi strada tra una politica appassionata a regole e schieramenti, e un’«antipolitica» che pratica il diritto all’indignazione per gli abusivi dei voli di Stato ma non si riscalda per gli eroi disarmati della «Primavera birmana». Non si tratta di impartire lezioni di coerenza ma di riflettere sulle ragioni di questo «silenzio». Si dice: viviamo nell’epoca delle immagini, dove conta molto identificarsi con una storia, con un volto. Ma la Birmania una storia, un volto nei quali riconoscersi l’ha «forniti»: il volto, la storia di una donna straordinaria, Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la pace, paladina dei diritti civili, da anni segregata agli arresti domiciliari dalla Giunta militare. Quel volto dolce e al tempo stesso determinato, è immortalato in una grande foto che campeggia sulla Piazza del Campidoglio a Roma. Ma non basta una foto per riempire una piazza. E allora c’è da chiedersi se la Birmania non metta le coscienze in movimento perché non militarizza gli schieramenti, non alimenta polemiche «anti» o «pro», perché chiede «solo» coerenza tra valori condivisi e comportamenti conseguenti. E forse proprio per questo la Birmania è scomoda. Perché non offre alibi ad una politica rinchiusa sempre più in se stessa, e ad una antipolitica che fa fatica ad elevarsi oltre un autoliberatorio «vaff...». Perché è lo specchio di una preoccupante «cloroformizzazione» delle coscienze.
La diplomazia dei popoli, si è detto e a ragione, spesso si è rivelata più lungimirante, coraggiosa e anticipatrice di quella degli Stati. Lo è stata per la sua intelligente radicalità, per la capacità di denuncia di atteggiamenti ambigui o renitenti propri della realpolitik. Lo è stata per il rifiuto della delega, per essersi posta e aver posto al centro dell’agire collettivo il tema, davvero globalizzante, dei diritti individuali e di popolo che vanno difesi sempre e comunque. Lo è stata la «bella politica». La Birmania e i suoi eroi disarmati chiedono di riattualizzare questo protagonismo. Di provarci. almeno. Chiedono impegno, participazione, solidarietà, valori e sentimenti capaci di vivere ben oltre una sciarpa esibita e di dichiarazioni allarmate che durano il tempo di un lancio di agenzie.

l’Unità 29.9.07
Viaggio alle origini dell’Universo
Cern, i predatori del tempo perduto
di Cristiana Pulcinelli


IN VISITA ALL’ACCELERATORE di particelle più grande del mondo, LHC: un tunnel sotterraneo circolare lungo 27 chilometri dal quale gli scienziati si aspettano una risposta alla domanda centrale della nostra vita: «Da dove veniamo?»

Se pensate che la domanda «da dove veniamo?» non abbia alcun senso, allora LHC non fa per voi.
Ma se, magari guardando il cielo stellato sopra la vostra testa, siete stati per un attimo sfiorati dalla voglia di sapere qualcosa sull’origine dell’universo, allora seguite attentamente quello che questa macchina farà nei prossimi anni.
LHC e gli esperimenti che ad esso sono collegati sono frutto di due caratteristiche della nostra specie: una smisurata curiosità e un’alta opinione di sé.

Dentro la macchina due fasci di protoni verranno fatti scontrare a una velocità poco inferiore a quella della luce

Lo scontro creerà un’energia molto intensa, pari a quella che si sviluppò dopo il Big Bang 13, 7 miliardi di anni fa

Noi uomini pensiamo non solo di poter giungere a capire cosa è successo 13,7 miliardi di anni fa, quando il nostro universo è nato, ma addirittura di trovare le prove delle nostre teorie. Così abbiamo deciso di costruire la macchina più potente e precisa mai fatta finora per arrivare a capire da dove veniamo e, forse, perché siamo così come siamo.
LHC sta per Large Hadron Collider. Si tratta di un acceleratore di particelle davvero molto potente. Il progetto della sua costruzione venne approvato nel 1994 dal consiglio del Cern (Conseil Européen pour la recherche nucléaire) e tra il 1996 e il 1998 furono approvati i 4 esperimenti che ad esso sono collegati. Da allora ad oggi si è lavorato alla costruzione di questo immenso macchinario. Ancora non è pronto, ma manca pochissimo: l’inaugurazione è prevista ad ottobre del 2008. Poi ci vorranno ancora un paio d’anni perché la macchina funzioni alla sua massima potenza.
L’acceleratore giace a 100 metri sotto il livello del suolo e si estende per 27 chilometri a cavallo tra la Svizzera e la Francia. Il tunnel circolare che lo ospita venne costruito per il vecchio acceleratore, Lep, smantellato nel 2000 per far posto al suo fratello maggiore. LHC è 100 volte più potente del Lep e 10 volte più potente dell’acceleratore americano Tevatron che si trova al Fermilab di Chicago. Quando entri nelle viscere della terra dove LHC riposa, vedi quante parti lo compongono e la moltitudine di gente che ci lavora, capisci perché i fisici delle particelle sono convinti che dopo di lui sarà il diluvio. Ovvero, che una macchina più grande di questa non verrà mai costruita. Lo sforzo compiuto per far vivere LHC e i suoi esperimenti è davvero immane.
Visitare il tunnel fa un certo effetto: la fine non si vede, al suo centro i tubi si estendono a perdita d’occhio. All’interno di quei tubi corrono i protoni, le particelle che normalmente si trovano nel nucleo degli atomi. I protoni corrono in due fasci di direzione opposta e vengono fatti accelerare fino a raggiungere il 99,9998% della velocità della luce. A intervalli regolari, i tubi sono incapsulati dentro dei magneti superconduttori che mantengono i protoni concentrati in un fascio di spessore inferiore a quello di un capello. Ce ne sono 9000 in tutto e sono nel luogo più freddo dell’universo: vengono tenuti infatti alla temperatura di -271 gradi centigradi grazie all’elio superfluido.
Tolte le apparecchiature, lo spazio restante nel tunnel non è molto, diciamo meno di due metri di larghezza. Il carrello che trasportava i vari componenti durante il montaggio della macchina aveva mezzo centimetro di gioco per ogni lato. Dato che doveva procedere con una lentezza esasperante, accadeva che il guidatore si addormentasse, così è stata tracciata una linea bianca a terra e il carrello è stato dotato di un lettore laser. Oggi, in quello spazio c’è una pista ciclabile: i tecnici vanno in bici per raggiungere i punti più lontani. Tutti con il casco in testa e, a tracolla, un kit che permette di respirare ossigeno in caso di incendio o di fuoriuscita di elio. Il punto più lontano da una delle uscite si trova a 1,7 chilometri: una distanza difficile da percorrere a piedi in caso di pericolo. Quando LHC entrerà in funzione nessuno potrà più entrare nel tunnel.
In quattro punti distinti dell’anello i fasci si incontrano e i protoni si scontrano producendo energia. Lì si aprono delle enormi caverne dove sono ospitati i quattro esperimenti di LHC: Atlas, CMS, Alice, LHCb. Atlas è il più grande: nella caverna che lo ospita ci starebbe mezza cattedrale di Notre Dame. Anche gli altri, tuttavia, non scherzano. Basti pensare che il magnete di CMS contiene tanto ferro quanto tutta la Torre Eiffel.
Ora che ancora non sono entrati in funzione si possono visitare dall’interno. La prima cosa che viene in mente è: così doveva essere il cantiere della Torre di Babele. Migliaia di lavoratori di tutte le nazionalità lavorano fianco a fianco. Inglese, francese, italiano, russo, indiano: le lingue si intrecciano nell’aria, ma anche sui cartelli appesi alle pareti che indicano l’uscita o i turni di lavorazione. «Tutti sentono di partecipare a un grande progetto» ci spiega la nostra guida. Se così non fosse, del resto, potrebbero dedicare vent’anni della loro vita a quest’idea? Intanto, tredici anni sono già passati a lavorare senza sapere se la macchina funzionerà. Tra gli operai, ci dicono, ci sono molti fisici russi: in patria le cose non vanno bene, così vengono qui a mettere a disposizione le loro conoscenze. Loro sanno che la precisione è fondamentale, anche nei dettagli. Sarà il clima che si respira, ma sembra di capire che qui potrebbe venir messo in discussione l’universo così come lo conosciamo.
Il fatto è che molte cose dell’universo ci sono ancora poco chiare. Ad esempio, la massa. Perché le particelle elementari sono dotate di massa e perché le loro masse sono diverse le une dalle altre? La fisica teorica ha supposto l’esistenza di una particella, chiamata il bosone di Higgs, che spieghi questo fatto: l’interazione delle particelle con questo bosone determinerebbe la loro massa. Ma purtroppo il bosone di Higgs finora non è mai stato visto.
Un altro mistero da svelare riguarda l’antimateria. L’antimateria è l’immagine speculare della materia: se per strada incontraste un’automobile fatta di antimateria non la distinguereste da quella fatta di materia. Ma se i due oggetti entrassero in contatto l’uno con l’altro, si annichilerebbero a vicenda lasciandosi alle spalle solo energia. I fisici ritengono che al momento della nascita dell’universo materia e antimateria siano state prodotte nella stessa quantità. Quando materia e antimateria si scontravano si annullavano a vicenda. Oggi però il nostro universo, dalle galassie al giornale che state leggendo, è fatto tutto di materia. Dove è finita l’antimateria? E perché la materia ha prevalso? Se potessimo vedere l’antimateria prodotta dal Big Bang, forse ne sapremmo di più.
Sempre in tema di questioni irrisolte: la materia oscura. Secondo i calcoli dei fisici, tutta la materia che noi vediamo è solo il 4% della massa totale dell’universo. Per spiegare alcuni effetti gravitazionali, si deve supporre l’esistenza di una materia oscura e una energia oscura che non possiamo vedere. Si pensa che l’universo sia composto per il 30% da materia oscura. Ma dove sono le sue particelle?
E ancora, alcuni fisici teorici ipotizzano che le nostre quattro dimensioni siano troppo poche per descrivere l’universo. Ce ne sarebbero altre che però non possiamo vedere. Aumentando l’energia saremo in grado di individuarle?
Gli esperimenti di LHC cercano risposte a queste domande. Le collisioni tra protoni, infatti, generano un’energia molto intensa, pari a quella che si poteva misurare qualche frazione di secondo dopo il Big Bang. Questo permette a particelle che oggi non ci sono più di tornare in vita. Ma la loro sopravvivenza dura una piccolissima frazione di secondo, poi si disintegrano dando vita a particelle conosciute. Ebbene, gli esperimenti di LHC vogliono vedere queste particelle prima che scompaiano di nuovo. In particolare, Atlas e Cms, con i loro rivelatori, cercano di «fotografare» quelle, come il bosone di Higgs, che darebbero risposta alle domande cui abbiamo accennato prima. E forse anche a qualcun’altra: «Se fossimo molto fortunati - spiegano i fisici - potremmo trovare il gravitone». Il gravitone è la particella che porta la forza di gravità, ma anch’esso, finora, è solo un’ipotesi. Alice e LHCb, invece, sono esperimenti più piccoli che lavorano su due campi specifici: il primo, attraverso le collisioni tra i nuclei di piombo, cercherà di ricreare uno stato della materia esistito per pochi milionesimi di secondo dopo il Big Bang; il secondo focalizzerà i suoi sforzi per capire il comportamento di materia e antimateria subito dopo il Big Bang.
Si dice che sui paesi che collaborano all’esperimento Atlas non tramonti mai il sole perché gli scienziati vengono da tutte le aree del mondo, escluso l’Antartide. E a CSM collaborano 2500 tra fisici, ingegneri e studenti provenienti da 135 istituti sparsi in 38 paesi. L’Italia ha un peso rilevante, non solo perché in quanto membro del Cern vi investe soldi, ma anche perché molti scienziati italiani partecipano all’impresa (l’Istituto nazionale di fisica nucleare coordina i circa 600 scienziati italiani che lavorano a LHC). Inoltre, l’industria italiana ha prodotto molte componenti di precisione.
Al Cern dicono che LHC può avere anche applicazioni tecniche: dalla medicina all’industria. Ben vengano, ma il centro della questione è un altro: il fatto che si sia trovato un accordo così vasto per finanziare un’impresa fondamentalmente conoscitiva ci fa ben sperare sulle sorti della nostra specie.

l’Unità 29.9.07
Quattro radicali parlamentari per un giorno: pensione assicurata a 1.733 euro


ROMA Che le regole sulle pensioni dei parlamentari fossero da riscrivere, la Camera e il Senato se n’erano accorti mesi addietro quando hanno messo mano a quelle dei parlamentari che verranno. Da Montecitorio e Palazzo Madama si è convenuti invece che nulla potesse essere toccato sui «diritti acquisiti». Una regola per evitare contenziosi che può però causare a quella che spregiativamente è ormai chiamata «la casta», più problemi di immagine che altro. Il caso più eclatante di pensione lampo tocca infatti a quattro ex parlamentari della Repubblica, che oggi percepiscono un vitalizio mensile di 1733 euro per aver lavorato un giorno soltanto. Anzi, meno. Perché l’unica cosa che Angelo Pezzana, Piero Craveri, Luca Boneschi e René Andreani (tutti al tempo esponenti del parito Radicale) fecero quel giorno, fu di recarsi in aula e leggere le proprie dimissioni. La notizia l’ha tirata fuori «Italia Oggi» due giorni fa. Ottenendo in risposta una cortese lettera di Marco Pannella. Il leader radicale assicura che quei parlamentari si dimisero per ottenere le elezioni anticipate richieste dal partito. Ma si dice «del tutto all’oscuro di quest’altro aspetto della questione. D’altra parte - precisa - posso aggiungere che, più o meno da quella data di Piero Craveri e di Luca Boneschi il Partito non ha avuto più segnali di impegno, o anche solo di vicinanza fatte salve – dopo vent’anni – sporadici diversi episodi. Mentre per quanto riguarda Renè Andreani e Angelo Pezzana, che indubbiamente hanno continuato in questi anni un loro impegno civile e politico riconducibili comunque alle nostre ispirazioni e ai nostri obiettivi, non ho ancora avuto modo di raggiungerli e di approfondire con loro le loro ragioni». La regola, come detto, non esiste più (nemmeno nella sua prima accezione per la quale i 4 non hanno mai pagato per i contributi figurativi durante la «mancata» legislatura). Certo la notizia fa riflettere.

l’Unità 29.9.07
Se le parole curano, il silenzio fa rinascere
di Manuela Trinci


MOLTO RUMORE per nulla? Persino gli psicoanalisti hanno rivalutato, e usato nella clinica, il tacere del paziente: una «chiave» che apre porte interiori molto antiche inaccessibili al linguaggio verbale

