domenica 30 settembre 2007

Corriere della Sera 30.9.07
Il papa e il profitto
I paradossi dell’economia cristiana
di Emanuele Severino


«Il profitto è naturalmente legittimo nella giusta misura, è necessario allo sviluppo economico; ma il capitalismo non va considerato come l'unico modello valido di organizzazione economica». Lo ha detto qualche giorno fa Benedetto XVI. Qualcuno potrebbe obiettare che se il profitto, cioè lo scopo dell'agire capitalistico, «è necessario allo sviluppo economico », non si vede perché si debbano indicare altri modelli validi, auspicandone l'attuazione. Ma sarebbe un'obiezione fuori luogo. Il Pontefice trae infatti una conseguenza del tutto corretta, servendosi di una logica su cui vado richiamando l'attenzione da decenni.
Lo scopo di un'azione è l'essenza stessa di tale azione. Già Aristotele lo affermava.
Quindi se un'azione cambia il proprio scopo, l'azione stessa cambia e solo in apparenza può sembrare la stessa. Il mangiare quando si mangia per vivere è diverso dal mangiare quando si vive per mangiare. Lo stesso si dica del vivere.
Il capitalismo è un agire complesso che però, in ogni sua intrapresa, ha come scopo il profitto, non l'amore del prossimo. Da tempo la Chiesa, pur riconoscendo che «il profitto è naturalmente legittimo », lo condanna quando e in quanto esso voglia essere lo scopo della organizzazione economica. Il profitto è «legittimo» se si mantiene «nella giusta misura»: non come scopo di tale organizzazione ma come mezzo con cui questa realizza lo scopo legittimo, ossia il «bene comune». Un mezzo per realizzare la carità cristiana, l'amore del prossimo.
Ma prescrivendo al capitalismo di avere come scopo il «bene comune» cristianamente inteso, la Chiesa gli prescrive di assumere uno scopo diverso da quello che costituisce l'essenza stessa del capitalismo, ossia di diventare qualcosa di diverso da ciò che esso è. Come ho sempre detto, lo invita ad andare all'altro mondo. Lo stesso invito del comunismo (diversamente motivato). In proposito, i critici, soprattutto di parte cattolica, non mi sono mai mancati. Ma, ora, le surriferite espressioni di Benedetto XVI mi danno ragione.
Infatti, se il capitalismo nella «giusta misura» assume come scopo non più il profitto ma il «bene comune», allora il capitalismo, dice il pontefice, «è necessario allo sviluppo economico» ma è anche diventato un diverso «modello di organizzazione», che, chiosiamo, del capitalismo e del profitto conserva soltanto il nome — come del «vivere» (e del «mangiare») si conserva soltanto il nome quando, invece di vivere per mangiare, si mangia per vivere. E questo diverso modello è qualcosa di «valido», pretende di essere valido oltre alla validità che il capitalismo attribuisce a se stesso. Giusto dire, quindi, che il capitalismo non è l'unico modello valido. Qualcosa, però, è da chiarire. Il capitalismo non va considerato «come l'unico modello valido». Ma — osservo — il capitalismo che la Chiesa riconosce «valido» e «necessario allo sviluppo economico» non può essere quello che assume come scopo il profitto (e che poi è il capitalismo vero e proprio), bensì quello che assume come scopo il «bene comune» e che appunto per questo è un diverso «modello». A quale altro capitalismo «valido» si riferisce allora il pontefice, quando afferma che «il capitalismo non va considerato come l'unico modello valido»? L'impostazione del suo discorso, cioè, non avrebbe dovuto fargli dir questo, ma fargli concludere che l'unico «modello valido» è quello «necessario allo sviluppo economico» che è necessario solo in quanto ha come scopo il «bene comune». È l'economia cristiana. (Anche l'unica scienza valida è quella cristiana — come il pontefice ha affermato).
Quella conclusione sarebbe stata, certo, molto cruda. Ma non era molto più cruda la sua esortazione, fatta ai politici cattolici il giorno prima, a «far sì che non si diffondano nè si rafforzino le ideologie che possono oscurare e confondere le coscienze, e veicolare una illusoria visione della verità e del bene »? Se il pontefice ritiene (e mi risulta che lo ritenga) che il mio discorso filosofico sia una di quelle «ideologie» e se i cattolici obbedienti alla Chiesa avessero la maggioranza nel Paese, io dovrei smettere di farmi sentire. Poco male. Molto importante invece che, se quella maggioranza si costituisse, anche la libertà di opinione e di parola andrebbe all'altro mondo. Fine anche della democrazia.
Fine di qualcosa, tuttavia, che la Chiesa non intende far finire. Ma si tratta di un'intenzione analoga a quella di non voler far finire il capitalismo ma solo il capitalismo che non si mantiene «nella giusta misura». Anche riguardo alla democrazia il pontefice potrebbe infatti dire che la libertà «è naturalmente legittima nella giusta misura» ed «è necessaria allo sviluppo» politico (dove però la giusta misura è data da una libertà non separata dalla verità cristianamente intesa). Sì che l'unico modello valido di organizzazione politica è la democrazia che non assume come scopo la libertà senza la verità cristiana ma quella il cui scopo è l'unione di libertà e di tale verità (dove il profitto non avente come scopo il «bene comune» sta alla libertà senza verità, così come il profitto avente quello scopo sta alla libertà unita alla verità).
Quanto ho detto non ha in alcun modo l'intento di sostenere che, poiché capitalismo e democrazia sono intoccabili, dunque la Chiesa ha torto. Ha l'intento di mostrare la conflittualità tra le forze che oggi guidano il mondo occidentale e che non sussiste soltanto tra Chiesa e capitalismo o democrazia, ma anche tra capitalismo e democrazia, tra società ricche e l'Islam (che ormai si è posto alla testa di quelle povere), e soprattutto tra tutte queste forze da un lato, e dall'altro quella che è destinata a dominarle tutte: la tecnica. Solo partendo da questo tema si può evitare che le discussioni di questi giorni sull'«antipolitica» abbiano a nascondere il senso autentico della «crisi della politica» — che è crisi di tutte quelle forze e dei loro conflitti.

Corriere della Sera 30.9.07
Veltroni «corteggia» Giordano: diversi, però rispettiamoci
di Maria Teresa Meli


ROMA — Walter Veltroni lo vuole fare «strano». Il Partito democratico, si intende. O almeno così annuncia alla Festa di Liberazione per convincere il segretario di Rifondazione Franco Giordano a non diffidare del Pd. E' il primo confronto pubblico tra i due leader da quando il sindaco di Roma è sceso in campo per le primarie.
La platea applaude anche Veltroni, sebbene meno calorosamente di Giordano. Mormora infastidita all'indirizzo del sindaco solo una volta, ma nessuna protesta plateale. Del resto, il primo cittadino della Capitale è lì non per litigare ma per convincere. E si vede. Comincia e prosegue suadente, anche se il leader del Prc lo rintuzza spesso e volentieri. I due non si trovano d'accordo quasi su nulla, ma i toni sono garbati da entrambe le parti.
Veltroni annuncia che il Pd sarà «strano », ossia non sarà moderato, darà risposte secondo schemi non ideologici e quindi potrà anche dare risposte radicali. «Spiegalo a Fioroni e De Mita — risponde Giordano — che invece sostengono che il Pd è il nuovo partito di centro». Ma il sindaco insiste: «Le sinistre non devono essere in conflitto: devono riconoscere le loro diversità e rispettarsi. Evitiamo il vecchio vizio della sinistra per cui chi ha opinioni diverse è un nemico». A Giordano, per carità, questo ragionamento va più che bene, ma, avverte, «evitiamo anche di dare un'immagine per cui l'innovazione sta da voi, mentre da noi c'è qualcuno che sta con testa e piedi rivolti indietro». Veltroni insiste sulla necessità di rimanere uniti e di evitare di far fibrillare il governo. E' un implicito riferimento alle ultime sortite della Cosa rossa, e Giordano gli replica così: «Noi non siamo la Lega della coalizione. E' giusto che ci sia una maggiore unità, ma trovo singolare che questo tema sia posto proprio a noi perché tutte le volte che il governo si è trovato in difficoltà non è mai stato per un voto del Prc o della sinistra».
I due continuano il confronto, sempre in garbato disaccordo: questa volta l'oggetto del contendere è il rapporto con le imprese. Spiega il sindaco di Roma: «Vanno sostenute, danno lavoro. Senza imprese tutto va a gambe all'aria, compresa l'equità sociale. Non si può penalizzarle». Obietta Giordano: «Se voi siete equidistanti tra impresa e lavoro noi non abbiamo dubbi: teniamo i piedi puntati sul lavoro». E ancora: la manifestazione del 20 ottobre. Veltroni sottolinea: «Dobbiamo dare un segno di forte coesione politica, altrimenti diamo spazio alle offensive di vario tipo che hanno come scopo le elezioni anticipate». «Quella del 20 — assicura il segretario di Rifondazione — non è una manifestazione contro il governo». Anche sulla legge elettorale Veltroni e Giordano sono in perfetto disaccordo. Il leader del Prc propone di sposare il modello tedesco. Il sindaco non dice quale sistema preferisce, ma fa capire di avere un debole per il francese e, comunque, stoppa il tedesco, perché, ricorda, non piace a Forza Italia e Alleanza nazionale ed è difficile fare una riforma contro le due maggiori forze della Cdl. Sempre a questo riguardo Veltroni ammonisce: «Attenti al ritorno di un Ghino di Tacco».
Il confronto moderato dal giornalista del Tg1 David Sassoli termina com'era cominciato: sorrisi, strette di mano, ma posizioni assai distanti. Però il reciproco riconoscimento c'è, in vista di una futura alleanza, che, forse, Veltroni dovrà costruire prima del previsto. E chissà se è anche per questo, perché, cioè, il rischio di voto anticipato c'è, che il sindaco di Roma si mostra più che disponibile con il leader di Rifondazione comunista.

Corriere della Sera 30.9.07
Dal 1522 al discorso di Ratzinger a Ratisbona: un conflitto senza fine
Aspettando i barbari con la scimitarra
Crociate e «guerre giuste»: Petacco racconta gli scontri di civiltà
di Dario Fertilio


«Quelli ogni volta ritornano », sembra ammonire in sottofondo la voce profonda di Arrigo Petacco, mentre scorrono le pagine vagamente apocalittiche della sua Ultima Crociata. «Quelli», coloro che periodicamente si ripresentano sotto le nostre mura, armati fino ai denti, sono naturalmente i guerrieri islamici. Cioè i discendenti del Feroce Saladino e dell'impero ottomano, gli avversari irriducibili della «Cristianità».
Lasciate da parte le tragedie del Novecento, in questo saggio l'autore mette la consueta leggerezza narrativa al servizio di un tema insieme antico e moderno: la «guerra santa» fra «noi» e «loro ». E lo colloca fra il 1522, quando i turchi giunsero con la loro cavalleria fino a Ratisbona in Germania, e il 1683, data in cui i giannizzeri si ritrovarono nuovamente sotto le mura viennesi e ancora da Ratisbona la Dieta imperiale proclamò l'ultima crociata. Una successione di eventi cui Petacco conferisce un ritmo incalzante e, soprattutto, quella sua singolare dote icastica che sa dar vita sotto ai nostri occhi a paesaggi e personaggi. Così, ogni volta in cui la Minaccia Islamica si materializza sotto forma di esercito, flotta o squadriglia corsara, pare di sentire nell'aria il martellamento dei tamburi, il passo dei giannizzeri, l'accompagnamento dei flauti, il profumo di incensi nella tenda grande del serraglio, dove impera il sultano e il suo visir decide sulla vita e la morte dei generali valorosi o riprovevoli.
Ci sono pagine, ne L'ultima crociata, capaci di evocare atti di straordinario eroismo (come la resistenza eroica dei veneziani a Famagosta di Cipro, assediati per un anno dai turchi in schiacciante superiorità numerica, finché il governatore Marcantonio Bragadin, una volta arresosi, viene letteralmente scuoiato vivo). Altri passaggi riguardano i particolari del sistema politico e sociale ottomano, inclusa la nascita del «partito dell'harem» e la soppressione abituale dei pretendenti dinastici ingombranti, mediante strangolamento con un filo di seta. Abbondano le descrizioni delle mattanze selvagge — per lo più di mano islamica ma qualche volta anche cristiana — ogni volta che una piazzaforte nemica viene conquistata. Sullo sfondo c'è l'affresco pittoresco e tragico dei «bagni» nel nord Africa, in cui venivano rinchiusi a migliaia i giaurri, i cristiani caduti in schiavitù, luoghi da cui pochi ritornavano e solo dopo essere stati riscattati dai familiari a peso d'oro. E c'è naturalmente la descrizione esaltante della battaglia di Lepanto nel 1571, con la rivincita dei cristiani, un tripudio di colori araldici sulle bandiere, grida degli aguzzini che frustano i rematori, invocazioni ad Allah akbar!, disquisizioni tecniche sull'impiego dei rostri negli arrembaggi, lacrime di gioia o di terrore mentre decine di galee vanno a fondo portando con sè gli schiavi incatenati ai remi.
Tuttavia non bisogna pensare che Arrigo Petacco metta semplicemente in scena un kolossal impressionistico, al puro scopo di conferire spessore cronologico alle vicende di oggi. Tiene a sottolineare, invece, che il famoso discorso di papa Ratzinger a Ratisbona, quello che denunciando le repressioni e l'aggressività islamica mandò su tutte le furie gli integralisti, è stato un segnale politico preciso, e addirittura un «ammonimento profetico». Le crociate, e in genere le antiche mobilitazioni contro i maomettani, furono una scelta di civiltà— sostiene Petacco — e l'unico modo di affermare con coraggio i diritti della persona, il frutto giudaico- ellenistico-cristiano che non accettava di essere schiacciato sotto il tallone del sultano. Furono, in conclusione, «guerre giuste ». Che poi si debba distinguere fra islamismo militare, o terroristico, e cultura islamica, questo L'ultima crociata non lo dice: ed è il capitolo che deve ancora essere scritto.

l’Unità 30.9.07
Indulto: cifre e leggende
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


