Welfare, accordo sì accordo no. Il dilemma sbarca a Mirafiori
Montezemolo: nessuna modifica
La sinistra dell'Unione non accetta il diktat di Romano Prodi sul protocollo sul welfare da inserire in Finanziaria. Il pomo della discordia resta quello: l'accordo firmato dai sindacati lo scorso 23 luglio che dopo la bocciatura della Fiom è proprio in questi giorni all'esame delle assemblee dei lavoratori e il 12 ottobre dovrebbe essere tradotto in un disegno di legge collegato alla Finanziaria. Lo slittamento dell'approvazione definitiva a referendum concluso aveva già importunato il centrista Lamberto Dini. Poi domenica sono scoppiate polemiche tra le due ali estreme della compagine di governo. Infine è intervenuto il premier Romano Prodi per chiarire che il protocollo sul welfare non è emendabile, «è stato firmato dalle parti sociali e quindi rimane quello firmato con le parti sociali». Anche se, ha aggiunto il premier, «il Parlamento ha una sua ampia libertà di azione».
Lunedì però la sinistra torna alla carica. Sono «incomprensibili le polemiche sull'intangibilità del protocollo sul welfare», sostiene Titti Di Salvo, capogruppo della Sinistra Democratica alla Camera. A suo giudizio, «il rispetto dovuto al referendum, un appuntamento straordinario della democrazia italiana, non può esimere il Parlamento dall'assunzione di responsabilità. Si tratta di migliorare il protocollo (lavori usuranti, contratti a termine e staff leasing) e non peggiorarlo, avendo sempre in mente la scadenza del 31 dicembre». «Ci risulterebbero perciò incomprensibili e gratuite le polemiche ideologiche sull'intangibilità del protocollo - aggiunge - polemiche che arrivassero da dentro o fuori la coalizione».
Mentre per Marina Sereni, vicepresidente gruppo l'Ulivo, è la sinistra a porre continui aut aut su questo tema. Il presidente della Camera Fausto Bertinotti chiudendo la festa di Rifondazione aveva detto che su questa questione del welfare «la partita è ancora aperta». Prodi e Damiano la considerano chiusa. La verità è che l'ultima parola, a quanto pare, spetterà ai lavoratori.
In una intervista rilasciata a Repubblica il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani indica nel sì al referendum tra i lavoratori l'elemento decisivo per la tenuta del governo. Decisivo «per ragioni di merito - dice Epifani - ma anche perché in caso contrario salterebbe il "banco"». Epifani appare deluso dal mancato taglio delle tasse a vantaggio dei lavoratori, sui soldi per la pubblica amministrazione. Ma dice che «nelle condizioni date» la manovra presentata è la migliore possibile e comunque nelle mani dei lavoratori e dei pensionati -5 milioni di persone che si esprimeranno dopo 50mila assemblee- c'è ora «una grossa responsabilità». L'intervista di Epifani non è piaciuta ai collega della Uil, Luigi Angeletti e della Cisl Raffaele Bonanni che vi hanno letto un eccessiva politicizzazione del voto dei lavoratori. Ma il premier Prodi precisa: «Mi aspetto che i lavoratori votino liberamente, ma mi auguro che si rendano conto di come sia un protocollo attento ai diritti dei più deboli», aggiungendo che comunque alla fine lui è convinto che anche questa volta le divisioni non avranno la meglio.
Secondo quanto riferisce la Cisl le assemblee in corso stanno andando tutte nel senso di un'approvazione del protocollo d'accordo a maggioranza, dopo la bocciatura in un referendum interno da parte della sola Fiom. Ma proprio in queste ore sono in corso alcune delle assemblee più delicate, come quelle gestite da Cgil Cisl e Uil lunedì mattina appunto nello stabilimento Fiat di Mirafiori.Il segretario Ui Angeletti ha negato di essere stato fischiato durante l'assemblea a porte chiuse. Ma ha ammesso l'esistenza di un forte malessere tra gli operai, «determinato soprattutto dalla consapevolezza di essere tra coloro che lavorano di più e guadagnano di meno e ovviamente chiedono al sindacato di rendere conto di questa situazione. Ci sono state anche argomentazioni politiche - ha detto ancora - del tipo "il governo non ci ascolta molto e anche se dice di essere di sinistra non fa cose che noi condividiamo"». Fischi dunque no ma mugugni sì, sia tra i promotori del no sia tra quelli del sì. Nei pronostici del voto dell'8, 9 e 10 ottobre per Angeletti: «Se si andrà in tanti a votare, con una percentuale intorno al 60-70%, sarà un pareggio o addirittura vinceremo», ha proseguito il segretario generale della Uil. «È chiaro che se voteranno in pochi è scontata la vittoria del no».
La riduzione delle tasse sulle imprese previsto dalla Finanziaria è un passo nella giusta direzione, ma ora bisogna pensare a detassare gli stipendi dei lavoratori. Così il presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, in occasione dell'incontro con le matricole della Luiss, commenta la manovra per il 2008. «Valutiamo sempre i governi non in sé, ma sui singoli provvedimenti - spiega Montezemolo - a parte quello che ha già detto Confindustria che sul fisco per le imprese, sullo sviluppo e crescita del Paese, si è andati nella strada giusta, credo che bisogna porsi dei problemi seri a cominciare dal fatto che i lavoratori sono quelli che contribuiscono di più insieme all'imprenditore e al management, al successo delle imprese».
Secondo Montezemolo ora è il momento di intervenire e detassare gli stipendi dei lavoratori. «Pagano regolarmente le tasse in busta paga e non evadono. Credo - sostiene il leader degli industriali - che una forte riflessione sulla detassazione di quello che è lo stipendio sia necessario fare. Credo che bisogna cominciare a restituire con meno tasse in busta paga, tasse a chi le paga regolarmente come i lavoratori».
l’Unità 2.9.07
L’intervista di Epifani e il salto del «banco»
Se al referendum vincesse il no «salterebbe il banco». Così Guglielmo Epifani intervistato da Repubblica
«Soltanto il sì può salvare questo governo», è stato il titolo del quotidiano che nel «banco» ha visto, appunto, Prodi e la sua squadra. Piombo, se detto da un sindacalista, in ogni caso abbastanza per scatenare un putiferio. Da destra, sinistra e centro accuse al segretario della Cgil di trasformare il referendum sindacale in una consultazione sul governo. A poco è servita la smentita di Corso d’Italia: «Titolazione e contenuto dell’intervista di Epifani a “La Repubblica” contengono affermazioni mai espresse dal segretario». «Epifani non ha mai asserito: “se le fabbriche votano no al protocollo cade il governo”. Spiace riscontrare che, come conseguenza della scelta del quotidiano, emerga una evidente forzatura del pensiero del segretario della Cgil».
Nel giorno in cui gli operai di Mirafiori in assemblea esprimevano il proprio malessere con fischi (o mugugni che dir si voglia) e la maggioranza continuava in fibrillazione il confronto-scontro sul protocollo sul welfare, l’intervista e il suo titolo sono state benzina sul fuoco. Dentro la Cgil, è durissimo l’attacco di Giorgio Cremaschi ormai in aperta rottura con il segretario Epifani. «L’intervista è la dimostrazione della crisi del gruppo dirigente della Cgil, che da tempo ha perso la bussola» attacca il leader dell’ala sinistra Rete 28 aprile. A suo avviso il «ruolo» di Cgil, Cisl e Uil è «quello di essere i 3-4 senatori mancanti per la maggioranza».
Ma si smarcano anche Cisl e Uil, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti parlano di errore e temono che la «politicizzazione» della consultazione, il rischio che diventi un si o un no sul governo e non sull’accordo e magari quello che i “no” aumentino. L’«appello» al voto ha fatto infuriare la sinistra, che vuole modificare il protocollo sul welfare e confida nel voto contrario dei lavoratori per farlo pesare. E come un fiume carsico, riaffiora il caro tema dell’autonomia sindacale. «Ad Epifani vorrei ricordare che la Cgil si è sempre considerata autonoma dal governo, dai partiti, dai padroni, e tale deve rimanere», arringa Manuela Palermi, capogruppo Pdci alla Camera. «Che adesso i lavoratori debbano votare “si” a un accordo che li penalizza, addirittura per salvare il governo, pare proprio eccessivo», aggiunge per lo stesso partito Marco Rizzo. E per il senatore di Prc, Fosco Giannini, sono «dichiarazioni gravissime».
fe. m.
l’Unità 2.9.07
Il «protocollo» non piace a Mirafiori
Tra sì e no, una discussione forte. Tensione, fischi e contestazioni alle assemblee
di Giampiero Rossi
RABBIA Mirafiori si conferma un banco di prova difficile per il sindacato. Nessuno, ieri mattina, si aspettava che presentare l’accordo di luglio sul welfare nella fabbrica-totem dei metalmeccanici italiani sarebbe stata una passeggiata. E gli operai torinesi del-
la Fiat hanno confermato le aspettative di dirigenti di Cgil, Cisl e Uil che hanno avuto il delicato compito di illustrare punto per punto i contenuti del protocollo sul quale i lavoratori e i pensionati italiano dovranno pronunciarsi tra otto giorni.