Incredibile a dirsi, ma sulla grande rappresentazione collettiva dell’analista silenzioso a tutti i costi - critici e psicoanalisti concordi - parrebbe gravare niente meno che l’ombra dell’indimenticabile Maggiordomo nell’Impareggiabile Godfrey (1936), personaggio «super partes», rispettabile neutrale e, soprattutto, assolutamente silenzioso. Se poi ad altre decine e decine di strizzacervelli di celluloide si aggiungono esilaranti vignette di lettini, bloc notes e ronzii, apparse nelle riviste popolari sin dagli anni quaranta, il gioco è fatto. È accaduta quella trasformazione, ipotizzata da Roland Barthes, della cultura piccolo-borghese in una natura universale: nella stanza d’analisi regnerebbe il «silenzio».
Peraltro, nonostante sia arcinoto che la psicoanalisi nacque e fu battezzata da Freud come cura con la parola, talk cure, dagli anni cinquanta in poi gli stessi psicoanalisti non hanno esitato a sferzare duri attacchi al linguaggio. Jaques Lacan lasciò provocatoriamente un nutrito uditorio romano in attesa di una sua parola per circa 20 minuti, mentre Wilfred Bion non ha risparmiato pagine taglienti contro la corruzione, la degradazione, la falsità, l’inadeguatezza, la frode e la menzogna insita nella parola stessa.
Un elogio, dunque, al silenzio? Diciamo che sebbene gli analisti fossero sino dagli inizi consapevoli dei livelli preverbali presenti e attivi nelle sedute di analisi (livelli in cui, per esempio, predomini l’intonazione, il ritmo delle parole ecc), molti di loro rimasero della convinzione che questo universo di parole «invisibili» - per poter essere usate clinicamente - dovesse, comunque, essere tradotto e trasposto nei significati convenzionali del linguaggio. Un’ingenuità, si direbbe oggi all’unisono, abituati come si è ad utilizzare altri registri che appartengono appunto alla psicoanalisi post-freudiana che si è trovata a fare i conti e a cimentarsi nella cura di bambini anche piccolissimi o di patologie dove manca un riconoscimento dell’altro e la parola non può arrivare, patologie un tempo ritenute al limite o incurabili - dal narcisismo alle perversioni alle varie forme di psicosi e di autismo. Ma soprattutto il pensiero psicoanalitico ha acquisito oggigiorno la consapevolezza che esistono esperienze umane la cui intensità emotiva non può certo essere espressa con la parola. «Rimane una grande lacuna fra il neonato che conosce i fatti e noi che conosciamo il linguaggio», era solito osservare Bion in proposito.
E già Ferenczi, il «bambino terribile della psicoanalisi», aveva detto che quando due persone comunicano, lo fanno sempre a due livelli, di cui uno è e rimane silenzioso. Ma saranno, più recentemente, alcuni analisti britannnici, Margaret Little, Marion Milner, Donald Winnicott, Masud Khan, Cristofer Bollas, a parlare dettagliatamente e a sostenere la priorità di una «comunicazione attraverso lunghi silenzi», che restituisca all’orecchio le abilità perdute, ripristinando contatti e legami divenuti inusuali, aprendo l’udito a fruscii, gorgoglii, battiti del cuore e immergendo analista e paziente in un bagno di suoni primordiali. La coppia, il «noi» analitico, opera così con gli orecchi, col naso, con la bocca e con gli occhi. Tutti gli organi di senso funzionano in origine come organi di contatto nella situazione fisica della distanza, scriveva Eugenio Gaddini. E anche Hirme Hermann, sosteneva che ci si aggrappa «muti con gli occhi». «L’occhio ascolta, tocca, sente, gusta», annotava ancora J.B. Pontalis. «Udire con gli occhi appartiene al più fine ingegno d’amore», pare aver scritto quasi a conclusione Shakespeare nel suo ventitreesimo sonetto.
Ovvio, quindi, che il silenzio del paziente, nei suoi aloni semantici, sia andato nel tempo trasformandosi e se da un lato se ne mettono ancora in luce le valenze ostili e aggressive, di distanza emotiva, di incapacità di affrontare il conflitto, di resistenza alla cura, o se ne sottolineano le possibili risonanze di ritiro, di scoraggiamento, di sospetto, di angoscia persecutoria o di tentativo di seduzione, dall’altro se ne riconosce la «pienezza», la possibilità, in altre parole, di vivere un abbandono quieto nel quale si integrino pensieri, sogni e parti di sé. Col silenzio si può rivivere la remota terrifica equazione con la morte, si può tacere, trattenere le parole come si trattengono le lacrime o le sostanze fecali, si può voler mangiare l’analista, assimilarsi a lui così parco di parole, si può voler prendere il potere celando i pensieri, si può tutto questo e altro ancora come, ad esempio, ritrovare antiche esperienze di completezza e di appagamento tipiche del rapporto primario fra la mamma e il suo bambino, un rapporto senza cesure: l’«unità fondamentale». Se la parola è un sintomo d’affetto, scriveva Emily Dickinson, «un altro è il silenzio. La più perfetta comunicazione».
Una specie di Giano bifronte, allora, il silenzio in analisi che può farsi ostacolo come pure stimolo nel processo analitico facilitando, con la regressione a uno stato di benessere, un’assimilazione lenta e continua dei contenuti psichici, culla per una parola autentica, scaturita dalla ricerca della propria soggettività.
Perché il silenzio, come sostiene Greenson, è l’eclissi della parola e non del senso. Si parla e si tace, si tace e si parla. Ed è solo la consapevolezza delle pause, delle scansioni, dei ritmi, che abitano il silenzio, che permette di parlare reciprocamente, l’uno con l’altro. A ben guardare, ogni parola, ogni suono emesso dall’altro, costituisce l’incontrovertibile prova che l’oggetto è separato, che forse si è da soli, ma di una solitudine non minacciosa. Piuttosto una condiziona privata, silenziosa per l’appunto, dove possono avviarsi i processi creativi, l’amore per l’arte, la musica, la letteratura. Pensato il pensabile, comunicato il comunicabile, detto il dicibile, concluso ciò che era aperto e conflittuale, si ritrova con ciò quel silenzio da cui la parola e il linguaggio sono scaturiti: il silenzio dell’origine.

l’Unità 29.9.07
ANNIVERSARI A Roma un convegno a duecento anni dalla pubblicazione della celebre opera hegeliana tradotta in Italia dal grande hegelista Enrico De Negri
La «Fenomenologia» di Hegel? Ottima per capire il mondo globale e le sue differenze
di Bruno Gravagnuolo


Le dispute tra hegeliani e antihegeliani sono un ricordo ma il fascino del filosofo resta
Il conflitto tra servo e signore è una chiave attualissima per capire la politica

Ci fu un tempo in cui accapigliarsi su Hegel era d’obbligo. Da Marx in poi, certo. E già tra hegeliani: giovani, vecchi, di destra o di sinistra. In fondo in tutta la modernità otto-novecentesca non v’è stato filosofo che più di Hegel ha diviso gli animi, ha marcato scelte, e influenzato i movimenti politici. Per il tramite dei suoi interpreti, dei suo detrattori, o dei suoi «rovesciatori». Ben per questo Bobbio parlava di un «macigno» che ancora sta sulla nostra strada. E ben per questo Loewith vedeva nel tratto che va «Da Hegel a Nietzsche» il cuore di tutte le dispute culturali europee a venire.
Insomma, Hegel come grande crocevia etico politico tra opposte visioni del mondo in lotta. Incluso il ruolo di chi come Nietzsche salta oltre la metafisica, e distrugge luciferinamente la totalità sensata dell’Essere: volontà di potenza e innocenza del divenire circolare. Con le declinazioni più opposte di quella rottura anti-hegeliana: libertarie o totalitarie. Infine l’Italia, terra di hegeliani, da Vera, a Spaventa, a Gentile e Croce. Fino all’hegelo-marxismo storicista (Gramsci) e al marxismo anti-hegeliano (Della Volpe).
Oggi da tutto questo c’è molta più distanza, e per ovvii motivi. Tra i quali la fine delle filosofie della storia, e la crisi delle visioni unitarie. Il che sgonfia il pathos di quel confronto, così teso una volta. Ma il rischio è quello di veder svanire una grande ricchezza speculativa. Un grande arsenale filosofico, senza di cui la modernità resta davvero cieca e irriflessiva.
Già, perché in Hegel c’è in fondo il doppio «algoritmo» della modernità «post-rivoluzione francese»: soggettività dotata di diritti, e universalismo della ragione autoriflessiva in divenire. Universalità intesa come globalismo del destino del genere, quel che già Kant a modo suo aveva compreso, come illuministica ragione cosmopolitica.
E dunque, Hegel come «filosofo globale». Del suo tempo globale, e però anche diagnosta dell’autoriproduzione dei conflitti dentro quella ragione universale, che di conflitti è fatta e assieme del tentativo di comporli.
Ecco, ci è parsa questa la premessa implicita del bel convegno sul duecentenario della Fenomenologia dello Spirito hegeliana, che si sta svolgendo a Roma (ieri al Goethe Institut e oggi a chiudere a Villa Mirafiori). Con alcuni insigni studiosi, come Giuseppe Cantillo, primo traduttore italiano della Jenenser Realphilosohie, Claudio Cesa, Ludwig Siep, e altri più giovani docenti come Roberto Finelli, Paolo Vinci, Stefano Petrucciani, Stefania Pietroforte. Un convegno in fondo di «hegelisti non hegeliani», per usare l’espressione di un maestro di questi studi. Quell’Enrico De Negri, scomparso nel 1990, che tradusse mirabilmente la Fenomenologia del 1807 per la Nuova Italia, e che resta uno dei più grandi interpreti di Hegel e de La teologia di Lutero (altro suo capolavoro). Ma che significa «hegelismo non hegeliano»? Significa non prendere per oro colato la sistematica speculativa del filosofo. Non cedere alle lusinghe della sua totalità «vampirizzante». E sforzarsi, ancora una volta, di «riformare» la dialettica hegeliana. Concependola come strumento di unificazione possibile - e aperta però - del reticolo del sapere. Dei saperi. E delle relazioni umane. Concettualizzando le relazioni, e portandone a trasparenza il loro nesso, senza estinguere né il conflitto né il perenne cadere delle opposizioni fuori di sè stesse. Ovvero, il conflitto delle differenze come nesso, e come oggetto unitario di pensiero. Talché, centrale nella discussione del convegno era il tema del «riconoscimento» - chiave del filosofare hegeliano - come architrave dell’etica, della filosofia politica. E delle teorie della giustizia. In altri termini: come si media l’individuo con gli altri individui nella totalità sociale? E come si mediano culture, etnie e civiltà in collisione nel mondo unificato? Basta la teoria dell’«agire comunicativo» habermasiano al riguardo? O il «neocontrattualismo» alla John Rawls? Basta il «comunitarismo», sia pure aperto e flessibile? Non bastano. E allora Hegel una risposta la dà. Proprio tramite la vicenda dell’emancipazione del «servo», filo conduttore della Fenomenologia dello Spirito e della storia d’occidente. Il punto chiave è: diventare padroni di sé. Elaborare conflittualmente una versione sostenibile dell’Autorità. Condivisa e partecipata (riconosciuta). Ma ciò avviene per via di sfide di singoli e gruppi verso una legittimazione condivisa e reversibile, sempre più larga e in bilico. Sfide egemoniche. E qui Hegel, Nietzsche e Gramsci si danno la mano. Con Marx.

l’Unità 29.9.07
Le preoccupazioni di Veltroni (e le mie)
di Armando Cossutta


La preoccupazione espressa da Walter Veltroni circa la difficoltà di poter governare con maggioranze “vastissime” non è priva di fondamento. Dico governare e non semplicemente amministrare perché per governare occorre fare scelte precise e chiare, le quali, in quanto tali, sono quasi sempre non facili da attuare; la loro approvazione richiede maggioranze non eterogenee.
So benissimo che non esistono e realisticamente non possono esistere maggioranze perfettamente omogenee, compatte e univoche, e so anche che una solida maggioranza politica, quando esiste, è tuttavia inevitabilmente (e giustamente) articolata, differenziata, plurale. Ma essa non può essere talmente contraddittoria al suo interno sulle questioni più rilevanti da rendere impossibili le necessarie scelte di governo: ne verrebbe una sorta di paralisi decisionale, tale da aprire il varco al disimpegno popolare e infine ad una tremenda vittoria della destra.
A questo credo pensi Veltroni e a questo devono pensare, credo io, tutte le forze democratiche. Certo, subito per cambiare l'attuale orribile legge elettorale, per esempio adottando il sistema tedesco, con il metodo proporzionale e un forte sbarramento, ma soprattutto per identificare nettamente la prospettiva politica per la quale ci si intende impegnare.
Io ritengo che si debba operare per garantire al nostro Paese una direzione democratica e riformatrice, e che per realizzarla sia necessaria un'alleanza dichiaratamente di centrosinistra. Non di centro, per ragioni che da parte mia è superfluo esporre. E non di sinistra. Ecco il punto. Le forze di sinistra in Italia sono potenzialmente molto vaste, ma non hanno la maggioranza, non l'hanno mai avuta e non vedo, in un avvenire politicamente prevedibile, come possano raggiungerla. Ma possono pesare molto, per una politica riformatrice, se alleate con quelle forze democratiche che pure, da sole, non hanno la maggioranza e da sole non potrebbero governare.
Fra pochi giorni nasce il Partito democratico. Sarà un partito fondamentale per la tenuta democratica del Paese (potrebbe superare il 35%) ma, per garantire quella tenuta, esso non potrà accontentarsi di praticare una politica moderata, che sarebbe sempre condizionata (o peggio) dalle fortissime correnti della destra presenti nel profondo della nostra società oltre che nel campo politico. Il Partito democratico deve, pena il suo fallimento storico, concordare una politica di rinnovamento democratico e di progresso sociale con la sinistra.
Ma quale sinistra? Gli attuali gruppi della sinistra pesano poco, rischiano la subalternità al P.D. e un'esistenza protesa costantemente nella ricerca di una qualche riconoscibilità, molto propagandistica, testimoniale, sostanzialmente inefficace, vittime comunque dell'insanabile contraddizione tra nobili intenti e magri risultati.
Ed invece la sinistra può davvero contare, può finalmente rinascere se i gruppi dei quali oggi è costituita sapranno uscire ciascuno dalle proprie trincee, mettendo in discussione se stessi e infondendo le proprie identità in una identità comune, unitaria. Non ignoro le obiezioni: occorre tempo per definire comunemente i contenuti, non su tutto siamo d'accordo, occorre precisare chiaramente quel che vogliamo oggi, e che cosa vogliamo domani. Lo so. Sono esigenze rilevantissime di chiarezza. Ma so che ci sovrasta un'altra esigenza, più rilevante: quella di unirci subito, tutti, e di lavorare tutti insieme senza pretendere, mai, di annullare le differenze ma operando sintesi che consentano alle differenze di diventare forza e ricchezza. Non sono le differenze in sé a causare ritardi e rinvii, è vero invece che esse sono trattate come pregiudiziali ad ogni avvio di intesa.
I peggiori avversari dell'unità della sinistra peraltro non sono quelli mossi dalla preoccupazione del chiarimento bensì quanti dichiarano di volere l'unità, subito, ma … che questa deve configurarsi come un'intesa politico-programmatica, un patto di unità d'azione, una confederazione, non oltre. L'unità a cui pensano non è l'unità del popolo di sinistra, è una sommatoria di gruppi dirigenti, di apparati, ciascuno già intento a ben calcolare quale sarà la propria collocazione sulla tolda di comando.
Ho letto che il Pdci è sicuro di poter fare da subito la confederazione con il Prc. Potrebbe apparire come un bel passo avanti verso l'unità della sinistra ed è un brutto passo indietro. Si tratterebbe di un accordo fra "comunisti" che congelerebbe ogni ulteriore processo unitario, plurale, accogliente; compatterebbe tutte le vecchie e nuove resistenze identitarie, si differenzierebbe ovviamente quale sinistra "radicale" sino a contrapporsi ad una sinistra più "moderata", quella comprendente Mussi, i suoi compagni e tutti gli altri, Verdi, socialisti, migliaia, milioni di uomini e donne che, senza partito, tuttavia si sentono di sinistra e che della sinistra vogliono, possono partecipare alla rinascita.
Io penso proprio che occorre superare gli indugi, indicare e costruire la proposta semplice e chiara di una Costituente per il partito unitario della sinistra, plurale, libero, popolare, che potrebbe superare largamente il 15% e che, alleato al partito di Veltroni, potrebbe contribuire a governare l'Italia per una politica democratica e riformatrice.

