lunedì 1 ottobre 2007

Corriere della Sera 1.10.09
Bertinotti. Lite con Fassino su Marchionne e tagli alla politica


ROMA — E' a distanza, ma è duro il botta e risposta tra Fausto Bertinotti e Piero Fassino sui costi della politica. Il presidente della Camera, a «Liberafesta», punzecchia il leader dei Ds, che giorni fa gli aveva scritto per chiedere di bloccare gli aumenti automatici ai deputati: «Le proposte di Fassino sui costi della politica? Sono condivisibili, ma non ho visto proposte di legge depositate da lui alla Camera...», la stoccata di Bertinotti, che al leader Ds rimprovera anche l'apprezzamento per l'Ad della Fiat Sergio Marchionne: «Tra Marchionne e il Papa sceglierei il socialismo e se tertium non datur, uscirei di scena».
Replica seccamente Fassino, ma solo sul tema dei costi della politica: «Bertinotti non può certo insegnarmi a fare il parlamentare, la sua è una polemica pretestuosa: dei 10 punti da me indicati, 5 li ho ritrovati in Finanziaria».

Corriere della Sera 1.10.09
Duello tra sinistra e moderati
Il presidente della Camera: partita aperta
Prodi: l'accordo non si discute. «Si va avanti come deciso, è chiaro che le Camere hanno libertà di azione»
di Francesco Alberti


BOLOGNA — Romano Prodi ce la mette tutta per non farsi rovinare la domenica del post-Finanziaria e alle 7 della sera, dopo aver esultato come un bambino di fronte al bis mondiale del ciclista e amico Paolo Bettini, con il quale anni fa pedalò per una settantina di chilometri tra i calanchi dell'Appennino reggiano, torna con la testa a Roma e alza disco rosso davanti all'ennesima offensiva della sinistra radicale su Welfare e dintorni: «Il protocollo non si tocca— dice deciso ai microfoni del Tg3 —, è stato firmato con le parti sociali e non si può cambiare in modo unilaterale... ». Nessuna intenzione quindi di trasformare il Consiglio dei ministri del 12 ottobre, chiamato a ratificare l'accordo, nell'ennesimo percorso di guerra: «Si va avanti come deciso...». Poi, naturalmente, le logiche del Parlamento seguiranno il loro corso («E' chiaro — aggiunge il premier — che le Camere hanno ampia libertà d'azione»): ma questo è l'unico spiraglio che il Professore concede alle speranze dei vari Bertinotti e Ferrero, cercando di placare i timori (e le minacce) di Dini, Bonino e compagnia.
Domenica troppo breve per riprendersi dagli affanni della maratona sulla Finanziaria. Ma sufficiente comunque a consolidare in Prodi la convinzione che, con il varo unanime della manovra, «è stato fatto un passo importante», una sorta di ricostituente per la salute sempre gracile della maggioranza e dell'esecutivo. Anche se nessuno sottovaluta le mille trappole che nei prossimi due mesi attendono la Finanziaria in Parlamento, il Professore trova comunque ragioni d'ottimismo in due considerazioni. La prima: «Questa manovra è stata voluta e gradita da tutti i ministri, da tutte le componenti dell'esecutivo, e se quindi qualcuno in Senato non la votasse, beh, non lo capirei proprio». La seconda: «Stiamo cominciando, come promesso, a restituire. Nella Finanziaria le tasse calano e la prova è data dal taglio del-l'Ici, che diminuisce drasticamente ». Il sereno però finisce qui e tra le tante nubi che appesantiscono l'orizzonte la più minacciosa resta quella sul Welfare. Alla sinistra, che non si rassegna all'idea che la partita sul Protocollo sia chiusa, Prodi ricorda che l'accordo «sarà esaminato e approvato nella seduta del Cdm del 12 ottobre» e, aggiunge, la decisione di rinviarla a quella data nasce principalmente dal fatto che l'agenda dell'ultimo Consiglio dei ministri «era pienissima». Un rinvio tecnico, quindi, a detta del premier. Ma che comunque cade a puntino per il governo: se infatti, come probabile, il referendum che si terrà il 10 ottobre nelle fabbriche sancirà il via libera dei lavoratori al Protocollo, per la sinistra diventerà piuttosto complicato continuare ad incalzare il governo sulla necessità di rimettere mano all'accordo.
Anche perché, nel frattempo, Prodi intende capitalizzare al massimo la «leggerezza » di questa Finanziaria, esaltandone i vantaggi per la collettività. Un martellamento che avrà al centro il tema tasse: «Noi seguiamo il programma — afferma —: l'anno scorso abbiamo compiuto un'azione di risanamento. Ora si comincia a ridistribuire e, se la lotta all'evasione continuerà a funzionare, daremo altre soddisfazioni ai contribuenti». L'ultimo pensiero è per il Pd, a 14 giorni dalle primarie. Oggi il Professore incontrerà i candidati alla segreteria per dire loro che sogna «un partito forte e con l'anima ». Altra scommessa.

Corriere della Sera 1.10.09
Giordano: «Romano eviti di dare ordini»


ROMA — «Noi non stiamo agli ordini di Prodi»: la prima reazione del leader del Prc, Franco Giordano, quando i collaboratori gli leggono le parole del presidente del Consiglio è una staffilata.
Il commento ufficiale è assai più cauto. Il segretario di Rifondazione comunista sa che sta per aprirsi, in seno alla maggioranza, l'ennesimo braccio di ferro e vuole soppesare parole e modi.
Ma la Cosa rossa non è da sola in questa vicenda. Anche dalla Cgil giungono proteste. Guglielmo Epifani ripete ai suoi: «Quest'accordo non è intangibile: mi stupisco di certe dichiarazioni».
Sì, per la Cgil l'intesa non è intangibile e non lo è neanche per Giordano. Il leader del Prc con i compagni di partito usa toni ben diversi da quelli ufficiali. Alla stampa affida solo queste parole: «Il presidente del Consiglio sa benissimo che ci sono alcuni punti di quell'intesa su cui Rifondazione comunista non è d'accordo. Il Parlamento è sovrano, lo dice lui stesso, quindi cercheremo di cambiare l'accordo nelle aule perché così com'è non possiamo votarlo».
Ma con i fedelissimi il leader del Prc è meno diplomatico: «Prodi — spiega — sta cercando di barcamenarsi perché vuole stemperare la polemica che si è aperta su questo argomento, vuole che le acque si calmino prima del Consiglio dei ministri del 12 ottobre». Dopodichè il leader del Prc confida che l'inquilino di palazzo Chigi, al di là della fermezza dei toni assunti ieri, voglia «modificare l'accordo»: «Credo che alla fine apporterà delle modifiche su alcuni punti, non penso che lascerà veramente l'accordo così com'è».
Ma Giordano sa che Rifondazione comunista, in questo frangente, potrebbe essere «il capro espiatorio» di quella crisi di governo che non si è aperta sulla Finanziaria, ma che si potrebbe aprire sul capitolo Welfare e pensioni. «Mi rendo conto — è la riflessione ad alta voce che il leader del Prc affida ai collaboratori — che a qualcuno ha dato fastidio il nostro ruolo nella discussione sulla Finanziaria che segna un piccolo passo avanti nella direzione della ridistribuzione. Ed è chiaro che ci sono poteri, come le banche o le grandi imprese, che temono di subìre un contraccolpo dalla modifica dell'accordo. Noi, però, abbiamo sempre agito con grande trasparenza, se poi gente come Lamberto Dini vuole utilizzarci come alibi per i suoi giochi di palazzo questa è un'altra storia. Non è che noi possiamo restare immobili per questa ragione. Prodi sa che la sua coalizione deve rispondere anche ai lavoratori e sono loro che noi vogliamo rappresentare, non gli interessi di una parte». Già, i lavoratori che si esprimeranno proprio alla vigilia del Consiglio dei ministri del 12 ottobre, quello in cui verrà discusso l'accordo sul Welfare. Ma l'esito di quel referendum è scontato: vinceranno i sì all'intesa, se non altro perché nelle assemblee è vietato spiegare le ragioni del «no» («Il sindacato è l'ultimo pezzo di Bulgaria comunista rimasto in Europa», è il commento malizioso di uno dei leader della Fiom, Giorgio Cremaschi). E infatti non è che a Rifondazione comunista si aspettino sorprese dal risultato. Anche loro danno per acquisita la vittoria dei «sì». «Ma— avverte Giordano — sarà un risultato che andrà letto e interpretato. Se c'è disagio, e ci sarà, va ascoltato, non si può chiudere la questione dicendo "hanno vinto i sì". Sarebbe una pazzia: nessuna persona saggia lo farebbe. E penso che non vorrà farlo neanche il presidente del Consiglio...».
A Rifondazione, insomma, sono sicuri che vi saranno delle fabbriche dove vincerà il no, fabbriche significative, e ritengono che minimizzare certi segnali sarebbe una sciocchezza, tanto più in un momento come questo in cui la politica non è che sia troppo amata. Giordano comunque di un'altra cosa è convinto: «Se ci ascoltassero e capissero che noi agiamo sempre in perfetta coerenza eviterebbero i drammoni a cui poi bisogna porre rimedio all'ultimo minuto. Che a noi questo accordo non piaccia è noto, come è nota la nostra decisione di non votarlo se non cambia».

Corriere della Sera 1.10.09
Bertinotti: giochi aperti sul welfare Dai «moderati» altolà alla sinistra
di Roberto Zuccolini


No da Damiano e Rutelli. Ferrero rilancia, la Bonino lo gela: irricevibile Il presidente della Camera contro Bossi: le sue parole generano odio

ROMA — Giusto poche ore per assaporare il «gusto» della Finanziaria approvata dal Consiglio dei ministri e subito per il governo ricomincia un nuovo tormentone che si chiama Welfare. Ad aprire il discorso è Fausto Bertinotti che, alla festa di Liberazione, non ha problemi a dire che sull'accordo siglato questa estate con le parti sociali «la partita è ancora aperta». Lo stesso pensa tutto il suo partito, Rifondazione comunista e, con diverse sfumature, il Pdci, Sinistra democratica e Verdi. Tanto che la domenicale levata di scudi fa subito insorgere i moderati del governo, dal ministro del Lavoro Cesare Damiano a Francesco Rutelli, che, a loro volta, promettono: «Il patto non si tocca». E assicurano che il 12 ottobre, quando se ne parlerà in Consiglio dei ministri, non ci saranno cambiamenti.
Il presidente della Camera parla di «partita aperta» ed è convinto che, «come si è fatto con la Finanziaria, si possa lavorare a una soluzione che accontenti tutti, soprattutto lavoratori e pensionati». In altre parole, auspica una nuova trattativa, pari a quella che c'è stata per la manovra economica, di cui — precisa — «dirsi orgogliosi sarebbe troppo».
«Il Welfare — spiega — è un passaggio impegnativo: è una delle questioni più importanti per la vita di un Paese e, di conseguenza, per la vita concreta delle persone. La precarietà è una malattia sociale. E non ci sarà vera democrazia e vera Europa senza combattere a fondo la precarietà ».
È un Bertinotti d'attacco, anche perché gioca in casa: «È in corso una consultazione molto importante tra i lavoratori». Cioè il referendum sul protocollo del Welfare. Ma, a suo giudizio, «la sinistra non deve essere la carta assorbente delle decisioni dei sindacati» mantenendo la sua autonomia: «Il giudizio della Fiom va tenuto in conto. Come anche il fatto che quattro partiti della maggioranza chiedono cambiamenti». E paragona il corteo del 20 ottobre contro il patto sul Welfare al voto per le primarie del Pd: «Sono appuntamenti della democrazia». Bertinotti parla anche di molte altre cose. Che, ad esempio, non sarà lui a guidare la Cosa rossa, che «la popolarità» di Veltroni supplisce ad un Partito democratico nato «senza programma», che «entro l'anno» si potrebbe ridurre il numero dei parlamentari. E se la prende con Umberto Bossi che il giorno prima aveva invitato alla «liberazione» il popolo padano: «Parole come quelle possono contribuire in modo drammatico a generare odio».
Ma per tutta la giornata è il tema del Welfare a dominare. Da Margherita e Ds giungono precisi altolà. Per Francesco Rutelli «il Protocollo è intoccabile». E lo stesso dice il ministro del Lavoro Cesare Damiano: «È ovvio che il governo tradurrà integralmente l'accordo». Escludendo quindi ogni margine di manovra. Mentre il socialista Enrico Boselli risponde direttamente a Bertinotti: «Dovrà rassegnarsi al voto dei lavoratori».
Il segretario dei Ds Piero Fassino getta acqua sul fuoco: «Non c'è una spaccatura nella maggioranza». Ma Franco Giordano (Prc) va all'attacco: «Se dal referendum dei lavoratori emergerà una sofferenza, il Protocollo dovrà essere cambiato». E tutti, nella sinistra radicale, dal Pdci a Sinistra democratica, definiscono «assurda» l'intangibilità del patto. Il leader dei Verdi, Alfonso Pecoraro Scanio, è però più prudente: «È vero che il Protocollo non è intoccabile, ma non può neanche essere stravolto ». Si assiste infine ad un duello tra ministri. La radicale Emma Bonino se la prende con il titolare della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero (Prc), favorevole ad una correzione dell'accordo: «Ciò che dice è irricevibile. Contraddice il presidente del Consiglio». Risposta di Ferrero: «Di irricevibile c'è solo la possibilità che peggiorino le condizioni dei lavoratori e dei pensionati»

Corriere della Sera 1.10.09
Politica e tv. Affondo del presidente della Camera. E il cda si divide. Curzi: parole giustissime. Urbani con Floris: è bravissimo
E Fausto difese Clemente: Ballarò? Sono a disagio
di Paola Di Caro


ROMA — Sembrava una polemica chiusa, quasi con il lieto fine se è vero che Clemente Mastella, al centro del caso televisivo del momento, la sua partecipazione a una «calda» puntata di Ballarò, aveva ricevuto la solidarietà di quasi tutto il mondo politico e l'onore delle armi dal suo «nemico» Beppe Grillo. Ma ieri, la querelle si è riaperta. Perché dal suo blog il comico genovese è tornato ad attaccare (indirettamente) il leader dell'Udeur, stavolta in qualità di Guardasigilli, per il caso del trasferimento del pm di Catanzaro De Magistris e della conseguente sospensione di un gruppo di studenti che avevano manifestato in suo appoggio: «Ci vogliono 10, 100, 1000 De Magistris». Ma soprattutto perché a censurare pesantemente l'atteggiamento della «tivù pubblica» nei confronti di Mastella è sceso in campo Fausto Bertinotti.
Il presidente della Camera, che già nei giorni scorsi si era espresso criticamente sulla contestata puntata di Ballarò, è tornato ieri sull'argomento durante la festa di Liberazione. E a Giovanni Minoli che lo intervistava, così ha risposto sul caso Mastella: «Mi trovo umanamente a disagio, e trovo inaudito che il servizio pubblico possa fare una operazione da capro espiatorio, in cui in discussione non è il politico, ma la persona, la sua famiglia ». E ancora: «Il rispetto è un elemento di civiltà, altrimenti la politica diventa barbarie. E io contro la barbarie mi ribello».
Al presidente della Camera non arrivano repliche ufficiali dai vertici di viale Mazzini. Non parla il presidente della Rai Claudio Petruccioli, e nemmeno il conduttore della trasmissione, Giovanni Floris, interviene nella polemica. Ma a dimostrazione che il caso resta aperto, e non solo per il singolo episodio quanto per i difficili rapporti tra tivù e politica, ci sono le diverse opinioni di due consiglieri di amministrazione della Rai come Giuliano Urbani e Sandro Curzi.
«Bertinotti? Tutto condivisibile, giustissimo, da sottoscrivere: ma come mai il presidente della Camera protesta solo ora per il trattamento riservato a un politico? Potrei citare molti altri casi scandalosi come e più di questo, spesso riguardanti esponenti della mia parte politica, ma lo scandalo arriva solo ora», si amareggia Giuliano Urbani, che fu tra i fondatori di Forza Italia. E che non ci sta a creare un nuovo «capro espiatorio»: «Ballarò non è stato certo il caso più grave di giornalismo sbagliato: anzi, Floris è bravissimo e fa belle trasmissioni, sarebbe ingiusto prendersela con lui solo per questo episodio. Certo, se si fosse seguito di più il modello Vespa in Rai— niente aggressioni e più approfondimenti — la barbarie sarebbe stata minore di quella a cui assistiamo, perché ricordiamolo: il linciaggio non è tra i doveri della libera informazione ».
Molto diverso il giudizio di Sandro Curzi, che condivide in toto le parole di Bertinotti e che ha apprezzato moltissimo «proprio l'intervista pubblica che gli ha fatto Minoli: incalzante, approfondita, rapida, senza ossequio nè ostilità. Quello sì che è un giornalismo da imitare...». Detto questo, all'ex direttore del Tg3 i talk show attuali sembrano «poco adeguati ad affrontare la difficoltà di questa seria crisi della democrazia che stiamo vivendo: compito del giornalismo è alzare la testa e tenere la schiena dritta, ma non bisogna fare i "grillini", perché una cosa è il comico altra il giornalista, una cosa le inchieste belle— come quelle di Report — che magari ti dicono cosa può aver combinato il Mastella di turno, altra sono le trasmissioni che vivono sulle disgrazie del politico: lì il gioco è falsato, fare la caccia alla volpe quando si è in tanti cani è troppo facile...».

