Bertinotti. Lite con Fassino su Marchionne e tagli alla politica
ROMA — E' a distanza, ma è duro il botta e risposta tra Fausto Bertinotti e Piero Fassino sui costi della politica. Il presidente della Camera, a «Liberafesta», punzecchia il leader dei Ds, che giorni fa gli aveva scritto per chiedere di bloccare gli aumenti automatici ai deputati: «Le proposte di Fassino sui costi della politica? Sono condivisibili, ma non ho visto proposte di legge depositate da lui alla Camera...», la stoccata di Bertinotti, che al leader Ds rimprovera anche l'apprezzamento per l'Ad della Fiat Sergio Marchionne: «Tra Marchionne e il Papa sceglierei il socialismo e se tertium non datur, uscirei di scena».
Replica seccamente Fassino, ma solo sul tema dei costi della politica: «Bertinotti non può certo insegnarmi a fare il parlamentare, la sua è una polemica pretestuosa: dei 10 punti da me indicati, 5 li ho ritrovati in Finanziaria».
Corriere della Sera 1.10.09
Duello tra sinistra e moderati
Il presidente della Camera: partita aperta
Prodi: l'accordo non si discute. «Si va avanti come deciso, è chiaro che le Camere hanno libertà di azione»
di Francesco Alberti
BOLOGNA — Romano Prodi ce la mette tutta per non farsi rovinare la domenica del post-Finanziaria e alle 7 della sera, dopo aver esultato come un bambino di fronte al bis mondiale del ciclista e amico Paolo Bettini, con il quale anni fa pedalò per una settantina di chilometri tra i calanchi dell'Appennino reggiano, torna con la testa a Roma e alza disco rosso davanti all'ennesima offensiva della sinistra radicale su Welfare e dintorni: «Il protocollo non si tocca— dice deciso ai microfoni del Tg3 —, è stato firmato con le parti sociali e non si può cambiare in modo unilaterale... ». Nessuna intenzione quindi di trasformare il Consiglio dei ministri del 12 ottobre, chiamato a ratificare l'accordo, nell'ennesimo percorso di guerra: «Si va avanti come deciso...». Poi, naturalmente, le logiche del Parlamento seguiranno il loro corso («E' chiaro — aggiunge il premier — che le Camere hanno ampia libertà d'azione»): ma questo è l'unico spiraglio che il Professore concede alle speranze dei vari Bertinotti e Ferrero, cercando di placare i timori (e le minacce) di Dini, Bonino e compagnia.
Domenica troppo breve per riprendersi dagli affanni della maratona sulla Finanziaria. Ma sufficiente comunque a consolidare in Prodi la convinzione che, con il varo unanime della manovra, «è stato fatto un passo importante», una sorta di ricostituente per la salute sempre gracile della maggioranza e dell'esecutivo. Anche se nessuno sottovaluta le mille trappole che nei prossimi due mesi attendono la Finanziaria in Parlamento, il Professore trova comunque ragioni d'ottimismo in due considerazioni. La prima: «Questa manovra è stata voluta e gradita da tutti i ministri, da tutte le componenti dell'esecutivo, e se quindi qualcuno in Senato non la votasse, beh, non lo capirei proprio». La seconda: «Stiamo cominciando, come promesso, a restituire. Nella Finanziaria le tasse calano e la prova è data dal taglio del-l'Ici, che diminuisce drasticamente ». Il sereno però finisce qui e tra le tante nubi che appesantiscono l'orizzonte la più minacciosa resta quella sul Welfare. Alla sinistra, che non si rassegna all'idea che la partita sul Protocollo sia chiusa, Prodi ricorda che l'accordo «sarà esaminato e approvato nella seduta del Cdm del 12 ottobre» e, aggiunge, la decisione di rinviarla a quella data nasce principalmente dal fatto che l'agenda dell'ultimo Consiglio dei ministri «era pienissima». Un rinvio tecnico, quindi, a detta del premier. Ma che comunque cade a puntino per il governo: se infatti, come probabile, il referendum che si terrà il 10 ottobre nelle fabbriche sancirà il via libera dei lavoratori al Protocollo, per la sinistra diventerà piuttosto complicato continuare ad incalzare il governo sulla necessità di rimettere mano all'accordo.
Anche perché, nel frattempo, Prodi intende capitalizzare al massimo la «leggerezza » di questa Finanziaria, esaltandone i vantaggi per la collettività. Un martellamento che avrà al centro il tema tasse: «Noi seguiamo il programma — afferma —: l'anno scorso abbiamo compiuto un'azione di risanamento. Ora si comincia a ridistribuire e, se la lotta all'evasione continuerà a funzionare, daremo altre soddisfazioni ai contribuenti». L'ultimo pensiero è per il Pd, a 14 giorni dalle primarie. Oggi il Professore incontrerà i candidati alla segreteria per dire loro che sogna «un partito forte e con l'anima ». Altra scommessa.
Corriere della Sera 1.10.09
Giordano: «Romano eviti di dare ordini»
ROMA — «Noi non stiamo agli ordini di Prodi»: la prima reazione del leader del Prc, Franco Giordano, quando i collaboratori gli leggono le parole del presidente del Consiglio è una staffilata.
Il commento ufficiale è assai più cauto. Il segretario di Rifondazione comunista sa che sta per aprirsi, in seno alla maggioranza, l'ennesimo braccio di ferro e vuole soppesare parole e modi.
Ma la Cosa rossa non è da sola in questa vicenda. Anche dalla Cgil giungono proteste. Guglielmo Epifani ripete ai suoi: «Quest'accordo non è intangibile: mi stupisco di certe dichiarazioni».
Sì, per la Cgil l'intesa non è intangibile e non lo è neanche per Giordano. Il leader del Prc con i compagni di partito usa toni ben diversi da quelli ufficiali. Alla stampa affida solo queste parole: «Il presidente del Consiglio sa benissimo che ci sono alcuni punti di quell'intesa su cui Rifondazione comunista non è d'accordo. Il Parlamento è sovrano, lo dice lui stesso, quindi cercheremo di cambiare l'accordo nelle aule perché così com'è non possiamo votarlo».
Ma con i fedelissimi il leader del Prc è meno diplomatico: «Prodi — spiega — sta cercando di barcamenarsi perché vuole stemperare la polemica che si è aperta su questo argomento, vuole che le acque si calmino prima del Consiglio dei ministri del 12 ottobre». Dopodichè il leader del Prc confida che l'inquilino di palazzo Chigi, al di là della fermezza dei toni assunti ieri, voglia «modificare l'accordo»: «Credo che alla fine apporterà delle modifiche su alcuni punti, non penso che lascerà veramente l'accordo così com'è».