È toccato al segretario generale della Uil Luigi Angeletti e alla segretaria confederale della Cgil Morena Piccinini, ieri mattina, affrontare la spigolosa platea di Mirafiori, rispettivamente ai reparti carrozzerie e verniciatura. Assemblee civili, durante le quali a nessuno è stato impedito di parlare. Ma dove sono emersi prepotentemente, senza filtri, i dubbi e i timori degli operai. Certo, le "contestazioni", quelle vere, sono tutt’altra cosa, sottolinea chi ricorda certi interventi sindacali difesi con strenui forzi fisici dai servizi d’ordine che proteggevano il palco, ma questo non significa che non si sia percepita - a dir poco - una certa diffidenza e un po’ di delusione. Tanto per capire che aria tira nei reparti Fiat sono molto illuminanti le parole di Angeletti al termine dell’assemblea, quando il leader della Uil non si sottrae a un pronostico sul possibile esito della consultazione nello stabilimento torinese: «Se la partecipazione al voto sarà alta pareggeremo, se sarà bassa vinceranno i no«. A suggerire questa interpretazione dell’umore dei circa 1.500 lavoratori che hanno animato l’assemblea non sono stati tanto i fischi (che pure ci sono stati, ma mai di intensità tale da disturbare chi parlava), quanto gli applausi (questi sì, più nitidi) rivolti ai delegati sindacali che si sono succeduti al microfono per manifestare la loro opinione contraria a quella dei sindacati confederali. I "no", insomma, hanno ricevuto un consenso più evidente rispetto ai "sì".
Ma cosa c’è in quei no, al di là delle posizioni ormai chiare all’interno dello schieramento sindacale "ufficiale", cioè la lacerante opposizione all’accordo espressa dalla Fiom? «Noi abbiamo cercato, come è nostro dovere, di spiegare il protocollo nel merito, nei suoi contenuti oggettivi - dice Morena Piccinini, fresca reduce dall’assemblea alla verniciatura - ma nel corso della discussione abbiamo potuto renderci conto che a molti lavoratori è arrivata un’informazione incompleta, a tratti persino distorta». Un esempio? «Tra gli stessi che ci hanno rinfacciato di non aver difeso il loro diritto ad andare in pensione abbiamo potuto constatare che ce n’erano tanti che in realtà quel diritto lo hanno potuto mantenere intatto, proprio grazie all’intesa che ha scongiurato la scure dello scalone Maroni. E poi mentre parlavamo ci rendevamo conto che accanto a quello che protestava per gli scalini c’era quell’altro che pensava al figlio studente. Insomma, abbiamo trovato una grande attenzione al merito, che poi è l’oggetto vero degli incontri di queste settimane»
In realtà, sottolinea ancora la dirigente della Cgil, a turbare persone che devono mandare avanti famiglie con buste paga che raramente sfondano il muro dei 1.100 euro al mese sono questioni cruciali che appartengono alla sfera del welfare ma che non rientrano nel protocollo di luglio: «Casa, contratto e salario, politica fiscale. Sono questioni che generano una forte tensione tra i lavoratori - spiega Piccinini - ma dobbiamo fare molta attenzione a non scaricare tutto sul testo dell’accordo di luglio. Sono temi sui quali il sindacato intende fare la sua battaglia una volta concluso il capitolo di questa consultazione e sui quali la politica deve dare delle risposte che finora non ha fornito». Un punto, inoltre tengono a chiarire i sindacati: «Questo non è un referendum sul governo, ma un referendum sul protocollo di luglio», come dice la segretaria Cgil. Anche se, secondo Angeletti, la distanza tra operai e governo esiste eccome: «Il problema del governo non è l’eventuale no al protocollo, ma la sua coesione interna - dice il leader della Uil - e l’interesse dei lavoratori non è far cadere Prodi, anche se mi sembra che ci sia stata finora una politica fatta più che altro per tirare a campare».
l’Unità 2.9.07
Ma la legge anti-violenza che fine ha fatto?
Il decreto da dieci mesi fermo alla Commissione giustizia. Bloccato da uno schieramento trasversale che vuole approvare le norme in tre pacchetti diversi. E intanto le donne sono vittime di stupri e omicidi
di Anna Tarquini
SE IL DECRETO contro la violenza sessuale fosse già legge forse nessuno avrebbe dovuto leggere la storia di Sara, uccisa con un pugno in testa dopo anni di persecuzioni da parte di chi si sentiva rifiutato. Non l’avrebbe letta nessuno perché la nuova norma-
tiva voluta dal ministro Pollastrini e da dicembre 2006 in discussione alla Commissione Giustizia preveder questa nuova fattispecie di reato. Ma quella legge è ferma al palo. Anzi, rischia di non trovare mai la strada maestra perché c’è chi vuole fermarla. E non è solo l’opposizione a disseminare mine: anche all’interno della stessa maggioranza c’è chi preferirebbe scorporare alcune norme troppo avanzate - come ad esempio quella che prevede il reato di stalking o tutta quella parte di norme che riguarda la prevenzione e l’accompagno delle vittime di abusi sessuali - e procedere in via spedita all’approvazione delle sole norme che prevedono un inasprimento delle pene. Dopo un anno di lavori a rilento l’ultima seduta della Commissione presieduta da Pisicchio ha fatto accendere la spia: troppe norme estranee, il testo di legge si occupa di troppe altre cose. Come ha affermato Paolo Gambescia dell’Ulivo: «...la Commissione deve scegliere se trattare della violenza sessuale ovvero del contenuto del disegno di legge governativo, che va ben oltre il tema della violenza sessuale, disciplinando altri ed eterogenei fenomeni di violenza e prevaricazione che, probabilmente, dovrebbero seguire un percorso autonomo...». Si riferisce forse Gambescia alla Bindi, che ha imposto nel ddl l’iserimento di un reato per proteggere gli anziani dalle truffe. Ma non solo questo.
Il là, la pietra dello scandalo, è la norma che punisce come aggravante l’omofobia e l’odio di genere. Scoppia in agosto, il primo agosto. Parte della commissione è per scorporare questi reati dal pacchetto antiviolenza, l’arcigay lo denuncia. Ma non sono solo queste nuove regole e non è solo l’opposizione a fare ostruzionismo. L’obiettivo è quello di scorporare il ddl antiviolenza in tre per dare precedenza alle norme penali e affiancare, in un iter indipendente che dovrebbe poi procedere con le norme sull’omofobia, anche tutte le innovazioni che riguardano la prevenzione, l’accompagno della vittima. Le norme che - appunto - dovrebbero contribuire a cambiare la cultura da dove nasce lo stupro e la violenza contro le donne.
Così scorporato il terzo pacchetto antiviolenza porterebbe con se ad esempio l’obbligatorietà da parte delle amministrazioni locali di fare campagna di informazione e sensibilizzazione, il registro dei centri antiviolenza, l’assistenza sanitaria alle vittime, il sostegno sociale con protezione e supporto anche economico la dove fosse necessario. E ancora l’equiparazione dei maltrattamenti familiari alla violenza e l’estensione di questi reati anche per chi coinvolge i minori e per chi li sottrae portandoli all’estero. Sarebbe stralciato anche l’articolo 612 bis che punisce «chiunque ripetutamente molesti o minacci qualcuno in modo da turbare le sue normali condizioni di vita». Se qualcuno avesse deciso che il reato di atti persecutori dovesse essere costituito e regolamentato in fretta Sara Wasington forse avrebbe potuto denunciare il suo molestatore che la perseguitava da tre anni. C’è però chi non vuole questa legge che per la prima volta affronta in maniera organica l’intero tema della violenza e degli abusi sessuali. Di ieri l’ultimo appello di Barbara Pollastrini: «La Finanziaria segna passi importanti per le donne. Abbiamo scelto di mettere al centro del confronto due grandi capitoli: quello per i diritti umani (con la richiesta precisa di un investimento per il contrasto alle molestie e alle violenze contro le donne), e la conferma dei finanziamenti per le azioni contro l’infibulazione e la tratta. Su questo fronte la risposta è stata positiva. Ora cerco un sostegno bipartisan».
l’Unità 2.9.07
Birmania: cento morti, 4000 desaparecidos
L’opposizione pensa a uno sciopero generale. Milizie delle minoranze etniche rinnovano gli attacchi all’esercito in varie zone del Paese. L’inviato dell’Onu dal capo della giunta
di Gabriel Bertinetto
L’INVIATO DELL’ONU Ibrahim Gambari ha lasciato ieri Rangoon (Yangon) diretto a Naypidaw, la nuova capitale che i generali hanno fatto costruire nel cuore della jungla. Lì oggi sarà finalmente ricevuto dal capo del regime. Dopo una giornata di estenuante attesa, l’ufficio delle Nazioni Unite a Rangoon ha potuto finalmente confermare ieri notte che a Gambari era stato comunicato che «potrà incontrare il generale Than Shwe martedì (oggi)». Gambari aveva già incontrato il numero quattro del regime sabato al suo arrivo in Birmania, e domenica ha potuto rimanere a colloquio per più di un’ora con Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, leader del movimento democratico, trattenuta da molti anni agli arresti domiciliari a Rangoon. Sull’andamento di entrambi i colloqui non si è saputo quasi nulla.