l’Unità Firenze 29.9.07
Welfare, sinistra radicale in corteo per il no
I sindacati dei pensionati: «Stupiti e indignati dalla campagna per il no: aiuta chi vuol peggiorare il protocollo»
di Valeria Giglioli


GLI ORGANIZZATORI si aspettano qualche migliaio di persone: la manifestazione (l’unica prima del referendum) contro l’accordo sul welfare siglato in luglio parte stamani alle 9.30 da piazza Indipendenza, nel cuore di Firenze, per concludersi, dopo il corteo, in piazza Strozzi. «È una manifestazione propositiva» dice Andrea Rufini, del comitato promotore. E gli organizzatori non ci stanno ad essere «tacciati di essere quelli che vogliono far cadere il governo Prodi: abbiamo sollevato un problema sull’accordo, non sul governo».
La manifestazione è regionale, ma sul sito web sono arrivate adesioni da tutta Italia: c’è chi saluta o solidarizza da Roma, Milano, Trieste, Genova, ma anche da Napoli, Bologna, Reggio Calabria e Sassari. Con i manifestanti, anche Comunisti italiani (che portano in corteo il segretario Oliviero Diliberto e l’eurodeputato Marco Rizzo, insieme ai toscani Nino Frosini, Luciano Ghelli e Eduardo Bruno) e Rifondazione, con il segretario toscano Niccolò Pecorini e la consigliera regionale Monica Sgherri. E in piazza ci saranno il segretario nazionale Fiom Giorgio Cremaschi, il coordinatore di Lavoro e società Nicola Nicolosi e Rossano Rossi, della segreteria regionale Cgil. Con loro anche la rete 28 aprile e Unaltracittà, con Ornella De Zordo. Le questioni di merito per quel che riguarda il protocollo siglato da organizzazioni sindacali e governo sono tre: «Dal 2010 i coefficienti di calcolo per le pensioni saranno ridotti - dice Rufini - mentre non c’è la separazione tra previdenza e assistenza. E a questo si aggiunge il mancato superamento della legge 30».
Della campagna per il no all’accordo si dicono «sorpresi e indignati» i sindacati dei pensionati, schierati a favore dell’accordo. Spi Cgil, Fnp Cisl e Uilp Uil regionali hanno presentato ieri la mobilitazione per il referendum: più di 600 le assemblee in tutta la regione per informare e far votare i pensionati. E le persone che per problemi di salute non potranno recarsi ai seggi l’8, 9 e 10 ottobre possono prenotarsi per votare a domicilio telefonando alle sedi sindacali. «Vogliamo esprimere un sì convinto - hanno detto i segretari Savini, Grazzini e Pistolesi - all’accordo che riteniamo importante e positivo. È acquisitivo e migliora le condizioni di tutte le generazioni. Ci sono problemi che restano, ma questo protocollo apre una strada a ulteriori interventi». Sul fronte degli anziani, in Toscana saranno «circa 220mila persone a beneficiare della rivalutazione delle pensioni». La campagna per il no, proseguono i tre sindacalisti, «aiuterà le forze che vogliono peggiorare l’accordo. E se venisse bocciato, si dovrebbe ripartire da zero, con il sindacato delegittimato».

Corriere della Sera 29.9.07
Casavola pronto a lasciare dopo gli attacchi dell'ala laica
Bioetica, scontro nel Comitato E Prodi stoppa le dimissioni
di Margherita De Bac


ROMA — Insulti, dispetti, ripicche, accuse. Atmosfera da separati in casa nel Comitato nazionale di bioetica. La crisi è scoppiata in questi giorni, dopo mesi di litigi furiosi. E si sarebbe conclusa con il divorzio. Il presidente, Francesco Paolo Casavola, era infatti deciso a dimettersi. E lo avrebbe fatto se non ci fosse stato l'altolà di Prodi. «Ai tanti problemi non aggiungiamo anche questo... », lo ha esortato a restare al suo posto il premier. E così l'ex presidente della Corte Costituzionale è tornato sui suoi passi dopo un incontro avuto col numero uno di Palazzo Chigi giovedì sera.
Ieri il Comitato riunito nella mensile plenaria, ha dunque chiuso i lavori senza tuoni e fulmini. Si prevedeva il finimondo dopo la lettera con cui tre esponenti del gruppo della sinistra radicale, Carlo Flamigni, Demetrio Neri e Gilberto Corbellini (sostenuti da Maurizio Mori), avevano accusato Casavola di «pochezza di risultati » e «gestione unilaterale, poco rispettosa del regolamento vigente», tesa a favorire la componente cattolica. Sembrava ci fosse già un personaggio preavvisato per sostituirlo, Giovanni Berlinguer, ds. Invece la riunione è andata avanti e si è conclusa senza soluzioni estreme, all'ordine del giorno la discussione sugli embrioni malformati. Casavola, come voleva Prodi, non ha accennato alle ventilate dimissioni. E nessuno ha introdotto il vero tema.
Che i 50 esperti nominati a novembre 2006 non filassero d'amore e d'accordo si sapeva. Spaccature sempre più evidenti tra i cattolici e la minoranza laica, aperte critiche dai progressisti. Mancanza di dialogo e di risultati, che tradotto nel linguaggio dei bioetici significa documenti e pareri sui temi attuali più scottanti (la scelta non manca).
Ultimamente non facevano che litigare, i due schieramenti. Pugni sul tavolo, sbattimenti di porte, espressioni sgarbate. La guerra dei Roses. Flamigni è durissimo con Casavola, accusato di aver designato due cattolici in commissioni ministeriali su fecondazione artificiale e staminali (il genetista Bruno Dallapiccola e Luca Marini): «In un anno ha dato ascolto solo al Vaticano - dice il ginecologo - Ha scelto due personaggi retrivi e dogmatici. Non è il suo mestiere. Non mollo il Cnb. Come minoranza riusciamo a fermare decisioni spudorate». Dallapiccola chiarisce: «La nomina mi è stata comunicata dal ministro Turco. Vogliono eliminare Casavola, persona per bene, anche se di poco polso. Pessima situazione. Non si lavora, siamo agli insulti beceri, è un ring».

Corriere della Sera 29.9.07
Il programma di Ilaria D'Amico. Appuntamenti anche a San Pietro. Un sacerdote: portando il colletto si attira tanto
Preti gay, i segreti svelati in tv «Chat e incontri, non è peccato»
Un ragazzo-esca e telecamere nascoste: il reportage su «Exit»
di Lorenzo Salvia


Lunedì la puntata sulle confessioni dei preti gay

ROMA — I racconti: «Se penso al seminario o alla mia diocesi credo che gli omosessuali siano una buona parte». Le confessioni a cuore aperto: «Sono stato insieme con un ragazzo siciliano per un anno. Se due uomini si vogliono bene, non conta se porti la tonaca oppure no». Anche le avance, certo: «Portando il colletto si attira tanto. Tu faresti l'amore con me?». E le critiche alla Chiesa: «Con noi fa come l'esercito americano: io non ti chiedo niente, ma tu non devi dire niente. Copre, insabbia, ma così non cresce». Sono preti quelli che parlano. Preti gay, ripresi con una telecamera nascosta durante i loro incontri clandestini con un ragazzo conosciuto sulle chat line per omosessuali.
I FILMATI — Mezz'ora di filmati che andranno in onda lunedì prossimo durante Exit, il programma condotto da Ilaria D'Amico che riparte in prima serata su La7. Un'inchiesta su un mondo sommerso: nessun giudizio, solo la voglia di togliere il velo che copre un pezzo di realtà.
Un lavoro partito con una mail arrivata in redazione. A scrivere era un ragazzo gay. Diceva di frequentare abitualmente le chat per omosessuali, di aver conosciuto così tanti preti, e poi anche di averli incontrati di persona. Quelli di
Exit hanno documentato le fasi dell'aggancio sulla chat, registrato le telefonate fatte per mettersi d'accordo, e ripreso (con una telecamerina nascosta) gli appuntamenti clandestini.
IN UFFICIO — Volti non riconoscibili, voci camuffate, le immagini si fermano ad un certo punto perché l'obiettivo è raccontare non choccare. Non si nascondono i preti, anzi. Protetti dal nickname (il nome in codice che si utilizza per chattare) dicono subito di essere sacerdoti e non hanno problemi ad organizzare un appuntamento. Gli incontri filmati sono tre. Il primo prete è il più dolce: «Se ritornassi indietro, il sacerdote lo rifarei. Hai tante soddisfazioni, aiuti gli altri. (...) La prima esperienza con un uomo l'ho avuta dopo, 10 anni fa. Ma io sto bene con questa mia, tra virgolette, omosessualità». Il secondo è il più spavaldo: racconta di aver avuto un «centinaio» di incontri: «In seminario mi trattenevo per la paura di essere beccato, ma poi non mi sono più controllato». Dice anche che sui gay la «Chiesa è ipocrita perché pure in Vaticano ce ne sono tanti». Il terzo incontro è quello più duro. Appuntamento in Piazza San Pietro, si capisce che dall'altra parte non c'è un semplice parroco. Nell'aggancio sulla chat ha detto di avere tendenze sadomaso. I due si spostano in un ufficio lussuoso. Il ragazzo è un po' preoccupato e lui lo tranquillizza: «Se vuoi andare via non c'è problema». Poi il discorso finisce sull'atteggiamento della Chiesa: «Non ce l'ha con i gay ma — dice il prete — è contro il sesso prima del matrimonio. I gay non si possono sposare e quindi non devono avere rapporti». Nervosismo, nessuna traccia di quella serena voglia di intimità degli altri incontri. I due si avvicinano. «Stai per commettere un peccato davanti agli occhi di Dio», dice il ragazzo. «Io non lo sento come un peccato», risponde l'altro. E ancora. «Non ha senso che tu sia prete », «Qui finisce la nostra storia — risponde il sacerdote — hai troppe preclusioni. Ti metto sull'ascensore e se qualcuno ti ferma non dire nulla ».
LA CONFESSIONE — Dopo i tre filmati «rubati» c'è un prete gay che (anche lui volto oscurato e voce camuffata) accetta di raccontare la sua storia: il compagno trovato in seminario, un ragazzo che poi dirigerà il coro durante la sua ordinazione, «il giorno più bello della mia vita, mettevo insieme i miei due amori». Il rapporto durato tanti anni con un altro uomo «anche se poi la lontananza ci ha divisi ». Don Felice — nome di fantasia — accusa la Chiesa: «Ha paura che l'omosessuale sia anche pedofilo. Un errore. Se c'è pedofilia, che non dipende dall'omosessualità, si tratta di un reato. Ma la Chiesa, invece di dire, copre». E infine racconta le difficoltà di una vita come la sua: «Ci muoviamo come gli indiani in un mondo di cow boy, attenti a non essere impallinati. Ma io sono sereno con la mia coscienza. Dio è più grande del nostro cuore».

Corriere della Sera 29.9.07
Pietà per Baudelaire, povero satanista
di Renzo Paris


L' articolo di Piperno sul Baudelaire di Montesano disegna due figure: il dandy splenetico reazionario e il rivoltoso, legato alla repressione delle giornate del 1848. Per suffragare la sua tesi di un Baudelaire «flaccido pretino inacidito » e sostanzialmente di destra, Piperno cita una frase dell'autore dei «Fiori» che rivela il suo antisemitismo, dimenticando che non c'è autore che si rispetti, prima dell'Olocausto, che non abbia ascoltato la voga antisemita. Ma il punto non è questo. Già Sartre e Benjamin se ne erano occupati da par loro sia del "rivoltato" che del dandy reazionario. Se c'è una cosa invece che data irrimediabilmente Baudelaire come autore ottocentesco, è proprio il suo satanismo carnale, il suo senso del peccato, che il Novecento, almeno in poesia, ha sottaciuto. Rileggendo «I Fiori» impressiona la presenza ossessiva di Dio e Mammona, la litania satanica che le sottende, che non ha nulla di pretesco. E poco vale dire, come fa Montesano, che quel Satana è Napoleone III, il capitalismo, lo sfruttamento borghese alla Marx. No, non è Satana che domina nelle dark room odierne dove è il corpo a trionfare, nel sesso estremo di oggi . Senza il Diavolo davvero Dio rischia di non essere citato più. Il Novecento, con le sue avanguardie, un po' lo mise in disparte, ripescando il poeta della modernità, dei quadri parigini, dei paradisi artificiali, disossandolo.Ma il nostro preferiva il vino all'oppio e alle canne. Contro il revisionismo culturale ha fatto dunque bene Montesano a ricostruire le letture baudelairiane, quelle del socialismo cristiano, dei pensatori ermetici e reazionari alla de Maestre, ma i no global, i giovani a cui si rivolge, che se ne fanno del Diavolo, così come i ragazzi del V-day?

il Foglio 29.9.07
NERI, CORBELLINI E FLAMIGNI VORREBBERO LE SUE DIMISSIONI
Ai laicisti del Comitato di bioetica Casavola non piace più