Le cronache di questi giorni rilanciano la «questione sicurezza». E, con essa, la questione della criminalità. In conclusione, sempre lì si torna a battere: l’indulto. Così che viene da pensare «ah! Quanto sarebbe bello questo paese se l’indulto non ci fosse mai stato. E quanto si vivrebbe meglio...». Certo, il discorso pubblico sulla questione talvolta, grazie al cielo, si fa argomentato e documentato. E non per questo meno approssimativo. Un buon esempio viene dall’articolo di Roberto Perotti pubblicato sul Sole24 Ore di giovedì. «Ma come è possibile - scrive l’autore - trattare una questione così fondamentale per la vita (letteralmente) di tutti gli italiani in modo così superficiale, per non dire incompetente?». Ce lo chiediamo anche noi, già a leggere l’incipit dell’articolo: «Dopo l’indulto le rapine in banca sono raddoppiate». E la causa è, appunto, quel provvedimento di clemenza. Non è certo nostra intenzione sostenere che, sul fronte della criminalità, tutto vada bene. Non siamo ciechi. Ma è, altresì, nostra intenzione informare sulle dimensioni di un fenomeno - quello criminale, appunto - che va duramente combattuto; ma che non presenta, oggi, nei suoi tratti generali e statistici, i caratteri dell’emergenza. Basterebbe, in tal senso, analizzare i dati dell’ultimo rapporto del Viminale sulla sicurezza: nel 2006 gli omicidi commessi nel paese sono stati 621, mentre nel 1991 erano 1901; il tasso di omicidi nel nostro paese, oggi, è sensibilmente più basso di quello registrato in paesi come la Finlandia o l’Olanda; parimenti, in Italia si rubano meno veicoli a motore di quanti se ne rubino in Francia, Danimarca Svezia e Inghilterra; si registrano meno furti in appartamento di quanti se ne registrano in Svizzera, Danimarca, Francia, Belgio. L’elenco potrebbe continuare, assai lungo e altrettanto sorprendente. Solo per dire: possiamo assumere le rapine in banca a esclusivo e, comunque, dominante indicatore della situazione criminale in Italia? Forse no. Perché, altrimenti, giocando spericolatamente con i dati, potremmo affermare che dopo l’indulto - e, dunque, grazie all’indulto? - in Italia il numero di infanticidi è crollato (come confermano le statistiche criminali). Poi Perotti contesta il significato e l’interpretazione dei dati sulla recidiva forniti dal ministero della Giustizia, secondo i quali «a un anno dal provvedimento la percentuale di recidivi nelle carceri è addirittura scesa, dal 44% (dal 48%, per la verità. NdA) al 42%; e solo il 22% degli indultati è tornato in carcere, la metà del tasso di recidività medio tra tutti i reclusi». Secondo Perotti, si tratterebbe di stime che «non hanno nessun significato, statistico o concettuale». Perché? «L’indulto - sostiene l’autore - abbonava fino a tre anni di pena; dunque il dato veramente interessante lo conosceremo tra due anni, quando sapremo quanti reati sarebbero stati evitati se gli indultati fossero rimasti in carcere». Il ragionamento è interessante ma scivoloso: i detenuti di cui parla Perotti sarebbero comunque usciti: non, in blocco, tre anni dopo; bensì, ognuno in virtù e al ritmo del suo residuo di pena da scontare. Che poteva essere di una settimana, di un mese, di un anno. Fino, appunto, a un massimo di tre. Allora, e infine, quei reati sarebbero comunque stati commessi. Solo, un po’ più in là e un po’ alla volta. O forse Perotti suggerisce che qualche mese o qualche anno in più di galera avrebbe dissuaso quegli stessi soggetti dal tornare a delinquere? Così fosse, il suggerimento è più che discutibile: come dimostra una ricerca condotta da Francesco Drago, Roberto Galbiati e Pietro Verteva, pubblicata dal Sole24 Ore nel luglio scorso. Scrive poi Perotti: «Già ora sappiamo che l’indulto ha certamente causato più reati: perché abbia ragione il ministro, ai 6.200 reati accertati commessi finora dagli indultati dovrebbe corrispondere una diminuzione di pari entità di reati commessi da altri soggetti, e questo proprio grazie all’indulto». Ma qualcuno ha mai sostenuto che l’indulto potesse dissuadere la popolazione dal delinquere? O qualcuno ha mai affermato che una parte di quei detenuti liberati non potesse reiterare i reati? Non ci risulta proprio. «Il tasso di recidività tra gli indultati - scrive Perotti - è basso rispetto alla media semplicemente perché si sta confrontando la percentuale degli indultati recidivi entro un anno con la percentuale di reclusi recidivi nell’arco di un’intera vita». Non è così. La media è tarata su un periodo di cinque anni dall’uscita dal carcere; e il primo anno è «fisiologicamente» - così sembrano suggerire le poche statistiche disponibili - quello che fa registrare un tasso di recidiva più alto. Dato confermato anche nel caso in questione: il tasso di recidiva, negli ultimi mesi, si va assestando su valori decrescenti. In tal senso, gli effetti dell’indulto li potremo misurare da qui a cinque anni; al momento possiamo solo ricorrere a proiezioni, in buona misura confortanti. Anche perché quella percentuale (22%) ad oggi include anche il rientro in carcere di chi godeva delle così dette «misure alternative»: ovvero di chi stava scontando la sua pena fuori dal perimetro carcerario. Così ancora Perotti: «Per rendersi conto di quanto sia assurdo pensare che l’indulto abbia contribuito a far scendere il tasso di recidività nelle carceri, è facile mostrare come quest’ultimo potrebbe scendere anche se tutti gli indultati fossero incarcerati nuovamente: basta che il tasso di recidività tra i nuovi incarcerati non indultati sia molto basso». Ma di cosa stiamo parlando?
Non esiste penalista, giurista, sociologo o politico che abbia mai detto, in stato di sobrietà, che l’indulto dovesse servire a diminuire i tassi di recidiva. Piuttosto, l’indulto è servito a sanare una situazione di gravissima illegalità e (questa sì) di emergenza: 62.000 detenuti stipati in strutture che ne possono accogliere (al massimo) 42.000. Una situazione di palese violazione delle leggi e dei regolamenti penitenziari, tale da determinare condizioni intollerabili per agenti di polizia penitenziaria e tutto il personale, oltre che per i reclusi. La soluzione che infine Perotti suggerisce (niente condoni, costruiamo più carceri), rispetto all’emergenza di un anno fa, risulta semplicemente impraticabile. Per costruire un carcere e renderlo operativo, dal reperimento dei fondi al progetto, dalla messa in opera alla sua ultimazione, passano, di norma, tra i 10 e i 14 anni. Nel momento in cui l’indulto è stato varato, i tassi di carcerizzazione lasciavano prevedere che nel giro di tre anni, i detenuti, nel nostro paese, avrebbero superato le 80.000 unità. E di lì, poi, sarebbero cresciuti ancora, sino a cifre ancor più abnormi: un disastro. Oggi, invece, siamo ben lontani dai dati pre-indulto e le carceri non sono affatto nuovamente «quelle di prima»: quasi 20.000 unità in meno di un anno fa (si consideri che con l’indulto del ’90 gli effetti di deflazione furono riassorbiti e annullati in capo a un solo anno). Il punto è che senza la riforma del codice penale e delle leggi che producono carcere non necessario (la «Bossi-Fini» in primo luogo), quello sconto di pena - lo abbiamo scritto per primi - rimane una misura straordinaria, i cui effetti sono destinati a essere progressivamente annullati. Spetta alla politica operare per non vanificare questa occasione.
E, a tal proposito, un’ultima noticina: la si smetta di parlare dell’indulto come del parto maligno del genio criminale del governo e del ministro della Giustizia. Quella misura è stata approvata dal Parlamento con una maggioranza superiore all’80%: e con il voto di Forza Italia e dei Ds, dell’Udc e della Margherita, di Prc e di esponenti dell’Italia dei valori, del PdCI e del capogruppo di Alleanza nazionale al Senato. E il Capo dello Stato ha pronunciato, su quel provvedimento, parole assai sagge. Promemoria.

l’Unità 30.9.07
30 settembre 1977: spari su Walter
La lotta politica diventa una guerra
di Roberto Monteforte


Quel giorno si accese la miccia della violenza
Vendette e morti ovunque, a Roma e altrove

Corteo della sinistra radicale. slogan contro Biagi e sindacati
«Walter un ricordo senza pace»: questo lo striscione che ha aperto il corteo che da piazzale degli Eroi ha raggiunto a via delle Medaglie d'oro il punto dove il giovane di Lotta Continua trent’anni fa venne ucciso dai neofascisti. Tra gli organizzatori Rifondazione comunista, Action, l’ Associazione Walter Rossi, Comunisti italiani. È stata posta una nuova targa sulla lapide che ricorda il giovane antifascista e scanditi slogan contro la legge Biagi ed i sindacati.

Il Comune di Roma inaugura il monumento
L’amministrazione capitolina con gli assessori alla Cultura Silvio Di Francia, all’Ambiente Dario Esposito, all’Urbanistica Roberto Morassut inaugura questa mattina alle ore 11 il monumento dedicato a Walter Rossi nella piazza dedicata al giovane di Lotta continua vittima trent’anni fa della violenza fascista. Alla cerimonia partecipa, insieme ai famigliari e all’associazione Amici di Walter Rossi, l’assessore alla Cultura della Provincia di Roma Vincenzo Vita.

Una raffica di colpi di pistola sparati per uccidere stroncano la vita di Walter Rossi, vent’anni, militante di Lotta Continua. Volantinava nei pressi della sezione missina della Balduina a viale delle Medaglie d’Oro per denunciare l’escalation della violenza neofascista impunita. Nella Capitale vi era stata una settimana di brutali aggressioni squadristiche, culminate il giorno prima con l’agguato a piazza Igea contro un gruppo di giovani di sinistra. Da una Mini Minor beige in corsa vengono sparati numerosi colpi di pistola, a terra gravemente ferita resterà una giovane militante della sinistra extraparlamentare, Elena Pacinelli. Il giorno dopo Walter e i giovani antifascisti organizzano una risposta «politica», il volantinaggio nel quartiere. La polizia presidiava massicciamente la zona. Vi era un blindato anche a pochi metri dal giovane di Lotta Continua e a poche centinaia di metri dalla sezione missina della Balduina. È da lì che parte l’aggressione. Ma nessuno interviene. C’è chi spara. Walter viene colpito a morte. Chi ha sparato ha preso la mira con cura, in ginocchio. Lo ha colpito alle spalle. Quell’omicidio, come tanti altri, non avrà un colpevole anche se qualche anno dopo il terrorista nero «pentito» Cristiano Fioravanti ha accusato dell’omicidio Alessandro Aliprandi che nel 1981 morirà in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine.
Era il 30 settembre 1977. Si accende «la miccia della violenza» come denuncerà l’allora sindaco di sinistra della capitale, Carlo Giulio Argan. Monta la protesta antifascista che dalla capitale si estenderà in tutta Italia. Torino, Bologna, Monza, Padova, Firenze, Trieste, Brescia. Rabbia e voglia di vendetta, domanda di giustizia e di verità si intrecciano con la denuncia delle coperture politiche di cui ha goduto la violenza neofascista. Reazioni e contro reazioni. Erano gli anni della pistola facile, dell’agguato sotto casa, delle spranghe e delle molotov, dei pestaggi e del sangue. Anni di odio. Anni di piombo. Ma anche della Legge Reale, di Cossiga ministro degli Interni scritto con la K (Kossiga). Vi era stata Bologna occupata dal «movimento». Aree della sinistra extraparlamentare che scivoleranno verso l’eversione terroristica. Il terrorismo nero e le stragi. Altro sangue scorrerà. Segnerà un’intera generazione, inquinando quella sua domanda generosa di protagonismo, di cambiamento e di giustizia. La storia sarà diversa e più cupa. Fare politica, partecipare alle lotte studentesche in quegli anni diventerà un rischio. La democrazia subirà prove durissime che culmineranno pochi mesi dopo, il 16 marzo 1978 con il rapimento e l’omicidio del presidente della Dc Aldo Moro e l’uccisione della sua scorta da parte delle Brigate Rosse. C’è chi ha lamentato la criminalizzazione di un’intera generazione. È tempo di capire. Sono trascorsi 30 anni, ma è una stagione da non dimenticare. La città di Roma già nel 1980 ha dedicato a Walter Rossi proprio quella piazza Igea che lo ha visto «militante». Un monumento lo ricorda. Ma per quanti oggi quello slargo è una piazza come tante altre?
Occorre ricordare per capire. Ne è convinto il sindaco di Roma, Walter Veltroni particolarmente impegnato a ricucire quegli strappi dolorosi della memoria. «Walter Rossi, vittima trent'anni fa della violenza fascista, rappresenta per Roma una ferita non rimarginabile, l'ennesima di un periodo buio e folle in cui un cieco furore ideologico generò tanto odio e troppo dolore» afferma annunciando per oggi l’omaggio della città al giovane di sinistra e il completamento del restauro del monumento a lui dedicato. «Non c'era nessuna buona ragione, in quella violenza. Nessuna. Di qualunque matrice fosse - ha aggiunto il sindaco -. Servì solo, e del tutto inutilmente, a uccidere con ferocia. Questa è l'unica triste realtà». Il tempo trascorso rende ancora più chiaro quanto «quella violenza» sia stata « vuota e inutile». Cosa resta di quegli anni terribili - si domanda - se non solo giovani vite spezzate, figli che non ci sono più, un dolore che non si cancella? Da qui il dovere della memoria: «Affinché quell'assurda contrapposizione, quel clima di tensione e di paura, non abbia oggi più alcuna appendice».

il manifesto 30.9.07
Roma 1977 Settembre, ultimo atto

Il clima di quello scorcio di settembre del 1977 era a Roma molto teso. Le azioni fasciste contro militanti della sinistra si susseguono a ritmo serrato. Il 27 due studenti sono feriti a colpi di arma da fuoco all'Eur e la sera del 29 Elena Pacinelli, 19 anni, è colpita da tre proiettili in piazza Igea, luogo di ritrovo dei giovani del movimento. Per venerdì 30 viene organizzato un volantinaggio di protesta nel quartiere della Balduina. In viale Medaglie d'Oro i compagni di Elena, vedono un blindato della polizia avanzare lentamente verso di loro, seguito da un gruppo di fascisti che lo utilizza come scudo. Tra costoro c'è anche Andrea Insabato, autore nel 2000 di un attentato contro «il manifesto». Dopo aver fatto fuoco contro i giovani di sinistra i missini arretrano, mentre gli agenti si scagliano su chi tenta di soccorrere Walter Rossi, 20 anni, militante di Lotta continua colpito alla nuca: arriverà privo di vita in ospedale.
Nessun provvedimento sarà preso nei confronti dei poliziotti presenti. Il fermo dei missini avverrà solo un'ora e un quarto dopo gli spari. I 15 arrestati, tra i quali Riccardo Bragaglia, risultato positivo al guanto di paraffina, saranno ben presto scarcerati e prosciolti dall'accusa di omicidio volontario e tentato omicidio, e in seguito da quella di rissa aggravata, contestata anche a quattro compagni di Walter. Il missino Enrico Lenaz, arrestato il 4 ottobre, tornerà libero dopo pochi giorni. Nel 1981 alcuni pentiti indicarono nei fratelli Fioravanti e in Alibrandi i possibili assassini. Cristiano Fioravanti, arrestato per appartenenza ai Nar, ammise di essere stato presente ai fatti armato di una pistola, a suo dire difettosa, fornitagli da Massimo Sparti. Attribuì ad Alessandro Alibrandi il colpo mortale e a Fernando Bardi la detenzione dell'arma omicida. In seguito alla morte di Alibrandi in uno scontro a fuoco con la polizia il procedimento penale fu archiviato. Fioravanti venne condannato a 9 mesi e 200 mila lire di multa solo per i reati concernenti le armi.
La vicenda giudiziaria si è definitivamente chiusa, nel 2001, con l'incriminazione di tre compagni di Walter per falsa testimonianza e il non luogo a procedere, per non aver commesso il fatto, nei confronti di Cristiano Fioravanti, che ora vive libero, sotto altro nome, protetto dallo Stato. Ieri gli amici e i compagni di Walter Rossi lo hanno ricordato con un corteo.

il manifesto 30.9.07
Storie L'omicidio del militante di Lotta continua, trent'anni dopo

«Walter Rossi, ricordo senza pace»
Ricordo di un omicidio politico. Gli agguati fascisti, la mobilitazione dei militanti di sinistra, quello sparo alla testa, sotto la «copertura» della polizia. Un compagno di Walter racconta il 30 settembre 1977 a Roma nord
di Paola Staccioli

Quello che segue è uno stralcio del racconto che l'autrice ha dedicato a Walter Rossi utilizzando un colloquio con un compagno di Walter. Tratto da «In ordine pubblico», pubblicato da «Carta», «Liberazione», «l'Unità» e «manifesto» nel 2003.
«Forse le emozioni hanno alterato alcuni particolari, eppure a me sembra di ricordare tutto alla perfezione. Avevamo deciso di fare un volantinaggio di protesta per il ferimento di Elena. Eravamo una trentina tra compagni e compagne, furiosi ma anche disorientati. Non era la prima volta che ci sparavano addosso, era già successo durante scontri di piazza, ma per la prima volta eravamo vittime di un attentato premeditato. Sconvolti dall'emozione, non riuscimmo a fare una valutazione razionale. Ci eravamo incontrati verso le sette di sera, avevamo la certezza che l'aggressione fosse partita dalla sede missina della Balduina».
Una sezione famigerata. Assalti contro militanti della sinistra, raid contro le scuole, racket nei confronti dei commercianti. La polizia tollerava, le inchieste giudiziarie si arenavano. Dopo la morte di Walter furono in molti a chiedere lo scioglimento del Msi. Non se ne fece nulla, e i fascisti uccisero ancora.
Elena Pacinelli era stata ferita in piazza Igea la sera del 29 settembre. Raggiunta da tre colpi, dei cinque sparati da una macchina. Un suo compagno era stato salvato da una borsa a tracolla che aveva fermato un proiettile. I feritori scomparvero nel buio, senza mai uscirne. Poi Elena si ammalò, e morì pochi anni dopo.
«Eravate preparati per uno scontro?» chiedo. «No. La nostra manifestazione era stata pubblicizzata e ci aspettavamo una perquisizione. E infatti due macchine civetta della Digos fermarono alcuni di noi. Notammo anche altri veicoli, sicuramente eranopoliziotti in borghese».
«Vi siete avvicinati alla sezione?»
«Iniziamo a distribuire volantini risalendo viale Medaglie d'Oro, fermandoci più o meno a metà fra piazzale degli Eroi e la sede, perché qualcuno ci aveva avvertito della presenza massiccia di fascisti e polizia. Poi torniamo a Pomponazzi. Pochi minuti e arriva la notizia che due compagni sono stati aggrediti a piazza Giovenale. Un po' più su, verso la Balduina. Decidiamo di andare a vedere, anche se qualcuno di noi è contrario. Abbiamo la sensazione che i fascisti ci stiano aspettando. Ci muoviamo in una ventina. Arrivati all'incrocio con via Marziale, la maggior parte prosegue verso piazza Giovenale mentre alcuni si fermano, per evitare che i fascisti possano isolare chi ha raggiunto la piazza. I compagni tornano indietro senza aver notato tracce di aggressioni. In quel momento da una stradina laterale ci piovono addosso sassi e bottiglie vuote. Rispondiamo con quello che troviamo. C'è un veloce lancio di oggetti senza danni per nessuno. Intanto noto che il blindato, prima fermo davanti alla sede missina, si muove lentamente verso di noi, a luci spente. Due poliziotti, a piedi, lo affiancano, mentre un gruppo di fascisti, forse 20 o 25, lo segue, facendosene schermo per nascondersi alla nostra vista. Due o tre persone avanzano sul marciapiede opposto. Mi rendo conto che sta per succedere qualcosa. Dico a tutti di rientrare senza correre, per non lasciare compagni isolati. Avevamo iniziato a spostarci verso piazzale degli Eroi quando sento tre spari. Mi copro dietro una macchina».
Fa una breve pausa carica di emozione poi riprende: «È in quel momento che sento urlare 'hanno ferito Walter'. A ripensarci ora mi sembra una voce femminile, ma non c'erano compagne con noi. Mi volto e vedo Walter disteso a terra. Ha un foro nella fronte e un occhio semiaperto, sotto la sua testa si allarga veloce una macchia di sangue. Mi chino su di lui, respira ancora. Sono frastornato. I manganelli dei poliziotti mi riportano alla realtà. Hanno fermato il blindato e sono scesi caricandoci. Li affrontiamo disperati, riusciamo a bloccarli. Qualcuno grida, vicino a me un compagno si batte con un poliziotto. Urlo a un celerino di chiamare l'ambulanza, mi risponde che non hanno radio a bordo. Corro verso il bar per telefonare, una signora mi dice che già è stato fatto. Non riesco ad aspettare. Fermo un furgone, carichiamo Walter. Chiedo ai poliziotti una macchina che ci faccia strada, ottengo solo che due di loro salgano con me. Sto dietro con un celerino, la testa di Walter poggiata sul mio braccio. L'altro, seduto accanto al guidatore, si sporge fuori e agita nel traffico il manganello. Arrivati all'altezza di via Candia, Walter ha un ultimo orribile respiro. Non dico nulla. Il poliziotto accanto a me grida 'è morto', il furgone è bloccato. Lascio Walter, scendo e apro un varco fra le macchine. Non ce la faccio a risalire. Resto qualche momento inebetito, poi mi spruzzo in faccia l'acqua fredda di una fontanella. Non so che fare».
Senza nemmeno far caso al venditore che si è accostato al nostro tavolo con un enorme mazzo di rose, lui prosegue: «I ricordi successivi sono confusi. Avevo paura di ritrovare i compagni, di dare loro la notizia. Sono tornato nel luogo in cui hanno sparato a Walter, passando in mezzo ai poliziotti e arrivando a pochi metri dalla sede missina. C'erano due o tre fascisti fuori. Uno di loro fa un ghigno, poi si chiudono dentro. Incontro alcuni compagni, andiamo all'ospedale.
Mi confermano che Walter è morto, ed è come se lo sapessi per la prima volta».