Ma Giordano sa che Rifondazione comunista, in questo frangente, potrebbe essere «il capro espiatorio» di quella crisi di governo che non si è aperta sulla Finanziaria, ma che si potrebbe aprire sul capitolo Welfare e pensioni. «Mi rendo conto — è la riflessione ad alta voce che il leader del Prc affida ai collaboratori — che a qualcuno ha dato fastidio il nostro ruolo nella discussione sulla Finanziaria che segna un piccolo passo avanti nella direzione della ridistribuzione. Ed è chiaro che ci sono poteri, come le banche o le grandi imprese, che temono di subìre un contraccolpo dalla modifica dell'accordo. Noi, però, abbiamo sempre agito con grande trasparenza, se poi gente come Lamberto Dini vuole utilizzarci come alibi per i suoi giochi di palazzo questa è un'altra storia. Non è che noi possiamo restare immobili per questa ragione. Prodi sa che la sua coalizione deve rispondere anche ai lavoratori e sono loro che noi vogliamo rappresentare, non gli interessi di una parte». Già, i lavoratori che si esprimeranno proprio alla vigilia del Consiglio dei ministri del 12 ottobre, quello in cui verrà discusso l'accordo sul Welfare. Ma l'esito di quel referendum è scontato: vinceranno i sì all'intesa, se non altro perché nelle assemblee è vietato spiegare le ragioni del «no» («Il sindacato è l'ultimo pezzo di Bulgaria comunista rimasto in Europa», è il commento malizioso di uno dei leader della Fiom, Giorgio Cremaschi). E infatti non è che a Rifondazione comunista si aspettino sorprese dal risultato. Anche loro danno per acquisita la vittoria dei «sì». «Ma— avverte Giordano — sarà un risultato che andrà letto e interpretato. Se c'è disagio, e ci sarà, va ascoltato, non si può chiudere la questione dicendo "hanno vinto i sì". Sarebbe una pazzia: nessuna persona saggia lo farebbe. E penso che non vorrà farlo neanche il presidente del Consiglio...».
A Rifondazione, insomma, sono sicuri che vi saranno delle fabbriche dove vincerà il no, fabbriche significative, e ritengono che minimizzare certi segnali sarebbe una sciocchezza, tanto più in un momento come questo in cui la politica non è che sia troppo amata. Giordano comunque di un'altra cosa è convinto: «Se ci ascoltassero e capissero che noi agiamo sempre in perfetta coerenza eviterebbero i drammoni a cui poi bisogna porre rimedio all'ultimo minuto. Che a noi questo accordo non piaccia è noto, come è nota la nostra decisione di non votarlo se non cambia».
Corriere della Sera 1.10.09
Bertinotti: giochi aperti sul welfare Dai «moderati» altolà alla sinistra
di Roberto Zuccolini
No da Damiano e Rutelli. Ferrero rilancia, la Bonino lo gela: irricevibile Il presidente della Camera contro Bossi: le sue parole generano odio
ROMA — Giusto poche ore per assaporare il «gusto» della Finanziaria approvata dal Consiglio dei ministri e subito per il governo ricomincia un nuovo tormentone che si chiama Welfare. Ad aprire il discorso è Fausto Bertinotti che, alla festa di Liberazione, non ha problemi a dire che sull'accordo siglato questa estate con le parti sociali «la partita è ancora aperta». Lo stesso pensa tutto il suo partito, Rifondazione comunista e, con diverse sfumature, il Pdci, Sinistra democratica e Verdi. Tanto che la domenicale levata di scudi fa subito insorgere i moderati del governo, dal ministro del Lavoro Cesare Damiano a Francesco Rutelli, che, a loro volta, promettono: «Il patto non si tocca». E assicurano che il 12 ottobre, quando se ne parlerà in Consiglio dei ministri, non ci saranno cambiamenti.
Il presidente della Camera parla di «partita aperta» ed è convinto che, «come si è fatto con la Finanziaria, si possa lavorare a una soluzione che accontenti tutti, soprattutto lavoratori e pensionati». In altre parole, auspica una nuova trattativa, pari a quella che c'è stata per la manovra economica, di cui — precisa — «dirsi orgogliosi sarebbe troppo».
«Il Welfare — spiega — è un passaggio impegnativo: è una delle questioni più importanti per la vita di un Paese e, di conseguenza, per la vita concreta delle persone. La precarietà è una malattia sociale. E non ci sarà vera democrazia e vera Europa senza combattere a fondo la precarietà ».
È un Bertinotti d'attacco, anche perché gioca in casa: «È in corso una consultazione molto importante tra i lavoratori». Cioè il referendum sul protocollo del Welfare. Ma, a suo giudizio, «la sinistra non deve essere la carta assorbente delle decisioni dei sindacati» mantenendo la sua autonomia: «Il giudizio della Fiom va tenuto in conto. Come anche il fatto che quattro partiti della maggioranza chiedono cambiamenti». E paragona il corteo del 20 ottobre contro il patto sul Welfare al voto per le primarie del Pd: «Sono appuntamenti della democrazia». Bertinotti parla anche di molte altre cose. Che, ad esempio, non sarà lui a guidare la Cosa rossa, che «la popolarità» di Veltroni supplisce ad un Partito democratico nato «senza programma», che «entro l'anno» si potrebbe ridurre il numero dei parlamentari. E se la prende con Umberto Bossi che il giorno prima aveva invitato alla «liberazione» il popolo padano: «Parole come quelle possono contribuire in modo drammatico a generare odio».
Ma per tutta la giornata è il tema del Welfare a dominare. Da Margherita e Ds giungono precisi altolà. Per Francesco Rutelli «il Protocollo è intoccabile». E lo stesso dice il ministro del Lavoro Cesare Damiano: «È ovvio che il governo tradurrà integralmente l'accordo». Escludendo quindi ogni margine di manovra. Mentre il socialista Enrico Boselli risponde direttamente a Bertinotti: «Dovrà rassegnarsi al voto dei lavoratori».
Il segretario dei Ds Piero Fassino getta acqua sul fuoco: «Non c'è una spaccatura nella maggioranza». Ma Franco Giordano (Prc) va all'attacco: «Se dal referendum dei lavoratori emergerà una sofferenza, il Protocollo dovrà essere cambiato». E tutti, nella sinistra radicale, dal Pdci a Sinistra democratica, definiscono «assurda» l'intangibilità del patto. Il leader dei Verdi, Alfonso Pecoraro Scanio, è però più prudente: «È vero che il Protocollo non è intoccabile, ma non può neanche essere stravolto ». Si assiste infine ad un duello tra ministri. La radicale Emma Bonino se la prende con il titolare della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero (Prc), favorevole ad una correzione dell'accordo: «Ciò che dice è irricevibile. Contraddice il presidente del Consiglio». Risposta di Ferrero: «Di irricevibile c'è solo la possibilità che peggiorino le condizioni dei lavoratori e dei pensionati»
Corriere della Sera 1.10.09
Politica e tv. Affondo del presidente della Camera. E il cda si divide. Curzi: parole giustissime. Urbani con Floris: è bravissimo
E Fausto difese Clemente: Ballarò? Sono a disagio
di Paola Di Caro
ROMA — Sembrava una polemica chiusa, quasi con il lieto fine se è vero che Clemente Mastella, al centro del caso televisivo del momento, la sua partecipazione a una «calda» puntata di Ballarò, aveva ricevuto la solidarietà di quasi tutto il mondo politico e l'onore delle armi dal suo «nemico» Beppe Grillo. Ma ieri, la querelle si è riaperta. Perché dal suo blog il comico genovese è tornato ad attaccare (indirettamente) il leader dell'Udeur, stavolta in qualità di Guardasigilli, per il caso del trasferimento del pm di Catanzaro De Magistris e della conseguente sospensione di un gruppo di studenti che avevano manifestato in suo appoggio: «Ci vogliono 10, 100, 1000 De Magistris». Ma soprattutto perché a censurare pesantemente l'atteggiamento della «tivù pubblica» nei confronti di Mastella è sceso in campo Fausto Bertinotti.