l’Unità 1.10.09
Bertinotti: le parole di Bossi creano odio
Contro le minacce della Lega tutto il centrosinistra. Finocchiaro a An: resterete alleati?
di Giuseppe Vittori


Bertinotti preoccupato: parole che «generano odio». Anna Finocchiaro decisa: Fini dica se vuole restare alleato alla Lega. Parisi sarcastico: la CdL non governa nemmeno le sue parole. L’ultima sparata di Bossi continua a tenere banco. Il giorno dopo la chiamata dei popoli del Nord alla «guerra di liberazione» evocata dal Senatùr, il presidente della Camera Fausto Bertinotti non nasconde i timori e contrattacca: dichiarazioni di quel tenore «possono contribuire in modo drammatico a generare odio, in una società dove sono in atto tendenze disgregatrici. Capisco che è un periodo in cui chi la spara più grossa ha i titoli. Ma io non sono per accettare come innocente chi la spara grossa». L'ex leader di Rifondazione non accetta le parole d'ordine del Carroccio: «Non puoi usare un termine come guerra di liberazione. Primo, perché parli di guerra nel tuo Paese, e poi perché per noi di guerra di Liberazione ce ne è solo una, quella contro i fascisti».
Dello stesso avviso è la capogruppo dell'Ulivo alla Camera, Anna Finocchiaro, che ribadisce l'intenzione di portare la questione in Parlamento e chiama nuovamente in causa gli alleati delle camicie verdi. Nel mirino ci sono An e il suo leader Gianfranco Fini. «Avevo già chiesto quale fosse l'opinione di An. Torno ad insistere: chiedo a Fini di sapere se, dopo quello che è avvenuto, ritiene di proseguire nella sua alleanza politica con la Lega Nord. Noi e tutti gli italiani vorremmo avere una riposta chiara».
Le contestate parole del leader leghista non lasciano indifferenti né il ministro della Difesa Arturo Parisi, per il quale «la Cdl dimostra di non saper governare le proprie parole», né il ministro della Famiglia Rosy Bindi: «Bossi può urlare quanto vuole - spiega - ma dovrà confrontarsi nel lavoro parlamentare con la modifica della Costituzione e della legge elettorale, nel rispetto della Costituzione».
L’udeurrino Mauro Fabris provoca: «La CdL si decida: o Bossi è un alleato credibile o è un millantatore». Mentre per Pecoraro si tratta di «parole inaccettabili».
Nel centrodestra regna il silenzio. I leader non si pronunciano. Parla solo il segretario dell'Udc Lorenzo Cesa, e lo fa per criticare Bossi e bacchettare Bertinotti, rispolverando gli «opposti estremismi»: «I veri moderati devono contrastare, come hanno sempre fatto, gli opposti estremismi che minano alla base governabilità e confronto democratico. Con le provocazioni di Bossi non si costruisce una valida alternativa al centrosinistra. E spiace che alcuni amici del centrodestra non lo capiscano. E sbaglia Bertinotti, che con il suo doppiopesismo assolve sempre e comunque la sinistra e concentra le critiche solo in una direzione».

l’Unità 1.10.09
Violenza sulle donne. Solo nel 2006 le vittime sono state 112
Come la Spagna ha affrontato il drammatico problema

Escalation impressionante, ma l’Italia resta a guardare
di Maria Serena Palieri


Settanta e centododici. Tenete a mente queste due cifre. La prima, settanta, è il numero di donne uccise in un anno in Spagna per quei motivi che tradizionalmente si chiamano «passionali»: è la cifra che lì ha fatto scattare l’allarme rosso e che, nel 2005, ha ispirato l’adozione di misure ad hoc, la più importante i «tribunali di genere», corti specializzate nei reati che maturano in quel territorio specialissimo che sono i rapporti tra i due sessi. La seconda, centododici, è quella delle donne che, nel 2006, in Italia, sono state vittime di un «amore criminale», come diceva il titolo di una bella trasmissione di Raitre: donne uccise, cioè, da un uomo cui erano affettivamente legate, marito, fidanzato, ragazzo, compagno, amante, oppure da un uomo che aspirava a essere tale, ma a cui loro, le vittime, avevano detto «no».
Stando alle cronache, nel 2007 il numero dovrebbe crescere: il viso sorridente di Chiara di Garlasco è ancora sulle prime pagine, ed ecco affiorare da un laghetto alle porte di Torino il corpo di Sara, uccisa da Nando Locampo, ammiratore respinto (sembra) e reo confesso.
Quanto deve salire il numero perché, anche da noi, scatti l’allarme rosso? Non è chiaro che un «femminicidio» così ha dei motivi che vanno oltre la sfera del privato: che affondano (anche se gli assassini non lo sanno) in un’emergenza, in uno stato attuale dei rapporti di potere tra i due sessi, in una crisi dell’identità maschile dove si mescolano, con esiti come questi sanguinari, tragica fragilità e tragica protervia? Affrontare questo tipo di reati per ciò che sono, delitti cioè che maturano dentro il territorio particolare - specifico e complesso - dei rapporti tra i due sessi, richiede uno sforzo culturale. Non usiamo la parola «rivoluzione» perché siamo convinte che, nel nostro Paese, sono in molte e in molti ad averlo capito, questo. Un governo progressista (un governo di centrosinistra almeno questo dovrebbe essere, no?) dovrebbe fare lo sforzo di cominciare a usare degli strumenti culturalmente adeguati: se più di cento donne vengono annualmente uccise «per amore», e se il numero cresce, questi casi non possono finire genericamente alla voce «omicidi». Li si guardi per quello che sono. E, per ciò che sono - il frutto tragico di una guerra che corre sottotraccia - li si affronti: protezione per chi è vittima di quella molestia ossessiva, quella «amorosa» persecuzione che spesso precede la mattanza? tribunali ad hoc? programmi di formazione per ragazzi e ragazze nelle scuole?
Noi siamo convinte che la politica, in questo campo, possa fare: la riforma della legge sulla violenza sessuale, per esempio, se non ha ridotto il numero degli stupri né ha aumentato, se non in modo non davvero rilevante, il numero delle denunce, ha almeno prodotto commissariati più accoglienti per le vittime e aule di tribunale più umane verso di esse.
Sono riforme e provvedimenti a costo zero o limitato, costano solo voglia di guardare la realtà in faccia, onestà intellettuale, un po’ di immaginazione. E lavoro d’équipe tra diversi ministeri, Pari Opportunità, Istruzione, Giustizia, Interno, Solidarietà sociale. Ah, già: porteranno voti? Per caso è questa la domanda - orribilmente disincantata - che dovremo porci se, nelle prossime settimane, invece la politica non farà un bel niente?

l’Unità 1.10.09
2007, noi e quel film che chiamiamo vita
di Beppe Sebaste


UN SONDAGGIO di «Focus» dice che due italiani su tre credono ai fantasmi. Ma cosa significa questa parola - «fantasmi» appunto - in un’epoca in cui la tecnologia «riproduce» e mantiene vivo anche ciò che non c’è più?

«I fantasmi sono crudeli, con la realtà ci si può sempre arrangiare». Questa frase diciamo «romantica» la feci mia negli anni 70: l’epoca non la contraddiceva. Ha ancora un senso quando la cosiddetta realtà si rivela consistere della stessa sostanza di cui sono fatti i fantasmi (più o meno crudeli che siano)? E di che sostanza è fatto un fantasma? Ombra, sogno, eidolon, immagine, come quella della madre che Enea incontra nell’Ade (Eneide, XI), ma quando cerca di abbracciarla dolorosamente svanisce. Non è la stessa esperienza (rovesciata) che provò il pubblico convenuto al primo film dei fratelli Lumière, quando tutti scapparono alla vista del treno? A parte le analisi pur pertinenti di Jean Baudrillard, ogni volta che ascoltiamo un disco - che sia la voce di Billie Holiday o quella di Mina - abbiamo a che fare con la presenza di un’assenza, diciamo pure un fantasma. L’universo di copie e cloni che inonda la nostra vita tecnologico-estetica, a cui si aggiungono i robot e tutte le inquietanti forme di sostituzione del corpo, sono segni di una fantasmatizzazione della realtà. Senza bisogno di Internet, si parla di fantasmi (secoli prima di Kafka) a proposito delle lettere, e la metafisica della scrittura che rende presenti gli assenti è oggetto di trattati dal I° secolo a. C. Ma dobbiamo riconoscere al cinema di essere la più eclatante attestazione dell’esistenza dei fantasmi, materializzazione di quell'ombra dell’Ade. L’equazione cinema-fantasma è così evidente che Orson Welles la celebrò con poetica nostalgia nelle scene del suo magnifico e incompiuto Don Chisciotte, quando il cavaliere si precipita a cavallo contro uno schermo su cui sono proiettate delle immagini. I mulini a vento, o più esattamente i Giganti, non sono altro che (il) cinema.
Ora, un sondaggio pubblicato dalla rivista Focus rivela che due italiani su tre ai fantasmi ci crede, e uno su due ne ha visti. Che cosa significa? Dal momento che, Eduardo docet, «siamo noi i fantasmi», dovremmo abituarci a convivere se non altro con l’inquietudine del vederci dal di fuori, duplicati, estranei, «così vicini e così lontani», fantasmi appunto. In fondo, anche il concetto marxiano di «alienazione» appare arcaico, e i romanzi di fantascienza paranoica e psico-teologica di Philip K. Dick appaiono come documentari. Mi dice Enrico Ghezzi, «il cinema è la punta di un iceberg di un immane apparato di registrazione che segna una svolta nella storia dell’umanità: la possibilità di rivedere la propria vita».
Tutto questo, e molto altro, è scaturito dall’ultima edizione del Festival «Il vento del cinema» che si svolge ogni anno a Procida, sotto la direzione artistica, appunto, di Enrico Ghezzi. L’intensa rassegna appena conclusa era dedicata ai temi dell’al di là e del fantasma. Titolo: After life. Film meravigliosamente antiquati e attualissimi alternati al dibattito filosofico (tra i presenti, il filosofo Boris Groys), sullo spettro di sensi di questa formula, after life - «dopo la vita», ma non necessariamente «dopo la morte». Continuo a parlare con Enrico Ghezzi anche dopo il festival. Parliamo soprattutto di alcuni film, quelli di Evgenii Bauer («il primo vero e grande cineasta del fantasma»), i documentari di Frederick Wiseman, il bellissimo film del giapponese Kore-eda Hirokazu, che si chiama appunto After life.
Sembra un racconto di fantascienza ma è centrato sul cinema. Nell’ufficio spoglio in cui si ricevono delle persone, solo a un certo punto lo spettatore viene a sapere che tutti i personaggi sono morti, e i nuovi arrivati devono scegliere ognuno il ricordo preferito da vivo, con il quale sarà composto un film. Il resto della memoria verrà cancellato. Girato quasi tutto a piani fissi, il film è una celebrazione della vita ordinaria, perché i ricordi scelti sono immancabilmente comuni. Per questo viene da chiedersi: ma i film sull’al di là non raccontano poi tutti l’immanenza dell’al di qua?
«Il cinema - dice Ghezzi - può essere pensato come la costituzione di un certo ammasso di after life. È il discorso dei fratelli Lumière, costituire un magazzino di piccole immortalità. Ho usato questo termine molto americano, after life, che non è religioso, non indica né una durata né uno spazio, una vita dopo la vita, ma l’indicazione tecnica dei Lumière è molto bella. Da una parte dice la conservazione, una possibilità di tenere dei tempi di vita (io a dieci anni volevo registrare tutta la vita di mia nonna); dall’altro l’uso poliziesco dell’archivio, come controllo. Di fatto però questo meccanismo di controllo, questo ri, della registrazione, è un inveramento-avveramento di tutte le prospettive after, anche quelle religiose. Il mondo col cinema (con la registrazione, la fotografia), comincia a un certo tempo a ri-vedersi. Pensa alle fotografie di Muybridge, come la famosa fotografia del galoppo del cavallo. Per la prima volta, a partire dalla fine dell’Ottocento, l’umanità ha la possibilità di un ri-vedersi tecnico, rivedersi ed essere visti da altri. Da quel momento il mondo si scinde. La mia deduzione forse eccessiva è che da quel momento inizia una sorta di sospetto (anche paranoico, alla Dick), in cui rientrano Freud e l’idea stessa di archivio, con l’installarsi della registrazione come orizzonte, di cui il cinema è il momento più eclatante. L’ossessione di certi vecchi film per l’aller-retour, l’avanti e indietro dell'immagine, ne era in certo modo la spia».
È un caso che gran parte dei film recenti guardino la vita dalla prospettiva di un al di là? Citando a caso, mi vengono in mente American beauty, Donnie Darko, Il sesto senso, The others... «Nei film hollywodiani l’after life è ormai un vero proprio genere. Anche in film normalissimi c’è un momento after life. Il territorio mentale del cinema americano non è più il territorio-pianeta, ma un territorio interiore dissodato e immaginato, con molte cadute di gusto, da una compresenza dell’al di là, l'immaginazione di un al di là, ma immanente. Nel cinema americano il cinema si qualifica come luogo dell’after life non solo per un legame narrativo, ma perché si riconosce esso stesso così, ciò che poi era dalle origini».
C’è una singolare coincidenza tra i nostri riferimenti. Nella letteratura (da anni cerco io stesso di comporre un romanzo sui fantasmi) mi affascinano i libri la cui trama nasce da un’idea di archivio, di catalogo, di memoria, trovando gli effetti più romanzeschi in una sorta di «documentario», con l’uso di documenti veri e propri: lettere, fotografie, ritagli di giornali ecc. Come il film (e il libro) di Alina Marazzi, Un’ora sola ti vorrei; o il bellissimo I passi sulla testa (Bompiani 2007) di Giuseppe D’Agata, dove un fantasma, letteralmente, che rumoreggia al piano di sopra, interferisce con l’attività di catalogazione della biblioteca del narratore, di cui solo una piccola parte potrà sopravvivere al trasloco (tra i cui titoli, nomi, «fantasmi», appare anche il sottoscritto). Tutto questo rientra nell’ambito dell’after life, «postumo» dello still life (che, con luttuosità tutta italiana, noi diciamo «natura morta»). Ma ha anche a che fare con la poetica del fantasma - dello sfumato, della cancellazione, della parvenza - come gli oggetti della vita ordinaria degli individui, o i loro volti anonimi, sgranati e ingranditi, che popolano le esposizioni di Christian Boltanski.
Ghezzi: «Il cinema nasce proprio su queste basi, sorta di materializzazione del fantasma, più che sul sogno, che secondo me è il falso schermo del cinema. È affascinante che sia nato insieme alle prime analisi freudiane, e della Psicopatolologia della vita quotidiana, ma è solo una bella coincidenza. Il tipo di registrazione freudiano si basa sulla memoria, su ciò che non si può dire del sogni. Il cinema è già sogno. Nel sogno comunque l’after life è un’esperienza comune e continua, perché è parte dell’attività cerebrale, anche senza parlare del déjà vu (il cinema è un accumulazione abissale di déjà vu). Ma il sogno non ha tempo, ed è la sua dimensione più affascinante e paradossale, che lo porta oltre l’immaginazione dell’after life. Nel sogno sei coinvolto in uno stato intermedio, sei una specie di fantasma, ma anche narratore».
Tutto torna. Ma non è proprio il senso dei fantasmi (revenants) quello di «tornare»? Arte, cinema, letteratura, la nonna, il canto XI dell’Eneide, la madre che non puoi abbracciare, il Don Chisciotte di Orson Welles, cui Giorgio Agamben ha dedicato una pagina importante del suo Elogio della profanazione. Ma cosa lega più precisamente il fantasma all’after life, ed entrambi alla nostra epoca? Boris Groys pensa che la platonica metanoia (anticipazione dell’immortalità dell’anima nella postura dei veri filosofi) sia oggi possibile come anticipazione dell’immortalità dei corpi (l’evidenza che la vita del corpo, in una decomposizione virtualmente infinita, continua). Sostiene che la storia dell’arte moderna e contemporanea sia dalla parte del cadavere (le opere come cadaveri degli oggetti, di cui esibiscono la materialità pura). Di fatto, se la cultura di massa prospera sulla figura di vampiri, zombi, cloni e macchine viventi, per Foucault esistono luoghi - cimiteri, musei, biblioteche, discariche di rifiuti - in cui, per «eterotopia», umani e cose sono spostati in uno spazio altro, separato, come quello dei non-morti. O come gli oggetti di un archivio, un tempo vivi e funzionali.
«Noi - aggiunge Ghezzi - stiamo vivendo oggi letteralmente l’esperienza dello zombi o dell’undead, non solo come società ma come pianeta. Se pensi al discorso sulla rovina del pianeta, la nostra autocolpevolizzazione. Non c’è politico che lo dica, ma alcuni filosofi sì. I politici sono amministratori che non ammettono nemmeno di parlare della morte». È il discorso dell’immunità dei politici al tempo, contro la comunità, tutt’uno con la mortalità. «Sì, il tema che unisce i due corni del dilemma è questo, e lo abbiamo affrontato in una scorsa edizione del festival dal titolo "Rest-aura": l’invecchiamento, il reimbellettamento del film, l’after life del cinema stesso. Tendere all’immortalità, all’eternizzazione dei corpi, e insieme all’immateriale, che collide con la conservazione dei corpi. L’11 settembre è stato anche questo...».
Allora, siamo noi i fantasmi? Come in Film, scritto da Samuel Beckett per Buster Keaton, all’insegna del berkeleyano «esse est percipi» (essere è essere percepiti)? Riepilogando: è questo, il nostro mondo presente e normale, l’al di là: visto da un ri, o da un punto in cui si vede il ri, il rivedersi della registrazione. Ghezzi mi cita questa frase di Kafka: «abbiamo fatto il positivo, ora resta da fare il negativo». Anche Godard pare l’abbia usata.
A Napoli, proprio nei giorni del festival, si è inaugurata la mostra Images, fotografie dal set dei film di Bernardo Bertolucci. «Immagini rubate», mi ha detto il regista quando la mostra era a Parma, «che non rappresentano i miei film, ma l’inconscio dei miei film». Che suggeriscono l’esistenza di un fuori-campo, una «assenza / più acuta presenza» (Attilio Bertolucci). Fantasmi, still life, after life. Non solo di film.