l’Unità 30.9.07
«C’è chi dice no», ieri a Firenze Rsu in corteo
Alcune migliaia di persone hanno partecipato alla manifestazione «autoconvocata» dai lavoratori toscani
di Francesco Sangermano


Tra i partecipanti, Cremaschi (Fiom) e Rizzo (Pdci)
Nessuno slogan contro governo e sindacati

LA CITAZIONE d’apertura era per Vasco Rossi: «23 luglio, c’è chi dice no». Scritta rossa, striscione bianco di 5 metri. La firma: i delegati e le delegate della Toscana.
La manifestazione autoconvocata che tanto mal di pancia ha scatenato in seno alla Cgil (e che anche ieri è stata commentata negativamente sia dalla Camera del lavoro fiorentina sia dalle segreterie regionali di Cgil, Cisl, Uil e Fiom) è sfilata ieri mattina per le strade del centro di Firenze. Diecimila per gli organizzatori, duemila per la questura e una verità che, nel mezzo, sta più vicina al secondo dato. Un corteo silenzioso, composto. «Perché per manifestare la nostra contrarietà basta la nostra presenza in piazza» hanno spiegato gli organizzatori. Scandito dalle bandiere rosse della Cgil e dei Cobas, dagli striscioni di Lavoro e Società (uno per ogni provincia toscana e uno regionale), da qualcuna (poche, in realtà) della Fiom e da quelle di partiti (Prc, Pdci) e gruppi politici di estrema sinistra (Carc compresi). In mezzo, poi, anche Giorgio Cremaschi (segretario nazionale della Fiom), Marco Rizzo (parlamentare europeo del Pdci), Marco Ferrando (ex Prc) e il coordinatore nazionale di Lavoro e Società Nicola Nicolosi. Ovvero colui al quale Guglielmo Epifani, nei giorni scorsi, aveva scritto una durissima lettera in cui lo accusava di aver «superato i limiti» imposti dall’appartenenza al sindacato e gli chiedeva di fatto di rinunciare a essere in piazza a Firenze. «Gli inviti - ha detto Nicolosi - si possono accettare o declinare. E io ho deciso di accettare quello dei lavoratori. Quanto al superamento dei limiti, lo statuto della Cgil dice che è possibile esprimere il proprio pensiero con ogni mezzo di diffusione. Una manifestazione è uno di questi mezzi». Su un punto, però, Nicolosi vuole essere estremamente chiaro: «Questa non è una manifestazione contro il sindacato». Ma tra i lavoratori, i precari e gli studenti la parola d'ordine è «un fermo e deciso “no” a un accordo che peggiora le condizioni dei lavoratori, non supera il precariato, non cancella la legge 30 e non abolisce lo scalone Maroni». Temi che snocciolano in serie le quindici persone (anche in questo caso lavoratori ma anche studenti e pensionati) che salgono sul palco allestito in piazza Strozzi. Concetti che fa propri anche Cremaschi contestando il metodo con cui si sta andando verso il referendum: «Nelle assemblee - dice - si racconta quello che si sarebbe voluto ottenere, non quello che è stato ottenuto. Tra le due cose c’è una profonda differenza e, se dovesse passare il sì, i lavoratori lo vivranno con profonda delusione. In un momento di crisi di fiducia nella politica non possiamo permetterci anche una crisi di fiducia verso il sindacato». Esplicitamente critico con le scelte del governo, invece, è stato Rizzo che ha spiegato la sua presenza in piazza «per far rispettare l'accordo di programma di Governo». Per Rizzo, infatti, «la regola e la norma, in Italia, è che quando siamo all’opposizione si dicono certe cose, mentre quando siamo al governo se ne fanno altre».

l’Unità Firenze 30.9.07
Accordo sul welfare, la marcia di quelli che dicono no
A Firenze il corteo di alcune migliaia di lavoratori, pensionati e studenti. «Vi abbiamo votato, abbiamo il diritto di dirvi cosa vogliamo facciate»
di Francesco Sangermano

Fiom spaccata: presente Cremaschi ma poche tute blu nel corteo e critiche dalla segreteria regionale. Cgil, Cisl e Uil: «Una manifestazione che divide»

Uomini e donne, studenti e pensionati. Uniti dalla volontà di dire “no” all’accordo su welfare, lavoro e pensioni siglato dai sindacati con governo e Confindustria lo scorso 23 luglio. «Otto-dieci mila» secondo gli organizzatori, duemila per la Questura, che hanno attraversato il centro fiorentino da piazza Indipendenza a piazza Strozzi.
I COLORI Tante bandiere rosse. Della Cgil e dei Cobas. Delle Rdb e dei Cub. Di Prc e del Pdci. Eppoi di tanti gruppi politici di estrema sinistra compresi i Carc. Poche, invece, quelle della Fiom: una decina di metalmeccanici venuti da Asti, alcuni delegati di aziende toscane e lo striscione della Sirti. I più presenti sono quelli di Lavoro e Società, la componente a sinistra della Cgil. Uno striscione per ogni provincia e uno regionale che sfilano subito dietro al vessillo d’apertura («23 luglio, c’è chi dice no») firmato da quei “delegati e delegate della Toscana” che si sono autoconvocati per promuovere questa (l’unica) manifestazione per il “no” al referendum.
LE VOCI «Il nostro è un giudizio di merito sindacale» dice Andrea Montagni, membro della segreteria fiorentina della Cgil e di Lavoro e Società. «Non siamo contro la Cgil, ma interpretiamo l’opinione di chi non è d’accordo con questa firma». «Riprenderemo il confronto dentro l’organizzazione - aggiunge Rossano Rossi della segreteria regionale - ma da oggi la nostra protesta va avanti ancora con più forza». In mezzo, nella marcia silenziosa, si scambiano opinioni sull’accordo. «La legge 30 non è stata rivista ma peggiorata, il lavoro precario non eliminato ma reiterato e la defiscalizzazione degli straordinari è un aiuto alle aziende, non ai lavoratori» dice Monica Piccini, della Rsu Università. Vittorio, degli studenti di sinistra, si concentra sul tema del precariato: «L’accordo non lo risolve. E questo problema è destinato ad accompagnare il nostro futuro». I ragazzi di www.ilrestodelcremlino.it (una settantina, provenienti dalla zona del cuoio nel pisano) affidano il loro messaggio a un adesivo: «Vincono sempre loro. E io, giovane lavoratore, io operaio specializzato, io mamma di gigino, io precaria, io licenziato, io sempre peggio. Ma se solo vincessero i no...». Alessandro Bellucci, segretario aziendale del circolo ferrovieri Spartaco Lavagnini, taglia corto: «Questo accordo va contro il programma dell’Unione, contro quello per cui hanno chiesto il nostro voto. Oggi noi ci sentiamo traditi»
LA PASIONARIA Nel palco di piazza Strozzi si succedono quindici interventi. Andrea, Natalino, Davide, Mauro, Massimo, Costanza, Riccardo, Piero, Bernardo, Luciano, Savino, Federica, Luca, Giacomo. E Angela Recce della Rsu Piaggio. Il suo è l’intervento più forte, accorato, applaudito. «Vi abbiamo votato e abbiamo il diritto di dirvi cosa vogliamo che facciate» urla. «Vi manteniamo tutti, politici e sindacalisti e vogliamo contare. Meno male che c’è la Fiom che si muove per dire no. E se anche noi vi diciamo no, vi diciamo che non vi votiamo più!». Cremaschi (segretario nazionale della Fiom) l’abbraccia e le sussurra a un orecchio: «Mi hai fatto commuovere, sei stata bravissima».
POLEMICHE «Avevamo già detto, e così si è dimostrato, che la manifestazione era sbagliata perché produceva divisioni e metteva a rischio l’autonomia del sindacato. Per questo era destinata all’insuccesso». Cgil, Cisl e Uil toscane non hanno mancato di commentare duramente la manifestazione di ieri invitando i lavoratori scesi in piazza a lavorare ancora insieme. Anche la segreteria regionale della Fiom Toscana, in un’altra nota approvata con 6 voti a favore e uno contrario, considera «inopportuna e sbagliata» la manifestazione. Di «manifestazione burocratica, non di popolo, con pochi lavoratori in piazza» parla invece Mauro Fuso, segretario generale della Camera del Lavoro Metropolitana di Firenze, che punta il dito sul Pdci: «Un partito in contraddizione con se stesso dato che nella notte ha dato il suo assenso al documento finanziario per il 2008 e al collegato alla Finanziaria che, dopo il voto di lavoratori, pensionati e precari recepirà l’accordo sul welfare». Sempre in difesa dell’accordo si è infine espresso il candidato alla segreteria toscana del Pd, Andrea Manciulli, che ha garantito il sostegno del suo partito per far vincere il “sì” al referendum.

Repubblica 30.9.07
Il ministro della Solidarietà: così com'è non può combattere la precarietà
Ferrero: "Quel patto verrà cambiato intanto non è più in Finanziaria"
di Umberto Rosso


ROMA - Ministro Ferrero, ma lo slittamento del welfare era previsto, come dice il suo collega Damiano?
«Noi abbiamo chiesto che il protocollo non fosse dentro la Finanziaria. E l´abbiamo ottenuto. Punto. Stare a discutere se fosse o meno già previsto, mi pare uno sport inutile. Infantile».
La disputa però ha tutta l´aria di una battaglia politica, un modo per riconoscere o meno un punto a favore di Rifondazione.
«Sinceramente? Chissenefrega. Damiano dice che non è cambiato nulla nell´iter? Io non so che cosa avessero previsto. In ogni caso, a me interessa migliorare nel merito quell´accordo. Anche se non esistesse Rifondazione, ci sono cose che gridano giustizia».
Per esempio?
«Il tetto dei lavori usuranti fissato in cinquemila persone all'anno. Ridicolo. Se è un diritto soggettivo, non puoi stabilire uno sbarramento».
Il tetto deve saltare, tanto per cominciare...
«Certo. Il cuore del problema però è la precarietà. Quell´accordo deve trovare un´anima, come alla fine è successo con la legge di bilancio. Secondo me è la seguente: la precarietà in Italia è troppo alta, tagliamola».
A Prodi, non l´avete spiegato a luglio?
«Il governo non è andato a trattare, con le parti sociali e con la sinistra, cercando un punto di equilibrio rispetto a quel che diceva il programma dell´Unione. Io, come del resto Mussi e gli altri ministri della sinistra, abbiamo saputo tutto a cose fatte».
Non c´è pari dignità fra Pd e Cosa rossa nel governo?
«Se il governo pensava ad un protocollo intangibile, avrebbe dovuto consultarci prima. Adesso, non può ignorare un terzo della propria coalizione, convocarci solo per alzare la mano».
I sindacati però hanno firmato il protocollo.
«Non mi pare che la Cgil lo consideri una Bibbia. Come sulla Finanziaria. Epifani dice che va bene però muove lo stesso alcuni rilievi: manca il fiscal drag, la tassazione delle rendite. La Cisl uguale».
Quindi?
«Quindi è del tutto possibile migliorare, puntare ad un disegno di legge più avanzato».
E le sorti del governo?
«Ha davanti a sé un´unica strada per evitare che tutto salti per aria: rompere con il liberismo, andare incontro agli ultimi. In questo è il nostro ruolo: tirare, tirare, tirare il governo. Ma in fondo è una questione di buon senso: se tagliamo un po´ di precarietà, un milione di persone si lamenta, ma trenta milioni sono contenti».
Trenta milioni?
«Mettendo insieme i precari, le loro famiglie, l´indotto vario diciamo così, non siamo mica tanto lontani dalla realtà».
Se nel referendum in fabbrica vince il sì all'accordo, Rifondazione si accoda?
«E se vincessero i no? Quello sì che sarebbe un grande problema per i sindacati e per il governo».
Finisce così secondo lei?
«Veramente penso che alla fine prevarranno i sì. E ne terremo conto, certo. Che ci direbbe quel voto? Che la direzione di marcia presa dal governo viene condivisa, nel complesso, ma non credo che i lavoratori siano poi contrari ad andare avanti su singoli punti. Il miglioramento del protocollo non ne è impedito».
Per cui, in piazza comunque il 20 ottobre.
«Sicuramente. Noi stiamo al governo ma la nostra gente è sconfitta. Le manifestazioni servono anche a cambiare i rapporti di forza. Montezemolo non ha bisogno di scendere in piazza».

Liberazione 30.9.07
Polemica con uno scritto di Ronchey che ci riporta al clima degli anni 30
Il Corriere e l'invasione dei razzisti
di Piero Sansonetti


Ieri il Corriere della Sera ha pubblicato un articolo di fondo firmato dal decano dei giornalisti italiani, Alberto Ronchey. Prima pagina, due colonne in testata. Titolo: "L'invasione dei nomadi". Per nomadi (un po' grossolanamente, perché in grandissima parte l'aggettivo è sbagliato) Alberto Ronchey intende il popolo rom, cioè quella parte del popolo rom che è sopravvissuto all'ecatombe nazista. I nazisti, come è noto, sterminarono il popolo ebraico e il popolo rom perché consideravano gli ebrei e i rom due razze inferiori. Lo sterminio fu preceduto da robuste campagne di stampa, organizzate dal ministro della cultura Joseph Goebbels. L'establishment politico e intellettuale italiano partecipò a questo sterminio, o almeno lo sostenne, con le leggi speciali sulla discriminazione razziale e aderendo alle campagne di stampa e di opinione pubblica ispirate da Goebbels. In questi mesi stiamo assistendo a qualcosa di analogo - vere e proprie campagne di denigrazione e di odio, organizzate, così come fu allora, da settori del potere politico e dagli intellettuali. L'articolo di Ronchey segna un salto di qualità in questo quadro. E' un articolo pienamente e lucidamente razzista. Afferma il principio secondo il quale il popolo rom è comunque costituzionalmente dedito al furto, e perciò non integrabile in un paese civile. E chiede che il nostro governo chiuda le frontiere all'immigrazione dei rom che in «Italia sarebbero già moltitudini e arrivano ancora...» .
Su che basi, Ronchey, costruisce le sue tesi? Sul racconto di Indro Montanelli di un suo viaggio del 1939 a seguito di un gruppo di rom (che Montanelli chiama, spregiativamente, zingari). Possibile che Ronchey non ricordi che Indro Montanelli nel 1939 era fascista, che in quegli stessi anni scriveva sugli ebrei le stesse malevolenze dedicate ai rom, che "possedeva" una schiava che aveva acquistato a pochi soldi in Abissinia (quattordicenne), e che dunque quel testo di Montanelli è una squisita testimonianza del razzismo ufficiale fascio-nazista? Esprimere un pacato giudizio sui rom basandosi sulla testimonianza di Montanelli del '39 è come costruire una tesi sui Sioux facendosi forte delle opinione del generale Custer.
Tutte queste osservazioni, comunque, restano nell'ambito della polemica politica. Come quella che abbiamo avuto l'altro giorno col sindaco Veltroni, il quale chiedeva un strappo costituzionale (e anche alle regole della comunità europea) per potere espellere dall'Italia, su semplice ordine del prefetto, i rom che - per disgrazia - in quanto rumeni dovessero risultare cittadini europei (e Ronchey, nell'articolo di ieri, appoggia questa alzata di ingegno di Veltroni).
Al di là della polemica giornalistica, però, ci sono i codici, le norme e i regolamenti. Per noi giornalisti c'è un regolamento interno, approvato dall'"Ordine" (ma purtroppo mai rispettato) che proibisce la pubblicazione di articoli nei quali si esprimano giudizi sulle persone fondati sulla presunta appartenenza razziale di queste persone. Ronchey l'ha violato. ma temo che l'ordine non interverrà. Poi esistono anche le leggi dello Stato che in teoria dovrebbero essere inviolabili. Ne citiamo una, del 1993, che fu scritta dall'ex presidente del Senato (democristiano) Nicola Mancino. Nel suo primo articolo, dice così: «E' punito con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi» . Ora, naturalmente, si può leggere e rileggere finché si vuole l'articolo di Ronchey e stabilire se contiene o no elementi di odio razziale. A me sembra che li contenga, ma è solo il mio parere. E' però indiscutibile che nel momento nel quale afferma che è impossibile l'integrazione e che bisogna bloccare, o anche solamente limitare, il flusso migratorio del popolo rom (anche quando questo popolo è in regola con la cittadinanza europea ) Ronchey invita a commettere un atto di discriminazione razziale, e perciò infrange clamorosamente la legge-Mancino. Non c'è la possibilità di smentita.
P.S. Noi - che notoriamente siamo un po' anarchici - restiamo contrari al carcere, soprattutto per reati d'opinione. Non so cosa pensino quelli che invocano sempre la legalità senza eccezioni...