Il presidente della Camera, che già nei giorni scorsi si era espresso criticamente sulla contestata puntata di Ballarò, è tornato ieri sull'argomento durante la festa di Liberazione. E a Giovanni Minoli che lo intervistava, così ha risposto sul caso Mastella: «Mi trovo umanamente a disagio, e trovo inaudito che il servizio pubblico possa fare una operazione da capro espiatorio, in cui in discussione non è il politico, ma la persona, la sua famiglia ». E ancora: «Il rispetto è un elemento di civiltà, altrimenti la politica diventa barbarie. E io contro la barbarie mi ribello».
Al presidente della Camera non arrivano repliche ufficiali dai vertici di viale Mazzini. Non parla il presidente della Rai Claudio Petruccioli, e nemmeno il conduttore della trasmissione, Giovanni Floris, interviene nella polemica. Ma a dimostrazione che il caso resta aperto, e non solo per il singolo episodio quanto per i difficili rapporti tra tivù e politica, ci sono le diverse opinioni di due consiglieri di amministrazione della Rai come Giuliano Urbani e Sandro Curzi.
«Bertinotti? Tutto condivisibile, giustissimo, da sottoscrivere: ma come mai il presidente della Camera protesta solo ora per il trattamento riservato a un politico? Potrei citare molti altri casi scandalosi come e più di questo, spesso riguardanti esponenti della mia parte politica, ma lo scandalo arriva solo ora», si amareggia Giuliano Urbani, che fu tra i fondatori di Forza Italia. E che non ci sta a creare un nuovo «capro espiatorio»: «Ballarò non è stato certo il caso più grave di giornalismo sbagliato: anzi, Floris è bravissimo e fa belle trasmissioni, sarebbe ingiusto prendersela con lui solo per questo episodio. Certo, se si fosse seguito di più il modello Vespa in Rai— niente aggressioni e più approfondimenti — la barbarie sarebbe stata minore di quella a cui assistiamo, perché ricordiamolo: il linciaggio non è tra i doveri della libera informazione ».
Molto diverso il giudizio di Sandro Curzi, che condivide in toto le parole di Bertinotti e che ha apprezzato moltissimo «proprio l'intervista pubblica che gli ha fatto Minoli: incalzante, approfondita, rapida, senza ossequio nè ostilità. Quello sì che è un giornalismo da imitare...». Detto questo, all'ex direttore del Tg3 i talk show attuali sembrano «poco adeguati ad affrontare la difficoltà di questa seria crisi della democrazia che stiamo vivendo: compito del giornalismo è alzare la testa e tenere la schiena dritta, ma non bisogna fare i "grillini", perché una cosa è il comico altra il giornalista, una cosa le inchieste belle— come quelle di Report — che magari ti dicono cosa può aver combinato il Mastella di turno, altra sono le trasmissioni che vivono sulle disgrazie del politico: lì il gioco è falsato, fare la caccia alla volpe quando si è in tanti cani è troppo facile...».
l’Unità 1.10.09
Bertinotti: le parole di Bossi creano odio
Contro le minacce della Lega tutto il centrosinistra. Finocchiaro a An: resterete alleati?
di Giuseppe Vittori
Bertinotti preoccupato: parole che «generano odio». Anna Finocchiaro decisa: Fini dica se vuole restare alleato alla Lega. Parisi sarcastico: la CdL non governa nemmeno le sue parole. L’ultima sparata di Bossi continua a tenere banco. Il giorno dopo la chiamata dei popoli del Nord alla «guerra di liberazione» evocata dal Senatùr, il presidente della Camera Fausto Bertinotti non nasconde i timori e contrattacca: dichiarazioni di quel tenore «possono contribuire in modo drammatico a generare odio, in una società dove sono in atto tendenze disgregatrici. Capisco che è un periodo in cui chi la spara più grossa ha i titoli. Ma io non sono per accettare come innocente chi la spara grossa». L'ex leader di Rifondazione non accetta le parole d'ordine del Carroccio: «Non puoi usare un termine come guerra di liberazione. Primo, perché parli di guerra nel tuo Paese, e poi perché per noi di guerra di Liberazione ce ne è solo una, quella contro i fascisti».
Dello stesso avviso è la capogruppo dell'Ulivo alla Camera, Anna Finocchiaro, che ribadisce l'intenzione di portare la questione in Parlamento e chiama nuovamente in causa gli alleati delle camicie verdi. Nel mirino ci sono An e il suo leader Gianfranco Fini. «Avevo già chiesto quale fosse l'opinione di An. Torno ad insistere: chiedo a Fini di sapere se, dopo quello che è avvenuto, ritiene di proseguire nella sua alleanza politica con la Lega Nord. Noi e tutti gli italiani vorremmo avere una riposta chiara».
Le contestate parole del leader leghista non lasciano indifferenti né il ministro della Difesa Arturo Parisi, per il quale «la Cdl dimostra di non saper governare le proprie parole», né il ministro della Famiglia Rosy Bindi: «Bossi può urlare quanto vuole - spiega - ma dovrà confrontarsi nel lavoro parlamentare con la modifica della Costituzione e della legge elettorale, nel rispetto della Costituzione».
L’udeurrino Mauro Fabris provoca: «La CdL si decida: o Bossi è un alleato credibile o è un millantatore». Mentre per Pecoraro si tratta di «parole inaccettabili».
Nel centrodestra regna il silenzio. I leader non si pronunciano. Parla solo il segretario dell'Udc Lorenzo Cesa, e lo fa per criticare Bossi e bacchettare Bertinotti, rispolverando gli «opposti estremismi»: «I veri moderati devono contrastare, come hanno sempre fatto, gli opposti estremismi che minano alla base governabilità e confronto democratico. Con le provocazioni di Bossi non si costruisce una valida alternativa al centrosinistra. E spiace che alcuni amici del centrodestra non lo capiscano. E sbaglia Bertinotti, che con il suo doppiopesismo assolve sempre e comunque la sinistra e concentra le critiche solo in una direzione».
l’Unità 1.10.09
Violenza sulle donne. Solo nel 2006 le vittime sono state 112
Come la Spagna ha affrontato il drammatico problema
Escalation impressionante, ma l’Italia resta a guardare
di Maria Serena Palieri
Settanta e centododici. Tenete a mente queste due cifre. La prima, settanta, è il numero di donne uccise in un anno in Spagna per quei motivi che tradizionalmente si chiamano «passionali»: è la cifra che lì ha fatto scattare l’allarme rosso e che, nel 2005, ha ispirato l’adozione di misure ad hoc, la più importante i «tribunali di genere», corti specializzate nei reati che maturano in quel territorio specialissimo che sono i rapporti tra i due sessi. La seconda, centododici, è quella delle donne che, nel 2006, in Italia, sono state vittime di un «amore criminale», come diceva il titolo di una bella trasmissione di Raitre: donne uccise, cioè, da un uomo cui erano affettivamente legate, marito, fidanzato, ragazzo, compagno, amante, oppure da un uomo che aspirava a essere tale, ma a cui loro, le vittime, avevano detto «no».