Roma. Sarà stata grande la delusione, per chi sperava di seppellire il presidente del Comitato di bioetica, Francesco Paolo Casavola, sotto il polverone suscitato da una interessata “fuga di notizie” relativa a una lettera di accuse contro la sua gestione del Comitato, firmata dai professori superlaicisti Gilberto Corbellini, Carlo Flamigni e Demetrio Neri. La riunione plenaria di ieri, che qualcuno immaginava come un redde rationem contro il presidente, si è invece svolta nella più grande alacrità e tranquillità. Al termine, salutato da un applauso dell’assemblea (dopo aver avuto attestati di solidarietà dai vicepresidenti del Cnb), Casavola ha dedicato solo qualche minuto a dirsi convinto che le incomprensioni sranno superate e a ribadire la propria “personale indipendenza e autonomia”. Davvero difficili da mettere in dubbio, visto che, come presidente della Corte costituzionale, fu lui a firmare sentenze fondamentali sulla laicità dello stato, come quella sull’ora di religione facoltativa. La lettera di Corbellini, Flamigni e Neri (che ieri sono andati via prima della fine dei lavori, quindi prima dell’applauso a Casavola) lo descrive invece come un agente del Vaticano poco disposto a dare pari “dignità politica” a posizioni diverse dalle proprie. Per ora, però, l’incidente sembra chiuso, anche se Neri dichiara che “un chiarimento è ineludibile sullo stile di lavoro del Comitato”, e che lui se lo aspetta per la fine di ottobre, alla prossima plenaria.
Sta di fatto che la lunga lettera di accuse, che doveva rimanere oggetto di una discussione interna, è invece finita – chissà come e a opera di chi, visto che i tre firmatari respingono indignati ogni sospetto in proposito – nella redazione del settimanale Left (quello sul quale lo psicanalista Massimo Fagioli scrive ogni settimana cose del tipo: “La legge 40 violenta il rapporto uomo-donna”). left, prima di pubblicarla, l’ha anticipata alle agenzie, e Casavola si è trovato pubblicamente accusato per come “in questi primi sette mesi ha guidato l’attività del Comitato nazionale di bioetica”. I suoi peccati vanno dalla designazione del genetista Bruno Dallapiccola a rappresentare il Cnb nella commissione che doveva esprimere un parere sulle nuove linee guida della legge 40, all’invio di Luca Marini al forum europeo dei comitati di bioetica, alla nomina di Adriano Bompiani, oltre a Marini e a Dallapiccola, in una commissione sullo stoccaggio delle cellule staminali. In tutti i casi, si lamentano Corbellini, Flamigni e Neri, la scelta è caduta su personalità di orientamento cattolico (anche se si può obiettare che l’assegnazione delle deleghe, piaccia o non piaccia, è di competenza del presidente del Cnb.)
Le accuse al presidente Casavola, per non parlare del modo quantomeno irrituale con cui sono state diffuse, testimoniano del fatto che non è andata giù, ad alcuni componenti del Cnb, l’approvazione delle due mozioni che bocciavano rispettivamente il mercato delle staminali cordonali e quello degli ovociti. Mozioni benemerite, che vanno nella direzione ovvia di impedire la commercializzazione di parti del corpo umano, ma che evidentemente nascondono trappole illiberali, per i superlaicisti Corbellini, Flamigni e Neri (e non solo per loro, in verità). L’ala laicista radicale, inoltre, sognava probabilmente di trasformare quanto prima il Comitato nazionale di bioetica (organo consultivo dipendente direttamente dalla presidenza del Consiglio) in un organismo decisionale stile Hfea, l’autorità inglese per l’embriologia e la fecondazione. La prudente gestione di Casavola, però, non ha consentito di realizzare quel sogno, almeno fino a oggi.
A tutto ciò andrebbe forse sommata anche qualche turbolenza legata alla nascita del Partito democratico. La vicenda di cui è stato involontario protagonista Casavola (designato da Prodi) potrebbe essere (c’è chi giura che sia proprio così) solo uno dei tanti episodi di una lotta sui temi bioetici nell’incubatrice del Partito democratico, e di una forzatura che cercherebbe di rompere gli indugi rispetto a una decisa virata laicista del Comitato e della bioetica del partito che verrà. C’è chi preme, insomma, perché nell’atto di nascita del nuovo partito siano codificati impegni che vanno dalla “libertà di ricerca” al testamento biologico, passando certamente per una revisione della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. Sfiduciare Casavola e la sua gestione prudente è un passo in quella direzione. Per ora, però, non se ne parla.

venerdì 28 settembre 2007

l’Unità 28.9.07
La manifestazione di Firenze rischia di deragliare
di Giampiero Rossi


Rinaldini solidale con il segretario cittadino della Fiom attaccato perché difende l’accordo sul protocollo welfare

La «manifestazione di lotta» prevista per domani a Firenze sta assumendo ormai dimensioni nazionali e, soprattutto, si sta caricando di tensioni che stanno scuotendo il sindacato. A partire dalla Fiom, l’organizzazione che rappresenta i metalmeccanici e che ha deciso di non appoggiare la scelta della Cgil di sottoscrivere l’accordo sul welfare del luglio scorso. Come conferma il fatto che lo stesso segretario generale della tute blu, Gianni Rinaldini, ha sentito l’esigenza di prendere le distanze da alcune posizioni pericolose che sono affiorate dal fronte degli oppositori più duri al protocollo del 23 luglio.
L’epicentro delle polemiche è Firenze, dove alcune Rsu hanno deciso di promuovere per sabato una manifestazione «contro la precarietà, contro i bassi salari, contro i tagli alla spesa sociale, per il lavoro a tempo indeterminato, per l'uguaglianza di diritti e tutele di tutti i lavoratori e di tutti i cittadini, per giusti salari, per pensioni dignitose». Hanno creato un sito internet per raccogliere adesioni e commenti e, tra i tanti, nei giorni scorsi ne sono comparsi alcuni che hanno fatto scattare qualche campanello di allarme. Prima è apparso un comunicato (poi rimosso) dei Carc (Comitati di appoggio alla resistenza per il comunismo), cioè le frange più estreme della cosiddetta area antagonista. Quindi è arrivato un intervento firmato «Partito dei Comunisti Rivoluzionari Libertari» nel quale viene preso di mira, indicato con nome e cognome, il segretario della Fiom di Firenze, che ha scelto di schierarsi per il sì all’accordo: «Vergognosa è invece la posizione della Fiom fiorentina - si legge - che per bocca del segretario Marcello Corti (ma si facciamo anche il nome che noi siamo educati e non vogliamo mettere nessuno alla gogna!!!!!!!!!) si è opposta al No, sostenendo il "protocollo" e definendolo ricco di "elementi positivi"».
La sequenza ha l’immediata reazione di Rinaldini: «In un comunicato del “Partito dei comunisti libertari lavoro/città” si denuncia come vergognoso, con nome e cognome, il comportamento del segretario generale della Fiom di Firenze perché sostiene l’accordo intercategoriale con il governo - scrive il leader nazionale della Fiom -. Questo atteggiamento è semplicemente inaccettabile perché costituisce la negazione della democrazia sindacale. Pertanto, nel condannare questo comportamento, esprimo al segretario generale della Fiom di Firenze la solidarietà della nostra organizzazione».
Le nubi, però, accompagnano anche i rapporti tra la Cgil e la minoranza interna. Epifani ha scritto giorni fa al leader di “Lavoro e società”, Nicola Nicolosi, ammonendolo sulla scelta di aderire alla manifestazione di Firenze. Sabato, dunque, sarà una giornata tesa per tutto il sindacato.

l’Unità 28.9.07
«Vestitevi di rosso per solidarietà»
Sms e blog dalla parte dei monaci
di Marina Mastroluca


QUALCOSA DI ROSSO, rosso come le tuniche dei monaci picchiati e arrestati nell’ex Birmania. Rosso come quel cordone umano per per giorni ha sfilato per le strade di Yangon, ogni giorno più forte e più applaudito. Viaggia su internet, si sposta sugli sms l’invito a vestirsi di rosso, come segno di solidarietà. «A sostegno dei nostri amici incredibilmente coraggiosi in Birmania: venerdì 28 settembre indossiamo tutti, in tutto il mondo, una maglietta rossa».
Si tinge di rosso anche il Campidoglio, a Roma, dove ieri monaci buddisti hanno intonato canti di preghiera nella sala Giulio Cesare, accolti dal sindaco Walter Veltroni. Le teste rasate e la tracolla per raccogliere le offerte, che ieri sono state le manifestazioni di solidarietà dei tanti rappresentanti politici di tutti gli schieramenti - tra gli altri Fausto Bertinotti, Pecoraro Scanio, Giovanna Melandri, Barbara Pollastrini, Marina Sereni, Enrico Boselli, Luciano Violante, in sala rappresentanti della Cisl, di Azione Giovani e dell’Ugl. I monaci hanno pregato davanti ad un grande ritratto della leader dell’opposizione birmana, Aung San Suu Kyi, che in queste ore - secondo voci ricorrenti - potrebbe essere stata trasferita dalla sua casa prigione ad una vera cella. «Si è grandi potenze non solo per il valore economico e territoriale - ha detto Veltroni - ma lo si è anche se si è in grado di difendere i diritti umani». Un riferimento alla Cina e alla Russia, che hanno impedito al Consiglio di sicurezza dell’Onu di approvare nuove sanzioni contro l’ex Birmania, ma anche all’India, grande potenza democratica rimasta in silenzio, come ha ricordato la ministra Emma Bonino, invitando a non «lasciarci vincere dallo scoramento e dalla voglia di gettare la spugna». Perché qualcosa la comunità internazionale può comunque fare. «È arrivato il momento - sono state le parole del vice-presidente della Commissione Ue, Franco Frattini - che ogni Stato europeo segua l’esempio del presidente francese e chieda alle proprie imprese di smettere gli investimenti fruttuosi e lucrosi in Birmania». Chiudere i rubinetti che finanziano il regime dei generali. E qualcos’altro. «Perché non ritiriamo l’ambasciata italiana dalla Birmania?», chiede Jimpa Santu Lima, rappresentante della comunità tibetana nel nostro paese, accolto dagli applausi.
Non ci sono stati applausi ma una fredda accoglienza per la delegazione del Consiglio regionale del Lazio, che ieri nel cortile dell’ambasciata birmana a Roma ha inalberato nove bandiere della pace, in segno di protesta dopo il rifiuto dei rappresentanti diplomatici di ricevere il presidente del Consiglio regionale Guido Milana e altri otto consiglieri, che intendevano consegnare un documento di condanna delle violenze contro i monaci e i manifestanti. Alla fine c’è stato un breve incontro e il «sit-in» improvvisato dentro l’ambasciata si è sciolto.
Un vero sit in è previsto oggi pomeriggio davanti alla stessa sede diplomatica (17,30, in via della Camilluccia a Roma) e un altro a Milano, promossi da Amnesty International, che ha lanciato un appello on line a favore di politici, monaci e artisti arrestati in questi giorni nell’ex Birmania per «mobilitare opinione pubblica e governi della comunità internazionale, per fermare la violenta repressione delle manifestazioni in corso in Myanmar». Anche la realtà virtuale si mobilita. Blogosfere, il più grande network di blog professionali e di informazione, aderisce alla campagna «Free Burma» e sceglie il rosso come segno di solidarietà, tingendo lo sfondo dei suoi blog e lanciando un invito a tutta la rete «ad unirsi per fermare azioni estreme e violente nei confronti della popolazione civile e dei reporter, che hanno il diritto di fare informazione». «Internet ha in queste occasioni un’importanza fondamentale per diferendere i diritti civili e la libertà di informazione - dice Marco Montemagno, Ad di Blogosfere -. Crediamo che ogni blogger italiano possa contribuire».

l’Unità 28.9.07
Zingaretti: «Inondiamo di e-mail l’ambasciata»
l’e.card è scaricabile dal sito http://www.nicolazingaretti.it/


ROMA Inondare l’ambasciata birmana di messaggi di protesta, far sentire la voce di chi sostiene la protesta dei monaci buddisti e della popolazione birmana. È la proposta avanzata dall’europarlamentare Nicola Zingaretti. «Faccio appello al popolo della rete affinchè si mobiliti e invii, via e-mail, all'ambasciata del Myanmar in Italia una cartolina, scaricabile dal sito www.nicolazingaretti.it e che sarà distribuita in molte iniziative nei prossimi giorni, per chiedere che vengano riconosciute immediatamente le richieste avanzate dal popolo birmano e liberata Aung San Suu Kyi, da troppi anni agli arresti domiciliari». Zingaretti ha voluto sottolineare come sia «necessario che ciascuno nel proprio piccolo faccia qualcosa per dimostrare la nostra vicinanza ad un popolo così coraggioso».
In segno di protesta con la repressione in corso, la Farnesina intanto ha confermato che - alla luce degli sviluppi della situazione a Yangon - il ministero ha deciso di ritirare l'invito esteso a due funzionari birmani del ministero degli esteri birmano per la partecipazione ad un corso di «Diritto umanitario nei conflitti armati». Al corso, che si terrà dall'8 al 19 ottobre prossimo presso l'Istituto Internazionale di Diritto Umanitario di Sanremo, è prevista la partecipazione di 120 funzionari governativi provenienti da vari continenti ma non ci saranno i birmani.
Un appello affinchè il regime dei generali non risponda più con la violenza alle manifestazioni è stato lanciato ieri dal palco dell'assemblea dei piccoli Comuni dell'Anci riuniti a Castelvecchio Pascoli su proposta del coordinatore, Secondo Amalfitano.
«Propongo - ha detto Amalfitano - di approvare un documento perchè il regime di Myanmar non intervenga più con la forza contro chi civilmente e silenziosamente rivendica un futuro per i propri figli e per la democrazia».