La diplomazia internazionale ripone grandi speranze nella missione del rappresentante di Ban Ki-moon. L’obiettivo è quello di convincere la giunta al potere a porre fine alle violenze e ad avviare un dialogo con l’opposizione. La portavoce di Ban Ki-moon, Marie Okabe, ha affermato che il segretario dell’Onu ha parlato ieri con Gambari chiedendogli di convincere i dirigenti birmani «a fermare la repressione delle proteste pacifiche, rilasciare i detenuti» e avviare un credibile processo di riconciliazione nazionale.
Dopo giorni e giorni di proteste popolari e di violenta repressione militare, da qualche giorno la mobilitazione anti-regime a Rangoon sembra affievolirsi, anche se fonti della diaspora democratica birmana all’estero rivelano che i sindacati avrebbero proclamato uno sciopero generale contro la dittatura. Contemporaneamente i movimenti armati delle varie etnie che da anni sono in lotta con il governo centrale, avrebbero rinnovato gli attacchi all’esercito regolare. Questo avrebbe costretto la giunta a spostare parte delle truppe da Rangoon ad altre zone del Paese. Nell’ex-capitale comunque nessuno ieri osava più radunarsi nelle strade, presidiate a ognuno dei principali incroci dai soldati fedeli a Than Shwe. Scomparsi, rimossi dai soldati, i rotoli di filo spinato che monaci e cittadini democratici avevano sistemato intorno alla pagoda Shwedagon, luogo simbolo della rivolta contro la dittatura, da dove sono partiti molti cortei.
Le autorità sostengono che i morti negli scontri della settimana scorsa sono stati dieci. La cifra è contestata dagli oppositori che attraverso le loro rappresentanze in esilio parlano invece di un centinaio di vittime. Incerto anche il numero delle persone arrestate. L’Associazione di aiuto ai detenuti politici (Aadp), che ha sede a Bangkok, nella vicina Thailandia, e cerca di tenere i contatti con le persone detenute nelle quarantatre carceri birmane, ritiene che gli arresti siano stati nelle ultime due settimane ben 1500. Bo Kyi, co-segretario dell’associazione, riferisce che molti sono stati torturati in cella. Ancora più inquietante il quadro descritto alla Bbc da fonti vicine alle milizie filo-governative. I monaci arrestati sarebbero 4000, ammassati in una scuola tecnica e in un ex-ippodromo in attesa di essere trasferiti in alcune prigioni nel nord della Birmania.
Amnesty International ha rivolto ieri un appello al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite affinché sia imposto un embargo totale alla vendita di armi alla Birmania. L’organizzazione ha anche sollecitato i principali fornitori -in particolare Cina e India, ma anche Russia, Serbia, Ucraina e i paesi dell’Associazione nazioni Sudest asiatico (Asean)- a «proibire il coinvolgimento di proprie agenzie, compagnie e singole persone nella fornitura, diretta o indiretta, di materiale militare e di sicurezza, munizioni e consulenza, compresi i trasferimenti definiti “non letali”».
Repubblica 2.9.07
"Il manifesto" lancia "l'Album di famiglia". In edicola bustine con cinque pezzi a 90 centesimi
Da Marx a Gobetti, da Stalin a Pol Pot in 220 figurine il pantheon anti-Pd
di Paolo Griseri
Non ci saranno solo comunisti previsti anche personaggi negativi
Due mesi di tempo per completare la collezione. Un unico autore per tutte le didascalie
Scambieresti un Bakunin doppio con un Occhetto? E un Gobetti con un Gramsci? L´ultima provocazione del manifesto coincide, non casualmente, con il varo del nuovo Pd. Mentre Ds e Margherita fondono le loro storie, o le seppelliscono come sostiene la sinistra radicale, il "quotidiano comunista" propone ai suoi lettori "l´Album di famiglia". Duecentoventi figurine da acquistare in edicola come se gli uomini che hanno fatto, nel bene e nel male, la storia della sinistra fossero altrettanti calciatori da immortalare nella raccolta della vita.
In via Tomacelli c´è aria di mistero sui nomi di chi ha ottenuto il privilegio di finire sull´album. Pare che la proposta fosse stata fatta alla Panini, mitica casa editrice degli album di calcio ma che alla fine si sia scelto di autoprodurre l´album con l´editrice del manifesto. Come sempre, a fianco delle motivazioni politiche, spinge la necessità di fare cassa per porre rimedio alla situazione finanziaria del giornale. Il battage pubblicitario inizia oggi con un slogan enigmatico: «Gli unici che possono attaccare i comunisti sono i comunisti».
Per attaccare i comunisti sull´album ci saranno due mesi di tempo. Tanto rimarranno in edicola le bustine da cinque figurine al prezzo di 90 centesimi. Ma in redazione non nascondono di aspettarsi il successo dell´iniziativa: sono state già prodotte un milione e ottocentomila buste. Non ci saranno personaggi rari o introvabili, come invece accadeva un tempo con i calciatori. Lo impedisce la legge: «Ogni acquirente - dicono i redattori - dovrà avere le stesse possibilità di completare l´album. Non ci sarà la ricerca spasmodica del Pizzaballa di turno».
Nell´album non ci saranno sono personaggi positivi e non solo comunisti: «Abbiamo deciso - dicono in via Tomacelli - di inserire figure che hanno avuto un ruolo nella storia della sinistra internazionale. Nel bene e nel male». Così accanto all´ovvio Marx ci saranno il liberale Piero Gobetti e lo scrittore Primo Levi. E non mancheranno i mostri: da Stalin a Ceausescu a Pol Pot. Inevitabile la presenza dei segretari del Pci, compreso Luigi Longo che radiò il gruppo del Manifesto nel novembre del 1969. Tra i politici italiani c´è un posto anche per Veltroni: «A suo dire - spiega la didascalia - non è mai stato comunista». Segue il curriculum del sindaco di Roma nel Pci.
Le didascalie sono tutte redatte dallo stesso, misterioso, autore. Che in calce alla foto di Stalin, scrive: «´Terrore dei fascisti e dei falsi comunisti´, diceva uno slogan degli anni ´70. Terrore di sicuro». Non più tenero è il giudizio su Pol Pot: «Uno dei nostri peggiori mostri». «Come in tutte la famiglie ci sono i parenti che uno non vorrebbe avere», spiegano in redazione. Del resto fa parte della storia del giornale la capacità di guardare in faccia anche gli album di famiglia più scomodi. «Album di famiglia», era infatti il titolo dell´editoriale con cui Rossana Rossanda spiegò che proprio dalla storia della sinistra italiana venivano i teorici e i manovali del terrorismo.
Oggi l´idea dell´album è diventato un gioco e fa evidentemente il verso al dibattito estivo su chi debba far parte del «Pantheon» del nuovo Pd. Così tra le 220 figurine ci sono le vignette di Vauro e alcuni simboli delle rivoluzioni mondiali, dalla ghigliottina al cappuccio di Marcos. E non manca il vecchio «compagno ciclostile». Dal 12 ottobre si gioca: scambieresti la cagnetta Laika, eroina dell´epopea sovietica, con il compagno segretario Enrico Berlinguer?
il manifesto 2.10.07
Grandezza e tragedia all'inizio di un mondo nuovo
di Hannah Arendt
L'amore è una potenza e non un sentimento. Si impadronisce dei cuori, ma non nasce dal cuore. L'amore è una potenza dell'universo, nella misura in cui l'universo è vivo. Essa è la potenza della vita e ne garantisce la continuazione contro la morte. Per questo l'amore «supera» la morte. Appena si è impossessato di un cuore, l'amore diventa una potenza ed eventualmente una forza.
L'amore brucia, colpisce l'infra, ovvero lo spazio-mondo fra gli uomini, come il fulmine. Questo è possibile soltanto se vi sono due uomini. Se si aggiunge il terzo, allora lo spazio si ristabilisce immediatamente. Dall'assoluta assenza di mondo (= spazio) degli amanti nasce il nuovo mondo, simboleggiato dal figlio. In questo nuovo infra, nel nuovo spazio di un mondo che inizia, devono stare ora gli amanti, essi vi appartengono e ne sono responsabili. Proprio questa è però la fine dell'amore. Se l'amore persiste, anche questo nuovo mondo viene distrutto. L'eternità dell'amore può esistere soltanto nell'assenza di mondo (dunque: «e se Dio vorrà, ti amerò anche di più dopo la morte» - ma non perché allora io non «vivrò» più e di conseguenza potrò forse essere fedele o qualcosa del genere, ma a condizione di continuare a vivere dopo la morte e di aver perduto in essa soltanto il mondo!) o come amore degli «abbandonati», non a causa dei sentimenti, ma perché, assieme agli amanti, è andata perduta la possibilità di un nuovo spazio mondano.
In quanto potenza universale (dell'universo) della vita, l'amore non ha propriamente una origine umana. Nulla ci inserisce in modo sicuro e inesorabile nell'universo vivente più dell'amore, al quale nessuno può sfuggire. Appena però questa potenza si impadronisce dell'uomo e lo getta verso un altro e brucia l'infra del mondo e del suo spazio fra i due, proprio l'amore diventa «ciò che vi è di più umano» nell'uomo, ovvero un'umanità che persiste senza mondo, senza oggetto (l'amato non è mai oggetto), senza spazio. L'amore consuma, consuma il mondo, e dà un'idea di che cosa sarebbe un uomo senza mondo. (Perciò lo si pensa spesso in relazione a una vita in «un altro mondo», ovvero in una vita senza mondo.)