Stando alle cronache, nel 2007 il numero dovrebbe crescere: il viso sorridente di Chiara di Garlasco è ancora sulle prime pagine, ed ecco affiorare da un laghetto alle porte di Torino il corpo di Sara, uccisa da Nando Locampo, ammiratore respinto (sembra) e reo confesso.
Quanto deve salire il numero perché, anche da noi, scatti l’allarme rosso? Non è chiaro che un «femminicidio» così ha dei motivi che vanno oltre la sfera del privato: che affondano (anche se gli assassini non lo sanno) in un’emergenza, in uno stato attuale dei rapporti di potere tra i due sessi, in una crisi dell’identità maschile dove si mescolano, con esiti come questi sanguinari, tragica fragilità e tragica protervia? Affrontare questo tipo di reati per ciò che sono, delitti cioè che maturano dentro il territorio particolare - specifico e complesso - dei rapporti tra i due sessi, richiede uno sforzo culturale. Non usiamo la parola «rivoluzione» perché siamo convinte che, nel nostro Paese, sono in molte e in molti ad averlo capito, questo. Un governo progressista (un governo di centrosinistra almeno questo dovrebbe essere, no?) dovrebbe fare lo sforzo di cominciare a usare degli strumenti culturalmente adeguati: se più di cento donne vengono annualmente uccise «per amore», e se il numero cresce, questi casi non possono finire genericamente alla voce «omicidi». Li si guardi per quello che sono. E, per ciò che sono - il frutto tragico di una guerra che corre sottotraccia - li si affronti: protezione per chi è vittima di quella molestia ossessiva, quella «amorosa» persecuzione che spesso precede la mattanza? tribunali ad hoc? programmi di formazione per ragazzi e ragazze nelle scuole?
Noi siamo convinte che la politica, in questo campo, possa fare: la riforma della legge sulla violenza sessuale, per esempio, se non ha ridotto il numero degli stupri né ha aumentato, se non in modo non davvero rilevante, il numero delle denunce, ha almeno prodotto commissariati più accoglienti per le vittime e aule di tribunale più umane verso di esse.
Sono riforme e provvedimenti a costo zero o limitato, costano solo voglia di guardare la realtà in faccia, onestà intellettuale, un po’ di immaginazione. E lavoro d’équipe tra diversi ministeri, Pari Opportunità, Istruzione, Giustizia, Interno, Solidarietà sociale. Ah, già: porteranno voti? Per caso è questa la domanda - orribilmente disincantata - che dovremo porci se, nelle prossime settimane, invece la politica non farà un bel niente?
l’Unità 1.10.09
2007, noi e quel film che chiamiamo vita
di Beppe Sebaste
UN SONDAGGIO di «Focus» dice che due italiani su tre credono ai fantasmi. Ma cosa significa questa parola - «fantasmi» appunto - in un’epoca in cui la tecnologia «riproduce» e mantiene vivo anche ciò che non c’è più?
«I fantasmi sono crudeli, con la realtà ci si può sempre arrangiare». Questa frase diciamo «romantica» la feci mia negli anni 70: l’epoca non la contraddiceva. Ha ancora un senso quando la cosiddetta realtà si rivela consistere della stessa sostanza di cui sono fatti i fantasmi (più o meno crudeli che siano)? E di che sostanza è fatto un fantasma? Ombra, sogno, eidolon, immagine, come quella della madre che Enea incontra nell’Ade (Eneide, XI), ma quando cerca di abbracciarla dolorosamente svanisce. Non è la stessa esperienza (rovesciata) che provò il pubblico convenuto al primo film dei fratelli Lumière, quando tutti scapparono alla vista del treno? A parte le analisi pur pertinenti di Jean Baudrillard, ogni volta che ascoltiamo un disco - che sia la voce di Billie Holiday o quella di Mina - abbiamo a che fare con la presenza di un’assenza, diciamo pure un fantasma. L’universo di copie e cloni che inonda la nostra vita tecnologico-estetica, a cui si aggiungono i robot e tutte le inquietanti forme di sostituzione del corpo, sono segni di una fantasmatizzazione della realtà. Senza bisogno di Internet, si parla di fantasmi (secoli prima di Kafka) a proposito delle lettere, e la metafisica della scrittura che rende presenti gli assenti è oggetto di trattati dal I° secolo a. C. Ma dobbiamo riconoscere al cinema di essere la più eclatante attestazione dell’esistenza dei fantasmi, materializzazione di quell'ombra dell’Ade. L’equazione cinema-fantasma è così evidente che Orson Welles la celebrò con poetica nostalgia nelle scene del suo magnifico e incompiuto Don Chisciotte, quando il cavaliere si precipita a cavallo contro uno schermo su cui sono proiettate delle immagini. I mulini a vento, o più esattamente i Giganti, non sono altro che (il) cinema.
Ora, un sondaggio pubblicato dalla rivista Focus rivela che due italiani su tre ai fantasmi ci crede, e uno su due ne ha visti. Che cosa significa? Dal momento che, Eduardo docet, «siamo noi i fantasmi», dovremmo abituarci a convivere se non altro con l’inquietudine del vederci dal di fuori, duplicati, estranei, «così vicini e così lontani», fantasmi appunto. In fondo, anche il concetto marxiano di «alienazione» appare arcaico, e i romanzi di fantascienza paranoica e psico-teologica di Philip K. Dick appaiono come documentari. Mi dice Enrico Ghezzi, «il cinema è la punta di un iceberg di un immane apparato di registrazione che segna una svolta nella storia dell’umanità: la possibilità di rivedere la propria vita».
Tutto questo, e molto altro, è scaturito dall’ultima edizione del Festival «Il vento del cinema» che si svolge ogni anno a Procida, sotto la direzione artistica, appunto, di Enrico Ghezzi. L’intensa rassegna appena conclusa era dedicata ai temi dell’al di là e del fantasma. Titolo: After life. Film meravigliosamente antiquati e attualissimi alternati al dibattito filosofico (tra i presenti, il filosofo Boris Groys), sullo spettro di sensi di questa formula, after life - «dopo la vita», ma non necessariamente «dopo la morte». Continuo a parlare con Enrico Ghezzi anche dopo il festival. Parliamo soprattutto di alcuni film, quelli di Evgenii Bauer («il primo vero e grande cineasta del fantasma»), i documentari di Frederick Wiseman, il bellissimo film del giapponese Kore-eda Hirokazu, che si chiama appunto After life.
Sembra un racconto di fantascienza ma è centrato sul cinema. Nell’ufficio spoglio in cui si ricevono delle persone, solo a un certo punto lo spettatore viene a sapere che tutti i personaggi sono morti, e i nuovi arrivati devono scegliere ognuno il ricordo preferito da vivo, con il quale sarà composto un film. Il resto della memoria verrà cancellato. Girato quasi tutto a piani fissi, il film è una celebrazione della vita ordinaria, perché i ricordi scelti sono immancabilmente comuni. Per questo viene da chiedersi: ma i film sull’al di là non raccontano poi tutti l’immanenza dell’al di qua?