Repubblica 1.10.09
L’evasore fiscale sul lettino di Freud
di Mario Pirani


L´atteggiamento verso le tasse ha qualcosa a che fare con la psicoanalisi? L´interrogativo mi si è posto dopo una lettera inviatami da due noti psichiatri e psicoterapeuti di diversa appartenenza scientifica, l´uno, Franco Paparo, aderente alla Società Psicoanalista Italiana, l´altro, Gianni Lotti, di scuola cognitivo-evoluzionista. I due studiosi caldeggiavano la lettura fra i dirigenti di centrosinistra di un libretto, a loro avviso prezioso uscito un anno fa e che era sfuggito anche a me: "Non pensate all´elefante" (Edizioni: Fusi orari, 2006, euro 12) , autore George Lakoff, che insegna Scienze cognitive e Linguistica all´Università di Berkeley in California. Ora questo studioso, colpito dalla vittoria di Bush, si è sforzato, sulla base delle sue competenze scientifiche, di ricercare gli errori tipici dei progressisti americani nel comunicare i propri valori fondamentali. Molte delle osservazioni di Lakoff sembrano, peraltro, attagliarsi alla contrapposizione destra-sinistra in Italia e in altri paesi occidentali.
Tema del libro è l´inanità del tentativo di cambiare la cornice concettuale (frame), entro la quale l´elettore convinto dalla destra inquadra i propri ragionamenti e, dunque, le proprie scelte politiche, confutandola direttamente. Viceversa, la comunicazione semplice e diretta dei valori progressisti ha maggiore probabilità di successo non solo nei riguardi dell´elettore indeciso, ma anche nel modificare, per così dire indirettamente e sottilmente, lo stato mentale dell´elettore di destra più convinto. Vogliamo citare un semplice esempio, tratto dal libro, per noi assolutamente attuale, sulla riduzione delle tasse. Scrive Lakoff: «Che cosa sono le tasse? Le tasse sono i soldi che paghiamo per vivere in un paese civile, per avere la democrazia e le opportunità, e per usare le infrastrutture finanziate dai contribuenti che sono venuti prima di noi: la rete autostradale, internet, la ricerca scientifica, quella medica, il sistema di comunicazioni, il trasporto aereo. Tutto questo viene pagato dai contribuenti». E più avanti: «Pagando le tasse i nostri genitori hanno investito nel futuro, nel nostro e nel loro. E se un discorso del genere fosse stato ripetuto per anni alla fine il concetto sarebbe stato incontrovertibile: le tasse sono un saggio investimento per il futuro.. E quelli che evadono le tasse, come le società che si trasferiscono alle Bermude, non pagano quello che devono al loro paese. Chi paga le tasse è un patriota. Chi le evade e manda in rovina il paese è un traditore». Lakoff, grande esperto di metafore, argomenta che i conservatori e le destre in genere perseguono l´ideale del «padre severo»: disciplina ottenuta col gioco di premi e punizioni; successo sociale ed economico individuale come supremo obiettivo di vita; affermazione della morale tradizionale come unico sostegno possibile alla vita sociale; controllo coercitivo sugli avversari; impazienza di fronte al dialogo e alle argomentazioni.
Viceversa, i progressisti sono motivati dall´ideale metaforico del «genitore premuroso»: fiducia nello sviluppo autonomo, «dall´interno» della mente e del «cuore» di ogni essere umano qualora gli si offra sostegno, sicurezza e comprensione in dose maggiore della disciplina; cooperazione fra pari e non controllo coercitivo come meta finale; crescita culturale e di consapevolezza come supremo obiettivo di vita; dialogo con gli avversari ed i diversi. Piuttosto che inseguire il conservatore sul suo terreno (cioè all´interno del suo frame), parlando di competizione e di economia per contrastarlo, il progressista farà bene a comunicare in modo semplice, chiaro e diretto i propri valori, il proprio frame. Solo secondariamente, il progressista potrà delucidare come essi si traducono in concrete scelte economico-politiche. I valori progressisti sono obiettivamente antagonisti di quelli dei conservatori, e dunque la comunicazione chiara e semplice di essi offrirà efficacemente alla mente di tutti gli elettori un frame (una trama concettuale di riferimento) diversa di quello, inattaccabile se si entra direttamente al suo interno, tipico dell´elefante (l´elefante è il simbolo del partito repubblicano negli Usa). Un discorso abbastanza suadente con qualche «ma» e qualche «se»: il «genitore premuroso» potrà apparire convincente se il livello fiscale cui il cittadino è sottoposto non esorbiterà troppo dal valore dei beni pubblici offerti in cambio e, secondariamente, se i servizi ricevuti risulteranno da una gestione efficiente e non dilapidatrice.
Altrimenti, come ha detto Ratzinger, prevale la storica avversione popolare per le tasse.

Repubblica 1.10.09
Il novantenne Li Rui attacca la nomenklatura su un'autorevole rivista a due settimane dall'apertura del XVII Congresso del Partito comunista
"Compagni, più democrazia" la sfida del segretario di Mao
di Federico Rampini


Per il presidente cinese Hu Jintao e la sua generazione di tecnocrati sessantenni che dominano le leve del comando, l´ultima lezione di democrazia viene da un «nonno terribile» della nomenklatura. E´ Li Rui, 90 anni, ex segretario e biografo personale di Mao Zedong, a lanciare un attacco frontale al regime.
A due settimane dall´apertura del 17esimo congresso del partito comunista, Li non misura le parole. Esorta i dirigenti a convertirsi alla democrazia. Afferma che solo la libertà politica può mettere fine all´instabilità e alla corruzione dilagante. Chiede che i diritti civili siano effettivamente rispettati, e che siano imposti dei limiti allo strapotere del partito. La dura requisitoria di Li, un vero e proprio manifesto per la transizione alla democrazia, non circola in forma clandestina ma è pubblicata su un´autorevole rivista ideologica, Yanhuang Chunqiu ("La Cina attraverso i tempi"). Il tempismo della sua uscita è cruciale, conferma le tensioni sotterranee all´interno della classe dirigente e la crescente insofferenza di alcune élites. Al prossimo congresso Hu Jintao consoliderà il suo potere, sarà confermato segretario del partito e presidente della Repubblica, e al tempo stesso inizierà a preparare la propria successione "blindata" all´interno di una cerchia di fedelissimi. La preparazione di questo congresso è stata preceduta dal lancio delle consuete campagne contro la corruzione e per la moralizzazione del partito. Come spesso accade, la caccia ai disonesti serve come paravento per realizzare anche delle purghe politiche. L´esempio più importante è stata la caduta in disgrazia del numero uno del partito a Shanghai. Incastrato per aver rubato dal fondo pensione della municipalità, il leader di Shanghai era uno degli ultimi uomini di Jiang Zemin, il predecessore di Hu.
Spazzato via il "clan di Shanghai", Hu sta occupando tutti i posti chiave del potere, riempiendo le caselle con uomini di assoluta obbedienza. In parallelo, il presidente ha ristretto gli spazi del dissenso e la censura dell´informazione è stata irrigidita. In barba agli impegni presi per i Giochi olimpici di Pechino 2008, la libertà di espressione è in ulteriore arretramento.
E´ in questo contesto che si inserisce il duro intervento del novantenne ex segretario di Mao. Li Rui manda a dire al suo presidente che solo l´emancipazione dei cittadini è un argine efficace contro la corruzione. L´età di Li e il suo curriculum gli consentono di ignorare i rischi della censura e della repressione. Comunista fin dal 1937, assistente personale di Mao negli anni Cinquanta, alto dirigente del partito sotto Deng Xiaoping, Li non è nuovo a prese di posizione "eretiche". Più volte ha sfidato i tabù e il conformismo dei suoi compagni. Fu purgato da Mao per avere denunciato il tragico errore del Grande balzo in avanti (che fece decine di milioni di morti nel 1959). Più di recente quando Hu Jintao andò al potere fu sempre Li a mandargli una lettera aperta chiedendo che il partito facesse mea culpa per il massacro di Piazza Tiennamen del 1989. Questa sua ultima uscita è altrettanto coraggiosa. Nel numero di ottobre della rivista Li scrive che la Cina rischia di arretrare di molti decenni e di sprofondare nel caos se le democratizzazione a lungo rinviata non fa dei passi avanti, in modo da adeguare il sistema politico all´economia di mercato. E´ la tesi esattamente opposta alla visione di Hu Jintao, del premier Wen Jiabao e di tutto il gruppo dirigente: costoro al contrario dipingono l´instabilità e il caos come le conseguenze sicure qualora la Cina adottasse una liberaldemocrazia di tipo occidentale. Li vede dietro le apparenze, coglie le gravi tensioni che covano in seno alla società civile e non trovano sbocco per mancanza di pluralismo.
«Riformare il partito - scrive l´anziano dirigente - è il passaggio cruciale da cui dipende il successo o il fallimento di tutte le altre riforme. Il partito deve dare l´esempio applicando la Costituzione, deve garantire che i diritti dei cittadini siano rispettati: la libertà di espressione, d´informazione, di pubblicazione e di associazione».
L´articolo dell´ex segretario personale di Mao viene pubblicato esattamente un mese dopo un´altra manifestazione clamorosa di dissenso. Il 28 agosto il movimento per i diritti civili è uscito allo scoperto quando più di mille personalità hanno reso nota una lettera aperta a Hu Jintao. I firmatari chiedono la liberazione immediata dei prigionieri politici e la libertà di stampa, come condizione per «creare una nuova immagine del paese». «Secondo la Costituzione della Repubblica popolare - si legge nell´appello pubblico - il partito comunista si è impegnato solennemente a governare il paese come uno Stato di diritto, rispettando i diritti umani. In realtà la polizia e la magistratura sotto il comando del partito hanno continuato ad arrestare e condannare scrittori, giornalisti, avvocati e militanti democratici negli ultimi tre anni, per reati d´opinione, di parola, e per l´espressione di idee politiche». La lettera aperta naturalmente è stata censurata da tutti i mezzi d´informazione e la massa dei cittadini cinesi non ne ha saputo l´esistenza. Tuttavia l´ampiezza del numero dei firmatari è significativa. Era dai tempi del movimento di Piazza Tienanmen che non si manifestava un fronte così ampio per chiedere al regime le riforme politiche e le libertà individuali. Ora hanno anche l´appoggio di un "grande vecchio" che fu tra i pionieri della rivoluzione.

Repubblica 1.10.09
Mark Rothko
Palazzo delle Esposizioni. Dal 6 ottobre.


Dopo le mostre tenute in Italia (alla Biennale di Venezia del 1958, alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna nel 1962 e a Ca' Pesaro nel 1970), una nuova rassegna ripercorre l'opera del grande pittore. Nato in Lettonia ed emigrato negli Stati Uniti nel 1913, Rothko inizia a interessarsi all'automatismo surrealista. La mostra prende avvio dai primi dipinti su tavolette di gesso e si chiude con gli ultimi Blakform, dando conto via via dei vari cicli pittorici, che caratterizzano il suo fare. In tutto settanta dipinti, provenienti da raccolte pubbliche e private di tutto il mondo.

alteredo.org
Giordano e Ferrero intervistati su laicità e anticlericalismo


Buongiorno segretario Giordano. Siamo alla Costituente della Sinistra unita e plurale, alla Flog di Firenze, per cercare di realizzare la tanto agognata unità delle sinistre.
Cominciamo con una provocazione, visto che lei è il segretario del maggiore partito che si richiama alla tradizione comunista: ho intervistato una settimana fa Rocco Buttiglione, il filosofo Rocco Buttiglione il quale, parlando dell’impegno cattolico in politica, ha detto: “tra poco celebreremo i 20 anni dalla caduta del comunismo: e lì è la fede, è il cristianesimo, è la religione, è una grande testimonianza religiosa, morale, culturale, che ha fatto cadere il più grande impero materialista e ateo del mondo.”. Non fu un crollo di matrice economico-sociale, dunque, ma di mancanza di fede.
Ecco, lei, da comunista, sente in questa provocazione di Buttiglione un acuirsi della conflittualità tra laici e cattolici in politica?

Iniziamo dal fatto che Buttiglione ha detto una grande sciocchezza sulla vicenda dei paesi del socialismo dell’Est, che sono crollati perché hanno perso ogni possibilità di costruire e di rifondarsi su un terreno democratico, hanno perso la sfida con il mondo, non hanno investito sul protagonismo sociale, hanno negato i principi per cui erano nati.
Poi, penso che noi dobbiamo ricostruire una produzione legislativa laica nel nostro paese, e riconquistarci al contrario quello che la Costituzione ha stabilito con grandissima determinazione: che il nostro è uno Stato pienamente e autonomamente laico.
Posso dire qualcosa che può apparire paradossale? Oggi la laicità è più a rischio perché in realtà non c’è più un partito, il partito della Democrazia Cristiana, che mediava – e naturalmente era una mediazione che io non accettavo, che a me non stava bene – gli interessi delle gerarchie ecclesiastiche. Oggi è il contrario: ci sono piccoli partiti centristi che siccome sono deboli elettoralmente, flebili dal punto di vista dell’identità, cercano essi la legittimazione dalle gerarchie ecclesiastiche. Per questo l’intervento delle gerarchie ecclesiastiche arriva direttamente sulla produzione legislativa. E qui c’è un elemento di rischio molto grande.

Quella sinistra che storicamente non è mai stata molto presente sul fronte della battaglia laica, lasciandola spesso e volentieri in monopolio ai Radicali, ultimamente è rientrata in modo forte su questo terreno. Però con delle zone d’ombra ancora. Per esempio: il 15 novembre 2006 è stato bocciato un emendamento della Rosa nel Pugno alla legge finanziaria che avrebbe reintrodotto l’obbligo del pagamento dell’Ici sui beni della Chiesa Cattolica. Quell’emendamento è stato fatto fuori anche grazie ai voti del gruppo di Rifondazione Comunista. Su questo argomento Aldo Busi, durante la manifestazione Diritti ora, quando sul palco parlava Vladimir Luxuria, disse, con il suo solito linguaggio forte: “l’onorevole Luxuria non dovrebbe stare su quel palco perché, insieme a tutto il partito, ha votato contro l’emendamento che reintroduceva il pagamento dell’Ici per la Chiesa”. Ecco, c’è ancora una certa timidezza nella sinistra su questi temi? Non è ancora pienamente e convintamene anticlericale?

Noi non siamo anticlericali. Questo ci tengo a dirlo perché non vorrei essere frainteso. Noi siamo per la piena laicità dello Stato che non significa essere anticlericali. Noi siamo per una critica molto netta e molto forte di una casta, sia essa politica sia essa sacerdotale, tutta rigorosamente maschile, che decide di intervenire sui corpi delle donne, sulle relazioni, sulle affettività, che decide di negare la soggettività di diritti di relazioni che esistono nella società italiana e non solo. Mi permetto di dire, citando persino l’Antigone di Sofocle, che quelle norme che contrastano così fortemente i sentimenti sono norme destinate ad essere trasgredite. Siamo tutti disobbedienti quando ci sono delle norme, su questi terreni, che ti impongono in maniere costipata, coercitiva, coatta, modalità di relazioni che non sono il frutto di una libera scelta.

Ma allora perché avete votato contro quell’emendamento della Rosa nel Pugno sull’Ici alla Chiesa?

Come si vede noi siamo anche molto… legati, diciamo, ad una dinamica di coalizione… Abbiamo contestato e ci siamo battuti contro quella impostazione, poi quell’impostazione purtroppo è prevalsa ed è una di quelle cose negative che abbiamo fatto.

Un ultimo argomento: è doveroso fare i complimenti a tutta la sinistra che si è battuta molto bene per i pacs che poi sono diventati dico e poi ancora cus. Ciononostante, non ce l’ha fatta. Questo significa forse che in un paese come il nostro, arretrato, clericale, retrogrado come il nostro, visto tutto l’impegno profuso ma infruttuoso, è impossibile, è una battaglia già persa, contro un avversario troppo forte?