L'amore è una vita senza mondo. In quanto tale, si manifesta come creatore di mondo; esso crea, genera un mondo nuovo. Ogni amore è l'inizio di un mondo nuovo; è questa la sua grandezza e la sua tragedia. Infatti, in questo mondo nuovo, nella misura in cui non è soltanto nuovo, ma anche appunto mondo, l'amore soccombe.
L'amore è dunque in primo luogo la potenza della vita; noi apparteniamo al vivente poiché sottostiamo a questa potenza. Chi non ha mai subito questa potenza non vive, non appartiene al vivente. In secondo luogo, esso è il principio che distrugge il mondo e indica così che l'uomo è ancora senza mondo, che egli è « più » del mondo, benché senza mondo non possa durare. Così, l'amore rivela proprio ciò che è specificamente umano nell'universo vivente. Il discorso degli amanti è così vicino alla poesia perché è il discorso puramente umano. E, in terzo luogo, l'amore è il principio creativo che oltrepassa il semplice fatto di essere vivi, poiché dalla sua amondanità nasce un nuovo mondo. In quanto tale, «supera» la morte, o ne è il vero e proprio principio opposto. Soltanto perché crea esso stesso un mondo nuovo, l'amore rimane (oppure sono gli amanti che tornano indietro) nel mondo. L'amore senza figli o senza un mondo nuovo è sempre distruttivo (antipolitico!); ma proprio allora produce ciò che è propriamente umano in tutta la sua purezza.
(dal Quaderno XVI, Maggio 1953-giugno 1953)
il manifesto 2.10.07
Hannah Arendt. Appunti allo stato nascente sulla tirannia degli assoluti
Dai «Diari» della pensatrice tedesca, in uscita nei prossimi giorni per Neri Pozza, anticipiamo una pagina dedicata alla potenza universale dell'amore
di Olivia Guaraldo
Così gelosa del proprio privato, Hannah Arendt non avrebbe con ogni probabilità apprezzato la pubblicazione delle sue ruminazioni filosofico-politiche, il loro svelamento allo sguardo indagatore - e un po' voyeuristico - del pubblico. Arendt fu sempre, infatti, strenua sostenitrice della necessità di separare politicamente la sfera pubblica da quella privata, non per tutelare quest'ultima, ma per preservare la pluralità dello spazio pubblico, evitando che venisse ridotto a una «biologia» dei sentimenti e a una economia dei bisogni.
Del resto, Arendt - come ogni altro intellettuale novecentesco che non sia vissuto oltre gli anni '70 - difficilmente avrebbe potuto prevedere (e approvare) gli sviluppi di un mercato editoriale tanto spettacolarizzato quanto incoraggiato dal rumoroso caravanserraglio di feste, festival, fiere. Parte di questa spettacolarizzazione, è noto, si nutre instancabilmente dell'inedito (sia esso il diario, il taccuino, il carteggio, il corso registrato o gli appunti lasciati incompleti) che è oggi la merce editorialmente più appetibile. Sebbene i Diari - versione italiana del Denktagebuch, il nome tedesco che le curatrici Ursula Ludz e Ingeborg Nordmann hanno dato ai ventotto quaderni di appunti della pensatrice tedesca, appena tradotti a cura di Chantal Marazìa per i tipi di Neri Pozza (pp. 688, euro 55) - non abbiano nulla a che fare con documenti di carattere privato nel senso pieno del termine, e nemmeno stuzzichino appetiti pettegoli di sorta, rimane forte la sensazione, scorrendo qua e là le pagine, di invadere uno spazio privato, un pensiero che è sul punto di farsi ma ancora acerbo, abbozzato, libero di ruminare sulle proprie incertezze, indecisioni e letture.
Il disagio, tuttavia, si mescola ben presto al piacere (un piacere un po' perverso, voyeuristico appunto) di assistere dal vivo alla costruzione teorica delle grandi opere arendtiane, da The Human Condition a On Revolution, da Between Past and Future a The Life of the Mind. L'impropria traduzione di Denktagebuch con Diari potrà forse far pensare alle lettrici e ai lettori che, come in ogni diario, vi si trovino riflessioni personali, private, intime. Nulla di tutto ciò: si tratta di taccuini di lavoro, quaderni di appunti in cui la pensatrice annotava - in maniera abbastanza sistematica - citazioni di autori, poesie, parole-chiave, brevi ragionamenti e altrettanto fugaci riflessioni teoriche su alcune questioni centrali nel dibattito filosofico novecentesco.
Se di inedito si deve parlare, tuttavia, non è nel senso tradizionale del termine. I diari, infatti, non rivelano nulla di sensazionalmente nuovo sull'opera di Arendt. Se di «nuovo» si tratta, è invece nel senso di una nuova emozione: ciò che l'illuminante pensiero di Arendt ci aveva già trasmesso lo ritroviamo qui allo stato nascente, in una sorta di rozza, caotica ma affascinante officina teorica in cui ci pare di sentire il respiro e la fatica del lavoro intellettuale. Arendt insomma ci viene incontro, o meglio, siamo noi che, attraverso la scansione cronologica dei documenti pazientemente messa a punto dalle curatrici dell'edizione tedesca, prendiamo confidenza con una nuova emozione, che è quella di sentire il pensiero arendtiano pulsare, sbocciare, prendere lentamente la forma che avrà poi nei testi maturi.
Gran parte dei taccuini è relativa agli anni 1950-'58, non a caso l'epoca in cui Arendt lavora alla sua opera di maggiore rilevanza teorica: The Human Condition (trad. it.Vita activa). I diari ci offrono l'opportunità di cogliere e di avere riconfermata la centralità e la radicalità di alcune questioni che quel testo mette in luce, prima fra tutte la distinzione tra fabbricare e agire. La tradizione del pensiero politico ha scambiato l'azione politica per «fabbricazione», costruzione di un prodotto finale, che, come tale, è attività solitaria, mentre l'azione è per natura plurale. «Da Platone in poi (e fino a Heidegger) questa pluralità è d'ostacolo all'uomo - nel senso che essa non vuole lasciargli la sua sovranità. L'uomo è però sovrano soltanto in quanto fabbricante, cioè in quanto lavoratore. Se le categorie del lavoro produttivo vengono applicate alla politica, allora 1. la pluralità viene concepita come somma degli individui isolati, e precisamente di coloro che isolatamente fabbricano nella scissione soggetto-oggetto. Oppure 2. la pluralità è pervertita a un individuo-mostro chiamato umanità».
Sono già presenti, in queste annotazioni del 1950, le note posizioni arendtiane relative alla politica come sfera di esibizione dell'unicità e ambito di piena realizzazione della pluralità umana: «la politica nasce nell'infra-tra-gli-uomini, dunque del tutto al di fuori dell'uomo. Non esiste perciò una sostanza propriamente politica. La politica nasce nell'infra e si stabilisce quale relazione. Hobbes lo aveva capito». La politica come relazione, come in-between che permette agli uomini di «nascere di nuovo», non secondo il ritmo biologico, animale, del corpo, bensì secondo quello davvero umano della relazione con altri. Tutto questo è patrimonio arendtiano acquisito: i diari ci offrono però il noto sotto forma nuova, primitiva, e per questo potente nella sua brevità.
Difficile riassumere in poco spazio la ricchezza di materiale che i Diari ci presentano. Tuttavia una cosa si percepisce immediatamente: ciò che rimane costante, e ciò che Arendt si sforza di sviscerare dalle citazioni e nei pensieri abbozzati che, ossessivamente, ricompaiono dopo anni, è un modo efficace di formulare e rafforzare argomentativamente la critica agli «assoluti» filosofico-politici della tradizione. Storia, Umanità, Progresso, Verità sono alcuni dei termini che ossessivamente ricorrono, nel tentativo di venir scalzati dal piedistallo epocale su cui la filosofia li ha collocati.
E proprio alla filosofia sono rivolte, nei Diari, alcune delle parole più dure, non mediate dalla revisione o dall'attenuazione, come invece avvenne nei testi pubblicati. Quella filosofia che Arendt aveva amato alla follia - ci piace pensare che abbia amato più la filosofia di quanto abbia amato Heidegger - ma che, proprio in forza di quell'amore, l'aveva irrimediabilmente delusa dopo il 1933 (e Heidegger con essa). «L'affinità tra il filosofo e il tiranno da Platone in poi (...). La logica occidentale, che passa per pensiero e ragione, è tiranna by definition. Di fronte alle leggi immodificabili della logica non vi è nessuna libertà; se la politica è una faccenda che riguarda l'uomo, e la costituzione ragionevole, allora soltanto la tirannide può generare una buona politica. La questione è: esiste un pensiero che non sia tirannico?».