«Il cinema - dice Ghezzi - può essere pensato come la costituzione di un certo ammasso di after life. È il discorso dei fratelli Lumière, costituire un magazzino di piccole immortalità. Ho usato questo termine molto americano, after life, che non è religioso, non indica né una durata né uno spazio, una vita dopo la vita, ma l’indicazione tecnica dei Lumière è molto bella. Da una parte dice la conservazione, una possibilità di tenere dei tempi di vita (io a dieci anni volevo registrare tutta la vita di mia nonna); dall’altro l’uso poliziesco dell’archivio, come controllo. Di fatto però questo meccanismo di controllo, questo ri, della registrazione, è un inveramento-avveramento di tutte le prospettive after, anche quelle religiose. Il mondo col cinema (con la registrazione, la fotografia), comincia a un certo tempo a ri-vedersi. Pensa alle fotografie di Muybridge, come la famosa fotografia del galoppo del cavallo. Per la prima volta, a partire dalla fine dell’Ottocento, l’umanità ha la possibilità di un ri-vedersi tecnico, rivedersi ed essere visti da altri. Da quel momento il mondo si scinde. La mia deduzione forse eccessiva è che da quel momento inizia una sorta di sospetto (anche paranoico, alla Dick), in cui rientrano Freud e l’idea stessa di archivio, con l’installarsi della registrazione come orizzonte, di cui il cinema è il momento più eclatante. L’ossessione di certi vecchi film per l’aller-retour, l’avanti e indietro dell'immagine, ne era in certo modo la spia».
È un caso che gran parte dei film recenti guardino la vita dalla prospettiva di un al di là? Citando a caso, mi vengono in mente American beauty, Donnie Darko, Il sesto senso, The others... «Nei film hollywodiani l’after life è ormai un vero proprio genere. Anche in film normalissimi c’è un momento after life. Il territorio mentale del cinema americano non è più il territorio-pianeta, ma un territorio interiore dissodato e immaginato, con molte cadute di gusto, da una compresenza dell’al di là, l'immaginazione di un al di là, ma immanente. Nel cinema americano il cinema si qualifica come luogo dell’after life non solo per un legame narrativo, ma perché si riconosce esso stesso così, ciò che poi era dalle origini».
C’è una singolare coincidenza tra i nostri riferimenti. Nella letteratura (da anni cerco io stesso di comporre un romanzo sui fantasmi) mi affascinano i libri la cui trama nasce da un’idea di archivio, di catalogo, di memoria, trovando gli effetti più romanzeschi in una sorta di «documentario», con l’uso di documenti veri e propri: lettere, fotografie, ritagli di giornali ecc. Come il film (e il libro) di Alina Marazzi, Un’ora sola ti vorrei; o il bellissimo I passi sulla testa (Bompiani 2007) di Giuseppe D’Agata, dove un fantasma, letteralmente, che rumoreggia al piano di sopra, interferisce con l’attività di catalogazione della biblioteca del narratore, di cui solo una piccola parte potrà sopravvivere al trasloco (tra i cui titoli, nomi, «fantasmi», appare anche il sottoscritto). Tutto questo rientra nell’ambito dell’after life, «postumo» dello still life (che, con luttuosità tutta italiana, noi diciamo «natura morta»). Ma ha anche a che fare con la poetica del fantasma - dello sfumato, della cancellazione, della parvenza - come gli oggetti della vita ordinaria degli individui, o i loro volti anonimi, sgranati e ingranditi, che popolano le esposizioni di Christian Boltanski.
Ghezzi: «Il cinema nasce proprio su queste basi, sorta di materializzazione del fantasma, più che sul sogno, che secondo me è il falso schermo del cinema. È affascinante che sia nato insieme alle prime analisi freudiane, e della Psicopatolologia della vita quotidiana, ma è solo una bella coincidenza. Il tipo di registrazione freudiano si basa sulla memoria, su ciò che non si può dire del sogni. Il cinema è già sogno. Nel sogno comunque l’after life è un’esperienza comune e continua, perché è parte dell’attività cerebrale, anche senza parlare del déjà vu (il cinema è un accumulazione abissale di déjà vu). Ma il sogno non ha tempo, ed è la sua dimensione più affascinante e paradossale, che lo porta oltre l’immaginazione dell’after life. Nel sogno sei coinvolto in uno stato intermedio, sei una specie di fantasma, ma anche narratore».
Tutto torna. Ma non è proprio il senso dei fantasmi (revenants) quello di «tornare»? Arte, cinema, letteratura, la nonna, il canto XI dell’Eneide, la madre che non puoi abbracciare, il Don Chisciotte di Orson Welles, cui Giorgio Agamben ha dedicato una pagina importante del suo Elogio della profanazione. Ma cosa lega più precisamente il fantasma all’after life, ed entrambi alla nostra epoca? Boris Groys pensa che la platonica metanoia (anticipazione dell’immortalità dell’anima nella postura dei veri filosofi) sia oggi possibile come anticipazione dell’immortalità dei corpi (l’evidenza che la vita del corpo, in una decomposizione virtualmente infinita, continua). Sostiene che la storia dell’arte moderna e contemporanea sia dalla parte del cadavere (le opere come cadaveri degli oggetti, di cui esibiscono la materialità pura). Di fatto, se la cultura di massa prospera sulla figura di vampiri, zombi, cloni e macchine viventi, per Foucault esistono luoghi - cimiteri, musei, biblioteche, discariche di rifiuti - in cui, per «eterotopia», umani e cose sono spostati in uno spazio altro, separato, come quello dei non-morti. O come gli oggetti di un archivio, un tempo vivi e funzionali.
«Noi - aggiunge Ghezzi - stiamo vivendo oggi letteralmente l’esperienza dello zombi o dell’undead, non solo come società ma come pianeta. Se pensi al discorso sulla rovina del pianeta, la nostra autocolpevolizzazione. Non c’è politico che lo dica, ma alcuni filosofi sì. I politici sono amministratori che non ammettono nemmeno di parlare della morte». È il discorso dell’immunità dei politici al tempo, contro la comunità, tutt’uno con la mortalità. «Sì, il tema che unisce i due corni del dilemma è questo, e lo abbiamo affrontato in una scorsa edizione del festival dal titolo "Rest-aura": l’invecchiamento, il reimbellettamento del film, l’after life del cinema stesso. Tendere all’immortalità, all’eternizzazione dei corpi, e insieme all’immateriale, che collide con la conservazione dei corpi. L’11 settembre è stato anche questo...».
Allora, siamo noi i fantasmi? Come in Film, scritto da Samuel Beckett per Buster Keaton, all’insegna del berkeleyano «esse est percipi» (essere è essere percepiti)? Riepilogando: è questo, il nostro mondo presente e normale, l’al di là: visto da un ri, o da un punto in cui si vede il ri, il rivedersi della registrazione. Ghezzi mi cita questa frase di Kafka: «abbiamo fatto il positivo, ora resta da fare il negativo». Anche Godard pare l’abbia usata.