No, e penso che pazientemente, con un’iniziativa politico-culturale dobbiamo riprendere questo tema e questa battaglia. Con grande forza. Perché – guardate – il tema dei diritti civili non è appannaggio della sinistra. Il tema dei diritti civili è proprio di una società liberale. La verità è che oggi i liberisti, per poter incerare la loro politica, devono essere illiberali.
Ci sono delle osservazioni dal punto di vista culturale che sono francamente farneticanti: c’è un libro che dice il liberismo è di sinistra. Purtroppo voi radicali (...) voi o un’area radicale, acconsente a questa ipotesi. Ma la verità è che oggi il principio autoritario che distrugge il pensiero liberale, di Gobetti, persino di Einaudi…

Non dimentichiamo Mazzini…

…e di Mazzini, è il liberismo. Invece c’è una rottura tra liberalismo e liberismo e un rovesciamento di senso autoritario.

Infatti il liberista Berlusconi è la persona forse meno liberale del mondo…

Beh, lui non è neanche un liberista. È un monopolista dichiarato che cerca una strada per salvaguardare i propri interessi, altro che liberista

La ringrazio molto
Arrivederla

Intervista al Ministro della Solidarietà Sociale Paolo Ferrero:
“La laicità dello Stato è sotto pressione e messa in discussione ma dobbiamo stare attenti a non regalare l’Italia al clericalismo”

Buongiorno Ministro Ferrero, siamo al 22 settembre, e due giorni fa festeggiavamo il 137° anniversario della Breccia di Porta Pia. In piazza a Roma abbiamo visto i Radicali, i Socialisti, poca sinistra. Storicamente infatti il 20 settembre è una data che la sinistra non sente molto, però in quest’ultimo anno anche la sinistra si è resa protagonista della battaglia per la laicità dello Stato. È arrivata l’ora di recuperare il 20 settembre secondo lei?

Non so se la data del 20 settembre sia da recuperare. Forse più che quelli risorgimentali, dobbiamo recuperare i valori della Costituzione. Forse si sentono più vicini quelli e quindi credo che il punto sia avere la capacità, tutti i giorni, con le leggi così come nel dibattito culturale, di riaffermare la laicità dello Stato italiano, che indubbiamente è sotto pressione e viene messa in discussione da più parti.

Dunque, la mancanza della sinistra a Porta Pia si spiega così: è una ricorrenza risorgimentale, dunque liberale. Ma la sinistra liberale e la sinistra radicale possono su questi temi trovare una convergenza?

Penso di sì, purché sia chiaro che la battaglia per la laicità dello Stato non c’entra nulla con l’anticlericalismo. E qui invece a volte c’è un elemento di confusione. Credo che giustamente la libertà religiosa debba essere garantita per tutti, come la libertà di non essere religiosi, di non avere nessuna fede: va messo assolutamente tutto sullo stesso piano.
Secondo me questo è il punto fondamentale: la battaglia per la laicità. Poi, dentro la laicità ci sarà chi sostiene pensieri anche clericali e ci sarà chi sostiene pensieri anticlericali. Io penso che la sinistra non debba essere anticlericale. Perché penso si possa credere in Dio o non credere in Dio, essere cattolici o non essere cattolici, e fare una battaglia per la trasformazione sociale senza che questa questione della fede e della Chiesa diventi l’ostacolo a poter lottare assieme per il cambiamento.

Ma per esempio, un grande intellettuale di sinistra come Aldo Busi, mi ha detto durante un’intervista che – arrivati a questo punto del dibattito politico – non si può non essere anticlericali. E se pensiamo a tutte le polemiche intorno alla costruzione delle moschee, fino al maiale day di Calderoli, e se pensiamo che tutta la battaglia per i diritti è una battaglia che si è posta in contrapposizione con la Chiesa, ecco che laicità e anticlericalismo si avvicinano molto.

Io penso di no. Penso che in politica, come nella battaglia culturale, bisogna essere sempre capaci a distinguere. Penso che bisogna fare una battaglia a fondo contro delle idee che io ritengo siano sbagliate, ma questo senza cadere nell’anticlericalismo. Perché altrimenti questo vuol dire semplicemente regalare ad una rappresentanza che sta su posizioni discutibili, l’egemonia su tutto un mondo di persone che si sente credente e che magari ha altre posizioni. Io penso che non vada regalato nulla e che bisogna tenere ferma la battaglia per la laicità, senza cadere però cadere in giudizi sulla fede, su Dio, e non solo su qualche posizione politica.
Per questo ritengo che la battaglia per la laicità la sinistra la deve fare di più e con più coraggio. Ma allo stesso tempo deve evitare di cadere nel modo più assoluto nell’anticlericalismo perché vorrebbe dire condannare l’Italia al clericalismo.
(interviste di Edoardo Semmola)

domenica 30 settembre 2007

Corriere della Sera 30.9.07
Il papa e il profitto
I paradossi dell’economia cristiana
di Emanuele Severino


«Il profitto è naturalmente legittimo nella giusta misura, è necessario allo sviluppo economico; ma il capitalismo non va considerato come l'unico modello valido di organizzazione economica». Lo ha detto qualche giorno fa Benedetto XVI. Qualcuno potrebbe obiettare che se il profitto, cioè lo scopo dell'agire capitalistico, «è necessario allo sviluppo economico », non si vede perché si debbano indicare altri modelli validi, auspicandone l'attuazione. Ma sarebbe un'obiezione fuori luogo. Il Pontefice trae infatti una conseguenza del tutto corretta, servendosi di una logica su cui vado richiamando l'attenzione da decenni.
Lo scopo di un'azione è l'essenza stessa di tale azione. Già Aristotele lo affermava.
Quindi se un'azione cambia il proprio scopo, l'azione stessa cambia e solo in apparenza può sembrare la stessa. Il mangiare quando si mangia per vivere è diverso dal mangiare quando si vive per mangiare. Lo stesso si dica del vivere.
Il capitalismo è un agire complesso che però, in ogni sua intrapresa, ha come scopo il profitto, non l'amore del prossimo. Da tempo la Chiesa, pur riconoscendo che «il profitto è naturalmente legittimo », lo condanna quando e in quanto esso voglia essere lo scopo della organizzazione economica. Il profitto è «legittimo» se si mantiene «nella giusta misura»: non come scopo di tale organizzazione ma come mezzo con cui questa realizza lo scopo legittimo, ossia il «bene comune». Un mezzo per realizzare la carità cristiana, l'amore del prossimo.
Ma prescrivendo al capitalismo di avere come scopo il «bene comune» cristianamente inteso, la Chiesa gli prescrive di assumere uno scopo diverso da quello che costituisce l'essenza stessa del capitalismo, ossia di diventare qualcosa di diverso da ciò che esso è. Come ho sempre detto, lo invita ad andare all'altro mondo. Lo stesso invito del comunismo (diversamente motivato). In proposito, i critici, soprattutto di parte cattolica, non mi sono mai mancati. Ma, ora, le surriferite espressioni di Benedetto XVI mi danno ragione.
Infatti, se il capitalismo nella «giusta misura» assume come scopo non più il profitto ma il «bene comune», allora il capitalismo, dice il pontefice, «è necessario allo sviluppo economico» ma è anche diventato un diverso «modello di organizzazione», che, chiosiamo, del capitalismo e del profitto conserva soltanto il nome — come del «vivere» (e del «mangiare») si conserva soltanto il nome quando, invece di vivere per mangiare, si mangia per vivere. E questo diverso modello è qualcosa di «valido», pretende di essere valido oltre alla validità che il capitalismo attribuisce a se stesso. Giusto dire, quindi, che il capitalismo non è l'unico modello valido. Qualcosa, però, è da chiarire. Il capitalismo non va considerato «come l'unico modello valido». Ma — osservo — il capitalismo che la Chiesa riconosce «valido» e «necessario allo sviluppo economico» non può essere quello che assume come scopo il profitto (e che poi è il capitalismo vero e proprio), bensì quello che assume come scopo il «bene comune» e che appunto per questo è un diverso «modello». A quale altro capitalismo «valido» si riferisce allora il pontefice, quando afferma che «il capitalismo non va considerato come l'unico modello valido»? L'impostazione del suo discorso, cioè, non avrebbe dovuto fargli dir questo, ma fargli concludere che l'unico «modello valido» è quello «necessario allo sviluppo economico» che è necessario solo in quanto ha come scopo il «bene comune». È l'economia cristiana. (Anche l'unica scienza valida è quella cristiana — come il pontefice ha affermato).
Quella conclusione sarebbe stata, certo, molto cruda. Ma non era molto più cruda la sua esortazione, fatta ai politici cattolici il giorno prima, a «far sì che non si diffondano nè si rafforzino le ideologie che possono oscurare e confondere le coscienze, e veicolare una illusoria visione della verità e del bene »? Se il pontefice ritiene (e mi risulta che lo ritenga) che il mio discorso filosofico sia una di quelle «ideologie» e se i cattolici obbedienti alla Chiesa avessero la maggioranza nel Paese, io dovrei smettere di farmi sentire. Poco male. Molto importante invece che, se quella maggioranza si costituisse, anche la libertà di opinione e di parola andrebbe all'altro mondo. Fine anche della democrazia.
Fine di qualcosa, tuttavia, che la Chiesa non intende far finire. Ma si tratta di un'intenzione analoga a quella di non voler far finire il capitalismo ma solo il capitalismo che non si mantiene «nella giusta misura». Anche riguardo alla democrazia il pontefice potrebbe infatti dire che la libertà «è naturalmente legittima nella giusta misura» ed «è necessaria allo sviluppo» politico (dove però la giusta misura è data da una libertà non separata dalla verità cristianamente intesa). Sì che l'unico modello valido di organizzazione politica è la democrazia che non assume come scopo la libertà senza la verità cristiana ma quella il cui scopo è l'unione di libertà e di tale verità (dove il profitto non avente come scopo il «bene comune» sta alla libertà senza verità, così come il profitto avente quello scopo sta alla libertà unita alla verità).
Quanto ho detto non ha in alcun modo l'intento di sostenere che, poiché capitalismo e democrazia sono intoccabili, dunque la Chiesa ha torto. Ha l'intento di mostrare la conflittualità tra le forze che oggi guidano il mondo occidentale e che non sussiste soltanto tra Chiesa e capitalismo o democrazia, ma anche tra capitalismo e democrazia, tra società ricche e l'Islam (che ormai si è posto alla testa di quelle povere), e soprattutto tra tutte queste forze da un lato, e dall'altro quella che è destinata a dominarle tutte: la tecnica. Solo partendo da questo tema si può evitare che le discussioni di questi giorni sull'«antipolitica» abbiano a nascondere il senso autentico della «crisi della politica» — che è crisi di tutte quelle forze e dei loro conflitti.

Corriere della Sera 30.9.07
Veltroni «corteggia» Giordano: diversi, però rispettiamoci
di Maria Teresa Meli


ROMA — Walter Veltroni lo vuole fare «strano». Il Partito democratico, si intende. O almeno così annuncia alla Festa di Liberazione per convincere il segretario di Rifondazione Franco Giordano a non diffidare del Pd. E' il primo confronto pubblico tra i due leader da quando il sindaco di Roma è sceso in campo per le primarie.
La platea applaude anche Veltroni, sebbene meno calorosamente di Giordano. Mormora infastidita all'indirizzo del sindaco solo una volta, ma nessuna protesta plateale. Del resto, il primo cittadino della Capitale è lì non per litigare ma per convincere. E si vede. Comincia e prosegue suadente, anche se il leader del Prc lo rintuzza spesso e volentieri. I due non si trovano d'accordo quasi su nulla, ma i toni sono garbati da entrambe le parti.
Veltroni annuncia che il Pd sarà «strano », ossia non sarà moderato, darà risposte secondo schemi non ideologici e quindi potrà anche dare risposte radicali. «Spiegalo a Fioroni e De Mita — risponde Giordano — che invece sostengono che il Pd è il nuovo partito di centro». Ma il sindaco insiste: «Le sinistre non devono essere in conflitto: devono riconoscere le loro diversità e rispettarsi. Evitiamo il vecchio vizio della sinistra per cui chi ha opinioni diverse è un nemico». A Giordano, per carità, questo ragionamento va più che bene, ma, avverte, «evitiamo anche di dare un'immagine per cui l'innovazione sta da voi, mentre da noi c'è qualcuno che sta con testa e piedi rivolti indietro». Veltroni insiste sulla necessità di rimanere uniti e di evitare di far fibrillare il governo. E' un implicito riferimento alle ultime sortite della Cosa rossa, e Giordano gli replica così: «Noi non siamo la Lega della coalizione. E' giusto che ci sia una maggiore unità, ma trovo singolare che questo tema sia posto proprio a noi perché tutte le volte che il governo si è trovato in difficoltà non è mai stato per un voto del Prc o della sinistra».
I due continuano il confronto, sempre in garbato disaccordo: questa volta l'oggetto del contendere è il rapporto con le imprese. Spiega il sindaco di Roma: «Vanno sostenute, danno lavoro. Senza imprese tutto va a gambe all'aria, compresa l'equità sociale. Non si può penalizzarle». Obietta Giordano: «Se voi siete equidistanti tra impresa e lavoro noi non abbiamo dubbi: teniamo i piedi puntati sul lavoro». E ancora: la manifestazione del 20 ottobre. Veltroni sottolinea: «Dobbiamo dare un segno di forte coesione politica, altrimenti diamo spazio alle offensive di vario tipo che hanno come scopo le elezioni anticipate». «Quella del 20 — assicura il segretario di Rifondazione — non è una manifestazione contro il governo». Anche sulla legge elettorale Veltroni e Giordano sono in perfetto disaccordo. Il leader del Prc propone di sposare il modello tedesco. Il sindaco non dice quale sistema preferisce, ma fa capire di avere un debole per il francese e, comunque, stoppa il tedesco, perché, ricorda, non piace a Forza Italia e Alleanza nazionale ed è difficile fare una riforma contro le due maggiori forze della Cdl. Sempre a questo riguardo Veltroni ammonisce: «Attenti al ritorno di un Ghino di Tacco».
Il confronto moderato dal giornalista del Tg1 David Sassoli termina com'era cominciato: sorrisi, strette di mano, ma posizioni assai distanti. Però il reciproco riconoscimento c'è, in vista di una futura alleanza, che, forse, Veltroni dovrà costruire prima del previsto. E chissà se è anche per questo, perché, cioè, il rischio di voto anticipato c'è, che il sindaco di Roma si mostra più che disponibile con il leader di Rifondazione comunista.

Corriere della Sera 30.9.07
Dal 1522 al discorso di Ratzinger a Ratisbona: un conflitto senza fine
Aspettando i barbari con la scimitarra
Crociate e «guerre giuste»: Petacco racconta gli scontri di civiltà
di Dario Fertilio


«Quelli ogni volta ritornano », sembra ammonire in sottofondo la voce profonda di Arrigo Petacco, mentre scorrono le pagine vagamente apocalittiche della sua Ultima Crociata. «Quelli», coloro che periodicamente si ripresentano sotto le nostre mura, armati fino ai denti, sono naturalmente i guerrieri islamici. Cioè i discendenti del Feroce Saladino e dell'impero ottomano, gli avversari irriducibili della «Cristianità».
Lasciate da parte le tragedie del Novecento, in questo saggio l'autore mette la consueta leggerezza narrativa al servizio di un tema insieme antico e moderno: la «guerra santa» fra «noi» e «loro ». E lo colloca fra il 1522, quando i turchi giunsero con la loro cavalleria fino a Ratisbona in Germania, e il 1683, data in cui i giannizzeri si ritrovarono nuovamente sotto le mura viennesi e ancora da Ratisbona la Dieta imperiale proclamò l'ultima crociata. Una successione di eventi cui Petacco conferisce un ritmo incalzante e, soprattutto, quella sua singolare dote icastica che sa dar vita sotto ai nostri occhi a paesaggi e personaggi. Così, ogni volta in cui la Minaccia Islamica si materializza sotto forma di esercito, flotta o squadriglia corsara, pare di sentire nell'aria il martellamento dei tamburi, il passo dei giannizzeri, l'accompagnamento dei flauti, il profumo di incensi nella tenda grande del serraglio, dove impera il sultano e il suo visir decide sulla vita e la morte dei generali valorosi o riprovevoli.
Ci sono pagine, ne L'ultima crociata, capaci di evocare atti di straordinario eroismo (come la resistenza eroica dei veneziani a Famagosta di Cipro, assediati per un anno dai turchi in schiacciante superiorità numerica, finché il governatore Marcantonio Bragadin, una volta arresosi, viene letteralmente scuoiato vivo). Altri passaggi riguardano i particolari del sistema politico e sociale ottomano, inclusa la nascita del «partito dell'harem» e la soppressione abituale dei pretendenti dinastici ingombranti, mediante strangolamento con un filo di seta. Abbondano le descrizioni delle mattanze selvagge — per lo più di mano islamica ma qualche volta anche cristiana — ogni volta che una piazzaforte nemica viene conquistata. Sullo sfondo c'è l'affresco pittoresco e tragico dei «bagni» nel nord Africa, in cui venivano rinchiusi a migliaia i giaurri, i cristiani caduti in schiavitù, luoghi da cui pochi ritornavano e solo dopo essere stati riscattati dai familiari a peso d'oro. E c'è naturalmente la descrizione esaltante della battaglia di Lepanto nel 1571, con la rivincita dei cristiani, un tripudio di colori araldici sulle bandiere, grida degli aguzzini che frustano i rematori, invocazioni ad Allah akbar!, disquisizioni tecniche sull'impiego dei rostri negli arrembaggi, lacrime di gioia o di terrore mentre decine di galee vanno a fondo portando con sè gli schiavi incatenati ai remi.
Tuttavia non bisogna pensare che Arrigo Petacco metta semplicemente in scena un kolossal impressionistico, al puro scopo di conferire spessore cronologico alle vicende di oggi. Tiene a sottolineare, invece, che il famoso discorso di papa Ratzinger a Ratisbona, quello che denunciando le repressioni e l'aggressività islamica mandò su tutte le furie gli integralisti, è stato un segnale politico preciso, e addirittura un «ammonimento profetico». Le crociate, e in genere le antiche mobilitazioni contro i maomettani, furono una scelta di civiltà— sostiene Petacco — e l'unico modo di affermare con coraggio i diritti della persona, il frutto giudaico- ellenistico-cristiano che non accettava di essere schiacciato sotto il tallone del sultano. Furono, in conclusione, «guerre giuste ». Che poi si debba distinguere fra islamismo militare, o terroristico, e cultura islamica, questo L'ultima crociata non lo dice: ed è il capitolo che deve ancora essere scritto.