Liberazione 30.9.07
Veltroni e Giordano dialogano su due idee diverse di società
Faccia a faccia a Roma, a "Liberafesta", intervistati da David Sassoli
di Frida Nacinovich


Franco Giordano e Walter Veltroni. Al teatro Italia ci sono tre quarti di Unione: la sinistra ha la voce del segretario di Rifondazione comunista, il centro quella del leader in pectore del Partito democratico. La lunga notte della Finanziaria è appena passata, un ostacolo è stato superato, il cammino del governo Prodi prosegue. Al peggior teatrino italiano della politica è appena andato in scena Umberto Bossi. Una recita imbarazzante quella del senatore leghista, su un copione apertamente eversivo. «La libertà non si può più conquistare in Parlamento ma attraverso la lotta di milioni di uomini disposti al sacrificio in una guerra di liberazione». Ha detto proprio così l'ex ministro delle riforme Bossi, e non siamo nel 1942. Il tutto di fronte a un Silvio Berlusconi compiacente, a Vicenza in una seduta dello pseudo parlamento del nord. La discussione fra Giordano e Veltroni non può che partire da qui. Perché il senatur è il più fedele alleato di Silvio Berlusconi. E Berlusconi è il capo dell'opposizione.
Il sindaco di Roma scuote la testa, non considera quella di Bossi la solita battuta strappa applausi. C'è molto di più, molto di peggio. «Le affermazioni di Bossi sono lesive della Costituzione e delle istituzioni repubblicane - osserva Veltroni - la Casa delle libertà dica chiaramente se vuole governare l'Italia insieme alla Lega, assieme a chi pronuncia frasi così gravi e non riconosce la bandiera nazionale». Al teatro Italia si parla dell'Italia. «L'unica guerra di liberazione che conosco è quella della Resistenza dei Partigiani - aggiunge Giordano - Non permettiamo a nessuno di infangare quella storia». Il segretario del Prc chiede quindi «un dibattito parlamentare sulle frasi pronunciate da un segretario di partito che attacca le istituzioni e il Parlamento, fino a minacciare una rivolta violenta». Arrivano critiche anche per il leader di Forza Italia, che nel giorno del suo compleanno «era a Vicenza in una improbabile parlamento del nord. Noi di parlamento ne conosciamo uno solo ed è a Roma. Non si può giocare su questi terreni. La manifestazione del 20 ottobre diventerà anche un evento a tutela delle istituzioni e del Parlamento». La manifestazione del 20, dunque. Un avvenimento che non piace ai riformisti del piddì, che non piace naturalmente neanche a Walter Veltroni. Il primo cittadino della capitale non manca di farsi paladino dell'imprenditoria italiana. Per Veltroni la redistribuzione del reddito passa anche (soprattutto?) dagli aiuti agli industriali, ai commercianti, in generale alle categorie economiche. Quasi inutile dire che Giordano ha idee diverse. Al teatro Italia ci sono due sinistre, dice Veltroni. Una sinistra e un centro corregge Giordano.
Trovare un primo accordo sulla Finanziaria non è stato facile. «L'intervento determinato e unitario della sinistra ha fatto sì che cominciasse a muoversi qualcosa per la parte più debole della popolazione». Il giudizio di Giordano sulla manovra economica è nel complesso positivo, anche se «ci sono margini per poterla migliorare in Parlamento: il governo spergiura che non ci sono risorse aggiuntive per le imprese e noi saremo lì a verificarlo perché non tollereremo che sia dato un soldo in più al sistema delle imprese che hanno già avuto tantissimo». Il pubblico che affolla la sala del teatro Italia - oggi "Liberafesta" - applaude convinto. Di ulteriori finanziamenti alle imprese non vorrebbe sentir parlare.
Ora lo sguardo del candidato alla segreteria del piddì incrocia quello di Giordano. «Capisco e non posso non registrare con attenzione - dice Veltroni - il carattere che voi vorrete dare alla manifestazione del 20 ottobre, ma proprio mentre facciamo intese di merito sugli accordi dobbiamo dare anche un segno forte di coesione politica». Giordano si dice «d'accordo sulla necessità di una maggiore unità», ma ribadisce che «mai è accaduto che un voto della sinistra abbia messo in difficoltà il governo. Siamo stati fin troppo responsabili le difficoltà semmai sono venute dall'altra parte dello schieramento». E sono ancora applausi.
Si passa a parlare di legge elettorale. «La riforma è urgente, tornare a votare con questa legge sarebbe una sciagura. Io non ho né preclusioni né preferenze su nessun modello, ma attenti al ritorno di Ghino Di Tacco». Il sindaco di Roma risponde al segretario di Rifondazione comunista che ha appena ribadito la disponibilità del Prc a fare «da subito un riforma della legge elettorale sul modello tedesco». Veltroni ricorda che An è contraria a quel sistema e sottolinea come lo stesso Berlusconi voglia solo alcuni piccoli aggiustamenti alla legge elettorale attuale. «Tuttavia - aggiunge - la riforma va fatta, ci sono molti modelli che si potrebbero seguire, da quello tedesco allo spagnolo e anche il modello francese con qualche correzione che è quello che io preferisco». Peccato che a Veltroni piaccia anche il referendum ipermeggioritario, quello che non permetterebbe la rappresentanza di una parte non certo piccola del paese. Tant'è, le vie del riformismo, si sa, sono disseminate di buche e avvallamenti.
Le differenze ci sono: dal ruolo delle imprese e del lavoro alle cause del degrado ambientale. Le due anime dell'Unione possono comunque convivere e dialogare. Lo fanno. Il segretario del Prc e il candidato alla guida del piddì si confrontano per più di un'ora sul futuro della sinistra, sulla Finanziaria, sulla tenuta della maggioranza, ma anche sulla globalizzazione, l'ambiente e «una certa idea» di capitalismo. Il dialogo, moderato dal giornalista David Sassoli, è serrato, la platea applaude entrambi (con netta prevalenza per Giordano). I punti di convergenza e di distanza restano. Il sindaco di Roma sottolinea che l'imprenditoria va aiutata. L'Italia «deve sostenere le imprese, perché da esse deriva il lavoro e la ricchezza da ridistribuire». Il segretario di Rifondazione ribadisce che la «vera emergenza è la precarietà». Si chiude il sipario del teatro Italia il faccia a faccia è stato interessante. Ma non ci sono state due sinistre sul palco, come ha detto Walter Veltroni. C'è stata una voce di sinistra e una moderata, riformista, sostanzialmente centrista.

Corriere del Mezzogiorno 30.9.07
(distribuito in abbinamento con il Corriere della Sera)
Donne e ricerca, storia di un rapporto difficile
di Donatella Coccoli


Per la scuola pitagorica maschile e femminile erano legati ad una serie di attributi opposti tra di loro ma aventi uguale dignità; all’uomo corrispondevano, tra gli altri, il quadrato, la destra, il bene, alla donna, il rettangolo, la sinistra e il male. Due “visioni del mondo” diverse ma che si potevano incontrare e arricchire vicendevolmente. Ma la storia del pensiero umano, purtroppo, non è sempre andata così. Anzi. Salti in avanti e cadute in voragini, hanno accompagnato l’evoluzione della cultura e della scienza: ragione e irrazionale, logica e passioni, sono ormai i contendenti in un campo di battaglia che ha mietuto troppe vittime. Le donne, in primo luogo, escluse via via dai campi del sapere, ma anche gli uomini, imprigionati in uno status di freddo razionalismo.
Ecco, circa tremila anni di storia della civiltà umana sono stati scandagliati, venerdì 28 settembre a Foggia nell’ambito della Notte dei Ricercatori durante un convegno promosso dalla professoressa Carla Severini presidente del Comitato Pari Opportunità dell’Università di Foggia e dal titolo: “Di che genere è la ricerca? Considerazioni sul metodo”. Convegno che ha avuto poi il contributo video di una intervista di Paola Traverso al regista Paolo Franchi sempre sul tema della ricerca nell’arte.
Intanto, il punto di partenza del dibattito coordinato dalla psichiatra Anna Homberg, è molto semplice: le donne non si sono quasi mai avvicinate al mondo della scienza, come hanno spiegato la dottoressa Rossella Palomba, ambasciatrice per le Pari Opportunità nella Scienza dell’Unione Europea e la storica della matematica Lucia Maddalena. O come ha ricordato la docente di Architettura Giulia Ceriani Sebregondi che ha ripercorso lo scarso contributo femminile in questa arte e che al tempo stesso ha messo in evidenza come ad un pensiero filosofico corrisponda un linguaggio architettonico (il decostruttivismo e Derrida per esempio).
Ma nell’antichità? Donne matematiche alla scuola di Pitagora, donne alchimiste nell’età ellenistica, donne-medico e sapienti come la celebre Trotula scienziata di Salerno dell’anno Mille che operava in un ambiente vivificato dai contributi della scienza islamica. Solo che, come ha raccontato Carla Severini, tutte le volte che si aprono le porte al sapere, una raffica di vento le chiude d’improvviso. Accade con il Cristianesimo che porta alla condanna a morte nel 180 d.C. di duemila medichesse, accade infine con l’avvento della scienza positivista e del pensiero cartesiano che codifica l’impossibilità di conoscenza se non attraverso la ragione.
E di Cartesio e di quel trentennio cruciale che va dal 1600, l’anno del rogo di Giordano Bruno al 1637, quando il filosofo francese scrive il Discorso sul metodo, ha parlato la storica della filosofia Elisabetta Amalfitano. L’”eroico furore” di Bruno, il suo tentativo di pensare un tipo di conoscenza che comprendesse anche il sentimento, vengono spazzati via, “gli assi cartesiani si erigevano come muri”. Non solo tutto diviene geometria, è addirittura vietato immaginare. Ed è Spinoza a rendere ancora più raffinata l’operazione cartesiana di annullamento dei sentimenti. Bisogna sopravvivere (“conatus vivendi”) e per farlo, per impedire che il disordine regni nella società, occorre controllare le passioni. Ora, questo è un pensiero che più o meno indenne è scivolato su una lastra di ghiaccio fino ad oggi. Ne ha parlato Martino Riggio, psichiatra formatosi all’Analisi Collettiva di Massimo Fagioli, che ha sottolineato come in medicina la teoria di Ippocrate dei quattro umori causa di malattie, non si discosti poi dal pensiero freudiano dell’irrazionale-mostro interno. “Occorre ribellarsi a questa ideologia – ha detto lo psichiatra -. Non si nasce malati, ci si ammala dopo. E l’essere umano – e qui non c’è distinzione tra uomo e donna – ha come caratteristica quella di avere gli affetti”. Se si nega il sentire come conoscenza il rischio è che rimanga solo la ragione. E allora, son guai, perché, checché ne dicano Cartesio o Spinoza, si diventa freddi e si può impazzire. Alcuni casi di cronaca nera sono lì a ricordarlo.

La signora Auung San Suu Kyi, la Birmania, i monaci. Come finirà?
di Pino Arlacchi


Sono stato in Birmania in missione ufficiale nel 1999 ed ho incontrato la signora Auung San Suu Kyi nella sua residenza di Yangoon, dove viveva agli arresti domiciliari, salvata dal carcere grazie al nome di suo padre, l’eroe dell’indipendenza nazionale della Birmania. Sono rimasto colpito dalla combinazione tra la sua forza morale e la lucidità politica. L’enorme risentimento che la signora nutriva verso la giunta al potere che le aveva distrutto tutto ciò che le era più caro - il suo paese, la sua famiglia, la sua vita personale - non conteneva traccia di odio e di animosità. Auung San Suu Kyi era impegnata a quel tempo in una trattativa, mediata dall’Ufficio delle Nazioni Unite che ho diretto, per stabilire un tavolo tecnico insieme al governo ed alle tribù ribelli del Nord della Birmania sulla questione delle coltivazioni di oppio.
Ho chiesto alla signora come facesse a conservare la sua serenità conducendo un negoziato politico faccia a faccia con persone che avrebbe dovuto odiare. La sua risposta fu che la sua religione, il buddismo, le impediva di odiare chicchessia, e che era tranquilla perchè non aveva dubbi sul fatto che alla fine la parte dei diritti umani, la sua parte, avrebbe trionfato.
La partita della democrazia in Birmania si gioca in questi giorni su un campo principale e su un altro secondario, ma l’esito finale dipende molto dall’interazione tra i due. Nel campo principale si stanno scontrando i monaci buddisti, sostenuti dall’intera popolazione del paese e dall’opinione pubblica mondiale, da una parte, e la giunta militare, protagonista di una sanguinosa repressione, di Than Shwee dall’altro. Nel campo secondario ci sono le divisioni interne alle forze armate, dove circola un malumore diffuso contro i vertici del governo militare, e contro il dittatore solitario e feroce che ha portato la Birmania alla rovina.
Sono ancora presenti nell’esercito e nell’intelligence molti di quegli ufficiali che hanno tentato un cambiamento di rotta tra il 1998 e il 2004, aprendo un dialogo sotterraneo con la signora Auung San Suu Kyi e con la dissidenza, e cercando una strada per il ritorno alla democrazia e all’apertura internazionale.
Questo tentativo ruotava intorno al capo dell’intelligence e primo ministro Khin Nyunt, ma si è concluso con la rimozione e l’arresto di Nyunt nel 2004, seguiti da una grande purga all’ interno del circolo di potere che lo appoggiava.
Ma il malessere non è cessato. Il morale delle forze armate è bassissimo. Le diserzioni si moltiplicano, ed i dissensi tra i generali che comandano pezzi cruciali dell’ apparato repressivo sono molto ampi.
Se le dimostrazioni avranno la capacità di resistere per un lungo periodo di tempo, e se i dissensi interni ai militari impediranno a Than Shwee di impiegare l’intera forza d’urto dell’esercito contro la popolazione inerme, l’esito potrebbe essere quello previsto da Auung San Suu Kyi ed auspicato da tutti noi.
(da Rosso di Sera)