l’Unità 28.9.07
La fecondazione e l’accanimento
di Luigi Cancrini


Il modo in cui alcuni personaggi del mondo politico che hanno avuto un ruolo decisivo nella scrittura della legge 40 sulla fecondazione assistita si preoccupano della salute delle donne e dei bambini è stato reso drammaticamente evidente, ieri, dall'On. Volonté, capogruppo dell'Udc alla Camera. Con una interrogazione presentata al ministro della giustizia Mastella, egli ha avuto la sfrontatezza di chiedergli, infatti, un intervento ispettivo ed, eventualmente, disciplinare nei confronti dei magistrati del Tribunale Civile di Cagliari: rei, a suo avviso, di aver offeso la legge e «la volontà del popolo italiano» nel momento in cui hanno deciso di accogliere l'istanza di una donna, portatrice sana di betatalassemia, per la diagnosi preimpianto nel suo embrione congelato. Disponendone l'esecuzione in un Centro ospedaliero fra i più qualificati nel campo della fecondazione medicalmente assistita e della prevenzione delle malattie genetiche e permettendo, così, ad una coppia che correva un rischio alto di mettere al mondo un bambino gravemente e irrimediabilmente malato, condannato ad una breve vita e ad una serie infinita ed ingiusta di sofferenze, di fare le sue valutazioni e di assumere le sue decisioni da subito. Senza dover aspettare, cioè, l'amniocentesi del quarto mese di gravidanza.
Non c'è in realtà paese al mondo in cui si sia arrivati a definire una situazione così assurda.
Ce lo segnalano ogni giorno le coppie che se ne vanno all'estero per ottenere un'assistenza che la legge italiana non consente loro di ottenere qui. Quello che particolarmente mi ha colpito ieri, tuttavia, ascoltando Volonté che parlava alla Camera è il modo in cui un deputato ha sentito la necessità di esprimersi pubblicamente, e con tanta violenza, nei confronti di due persone che hanno esercitato in modo così semplice un loro diritto naturale criticando il Tribunale che ha accettato di tutelarlo.
Serve una mancanza totale di comune senso del pudore, mi veniva da pensare ascoltandolo, per accanirsi così nei confronti di persone che il destino ha messo di fronte ad una scelta così difficile e dolorosa e per opporsi, con tanta rigida imperturbabilità, a quelli che sono per fortuna i progressi della ricerca scientifica. L'on. Volonté dovrebbe ricordarsi forse, a questo punto, che anche un Papa ha deciso, dall'alto della sua «infallibilità», di riconoscere gli errori fatti dalla Chiesa nei confronti di Copernico, di Galilei e di tanti altri scienziati. Ma dovrebbe ricordare anche, un po' più vicino alla materia di cui continua ad interessarsi, che perfino una legge discutibile come la legge 40 non proibisce affatto la diagnosi preimpianto.
È stato solo il ministro Sirchia, infatti, con una circolare faziosa ed alquanto originale, a indicare che tale diagnosi poteva essere fatta solo utilizzando un metodo «osservazionale». Escludendo, cioè, per ragioni da lui mai spiegate (ed in effetti difficilmente spiegabili), non la diagnosi in sé e per sé ma la diagnosi fatta con l'unico strumento davvero efficace, quello legato all'indagine cromosomica. Passando sopra dunque con disinvoltura degna di miglior causa al primo obbligo che un medico ha nell'esercizio della sua professione: quello di occuparsi, in scienza e coscienza, della salute di chi a lui si rivolge utilizzando a tal fine tutti i mezzi che le conoscenze scientifiche mettono a sua disposizione.
Le linee guida di Sirchia possono e debbono essere modificate ora dal ministro Turco che riferirà alla Camera su questo tema nei primi giorni di ottobre. Lo chiede da oggi con chiarezza l'On. Sanna, deputato dell'Ulivo, medico e pediatra, con una interpellanza urgente cui ci siamo uniti in molti. Quella di cui va dato atto al Tribunale di Cagliari, dice Sanna, è una decisione inattaccabile dal punto di vista giuridico, con cui si liberano sia le donne sia i medici dall'obbligo di impiantare embrioni potenzialmente portatori di gravi patologie e sui quali si può intervenire solo con traumatiche interruzioni di gravidanza di cui Sirchia e Volontè non vogliono considerare le dolorose conseguenze cliniche, psicologiche e familiari. Quella di cui va dato atto al capogruppo dell'Udc, d'altra parte, è una indifferenza totale di fronte a sofferenze che per sua fortuna non lo riguardano personalmente. Come accade spesso, purtroppo, a chi aderisce ideologicamente ad una dottrina di cui dimentica il fondamento: la parola di un uomo che si chiamava Gesù.

l’Unità 28.9.07
Finanziaria, priorità alla giustizia sociale
di Titti Di Salvo


La legge Finanziaria è lo strumento attraverso cui anno per anno prende forma la politica economica di ogni governo. Non dovrebbe essere così. Sulla manovra finanziaria vengono caricati oneri impropri, politici si intende, e le buone intenzioni di alleggerimento dal ruolo di «madre di tutte le leggi economiche» si sono fermate alle intenzioni.
Allora, a torto o ragione, i contenuti della manovra finanziaria sono inevitabilmente il test della coerenza delle scelte del governo e contemporaneamente la sua occasione per rispondere alle aspettative delle persone. Le aspettative sono molte e, a fronte di risorse limitate, si impongono scelte. Il segno di quelle scelte non può che essere guidato dall'idea di Italia che si ha in mente, e anche dall'idea di quali siano le vie da percorre per rilanciare il suo sviluppo.
Il documento che la sinistra ha consegnato a Prodi sulla manovra finanziaria si muove in questo solco. Ha in mente un'idea dell'Italia, propone allocazioni di risorse coerenti con quell'idea, indica dove reperire risorse aggiuntive, anche in questo caso perseguendo un'idea. I problemi di competitività del sistema Italia, sono fortemente legati alla dimensione delle sue imprese, al modello di specializzazione, alla scarsità (o assenza) di investimenti pubblici e privati su innovazione e ricerca. Qui c'è il primo segno da imprimere alla finanziaria: risorse sulla qualità, l'istruzione, l'innovazione e la ricerca; dunque lo sviluppo ambientalmente sostenibile. L'indice di disuguaglianza del paese rimane altissimo e in crescita, rendendo la nostra società sempre più polarizzata. Per questo la redistribuzione dei redditi ci vuole, non genericamente intesa, verso le lavoratrici e i lavoratori dipendenti, ma anche verso gli incapienti. Con lo stesso approccio e con le stesse motivazioni si può migliorare il protocollo del 23 luglio (quale è il senso del tetto ai lavori usuranti? Perché rinunciare alla scelta netta di arginare la precarietà dei contratti a termine?), esercitando il ruolo proprio del Parlamento, senza venir meno al rispetto dovuto a quel grande evento della democrazia italiana che è la consultazione promossa dal sindacato conferderale. Altrettanto importante è dare il senso di una società capace di assumere la responsabilità collettiva di fronte ai cambiamenti della struttura sociale e alle nuove domande di rappresentanza: in questo senso il fondo per gli anziani non autosufficienti è una esigenza reale e non più rinviabile. Questo è il secondo segno da dare alla Finanziaria: giustizia sociale come priorità e al contempo condizione per lo sviluppo.
Ma il documento non indica soltanto il senso della direzione di marcia e gli obiettivi concreti da perseguire.
Avanza anche proposte per il reperimento di risorse: la tassazione delle rendite finanziarie al 20% come in Europa, i tagli agli sprechi della politica e alle spese militari; anche in questo caso indicando terreni di intervento concreti e coerenti con la nostra idea dell'Italia - che poi è quella del programma dell'Unione - della sua collocazione europea ed internazionale e soprattutto scegliendo l'etica pubblica come tema fondamentale su cui agire per restituire credibilità alla politica.
Molti oggi invocano lo spirito dell'Unione, della compattezza della maggioranza per ricostruire consenso intorno al governo Prodi. C'è una risposta più trasparente, adeguata, convincente, di merito, non ambigua e soprattutto precedente a quegli appelli, dei contenuti del documento della sinistra?
Ma come la mettiamo con le alleanze di nuovo conio?
C'è una proposta meno trasparente, meno adeguata e convincente, più ambigua e pretestuosa del battere moneta nuova, per rinsaldare l'alleanza che attualmente governa e, quindi, rendere più stabile il Governo stesso?
Capogruppo Sinistra Democratica Camera

Repubblica 28.9.07
Ogni anno dallo Stato circa 4 miliardi
I conti della Chiesa ecco quanto ci costa
di Curzio Maltese


Su 5 euro incassati dal gettito Irpef, 1 va alla carità. Il resto tra culto e immobili
La gestione dei fondi "imbriglia" il dibattito. "Fuori dal coro parlano solo ex vescovi..."

«Quando sono arrivato alla Cei, nel 1986, si trovavano a malapena i soldi per pagare gli stipendi di quattro impiegati». Camillo Ruini non esagera. A metà anni Ottanta le finanze vaticane sono una scatola vuota e nera. Un anno dopo l´arrivo di Ruini alla Cei, soltanto il passaporto vaticano salva il presidente dello Ior, monsignor Paul Marcinkus, dall´arresto per il crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. La crisi economica è la ragione per cui Giovanni Paolo II chiama a Roma il giovane vescovo di Reggio Emilia, allora noto alle cronache solo per aver celebrato il matrimonio di Flavia Franzoni e Romano Prodi, ma dotato di talento manageriale. Poche scelte si riveleranno più azzeccate. Nel "ventennio Ruini", segretario dall´86 e presidente dal ´91, la Cei si è trasformata in una potenza economica, quindi mediatica e politica. In parallelo, il presidente dei vescovi ha assunto un ruolo centrale nel dibattito pubblico italiano e all´interno del Vaticano, come mai era avvenuto con i predecessori, fino a diventare il grande elettore di Benedetto XVI.
Le ragioni dell´ascesa di Ruini sono legate all´intelligenza, alla ferrea volontà e alle straordinarie qualità di organizzatore del personaggio. Ma un´altra chiave per leggerne la parabola si chiama "otto per mille". Un fiume di soldi che comincia a fluire nelle casse della Cei dalla primavera del 1990, quando entra a regime il prelievo diretto sull´Irpef, e sfocia ormai nel mare di un miliardo di euro all´anno. Ruini ne è il dominus incontrastato. Tolte le spese automatiche come gli stipendi dei preti, è il presidente della conferenza episcopale, attraverso pochi fidati collaboratori, ad avere l´ultima parola su ogni singola spesa, dalla riparazione di una canonica alla costruzione di una missione in Africa agli investimenti immobiliari e finanziari.
Dall´otto per mille, la voce più nota, parte l´inchiesta di Repubblica sul costo della chiesa cattolica per gli italiani. Il calcolo non è semplice, oltre che poco di moda. Assai meno di moda delle furenti diatribe sul costo della politica. Il "prezzo della casta" è ormai calcolato in quattro miliardi di euro all´anno. "Una mezza finanziaria" per "far mangiare il ceto politico". "L´equivalente di un Ponte sullo Stretto o di un Mose all´anno".
Alla cifra dello scandalo, sbattuta in copertina da Il Mondo e altri giornali, sulla scia di La Casta di Rizzo e Stella e Il costo della democrazia di Salvi e Villone, si arriva sommando gli stipendi di 150 mila eletti dal popolo, dai parlamentari europei all´ultimo consigliere di comunità montane, più i compensi dei quasi trecentomila consulenti, le spese per il funzionamento dei ministeri, le pensioni dei politici, i rimborsi elettorali, i finanziamenti ai giornali di partito, le auto blu e altri privilegi, compresi buvette e barbiere di Montecitorio.
Per la par condicio bisognerebbe adottare al "costo della Chiesa" la stessa larghezza di vedute. Ma si arriverebbe a cifre faraoniche quanto approssimative, del genere strombazzato nei libelli e in certi siti anticlericali.
Con più prudenza e realismo si può stabilire che la Chiesa cattolica costa in ogni caso ai contribuenti italiani almeno quanto il ceto politico. Oltre quattro miliardi di euro all´anno, tra finanziamenti diretti dello Stato e degli enti locali e mancato gettito fiscale. La prima voce comprende il miliardo di euro dell´otto per mille, i 650 milioni per gli stipendi dei 22 mila insegnanti dell´ora di religione («Un vecchio relitto concordatario che sarebbe da abolire», nell´opinione dello scrittore cattolico Vittorio Messori), altri 700 milioni versati da Stato ed enti locali per le convenzioni su scuola e sanità. Poi c´è la voce variabile dei finanziamenti ai Grandi Eventi, dal Giubileo (3500 miliardi di lire) all´ultimo raduno di Loreto (2,5 milioni di euro), per una media annua, nell´ultimo decennio, di 250 milioni. A questi due miliardi 600 milioni di contributi diretti alla Chiesa occorre aggiungere il cumulo di vantaggi fiscali concessi al Vaticano, oggi al centro di un´inchiesta dell´Unione Europea per "aiuti di Stato". L´elenco è immenso, nazionale e locale. Sempre con prudenza si può valutare in una forbice fra 400 ai 700 milioni il mancato incasso per l´Ici (stime "non di mercato" dell´associazione dei Comuni), in 500 milioni le esenzioni da Irap, Ires e altre imposte, in altri 600 milioni l´elusione fiscale legalizzata del mondo del turismo cattolico, che gestisce ogni anno da e per l´Italia un flusso di quaranta milioni di visitatori e pellegrini. Il totale supera i quattro miliardi all´anno, dunque una mezza finanziaria, un Ponte sullo Stretto o un Mose all´anno, più qualche decina di milioni.
La Chiesa cattolica, non eletta dal popolo e non sottoposta a vincoli democratici, costa agli italiani come il sistema politico. Soltanto agli italiani, almeno in queste dimensioni. Non ai francesi, agli spagnoli, ai tedeschi, agli americani, che pure pagano come noi il "costo della democrazia", magari con migliori risultati.
Si può obiettare che gli italiani sono più contenti di dare i soldi ai preti che non ai politici, infatti se ne lamentano assai meno. In parte perché forse non lo sanno. Il meccanismo dell´otto per mille sull´Irpef, studiato a metà anni Ottanta da un fiscalista all´epoca "di sinistra" come Giulio Tremonti, consulente del governo Craxi, assegna alla Chiesa cattolica anche le donazioni non espresse, su base percentuale. Il 60 per cento dei contribuenti lascia in bianco la voce "otto per mille" ma grazie al 35 per cento che indica "Chiesa cattolica" fra le scelte ammesse (le altre sono Stato, Valdesi, Avventisti, Assemblee di Dio, Ebrei e Luterani), la Cei si accaparra quasi il 90 per cento del totale. Una mostruosità giuridica la definì già nell´84 sul Sole 24 Ore lo storico Piero Bellini.
Ma pur considerando il meccanismo "facilitante" dell´otto per mille, rimane diffusa la convinzione che i soldi alla Chiesa siano ben destinati, con un ampio "ritorno sociale". Una mezza finanziaria, d´accordo, ma utile a ripagare il prezioso lavoro svolto dai sacerdoti sul territorio, la fatica quotidiana delle parrocchie nel tappare le falle sempre più evidenti del welfare, senza contare l´impegno nel Terzo Mondo. Tutti argomenti veri. Ma "quanto" veri?
Fare i conti in tasca al Vaticano è impresa disperata. Ma per capire dove finiscono i soldi degli italiani sarà pur lecito citare come fonte insospettabile la stessa Cei e il suo bilancio annuo sull´otto per mille. Su cinque euro versati dai contribuenti, la conferenza dei vescovi dichiara di spenderne uno per interventi di carità in Italia e all´estero (rispettivamente 12 e 8 per cento del totale). Gli altri quattro euro servono all´autofinanziamento. Prelevato il 35 per cento del totale per pagare gli stipendi ai circa 39 mila sacerdoti italiani, rimane ogni anno mezzo miliardo di euro che il vertice Cei distribuisce all´interno della Chiesa a suo insindacabile parere e senza alcun serio controllo, sotto voci generiche come "esigenze di culto", "spese di catechesi", attività finanziarie e immobiliari. Senza contare l´altro paradosso: se al "voto" dell´otto per mille fosse applicato il quorum della metà, la Chiesa non vedrebbe mai un euro.
Nella cultura cattolica, in misura ben maggiore che nelle timidissime culture liberali e di sinistra, è in corso da anni un coraggioso, doloroso e censuratissimo dibattito sul "come" le gerarchie vaticane usano il danaro dell´otto per mille «per troncare e sopire il dissenso nella Chiesa». Una delle testimonianze migliori è il pamphlet "Chiesa padrona" di Roberto Beretta, scrittore e giornalista dell´Avvenire, il quotidiano dei vescovi. Al capitolo "L´altra faccia dell´otto per mille", Beretta osserva: «Chi gestisce i danari dell´otto per mille ha conquistato un enorme potere, che pure ha importantissimi risvolti ecclesiali e teologici». Continua: «Quale vescovo per esempio – sapendo che poi dovrà ricorrere alla Cei per i soldi necessari a sistemare un seminario o a riparare la cattedrale – alzerà mai la mano in assemblea generale per contestare le posizioni della presidenza?». «E infatti – conclude l´autore – i soli che in Italia si permettono di parlare schiettamente sono alcuni dei vescovi emeriti, ovvero quelli ormai in pensione, che non hanno più niente da perdere…».
A scorrere i resoconti dei convegni culturali e le pagine di "Chiesa padrona", rifiutato in blocco dall´editoria cattolica e non pervenuto nelle librerie religiose, si capisce che la critica al "dirigismo" e all´uso "ideologico" dell´otto per mille non è affatto nell´universo dei credenti. Non mancano naturalmente i "vescovi in pensione", da Carlo Maria Martini, ormai esiliato volontario a Gerusalemme, a Giuseppe Casale, ex arcivescovo di Foggia, che descrive così il nuovo corso: «I vescovi non parlano più, aspettano l´input dai vertici… Quando fanno le nomine vescovili consultano tutti, laici, preti, monsignori, e poi fanno quello che vogliono loro, cioè chiunque salvo il nome che è stato indicato». Il già citato Vittorio Messori ha lamentato più volte "il dirigismo", "il centralismo" e "lo strapotere raggiunto dalla burocrazia nella Chiesa". Alfredo Carlo Moro, giurista e fratello di Aldo, in uno degli ultimi interventi pubblici ha lanciato una sofferta accusa: «Assistiamo ormai a una carenza gravissima di discussione nella Chiesa, a un impressionante e clamoroso silenzio; delle riunioni della Cei si sa solo ciò che dichiara in principio il presidente; i teologi parlano solo quando sono perfettamente in linea, altrimenti tacciono».
La Chiesa di vent´anni fa, quella in cui Camillo Ruini comincia la sua scalata, non ha i soldi per pagare gli impiegati della Cei, con le finanze scosse dagli scandali e svuotate dal sostegno a Solidarnosc. La cultura cattolica si sente derisa dall´egemonia di sinistra, ignorata dai giornali laici, espulsa dall´universo edonista delle tv commerciali, perfino ridotta in minoranza nella Rai riformata. Eppure è una Chiesa ancora viva, anzi vitalissima. Tanto pluralista da ospitare nel suo seno mille voci, dai teologi della liberazione agli ultra tradizionalisti seguaci di monsignor Lefebrve. Capace di riconoscere movimenti di massa, come Comunione e Liberazione, e di "scoprire" l´antimafia, con le omelie del cardinale Pappalardo, il lavoro di don Puglisi a Brancaccio, l´impegno di don Italo Calabrò contro la ‘ndrangheta.
Dopo vent´anni di "cura Ruini" la Chiesa all´apparenza scoppia di salute. È assai più ricca e potente e ascoltata a Palazzo, governa l´agenda dei media e influisce sull´intero quadro politico, da An a Rifondazione, non più soltanto su uno. Nelle apparizioni televisive il clero è secondo soltanto al ceto politico. Si vantano folle oceaniche ai raduni cattolici, la moltiplicazione dei santi e dei santuari, i record di audience delle fiction di tema religioso. Le voci di dissenso sono sparite. Eppure le chiese e le sagrestie si svuotano, la crisi di vocazioni ha ridotto in vent´anni i preti da 60 a 39 mila, i sacramenti religiosi come il matrimonio e il battesimo sono in diminuzione.
Il clero è vittima dell´illusoria equazione mediatica "visibilità uguale consenso", come il suo gemello separato, il ceto politico. Nella vita reale rischia d´inverarsi la terribile profezia lanciata trent´anni fa da un teologo progressista: «La Chiesa sta divenendo per molti l´ostacolo principale alla fede. Non riescono più a vedere in essa altro che l´ambizione umana del potere, il piccolo teatro di uomini che, con la loro pretesa di amministrare il cristianesimo ufficiale, sembrano per lo più ostacolare il vero spirito del cristianesimo». Quel teologo si chiamava Joseph Ratzinger.
(Hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)