l’Unità 30.9.07
Indulto: cifre e leggende
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


Le cronache di questi giorni rilanciano la «questione sicurezza». E, con essa, la questione della criminalità. In conclusione, sempre lì si torna a battere: l’indulto. Così che viene da pensare «ah! Quanto sarebbe bello questo paese se l’indulto non ci fosse mai stato. E quanto si vivrebbe meglio...». Certo, il discorso pubblico sulla questione talvolta, grazie al cielo, si fa argomentato e documentato. E non per questo meno approssimativo. Un buon esempio viene dall’articolo di Roberto Perotti pubblicato sul Sole24 Ore di giovedì. «Ma come è possibile - scrive l’autore - trattare una questione così fondamentale per la vita (letteralmente) di tutti gli italiani in modo così superficiale, per non dire incompetente?». Ce lo chiediamo anche noi, già a leggere l’incipit dell’articolo: «Dopo l’indulto le rapine in banca sono raddoppiate». E la causa è, appunto, quel provvedimento di clemenza. Non è certo nostra intenzione sostenere che, sul fronte della criminalità, tutto vada bene. Non siamo ciechi. Ma è, altresì, nostra intenzione informare sulle dimensioni di un fenomeno - quello criminale, appunto - che va duramente combattuto; ma che non presenta, oggi, nei suoi tratti generali e statistici, i caratteri dell’emergenza. Basterebbe, in tal senso, analizzare i dati dell’ultimo rapporto del Viminale sulla sicurezza: nel 2006 gli omicidi commessi nel paese sono stati 621, mentre nel 1991 erano 1901; il tasso di omicidi nel nostro paese, oggi, è sensibilmente più basso di quello registrato in paesi come la Finlandia o l’Olanda; parimenti, in Italia si rubano meno veicoli a motore di quanti se ne rubino in Francia, Danimarca Svezia e Inghilterra; si registrano meno furti in appartamento di quanti se ne registrano in Svizzera, Danimarca, Francia, Belgio. L’elenco potrebbe continuare, assai lungo e altrettanto sorprendente. Solo per dire: possiamo assumere le rapine in banca a esclusivo e, comunque, dominante indicatore della situazione criminale in Italia? Forse no. Perché, altrimenti, giocando spericolatamente con i dati, potremmo affermare che dopo l’indulto - e, dunque, grazie all’indulto? - in Italia il numero di infanticidi è crollato (come confermano le statistiche criminali). Poi Perotti contesta il significato e l’interpretazione dei dati sulla recidiva forniti dal ministero della Giustizia, secondo i quali «a un anno dal provvedimento la percentuale di recidivi nelle carceri è addirittura scesa, dal 44% (dal 48%, per la verità. NdA) al 42%; e solo il 22% degli indultati è tornato in carcere, la metà del tasso di recidività medio tra tutti i reclusi». Secondo Perotti, si tratterebbe di stime che «non hanno nessun significato, statistico o concettuale». Perché? «L’indulto - sostiene l’autore - abbonava fino a tre anni di pena; dunque il dato veramente interessante lo conosceremo tra due anni, quando sapremo quanti reati sarebbero stati evitati se gli indultati fossero rimasti in carcere». Il ragionamento è interessante ma scivoloso: i detenuti di cui parla Perotti sarebbero comunque usciti: non, in blocco, tre anni dopo; bensì, ognuno in virtù e al ritmo del suo residuo di pena da scontare. Che poteva essere di una settimana, di un mese, di un anno. Fino, appunto, a un massimo di tre. Allora, e infine, quei reati sarebbero comunque stati commessi. Solo, un po’ più in là e un po’ alla volta. O forse Perotti suggerisce che qualche mese o qualche anno in più di galera avrebbe dissuaso quegli stessi soggetti dal tornare a delinquere? Così fosse, il suggerimento è più che discutibile: come dimostra una ricerca condotta da Francesco Drago, Roberto Galbiati e Pietro Verteva, pubblicata dal Sole24 Ore nel luglio scorso. Scrive poi Perotti: «Già ora sappiamo che l’indulto ha certamente causato più reati: perché abbia ragione il ministro, ai 6.200 reati accertati commessi finora dagli indultati dovrebbe corrispondere una diminuzione di pari entità di reati commessi da altri soggetti, e questo proprio grazie all’indulto». Ma qualcuno ha mai sostenuto che l’indulto potesse dissuadere la popolazione dal delinquere? O qualcuno ha mai affermato che una parte di quei detenuti liberati non potesse reiterare i reati? Non ci risulta proprio. «Il tasso di recidività tra gli indultati - scrive Perotti - è basso rispetto alla media semplicemente perché si sta confrontando la percentuale degli indultati recidivi entro un anno con la percentuale di reclusi recidivi nell’arco di un’intera vita». Non è così. La media è tarata su un periodo di cinque anni dall’uscita dal carcere; e il primo anno è «fisiologicamente» - così sembrano suggerire le poche statistiche disponibili - quello che fa registrare un tasso di recidiva più alto. Dato confermato anche nel caso in questione: il tasso di recidiva, negli ultimi mesi, si va assestando su valori decrescenti. In tal senso, gli effetti dell’indulto li potremo misurare da qui a cinque anni; al momento possiamo solo ricorrere a proiezioni, in buona misura confortanti. Anche perché quella percentuale (22%) ad oggi include anche il rientro in carcere di chi godeva delle così dette «misure alternative»: ovvero di chi stava scontando la sua pena fuori dal perimetro carcerario. Così ancora Perotti: «Per rendersi conto di quanto sia assurdo pensare che l’indulto abbia contribuito a far scendere il tasso di recidività nelle carceri, è facile mostrare come quest’ultimo potrebbe scendere anche se tutti gli indultati fossero incarcerati nuovamente: basta che il tasso di recidività tra i nuovi incarcerati non indultati sia molto basso». Ma di cosa stiamo parlando?
Non esiste penalista, giurista, sociologo o politico che abbia mai detto, in stato di sobrietà, che l’indulto dovesse servire a diminuire i tassi di recidiva. Piuttosto, l’indulto è servito a sanare una situazione di gravissima illegalità e (questa sì) di emergenza: 62.000 detenuti stipati in strutture che ne possono accogliere (al massimo) 42.000. Una situazione di palese violazione delle leggi e dei regolamenti penitenziari, tale da determinare condizioni intollerabili per agenti di polizia penitenziaria e tutto il personale, oltre che per i reclusi. La soluzione che infine Perotti suggerisce (niente condoni, costruiamo più carceri), rispetto all’emergenza di un anno fa, risulta semplicemente impraticabile. Per costruire un carcere e renderlo operativo, dal reperimento dei fondi al progetto, dalla messa in opera alla sua ultimazione, passano, di norma, tra i 10 e i 14 anni. Nel momento in cui l’indulto è stato varato, i tassi di carcerizzazione lasciavano prevedere che nel giro di tre anni, i detenuti, nel nostro paese, avrebbero superato le 80.000 unità. E di lì, poi, sarebbero cresciuti ancora, sino a cifre ancor più abnormi: un disastro. Oggi, invece, siamo ben lontani dai dati pre-indulto e le carceri non sono affatto nuovamente «quelle di prima»: quasi 20.000 unità in meno di un anno fa (si consideri che con l’indulto del ’90 gli effetti di deflazione furono riassorbiti e annullati in capo a un solo anno). Il punto è che senza la riforma del codice penale e delle leggi che producono carcere non necessario (la «Bossi-Fini» in primo luogo), quello sconto di pena - lo abbiamo scritto per primi - rimane una misura straordinaria, i cui effetti sono destinati a essere progressivamente annullati. Spetta alla politica operare per non vanificare questa occasione.
E, a tal proposito, un’ultima noticina: la si smetta di parlare dell’indulto come del parto maligno del genio criminale del governo e del ministro della Giustizia. Quella misura è stata approvata dal Parlamento con una maggioranza superiore all’80%: e con il voto di Forza Italia e dei Ds, dell’Udc e della Margherita, di Prc e di esponenti dell’Italia dei valori, del PdCI e del capogruppo di Alleanza nazionale al Senato. E il Capo dello Stato ha pronunciato, su quel provvedimento, parole assai sagge. Promemoria.

l’Unità 30.9.07
30 settembre 1977: spari su Walter
La lotta politica diventa una guerra
di Roberto Monteforte


Quel giorno si accese la miccia della violenza
Vendette e morti ovunque, a Roma e altrove

Corteo della sinistra radicale. slogan contro Biagi e sindacati
«Walter un ricordo senza pace»: questo lo striscione che ha aperto il corteo che da piazzale degli Eroi ha raggiunto a via delle Medaglie d'oro il punto dove il giovane di Lotta Continua trent’anni fa venne ucciso dai neofascisti. Tra gli organizzatori Rifondazione comunista, Action, l’ Associazione Walter Rossi, Comunisti italiani. È stata posta una nuova targa sulla lapide che ricorda il giovane antifascista e scanditi slogan contro la legge Biagi ed i sindacati.

Il Comune di Roma inaugura il monumento
L’amministrazione capitolina con gli assessori alla Cultura Silvio Di Francia, all’Ambiente Dario Esposito, all’Urbanistica Roberto Morassut inaugura questa mattina alle ore 11 il monumento dedicato a Walter Rossi nella piazza dedicata al giovane di Lotta continua vittima trent’anni fa della violenza fascista. Alla cerimonia partecipa, insieme ai famigliari e all’associazione Amici di Walter Rossi, l’assessore alla Cultura della Provincia di Roma Vincenzo Vita.

Una raffica di colpi di pistola sparati per uccidere stroncano la vita di Walter Rossi, vent’anni, militante di Lotta Continua. Volantinava nei pressi della sezione missina della Balduina a viale delle Medaglie d’Oro per denunciare l’escalation della violenza neofascista impunita. Nella Capitale vi era stata una settimana di brutali aggressioni squadristiche, culminate il giorno prima con l’agguato a piazza Igea contro un gruppo di giovani di sinistra. Da una Mini Minor beige in corsa vengono sparati numerosi colpi di pistola, a terra gravemente ferita resterà una giovane militante della sinistra extraparlamentare, Elena Pacinelli. Il giorno dopo Walter e i giovani antifascisti organizzano una risposta «politica», il volantinaggio nel quartiere. La polizia presidiava massicciamente la zona. Vi era un blindato anche a pochi metri dal giovane di Lotta Continua e a poche centinaia di metri dalla sezione missina della Balduina. È da lì che parte l’aggressione. Ma nessuno interviene. C’è chi spara. Walter viene colpito a morte. Chi ha sparato ha preso la mira con cura, in ginocchio. Lo ha colpito alle spalle. Quell’omicidio, come tanti altri, non avrà un colpevole anche se qualche anno dopo il terrorista nero «pentito» Cristiano Fioravanti ha accusato dell’omicidio Alessandro Aliprandi che nel 1981 morirà in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine.
Era il 30 settembre 1977. Si accende «la miccia della violenza» come denuncerà l’allora sindaco di sinistra della capitale, Carlo Giulio Argan. Monta la protesta antifascista che dalla capitale si estenderà in tutta Italia. Torino, Bologna, Monza, Padova, Firenze, Trieste, Brescia. Rabbia e voglia di vendetta, domanda di giustizia e di verità si intrecciano con la denuncia delle coperture politiche di cui ha goduto la violenza neofascista. Reazioni e contro reazioni. Erano gli anni della pistola facile, dell’agguato sotto casa, delle spranghe e delle molotov, dei pestaggi e del sangue. Anni di odio. Anni di piombo. Ma anche della Legge Reale, di Cossiga ministro degli Interni scritto con la K (Kossiga). Vi era stata Bologna occupata dal «movimento». Aree della sinistra extraparlamentare che scivoleranno verso l’eversione terroristica. Il terrorismo nero e le stragi. Altro sangue scorrerà. Segnerà un’intera generazione, inquinando quella sua domanda generosa di protagonismo, di cambiamento e di giustizia. La storia sarà diversa e più cupa. Fare politica, partecipare alle lotte studentesche in quegli anni diventerà un rischio. La democrazia subirà prove durissime che culmineranno pochi mesi dopo, il 16 marzo 1978 con il rapimento e l’omicidio del presidente della Dc Aldo Moro e l’uccisione della sua scorta da parte delle Brigate Rosse. C’è chi ha lamentato la criminalizzazione di un’intera generazione. È tempo di capire. Sono trascorsi 30 anni, ma è una stagione da non dimenticare. La città di Roma già nel 1980 ha dedicato a Walter Rossi proprio quella piazza Igea che lo ha visto «militante». Un monumento lo ricorda. Ma per quanti oggi quello slargo è una piazza come tante altre?
Occorre ricordare per capire. Ne è convinto il sindaco di Roma, Walter Veltroni particolarmente impegnato a ricucire quegli strappi dolorosi della memoria. «Walter Rossi, vittima trent'anni fa della violenza fascista, rappresenta per Roma una ferita non rimarginabile, l'ennesima di un periodo buio e folle in cui un cieco furore ideologico generò tanto odio e troppo dolore» afferma annunciando per oggi l’omaggio della città al giovane di sinistra e il completamento del restauro del monumento a lui dedicato. «Non c'era nessuna buona ragione, in quella violenza. Nessuna. Di qualunque matrice fosse - ha aggiunto il sindaco -. Servì solo, e del tutto inutilmente, a uccidere con ferocia. Questa è l'unica triste realtà». Il tempo trascorso rende ancora più chiaro quanto «quella violenza» sia stata « vuota e inutile». Cosa resta di quegli anni terribili - si domanda - se non solo giovani vite spezzate, figli che non ci sono più, un dolore che non si cancella? Da qui il dovere della memoria: «Affinché quell'assurda contrapposizione, quel clima di tensione e di paura, non abbia oggi più alcuna appendice».

il manifesto 30.9.07
Roma 1977 Settembre, ultimo atto

Il clima di quello scorcio di settembre del 1977 era a Roma molto teso. Le azioni fasciste contro militanti della sinistra si susseguono a ritmo serrato. Il 27 due studenti sono feriti a colpi di arma da fuoco all'Eur e la sera del 29 Elena Pacinelli, 19 anni, è colpita da tre proiettili in piazza Igea, luogo di ritrovo dei giovani del movimento. Per venerdì 30 viene organizzato un volantinaggio di protesta nel quartiere della Balduina. In viale Medaglie d'Oro i compagni di Elena, vedono un blindato della polizia avanzare lentamente verso di loro, seguito da un gruppo di fascisti che lo utilizza come scudo. Tra costoro c'è anche Andrea Insabato, autore nel 2000 di un attentato contro «il manifesto». Dopo aver fatto fuoco contro i giovani di sinistra i missini arretrano, mentre gli agenti si scagliano su chi tenta di soccorrere Walter Rossi, 20 anni, militante di Lotta continua colpito alla nuca: arriverà privo di vita in ospedale.
Nessun provvedimento sarà preso nei confronti dei poliziotti presenti. Il fermo dei missini avverrà solo un'ora e un quarto dopo gli spari. I 15 arrestati, tra i quali Riccardo Bragaglia, risultato positivo al guanto di paraffina, saranno ben presto scarcerati e prosciolti dall'accusa di omicidio volontario e tentato omicidio, e in seguito da quella di rissa aggravata, contestata anche a quattro compagni di Walter. Il missino Enrico Lenaz, arrestato il 4 ottobre, tornerà libero dopo pochi giorni. Nel 1981 alcuni pentiti indicarono nei fratelli Fioravanti e in Alibrandi i possibili assassini. Cristiano Fioravanti, arrestato per appartenenza ai Nar, ammise di essere stato presente ai fatti armato di una pistola, a suo dire difettosa, fornitagli da Massimo Sparti. Attribuì ad Alessandro Alibrandi il colpo mortale e a Fernando Bardi la detenzione dell'arma omicida. In seguito alla morte di Alibrandi in uno scontro a fuoco con la polizia il procedimento penale fu archiviato. Fioravanti venne condannato a 9 mesi e 200 mila lire di multa solo per i reati concernenti le armi.
La vicenda giudiziaria si è definitivamente chiusa, nel 2001, con l'incriminazione di tre compagni di Walter per falsa testimonianza e il non luogo a procedere, per non aver commesso il fatto, nei confronti di Cristiano Fioravanti, che ora vive libero, sotto altro nome, protetto dallo Stato. Ieri gli amici e i compagni di Walter Rossi lo hanno ricordato con un corteo.