A Napoli, proprio nei giorni del festival, si è inaugurata la mostra Images, fotografie dal set dei film di Bernardo Bertolucci. «Immagini rubate», mi ha detto il regista quando la mostra era a Parma, «che non rappresentano i miei film, ma l’inconscio dei miei film». Che suggeriscono l’esistenza di un fuori-campo, una «assenza / più acuta presenza» (Attilio Bertolucci). Fantasmi, still life, after life. Non solo di film.
Repubblica 1.10.09
L’evasore fiscale sul lettino di Freud
di Mario Pirani
L´atteggiamento verso le tasse ha qualcosa a che fare con la psicoanalisi? L´interrogativo mi si è posto dopo una lettera inviatami da due noti psichiatri e psicoterapeuti di diversa appartenenza scientifica, l´uno, Franco Paparo, aderente alla Società Psicoanalista Italiana, l´altro, Gianni Lotti, di scuola cognitivo-evoluzionista. I due studiosi caldeggiavano la lettura fra i dirigenti di centrosinistra di un libretto, a loro avviso prezioso uscito un anno fa e che era sfuggito anche a me: "Non pensate all´elefante" (Edizioni: Fusi orari, 2006, euro 12) , autore George Lakoff, che insegna Scienze cognitive e Linguistica all´Università di Berkeley in California. Ora questo studioso, colpito dalla vittoria di Bush, si è sforzato, sulla base delle sue competenze scientifiche, di ricercare gli errori tipici dei progressisti americani nel comunicare i propri valori fondamentali. Molte delle osservazioni di Lakoff sembrano, peraltro, attagliarsi alla contrapposizione destra-sinistra in Italia e in altri paesi occidentali.
Tema del libro è l´inanità del tentativo di cambiare la cornice concettuale (frame), entro la quale l´elettore convinto dalla destra inquadra i propri ragionamenti e, dunque, le proprie scelte politiche, confutandola direttamente. Viceversa, la comunicazione semplice e diretta dei valori progressisti ha maggiore probabilità di successo non solo nei riguardi dell´elettore indeciso, ma anche nel modificare, per così dire indirettamente e sottilmente, lo stato mentale dell´elettore di destra più convinto. Vogliamo citare un semplice esempio, tratto dal libro, per noi assolutamente attuale, sulla riduzione delle tasse. Scrive Lakoff: «Che cosa sono le tasse? Le tasse sono i soldi che paghiamo per vivere in un paese civile, per avere la democrazia e le opportunità, e per usare le infrastrutture finanziate dai contribuenti che sono venuti prima di noi: la rete autostradale, internet, la ricerca scientifica, quella medica, il sistema di comunicazioni, il trasporto aereo. Tutto questo viene pagato dai contribuenti». E più avanti: «Pagando le tasse i nostri genitori hanno investito nel futuro, nel nostro e nel loro. E se un discorso del genere fosse stato ripetuto per anni alla fine il concetto sarebbe stato incontrovertibile: le tasse sono un saggio investimento per il futuro.. E quelli che evadono le tasse, come le società che si trasferiscono alle Bermude, non pagano quello che devono al loro paese. Chi paga le tasse è un patriota. Chi le evade e manda in rovina il paese è un traditore». Lakoff, grande esperto di metafore, argomenta che i conservatori e le destre in genere perseguono l´ideale del «padre severo»: disciplina ottenuta col gioco di premi e punizioni; successo sociale ed economico individuale come supremo obiettivo di vita; affermazione della morale tradizionale come unico sostegno possibile alla vita sociale; controllo coercitivo sugli avversari; impazienza di fronte al dialogo e alle argomentazioni.
Viceversa, i progressisti sono motivati dall´ideale metaforico del «genitore premuroso»: fiducia nello sviluppo autonomo, «dall´interno» della mente e del «cuore» di ogni essere umano qualora gli si offra sostegno, sicurezza e comprensione in dose maggiore della disciplina; cooperazione fra pari e non controllo coercitivo come meta finale; crescita culturale e di consapevolezza come supremo obiettivo di vita; dialogo con gli avversari ed i diversi. Piuttosto che inseguire il conservatore sul suo terreno (cioè all´interno del suo frame), parlando di competizione e di economia per contrastarlo, il progressista farà bene a comunicare in modo semplice, chiaro e diretto i propri valori, il proprio frame. Solo secondariamente, il progressista potrà delucidare come essi si traducono in concrete scelte economico-politiche. I valori progressisti sono obiettivamente antagonisti di quelli dei conservatori, e dunque la comunicazione chiara e semplice di essi offrirà efficacemente alla mente di tutti gli elettori un frame (una trama concettuale di riferimento) diversa di quello, inattaccabile se si entra direttamente al suo interno, tipico dell´elefante (l´elefante è il simbolo del partito repubblicano negli Usa). Un discorso abbastanza suadente con qualche «ma» e qualche «se»: il «genitore premuroso» potrà apparire convincente se il livello fiscale cui il cittadino è sottoposto non esorbiterà troppo dal valore dei beni pubblici offerti in cambio e, secondariamente, se i servizi ricevuti risulteranno da una gestione efficiente e non dilapidatrice.
Altrimenti, come ha detto Ratzinger, prevale la storica avversione popolare per le tasse.
Repubblica 1.10.09
Il novantenne Li Rui attacca la nomenklatura su un'autorevole rivista a due settimane dall'apertura del XVII Congresso del Partito comunista
"Compagni, più democrazia" la sfida del segretario di Mao
di Federico Rampini
Per il presidente cinese Hu Jintao e la sua generazione di tecnocrati sessantenni che dominano le leve del comando, l´ultima lezione di democrazia viene da un «nonno terribile» della nomenklatura. E´ Li Rui, 90 anni, ex segretario e biografo personale di Mao Zedong, a lanciare un attacco frontale al regime.
A due settimane dall´apertura del 17esimo congresso del partito comunista, Li non misura le parole. Esorta i dirigenti a convertirsi alla democrazia. Afferma che solo la libertà politica può mettere fine all´instabilità e alla corruzione dilagante. Chiede che i diritti civili siano effettivamente rispettati, e che siano imposti dei limiti allo strapotere del partito. La dura requisitoria di Li, un vero e proprio manifesto per la transizione alla democrazia, non circola in forma clandestina ma è pubblicata su un´autorevole rivista ideologica, Yanhuang Chunqiu ("La Cina attraverso i tempi"). Il tempismo della sua uscita è cruciale, conferma le tensioni sotterranee all´interno della classe dirigente e la crescente insofferenza di alcune élites. Al prossimo congresso Hu Jintao consoliderà il suo potere, sarà confermato segretario del partito e presidente della Repubblica, e al tempo stesso inizierà a preparare la propria successione "blindata" all´interno di una cerchia di fedelissimi. La preparazione di questo congresso è stata preceduta dal lancio delle consuete campagne contro la corruzione e per la moralizzazione del partito. Come spesso accade, la caccia ai disonesti serve come paravento per realizzare anche delle purghe politiche. L´esempio più importante è stata la caduta in disgrazia del numero uno del partito a Shanghai. Incastrato per aver rubato dal fondo pensione della municipalità, il leader di Shanghai era uno degli ultimi uomini di Jiang Zemin, il predecessore di Hu.