Repubblica 28.9.07
Il segretario del Prc Franco Giordano: "Vogliamo vedere le nostre richieste accolte nero su bianco"
di Umberto Rosso


ROMA - «È tutto aperto. Dipende da quel che ci presentano, nero su bianco, al Consiglio dei ministri. Sarà un test della verità, e quindi il nostro orientamento e il nostro voto dipenderanno concretamente dai fatti e dai testi». Le ultime telefonate con Prodi, in un pomeriggio frenetico seguito alla tempestosa nottata del vertice, e le rassicurazioni verbali a quanto pare da sole non bastano. Rifondazione aspetta i passi concreti oggi in Cdm. Così, alle otto della sera, Franco Giordano appare meno ottimista del collega verde Pecoraro Scanio («non so, magari lui avrà avuto da Palazzo Chigi notizie migliori»), e non esclude nessuno scenario per la riunione che in giornata dovrebbe licenziare la Finanziaria. Si potrebbe andare dalla ricucitura allo strappo. Compresa la possibilità di un´astensione o addirittura di un voto contrario di Ferrero e degli altri ministri della Cosa rossa? Il segretario di Rifondazione non scarta neanche questa soluzione estrema. «Lo potremo valutare solo quando avremo di fronte il provvedimento, solo a quel punto prenderemo una decisione». Per il momento, le offerte del premier rispetto alla richieste della sinistra radicale, lo lasciano «sospettoso». Nessuna schiarita certa? «Io non mi sento per nulla rassicurato da quel che sta avvenendo in queste ore - dice Giordano - . Questo è il momento di verificare concretamente. In passato, troppe volte non si è scesi dalle parole ai fatti. Questa volta perciò siamo assolutamente intransigenti. Il nostro voto dipende esclusivamente dall´accoglimento delle nostre proposte, senza di che non è possibile alcuna schiarita». Sì, ma il Professore che sta mettendo sul tavolo della trattativa, che segnali ha spedito nel lungo filo diretto con Giordano?
Nel pacchetto per l´intesa, come si dice, ci sono precari, scuola, ambiente, Ici, rendite? In che modo viene incontro all´ultimatum sulla riscrittura della manovra di bilancio? Il segretario del Prc resta freddo e «coperto». «Prodi ha provato a lavorare attorno ad alcune delle nostre richieste, mi pare di capire». Stop. Forse, siamo al punto più basso nell´asse Prc-Professore, alla crisi di quel rapporto preferenziale fra i comunisti di Bertinotti e gli ulivisti di Prodi che tante volte ha smesso in scacco Ds e Margherita. Tanto che il film del vertice di maggioranza che Giordano racconta ha una trama diversa dal solito. A Rutelli, a Fassino, a Franceschini va il riconoscimento di aver aperto la porta, «hanno cercato il dialogo, si sono confrontati con le nostre posizioni». A differenza di Prodi. Che è apparso fermo, intransigente. Per non parlare di Tommaso Padoa-Schioppa, la vera bestia nera della Cosa rossa. «Si è presentato alla riunione - racconta Giordano - venendo a dirci quel che già era noto, di cui aveva già parlato in commissione al Senato. Senza farci vedere ancora un testo scritto. A due giorni dall´approvazione della Finanziaria, vi pare una cosa sensata? Non una delle nostre proposte dunque era stata formalmente accolta e recepita. Da qui la tensione che ne è scaturita. Molto forte. Ecco perché abbiamo sollevato la questione della collegialità, insieme al nodo che riguarda i contenuti».
Che sono questi. «Drastica diminuzione dei costi della politica. Intervento fiscale a favore dei lavoratori dipendenti. Riduzione dell´Ici ma solo per i meno abbienti, e accompagnata a misure sugli affitti. Investimenti per cultura, innovazione e ricerca. Misure per il precariato pubblico». E la tassazione delle rendite, la madre di tutte le battaglie? «Certo che la chiediamo. È un errore non armonizzare le rendite, i piccoli risparmiatori hanno tutto da guadagnare portando dal 27 al 20 per cento le tasse sui conti correnti e i depositi postali». E le agevolazioni alle imprese? «Nettamente contrario. La Finanziaria così com´è è nettamente sbilanciata a loro favore. Ho molti dubbi che la riduzione dell´Ires e dell´Irap sia davvero a costo zero».
Solo che dietro e attorno alla trattativa sui singoli punti, pesano i reciproci sospetti sulla volontà di dare la spallata al governo. Giordano teme che qualcuno abbia già messo nel conto la cacciata della sinistra da Palazzo Chigi? «Io dico che sarebbe un suicidio per tutti. Che ci sarebbe dopo, un governo istituzionale? Dubito assai che qualcuno si avventuri su questa strada. Perché Berlusconi ha interesse solo ad andare al voto anticipato. Cacciare noi perciò vuol dire consegnare il paese all´ex premier. Ciò detto, non saremo certo noi i pugnalatori del governo. Basta seguire le cronache parlamentari: tutti i guai per Prodi sono sempre venuti dall´ala di centro della coalizione».

Repubblica 28.9.07
E Dini incassa lo stop sulle rendite "Il premier non seguirà Rifondazione"
di Francesco Bei


Dalla sinistra radicale una impostazione alternativa a quella del presidente del Consiglio, non va bene
Alzare le aliquote su titoli e Bot è giusto in linea di principio, ma non è questo il momento opportuno

Lamberto Dini è soddisfatto: «Quella di Prodi è una buona impostazione della Finanziaria» La sinistra della "Cosa Rossa" lo accusa di aver «ricattato» il premier, minacciando di far cadere il governo al Senato. Il capogruppo di Rifondazione alla Camera, Gennaro Migliore, sospetta addirittura «che a lui non dispiaccia troppo la possibilità che torni Berlusconi». La sostanza comunque è che Dini sembra abbia vinto il primo round del match contro la sinistra radicale, portando palazzo Chigi a condividere il rinvio sine die dell´aumento della tassazione sulle rendite finanziarie. "Lambertow" è a New York per alcuni incontri al vertice, oggi sarà di ritorno a Roma per verificare se il capo del governo avrà saputo tener duro in Consiglio dei ministri. Forte dell´intesa con Prodi, Dini non ha più interesse a polemizzare con l´ala sinistra e definisce «giusto» in teoria il principio dell´innalzamento delle aliquote sulle rendite. A patto, s´intende, di applicarlo in un altro momento.
Con lo stop all´aumento della tassazione sui titoli di Stato e sulle plusvalenze di borsa avete segnato un punto a vostro favore contro la sinistra dell´Unione. E´ soddisfatto?
«Mi pare che lo stesso presidente del Consiglio consideri che questo non sia il momento adatto per prendere la decisione di uniformare la tassazione delle rendite al 20 per cento. E´ un principio giusto che il governo cercherà di attuare nel corso del tempo, quando i mercati saranno più calmi. In ogni caso mi è stato riferito che Prodi, nel corso del vertice a palazzo Chigi, abbia puntualizzato che non si tratterebbe di cambiare la tassazione sui titoli di Stato già emessi ma solo su quelli di nuova emissione. Un principio sacrosanto, altrimenti finiremmo con il penalizzare i risparmiatori italiani che hanno investito i loro risparmi in buoni del Tesoro».
L´armonizzazione della tassazione su rendite e lavoro è un punto del programma di governo, lo metterete in pratica il prossimo anno?
«Sarà fatto al momento opportuno, ma comunque non sui titoli già emessi ma solo su quelli a venire e sulle plusvalenze».
La sinistra radicale insiste su questo punto: se nel Consiglio dei ministri di oggi dovesse astenersi o votare contro si dovrebbe aprire la crisi?
«Io mi auguro che questo non avvenga. Ma ieri, alla riunione di maggioranza, si sono presentati chiedendo un´impostazione alternativa rispetto a quella annunciata dal presidente del Consiglio, un´impostazione tutta centrata sulla redistribuzione. Purtroppo questi signori non parlano mai di crescita dell´economia, di come creare occupazione, della crescita della ricchezza o di come superare il declino dell´Italia. Questo non va bene e certamente il presidente del Consiglio non li potrà seguire su questa strada».
Prodi sulle rendite ha tenuto il punto, come valuta l´operato del premier?
«A me pare che l´impostazione che sta dando il presidente del Consiglio - riduzione della pressione fiscale e riduzione della spesa corrente - sia una buona impostazione, quella di cui l´Italia ha bisogno».
«Buona» perché va nella vostra direzione?
«Va nella direzione di cui ha bisogno il Paese e quindi per noi va bene».

Repubblica 28.9.07
Il padre dello 007 ferito accusa "Tutti assassini, mio figlio muore"
di Carlo Picozza


ROMA - «Mio figlio è morto. È vivo ma senza speranze: con colpi così non si sopravvive». Si sfoga Mario D´Auria, padre di Lorenzo, il trentenne militare del Sismi ferito nei giorni scorsi in Afghanistan nel blitz organizzato per liberare lui e un altro 007 italiano, entrambi sequestrati nella provincia di Farah. Ora di quel giovane si conosce nome e vita, contrariamente a quanto in genere avviene per gli uomini "senza volto" dei Servizi. «Avrei delle denunce da fare: è tutto uno schifo», attacca il padre. E lancia dai microfoni di Sky Tg24 un´accusa pesante: «Sono tutti assassini, Prodi e Berlusconi». Che il ministro della Difesa Arturo Parisi smorza subito: «Il dolore giustifica ogni parola. Ancora di più il dolore di un padre per l´unico figlio maschio per anni cercato e profondamente amato».
«Sono venuti a prendermi per portarmi a Roma», continua Mario D´Auria. «Non sono andato perché altrimenti lì mi arrestano. Mio figlio è solo un ragazzo. Ha scelto di partire militare, ma io sono sempre stato contrario. Non sappiamo neanche cosa facesse. Per senso del dovere non diceva mai niente, neanche agli amici più cari». «Non sapremo mai chi gli ha sparato», continua. «Ultimamente non voleva più andare, era triste. O aveva ricevuto minacce o intuiva il pericolo. Domenica sarebbe dovuto tornare a casa».
Intubato, nella Rianimazione dell´ospedale militare del Celio, Lorenzo D´Auria resta immobile. Ha la testa fasciata. Sotto, una grave lesione cerebrale. La sua vita è appesa a un respiratore. Di fronte alle dichiarazioni di Mario D´Auria sulle speranze di vita di suo figlio i sanitari militari restano impietriti. Sembra si fosse trasferito a Livorno con la moglie e i figli da Modena, dove la sua famiglia di origine era arrivata da Gragnano (Napoli). Ma dalla città toscana non arrivano conferme. A far da barriera, le coperture sulla vita da 007. Sembra che D´Auria abbia indossato il basco amaranto degli incursori del Col Moschin. «Non possiamo parlare», dice il colonnello Renato Perrotti. Ma nelle caserme dei parà c´è un clima teso. «Ho un amico in fin di vita», confida un ufficiale. «Il dolore della sua famiglia è anche il mio. Non chiedetemi altro: lui è un agente segreto, la riservatezza garantisce la sicurezza dei suoi cari». Che ora dovranno decidere se far spegnere le macchine che lo tengono in vita.
Intanto, ieri, quattro operatori della Croce rossa internazionale, due afgani, un macedone e un birmano, in missione per la liberazione dell´ostaggio tedesco sequestrato lo scorso luglio e di cinque afgani, sono stati rapiti dai talebani. «Trattenuti da un gruppo armato», ha spiegato a Ginevra un portavoce del Comitato internazionale della Croce rossa. «Dovevano andare a prendere i sei per riportarli. Non è andata così. Ora tenteremo di stabilire un contatto per la loro liberazione».