il manifesto 30.9.07
Storie L'omicidio del militante di Lotta continua, trent'anni dopo

«Walter Rossi, ricordo senza pace»
Ricordo di un omicidio politico. Gli agguati fascisti, la mobilitazione dei militanti di sinistra, quello sparo alla testa, sotto la «copertura» della polizia. Un compagno di Walter racconta il 30 settembre 1977 a Roma nord
di Paola Staccioli

Quello che segue è uno stralcio del racconto che l'autrice ha dedicato a Walter Rossi utilizzando un colloquio con un compagno di Walter. Tratto da «In ordine pubblico», pubblicato da «Carta», «Liberazione», «l'Unità» e «manifesto» nel 2003.
«Forse le emozioni hanno alterato alcuni particolari, eppure a me sembra di ricordare tutto alla perfezione. Avevamo deciso di fare un volantinaggio di protesta per il ferimento di Elena. Eravamo una trentina tra compagni e compagne, furiosi ma anche disorientati. Non era la prima volta che ci sparavano addosso, era già successo durante scontri di piazza, ma per la prima volta eravamo vittime di un attentato premeditato. Sconvolti dall'emozione, non riuscimmo a fare una valutazione razionale. Ci eravamo incontrati verso le sette di sera, avevamo la certezza che l'aggressione fosse partita dalla sede missina della Balduina».
Una sezione famigerata. Assalti contro militanti della sinistra, raid contro le scuole, racket nei confronti dei commercianti. La polizia tollerava, le inchieste giudiziarie si arenavano. Dopo la morte di Walter furono in molti a chiedere lo scioglimento del Msi. Non se ne fece nulla, e i fascisti uccisero ancora.
Elena Pacinelli era stata ferita in piazza Igea la sera del 29 settembre. Raggiunta da tre colpi, dei cinque sparati da una macchina. Un suo compagno era stato salvato da una borsa a tracolla che aveva fermato un proiettile. I feritori scomparvero nel buio, senza mai uscirne. Poi Elena si ammalò, e morì pochi anni dopo.
«Eravate preparati per uno scontro?» chiedo. «No. La nostra manifestazione era stata pubblicizzata e ci aspettavamo una perquisizione. E infatti due macchine civetta della Digos fermarono alcuni di noi. Notammo anche altri veicoli, sicuramente eranopoliziotti in borghese».
«Vi siete avvicinati alla sezione?»
«Iniziamo a distribuire volantini risalendo viale Medaglie d'Oro, fermandoci più o meno a metà fra piazzale degli Eroi e la sede, perché qualcuno ci aveva avvertito della presenza massiccia di fascisti e polizia. Poi torniamo a Pomponazzi. Pochi minuti e arriva la notizia che due compagni sono stati aggrediti a piazza Giovenale. Un po' più su, verso la Balduina. Decidiamo di andare a vedere, anche se qualcuno di noi è contrario. Abbiamo la sensazione che i fascisti ci stiano aspettando. Ci muoviamo in una ventina. Arrivati all'incrocio con via Marziale, la maggior parte prosegue verso piazza Giovenale mentre alcuni si fermano, per evitare che i fascisti possano isolare chi ha raggiunto la piazza. I compagni tornano indietro senza aver notato tracce di aggressioni. In quel momento da una stradina laterale ci piovono addosso sassi e bottiglie vuote. Rispondiamo con quello che troviamo. C'è un veloce lancio di oggetti senza danni per nessuno. Intanto noto che il blindato, prima fermo davanti alla sede missina, si muove lentamente verso di noi, a luci spente. Due poliziotti, a piedi, lo affiancano, mentre un gruppo di fascisti, forse 20 o 25, lo segue, facendosene schermo per nascondersi alla nostra vista. Due o tre persone avanzano sul marciapiede opposto. Mi rendo conto che sta per succedere qualcosa. Dico a tutti di rientrare senza correre, per non lasciare compagni isolati. Avevamo iniziato a spostarci verso piazzale degli Eroi quando sento tre spari. Mi copro dietro una macchina».
Fa una breve pausa carica di emozione poi riprende: «È in quel momento che sento urlare 'hanno ferito Walter'. A ripensarci ora mi sembra una voce femminile, ma non c'erano compagne con noi. Mi volto e vedo Walter disteso a terra. Ha un foro nella fronte e un occhio semiaperto, sotto la sua testa si allarga veloce una macchia di sangue. Mi chino su di lui, respira ancora. Sono frastornato. I manganelli dei poliziotti mi riportano alla realtà. Hanno fermato il blindato e sono scesi caricandoci. Li affrontiamo disperati, riusciamo a bloccarli. Qualcuno grida, vicino a me un compagno si batte con un poliziotto. Urlo a un celerino di chiamare l'ambulanza, mi risponde che non hanno radio a bordo. Corro verso il bar per telefonare, una signora mi dice che già è stato fatto. Non riesco ad aspettare. Fermo un furgone, carichiamo Walter. Chiedo ai poliziotti una macchina che ci faccia strada, ottengo solo che due di loro salgano con me. Sto dietro con un celerino, la testa di Walter poggiata sul mio braccio. L'altro, seduto accanto al guidatore, si sporge fuori e agita nel traffico il manganello. Arrivati all'altezza di via Candia, Walter ha un ultimo orribile respiro. Non dico nulla. Il poliziotto accanto a me grida 'è morto', il furgone è bloccato. Lascio Walter, scendo e apro un varco fra le macchine. Non ce la faccio a risalire. Resto qualche momento inebetito, poi mi spruzzo in faccia l'acqua fredda di una fontanella. Non so che fare».
Senza nemmeno far caso al venditore che si è accostato al nostro tavolo con un enorme mazzo di rose, lui prosegue: «I ricordi successivi sono confusi. Avevo paura di ritrovare i compagni, di dare loro la notizia. Sono tornato nel luogo in cui hanno sparato a Walter, passando in mezzo ai poliziotti e arrivando a pochi metri dalla sede missina. C'erano due o tre fascisti fuori. Uno di loro fa un ghigno, poi si chiudono dentro. Incontro alcuni compagni, andiamo all'ospedale.
Mi confermano che Walter è morto, ed è come se lo sapessi per la prima volta».

l’Unità 30.9.07
«C’è chi dice no», ieri a Firenze Rsu in corteo
Alcune migliaia di persone hanno partecipato alla manifestazione «autoconvocata» dai lavoratori toscani
di Francesco Sangermano


Tra i partecipanti, Cremaschi (Fiom) e Rizzo (Pdci)
Nessuno slogan contro governo e sindacati

LA CITAZIONE d’apertura era per Vasco Rossi: «23 luglio, c’è chi dice no». Scritta rossa, striscione bianco di 5 metri. La firma: i delegati e le delegate della Toscana.
La manifestazione autoconvocata che tanto mal di pancia ha scatenato in seno alla Cgil (e che anche ieri è stata commentata negativamente sia dalla Camera del lavoro fiorentina sia dalle segreterie regionali di Cgil, Cisl, Uil e Fiom) è sfilata ieri mattina per le strade del centro di Firenze. Diecimila per gli organizzatori, duemila per la questura e una verità che, nel mezzo, sta più vicina al secondo dato. Un corteo silenzioso, composto. «Perché per manifestare la nostra contrarietà basta la nostra presenza in piazza» hanno spiegato gli organizzatori. Scandito dalle bandiere rosse della Cgil e dei Cobas, dagli striscioni di Lavoro e Società (uno per ogni provincia toscana e uno regionale), da qualcuna (poche, in realtà) della Fiom e da quelle di partiti (Prc, Pdci) e gruppi politici di estrema sinistra (Carc compresi). In mezzo, poi, anche Giorgio Cremaschi (segretario nazionale della Fiom), Marco Rizzo (parlamentare europeo del Pdci), Marco Ferrando (ex Prc) e il coordinatore nazionale di Lavoro e Società Nicola Nicolosi. Ovvero colui al quale Guglielmo Epifani, nei giorni scorsi, aveva scritto una durissima lettera in cui lo accusava di aver «superato i limiti» imposti dall’appartenenza al sindacato e gli chiedeva di fatto di rinunciare a essere in piazza a Firenze. «Gli inviti - ha detto Nicolosi - si possono accettare o declinare. E io ho deciso di accettare quello dei lavoratori. Quanto al superamento dei limiti, lo statuto della Cgil dice che è possibile esprimere il proprio pensiero con ogni mezzo di diffusione. Una manifestazione è uno di questi mezzi». Su un punto, però, Nicolosi vuole essere estremamente chiaro: «Questa non è una manifestazione contro il sindacato». Ma tra i lavoratori, i precari e gli studenti la parola d'ordine è «un fermo e deciso “no” a un accordo che peggiora le condizioni dei lavoratori, non supera il precariato, non cancella la legge 30 e non abolisce lo scalone Maroni». Temi che snocciolano in serie le quindici persone (anche in questo caso lavoratori ma anche studenti e pensionati) che salgono sul palco allestito in piazza Strozzi. Concetti che fa propri anche Cremaschi contestando il metodo con cui si sta andando verso il referendum: «Nelle assemblee - dice - si racconta quello che si sarebbe voluto ottenere, non quello che è stato ottenuto. Tra le due cose c’è una profonda differenza e, se dovesse passare il sì, i lavoratori lo vivranno con profonda delusione. In un momento di crisi di fiducia nella politica non possiamo permetterci anche una crisi di fiducia verso il sindacato». Esplicitamente critico con le scelte del governo, invece, è stato Rizzo che ha spiegato la sua presenza in piazza «per far rispettare l'accordo di programma di Governo». Per Rizzo, infatti, «la regola e la norma, in Italia, è che quando siamo all’opposizione si dicono certe cose, mentre quando siamo al governo se ne fanno altre».

l’Unità Firenze 30.9.07
Accordo sul welfare, la marcia di quelli che dicono no
A Firenze il corteo di alcune migliaia di lavoratori, pensionati e studenti. «Vi abbiamo votato, abbiamo il diritto di dirvi cosa vogliamo facciate»
di Francesco Sangermano

Fiom spaccata: presente Cremaschi ma poche tute blu nel corteo e critiche dalla segreteria regionale. Cgil, Cisl e Uil: «Una manifestazione che divide»

Uomini e donne, studenti e pensionati. Uniti dalla volontà di dire “no” all’accordo su welfare, lavoro e pensioni siglato dai sindacati con governo e Confindustria lo scorso 23 luglio. «Otto-dieci mila» secondo gli organizzatori, duemila per la Questura, che hanno attraversato il centro fiorentino da piazza Indipendenza a piazza Strozzi.
I COLORI Tante bandiere rosse. Della Cgil e dei Cobas. Delle Rdb e dei Cub. Di Prc e del Pdci. Eppoi di tanti gruppi politici di estrema sinistra compresi i Carc. Poche, invece, quelle della Fiom: una decina di metalmeccanici venuti da Asti, alcuni delegati di aziende toscane e lo striscione della Sirti. I più presenti sono quelli di Lavoro e Società, la componente a sinistra della Cgil. Uno striscione per ogni provincia e uno regionale che sfilano subito dietro al vessillo d’apertura («23 luglio, c’è chi dice no») firmato da quei “delegati e delegate della Toscana” che si sono autoconvocati per promuovere questa (l’unica) manifestazione per il “no” al referendum.
LE VOCI «Il nostro è un giudizio di merito sindacale» dice Andrea Montagni, membro della segreteria fiorentina della Cgil e di Lavoro e Società. «Non siamo contro la Cgil, ma interpretiamo l’opinione di chi non è d’accordo con questa firma». «Riprenderemo il confronto dentro l’organizzazione - aggiunge Rossano Rossi della segreteria regionale - ma da oggi la nostra protesta va avanti ancora con più forza». In mezzo, nella marcia silenziosa, si scambiano opinioni sull’accordo. «La legge 30 non è stata rivista ma peggiorata, il lavoro precario non eliminato ma reiterato e la defiscalizzazione degli straordinari è un aiuto alle aziende, non ai lavoratori» dice Monica Piccini, della Rsu Università. Vittorio, degli studenti di sinistra, si concentra sul tema del precariato: «L’accordo non lo risolve. E questo problema è destinato ad accompagnare il nostro futuro». I ragazzi di www.ilrestodelcremlino.it (una settantina, provenienti dalla zona del cuoio nel pisano) affidano il loro messaggio a un adesivo: «Vincono sempre loro. E io, giovane lavoratore, io operaio specializzato, io mamma di gigino, io precaria, io licenziato, io sempre peggio. Ma se solo vincessero i no...». Alessandro Bellucci, segretario aziendale del circolo ferrovieri Spartaco Lavagnini, taglia corto: «Questo accordo va contro il programma dell’Unione, contro quello per cui hanno chiesto il nostro voto. Oggi noi ci sentiamo traditi»
LA PASIONARIA Nel palco di piazza Strozzi si succedono quindici interventi. Andrea, Natalino, Davide, Mauro, Massimo, Costanza, Riccardo, Piero, Bernardo, Luciano, Savino, Federica, Luca, Giacomo. E Angela Recce della Rsu Piaggio. Il suo è l’intervento più forte, accorato, applaudito. «Vi abbiamo votato e abbiamo il diritto di dirvi cosa vogliamo che facciate» urla. «Vi manteniamo tutti, politici e sindacalisti e vogliamo contare. Meno male che c’è la Fiom che si muove per dire no. E se anche noi vi diciamo no, vi diciamo che non vi votiamo più!». Cremaschi (segretario nazionale della Fiom) l’abbraccia e le sussurra a un orecchio: «Mi hai fatto commuovere, sei stata bravissima».
POLEMICHE «Avevamo già detto, e così si è dimostrato, che la manifestazione era sbagliata perché produceva divisioni e metteva a rischio l’autonomia del sindacato. Per questo era destinata all’insuccesso». Cgil, Cisl e Uil toscane non hanno mancato di commentare duramente la manifestazione di ieri invitando i lavoratori scesi in piazza a lavorare ancora insieme. Anche la segreteria regionale della Fiom Toscana, in un’altra nota approvata con 6 voti a favore e uno contrario, considera «inopportuna e sbagliata» la manifestazione. Di «manifestazione burocratica, non di popolo, con pochi lavoratori in piazza» parla invece Mauro Fuso, segretario generale della Camera del Lavoro Metropolitana di Firenze, che punta il dito sul Pdci: «Un partito in contraddizione con se stesso dato che nella notte ha dato il suo assenso al documento finanziario per il 2008 e al collegato alla Finanziaria che, dopo il voto di lavoratori, pensionati e precari recepirà l’accordo sul welfare». Sempre in difesa dell’accordo si è infine espresso il candidato alla segreteria toscana del Pd, Andrea Manciulli, che ha garantito il sostegno del suo partito per far vincere il “sì” al referendum.