Chi conosce e ama il pensiero arendtiano troverà in questi Diari parole nuove per cose già note, provando però in questa scorpacciata di «Arendt in aforismi» una inaspettata sensazione di vicinanza, quasi di intimità con una pensatrice che poco amava gli attaccamenti morbosi. Consapevoli di questa ambiguità, non possiamo tuttavia resistere alla tentazione di varcare la soglia dell'intimo «luogo» del pensiero arendtiano, ricordando però che proprio Hannah Arendt non si stancava mai di ribadire che il pensiero non ha luogo.
il Riformista 2.10.09
Epifani non vuol fare regali a Bertinotti
Ai piani alti della Cgil c’è anche un po’ di malumore nei confronti di Romano Prodi. La decisione del governo di separare il Protocollo dalla finanziaria, rimandandone l’approvazione di due settimane, al 12 ottobre, ha messo in agitazione la segreteria e lo stesso Guglielmo Epifani. Sembra quasi, malignava qualcuno ieri in Corso d’Italia, un regalo a Rifondazione, che da qui a quella data avrà più margini per conquistarsi spazio sui giornali e aumentare la pressione in vista dell’appuntamento del 20 ottobre. Proprio mentre ai tre sindacati confederali spetta il delicato compito di convincere cinquantamila assemblee di lavoratori in giro per il paese della bontà dell’intesa. Il paradosso è che una bocciatura dell’accordo - del tutto improbabile - metterebbe a rischio la sopravvivenza del governo, ragiona un segretario confederale Cgil: «e questa è proprio l’ultima cosa che vuole Rifondazione».
Prodi, evidentemente, lo sa. Tanto che fonti di Palazzo Chigi assicuravano ieri che «da qui al 12 ottobre il protocollo sarà blindato» e che le parole di Prodi di ieri vanno interpretate esattamente in questo senso: «trovare la sintesi», come ha detto il Prof, significa che conta di replicare il copione della finanziaria. Fino all’ultimo giorno c’era chi scommetteva sul no di Ferrero alla manovra, alla fine il ministro ha votato sì. Da qui a dieci giorni Prodi conta di convincerlo anche ad approvare il Protocollo, senza cambiarne una virgola.
Nel frattempo, all’interno della Cgil (ma anche di Cisl e Uil), costretta a subire le beghe di Palazzo Chigi e irritata per il rinvio di due settimane del Protocollo, si sta diffondendo la volontà di dare una riposta al governo. Formalmente, slegata dalla vexata quaestio dell’accordo su pensioni e welfare, ma in realtà non potrà che essere percepita come uno schiaffo all’esecutivo. Una grande mobilitazione, c’è chi parla addirittura di una manifestazione, sul peso del fisco sul lavoro dipendente, già denunciato nei giorni scorsi da Epifani e Bonanni come il vero tema dimenticato della finanziaria. Sull’ipotesi, a Corso d’Italia le bocche sono cucite, anche la segretaria confederale della Cgil, Marigia Maulucci, non conferma. Ma annuncia ad ogni modo che il sindacato guidato da Guglielmo Epifani «chiederà di aprire un tavolo specifico che affronti il problema delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti attraverso un intervento sulla politica dei redditi. Dobbiamo affrontare tre grandi nodi: il fisco, le politiche contrattuali e il controllo delle tariffe».
Come se non bastassero la guerriglia di Rifondazione e le ambiguità di Prodi, a rendere più pesante la giornata di ieri a Guglielmo Epifani ha contribuito un’intervista a Repubblica che la sua portavoce ha dovuto smentire in mattinata nei passaggi essenziali. Passaggi che collegavano l’eventuale bocciatura dell’accordo tout court alla caduta del governo, con cui Epifani in sostanza assumeva su di sé la croce di un esecutivo traballante. Ma il segretario della Cgil non aveva detto che il no al protocollo avrebbe fatto saltare il governo, ma che perfino i più aspri contestatori dell’intesa speravano in un’affermazione del sì perché altrimenti sarebbe «saltato il banco». Un’intervista che rischiava di creare un vero e proprio terremoto nella confederazione e di rendere il compito impossibile, a chi sta spiegando l’accordo nei luoghi di lavoro. Uscita oltretutto il giorno delle assemblee della prima e più simbolica fabbrica italiana, Mirafiori. Che invece non sono andate male, nonostante le contestazioni delle tute blu. Dalla Fiom raccontano che «più che i fischi al sì, si sentivano gli applausi al no all’accordo. Ma da qui alla bocciatura, c’è un abisso».
Rosso di Sera 1.10.07
Birmania, tutti i colori del rosso
di Elettra Deiana
La solidarietà con l’eroica lotta dei monaci buddisti, che in Birmania – denominata Myanmar dai militari al potere - stanno sfidando la feroce giunta militare, fino al sacrificio della vita, è il rosso, il colore delle loro tuniche, il colore del sangue e del coraggio. Con i monaci, come sempre in ogni luogo del pianeta, quando esplode la rivolta popolare, le ragazze e i ragazzi birmani riempiono le strade e le piazze e poi fotografi, reporter, giornalisti del mondo globale, anche loro disposti al rischio estremo, come dimostra l’assassinio del reporter e operatore giapponese Keriji Nagai ucciso dalla polizia nelle vie di Rangoon. C’è una lunga lotta per la democrazia in Birmania. Una lotta segnata dalla repressione sanguinaria della giunta militare, una scia di sangue con annessi e connessi di persecuzione politica, abusi e soprusi di ogni genere, violazione di ogni diritto. E la leader dell’opposizione, premio Nobel per la pace, Suu Kyi, confinata in carcere, poi agli arresti domiciliari, poi di nuovo, in questi giorni di passione, imprigionata perché la sua presenza, con quella dei monaci, non renda ancora più dilagante la protesta. Ancora una volta le armi contro gli inermi, la violenza la mobilitazione non violenta. La rivolta viaggia su Internet e a differenza di vent’anni fa, quando un massacro senza termine mise fine alle proteste senza che il mondo desse segno di esserne consapevole, questa volta le immagini arrivano ovunque e non si può far finta di niente. Nonostante la repressione infatti i filmati delle manifestazioni e le violenze dei militari vengono trasmesse su youtube, mentre Skype vine utilizzato per mandare in onda la voce del popolo. La comunità internazionale fa pressioni, Bush minaccia ritorsioni ma l’Onu non riesce ad assumere una posizione di condanna condivisa da tutti i Paesi membri perché Cina Russia e India non vogliono né sanzioni economiche né interferenze politiche negli affari interni di Myanmar. In Birmania infatti è in gioco la democrazia ma sono in gioco anche interessi economici e politici e manovre di geopolitica di grande rilievo per l’intera zona e per il Paese. Molti Paesi occidentali guardano da tempo con interesse alle grandi risorse naturali di Myanmar e sarebbero interessati a intraprendere nel Paese affari di ogni tipo se soltanto uno spiraglio democratico si aprisse e rendesse digeribile agli occhi dell’occidente una tale scelta. La stessa attenzione proviene dalla Cina e dall’India. In particolare Pechino non vede di buon occhio il generale Than Shawe, capo della giunta e filo-indiano. La Cina vorrebbe un leader filo-cinese in grado di adottare un percorso moderato avviando il dialogo con la leader dell’opposizione Aung San Suu Kiji. Per Pechino sarebbe una prospettiva positiva anche per avere credenziali di sensibilità liberale in vista delle Olimpiadi.
Insomma interessi, manovre, contraddizioni. Ma sopra ogni cosa l’aspirazione alla democrazia della popolazione. Una sfida e una speranza per la vita di donne e uomini di quel Paese.
Liberazione 2.10.07
Fiat, la delusione degli operai:
«No all'accordo governo-sindacati»
di Fabio Sebastiani
Operai infuriati e delusi: «Sulla previdenza
ci aspettavamo almeno la libertà di scelta»
Dire che le tute blu sono contrarie al protocollo di luglio 2007 è quasi un eufemismo. Dire che la contestazione sia stata sonora e travolgente non corrisponde esattamente al vero. L'assemblea alle carrozzerie di Mirafiori che il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti, ha tenuto ieri davanti a 1.500 tute blu, alla fine, si è risolta in un confronto civile. I fischi e i mugugni non sono certo mancati. Ma solo per rintuzzare la claque accuratamente preparata dalla Uil. L'orientamento che esce dalla Fiat, è molto netto: l'accordo tra Prodi e Cgil, Cisl e Uil è da cancellare. D'altronde è il risultato di «una vera assemblea sindacale, non del salotto di Porta a Porta», commenta a caldo il segretario della Fiom di Torino Giorgio Airaudo.
I lavoratori e le lavoratrici hanno apprezzato molto il fatto che il segretario della Uil, così come aveva promesso, sia tornato a trovarli. A parte questa cortesia, però, non hanno usato mezze misure per rispedire al mittente un testo «concluso senza consultarci né prima né durante». Oltre al merito, quindi, c'è anche una critica di metodo. La sala mensa delle Carrozzerie è territorio off limits per la stampa. Per ricostruire quel che è veramente accaduto nelle due assemblee - l'altra si è tenuta alla verniciatura con la partecipazione della segretaria nazionale della Cgil Morena Piccinini - occorre prima assistere alla conferenza stampa improvvisata da Angeletti davanti alla "Porta 2" in corso Tazzoli e poi aspettare l'uscita degli operai del primo turno.