Repubblica 28.9.07
Società civile. È davvero migliore del Palazzo?
di Paul Ginsborg


Un´esperienza storica che nasce in Europa con l´affermarsi della borghesia
L´origine dei movimenti nel nostro paese e nel resto dell´Europa

Una geniale vignetta di Altan di qualche settimana fa (la Repubblica, 4 settembre) raffigura un signore di mezz´età, in giacca e cravatta, chiaramente appartenente ai ceti medi italiani, che annuncia solenne alla moglie: «Dobbiamo aprirci alla società civile». E lei, forse maestra o impiegata, certamente casalinga, gli chiede, tra il perplesso e il titubante: «Vengono loro da noi, o andiamo noi da loro?».
Effettivamente, non è facile capire dov´è la società civile e neanche cos´è. Le definizioni abbondano e con esse le dispute accademiche. Suggerisco una prima distinzione operativa, molto anglosassone, fra società e società civile. La società è un contenitore vasto in cui si può trovare di tutto, dal cittadino onesto alla criminalità organizzata. La società civile, invece, è uno spazio più ristretto che si distingue sia per la sua forma organizzativa sia per il suo sistema valoriale.
Società civile vuol dire in primo luogo una vasta rete di associazioni, circoli, club - alcuni molto grandi e di forte impatto internazionale come Amnesty International, altri più modesti e meno stabili che operano soprattutto a livello locale, ad esempio un circolo di giovani auto-organizzati contro la mafia o un laboratorio per la democrazia. Ma società civile vuol dire anche determinati valori e ambizioni, che sono variati attraverso le epoche della storia contemporanea ma hanno un ceppo comune nell´Illuminismo.
Oggi in Europa si possono attribuire alla società civile ambizioni specifiche: promuovere la diffusione piuttosto che la concentrazione del potere, indicare mezzi pacifici anziché violenti, agire per la parità di genere e l´equità sociale, costruire solidarietà orizzontali piuttosto che verticali, incoraggiare la tolleranza e il dibattito anziché il conformismo e l´obbedienza. La società civile è lontana dall´essere una sfera perfetta, di rapporti idilliaci e armoniosi. Riflette fortemente la società di cui fa parte, il modo in cui le persone sono già state formate dalle loro esperienze familiari. Nondimeno costituisce una risorsa preziosissima per la democrazia e rispecchia l´impegno, profuso di solito a titolo gratuito, di una minoranza di cittadini per migliorare sia la società che le istituzioni.
Casa prediletta della società civile europea sono i paesi nordici – Olanda e Svezia, Danimarca, Norvegia e Finlandia. Sono loro che hanno il numero più alto di cittadini iscritti ad almeno una associazione di qualsiasi tipo – Svezia 53,4 per cento, Regno Unito 41,8 per cento, Italia 24,3 per cento. Ma sono anche i paesi con la più alta percentuale di cittadini iscritti alle associazioni che si riconoscono nel sistema valoriale della società civile appena descritta.
L´esperienza storica italiana della società civile durante i decenni della Repubblica è piuttosto eterogenea . Alcuni elementi sono fortemente positivi. In Italia la longevità democratica della Repubblica ha garantito le condizioni strutturali per il fiorire della società civile – la libertà di opinione, la stampa libera, il diritto di associazione. L´Italia è un paese in cui il funzionamento delle istituzioni lascia molto a desiderare, ma è anche un paese, sotto il profilo storico, molto libero, perfino iperdemocratico, ricco di iniziative e discussioni. Forse – ed è una triste constatazione – è proprio il mancato funzionamento delle istituzioni che produce questa vivacità di reazione, questa micro-democrazia che non dà segnali di placarsi.
In secondo luogo, la società civile italiana è come un fiume carsico. Non si distingue per il suo alto numero di associazioni ma per la sua capacità di irrompere improvvisamente sulla scena nazionale con grandissima forza e altissimi numeri. L´enorme raduno della Cgil del marzo 2002 al Circo Massimo, contro l´abolizione dell´articolo 18 dello statuto dei lavoratori del 1970, ne è un esempio eclatante.
Per contrasto, l´organizzazione territoriale della società civile italiana è più squilibrata rispetto agli altri paesi europei, con una grande concentrazione dell´associazionismo civico nel centro e nord del paese. Fu in queste regioni, nella seconda metà dell´Ottocento, che nacque la rete delle associazioni di mutuo soccorso, una rete che fece molta fatica a estendersi al Mezzogiorno. Ci sono stati momenti nella storia del Sud in cui questo quadro si è modificato, soprattutto negli ultimi decenni del Novecento, ma oggi la situazione è di nuovo molto incerta, con la forte ripresa dell´immigrazione delle forze giovanili dal Sud.
L´Italia dunque è un paese cui le pre-condizioni per la società civile sono ben radicate, dove esiste una tradizione, come in Francia, di movimenti di cittadini che irrompono periodicamente con grande forza sulla scena politica, ma dove l´associazionismo è squilibrato in termini geografici. A queste caratteristiche di fondo, bisogna aggiungerne altre, purtroppo tutte negative. Manca in Italia una vera tradizione di autonomia della società civile. Quest´assenza, legata alla debolezza della tradizione liberale, ha permesso ai partiti di occupare i posti di comando delle istituzioni e della società, mossi non dal desiderio di democratizzare stato e società, come vorrebbe la società civile, ma con l´intento di imporre un modello ferreo di auto-perpetuazione, di origine democristiana.
Un ultimo e decisivo punto. Ho sempre avuto l´impressione che in Italia, a differenza dei paesi nordici europei, le famiglie contassero troppo e la sfera pubblica troppo poco. In questo campo l´insegnamento del Vaticano non è mai stato di grande aiuto. Era Pio XII che nel settembre del 1951 disse: «La famiglia non è per la società; è la società che è per la famiglia». Il messaggio che filtra dopo ventiquattro anni ininterrotti di televisione commerciale berlusconiana è piuttosto simile: «mettete al primo posto la vostra famiglia, i vostri interessi, i vostri consumi». Non deve sorprendere se la signora della vignetta di Altan pensa che la società civile sia un servizio a domicilio.

Corriere della Sera 28.9.07
Bertinotti e la sinistra: se perderà impari da Mitterand
di Paolo Conti


Il presidente della Camera: arrivò all'Eliseo dopo sconfitte e riorganizzazioni

ROMA — «La risposta della politica non deve, non può essere immediata. Bisogna impegnarsi in un lavoro di medio, anzi di lungo periodo. La politica sbaglierebbe a dare risposte hic et nunc... così correrebbe alla ricerca del consenso... di quel piacere al maggior numero di persone in un solo istante che è una delle ragioni della crisi della politica. Bisogna spezzare questa sudditanza anche passando per qualche sconfitta». Parola di Fausto Bertinotti, presidente della Camera, che affronta in un piovoso pomeriggio romano una platea di studenti del liceo «Giulio Cesare » Per intenderci, quello cantato da Antonello Venditti che, in quanto ex alunno, lo abbraccia e lo bacia .
L'occasione dell'incontro è un dibattito sull'ultimo film di Ken Loach, In questo mondo libero, duro atto d'accusa sul mondo dei contratti a termine e del lavoro parcellizzato e senza garanzie. Ma si discute subito della crisi della politica. Entrando affronta un'incursione delle Iene di Italia 1 sui lavoratori impegnati nel cantiere di Montecitorio senza caschetto di protezione. Poi parla per tre quarti d'ora con i ragazzi. Risponde per esempio a una puntuale domanda dell'ex alunno Vittorio Occorsio, ora al secondo anno di Giurisprudenza, membro del comitato elettorale di Veltroni, nipote del giudice assassinato da Ordine Nuovo il 10 luglio 1976: «Una volta la sinistra aveva una visione della marginalità quasi prossima alla giustificazione del crimine come conseguenza della sconfitta. Oggi la sinistra vive una svolta legalitaria: Cofferati, Veltroni... Vede una contraddizione o un naturale adeguamento alla realtà?». Bertinotti replica avvertendo di essere «ingessato dal ruolo» ma dice che la sinistra invece di «procedere a una ridefinizione delle coordinate generali» ha provato a legittimarsi «attraverso la scorciatoia di andare al governo. Non dico che non sia importante. Ma se questa sostituzione dell'idea di società diventa il tuo nuovo Palazzo d'Inverno... riduci la politica a un processo adattativo». Per questo la sinistra oggi «dà ragione ad ogni stormir di fronda, all'ultimo che ha parlato per prendere un voto domani. Tutto questo ti corrode dentro... E allora prende lucciole per lanterne. Invece di risalire il fenomeno, si ferma all'ultimo epifenomeno. E pensa che la vera minaccia arrivi dai lavavetri».
Poi, uscendo, a chi gli chiede se l'idea della possibile sconfitta riguardi direttamente la sinistra alle prossime elezioni risponde: «Non dico questo. Però osservo che un Mitterrand, prima di arrivare all'Eliseo, rifondò il Partito socialista e affrontò molte sconfitte. Lo stesso è capitato a Lula... Così la politica sta sotto schiaffo, diventa una carta assorbente che si limita a registrare le opinioni. È una ricerca dell'auditel». Sotto la pioggia Antonello Venditti annuncia che uno dei brani del suo nuovo disco si intitolerà «Comunisti al sole». Non una parola di più. Chissà che ne direbbe Ken Loach.

Corriere della Sera 28.9.07
Così nella Roma antica il Senato difese i privilegi
Gli oligarchi non esitarono ad uccidere il tribuno Tiberio Gracco
di Luciano Canfora


Chi cerchi di intendere cosa fosse, quanto pesasse e cosa significasse il Senato romano dovrebbe, credo, far capo a quella pagina mirabile in cui Appiano di Alessandria descrive la uccisione di Tiberio Gracco (estate del 133 a.C.). Lo scontro riguardava la rielezione del tribuno. Il Senato, interferendo pesantemente, attraverso suoi uomini fidati, nell'autonoma gestione di quel vitale organo di difesa popolare che doveva essere, in linea di principio, il tribunato, si opponeva.
Ed ecco i fatti. Quando i seguaci di Tiberio Gracco spezzano, armandosi di bastoni, il cerchio paralizzante dell'ostruzionismo procedurale degli avversari pilotati dal Senato, quest'ultimo decide di reagire con la forza. Lo storico alessandrino si chiede perché mai non abbiano fatto ricorso ad uno strumento estremo tipico dei momenti di crisi, quale la nomina di un dictator.
Invece il Senato vuole «dare una lezione» e, dopo una rapida seduta tenuta nel tempio di Fides, scende direttamente in battaglia, e si lancia nello scontro fisico, non senza aver fatto circolare la falsa voce che Tiberio si fosse fatto proclamare tribuno senza votazione. «Mossero verso il Campidoglio — scrive lo storico —. Li precedeva, primo fra tutti, il pontefice massimo, Cornelio Scipione Nasica, il quale urlava che tutti lo seguissero; e si era tirato intorno al capo l'estremità della toga». Con sarcasmo lo storico si chiede se ricorresse a quel gesto per rimarcare il suo rango di pontefice massimo, o per mimare l'elmo e incitare così ancor più alla lotta, o non piuttosto «per nascondere agli dei ciò che stava per compiere». Sintomatico è quel che accade subito dopo. I graccani arretrano, perché lui è il pontefice massimo, e perché dietro di sé ha quasi tutto il Senato. Allora i senatori, «strappate le spranghe di legno dalle mani dei graccani, li colpivano, li inseguivano, li gettavano giù dai dirupi. Molti perirono e lo stesso Tiberio Gracco, bloccato davanti al tempio, fu ucciso sul posto. Il cadavere suo e degli altri fu gettato nottetempo nel Tevere ». Il fotogramma dei graccani paralizzati e come ipnotizzati dall'autorità di questa orda di senatori inferociti e omicidi è una scena di per sé chiarificatrice dell'illimitata efficacia dell'auctoritas senatoria anche in situazioni estreme.
I senatori non erano del tutto nuovi a queste imprese se si considera che, secondo una tradizione nota a Dionigi di Alicarnasso (Antichità Romane), lo stesso Romolo era stato massacrato in Senato dagli stessi senatori, ormai persuasi che il suo governo fosse troppo «tirannico». Accusa fatale quella di «tirannide» (costerà la vita anche a Cesare), cui il Senato ricorre per bollare un leader e segnarne la condanna. Anche con Tiberio Gracco avevano utilizzato quell'accusa di «regnum» con cui facevano fuori gli avversari. Lo sappiamo da Plutarco (Vita di Tiberio Gracco) il quale dà un dettaglio in più, che dovrebbe meglio spiegare lo scatenamento belluino di Scipione Nasica: «I graccani — scrive Plutarco — si preparavano a respingere gli assalitori facendo a pezzi le aste con cui le guardie trattenevano la folla. Quelli che erano più lontani, stupiti, chiesero che cosa fosse successo. Tiberio, non potendo farsi udire, si mise una mano sulla testa, con un gesto che voleva significare pericolo. Ma gli avversari, a quella vista, corsero in Senato ad annunciare che Tiberio chiedeva la corona: ciò — insinuavano — significava quel gesto. Nasica chiese al console di venire in soccorso dello Stato abbattendo il tiranno ». E poco dopo partì alla carica, piegate rapidamente le perplessità del console, accusato di inadempienza ai suoi doveri.
Com'è chiaro dall'intera, lunghissima storia di questo potente organismo, fondato sulla cooptazione e sopravvissuto gagliardamente anche alla cosiddetta fine della Repubblica, il Senato romano aveva superato ben presto i limiti d'azione propri di un organo consultivo. E fu sempre più la vera sede decisionale: pronto a gridare al «tiranno» ogni volta che le altre forme di potere gli si sono parate dinanzi.
Negli ordinamenti arcaici, a partire dalla «gerusìa» omerica, un Senato è il tassello più importante. Mentre in Atene (dove le funzioni di tale organo sono proprie dell'Areopago) il potere si disloca via via altrove, è a Sparta che la «gerusìa » conserva — in stretta collaborazione con gli efori e con i re — il potere effettivo. I «geronti» (o «senatori») a Sparta venivano nominati per acclamazione: ma per rientrare tra gli eleggibili ci volevano requisiti quali l'appartenenza a determinate grandi famiglie, come si ricava chiaramente da alcuni passi della Politica di Aristotele. Dunque anche sotto questo rispetto l'accostamento tra ordinamenti romani e ordinamenti spartani, ricorrente nella riflessione costituzionale antica, appare pertinente. Polibio di Megalopoli, greco passato ai romani non solo perché prigioniero di guerra ma anche perché spiritualmente conquistato dal modello politico dei vincitori, ha descritto meglio di ogni altro l'ordinamento romano rappresentandolo come originale variante del modello spartano, e soprattutto come esempio — secondo lui imperituro — di «costituzione mista ». Costituzione, o pratica, in cui un corpo non elettivo ma di cooptazione, qual è appunto il Senato, assume il ruolo chiave nella dialettica tra esecutivo e massa popolare- elettorale. Polibio entrò in crisi quando il conflitto esploso intorno alle leggi graccane sembrò dimostrare che anche la «perfetta » macchina costituzionale romana scricchiolava. Ma noi, cui è toccato il privilegio di sapere «come è andata a finire», sappiamo ormai che il sistema misto ha vinto quantunque rivestito delle esteriorità o ritualità elettoralistiche che costituiscono un prezioso strumento di legittimazione per quei corpi tecnici, di competenti non certo di elettoralmente reclutati, nelle cui mani è il potere effettivo. Non più ostentato come al tempo di Scipione Nasica, ma al riparo dall'indiscreta «democrazia», e perciò tanto più (si può immaginare) durevole.