Repubblica 30.9.07
Il ministro della Solidarietà: così com'è non può combattere la precarietà
Ferrero: "Quel patto verrà cambiato intanto non è più in Finanziaria"
di Umberto Rosso


ROMA - Ministro Ferrero, ma lo slittamento del welfare era previsto, come dice il suo collega Damiano?
«Noi abbiamo chiesto che il protocollo non fosse dentro la Finanziaria. E l´abbiamo ottenuto. Punto. Stare a discutere se fosse o meno già previsto, mi pare uno sport inutile. Infantile».
La disputa però ha tutta l´aria di una battaglia politica, un modo per riconoscere o meno un punto a favore di Rifondazione.
«Sinceramente? Chissenefrega. Damiano dice che non è cambiato nulla nell´iter? Io non so che cosa avessero previsto. In ogni caso, a me interessa migliorare nel merito quell´accordo. Anche se non esistesse Rifondazione, ci sono cose che gridano giustizia».
Per esempio?
«Il tetto dei lavori usuranti fissato in cinquemila persone all'anno. Ridicolo. Se è un diritto soggettivo, non puoi stabilire uno sbarramento».
Il tetto deve saltare, tanto per cominciare...
«Certo. Il cuore del problema però è la precarietà. Quell´accordo deve trovare un´anima, come alla fine è successo con la legge di bilancio. Secondo me è la seguente: la precarietà in Italia è troppo alta, tagliamola».
A Prodi, non l´avete spiegato a luglio?
«Il governo non è andato a trattare, con le parti sociali e con la sinistra, cercando un punto di equilibrio rispetto a quel che diceva il programma dell´Unione. Io, come del resto Mussi e gli altri ministri della sinistra, abbiamo saputo tutto a cose fatte».
Non c´è pari dignità fra Pd e Cosa rossa nel governo?
«Se il governo pensava ad un protocollo intangibile, avrebbe dovuto consultarci prima. Adesso, non può ignorare un terzo della propria coalizione, convocarci solo per alzare la mano».
I sindacati però hanno firmato il protocollo.
«Non mi pare che la Cgil lo consideri una Bibbia. Come sulla Finanziaria. Epifani dice che va bene però muove lo stesso alcuni rilievi: manca il fiscal drag, la tassazione delle rendite. La Cisl uguale».
Quindi?
«Quindi è del tutto possibile migliorare, puntare ad un disegno di legge più avanzato».
E le sorti del governo?
«Ha davanti a sé un´unica strada per evitare che tutto salti per aria: rompere con il liberismo, andare incontro agli ultimi. In questo è il nostro ruolo: tirare, tirare, tirare il governo. Ma in fondo è una questione di buon senso: se tagliamo un po´ di precarietà, un milione di persone si lamenta, ma trenta milioni sono contenti».
Trenta milioni?
«Mettendo insieme i precari, le loro famiglie, l´indotto vario diciamo così, non siamo mica tanto lontani dalla realtà».
Se nel referendum in fabbrica vince il sì all'accordo, Rifondazione si accoda?
«E se vincessero i no? Quello sì che sarebbe un grande problema per i sindacati e per il governo».
Finisce così secondo lei?
«Veramente penso che alla fine prevarranno i sì. E ne terremo conto, certo. Che ci direbbe quel voto? Che la direzione di marcia presa dal governo viene condivisa, nel complesso, ma non credo che i lavoratori siano poi contrari ad andare avanti su singoli punti. Il miglioramento del protocollo non ne è impedito».
Per cui, in piazza comunque il 20 ottobre.
«Sicuramente. Noi stiamo al governo ma la nostra gente è sconfitta. Le manifestazioni servono anche a cambiare i rapporti di forza. Montezemolo non ha bisogno di scendere in piazza».

Liberazione 30.9.07
Polemica con uno scritto di Ronchey che ci riporta al clima degli anni 30
Il Corriere e l'invasione dei razzisti
di Piero Sansonetti


Ieri il Corriere della Sera ha pubblicato un articolo di fondo firmato dal decano dei giornalisti italiani, Alberto Ronchey. Prima pagina, due colonne in testata. Titolo: "L'invasione dei nomadi". Per nomadi (un po' grossolanamente, perché in grandissima parte l'aggettivo è sbagliato) Alberto Ronchey intende il popolo rom, cioè quella parte del popolo rom che è sopravvissuto all'ecatombe nazista. I nazisti, come è noto, sterminarono il popolo ebraico e il popolo rom perché consideravano gli ebrei e i rom due razze inferiori. Lo sterminio fu preceduto da robuste campagne di stampa, organizzate dal ministro della cultura Joseph Goebbels. L'establishment politico e intellettuale italiano partecipò a questo sterminio, o almeno lo sostenne, con le leggi speciali sulla discriminazione razziale e aderendo alle campagne di stampa e di opinione pubblica ispirate da Goebbels. In questi mesi stiamo assistendo a qualcosa di analogo - vere e proprie campagne di denigrazione e di odio, organizzate, così come fu allora, da settori del potere politico e dagli intellettuali. L'articolo di Ronchey segna un salto di qualità in questo quadro. E' un articolo pienamente e lucidamente razzista. Afferma il principio secondo il quale il popolo rom è comunque costituzionalmente dedito al furto, e perciò non integrabile in un paese civile. E chiede che il nostro governo chiuda le frontiere all'immigrazione dei rom che in «Italia sarebbero già moltitudini e arrivano ancora...» .
Su che basi, Ronchey, costruisce le sue tesi? Sul racconto di Indro Montanelli di un suo viaggio del 1939 a seguito di un gruppo di rom (che Montanelli chiama, spregiativamente, zingari). Possibile che Ronchey non ricordi che Indro Montanelli nel 1939 era fascista, che in quegli stessi anni scriveva sugli ebrei le stesse malevolenze dedicate ai rom, che "possedeva" una schiava che aveva acquistato a pochi soldi in Abissinia (quattordicenne), e che dunque quel testo di Montanelli è una squisita testimonianza del razzismo ufficiale fascio-nazista? Esprimere un pacato giudizio sui rom basandosi sulla testimonianza di Montanelli del '39 è come costruire una tesi sui Sioux facendosi forte delle opinione del generale Custer.
Tutte queste osservazioni, comunque, restano nell'ambito della polemica politica. Come quella che abbiamo avuto l'altro giorno col sindaco Veltroni, il quale chiedeva un strappo costituzionale (e anche alle regole della comunità europea) per potere espellere dall'Italia, su semplice ordine del prefetto, i rom che - per disgrazia - in quanto rumeni dovessero risultare cittadini europei (e Ronchey, nell'articolo di ieri, appoggia questa alzata di ingegno di Veltroni).
Al di là della polemica giornalistica, però, ci sono i codici, le norme e i regolamenti. Per noi giornalisti c'è un regolamento interno, approvato dall'"Ordine" (ma purtroppo mai rispettato) che proibisce la pubblicazione di articoli nei quali si esprimano giudizi sulle persone fondati sulla presunta appartenenza razziale di queste persone. Ronchey l'ha violato. ma temo che l'ordine non interverrà. Poi esistono anche le leggi dello Stato che in teoria dovrebbero essere inviolabili. Ne citiamo una, del 1993, che fu scritta dall'ex presidente del Senato (democristiano) Nicola Mancino. Nel suo primo articolo, dice così: «E' punito con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi» . Ora, naturalmente, si può leggere e rileggere finché si vuole l'articolo di Ronchey e stabilire se contiene o no elementi di odio razziale. A me sembra che li contenga, ma è solo il mio parere. E' però indiscutibile che nel momento nel quale afferma che è impossibile l'integrazione e che bisogna bloccare, o anche solamente limitare, il flusso migratorio del popolo rom (anche quando questo popolo è in regola con la cittadinanza europea ) Ronchey invita a commettere un atto di discriminazione razziale, e perciò infrange clamorosamente la legge-Mancino. Non c'è la possibilità di smentita.
P.S. Noi - che notoriamente siamo un po' anarchici - restiamo contrari al carcere, soprattutto per reati d'opinione. Non so cosa pensino quelli che invocano sempre la legalità senza eccezioni...

Liberazione 30.9.07
Veltroni e Giordano dialogano su due idee diverse di società
Faccia a faccia a Roma, a "Liberafesta", intervistati da David Sassoli
di Frida Nacinovich


Franco Giordano e Walter Veltroni. Al teatro Italia ci sono tre quarti di Unione: la sinistra ha la voce del segretario di Rifondazione comunista, il centro quella del leader in pectore del Partito democratico. La lunga notte della Finanziaria è appena passata, un ostacolo è stato superato, il cammino del governo Prodi prosegue. Al peggior teatrino italiano della politica è appena andato in scena Umberto Bossi. Una recita imbarazzante quella del senatore leghista, su un copione apertamente eversivo. «La libertà non si può più conquistare in Parlamento ma attraverso la lotta di milioni di uomini disposti al sacrificio in una guerra di liberazione». Ha detto proprio così l'ex ministro delle riforme Bossi, e non siamo nel 1942. Il tutto di fronte a un Silvio Berlusconi compiacente, a Vicenza in una seduta dello pseudo parlamento del nord. La discussione fra Giordano e Veltroni non può che partire da qui. Perché il senatur è il più fedele alleato di Silvio Berlusconi. E Berlusconi è il capo dell'opposizione.
Il sindaco di Roma scuote la testa, non considera quella di Bossi la solita battuta strappa applausi. C'è molto di più, molto di peggio. «Le affermazioni di Bossi sono lesive della Costituzione e delle istituzioni repubblicane - osserva Veltroni - la Casa delle libertà dica chiaramente se vuole governare l'Italia insieme alla Lega, assieme a chi pronuncia frasi così gravi e non riconosce la bandiera nazionale». Al teatro Italia si parla dell'Italia. «L'unica guerra di liberazione che conosco è quella della Resistenza dei Partigiani - aggiunge Giordano - Non permettiamo a nessuno di infangare quella storia». Il segretario del Prc chiede quindi «un dibattito parlamentare sulle frasi pronunciate da un segretario di partito che attacca le istituzioni e il Parlamento, fino a minacciare una rivolta violenta». Arrivano critiche anche per il leader di Forza Italia, che nel giorno del suo compleanno «era a Vicenza in una improbabile parlamento del nord. Noi di parlamento ne conosciamo uno solo ed è a Roma. Non si può giocare su questi terreni. La manifestazione del 20 ottobre diventerà anche un evento a tutela delle istituzioni e del Parlamento». La manifestazione del 20, dunque. Un avvenimento che non piace ai riformisti del piddì, che non piace naturalmente neanche a Walter Veltroni. Il primo cittadino della capitale non manca di farsi paladino dell'imprenditoria italiana. Per Veltroni la redistribuzione del reddito passa anche (soprattutto?) dagli aiuti agli industriali, ai commercianti, in generale alle categorie economiche. Quasi inutile dire che Giordano ha idee diverse. Al teatro Italia ci sono due sinistre, dice Veltroni. Una sinistra e un centro corregge Giordano.
Trovare un primo accordo sulla Finanziaria non è stato facile. «L'intervento determinato e unitario della sinistra ha fatto sì che cominciasse a muoversi qualcosa per la parte più debole della popolazione». Il giudizio di Giordano sulla manovra economica è nel complesso positivo, anche se «ci sono margini per poterla migliorare in Parlamento: il governo spergiura che non ci sono risorse aggiuntive per le imprese e noi saremo lì a verificarlo perché non tollereremo che sia dato un soldo in più al sistema delle imprese che hanno già avuto tantissimo». Il pubblico che affolla la sala del teatro Italia - oggi "Liberafesta" - applaude convinto. Di ulteriori finanziamenti alle imprese non vorrebbe sentir parlare.
Ora lo sguardo del candidato alla segreteria del piddì incrocia quello di Giordano. «Capisco e non posso non registrare con attenzione - dice Veltroni - il carattere che voi vorrete dare alla manifestazione del 20 ottobre, ma proprio mentre facciamo intese di merito sugli accordi dobbiamo dare anche un segno forte di coesione politica». Giordano si dice «d'accordo sulla necessità di una maggiore unità», ma ribadisce che «mai è accaduto che un voto della sinistra abbia messo in difficoltà il governo. Siamo stati fin troppo responsabili le difficoltà semmai sono venute dall'altra parte dello schieramento». E sono ancora applausi.
Si passa a parlare di legge elettorale. «La riforma è urgente, tornare a votare con questa legge sarebbe una sciagura. Io non ho né preclusioni né preferenze su nessun modello, ma attenti al ritorno di Ghino Di Tacco». Il sindaco di Roma risponde al segretario di Rifondazione comunista che ha appena ribadito la disponibilità del Prc a fare «da subito un riforma della legge elettorale sul modello tedesco». Veltroni ricorda che An è contraria a quel sistema e sottolinea come lo stesso Berlusconi voglia solo alcuni piccoli aggiustamenti alla legge elettorale attuale. «Tuttavia - aggiunge - la riforma va fatta, ci sono molti modelli che si potrebbero seguire, da quello tedesco allo spagnolo e anche il modello francese con qualche correzione che è quello che io preferisco». Peccato che a Veltroni piaccia anche il referendum ipermeggioritario, quello che non permetterebbe la rappresentanza di una parte non certo piccola del paese. Tant'è, le vie del riformismo, si sa, sono disseminate di buche e avvallamenti.
Le differenze ci sono: dal ruolo delle imprese e del lavoro alle cause del degrado ambientale. Le due anime dell'Unione possono comunque convivere e dialogare. Lo fanno. Il segretario del Prc e il candidato alla guida del piddì si confrontano per più di un'ora sul futuro della sinistra, sulla Finanziaria, sulla tenuta della maggioranza, ma anche sulla globalizzazione, l'ambiente e «una certa idea» di capitalismo. Il dialogo, moderato dal giornalista David Sassoli, è serrato, la platea applaude entrambi (con netta prevalenza per Giordano). I punti di convergenza e di distanza restano. Il sindaco di Roma sottolinea che l'imprenditoria va aiutata. L'Italia «deve sostenere le imprese, perché da esse deriva il lavoro e la ricchezza da ridistribuire». Il segretario di Rifondazione ribadisce che la «vera emergenza è la precarietà». Si chiude il sipario del teatro Italia il faccia a faccia è stato interessante. Ma non ci sono state due sinistre sul palco, come ha detto Walter Veltroni. C'è stata una voce di sinistra e una moderata, riformista, sostanzialmente centrista.

Corriere del Mezzogiorno 30.9.07
(distribuito in abbinamento con il Corriere della Sera)
Donne e ricerca, storia di un rapporto difficile
di Donatella Coccoli


Per la scuola pitagorica maschile e femminile erano legati ad una serie di attributi opposti tra di loro ma aventi uguale dignità; all’uomo corrispondevano, tra gli altri, il quadrato, la destra, il bene, alla donna, il rettangolo, la sinistra e il male. Due “visioni del mondo” diverse ma che si potevano incontrare e arricchire vicendevolmente. Ma la storia del pensiero umano, purtroppo, non è sempre andata così. Anzi. Salti in avanti e cadute in voragini, hanno accompagnato l’evoluzione della cultura e della scienza: ragione e irrazionale, logica e passioni, sono ormai i contendenti in un campo di battaglia che ha mietuto troppe vittime. Le donne, in primo luogo, escluse via via dai campi del sapere, ma anche gli uomini, imprigionati in uno status di freddo razionalismo.
Ecco, circa tremila anni di storia della civiltà umana sono stati scandagliati, venerdì 28 settembre a Foggia nell’ambito della Notte dei Ricercatori durante un convegno promosso dalla professoressa Carla Severini presidente del Comitato Pari Opportunità dell’Università di Foggia e dal titolo: “Di che genere è la ricerca? Considerazioni sul metodo”. Convegno che ha avuto poi il contributo video di una intervista di Paola Traverso al regista Paolo Franchi sempre sul tema della ricerca nell’arte.
Intanto, il punto di partenza del dibattito coordinato dalla psichiatra Anna Homberg, è molto semplice: le donne non si sono quasi mai avvicinate al mondo della scienza, come hanno spiegato la dottoressa Rossella Palomba, ambasciatrice per le Pari Opportunità nella Scienza dell’Unione Europea e la storica della matematica Lucia Maddalena. O come ha ricordato la docente di Architettura Giulia Ceriani Sebregondi che ha ripercorso lo scarso contributo femminile in questa arte e che al tempo stesso ha messo in evidenza come ad un pensiero filosofico corrisponda un linguaggio architettonico (il decostruttivismo e Derrida per esempio).
Ma nell’antichità? Donne matematiche alla scuola di Pitagora, donne alchimiste nell’età ellenistica, donne-medico e sapienti come la celebre Trotula scienziata di Salerno dell’anno Mille che operava in un ambiente vivificato dai contributi della scienza islamica. Solo che, come ha raccontato Carla Severini, tutte le volte che si aprono le porte al sapere, una raffica di vento le chiude d’improvviso. Accade con il Cristianesimo che porta alla condanna a morte nel 180 d.C. di duemila medichesse, accade infine con l’avvento della scienza positivista e del pensiero cartesiano che codifica l’impossibilità di conoscenza se non attraverso la ragione.
E di Cartesio e di quel trentennio cruciale che va dal 1600, l’anno del rogo di Giordano Bruno al 1637, quando il filosofo francese scrive il Discorso sul metodo, ha parlato la storica della filosofia Elisabetta Amalfitano. L’”eroico furore” di Bruno, il suo tentativo di pensare un tipo di conoscenza che comprendesse anche il sentimento, vengono spazzati via, “gli assi cartesiani si erigevano come muri”. Non solo tutto diviene geometria, è addirittura vietato immaginare. Ed è Spinoza a rendere ancora più raffinata l’operazione cartesiana di annullamento dei sentimenti. Bisogna sopravvivere (“conatus vivendi”) e per farlo, per impedire che il disordine regni nella società, occorre controllare le passioni. Ora, questo è un pensiero che più o meno indenne è scivolato su una lastra di ghiaccio fino ad oggi. Ne ha parlato Martino Riggio, psichiatra formatosi all’Analisi Collettiva di Massimo Fagioli, che ha sottolineato come in medicina la teoria di Ippocrate dei quattro umori causa di malattie, non si discosti poi dal pensiero freudiano dell’irrazionale-mostro interno. “Occorre ribellarsi a questa ideologia – ha detto lo psichiatra -. Non si nasce malati, ci si ammala dopo. E l’essere umano – e qui non c’è distinzione tra uomo e donna – ha come caratteristica quella di avere gli affetti”. Se si nega il sentire come conoscenza il rischio è che rimanga solo la ragione. E allora, son guai, perché, checché ne dicano Cartesio o Spinoza, si diventa freddi e si può impazzire. Alcuni casi di cronaca nera sono lì a ricordarlo.