Le due versioni concordano ampiamente. E' lo stesso Angeletti a raccontare il dissenso, usando il "sindacalese": «Se al voto dovessero andare tutti qui finirebbe in pareggio», dice. Su dieci interventi, quattro sono stati a favore del no. E hanno preso applausi convinti. Gli altri, invece, si sono persi in domande secondarie su Tfr e fisco. Un iscritto Fiom ha provato a schierarsi con il sì, ma è stato sommerso dalle contestazioni. Qualche fischio l'ha preso anche Angeletti, ma su uno scivolone vero e proprio. Quando, per parare le eventuali critiche all'accordo ha tirato fuori il classico argomento del sindacato, che a Roma non conta nulla. «E allora che ci stai a fare?», gli hanno urlato i lavoratori. E, chiamato in causa sull'intervista a Repubblica del suo omologo in Cgil, Guglielmo Epifani, il leader della Uil stempera i toni: «Se il governo cade o meno è per altri motivi, il protocollo non c'entra nulla».
Questo è successo ieri a Mirafiori. Una fotografia un po' diversa dalla rumorosa assemblea con i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil di un anno fa. Ma non certo lontana da quello che pensavano, e pensano tuttora, i lavoratori.
Due i temi presi di mira dalle tute blu: la falsa abolizione dello scalone Maroni e la detassazione degli straordinari. Nel primo caso, i lavoratori contestano il tradimento delle attese, facendo pagare al sindacato il carico del governo; nel secondo, la fine di qualsiasi possibilità di assunzione per i giovani. Senza parlare dello «scandalo» dei contratti a termine, che qui viene visto come l'ennesimo regalo alle imprese.
Le persone all'uscita sfilano via verso i pullman. Ma le telecamere piazzate davanti alla "Porta 2" hanno lo stesso potere di una calamita: «Questi sindacati fanno tante parole e alla fine è come dicono loro», borbotta un lavoratore. «Assemblea abbastanza agitata», dice un altro. Stella, da una vita in fabbrica, oggi, con la busta paga arriva a malapena alla terza settimana; iscritta al sindacato? «Non ce la farei a pagare la tessera. Ho una figlia a carico, e una nipotina di un anno e mezzo». «Sulla previdenza ci aspettavamo almeno la libertà di scelta nel decidere se rimanere o meno. E invece niente. Scalino o scalone, siamo sempre lì», aggiunge. Ovviamente, in ballo ci sono pure gli usuranti. I lavoratori e le lavoratrici sentono puzza di bruciato e avvertono: «Se ci sono soldi per 5mila ci devono essere pure per 10mila».
Per la segretaria nazionale della Cgil Morena Piccinini, «in giro c'è molta confusione». «Si stenta a partire da un punto di realtà per cominciare il confronto», continua. «Quella che ho raccolto io dai lavoratori - aggiunge Piccinini - è stata una certa tensione, soprattutto rispetto al tema dei salari e del fisco. E quindi va fatta la giusta distinzione ad attribuire questo malcontento al protocollo». Le conseguenze di un voto negativo? «Porrà dei problemi - risponde Piccinini - ma questo non significa che cadrà il governo».
Il segretario della Fiom Gianni Rinaldini intervenuto nell'assemblea al montaggio, nel secondo turno, non si è limitato solo ad esporre i contenuti dell'accordo, ma ha fatto anche un forte appello al voto (qualsiasi voto). In effetti la partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici al referendum è ancora una grande incognita. Nei commenti presi a caldo davanti ai cancelli, l'atteggiamento prevalente è quello della disaffezione, ma bisognerà aspettare la fine delle assemblee per capire cosa sta realmente accadendo «la cosa peggiore sarebbe la scarsa partecipazione - sottolinea Rinaldini ai giornalisti radunati davanti alla "Porta 2" - sarebbe un brutto segnale perché vuol dire che il disagio si esprime in una direzione che non fa bene a nessuno».
Liberazione 2.10.07
Ci sono due Italie: la più forte vuole cancellare la più debole
di Piero Sansonetti
Se uno vi dice che in una certa parte del mondo c'è un paese dove il capo degli industriali avverte il Parlamento che una determinata legge - che il Parlamento ancora non ha vagliato - dovrà essere approvata e basta, a scatola chiusa, e che non c'è margine per discutere, per modificare, per migliorare, e spiega al Parlamento che il suo compito è dire sì e non impicciarsi di politica, voi cosa direste? Vi chiedereste: in che parte del mondo, e in che tempo possono avvenire queste cose? Forse nell'America Latina degli anni '70 e 80?
E invece no, e lo sapete benissimo. Quel capo degli industriali ha un nome spagnolesco ma è italiano: Cordero di Montezemolo. E il Parlamento a cui è stato ordinato di rinunciare ai suoi poteri è il nostro Parlamento. E sapete anche benissimo che prima di questa intimazione del capo degli industriali, altre intimazioni, analoghe, erano venute dal Presidente del Consiglio, molto infastidito dalle richieste di discussione avanzate dalla sinistra, da alcuni ministri e persino dai sindacati, anzi dai capi massimi dei sindacati (e questa è la cosa che provoca - diciamo così - più stupore e dolore).
***
Guardate le cose che sono successe ieri e capirete facilmente che ci troviamo di fronte a due Italie, ma che una delle due vorrebbe imporre la scomparsa dell'altra. Una Italia è quella, per esempio, degli operai metalmeccanici, che nel luogo simbolo della nostra classe operaia - luogo simbolo da più di un secolo: la Fiat - contestano l'accordo governo-sindacati sul welfare, criticano in modo severissimo - anche se molto calmo e civile - i propri dirigenti sindacali, chiedono che l'accordo sia cambiato e domandano ai propri dirigenti perché contro quell'accordo non hanno fatto fuoco e fiamme. E poi, domandano ancora: se quell'accordo fosse stato proposto da un governo di centrodestra, non avreste forse fatto lo sciopero generale?Poi c'è una seconda Italia che della Fiat Mirafiori se ne frega, ne nega l'esistenza e dice che le decisioni del governo e dei vertici sindacali non si discutono e che una democrazia vera è una democrazia che decide e non una democrazia che discute. Questa seconda Italia è potentissima. Perché tiene insieme Confindustria, vertici sindacali e il gruppo dirigente del principale partito di governo, cioè il Pd, ed è sostenuta in modo abbastanza evidente, anche se non dichiarato, dall'intero schieramento di centrodestra. Non voglio usare parole a sproposito, come spesso si fa in politologia, ma io credo che se la "prima Italia" non saprà resistere alla "seconda", se non riuscirà a restare in piedi, a combattere, a restituire dei colpi, se verrà sconfitta e "spianata", allora non c'è dubbio che in Italia ci sarà un regime. Cos'è un regime? L'abolizione dell'opposizione. Sicuramente oggi - molto più che nel quinquennio trascorso - ci sono forze potentissime che questo disegno lo hanno ben chiaro in mente. Forze dell'impresa, forze politiche. E probabilmente la cosa potrebbe non dispiacere nemmeno al Vaticano.
Il mese di ottobre sarà decisivo per far fallire questa manovra, o assistere - disperati - alla sua riuscita. Ci sono molti appuntamenti decisivi. Tre soprattutto. Il referendum sul welfare, le primarie del Pd e il 20 ottobre. Da questo triplo salto può uscire la crisi politica o la tenuta del governo Prodi, ma non è questa l'unica incertezza: se Prodi resterà in sella, a seconda di come andranno le cose - e di come si svolgeranno i tre appuntamenti - potrà essere un Prodi costretto a svoltare a sinistra, sbattendo la porta in faccia a quelle componenti che anelano al regime, o invece un Prodi debolissimo, prigioniero degli industriali e dei settori più conservatori e "regimisti" del Pd.
Più si va a destra, più Prodi è debole, più si sposta a sinistra più si rafforza, anche se rischia i capricci dei vari Dini, i quali però non hanno molte carte da giocarsi salvo quella di minacciare di vendersi a Berlusconi. Operazione assai rischiosa, perchè li taglierebbe fuori dalla nascita del Partito democratico e li vedrebbe emarginati dalla vastissima area di potere che quel partito controlla, restando molto incerto il compenso che Berlusconi potrebbe garantire loro.
Per quello che riguarda la tenuta di Prodi, ieri l'Unità sosteneva che il rischio, per il premier, viene dal 20 ottobre. Cioè dalla manifestazione che abbiamo indetto noi insieme a il manifesto e a Carta. Non è così, chiunque lo vede. La nostra manifestazione potrà costringere Prodi a spostarsi a sinistra, ma non è decisiva per la sua tenuta o caduta. Quello che davvero è decisivo è l'appuntamento del 14 ottobre, cioè le primarie e la proclamazione di Veltroni. Ci sono un paio di ipotesi: che le primarie vadano bene al Pd, cioè con molti votanti, quattro o cinque milioni, e con un trionfo di Veltroni. In questo caso la leadership di Prodi sarebbe praticamente azzerata, e si tratterebbe di vedere solo quando e come Veltroni gli subentrerà alla guida. La seconda ipotesi è che le primarie vadano maluccio, cioè con meno di due milioni di votanti, o con un risultato non brillantissimo di Veltroni, e questo provocherà la fine della leadership di Veltroni, e un vero e proprio terremoto nel Pd che si ritroverà di nuovo acefalo. In tutte e due i casi per il governo saranno guai.