Repubblica 30.9.07
La casta dei politici e la razza padrona
di Eugenio Scalfari


SI È avviato un bel dibattito che ha come tema gli italiani e la politica. Il merito occasionale va diviso in parti eguali tra Rizzo e Stella da un lato e Beppe Grillo dall´altro. Dico occasionale perché in realtà è un dibattito che dura da un secolo e mezzo, cioè dalla fondazione dello Stato unitario nel 1861. Pensate un po´!
Alcuni ne hanno esaminato le cause, altri ne hanno cavalcato e radicalizzato gli effetti.
In questo dibattito, da oltre cinquant´anni, ci sono dentro anch´io e quindi ho qualche titolo per intervenirvi di nuovo. Ma prima è d´obbligo spendere qualche parola sulla legge finanziaria, finalmente licenziata dal Consiglio dei ministri insieme a un decreto che avrà effetti immediati, approvato all´unanimità la sera di venerdì.
Il decreto muove risorse per 7 miliardi e mezzo; la Finanziaria 2008 contiene una manovra di 10.700 milioni.
Senza una lira di tassa in più. Anzi con un abbattimento di imposte rilevante: 5 punti in meno di Ires, 4 decimali di punto in meno di Irap; una tassa unica del 20 per cento per le micro-imprese che assorbe forfettariamente Iva, Ires e Irap con i connessi adempimenti burocratici.
Se ai benefici destinati alle imprese si aggiungono i tre punti di cuneo fiscale già in opera, si vede che le risorse mobilitate per la crescita economica e la competitività sono almeno eguali se non addirittura superiori alle provvidenze realizzate dal cancelliere tedesco Angela Merkel a favore dell´industria del suo Paese. Quei provvedimenti sono stati lodati da tutti gli osservatori e dalle autorità internazionali; ci sarebbe da attendersi analoghe lodi per quanto deciso dal governo italiano, ma in casa nostra la setta (o la casta) degli economisti è molto più avara e quindi non ne parlerà se non a bocca storta per opposte ragioni alla bocca storta di Diliberto, il Pierino della sinistra radicale.
Ma una parte notevole della manovra è anche destinata alle fasce deboli dei redditi, alle famiglie, ai giovani, alle infrastrutture; il taglio di alcune spese sugli acquisti della pubblica amministrazione, sull´organico dei pubblici dipendenti e sui costi degli enti locali vincolati da un patto di stabilità stipulato dalla conferenza Stato-Regioni, completa un menu che agisce su due pedali: quello produttivo e quello sociale, facendo sperare su un aumento della domanda globale sia dal lato degli investimenti sia da quello dei consumi.
* * *
Prodi e i ministri economici si erano impegnati a realizzare una Finanziaria impostata su questa duplice strategia e la promessa è stata mantenuta. Vedo che si insiste molto sulla «leggerezza» della manovra, quasi che le risorse mobilitate configurino soltanto ritocchi di poca importanza. Non mi pare che le cose stiano così. Diciotto miliardi tra decreto e Finanziaria (36 mila miliardi di vecchie lire) indirizzate ad alleggerire oneri fiscali e a rifinanziare i cantieri delle aziende pubbliche che lavorano per le infrastrutture, costituiscono una vigorosa azione di sostegno della domanda, della competitività e dei redditi quale da tempo non si verificava, a parità di pressione fiscale. L´avanzo primario è aumentato da zero a 2 punti, il deficit corrisponde agli impegni presi con l´Europa.
Certo non è stato affrontato il grande tema della spesa della pubblica amministrazione. Sarkozy, tanto ammirato in Italia, si cimenterà con questo problema nei prossimi giorni. Il taglio da lui preannunciato è nell´ordine di 9 miliardi di euro. Di più non può fare ancorché il debito pubblico francese sia metà del nostro. Ma il nostro gettito tributario è aumentato molto di più di quello del fisco parigino. Sarkozy spera in una ripresa dell´economia che tuttavia tarda a venire. Questo rende alquanto dubbio il successo della sua manovra. Anche lui ha i suoi guai.
Finora è stato più bravo a nasconderli, ma ora i nodi stanno venendo anche al suo pettine.
Non dico affatto che il male comune sia un mezzo gaudio: noi abbiamo quanto mai bisogno che l´economia europea sia tonica. Segnalo soltanto che il ciclo economico occidentale non attraversa un periodo di vacche grasse, tutt´altro.
Qualche errore di fondo è certamente avvenuto da qualche parte. La ricerca di quell´errore dovrebbe essere occupazione condivisa da imprenditori, banchieri, sindacati, Banche centrali e governi. Tutti infatti sono chiamati in causa e il gioco dello scaricabarile è diventato a questo punto manifestamente impossibile.
* * *
Dunque pace nel governo e nella coalizione che lo sostiene? Non direi. Direi tregua, sperando che lo sfarinamento dei partiti non produca l´incidente al Senato su cui Berlusconi (e Casini insieme a lui) sta puntando con rinnovato vigore.
Ma quand´anche la Finanziaria riuscisse a passare indenne nella cruna dell´ago senatoriale – come ci si deve augurare per il bene non del centrosinistra ma del Paese – è inutile pensare che alle prossime elezioni l´Unione si possa ripresentare nella stessa composizione attuale. Prodi lo vorrebbe ma Bertinotti – a quanto mi risulta – è perfettamente consapevole che non sarà possibile.
Bertinotti aveva immaginato che il suo partito avrebbe capito e condiviso la sua strategia di lotta e di governo.
Ma ci si è messo di mezzo un profondo sussulto identitario (al quale il «grillismo» ha dato una robusta mano). Il presidente della Camera sa che il gioco gli ha preso la mano; la partita non è più sotto il suo controllo. Sarà difficilissimo se non addirittura impossibile restare nello schema di lotta e di governo per il semplice motivo che gli elettori, tutti gli elettori, pretendono a questo punto coalizioni coese. Le risse interne non sono più accettate né tollerabili. Perciò, quale che sia la legge elettorale con la quale si andrà a votare, nel centrosinistra i riformisti e la sinistra radicale affronteranno divisi il confronto elettorale. Con programmi più semplici e più incisivi. Di venti pagine e non di trecento.
Se il voto avverrà nel 2008 Berlusconi vincerà. Se sarà spostato in avanti la partita è aperta e il Partito democratico potrà giocare le sue carte.
Casini e Fini saranno abbracciati e digeriti dal Cavaliere di Arcore. Bossi è costola sua e non gli creerà problemi.
Ma in un Paese che vive di emozioni rapide ad emergere e anche a capovolgersi nel senso contrario, il governo potrebbe risalire nei consensi e Veltroni potrebbe puntare ad un risultato del 35-40 per cento per il Partito democratico.
Questi sono a mio avviso gli elementi della partita. E qui si ripropone il dibattito sulla «casta». E sulle «caste».
* * *
Non parlerò di Grillo, ma invece di interlocutori di maggior spessore: Gian Antonio Stella e Pierluigi Battista (sul «Corriere della Sera» del 28 e del 29), di Luca Ricolfi (sulla «Stampa» del 28) e di noi di «Repubblica», a cominciare da Ezio Mauro, direttore del nostro giornale.
Mauro ha fatto una diagnosi secondo me esaustiva del «malessere» italiano che da almeno vent´anni debilita la fibra democratica e la morale pubblica del nostro paese.
Nella classe politica e non soltanto, ma nell´«establishment» nella sua interezza. Nel capitalismo all´italiana, nel sindacalismo all´italiana, nella Chiesa in salsa italiana. E anche nel giornalismo all´italiana. Ha espresso la speranza che ciascuno, per quanto gli compete, rifletta sulle responsabilità proprie e cerchi di correggerne le cause e gli effetti. Sia questo il contributo al risanamento che ciascuno deve portare alla democrazia repubblicana.
Stella ha esordito con una citazione a sorpresa: «A Roma spadroneggia un piccolo gruppo di padreterni, i quali si sono persuasi, insieme con qualche ministro, di avere la sapienza infusa nel vasto cervello. Non mantengono le promesse, impediscono il movimento a coloro che avrebbero voglia di agire, fanno perdere agli industriali quei mercati che erano riusciti a conquistare.
Bisogna licenziare questi padreterni orgogliosi. Troppo a lungo li abbiamo sopportati».
Non sono parole di Beppe Grillo – chiosa Stella – né di Guglielmo Giannini né del Bossi della prima maniera, ma nientemeno che di Luigi Einaudi che le scrisse sul «Corriere» del primo febbraio 1919. Vedete dunque...!
Bella sorpresa per chi non conosce o ha dimenticato l´Einaudi del 1919. Ma, purtroppo per Stella e anche per noi italiani la citazione è un vero boomerang per la tesi di chi pensa d´avere scoperto la casta politica a far data dal governo Prodi o tutt´al più dal Berlusconi del 2001 fino ai giorni nostri. La casta politica – la citazione lo prova – esisteva già nel 1919 e veniva bollata con parole come si vede roventi.
Ma in realtà esisteva da molto prima. Se Stella avrà la pazienza di leggere i discorsi politici di Marco Minghetti, quelli di Silvio Spaventa, quelli di Ruggero Bonghi, troverà le stesse accuse risalenti agli anni Ottanta del secolo XIX. Più tardi le ritroverà nel D´Annunzio della marcia sul fiume e nel Mussolini della marcia su Roma e nel pitale scagliato su Montecitorio dal dannunziano e futurista Keller. Troverà lo scandalo della Banca Romana, il coinvolgimento delittuoso di Francesco Crispi e della stessa Monarchia, la cacciata e l´esilio di Giolitti. E giù giù per li rami arriverà fino al Craxi di Tangentopoli e infine ai giorni nostri.
Bisogna, caro Stella, retrodatare tutto di un secolo e mezzo. Ma questo non vuol certo dire che gli attuali reggitori della cosa pubblica siano indenni da colpe, da errori, da omissioni. Vuol dire però che il male è molto antico. Se si è perpetuato malgrado le denunce vigorosissime per un tempo così lungo la vostra diagnosi è dunque sbagliata ed è sbagliata anche quella di Einaudi che parla di un piccolo gruppo di padreterni da cacciare a pedate.
Qualcuno, tre anni dopo, li cacciò e venne una dittatura durata vent´anni.
E´ questo il rimedio?
Mi sorge un dubbio: forse i diagnostici della casta hanno un´idea infantile della politica. Parlando al Tv 7 dell´altro ieri, interrogato da Gianni Riotta, Stella ha detto: io so poco di economia e quindi non mi sento in grado di mettere in piazza le supposte malefatte dei capitalisti italiani. Ma i politici sono sicuramente peggio perché hanno tutto il potere e lo ostentano.
I politici hanno tutto il potere? Caro Stella, non so in quale paese, ma che dico, in quale mondo tu pensi di vivere.
La frazione di potere dei politici (non solo in Italia) è minima rispetto al potere dei detentori del capitale. I quali tra l´altro sono inamovibili perché il loro fondamento è la natura proprietaria di quel potere. Mi scuso per la citazione, ma io scrissi «Razza padrona» nel 1974. Forse non l´hai letta ma ti sarebbe stata utile per portare avanti le tue meritorie battaglie.
«Le banche hanno acquisito un potere economico e politico che potrà diventare un pericolo se gli uomini che vi presiedono non avranno piena coscienza della terribile responsabilità che loro incombe nello svolgimento della vita nazionale. Dietro la presenza delle società anonime e al di sopra della inerte massa dei piccoli risparmiatori sta la ristretta brigata dei pochi grandi finanzieri e dei pochi grandi industriali i quali tengono di fatto il potere e direttamente o attraverso delegati controllano l´immensa schiera delle società industriali, mercantili, marittime che costituiscono la clientela delle banche e ad esse si connettono... Indarno si faceva appello alla grande maggioranza degli industriali, per nove decimi sani e onesti con grandi benemerenze di lavoro, di iniziative, di costruttività. La maggioranza laboriosa ma passiva e ignara lasciava che i facinorosi e i furbi andassero all´arrembaggio della nave che portava le fortune dello Stato».
Sorpresa, collega Stella: queste parole non sono di Grillo (che peraltro ne ha dette di simili quando denunciava la Cirio, la Parmalat, la Telecom). Non sono neppure mie né tue che non t´intendi di economia; non sono di Montezemolo né di Draghi. Sono – udite udite – di Luigi Einaudi e stanno nel volume «La condotta economica e gli effetti sociali della guerra». Anche queste le scrisse nel 1919 in occasione della crisi dell´Ilva, dell´Ansaldo e della Banca di sconto ma poi, nelle «Lezioni di politica sociale» del 1944 le riprese e le aggiornò.
Bisogna leggerlo tutto, Luigi Einaudi, magari insieme a De Viti De Marco, a Gaetano Salvemini e ad Ernesto Rossi, che non erano moderati ma radicali e liberali di sinistra.
* * *
Oggi il capitalismo è diverso. Conosce (o finge di conoscere) le regole che debbono disciplinare il mercato ma che in Italia sono ancora fragilissime se hanno consentito e consentono che il leader del maggior partito, già tre volte presidente del Consiglio e in vena di ritornarci per la quarta volta, sia il proprietario di metà del duopolio televisivo ed abbia – quando s´insedia a Palazzo Chigi, influenza determinante sull´altra metà pubblica.
Mi sarebbe piaciuto leggerne almeno qualche riga nel libro sulla casta, ma non mi pare d´averla trovata. Se mi è sfuggita, sarei grato mi venisse segnalata. Ho letto però, sempre sul «Corriere della Sera», uno scritto del professor Giavazzi che si dichiarava insoddisfatto e turbato perché il ministro dell´Economia aveva nominato come suo rappresentante nel consiglio della Rai (come la legge gli prescrive) persona certamente esperta nella materia specifica ma anziana di età e notoriamente di convinzioni politiche vicine all´attuale maggioranza.
Mi sarebbe piaciuto leggere un Giavazzi di annata ai tempi in cui Baldassarre presiedeva il consiglio d´amministrazione della Rai. Forse mi è sfuggito? Anche qui, per favore, segnalatemelo e farò debita ammenda.
Scordavo Pierluigi Battista e Luca Ricolfi, ma quanto ho scritto fin qui vale anche per loro.

sabato 29 settembre 2007

l’Unità 29.9.07
Più soldi ai deboli, la Finanziaria va
È tregua con la Cosa rossa: «Abbiamo difeso i più deboli»
Mussi insoddisfatto. Apprezzati i miglioramenti per i più poveri. Sarà battaglia, però, su Welfare e rendite
di Simone Collini


UN’ALTRA Finanziaria è possibile. Lo avevano intimato al burrascoso vertice di metà settimana Rifondazione comunista, Sinistra democratica, Verdi e Pdci.

Quarantott’ore e parecchie discussioni dopo, la Cosa rossa incassa i risultati ottenuti - compreso un miliardo in più rispetto al previsto da destinare a ricerca, ambiente e politiche sociali - e si prepara per le prossime battaglie. Ovvero, innalzamento della tassazione delle rendite finanziarie al 20% e modifica del protocollo sul welfare siglato a luglio dal governo con le parti sociali. Due nodi volutamente lasciati fuori dalla manovra di bilancio. Che, a sentire gli esponenti della sinistra radicale, grazie a loro è uscita dal Consiglio dei ministri diversa rispetto a quella prospettata soltanto due giorni prima da Tommaso Padoa-Schioppa nel vertice notturno di Palazzo Chigi.
«Senza la nostra iniziativa unitaria - è la frase che torna dalle parti del Prc quanto del Pdci, di Sinistra democratica quanto dei Verdi - la Finanziaria non sarebbe stata di questo segno». E il dito indica i 7 miliardi e mezzo di euro che in gran parte sono da destinare agli incapienti, alle famiglie e anche alla cooperazione internazionale (1 miliardo), su cui Rifondazione era pronta a dare battaglia perché nella bozza iniziale non erano previsti i fondi promessi (la viceministra degli Esteri Patrizia Sentinelli aveva annunciato nel pomeriggio che non avrebbe più partecipato a incontri di governo a livello internazionale «perché sarebbe davvero una vergogna: anziché parlare di contributo dell’Italia alla cooperazione allo sviluppo si tratterebbe solo di turismo politico»). E il dito va anche sugli sgravi fiscali sulla prima casa ma anche su chi paga l’affitto e ha un reddito inferiore ai 15 mila e 30 mila euro (150 e 300 euro annui). Ma questo, dopo ore e ore di discussioni.
Paolo Ferrero, Fabio Mussi, Alfonso Pecoraro Scanio e Alessandro Bianchi sono arrivati a Palazzo Chigi non nascondendo una certa diffidenza nei confronti delle rassicurazioni date da Romano Prodi nei colloqui privati della vigilia. «Dalle notizie che emergono già ci sono notevoli problemi sul contenuto della Finanziaria», faceva sapere poche ore prima dell’avvio dei lavori Ferrero, irritato anche per l’«incredibile situazione» per cui «i giornalisti hanno parti intere del testo, mentre i ministri ne sono sprovvisti». Conclusione del ministro per la Solidarietà sociale: «Si tratta di un fatto inaccettabile che renderà tutto più difficile». Negli stessi minuti usciva una nota di Palazzo Chigi in cui si diceva che le bozze circolate non erano da prendere in considerazione perché «superate dal lavoro in corso». Un messaggio agli alleati. Così come un messaggio alla sinistra radicale Prodi lo ha voluto dare nella parte iniziale del Consiglio dei ministri, quando ha sottolineato che la Finanziaria 2008 non prevede ulteriori aiuti alle imprese, dopo il taglio del cuneo fiscale del 2007, ma solo misure di semplificazione e rimodulazione fiscale. Cioè «operazioni a saldo zero», che non sottraggono quindi fondi da destinare alle politiche sociali.
Nonostante le rassicurazioni iniziali, non sono comunque mancati nel corso dei lavori momenti di tensione. Ma alla fine, quando ormai si era fatta notte, il varo della Finanziaria è arrivato senza che i quattro ministri si mettessero di traverso. I quattro, anzi, hanno potuto intestarsi il merito di aver reindirizzato circa un miliardo e mezzo di euro a favore dei redditi bassi, degli incapienti, dell’ambiente, della ricerca e l’università. Anche se il ministro Mussi, che in mattinata era andato a Palazzo Chigi per discutere nuovamente con Prodi dei fondi da destinare al suo dicastero, continua a ritenere insufficienti i soldi stanziati per le università e la ricerca (la cifra alla fine dovrebbe essere di circa 400 milioni di euro, mentre la richiesta del suo dicastero era di 700). Porterà avanti la battaglia, anche perché la cifra prevista dalla manovra rischia di essere di poco superiore ai tagli imposto al ministero di cui è titolare. Il più soddisfatto, tra i quattro ministri della sinistra radicale, è invece Pecoraro Scanio, che ha incassato anche la detrazione del 55% per le opere riguardanti la riqualificazione eco-sostenibile degli edifici. «È un decreto più equilibrato», dice il titolare dell’Ambiente, perché «contiene segnali positivi per le fasce più deboli».