Spazzato via il "clan di Shanghai", Hu sta occupando tutti i posti chiave del potere, riempiendo le caselle con uomini di assoluta obbedienza. In parallelo, il presidente ha ristretto gli spazi del dissenso e la censura dell´informazione è stata irrigidita. In barba agli impegni presi per i Giochi olimpici di Pechino 2008, la libertà di espressione è in ulteriore arretramento.
E´ in questo contesto che si inserisce il duro intervento del novantenne ex segretario di Mao. Li Rui manda a dire al suo presidente che solo l´emancipazione dei cittadini è un argine efficace contro la corruzione. L´età di Li e il suo curriculum gli consentono di ignorare i rischi della censura e della repressione. Comunista fin dal 1937, assistente personale di Mao negli anni Cinquanta, alto dirigente del partito sotto Deng Xiaoping, Li non è nuovo a prese di posizione "eretiche". Più volte ha sfidato i tabù e il conformismo dei suoi compagni. Fu purgato da Mao per avere denunciato il tragico errore del Grande balzo in avanti (che fece decine di milioni di morti nel 1959). Più di recente quando Hu Jintao andò al potere fu sempre Li a mandargli una lettera aperta chiedendo che il partito facesse mea culpa per il massacro di Piazza Tiennamen del 1989. Questa sua ultima uscita è altrettanto coraggiosa. Nel numero di ottobre della rivista Li scrive che la Cina rischia di arretrare di molti decenni e di sprofondare nel caos se le democratizzazione a lungo rinviata non fa dei passi avanti, in modo da adeguare il sistema politico all´economia di mercato. E´ la tesi esattamente opposta alla visione di Hu Jintao, del premier Wen Jiabao e di tutto il gruppo dirigente: costoro al contrario dipingono l´instabilità e il caos come le conseguenze sicure qualora la Cina adottasse una liberaldemocrazia di tipo occidentale. Li vede dietro le apparenze, coglie le gravi tensioni che covano in seno alla società civile e non trovano sbocco per mancanza di pluralismo.
«Riformare il partito - scrive l´anziano dirigente - è il passaggio cruciale da cui dipende il successo o il fallimento di tutte le altre riforme. Il partito deve dare l´esempio applicando la Costituzione, deve garantire che i diritti dei cittadini siano rispettati: la libertà di espressione, d´informazione, di pubblicazione e di associazione».
L´articolo dell´ex segretario personale di Mao viene pubblicato esattamente un mese dopo un´altra manifestazione clamorosa di dissenso. Il 28 agosto il movimento per i diritti civili è uscito allo scoperto quando più di mille personalità hanno reso nota una lettera aperta a Hu Jintao. I firmatari chiedono la liberazione immediata dei prigionieri politici e la libertà di stampa, come condizione per «creare una nuova immagine del paese». «Secondo la Costituzione della Repubblica popolare - si legge nell´appello pubblico - il partito comunista si è impegnato solennemente a governare il paese come uno Stato di diritto, rispettando i diritti umani. In realtà la polizia e la magistratura sotto il comando del partito hanno continuato ad arrestare e condannare scrittori, giornalisti, avvocati e militanti democratici negli ultimi tre anni, per reati d´opinione, di parola, e per l´espressione di idee politiche». La lettera aperta naturalmente è stata censurata da tutti i mezzi d´informazione e la massa dei cittadini cinesi non ne ha saputo l´esistenza. Tuttavia l´ampiezza del numero dei firmatari è significativa. Era dai tempi del movimento di Piazza Tienanmen che non si manifestava un fronte così ampio per chiedere al regime le riforme politiche e le libertà individuali. Ora hanno anche l´appoggio di un "grande vecchio" che fu tra i pionieri della rivoluzione.
Repubblica 1.10.09
Mark Rothko
Palazzo delle Esposizioni. Dal 6 ottobre.
Dopo le mostre tenute in Italia (alla Biennale di Venezia del 1958, alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna nel 1962 e a Ca' Pesaro nel 1970), una nuova rassegna ripercorre l'opera del grande pittore. Nato in Lettonia ed emigrato negli Stati Uniti nel 1913, Rothko inizia a interessarsi all'automatismo surrealista. La mostra prende avvio dai primi dipinti su tavolette di gesso e si chiude con gli ultimi Blakform, dando conto via via dei vari cicli pittorici, che caratterizzano il suo fare. In tutto settanta dipinti, provenienti da raccolte pubbliche e private di tutto il mondo.
alteredo.org
Giordano e Ferrero intervistati su laicità e anticlericalismo
Buongiorno segretario Giordano. Siamo alla Costituente della Sinistra unita e plurale, alla Flog di Firenze, per cercare di realizzare la tanto agognata unità delle sinistre.
Cominciamo con una provocazione, visto che lei è il segretario del maggiore partito che si richiama alla tradizione comunista: ho intervistato una settimana fa Rocco Buttiglione, il filosofo Rocco Buttiglione il quale, parlando dell’impegno cattolico in politica, ha detto: “tra poco celebreremo i 20 anni dalla caduta del comunismo: e lì è la fede, è il cristianesimo, è la religione, è una grande testimonianza religiosa, morale, culturale, che ha fatto cadere il più grande impero materialista e ateo del mondo.”. Non fu un crollo di matrice economico-sociale, dunque, ma di mancanza di fede.
Ecco, lei, da comunista, sente in questa provocazione di Buttiglione un acuirsi della conflittualità tra laici e cattolici in politica?
Iniziamo dal fatto che Buttiglione ha detto una grande sciocchezza sulla vicenda dei paesi del socialismo dell’Est, che sono crollati perché hanno perso ogni possibilità di costruire e di rifondarsi su un terreno democratico, hanno perso la sfida con il mondo, non hanno investito sul protagonismo sociale, hanno negato i principi per cui erano nati.
Poi, penso che noi dobbiamo ricostruire una produzione legislativa laica nel nostro paese, e riconquistarci al contrario quello che la Costituzione ha stabilito con grandissima determinazione: che il nostro è uno Stato pienamente e autonomamente laico.
Posso dire qualcosa che può apparire paradossale? Oggi la laicità è più a rischio perché in realtà non c’è più un partito, il partito della Democrazia Cristiana, che mediava – e naturalmente era una mediazione che io non accettavo, che a me non stava bene – gli interessi delle gerarchie ecclesiastiche. Oggi è il contrario: ci sono piccoli partiti centristi che siccome sono deboli elettoralmente, flebili dal punto di vista dell’identità, cercano essi la legittimazione dalle gerarchie ecclesiastiche. Per questo l’intervento delle gerarchie ecclesiastiche arriva direttamente sulla produzione legislativa. E qui c’è un elemento di rischio molto grande.