Anche gli altri due appuntamenti di ottobre sono incerti. Il referendum, si sa, lo vinceranno i gruppi dirigenti sindacali, ci mancherebbe. Cioè vincerà il si. Il sindacato è una macchina potentissima e ha un grande controllo sulle categorie più numerose, per esempio i pensionati. Però non basterà vincere il referendum, bisognerà vincere anche tra i lavoratori attivi, in particolare nelle fabbriche del nord e tra i metalmeccanici. Altrimenti ci si presenta alla trattativa politica con un "si" giuridicamente inoppugnabile, ma il cui valore morale e politico sarebbe molto ridimensionato.
Infine il 20 ottobre. State sicuri che se la manifestazione riuscirà e sarà grande, porterà molte frecce nella faretra della sinistra. E la sinistra ne ha bisogno, ne ha assoluto bisogno. Perché oggi - lo leggete su tutti i giornali, lo sentite dalle dichiarazioni dei dirigenti del centrosinistra - c'è una opinione assai diffusa che dice che la sinistra seria è quella che soggiace a qualunque diktat del centro, tace e porta voti. A una gran parte del mondo politico economico l'unica sinistra che piace, e che sembra adeguata alla modernità, è la sinistra morta. Se il 20 ottobre sarà molto forte, loro ci resteranno male, noi potremo sorridere.
* * *
Nell'operazione di spostamento a destra del paese - attraverso lo spostamento a destra del partito democratico - i sindaci Ds hanno avuto un gran ruolo. Sergio Cofferati è un po' seccato per il fatto che alcuni suoi colleghi, come Domenici di Firenze e Veltroni di Roma, lo hanno scavalcato in comportamenti moderati e benpensanti. Ed è corso ai ripari. Ieri ha annunciato che denuncerà gli organizzatori della street parade (manifestazione giovanile che si è svolta a Bologna, facendo infuriare Cofferati, il quale vorrebbe ammettere, in città, solo cortei dei cadetti dell'accademia di Marina) e che non parteciperà più a riunioni di comitati per l'ordine pubblico che permettono simili oscenità, come i giovani lasciati liberi per strada. Che volete? Ormai Cofferati è così. Domenica sera è stata leggendaria la sua intervista a Fabio Fazio. Prima Cofferati ha sostenuto che invece di affrontare i problemi grandi - come vorrebbe la noiosa sinistra massimalista - è meglio affrontare tanti problemi piccoli. Perchè tanti problemi piccoli valgono uno grande. Per esempio, invece di misurarsi col complicatissimo tema della speculazione, è meglio prendersela con un piccolo campo nomadi, un gruppetto di giovani che beve birra, qualche lavavetri, un po' di mendicanti, scacciare una decina di senza casa e altre cose così... se poi le metti tutte insieme, queste piccole cose, è come se avessi affrontato un problema grande come la speculazione, e ti senti meglio.Fazio lo guardava un po' incredulo. E allora Cofferati ha spiegato che lui qualche anno fa, prima di fare il sindaco, faceva un altro mestiere. Ha detto che faceva il capo del sindacato, della Cgil. Fazio si è illuminato. Gli detto: «Ah, ecco: ma allora era lei? Sa che non la riconoscevo più? E' un sacco di tempo che quando la vedo, mi dico: ma io questo già l'ho visto da qualche parte...» . Cofferati sembrava soddisfatto e annuiva. Forse, preso nella sua parte di sceriffo, neanche s'è accorto della presa in giro.
Liberazione 2.10.07
Perché tutti quei delitti dietro il muro perbenista?
di Lea Melandri
Per fortuna non ci sono solo fidanzati, mariti, amanti che uccidono le donne. Apprendo con sollievo dall'articolo di Luca Stanzione e Daniele Licheni ( Liberazione 30. 9.07 ) che si è tenuto domenica 30 settembre a Roma, presso la Direzione nazionale del Prc, un convegno dei Giovani Comunisti "di genere maschile", convinti che il dibattito sul "totalitarismo patriarcale" non sia meno urgente della lotta "contro l'invasività dell'impresa", per cui dovrebbe inondare da subito la sinistra che si avvia a diventare "unita e plurale". Un anno fa era uscito un "appello", promosso dall'associazione Maschile Plurale, che portava come titolo: "La violenza contro le donne ci riguarda: prendiamo parola come uomini". Poche gocce nel mare del silenzio -‘omertoso', mi verrebbe da dire -, che ostentatamente politici ciarlieri, intellettuali logorroici, oppongono alla verità più inquietante che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi, molto più subdola e più nascosta dell'ingiustizia sociale, dello sfruttamento economico, della devastazione dell'ambiente? No davvero! Forse non è ancora il "sovvertimento" che si augurano Luca e Daniele, ma è uno di quegli ‘scarti', di quelle aperture, di quei passi a lato, che la coscienza storica fa raramente, che possono solo essere tenuti in ombra, repressi, ma non cancellati. E' quel "segnale dell'avvenire" che, simile all'"utopia" di Walter Benjamin, si annuncia come percezione acuta delle esigenze radicali del presente.
La goccia scava la pietra, dicevano i latini, ma oggi le poche voci che finalmente collocano stupri e omicidi di donne all'interno del dominio più duraturo della storia umana -quello di un sesso sull'altro-, facendone in questo modo una questione centrale della politica, si trovano davanti una muraglia fatta di ignoranza, falsa neutralità, indifferenza o arrogante diniego. Leggendo i giornali, ascoltando i notiziari televisivi sugli ultimi delitti, che hanno come vittima una donna, colpisce l'evidente schizofrenia tra i dati statistici - i "numeri" della carneficina che oltrepassa ogni confine di tempo e di luogo- e la narrazione che gli scorre a lato, preoccupata di riempire dei particolari più morbosamente orrorifici la scena in cui poter collocare il ‘folle' di turno. Ogni volta, con un rituale che dovrebbe far riflettere sulle ossessioni e sulle paure della nostra epoca, il ‘mostruoso' emerge dalla ‘normalità' di una casa, di una famiglia, di un paese, di una classe sociale, e sempre, anziché chiedersi che cosa nasconde quella facciata tranquilla di perbenismo, si sposta l'attenzione sul "raptus" momentaneo di follia che sottrae inspiegabilmente un individuo al suo ambiente, alla educazione ricevuta, alla sua appartenenza di sesso, ai suoi legami più intimi.
E' così che l'abnorme, l'osceno, l'imprevisto, facendosi esterno, "straniero" alla situazione da cui ha origine, viene opportuno e benefico a sollevare da ogni responsabilità collettiva, da interrogativi diversi da quelli processuali. Bruno Vespa, il gran cerimoniere di tutte le stagioni, di tutti i fatti e misfatti, ricostruisce a Porta a Porta la scena del delitto con puntigliosa dovizia di particolari, chiama i suoi esperti a far concorrenza a giudici e avvocati, appronta uno spettacolo e una audience assicurata per un discreto numero di sere. Perché arrivi agli spettatori un sia pur passeggero brivido per il perverso cinismo che passa in questo "normale" intrattenimento, occorre aspettare Luciana Littizzetto o qualche altra lucida scheggia di ironia. E ben vengano i comici, se, oltre a farci ridere, riescono a scoperchiare per un momento i sepolcri imbiancati del conformismo, dell'arroganza, della manipolazione irresponsabile di verità evidenti.
Evidente è che gli uomini violentano e uccidono le donne: non sono i malati di mente, i marginali, i pezzenti, i teppisti, i criminali noti, ma giovani "normali", rispettosi e avviati a buona carriera. Evidente è che il luogo primo di questo femminicidio è la casa, la famiglia, il luogo che sta in cima ai "valori" della retorica di destra, ma anche delle politiche sociali di una parte della sinistra, senza che nessuno si chieda se la violenza non nasca proprio da lì, da quei lacci famigliari che, istituzionalizzando l'infanzia, perpetuano al medesimo tempo lo sfruttamento del lavoro femminile gratuito, la lontananza delle donne dalla sfera pubblica, la subordinazione al potere maschile dato come "naturale", l'ideologia che le vuole eternamente madri. "La violenza contro le donne -ha scritto Marco Deriu- "parla sempre più di una mancata elaborazione e di un affanno maschile di fronte a una libertà femminile, piuttosto che di un potere maschile e di una sottomissione femminile". Se è sicuramente vero che la crescita di autonomia delle donne è sentita come una minaccia, per chi ha creduto finora di poter disporre del loro corpo e della loro dedizione incondizionata, chi, se non gli uomini stessi -a partire da quelli che rivestono posti di potere, di visibilità, di autorevolezza e di ascolto pubblico-, può cominciare a smascherare la falsa naturalezza di un dominio che si è fatto forte finora della separazione tra famiglia e società, della divisione sessuale del lavoro, del silenzio storico delle donne, o della loro difficoltà a farsi ascoltare, e che ancora oggi, astutamente, vorrebbe far passare la violenza di genere come un problema di "sicurezza"? Se il re ormai è nudo, i suoi imbanditori la fanno ancora da protagonisti sulla scena pubblica, e non c'è da meravigliarsi se la gente non riesce più a distinguere i paladini degli oppressi dagli oppressori. C'è almeno un caso in cui la confusione è totale, ed è la violenza sessista.