l’Unità 29.9.07
Piazze vuote
Il sangue e l’indifferenza
di Umberto De Giovannangeli


Le immagini di violenza e di morte irrompono nelle nostre case. Ma non riempiono le piazze. Quanto è distante la Birmania da noi? Da noi democratici, da noi popolo della sinistra, dal nostro (sopito?) diritto-dovere all’indignazione? Stavolta, per favore, non s’intenti un processo all’informazione. Da giorni quotidiani e telegiornali aprono con le sconvolgenti notizie che giungono dalla Birmania. Mostrano giovani colpiti a morte, percossi brutalmente. Mostrano l’esecuzione a freddo di un videoreporter giapponese. Quelle immagini raccontano di un popolo eroico che sfida un potere sanguinario.
Quei monaci scalzi che rivendicano diritti, giustizia, libertà e per questi valori rischiano la vita, avrebbero dovuto scaldare i nostri cuori, smuovere le nostre coscienze, modificare l’agenda politica. Riempire le piazze. Così non è. E sì che ciò che sta accadendo in questi giorni, in queste ore in Birmania non si presta ad equivoci: lì è chiaro dove sia il Bene e dove il Male; lì è evidente che l’unica «trincea» su cui assestarsi è quella della tonache in rosso. Rosso speranza. Ma anche rosso sangue.
Quei ragazzi che sfidano a mani nude soldati in assetto di guerra riportano alla memoria altri ragazzi che osarono sfidare in altre piazze regimi pronti a tutto pur di spazzare via ogni vento di libertà. Fu così per piazza Tienanmen. Quanti morti dovranno passare perché l’indignazione torni a riempire le nostre piazze? Certo, gli appelli non mancano. Le parole di condanna si sprecano. Come i moniti. Ma il «silenzio» delle nostre piazze resta assordante. E lo è tanto più a fronte della considerazione, questa sì ridondante in scritti e interviste di politici di ogni colore e levatura, che dobbiamo imparare a muoverci in un mondo sempre più globalizzato. Il «silenzio birmano» dice che questa percezione fa fatica a farsi strada tra una politica appassionata a regole e schieramenti, e un’«antipolitica» che pratica il diritto all’indignazione per gli abusivi dei voli di Stato ma non si riscalda per gli eroi disarmati della «Primavera birmana». Non si tratta di impartire lezioni di coerenza ma di riflettere sulle ragioni di questo «silenzio». Si dice: viviamo nell’epoca delle immagini, dove conta molto identificarsi con una storia, con un volto. Ma la Birmania una storia, un volto nei quali riconoscersi l’ha «forniti»: il volto, la storia di una donna straordinaria, Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la pace, paladina dei diritti civili, da anni segregata agli arresti domiciliari dalla Giunta militare. Quel volto dolce e al tempo stesso determinato, è immortalato in una grande foto che campeggia sulla Piazza del Campidoglio a Roma. Ma non basta una foto per riempire una piazza. E allora c’è da chiedersi se la Birmania non metta le coscienze in movimento perché non militarizza gli schieramenti, non alimenta polemiche «anti» o «pro», perché chiede «solo» coerenza tra valori condivisi e comportamenti conseguenti. E forse proprio per questo la Birmania è scomoda. Perché non offre alibi ad una politica rinchiusa sempre più in se stessa, e ad una antipolitica che fa fatica ad elevarsi oltre un autoliberatorio «vaff...». Perché è lo specchio di una preoccupante «cloroformizzazione» delle coscienze.
La diplomazia dei popoli, si è detto e a ragione, spesso si è rivelata più lungimirante, coraggiosa e anticipatrice di quella degli Stati. Lo è stata per la sua intelligente radicalità, per la capacità di denuncia di atteggiamenti ambigui o renitenti propri della realpolitik. Lo è stata per il rifiuto della delega, per essersi posta e aver posto al centro dell’agire collettivo il tema, davvero globalizzante, dei diritti individuali e di popolo che vanno difesi sempre e comunque. Lo è stata la «bella politica». La Birmania e i suoi eroi disarmati chiedono di riattualizzare questo protagonismo. Di provarci. almeno. Chiedono impegno, participazione, solidarietà, valori e sentimenti capaci di vivere ben oltre una sciarpa esibita e di dichiarazioni allarmate che durano il tempo di un lancio di agenzie.

l’Unità 29.9.07
Viaggio alle origini dell’Universo
Cern, i predatori del tempo perduto
di Cristiana Pulcinelli


IN VISITA ALL’ACCELERATORE di particelle più grande del mondo, LHC: un tunnel sotterraneo circolare lungo 27 chilometri dal quale gli scienziati si aspettano una risposta alla domanda centrale della nostra vita: «Da dove veniamo?»

Se pensate che la domanda «da dove veniamo?» non abbia alcun senso, allora LHC non fa per voi.
Ma se, magari guardando il cielo stellato sopra la vostra testa, siete stati per un attimo sfiorati dalla voglia di sapere qualcosa sull’origine dell’universo, allora seguite attentamente quello che questa macchina farà nei prossimi anni.
LHC e gli esperimenti che ad esso sono collegati sono frutto di due caratteristiche della nostra specie: una smisurata curiosità e un’alta opinione di sé.

Dentro la macchina due fasci di protoni verranno fatti scontrare a una velocità poco inferiore a quella della luce

Lo scontro creerà un’energia molto intensa, pari a quella che si sviluppò dopo il Big Bang 13, 7 miliardi di anni fa

Noi uomini pensiamo non solo di poter giungere a capire cosa è successo 13,7 miliardi di anni fa, quando il nostro universo è nato, ma addirittura di trovare le prove delle nostre teorie. Così abbiamo deciso di costruire la macchina più potente e precisa mai fatta finora per arrivare a capire da dove veniamo e, forse, perché siamo così come siamo.
LHC sta per Large Hadron Collider. Si tratta di un acceleratore di particelle davvero molto potente. Il progetto della sua costruzione venne approvato nel 1994 dal consiglio del Cern (Conseil Européen pour la recherche nucléaire) e tra il 1996 e il 1998 furono approvati i 4 esperimenti che ad esso sono collegati. Da allora ad oggi si è lavorato alla costruzione di questo immenso macchinario. Ancora non è pronto, ma manca pochissimo: l’inaugurazione è prevista ad ottobre del 2008. Poi ci vorranno ancora un paio d’anni perché la macchina funzioni alla sua massima potenza.
L’acceleratore giace a 100 metri sotto il livello del suolo e si estende per 27 chilometri a cavallo tra la Svizzera e la Francia. Il tunnel circolare che lo ospita venne costruito per il vecchio acceleratore, Lep, smantellato nel 2000 per far posto al suo fratello maggiore. LHC è 100 volte più potente del Lep e 10 volte più potente dell’acceleratore americano Tevatron che si trova al Fermilab di Chicago. Quando entri nelle viscere della terra dove LHC riposa, vedi quante parti lo compongono e la moltitudine di gente che ci lavora, capisci perché i fisici delle particelle sono convinti che dopo di lui sarà il diluvio. Ovvero, che una macchina più grande di questa non verrà mai costruita. Lo sforzo compiuto per far vivere LHC e i suoi esperimenti è davvero immane.
Visitare il tunnel fa un certo effetto: la fine non si vede, al suo centro i tubi si estendono a perdita d’occhio. All’interno di quei tubi corrono i protoni, le particelle che normalmente si trovano nel nucleo degli atomi. I protoni corrono in due fasci di direzione opposta e vengono fatti accelerare fino a raggiungere il 99,9998% della velocità della luce. A intervalli regolari, i tubi sono incapsulati dentro dei magneti superconduttori che mantengono i protoni concentrati in un fascio di spessore inferiore a quello di un capello. Ce ne sono 9000 in tutto e sono nel luogo più freddo dell’universo: vengono tenuti infatti alla temperatura di -271 gradi centigradi grazie all’elio superfluido.
Tolte le apparecchiature, lo spazio restante nel tunnel non è molto, diciamo meno di due metri di larghezza. Il carrello che trasportava i vari componenti durante il montaggio della macchina aveva mezzo centimetro di gioco per ogni lato. Dato che doveva procedere con una lentezza esasperante, accadeva che il guidatore si addormentasse, così è stata tracciata una linea bianca a terra e il carrello è stato dotato di un lettore laser. Oggi, in quello spazio c’è una pista ciclabile: i tecnici vanno in bici per raggiungere i punti più lontani. Tutti con il casco in testa e, a tracolla, un kit che permette di respirare ossigeno in caso di incendio o di fuoriuscita di elio. Il punto più lontano da una delle uscite si trova a 1,7 chilometri: una distanza difficile da percorrere a piedi in caso di pericolo. Quando LHC entrerà in funzione nessuno potrà più entrare nel tunnel.
In quattro punti distinti dell’anello i fasci si incontrano e i protoni si scontrano producendo energia. Lì si aprono delle enormi caverne dove sono ospitati i quattro esperimenti di LHC: Atlas, CMS, Alice, LHCb. Atlas è il più grande: nella caverna che lo ospita ci starebbe mezza cattedrale di Notre Dame. Anche gli altri, tuttavia, non scherzano. Basti pensare che il magnete di CMS contiene tanto ferro quanto tutta la Torre Eiffel.
Ora che ancora non sono entrati in funzione si possono visitare dall’interno. La prima cosa che viene in mente è: così doveva essere il cantiere della Torre di Babele. Migliaia di lavoratori di tutte le nazionalità lavorano fianco a fianco. Inglese, francese, italiano, russo, indiano: le lingue si intrecciano nell’aria, ma anche sui cartelli appesi alle pareti che indicano l’uscita o i turni di lavorazione. «Tutti sentono di partecipare a un grande progetto» ci spiega la nostra guida. Se così non fosse, del resto, potrebbero dedicare vent’anni della loro vita a quest’idea? Intanto, tredici anni sono già passati a lavorare senza sapere se la macchina funzionerà. Tra gli operai, ci dicono, ci sono molti fisici russi: in patria le cose non vanno bene, così vengono qui a mettere a disposizione le loro conoscenze. Loro sanno che la precisione è fondamentale, anche nei dettagli. Sarà il clima che si respira, ma sembra di capire che qui potrebbe venir messo in discussione l’universo così come lo conosciamo.
Il fatto è che molte cose dell’universo ci sono ancora poco chiare. Ad esempio, la massa. Perché le particelle elementari sono dotate di massa e perché le loro masse sono diverse le une dalle altre? La fisica teorica ha supposto l’esistenza di una particella, chiamata il bosone di Higgs, che spieghi questo fatto: l’interazione delle particelle con questo bosone determinerebbe la loro massa. Ma purtroppo il bosone di Higgs finora non è mai stato visto.
Un altro mistero da svelare riguarda l’antimateria. L’antimateria è l’immagine speculare della materia: se per strada incontraste un’automobile fatta di antimateria non la distinguereste da quella fatta di materia. Ma se i due oggetti entrassero in contatto l’uno con l’altro, si annichilerebbero a vicenda lasciandosi alle spalle solo energia. I fisici ritengono che al momento della nascita dell’universo materia e antimateria siano state prodotte nella stessa quantità. Quando materia e antimateria si scontravano si annullavano a vicenda. Oggi però il nostro universo, dalle galassie al giornale che state leggendo, è fatto tutto di materia. Dove è finita l’antimateria? E perché la materia ha prevalso? Se potessimo vedere l’antimateria prodotta dal Big Bang, forse ne sapremmo di più.
Sempre in tema di questioni irrisolte: la materia oscura. Secondo i calcoli dei fisici, tutta la materia che noi vediamo è solo il 4% della massa totale dell’universo. Per spiegare alcuni effetti gravitazionali, si deve supporre l’esistenza di una materia oscura e una energia oscura che non possiamo vedere. Si pensa che l’universo sia composto per il 30% da materia oscura. Ma dove sono le sue particelle?
E ancora, alcuni fisici teorici ipotizzano che le nostre quattro dimensioni siano troppo poche per descrivere l’universo. Ce ne sarebbero altre che però non possiamo vedere. Aumentando l’energia saremo in grado di individuarle?
Gli esperimenti di LHC cercano risposte a queste domande. Le collisioni tra protoni, infatti, generano un’energia molto intensa, pari a quella che si poteva misurare qualche frazione di secondo dopo il Big Bang. Questo permette a particelle che oggi non ci sono più di tornare in vita. Ma la loro sopravvivenza dura una piccolissima frazione di secondo, poi si disintegrano dando vita a particelle conosciute. Ebbene, gli esperimenti di LHC vogliono vedere queste particelle prima che scompaiano di nuovo. In particolare, Atlas e Cms, con i loro rivelatori, cercano di «fotografare» quelle, come il bosone di Higgs, che darebbero risposta alle domande cui abbiamo accennato prima. E forse anche a qualcun’altra: «Se fossimo molto fortunati - spiegano i fisici - potremmo trovare il gravitone». Il gravitone è la particella che porta la forza di gravità, ma anch’esso, finora, è solo un’ipotesi. Alice e LHCb, invece, sono esperimenti più piccoli che lavorano su due campi specifici: il primo, attraverso le collisioni tra i nuclei di piombo, cercherà di ricreare uno stato della materia esistito per pochi milionesimi di secondo dopo il Big Bang; il secondo focalizzerà i suoi sforzi per capire il comportamento di materia e antimateria subito dopo il Big Bang.
Si dice che sui paesi che collaborano all’esperimento Atlas non tramonti mai il sole perché gli scienziati vengono da tutte le aree del mondo, escluso l’Antartide. E a CSM collaborano 2500 tra fisici, ingegneri e studenti provenienti da 135 istituti sparsi in 38 paesi. L’Italia ha un peso rilevante, non solo perché in quanto membro del Cern vi investe soldi, ma anche perché molti scienziati italiani partecipano all’impresa (l’Istituto nazionale di fisica nucleare coordina i circa 600 scienziati italiani che lavorano a LHC). Inoltre, l’industria italiana ha prodotto molte componenti di precisione.
Al Cern dicono che LHC può avere anche applicazioni tecniche: dalla medicina all’industria. Ben vengano, ma il centro della questione è un altro: il fatto che si sia trovato un accordo così vasto per finanziare un’impresa fondamentalmente conoscitiva ci fa ben sperare sulle sorti della nostra specie.

l’Unità 29.9.07
Quattro radicali parlamentari per un giorno: pensione assicurata a 1.733 euro


ROMA Che le regole sulle pensioni dei parlamentari fossero da riscrivere, la Camera e il Senato se n’erano accorti mesi addietro quando hanno messo mano a quelle dei parlamentari che verranno. Da Montecitorio e Palazzo Madama si è convenuti invece che nulla potesse essere toccato sui «diritti acquisiti». Una regola per evitare contenziosi che può però causare a quella che spregiativamente è ormai chiamata «la casta», più problemi di immagine che altro. Il caso più eclatante di pensione lampo tocca infatti a quattro ex parlamentari della Repubblica, che oggi percepiscono un vitalizio mensile di 1733 euro per aver lavorato un giorno soltanto. Anzi, meno. Perché l’unica cosa che Angelo Pezzana, Piero Craveri, Luca Boneschi e René Andreani (tutti al tempo esponenti del parito Radicale) fecero quel giorno, fu di recarsi in aula e leggere le proprie dimissioni. La notizia l’ha tirata fuori «Italia Oggi» due giorni fa. Ottenendo in risposta una cortese lettera di Marco Pannella. Il leader radicale assicura che quei parlamentari si dimisero per ottenere le elezioni anticipate richieste dal partito. Ma si dice «del tutto all’oscuro di quest’altro aspetto della questione. D’altra parte - precisa - posso aggiungere che, più o meno da quella data di Piero Craveri e di Luca Boneschi il Partito non ha avuto più segnali di impegno, o anche solo di vicinanza fatte salve – dopo vent’anni – sporadici diversi episodi. Mentre per quanto riguarda Renè Andreani e Angelo Pezzana, che indubbiamente hanno continuato in questi anni un loro impegno civile e politico riconducibili comunque alle nostre ispirazioni e ai nostri obiettivi, non ho ancora avuto modo di raggiungerli e di approfondire con loro le loro ragioni». La regola, come detto, non esiste più (nemmeno nella sua prima accezione per la quale i 4 non hanno mai pagato per i contributi figurativi durante la «mancata» legislatura). Certo la notizia fa riflettere.