La signora Auung San Suu Kyi, la Birmania, i monaci. Come finirà?
di Pino Arlacchi


Sono stato in Birmania in missione ufficiale nel 1999 ed ho incontrato la signora Auung San Suu Kyi nella sua residenza di Yangoon, dove viveva agli arresti domiciliari, salvata dal carcere grazie al nome di suo padre, l’eroe dell’indipendenza nazionale della Birmania. Sono rimasto colpito dalla combinazione tra la sua forza morale e la lucidità politica. L’enorme risentimento che la signora nutriva verso la giunta al potere che le aveva distrutto tutto ciò che le era più caro - il suo paese, la sua famiglia, la sua vita personale - non conteneva traccia di odio e di animosità. Auung San Suu Kyi era impegnata a quel tempo in una trattativa, mediata dall’Ufficio delle Nazioni Unite che ho diretto, per stabilire un tavolo tecnico insieme al governo ed alle tribù ribelli del Nord della Birmania sulla questione delle coltivazioni di oppio.
Ho chiesto alla signora come facesse a conservare la sua serenità conducendo un negoziato politico faccia a faccia con persone che avrebbe dovuto odiare. La sua risposta fu che la sua religione, il buddismo, le impediva di odiare chicchessia, e che era tranquilla perchè non aveva dubbi sul fatto che alla fine la parte dei diritti umani, la sua parte, avrebbe trionfato.
La partita della democrazia in Birmania si gioca in questi giorni su un campo principale e su un altro secondario, ma l’esito finale dipende molto dall’interazione tra i due. Nel campo principale si stanno scontrando i monaci buddisti, sostenuti dall’intera popolazione del paese e dall’opinione pubblica mondiale, da una parte, e la giunta militare, protagonista di una sanguinosa repressione, di Than Shwee dall’altro. Nel campo secondario ci sono le divisioni interne alle forze armate, dove circola un malumore diffuso contro i vertici del governo militare, e contro il dittatore solitario e feroce che ha portato la Birmania alla rovina.
Sono ancora presenti nell’esercito e nell’intelligence molti di quegli ufficiali che hanno tentato un cambiamento di rotta tra il 1998 e il 2004, aprendo un dialogo sotterraneo con la signora Auung San Suu Kyi e con la dissidenza, e cercando una strada per il ritorno alla democrazia e all’apertura internazionale.
Questo tentativo ruotava intorno al capo dell’intelligence e primo ministro Khin Nyunt, ma si è concluso con la rimozione e l’arresto di Nyunt nel 2004, seguiti da una grande purga all’ interno del circolo di potere che lo appoggiava.
Ma il malessere non è cessato. Il morale delle forze armate è bassissimo. Le diserzioni si moltiplicano, ed i dissensi tra i generali che comandano pezzi cruciali dell’ apparato repressivo sono molto ampi.
Se le dimostrazioni avranno la capacità di resistere per un lungo periodo di tempo, e se i dissensi interni ai militari impediranno a Than Shwee di impiegare l’intera forza d’urto dell’esercito contro la popolazione inerme, l’esito potrebbe essere quello previsto da Auung San Suu Kyi ed auspicato da tutti noi.
(da Rosso di Sera)


Repubblica 30.9.07
La casta dei politici e la razza padrona
di Eugenio Scalfari


SI È avviato un bel dibattito che ha come tema gli italiani e la politica. Il merito occasionale va diviso in parti eguali tra Rizzo e Stella da un lato e Beppe Grillo dall´altro. Dico occasionale perché in realtà è un dibattito che dura da un secolo e mezzo, cioè dalla fondazione dello Stato unitario nel 1861. Pensate un po´!
Alcuni ne hanno esaminato le cause, altri ne hanno cavalcato e radicalizzato gli effetti.
In questo dibattito, da oltre cinquant´anni, ci sono dentro anch´io e quindi ho qualche titolo per intervenirvi di nuovo. Ma prima è d´obbligo spendere qualche parola sulla legge finanziaria, finalmente licenziata dal Consiglio dei ministri insieme a un decreto che avrà effetti immediati, approvato all´unanimità la sera di venerdì.
Il decreto muove risorse per 7 miliardi e mezzo; la Finanziaria 2008 contiene una manovra di 10.700 milioni.
Senza una lira di tassa in più. Anzi con un abbattimento di imposte rilevante: 5 punti in meno di Ires, 4 decimali di punto in meno di Irap; una tassa unica del 20 per cento per le micro-imprese che assorbe forfettariamente Iva, Ires e Irap con i connessi adempimenti burocratici.
Se ai benefici destinati alle imprese si aggiungono i tre punti di cuneo fiscale già in opera, si vede che le risorse mobilitate per la crescita economica e la competitività sono almeno eguali se non addirittura superiori alle provvidenze realizzate dal cancelliere tedesco Angela Merkel a favore dell´industria del suo Paese. Quei provvedimenti sono stati lodati da tutti gli osservatori e dalle autorità internazionali; ci sarebbe da attendersi analoghe lodi per quanto deciso dal governo italiano, ma in casa nostra la setta (o la casta) degli economisti è molto più avara e quindi non ne parlerà se non a bocca storta per opposte ragioni alla bocca storta di Diliberto, il Pierino della sinistra radicale.
Ma una parte notevole della manovra è anche destinata alle fasce deboli dei redditi, alle famiglie, ai giovani, alle infrastrutture; il taglio di alcune spese sugli acquisti della pubblica amministrazione, sull´organico dei pubblici dipendenti e sui costi degli enti locali vincolati da un patto di stabilità stipulato dalla conferenza Stato-Regioni, completa un menu che agisce su due pedali: quello produttivo e quello sociale, facendo sperare su un aumento della domanda globale sia dal lato degli investimenti sia da quello dei consumi.
* * *
Prodi e i ministri economici si erano impegnati a realizzare una Finanziaria impostata su questa duplice strategia e la promessa è stata mantenuta. Vedo che si insiste molto sulla «leggerezza» della manovra, quasi che le risorse mobilitate configurino soltanto ritocchi di poca importanza. Non mi pare che le cose stiano così. Diciotto miliardi tra decreto e Finanziaria (36 mila miliardi di vecchie lire) indirizzate ad alleggerire oneri fiscali e a rifinanziare i cantieri delle aziende pubbliche che lavorano per le infrastrutture, costituiscono una vigorosa azione di sostegno della domanda, della competitività e dei redditi quale da tempo non si verificava, a parità di pressione fiscale. L´avanzo primario è aumentato da zero a 2 punti, il deficit corrisponde agli impegni presi con l´Europa.
Certo non è stato affrontato il grande tema della spesa della pubblica amministrazione. Sarkozy, tanto ammirato in Italia, si cimenterà con questo problema nei prossimi giorni. Il taglio da lui preannunciato è nell´ordine di 9 miliardi di euro. Di più non può fare ancorché il debito pubblico francese sia metà del nostro. Ma il nostro gettito tributario è aumentato molto di più di quello del fisco parigino. Sarkozy spera in una ripresa dell´economia che tuttavia tarda a venire. Questo rende alquanto dubbio il successo della sua manovra. Anche lui ha i suoi guai.
Finora è stato più bravo a nasconderli, ma ora i nodi stanno venendo anche al suo pettine.
Non dico affatto che il male comune sia un mezzo gaudio: noi abbiamo quanto mai bisogno che l´economia europea sia tonica. Segnalo soltanto che il ciclo economico occidentale non attraversa un periodo di vacche grasse, tutt´altro.
Qualche errore di fondo è certamente avvenuto da qualche parte. La ricerca di quell´errore dovrebbe essere occupazione condivisa da imprenditori, banchieri, sindacati, Banche centrali e governi. Tutti infatti sono chiamati in causa e il gioco dello scaricabarile è diventato a questo punto manifestamente impossibile.
* * *
Dunque pace nel governo e nella coalizione che lo sostiene? Non direi. Direi tregua, sperando che lo sfarinamento dei partiti non produca l´incidente al Senato su cui Berlusconi (e Casini insieme a lui) sta puntando con rinnovato vigore.
Ma quand´anche la Finanziaria riuscisse a passare indenne nella cruna dell´ago senatoriale – come ci si deve augurare per il bene non del centrosinistra ma del Paese – è inutile pensare che alle prossime elezioni l´Unione si possa ripresentare nella stessa composizione attuale. Prodi lo vorrebbe ma Bertinotti – a quanto mi risulta – è perfettamente consapevole che non sarà possibile.
Bertinotti aveva immaginato che il suo partito avrebbe capito e condiviso la sua strategia di lotta e di governo.
Ma ci si è messo di mezzo un profondo sussulto identitario (al quale il «grillismo» ha dato una robusta mano). Il presidente della Camera sa che il gioco gli ha preso la mano; la partita non è più sotto il suo controllo. Sarà difficilissimo se non addirittura impossibile restare nello schema di lotta e di governo per il semplice motivo che gli elettori, tutti gli elettori, pretendono a questo punto coalizioni coese. Le risse interne non sono più accettate né tollerabili. Perciò, quale che sia la legge elettorale con la quale si andrà a votare, nel centrosinistra i riformisti e la sinistra radicale affronteranno divisi il confronto elettorale. Con programmi più semplici e più incisivi. Di venti pagine e non di trecento.
Se il voto avverrà nel 2008 Berlusconi vincerà. Se sarà spostato in avanti la partita è aperta e il Partito democratico potrà giocare le sue carte.
Casini e Fini saranno abbracciati e digeriti dal Cavaliere di Arcore. Bossi è costola sua e non gli creerà problemi.
Ma in un Paese che vive di emozioni rapide ad emergere e anche a capovolgersi nel senso contrario, il governo potrebbe risalire nei consensi e Veltroni potrebbe puntare ad un risultato del 35-40 per cento per il Partito democratico.
Questi sono a mio avviso gli elementi della partita. E qui si ripropone il dibattito sulla «casta». E sulle «caste».
* * *
Non parlerò di Grillo, ma invece di interlocutori di maggior spessore: Gian Antonio Stella e Pierluigi Battista (sul «Corriere della Sera» del 28 e del 29), di Luca Ricolfi (sulla «Stampa» del 28) e di noi di «Repubblica», a cominciare da Ezio Mauro, direttore del nostro giornale.
Mauro ha fatto una diagnosi secondo me esaustiva del «malessere» italiano che da almeno vent´anni debilita la fibra democratica e la morale pubblica del nostro paese.
Nella classe politica e non soltanto, ma nell´«establishment» nella sua interezza. Nel capitalismo all´italiana, nel sindacalismo all´italiana, nella Chiesa in salsa italiana. E anche nel giornalismo all´italiana. Ha espresso la speranza che ciascuno, per quanto gli compete, rifletta sulle responsabilità proprie e cerchi di correggerne le cause e gli effetti. Sia questo il contributo al risanamento che ciascuno deve portare alla democrazia repubblicana.
Stella ha esordito con una citazione a sorpresa: «A Roma spadroneggia un piccolo gruppo di padreterni, i quali si sono persuasi, insieme con qualche ministro, di avere la sapienza infusa nel vasto cervello. Non mantengono le promesse, impediscono il movimento a coloro che avrebbero voglia di agire, fanno perdere agli industriali quei mercati che erano riusciti a conquistare.
Bisogna licenziare questi padreterni orgogliosi. Troppo a lungo li abbiamo sopportati».
Non sono parole di Beppe Grillo – chiosa Stella – né di Guglielmo Giannini né del Bossi della prima maniera, ma nientemeno che di Luigi Einaudi che le scrisse sul «Corriere» del primo febbraio 1919. Vedete dunque...!
Bella sorpresa per chi non conosce o ha dimenticato l´Einaudi del 1919. Ma, purtroppo per Stella e anche per noi italiani la citazione è un vero boomerang per la tesi di chi pensa d´avere scoperto la casta politica a far data dal governo Prodi o tutt´al più dal Berlusconi del 2001 fino ai giorni nostri. La casta politica – la citazione lo prova – esisteva già nel 1919 e veniva bollata con parole come si vede roventi.
Ma in realtà esisteva da molto prima. Se Stella avrà la pazienza di leggere i discorsi politici di Marco Minghetti, quelli di Silvio Spaventa, quelli di Ruggero Bonghi, troverà le stesse accuse risalenti agli anni Ottanta del secolo XIX. Più tardi le ritroverà nel D´Annunzio della marcia sul fiume e nel Mussolini della marcia su Roma e nel pitale scagliato su Montecitorio dal dannunziano e futurista Keller. Troverà lo scandalo della Banca Romana, il coinvolgimento delittuoso di Francesco Crispi e della stessa Monarchia, la cacciata e l´esilio di Giolitti. E giù giù per li rami arriverà fino al Craxi di Tangentopoli e infine ai giorni nostri.
Bisogna, caro Stella, retrodatare tutto di un secolo e mezzo. Ma questo non vuol certo dire che gli attuali reggitori della cosa pubblica siano indenni da colpe, da errori, da omissioni. Vuol dire però che il male è molto antico. Se si è perpetuato malgrado le denunce vigorosissime per un tempo così lungo la vostra diagnosi è dunque sbagliata ed è sbagliata anche quella di Einaudi che parla di un piccolo gruppo di padreterni da cacciare a pedate.
Qualcuno, tre anni dopo, li cacciò e venne una dittatura durata vent´anni.
E´ questo il rimedio?
Mi sorge un dubbio: forse i diagnostici della casta hanno un´idea infantile della politica. Parlando al Tv 7 dell´altro ieri, interrogato da Gianni Riotta, Stella ha detto: io so poco di economia e quindi non mi sento in grado di mettere in piazza le supposte malefatte dei capitalisti italiani. Ma i politici sono sicuramente peggio perché hanno tutto il potere e lo ostentano.
I politici hanno tutto il potere? Caro Stella, non so in quale paese, ma che dico, in quale mondo tu pensi di vivere.
La frazione di potere dei politici (non solo in Italia) è minima rispetto al potere dei detentori del capitale. I quali tra l´altro sono inamovibili perché il loro fondamento è la natura proprietaria di quel potere. Mi scuso per la citazione, ma io scrissi «Razza padrona» nel 1974. Forse non l´hai letta ma ti sarebbe stata utile per portare avanti le tue meritorie battaglie.
«Le banche hanno acquisito un potere economico e politico che potrà diventare un pericolo se gli uomini che vi presiedono non avranno piena coscienza della terribile responsabilità che loro incombe nello svolgimento della vita nazionale. Dietro la presenza delle società anonime e al di sopra della inerte massa dei piccoli risparmiatori sta la ristretta brigata dei pochi grandi finanzieri e dei pochi grandi industriali i quali tengono di fatto il potere e direttamente o attraverso delegati controllano l´immensa schiera delle società industriali, mercantili, marittime che costituiscono la clientela delle banche e ad esse si connettono... Indarno si faceva appello alla grande maggioranza degli industriali, per nove decimi sani e onesti con grandi benemerenze di lavoro, di iniziative, di costruttività. La maggioranza laboriosa ma passiva e ignara lasciava che i facinorosi e i furbi andassero all´arrembaggio della nave che portava le fortune dello Stato».
Sorpresa, collega Stella: queste parole non sono di Grillo (che peraltro ne ha dette di simili quando denunciava la Cirio, la Parmalat, la Telecom). Non sono neppure mie né tue che non t´intendi di economia; non sono di Montezemolo né di Draghi. Sono – udite udite – di Luigi Einaudi e stanno nel volume «La condotta economica e gli effetti sociali della guerra». Anche queste le scrisse nel 1919 in occasione della crisi dell´Ilva, dell´Ansaldo e della Banca di sconto ma poi, nelle «Lezioni di politica sociale» del 1944 le riprese e le aggiornò.
Bisogna leggerlo tutto, Luigi Einaudi, magari insieme a De Viti De Marco, a Gaetano Salvemini e ad Ernesto Rossi, che non erano moderati ma radicali e liberali di sinistra.
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Oggi il capitalismo è diverso. Conosce (o finge di conoscere) le regole che debbono disciplinare il mercato ma che in Italia sono ancora fragilissime se hanno consentito e consentono che il leader del maggior partito, già tre volte presidente del Consiglio e in vena di ritornarci per la quarta volta, sia il proprietario di metà del duopolio televisivo ed abbia – quando s´insedia a Palazzo Chigi, influenza determinante sull´altra metà pubblica.
Mi sarebbe piaciuto leggerne almeno qualche riga nel libro sulla casta, ma non mi pare d´averla trovata. Se mi è sfuggita, sarei grato mi venisse segnalata. Ho letto però, sempre sul «Corriere della Sera», uno scritto del professor Giavazzi che si dichiarava insoddisfatto e turbato perché il ministro dell´Economia aveva nominato come suo rappresentante nel consiglio della Rai (come la legge gli prescrive) persona certamente esperta nella materia specifica ma anziana di età e notoriamente di convinzioni politiche vicine all´attuale maggioranza.
Mi sarebbe piaciuto leggere un Giavazzi di annata ai tempi in cui Baldassarre presiedeva il consiglio d´amministrazione della Rai. Forse mi è sfuggito? Anche qui, per favore, segnalatemelo e farò debita ammenda.
Scordavo Pierluigi Battista e Luca Ricolfi, ma quanto ho scritto fin qui vale anche per loro.