Quella sinistra che storicamente non è mai stata molto presente sul fronte della battaglia laica, lasciandola spesso e volentieri in monopolio ai Radicali, ultimamente è rientrata in modo forte su questo terreno. Però con delle zone d’ombra ancora. Per esempio: il 15 novembre 2006 è stato bocciato un emendamento della Rosa nel Pugno alla legge finanziaria che avrebbe reintrodotto l’obbligo del pagamento dell’Ici sui beni della Chiesa Cattolica. Quell’emendamento è stato fatto fuori anche grazie ai voti del gruppo di Rifondazione Comunista. Su questo argomento Aldo Busi, durante la manifestazione Diritti ora, quando sul palco parlava Vladimir Luxuria, disse, con il suo solito linguaggio forte: “l’onorevole Luxuria non dovrebbe stare su quel palco perché, insieme a tutto il partito, ha votato contro l’emendamento che reintroduceva il pagamento dell’Ici per la Chiesa”. Ecco, c’è ancora una certa timidezza nella sinistra su questi temi? Non è ancora pienamente e convintamene anticlericale?
Noi non siamo anticlericali. Questo ci tengo a dirlo perché non vorrei essere frainteso. Noi siamo per la piena laicità dello Stato che non significa essere anticlericali. Noi siamo per una critica molto netta e molto forte di una casta, sia essa politica sia essa sacerdotale, tutta rigorosamente maschile, che decide di intervenire sui corpi delle donne, sulle relazioni, sulle affettività, che decide di negare la soggettività di diritti di relazioni che esistono nella società italiana e non solo. Mi permetto di dire, citando persino l’Antigone di Sofocle, che quelle norme che contrastano così fortemente i sentimenti sono norme destinate ad essere trasgredite. Siamo tutti disobbedienti quando ci sono delle norme, su questi terreni, che ti impongono in maniere costipata, coercitiva, coatta, modalità di relazioni che non sono il frutto di una libera scelta.
Ma allora perché avete votato contro quell’emendamento della Rosa nel Pugno sull’Ici alla Chiesa?
Come si vede noi siamo anche molto… legati, diciamo, ad una dinamica di coalizione… Abbiamo contestato e ci siamo battuti contro quella impostazione, poi quell’impostazione purtroppo è prevalsa ed è una di quelle cose negative che abbiamo fatto.
Un ultimo argomento: è doveroso fare i complimenti a tutta la sinistra che si è battuta molto bene per i pacs che poi sono diventati dico e poi ancora cus. Ciononostante, non ce l’ha fatta. Questo significa forse che in un paese come il nostro, arretrato, clericale, retrogrado come il nostro, visto tutto l’impegno profuso ma infruttuoso, è impossibile, è una battaglia già persa, contro un avversario troppo forte?
No, e penso che pazientemente, con un’iniziativa politico-culturale dobbiamo riprendere questo tema e questa battaglia. Con grande forza. Perché – guardate – il tema dei diritti civili non è appannaggio della sinistra. Il tema dei diritti civili è proprio di una società liberale. La verità è che oggi i liberisti, per poter incerare la loro politica, devono essere illiberali.
Ci sono delle osservazioni dal punto di vista culturale che sono francamente farneticanti: c’è un libro che dice il liberismo è di sinistra. Purtroppo voi radicali (...) voi o un’area radicale, acconsente a questa ipotesi. Ma la verità è che oggi il principio autoritario che distrugge il pensiero liberale, di Gobetti, persino di Einaudi…
Non dimentichiamo Mazzini…
…e di Mazzini, è il liberismo. Invece c’è una rottura tra liberalismo e liberismo e un rovesciamento di senso autoritario.
Infatti il liberista Berlusconi è la persona forse meno liberale del mondo…
Beh, lui non è neanche un liberista. È un monopolista dichiarato che cerca una strada per salvaguardare i propri interessi, altro che liberista
La ringrazio molto
Arrivederla
Intervista al Ministro della Solidarietà Sociale Paolo Ferrero:
“La laicità dello Stato è sotto pressione e messa in discussione ma dobbiamo stare attenti a non regalare l’Italia al clericalismo”
Buongiorno Ministro Ferrero, siamo al 22 settembre, e due giorni fa festeggiavamo il 137° anniversario della Breccia di Porta Pia. In piazza a Roma abbiamo visto i Radicali, i Socialisti, poca sinistra. Storicamente infatti il 20 settembre è una data che la sinistra non sente molto, però in quest’ultimo anno anche la sinistra si è resa protagonista della battaglia per la laicità dello Stato. È arrivata l’ora di recuperare il 20 settembre secondo lei?
Non so se la data del 20 settembre sia da recuperare. Forse più che quelli risorgimentali, dobbiamo recuperare i valori della Costituzione. Forse si sentono più vicini quelli e quindi credo che il punto sia avere la capacità, tutti i giorni, con le leggi così come nel dibattito culturale, di riaffermare la laicità dello Stato italiano, che indubbiamente è sotto pressione e viene messa in discussione da più parti.
Dunque, la mancanza della sinistra a Porta Pia si spiega così: è una ricorrenza risorgimentale, dunque liberale. Ma la sinistra liberale e la sinistra radicale possono su questi temi trovare una convergenza?
Penso di sì, purché sia chiaro che la battaglia per la laicità dello Stato non c’entra nulla con l’anticlericalismo. E qui invece a volte c’è un elemento di confusione. Credo che giustamente la libertà religiosa debba essere garantita per tutti, come la libertà di non essere religiosi, di non avere nessuna fede: va messo assolutamente tutto sullo stesso piano.
Secondo me questo è il punto fondamentale: la battaglia per la laicità. Poi, dentro la laicità ci sarà chi sostiene pensieri anche clericali e ci sarà chi sostiene pensieri anticlericali. Io penso che la sinistra non debba essere anticlericale. Perché penso si possa credere in Dio o non credere in Dio, essere cattolici o non essere cattolici, e fare una battaglia per la trasformazione sociale senza che questa questione della fede e della Chiesa diventi l’ostacolo a poter lottare assieme per il cambiamento.
Ma per esempio, un grande intellettuale di sinistra come Aldo Busi, mi ha detto durante un’intervista che – arrivati a questo punto del dibattito politico – non si può non essere anticlericali. E se pensiamo a tutte le polemiche intorno alla costruzione delle moschee, fino al maiale day di Calderoli, e se pensiamo che tutta la battaglia per i diritti è una battaglia che si è posta in contrapposizione con la Chiesa, ecco che laicità e anticlericalismo si avvicinano molto.
Io penso di no. Penso che in politica, come nella battaglia culturale, bisogna essere sempre capaci a distinguere. Penso che bisogna fare una battaglia a fondo contro delle idee che io ritengo siano sbagliate, ma questo senza cadere nell’anticlericalismo. Perché altrimenti questo vuol dire semplicemente regalare ad una rappresentanza che sta su posizioni discutibili, l’egemonia su tutto un mondo di persone che si sente credente e che magari ha altre posizioni. Io penso che non vada regalato nulla e che bisogna tenere ferma la battaglia per la laicità, senza cadere però cadere in giudizi sulla fede, su Dio, e non solo su qualche posizione politica.
Per questo ritengo che la battaglia per la laicità la sinistra la deve fare di più e con più coraggio. Ma allo stesso tempo deve evitare di cadere nel modo più assoluto nell’anticlericalismo perché vorrebbe dire condannare l’Italia al clericalismo.
(interviste di Edoardo Semmola)