l’Unità 29.9.07
Se le parole curano, il silenzio fa rinascere
di Manuela Trinci


MOLTO RUMORE per nulla? Persino gli psicoanalisti hanno rivalutato, e usato nella clinica, il tacere del paziente: una «chiave» che apre porte interiori molto antiche inaccessibili al linguaggio verbale

Incredibile a dirsi, ma sulla grande rappresentazione collettiva dell’analista silenzioso a tutti i costi - critici e psicoanalisti concordi - parrebbe gravare niente meno che l’ombra dell’indimenticabile Maggiordomo nell’Impareggiabile Godfrey (1936), personaggio «super partes», rispettabile neutrale e, soprattutto, assolutamente silenzioso. Se poi ad altre decine e decine di strizzacervelli di celluloide si aggiungono esilaranti vignette di lettini, bloc notes e ronzii, apparse nelle riviste popolari sin dagli anni quaranta, il gioco è fatto. È accaduta quella trasformazione, ipotizzata da Roland Barthes, della cultura piccolo-borghese in una natura universale: nella stanza d’analisi regnerebbe il «silenzio».
Peraltro, nonostante sia arcinoto che la psicoanalisi nacque e fu battezzata da Freud come cura con la parola, talk cure, dagli anni cinquanta in poi gli stessi psicoanalisti non hanno esitato a sferzare duri attacchi al linguaggio. Jaques Lacan lasciò provocatoriamente un nutrito uditorio romano in attesa di una sua parola per circa 20 minuti, mentre Wilfred Bion non ha risparmiato pagine taglienti contro la corruzione, la degradazione, la falsità, l’inadeguatezza, la frode e la menzogna insita nella parola stessa.
Un elogio, dunque, al silenzio? Diciamo che sebbene gli analisti fossero sino dagli inizi consapevoli dei livelli preverbali presenti e attivi nelle sedute di analisi (livelli in cui, per esempio, predomini l’intonazione, il ritmo delle parole ecc), molti di loro rimasero della convinzione che questo universo di parole «invisibili» - per poter essere usate clinicamente - dovesse, comunque, essere tradotto e trasposto nei significati convenzionali del linguaggio. Un’ingenuità, si direbbe oggi all’unisono, abituati come si è ad utilizzare altri registri che appartengono appunto alla psicoanalisi post-freudiana che si è trovata a fare i conti e a cimentarsi nella cura di bambini anche piccolissimi o di patologie dove manca un riconoscimento dell’altro e la parola non può arrivare, patologie un tempo ritenute al limite o incurabili - dal narcisismo alle perversioni alle varie forme di psicosi e di autismo. Ma soprattutto il pensiero psicoanalitico ha acquisito oggigiorno la consapevolezza che esistono esperienze umane la cui intensità emotiva non può certo essere espressa con la parola. «Rimane una grande lacuna fra il neonato che conosce i fatti e noi che conosciamo il linguaggio», era solito osservare Bion in proposito.
E già Ferenczi, il «bambino terribile della psicoanalisi», aveva detto che quando due persone comunicano, lo fanno sempre a due livelli, di cui uno è e rimane silenzioso. Ma saranno, più recentemente, alcuni analisti britannnici, Margaret Little, Marion Milner, Donald Winnicott, Masud Khan, Cristofer Bollas, a parlare dettagliatamente e a sostenere la priorità di una «comunicazione attraverso lunghi silenzi», che restituisca all’orecchio le abilità perdute, ripristinando contatti e legami divenuti inusuali, aprendo l’udito a fruscii, gorgoglii, battiti del cuore e immergendo analista e paziente in un bagno di suoni primordiali. La coppia, il «noi» analitico, opera così con gli orecchi, col naso, con la bocca e con gli occhi. Tutti gli organi di senso funzionano in origine come organi di contatto nella situazione fisica della distanza, scriveva Eugenio Gaddini. E anche Hirme Hermann, sosteneva che ci si aggrappa «muti con gli occhi». «L’occhio ascolta, tocca, sente, gusta», annotava ancora J.B. Pontalis. «Udire con gli occhi appartiene al più fine ingegno d’amore», pare aver scritto quasi a conclusione Shakespeare nel suo ventitreesimo sonetto.
Ovvio, quindi, che il silenzio del paziente, nei suoi aloni semantici, sia andato nel tempo trasformandosi e se da un lato se ne mettono ancora in luce le valenze ostili e aggressive, di distanza emotiva, di incapacità di affrontare il conflitto, di resistenza alla cura, o se ne sottolineano le possibili risonanze di ritiro, di scoraggiamento, di sospetto, di angoscia persecutoria o di tentativo di seduzione, dall’altro se ne riconosce la «pienezza», la possibilità, in altre parole, di vivere un abbandono quieto nel quale si integrino pensieri, sogni e parti di sé. Col silenzio si può rivivere la remota terrifica equazione con la morte, si può tacere, trattenere le parole come si trattengono le lacrime o le sostanze fecali, si può voler mangiare l’analista, assimilarsi a lui così parco di parole, si può voler prendere il potere celando i pensieri, si può tutto questo e altro ancora come, ad esempio, ritrovare antiche esperienze di completezza e di appagamento tipiche del rapporto primario fra la mamma e il suo bambino, un rapporto senza cesure: l’«unità fondamentale». Se la parola è un sintomo d’affetto, scriveva Emily Dickinson, «un altro è il silenzio. La più perfetta comunicazione».
Una specie di Giano bifronte, allora, il silenzio in analisi che può farsi ostacolo come pure stimolo nel processo analitico facilitando, con la regressione a uno stato di benessere, un’assimilazione lenta e continua dei contenuti psichici, culla per una parola autentica, scaturita dalla ricerca della propria soggettività.
Perché il silenzio, come sostiene Greenson, è l’eclissi della parola e non del senso. Si parla e si tace, si tace e si parla. Ed è solo la consapevolezza delle pause, delle scansioni, dei ritmi, che abitano il silenzio, che permette di parlare reciprocamente, l’uno con l’altro. A ben guardare, ogni parola, ogni suono emesso dall’altro, costituisce l’incontrovertibile prova che l’oggetto è separato, che forse si è da soli, ma di una solitudine non minacciosa. Piuttosto una condiziona privata, silenziosa per l’appunto, dove possono avviarsi i processi creativi, l’amore per l’arte, la musica, la letteratura. Pensato il pensabile, comunicato il comunicabile, detto il dicibile, concluso ciò che era aperto e conflittuale, si ritrova con ciò quel silenzio da cui la parola e il linguaggio sono scaturiti: il silenzio dell’origine.

l’Unità 29.9.07
ANNIVERSARI A Roma un convegno a duecento anni dalla pubblicazione della celebre opera hegeliana tradotta in Italia dal grande hegelista Enrico De Negri
La «Fenomenologia» di Hegel? Ottima per capire il mondo globale e le sue differenze
di Bruno Gravagnuolo


Le dispute tra hegeliani e antihegeliani sono un ricordo ma il fascino del filosofo resta
Il conflitto tra servo e signore è una chiave attualissima per capire la politica

Ci fu un tempo in cui accapigliarsi su Hegel era d’obbligo. Da Marx in poi, certo. E già tra hegeliani: giovani, vecchi, di destra o di sinistra. In fondo in tutta la modernità otto-novecentesca non v’è stato filosofo che più di Hegel ha diviso gli animi, ha marcato scelte, e influenzato i movimenti politici. Per il tramite dei suoi interpreti, dei suo detrattori, o dei suoi «rovesciatori». Ben per questo Bobbio parlava di un «macigno» che ancora sta sulla nostra strada. E ben per questo Loewith vedeva nel tratto che va «Da Hegel a Nietzsche» il cuore di tutte le dispute culturali europee a venire.
Insomma, Hegel come grande crocevia etico politico tra opposte visioni del mondo in lotta. Incluso il ruolo di chi come Nietzsche salta oltre la metafisica, e distrugge luciferinamente la totalità sensata dell’Essere: volontà di potenza e innocenza del divenire circolare. Con le declinazioni più opposte di quella rottura anti-hegeliana: libertarie o totalitarie. Infine l’Italia, terra di hegeliani, da Vera, a Spaventa, a Gentile e Croce. Fino all’hegelo-marxismo storicista (Gramsci) e al marxismo anti-hegeliano (Della Volpe).
Oggi da tutto questo c’è molta più distanza, e per ovvii motivi. Tra i quali la fine delle filosofie della storia, e la crisi delle visioni unitarie. Il che sgonfia il pathos di quel confronto, così teso una volta. Ma il rischio è quello di veder svanire una grande ricchezza speculativa. Un grande arsenale filosofico, senza di cui la modernità resta davvero cieca e irriflessiva.
Già, perché in Hegel c’è in fondo il doppio «algoritmo» della modernità «post-rivoluzione francese»: soggettività dotata di diritti, e universalismo della ragione autoriflessiva in divenire. Universalità intesa come globalismo del destino del genere, quel che già Kant a modo suo aveva compreso, come illuministica ragione cosmopolitica.
E dunque, Hegel come «filosofo globale». Del suo tempo globale, e però anche diagnosta dell’autoriproduzione dei conflitti dentro quella ragione universale, che di conflitti è fatta e assieme del tentativo di comporli.
Ecco, ci è parsa questa la premessa implicita del bel convegno sul duecentenario della Fenomenologia dello Spirito hegeliana, che si sta svolgendo a Roma (ieri al Goethe Institut e oggi a chiudere a Villa Mirafiori). Con alcuni insigni studiosi, come Giuseppe Cantillo, primo traduttore italiano della Jenenser Realphilosohie, Claudio Cesa, Ludwig Siep, e altri più giovani docenti come Roberto Finelli, Paolo Vinci, Stefano Petrucciani, Stefania Pietroforte. Un convegno in fondo di «hegelisti non hegeliani», per usare l’espressione di un maestro di questi studi. Quell’Enrico De Negri, scomparso nel 1990, che tradusse mirabilmente la Fenomenologia del 1807 per la Nuova Italia, e che resta uno dei più grandi interpreti di Hegel e de La teologia di Lutero (altro suo capolavoro). Ma che significa «hegelismo non hegeliano»? Significa non prendere per oro colato la sistematica speculativa del filosofo. Non cedere alle lusinghe della sua totalità «vampirizzante». E sforzarsi, ancora una volta, di «riformare» la dialettica hegeliana. Concependola come strumento di unificazione possibile - e aperta però - del reticolo del sapere. Dei saperi. E delle relazioni umane. Concettualizzando le relazioni, e portandone a trasparenza il loro nesso, senza estinguere né il conflitto né il perenne cadere delle opposizioni fuori di sè stesse. Ovvero, il conflitto delle differenze come nesso, e come oggetto unitario di pensiero. Talché, centrale nella discussione del convegno era il tema del «riconoscimento» - chiave del filosofare hegeliano - come architrave dell’etica, della filosofia politica. E delle teorie della giustizia. In altri termini: come si media l’individuo con gli altri individui nella totalità sociale? E come si mediano culture, etnie e civiltà in collisione nel mondo unificato? Basta la teoria dell’«agire comunicativo» habermasiano al riguardo? O il «neocontrattualismo» alla John Rawls? Basta il «comunitarismo», sia pure aperto e flessibile? Non bastano. E allora Hegel una risposta la dà. Proprio tramite la vicenda dell’emancipazione del «servo», filo conduttore della Fenomenologia dello Spirito e della storia d’occidente. Il punto chiave è: diventare padroni di sé. Elaborare conflittualmente una versione sostenibile dell’Autorità. Condivisa e partecipata (riconosciuta). Ma ciò avviene per via di sfide di singoli e gruppi verso una legittimazione condivisa e reversibile, sempre più larga e in bilico. Sfide egemoniche. E qui Hegel, Nietzsche e Gramsci si danno la mano. Con Marx.

l’Unità 29.9.07
Le preoccupazioni di Veltroni (e le mie)
di Armando Cossutta


La preoccupazione espressa da Walter Veltroni circa la difficoltà di poter governare con maggioranze “vastissime” non è priva di fondamento. Dico governare e non semplicemente amministrare perché per governare occorre fare scelte precise e chiare, le quali, in quanto tali, sono quasi sempre non facili da attuare; la loro approvazione richiede maggioranze non eterogenee.
So benissimo che non esistono e realisticamente non possono esistere maggioranze perfettamente omogenee, compatte e univoche, e so anche che una solida maggioranza politica, quando esiste, è tuttavia inevitabilmente (e giustamente) articolata, differenziata, plurale. Ma essa non può essere talmente contraddittoria al suo interno sulle questioni più rilevanti da rendere impossibili le necessarie scelte di governo: ne verrebbe una sorta di paralisi decisionale, tale da aprire il varco al disimpegno popolare e infine ad una tremenda vittoria della destra.
A questo credo pensi Veltroni e a questo devono pensare, credo io, tutte le forze democratiche. Certo, subito per cambiare l'attuale orribile legge elettorale, per esempio adottando il sistema tedesco, con il metodo proporzionale e un forte sbarramento, ma soprattutto per identificare nettamente la prospettiva politica per la quale ci si intende impegnare.
Io ritengo che si debba operare per garantire al nostro Paese una direzione democratica e riformatrice, e che per realizzarla sia necessaria un'alleanza dichiaratamente di centrosinistra. Non di centro, per ragioni che da parte mia è superfluo esporre. E non di sinistra. Ecco il punto. Le forze di sinistra in Italia sono potenzialmente molto vaste, ma non hanno la maggioranza, non l'hanno mai avuta e non vedo, in un avvenire politicamente prevedibile, come possano raggiungerla. Ma possono pesare molto, per una politica riformatrice, se alleate con quelle forze democratiche che pure, da sole, non hanno la maggioranza e da sole non potrebbero governare.
Fra pochi giorni nasce il Partito democratico. Sarà un partito fondamentale per la tenuta democratica del Paese (potrebbe superare il 35%) ma, per garantire quella tenuta, esso non potrà accontentarsi di praticare una politica moderata, che sarebbe sempre condizionata (o peggio) dalle fortissime correnti della destra presenti nel profondo della nostra società oltre che nel campo politico. Il Partito democratico deve, pena il suo fallimento storico, concordare una politica di rinnovamento democratico e di progresso sociale con la sinistra.
Ma quale sinistra? Gli attuali gruppi della sinistra pesano poco, rischiano la subalternità al P.D. e un'esistenza protesa costantemente nella ricerca di una qualche riconoscibilità, molto propagandistica, testimoniale, sostanzialmente inefficace, vittime comunque dell'insanabile contraddizione tra nobili intenti e magri risultati.
Ed invece la sinistra può davvero contare, può finalmente rinascere se i gruppi dei quali oggi è costituita sapranno uscire ciascuno dalle proprie trincee, mettendo in discussione se stessi e infondendo le proprie identità in una identità comune, unitaria. Non ignoro le obiezioni: occorre tempo per definire comunemente i contenuti, non su tutto siamo d'accordo, occorre precisare chiaramente quel che vogliamo oggi, e che cosa vogliamo domani. Lo so. Sono esigenze rilevantissime di chiarezza. Ma so che ci sovrasta un'altra esigenza, più rilevante: quella di unirci subito, tutti, e di lavorare tutti insieme senza pretendere, mai, di annullare le differenze ma operando sintesi che consentano alle differenze di diventare forza e ricchezza. Non sono le differenze in sé a causare ritardi e rinvii, è vero invece che esse sono trattate come pregiudiziali ad ogni avvio di intesa.
I peggiori avversari dell'unità della sinistra peraltro non sono quelli mossi dalla preoccupazione del chiarimento bensì quanti dichiarano di volere l'unità, subito, ma … che questa deve configurarsi come un'intesa politico-programmatica, un patto di unità d'azione, una confederazione, non oltre. L'unità a cui pensano non è l'unità del popolo di sinistra, è una sommatoria di gruppi dirigenti, di apparati, ciascuno già intento a ben calcolare quale sarà la propria collocazione sulla tolda di comando.
Ho letto che il Pdci è sicuro di poter fare da subito la confederazione con il Prc. Potrebbe apparire come un bel passo avanti verso l'unità della sinistra ed è un brutto passo indietro. Si tratterebbe di un accordo fra "comunisti" che congelerebbe ogni ulteriore processo unitario, plurale, accogliente; compatterebbe tutte le vecchie e nuove resistenze identitarie, si differenzierebbe ovviamente quale sinistra "radicale" sino a contrapporsi ad una sinistra più "moderata", quella comprendente Mussi, i suoi compagni e tutti gli altri, Verdi, socialisti, migliaia, milioni di uomini e donne che, senza partito, tuttavia si sentono di sinistra e che della sinistra vogliono, possono partecipare alla rinascita.
Io penso proprio che occorre superare gli indugi, indicare e costruire la proposta semplice e chiara di una Costituente per il partito unitario della sinistra, plurale, libero, popolare, che potrebbe superare largamente il 15% e che, alleato al partito di Veltroni, potrebbe contribuire a governare l'Italia per una politica democratica e riformatrice.

l’Unità Firenze 29.9.07
Welfare, sinistra radicale in corteo per il no
I sindacati dei pensionati: «Stupiti e indignati dalla campagna per il no: aiuta chi vuol peggiorare il protocollo»
di Valeria Giglioli