il manifesto 28.9.07
Cofferati difende l'accordo con An
di Giusi Marcante


Il sindaco di Bologna rivendica la «convergenza» con la destra sul tema della sicurezza. Poi chiede alle sinistre l'ingresso nella giunta, offrendo loro le deleghe alla casa e ai giovani. Il Prc rifiuta: prima deve ritirare l'accordo con Alleanza Nazionale. Sd invece è più possibilista

Doveva essere il giorno del verdetto e invece è stato ancora il giorno del rinvio di una crisi di maggioranza che a questo punto chissà se mai ci sarà. Sergio Cofferati, in una sala stampa zeppa di cronisti, esponenti politici e curiosi ieri ha detto cosa pensa dell'intesa con An sulle politiche di sicurezza e anche del documento dei consiglieri della Sinistra ( Rifondazione Comunista, Verdi, Cantiere e Sinistra Democratica), difendendo il patto con i nazional-alleati e facendo il buono con la sinistra.
E così ancora una volta il sindaco ha saputo rimescolare le carte e lasciare il cerino in mano alla sinistra, che nel pomeriggio si è incontrata per una riunione fiume da cui è uscita con in mano un ennesimo documento di attesa. Cofferati non ha sconfessato il percorso con Alleanza Nazionale (benedetto tra l'altro anche dal segretario di An Gianfranco Fini), anzi ha detto che continuerà a portarlo avanti, e l'ha ricostruito puntualmente dicendo che An è stato l'unico partito che ha risposto quando lui stesso ha lanciato le «convergenze» in tema appunto di sicurezza.
Il sindaco di Bologna ha poi lanciato un'altra sfida alla sinistra radicale e ha aggiunto che l'unica strada per mandarlo a casa è quella che questi consiglieri preparino una mozione per sfiduciarlo che naturalmente sarebbe votata anche da An, ribaltando il concetto che sia lui a fare gli accordi con il partito di opposizione. Il sindaco ha parlato anche del documento di otto punti stilato dai consiglieri della sinistra. Otto punti ritenuti «irrinunciabili» da questi per la fine del mandato. E sulla base di questi punti ha offerto loro un assessorato facendo anche i nomi dei papabili: il capogruppo di Rifondazione comunista Roberto Sconciaforni e il consigliere di Sd ed ex segretario regionale della Fiom Gianguido Naldi. Per entrambi il sindaco ipotizza, sulla base del documento, la delega alla casa e ai giovani. Se Sconciaforni ha risposto a stretto giro che quella dell'assessore è un'offerta «svilente e sbagliata» e che il partito non è rappresentato in giunta perché ha «un dissenso politico su come viene amministrata la città», Naldi si è dimostrato più possibilista lasciando uno spiraglio sulla posizione di Sd che però passa prima da un'intesa con i partiti della sinistra, che Cofferati ha convocato per il prossimo tre ottobre.
Su questo incontro si è giocato il lungo confronto del pomeriggio tra i consiglieri, al termine del quale è stato stilato un documento.
«Nell'incontro previsto per il 3 ottobre ci aspettiamo un confronto positivo - si legge nel testo - sul documento programmatico che abbiamo presentato, e riteniamo necessaria ed indifferibile una dichiarazione del sindaco formalmente e sostanzialmente inequivocabile, di rinuncia all'accordo politico-programmatico con Alleanza nazionale». Sempre nel documento si giudica poi «non corretta» l'offerta degli assessorati, facendo anche dei nomi. Congelata quindi per il momento la prospettiva di crisi che comunque i partiti della sinistra dimostrano di affrontare in modo diverso tra le aperture di Sd e le dichiarazioni del segretario provinciale del Prc. Il segretario cittadino di Rifondazione comunista Tiziano Loreti ha detto che se il sindaco non farà retromarcia su An e non darà una risposta positiva ai punti del documento, «almeno per quanto ci riguarda il passaggio successivo saranno le dimissioni» dagli incarichi istituzionali tenuti dai rappresentanti del partito. Tra l'altro nell'offerta di un assessorato a Naldi di Sd c'è un esito decisamente a vantaggio di Cofferati. Con la sua uscita entrerebbe come consigliere Giovanni De Rose, presidente Arci e diessino di ferro, che farebbe risalire a 19 i consiglieri comunali dei Ds.

il manifesto 28.9.07
Neonazisti
Lettera minatoria all'Anpi di Bologna


Due croci uncinate naziste e la firma «Cuori neri Curva Andrea Costa» (gli ultrà bolognesi) in calce alla lettera minatoria recapitata ieri al presidente dell'Anpi di Bologna, William Michelini. « Dopo gli sfregi alle due statue dei partigiani a Porta Lame, perpetrati da ignoti», scrive in una nota l'Anpi provinciale, arriva ora la lettera con «le minacce agli uomini della Resistenza». L'associazione dei partigiani «stigmatizza questi fatti che coincidono con il rinvenimento, nel covo di Forza Nuova a Rimini, delle armi destinate ad una imminente spedizione punitiva cruenta, come è stato accertato dalla Polizia provvedendo all'arresto dei responsabili. Di fronte a questi gravi episodi si invitano le forze politiche e la società civile tutta a considerare l'evidente loro pericolosità e ad assumere le necessarie iniziative a difesa dell'ordine democratico».

«se di vita si può parlare, siamo ancora ben lontani dal poter parlare di "vita umana"»
Liberazione 28.9.07
Quando l'embrione balla il twist
di Maria Rosa Cutrufelli


Nel 700 lo scienziato Anton Van Leeuwenhouek scoprì al microscopio gli spermatozoi, il che per molto tempo fece credere che là dentro (negli spermatozoi, per l'appunto) si celasse un omino bell'e fatto (preformato), che doveva solo "ingrandirsi" per venire al mondo.
Mi è tornata alla memoria questa credenza quando ho visto l'ultimo spot pubblicitario di Ferrarelle, l'acqua che frizza "naturalmente". Molti di voi lo conosceranno, penso, perché è passato spesso, sia in televisione che sugli schermi cinematografici. Lo spot fa vedere un feto-bambino, con i tratti somatici ancora approssimativi, che d'un tratto comincia a sorridere e a muoversi mimando una danza nel ventre della madre. La quale, per l'appunto, sta bevendo l'acqua effervescente. Sono immagini semplici, che suscitano un moto di tenerezza. E tuttavia… No, non sono immagini così "neutre" come vorrebbero essere. Fanno intuire, piuttosto, che qualcosa è cambiato (o sta cambiando) nell'immaginario collettivo.
La tecnica ci ha permesso di "guardare" - letteralmente - dentro il nostro corpo, di spiarlo in ogni suo processo interno. E ci ha mostrato l'ovulo fecondato, l'embrione, il feto nelle sue varie fasi di sviluppo. Qualcuno ha colto l'occasione per dire: ecco, guardate la Vita! Be', hanno obiettato gli scienziati (e non solo loro), se di vita si può parlare, siamo ancora ben lontani dal poter parlare di "vita umana" o, tanto meno, di "persona", che è tutt'altra faccenda. Ma non è per affrontare questo argomento che sto scrivendo…
Quello che m'interessa, qui e ora, è mettere in evidenza come la tecnica, col semplice mostrarci ciò che prima era impossibile vedere, sta cambiando un comune sentire, senza che ce ne accorgiamo. E il fatto di non accorgersene - di non averne coscienza - può essere fonte di equivoci e confusioni emotive che non sono senza conseguenze quando poi si tratta di legiferare su certi argomenti "sensibili".
Voglio dire insomma che, a forza di "effetti speciali", la nostra fantasia opera dei cortocircuiti che rendono "normale" ciò che fino a poco tempo fa non lo era.
Così, per esempio, non mi meraviglia che solo oggi sia stato infranto un tabù molto pesante e che ciò che ieri entrava nei documentari orroristici dei movimenti per la vita, sia infine entrato anche in una narrazione d'autore. Sto parlando del film sull'aborto del regista rumeno Mungiu, che ha vinto la Palma d'oro al festival di Cannes. Dico subito che il film ( 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni ) a me è piaciuto. Ma non è questo il punto. Il punto è che per la prima volta (a quanto ne so) la macchina da presa, in un racconto d'invenzione (e sottolineo di nuovo questo particolare, a mio parere significativo) si sofferma sopra un feto espulso da un ventre di donna. Un'immagine in qualche modo superflua, non strettamente necessaria allo svolgersi della storia. Un sovrappiù d'orrore. Una scena "supercostruita", per usare le parole di Roland Barthes, in cui il regista «freme per noi, riflette per noi, giudica per noi… così che di fronte a una simile scena ci troviamo defraudati della nostra facoltà di giudizio». E' anche questa la potenza dell'arte. Che dunque non è mai neutra, checché se ne dica. Al suo fondo c'è sempre lo sguardo soggettivo dell'autore o dell'autrice… Ma non è nemmeno di questo che voglio parlare. Vorrei solo farvi prendere nota che il tabù è stato infranto. E questo è il dato che m'interessa.
Insomma, il processo biologico della generazione è entrato a far parte di un bagaglio d'immagini fruibili da tutti noi, che da tutti vengono utilizzate (a fini medici o scientifici, ma non solo) e introiettate. La nostra immaginazione le elabora e rielabora in modo conscio ma anche inconscio ed è ovvio che prima o poi ce le ripresenti sotto forma di racconto e di "spettacolo".
D'altronde non è forse diventata prassi abbastanza comune, tra le coppie dei neo-genitori, attaccare l'ecografia prenatale sull'album fotografico del bambino, come fosse appunto la prima "foto"? E tuttavia non siamo di fronte a una pratica così pacifica come sembrerebbe, se è vero quello che dice Sophie Marinopoulos, psicologa presso il reparto maternità di un ospedale francese. Dice la Marinopoulos che l'ecografia rappresenta sempre, per la madre, una prova difficile: «E' un momento, questo delle immagini, ricco di conseguenze». E non si tratta soltanto della comprensibile ansia di sapere se tutto procede per il verso giusto. E' comunque un'intrusione nel rapporto col figlio immaginario (il "bambino della notte", l'ha chiamato Silvia Vegetti Finzi) e questa intrusione "tecnica", per quanto necessaria, a volte rischia d'interrompere quel difficile processo di pensiero che accompagna il processo biologico e che rende fecondo il legame madre-figlio.
E il problema è che le donne si trovano ad affrontare tutto ciò in solitudine, perché i medici hanno altro a cui badare ed è difficile trasmettere questo stato d'animo al proprio compagno, anche quando l'intesa è ottima. «Il disturbo della rappresentazione del bambino», così lo definisce la Marinopoulos, è quasi impossibile da mettere in parole. Anche se è precisamente quello che bisognerebbe fare, perché è con la parola che possiamo arginare l'invadenza ossessiva, perturbante e ingannatrice delle immagini.
Un tempo, ha detto lo scrittore spagnolo Arturo Pèrez-Reverte in una recente intervista, quando la fotografia era ai suoi inizi, le immagini sembravano più vicine delle parole a una presunta "verità". Ma adesso è palese che le immagini possono essere ancor più bugiarde (e manipolabili). Perciò oggi abbiamo nuovamente bisogno delle parole. Di nuovo le parole tornano a essere necessarie.
E dunque, parliamone.

Minc, Alain. Spinoza, un romanzo ebreo. Milano, Baldini & Castoldi, 2002
recensione di Francesco Mandica
Per chi non volesse essere trascinato nel vortice concettuale e spesso difficile del filosofo maledetto, è da poco uscito in libreria “Spinoza, un romanzo ebreo” del politologo francese Alain Minc. Minc non è certo un progressista, né tanto meno un rivoluzionario, è uno dei vigilantes che tengono sotto controllo il quotidiano francese “Le Monde” di rinomata tradizione gauche. Ma il paradosso spinoziano è bello per questo, il suo pensiero è nomade e transculturale, ebreo, errante è un errore ed un ossimoro. A metà strada fra romanzo fantastico, cronaca, confronto delle due biografie che di Spinoza ci sono giunte (quelle di Colerus e Lucas entrambe in Italia pubblicate da Quodlibet) è passaggio morbido e intrigante per chi si vuole avvicinare alla finestra di casa Spinoza senza per questo voler bussare alla porta del suo magistero filosofico. “Deus sive Natura / Dio ovvero la natura, spiega Minc, «rimbomba come un colpo di pistola in un salotto», il libro fa del credibile real immaginario attorno alla figura ben cesellata di uno Spinoza un po' borghese, un po' guitto ma soprattutto ateo immortale (come brillantemente l'autore lo definisce)