GLI ORGANIZZATORI si aspettano qualche migliaio di persone: la manifestazione (l’unica prima del referendum) contro l’accordo sul welfare siglato in luglio parte stamani alle 9.30 da piazza Indipendenza, nel cuore di Firenze, per concludersi, dopo il corteo, in piazza Strozzi. «È una manifestazione propositiva» dice Andrea Rufini, del comitato promotore. E gli organizzatori non ci stanno ad essere «tacciati di essere quelli che vogliono far cadere il governo Prodi: abbiamo sollevato un problema sull’accordo, non sul governo».
La manifestazione è regionale, ma sul sito web sono arrivate adesioni da tutta Italia: c’è chi saluta o solidarizza da Roma, Milano, Trieste, Genova, ma anche da Napoli, Bologna, Reggio Calabria e Sassari. Con i manifestanti, anche Comunisti italiani (che portano in corteo il segretario Oliviero Diliberto e l’eurodeputato Marco Rizzo, insieme ai toscani Nino Frosini, Luciano Ghelli e Eduardo Bruno) e Rifondazione, con il segretario toscano Niccolò Pecorini e la consigliera regionale Monica Sgherri. E in piazza ci saranno il segretario nazionale Fiom Giorgio Cremaschi, il coordinatore di Lavoro e società Nicola Nicolosi e Rossano Rossi, della segreteria regionale Cgil. Con loro anche la rete 28 aprile e Unaltracittà, con Ornella De Zordo. Le questioni di merito per quel che riguarda il protocollo siglato da organizzazioni sindacali e governo sono tre: «Dal 2010 i coefficienti di calcolo per le pensioni saranno ridotti - dice Rufini - mentre non c’è la separazione tra previdenza e assistenza. E a questo si aggiunge il mancato superamento della legge 30».
Della campagna per il no all’accordo si dicono «sorpresi e indignati» i sindacati dei pensionati, schierati a favore dell’accordo. Spi Cgil, Fnp Cisl e Uilp Uil regionali hanno presentato ieri la mobilitazione per il referendum: più di 600 le assemblee in tutta la regione per informare e far votare i pensionati. E le persone che per problemi di salute non potranno recarsi ai seggi l’8, 9 e 10 ottobre possono prenotarsi per votare a domicilio telefonando alle sedi sindacali. «Vogliamo esprimere un sì convinto - hanno detto i segretari Savini, Grazzini e Pistolesi - all’accordo che riteniamo importante e positivo. È acquisitivo e migliora le condizioni di tutte le generazioni. Ci sono problemi che restano, ma questo protocollo apre una strada a ulteriori interventi». Sul fronte degli anziani, in Toscana saranno «circa 220mila persone a beneficiare della rivalutazione delle pensioni». La campagna per il no, proseguono i tre sindacalisti, «aiuterà le forze che vogliono peggiorare l’accordo. E se venisse bocciato, si dovrebbe ripartire da zero, con il sindacato delegittimato».

Corriere della Sera 29.9.07
Casavola pronto a lasciare dopo gli attacchi dell'ala laica
Bioetica, scontro nel Comitato E Prodi stoppa le dimissioni
di Margherita De Bac


ROMA — Insulti, dispetti, ripicche, accuse. Atmosfera da separati in casa nel Comitato nazionale di bioetica. La crisi è scoppiata in questi giorni, dopo mesi di litigi furiosi. E si sarebbe conclusa con il divorzio. Il presidente, Francesco Paolo Casavola, era infatti deciso a dimettersi. E lo avrebbe fatto se non ci fosse stato l'altolà di Prodi. «Ai tanti problemi non aggiungiamo anche questo... », lo ha esortato a restare al suo posto il premier. E così l'ex presidente della Corte Costituzionale è tornato sui suoi passi dopo un incontro avuto col numero uno di Palazzo Chigi giovedì sera.
Ieri il Comitato riunito nella mensile plenaria, ha dunque chiuso i lavori senza tuoni e fulmini. Si prevedeva il finimondo dopo la lettera con cui tre esponenti del gruppo della sinistra radicale, Carlo Flamigni, Demetrio Neri e Gilberto Corbellini (sostenuti da Maurizio Mori), avevano accusato Casavola di «pochezza di risultati » e «gestione unilaterale, poco rispettosa del regolamento vigente», tesa a favorire la componente cattolica. Sembrava ci fosse già un personaggio preavvisato per sostituirlo, Giovanni Berlinguer, ds. Invece la riunione è andata avanti e si è conclusa senza soluzioni estreme, all'ordine del giorno la discussione sugli embrioni malformati. Casavola, come voleva Prodi, non ha accennato alle ventilate dimissioni. E nessuno ha introdotto il vero tema.
Che i 50 esperti nominati a novembre 2006 non filassero d'amore e d'accordo si sapeva. Spaccature sempre più evidenti tra i cattolici e la minoranza laica, aperte critiche dai progressisti. Mancanza di dialogo e di risultati, che tradotto nel linguaggio dei bioetici significa documenti e pareri sui temi attuali più scottanti (la scelta non manca).
Ultimamente non facevano che litigare, i due schieramenti. Pugni sul tavolo, sbattimenti di porte, espressioni sgarbate. La guerra dei Roses. Flamigni è durissimo con Casavola, accusato di aver designato due cattolici in commissioni ministeriali su fecondazione artificiale e staminali (il genetista Bruno Dallapiccola e Luca Marini): «In un anno ha dato ascolto solo al Vaticano - dice il ginecologo - Ha scelto due personaggi retrivi e dogmatici. Non è il suo mestiere. Non mollo il Cnb. Come minoranza riusciamo a fermare decisioni spudorate». Dallapiccola chiarisce: «La nomina mi è stata comunicata dal ministro Turco. Vogliono eliminare Casavola, persona per bene, anche se di poco polso. Pessima situazione. Non si lavora, siamo agli insulti beceri, è un ring».

Corriere della Sera 29.9.07
Il programma di Ilaria D'Amico. Appuntamenti anche a San Pietro. Un sacerdote: portando il colletto si attira tanto
Preti gay, i segreti svelati in tv «Chat e incontri, non è peccato»
Un ragazzo-esca e telecamere nascoste: il reportage su «Exit»
di Lorenzo Salvia


Lunedì la puntata sulle confessioni dei preti gay

ROMA — I racconti: «Se penso al seminario o alla mia diocesi credo che gli omosessuali siano una buona parte». Le confessioni a cuore aperto: «Sono stato insieme con un ragazzo siciliano per un anno. Se due uomini si vogliono bene, non conta se porti la tonaca oppure no». Anche le avance, certo: «Portando il colletto si attira tanto. Tu faresti l'amore con me?». E le critiche alla Chiesa: «Con noi fa come l'esercito americano: io non ti chiedo niente, ma tu non devi dire niente. Copre, insabbia, ma così non cresce». Sono preti quelli che parlano. Preti gay, ripresi con una telecamera nascosta durante i loro incontri clandestini con un ragazzo conosciuto sulle chat line per omosessuali.
I FILMATI — Mezz'ora di filmati che andranno in onda lunedì prossimo durante Exit, il programma condotto da Ilaria D'Amico che riparte in prima serata su La7. Un'inchiesta su un mondo sommerso: nessun giudizio, solo la voglia di togliere il velo che copre un pezzo di realtà.
Un lavoro partito con una mail arrivata in redazione. A scrivere era un ragazzo gay. Diceva di frequentare abitualmente le chat per omosessuali, di aver conosciuto così tanti preti, e poi anche di averli incontrati di persona. Quelli di
Exit hanno documentato le fasi dell'aggancio sulla chat, registrato le telefonate fatte per mettersi d'accordo, e ripreso (con una telecamerina nascosta) gli appuntamenti clandestini.
IN UFFICIO — Volti non riconoscibili, voci camuffate, le immagini si fermano ad un certo punto perché l'obiettivo è raccontare non choccare. Non si nascondono i preti, anzi. Protetti dal nickname (il nome in codice che si utilizza per chattare) dicono subito di essere sacerdoti e non hanno problemi ad organizzare un appuntamento. Gli incontri filmati sono tre. Il primo prete è il più dolce: «Se ritornassi indietro, il sacerdote lo rifarei. Hai tante soddisfazioni, aiuti gli altri. (...) La prima esperienza con un uomo l'ho avuta dopo, 10 anni fa. Ma io sto bene con questa mia, tra virgolette, omosessualità». Il secondo è il più spavaldo: racconta di aver avuto un «centinaio» di incontri: «In seminario mi trattenevo per la paura di essere beccato, ma poi non mi sono più controllato». Dice anche che sui gay la «Chiesa è ipocrita perché pure in Vaticano ce ne sono tanti». Il terzo incontro è quello più duro. Appuntamento in Piazza San Pietro, si capisce che dall'altra parte non c'è un semplice parroco. Nell'aggancio sulla chat ha detto di avere tendenze sadomaso. I due si spostano in un ufficio lussuoso. Il ragazzo è un po' preoccupato e lui lo tranquillizza: «Se vuoi andare via non c'è problema». Poi il discorso finisce sull'atteggiamento della Chiesa: «Non ce l'ha con i gay ma — dice il prete — è contro il sesso prima del matrimonio. I gay non si possono sposare e quindi non devono avere rapporti». Nervosismo, nessuna traccia di quella serena voglia di intimità degli altri incontri. I due si avvicinano. «Stai per commettere un peccato davanti agli occhi di Dio», dice il ragazzo. «Io non lo sento come un peccato», risponde l'altro. E ancora. «Non ha senso che tu sia prete », «Qui finisce la nostra storia — risponde il sacerdote — hai troppe preclusioni. Ti metto sull'ascensore e se qualcuno ti ferma non dire nulla ».
LA CONFESSIONE — Dopo i tre filmati «rubati» c'è un prete gay che (anche lui volto oscurato e voce camuffata) accetta di raccontare la sua storia: il compagno trovato in seminario, un ragazzo che poi dirigerà il coro durante la sua ordinazione, «il giorno più bello della mia vita, mettevo insieme i miei due amori». Il rapporto durato tanti anni con un altro uomo «anche se poi la lontananza ci ha divisi ». Don Felice — nome di fantasia — accusa la Chiesa: «Ha paura che l'omosessuale sia anche pedofilo. Un errore. Se c'è pedofilia, che non dipende dall'omosessualità, si tratta di un reato. Ma la Chiesa, invece di dire, copre». E infine racconta le difficoltà di una vita come la sua: «Ci muoviamo come gli indiani in un mondo di cow boy, attenti a non essere impallinati. Ma io sono sereno con la mia coscienza. Dio è più grande del nostro cuore».

Corriere della Sera 29.9.07
Pietà per Baudelaire, povero satanista
di Renzo Paris


L' articolo di Piperno sul Baudelaire di Montesano disegna due figure: il dandy splenetico reazionario e il rivoltoso, legato alla repressione delle giornate del 1848. Per suffragare la sua tesi di un Baudelaire «flaccido pretino inacidito » e sostanzialmente di destra, Piperno cita una frase dell'autore dei «Fiori» che rivela il suo antisemitismo, dimenticando che non c'è autore che si rispetti, prima dell'Olocausto, che non abbia ascoltato la voga antisemita. Ma il punto non è questo. Già Sartre e Benjamin se ne erano occupati da par loro sia del "rivoltato" che del dandy reazionario. Se c'è una cosa invece che data irrimediabilmente Baudelaire come autore ottocentesco, è proprio il suo satanismo carnale, il suo senso del peccato, che il Novecento, almeno in poesia, ha sottaciuto. Rileggendo «I Fiori» impressiona la presenza ossessiva di Dio e Mammona, la litania satanica che le sottende, che non ha nulla di pretesco. E poco vale dire, come fa Montesano, che quel Satana è Napoleone III, il capitalismo, lo sfruttamento borghese alla Marx. No, non è Satana che domina nelle dark room odierne dove è il corpo a trionfare, nel sesso estremo di oggi . Senza il Diavolo davvero Dio rischia di non essere citato più. Il Novecento, con le sue avanguardie, un po' lo mise in disparte, ripescando il poeta della modernità, dei quadri parigini, dei paradisi artificiali, disossandolo.Ma il nostro preferiva il vino all'oppio e alle canne. Contro il revisionismo culturale ha fatto dunque bene Montesano a ricostruire le letture baudelairiane, quelle del socialismo cristiano, dei pensatori ermetici e reazionari alla de Maestre, ma i no global, i giovani a cui si rivolge, che se ne fanno del Diavolo, così come i ragazzi del V-day?

il Foglio 29.9.07
NERI, CORBELLINI E FLAMIGNI VORREBBERO LE SUE DIMISSIONI
Ai laicisti del Comitato di bioetica Casavola non piace più


Roma. Sarà stata grande la delusione, per chi sperava di seppellire il presidente del Comitato di bioetica, Francesco Paolo Casavola, sotto il polverone suscitato da una interessata “fuga di notizie” relativa a una lettera di accuse contro la sua gestione del Comitato, firmata dai professori superlaicisti Gilberto Corbellini, Carlo Flamigni e Demetrio Neri. La riunione plenaria di ieri, che qualcuno immaginava come un redde rationem contro il presidente, si è invece svolta nella più grande alacrità e tranquillità. Al termine, salutato da un applauso dell’assemblea (dopo aver avuto attestati di solidarietà dai vicepresidenti del Cnb), Casavola ha dedicato solo qualche minuto a dirsi convinto che le incomprensioni sranno superate e a ribadire la propria “personale indipendenza e autonomia”. Davvero difficili da mettere in dubbio, visto che, come presidente della Corte costituzionale, fu lui a firmare sentenze fondamentali sulla laicità dello stato, come quella sull’ora di religione facoltativa. La lettera di Corbellini, Flamigni e Neri (che ieri sono andati via prima della fine dei lavori, quindi prima dell’applauso a Casavola) lo descrive invece come un agente del Vaticano poco disposto a dare pari “dignità politica” a posizioni diverse dalle proprie. Per ora, però, l’incidente sembra chiuso, anche se Neri dichiara che “un chiarimento è ineludibile sullo stile di lavoro del Comitato”, e che lui se lo aspetta per la fine di ottobre, alla prossima plenaria.
Sta di fatto che la lunga lettera di accuse, che doveva rimanere oggetto di una discussione interna, è invece finita – chissà come e a opera di chi, visto che i tre firmatari respingono indignati ogni sospetto in proposito – nella redazione del settimanale Left (quello sul quale lo psicanalista Massimo Fagioli scrive ogni settimana cose del tipo: “La legge 40 violenta il rapporto uomo-donna”). left, prima di pubblicarla, l’ha anticipata alle agenzie, e Casavola si è trovato pubblicamente accusato per come “in questi primi sette mesi ha guidato l’attività del Comitato nazionale di bioetica”. I suoi peccati vanno dalla designazione del genetista Bruno Dallapiccola a rappresentare il Cnb nella commissione che doveva esprimere un parere sulle nuove linee guida della legge 40, all’invio di Luca Marini al forum europeo dei comitati di bioetica, alla nomina di Adriano Bompiani, oltre a Marini e a Dallapiccola, in una commissione sullo stoccaggio delle cellule staminali. In tutti i casi, si lamentano Corbellini, Flamigni e Neri, la scelta è caduta su personalità di orientamento cattolico (anche se si può obiettare che l’assegnazione delle deleghe, piaccia o non piaccia, è di competenza del presidente del Cnb.)
Le accuse al presidente Casavola, per non parlare del modo quantomeno irrituale con cui sono state diffuse, testimoniano del fatto che non è andata giù, ad alcuni componenti del Cnb, l’approvazione delle due mozioni che bocciavano rispettivamente il mercato delle staminali cordonali e quello degli ovociti. Mozioni benemerite, che vanno nella direzione ovvia di impedire la commercializzazione di parti del corpo umano, ma che evidentemente nascondono trappole illiberali, per i superlaicisti Corbellini, Flamigni e Neri (e non solo per loro, in verità). L’ala laicista radicale, inoltre, sognava probabilmente di trasformare quanto prima il Comitato nazionale di bioetica (organo consultivo dipendente direttamente dalla presidenza del Consiglio) in un organismo decisionale stile Hfea, l’autorità inglese per l’embriologia e la fecondazione. La prudente gestione di Casavola, però, non ha consentito di realizzare quel sogno, almeno fino a oggi.
A tutto ciò andrebbe forse sommata anche qualche turbolenza legata alla nascita del Partito democratico. La vicenda di cui è stato involontario protagonista Casavola (designato da Prodi) potrebbe essere (c’è chi giura che sia proprio così) solo uno dei tanti episodi di una lotta sui temi bioetici nell’incubatrice del Partito democratico, e di una forzatura che cercherebbe di rompere gli indugi rispetto a una decisa virata laicista del Comitato e della bioetica del partito che verrà. C’è chi preme, insomma, perché nell’atto di nascita del nuovo partito siano codificati impegni che vanno dalla “libertà di ricerca” al testamento biologico, passando certamente per una revisione della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. Sfiduciare Casavola e la sua gestione prudente è un passo in quella direzione. Per ora, però, non se ne parla.