Liberazione 2.10.07
Le donne devono rompere con l'ordine patriarcale
Alla politica serve un partenariato equo, solidale, mite, ispirato alla condivisione e alla reciprocità
di Elettra Deiana
Rivoluzionare le relazioni tra i sessi a tutti i livelli, compresi i più alti della sfera pubblica e del potere politico, non può che far bene alla politica, offrirle un'opportunità e una concreta condizione per rianimare con efficacia il ruolo perduto e ritrovare una qualche credibilità, sociale e di senso. Con particolare evidenza in Italia ma in realtà quasi ovunque, la crisi della politica si manifesta anche nell'esasperazione, al limite del grottesco, del suo portato storico maschile, cioè del suo essere un'esperienza di, tra e per uomini, a cui le donne non hanno potuto accedere se non con molto ritardo e sempre in forme secondarie e aggiuntive, che non hanno mai veramente scalfito il grumo profondo - vera e propria dimensione antropologica - di quella complessa vicenda umana, maschile e "al maschile", che è stata la politica nella modernità. Oggi la politica in crisi continua a blaterare - e ad agire - con voce maschile su tutto, anche quando la gravità dei processi richiederebbe la sobrietà del dubbio, della sperimentazione, della circolarità; e anche quando è così evidente, ormai, la portata globale e spiazzante della rivoluzione femminile, i segni del conflitto e delle contraddizioni tra i sessi che essa ha reso evidenti, laceranti e che solo un'altra radicale antropologia politica e un'altra radicale dimensione del pensiero politico potrà assumere e agire positivamente.
Possiamo chiamarla - quest'altra dimensione - un partenariato tra donne e uomini. Io così la chiamo e penso a un partenariato equo, solidale, mite, ispirato alla condivisione e alla reciprocità, fondato sul riconoscimento dell'altro, sulla critica di ogni presunzione fondamentalista e di ogni appartenenza predeterminata. E capace di misurarsi radicalmente col principio della responsabilità pubblica verso il pianeta, la questione sociale, la pace nelle relazioni internazionali. Servono uomini e donne a questo, che attraverso una profonda condivisione dei percorsi avviino un nuovo corso, in primis morale, della politica. Perché la politica, ormai prigioniera della mercificata dimensione mediatica, non può fare altro che sbrindellarsi sempre più, tra il cinismo manifesto degli uomini di destra e quello, camuffato e talvolta mescolato a uno stucchevole buonismo, di quelli una volta di sinistra, mentre la piazza, da luogo del consapevole agire collettivo, rischia di trasformarsi nel buco nero del disagio e dell'impazzimento sociale.
Ma di tutto il rinnovamento della politica ha bisogno, fuorché di nuovi miti e di nuove mitologie salvifiche. Evitiamo di ridurre le donne a un mito un po' patetico. Invocare un ruolo più incisivo delle donne nelle istituzioni pubbliche e nei luoghi delle decisioni politiche, quelle che contano veramente, è prima di tutto e essenzialmente una battaglia democratica e di civiltà, che va ostinatamente perseguita, soprattutto in Italia, dove il monopolio maschile del potere continua a essere asfissiante. Ma da qui a pensare che da questo impegno, automaticamente, discenda chissà quale nuova qualità della politica ce ne corre. Le donne, solo per il fatto di essere donne, non possono fare molto per rinnovare veramente la politica. Il ragionamento vale ovviamente anche per gli uomini, soltanto che loro, invece, si ostinano a pensare di avere una innata e indiscutibile competenza per la sfera pubblica e non riflettono su quanto anche questa presunzione oggi concorra fortemente a screditare e delegittimare la politica. Già se riconoscessero il grottesco di quel loro pretendere di rappresentare tutto, parlare di tutto, decidere tutto e facessero un consapevole passo a lato, già questo sarebbe un bel contributo al rinnovamento della politica. Ma le donne, per essere davvero agenti del rinnovamento, dovrebbero rompere radicalmente con quel loro destreggiarsi tra adattamento e omologazione, con quella disposizione, che viene da lontano, a farsi legittimare dagli uomini accontentandosi soprattutto di compiacerli e ricavando per sé spazi a lato. In politica ciò è evidente. Si chiama complicità femminile con e nell'ordine patriarcale. Rompere dunque, facendo della loro storia materia grande della politica, a partire da un posizionamento politico, un'idea del mondo, una pratica pubblica. Molta parte dell'esperienza umana femminile e femminista ha trovato la ragione di fondo della sua forza di elaborazione teorica e di pratica politica nella scelta di posizionarsi e di partire da sé, cioè in un forte radicamento nel presente e nell'esperienza concreta. Questo è uno snodo essenziale per riconquistare autenticità e forza di coinvolgimento alla politica. Uno snodo su cui costruire e sedimentare pratica,comportamenti, rappresentazione di senso. La rivoluzione femminile ha fatto una breccia decisiva, reso evidente e ormai fuori di ogni discussione il problema dei rapporti tra i sessi come problema della politica. Ma è ancora un inizio su cui lavorare ma con la consapevolezza che non sarà un pranzo di gala. Presunzione maschile e complicità femminile: una nuova radicale antropologia politica che ne faccia radicalmente a meno.
*deputata prc
Liberazione 2.10.07
Bertinotti: «La sinistra è l'antidoto all'antipolitica»
Due ore di botta e risposta, domenica a Roma fra il Presidente della Camera e il giornalista Minoli
«Non mi sento affatto parte della casta». «Non servono leggi, i partiti devono autoriformarsi»
di Stefano Bocconetti
Le risposte sono lunghe, piene di racconti. Di esempi presi dalla propria storia. Risposte tutt'altro che diplomatiche, allora. Come del resto gli aveva chiesto Giovanni Minoli, che lo sta intervistando. Ma forse non c'è solo questo. Molto probabilmente di più pesa questo splendido ex cinema Universal stracolmo di persone. La sua gente. Che lo faranno «sentire a casa», come dirà più di una volta. «Di nuovo a casa».
Ecco perché le due ore di botta e risposta, domenica mattina fra Bertinotti e il giornalista di Mixer - che hanno concluso il prolungamento settembrino della Festa di Liberazione romana - sono stati assai diversi dai tradizionali dibattiti politici. Qui le domande sono state immediate, dirette. Come quando Minoli ha chiesto, quasi sorprendendo la gente: «Ma lei si sente parte della casta?». Anche la risposta all'inizio è stata immediata, secca: «No, per niente».
Ma poi s'è fatta più lunga, più articolata. Accompagnata da aneddoti, da tanti ricordi. Storie accompagnate dalle richieste di conferma rivolte alla moglie, Lella, che era lì, in prima fila. Storie di tanti anni fa, di quando Bertinotti sindacalista non riusciva a prendere lo stipendio. Neanche a Natale. E di come quella volta per avere almeno due lire in tasca per le festività, si decise di spedire una «delle compagne, che faceva un lavoro oscuro ma preziosissimo», a ritirare i "bollini" mensili. A ritirare la quota di iscrizione dei lavoratori al sindacato.
Una storia che racconta tutto il contrario della vita di un appartenente alla casta.
E ancora: Bertinotti svela di quando il Pci gli chiese di candidarsi alle politiche. In un collegio sicuro, in un momento in cui «i partiti erano ancora in grado di decidere chi sarebbe stato eletto». E lui disse di no. Gli interessava di più restare dov'era, al sindacato. Tanto da prendersi i rimbrotti di uno scorbutico Pajetta: «Ma dì un po', chi ti credi di essere che dici no ad una richiesta come questa?».
Parole informali, racconti, allora. Che la dicono lunga sul clima dell'incontro dell'altro giorno al teatro di via Bari. E che introducono al tema attorno al quale hanno ruotato le due ore di discussione: la crisi della politica, le risposte all'antipolitica.
Anche qui, nulla di scontato. Perché Bertinotti dice che sicuramente l'immagine che dà la politica è brutta, è percepita come bruttissima dall'opinione pubblica. E qui bisogna intervenire subito. Come del resto la Camera sta cominciando a fare, anche se nessuno - tantomeno la grande stampa - ne parla. E' molto tempo, però, che esistono sprechi e privilegi della politica. Solo che adesso c'è qualcuno - molti, in verità - che spingono per sollevare polveroni. Ma la risposta potrà venire solo dalla politica. «Perché è vero che la politica prende molto - come del resto prende molto in tutti gli altri paesi democratici, in tutto il resto d'Europa - ma quel "molto" è percepito come intollerabile fino a che la politica non sarà in grado di restituire». Di garantire servizi, welfare, redistribuzione sociale. Fin tanto insomma che non ci sarà «una buona politica».
Si parla di «politica» ma in realtà Bertinotti circoscrive il campo: perché il compito di rispondere all'antipolitica, spetta quasi solo alla sinistra. «E' la sinistra la principale, forse l'unica risorsa per sconfiggere la delusione». Per sconfiggere l'antipolitica.
A Minoli tutto ciò però sembra non bastare. Insiste, entra nel merito delle tante proposte che si leggono sui giornali in queste ore. Chiede a Bertinotti un parere sul progetto di Fassino illustrato in tante recentissime interviste. Progetto che magari Fassino avrebbe potuto trasformare in disegno di legge anziché limitarsi a farne scrivere i giornali (osservazione di Bertinotti che non è piaciuta al segretario diesse che ha subito replicato: «Non accetto lezioni su come si fa il parlamentare»). Ma il punto non è questo: per il Presidente della Camera è giusto intervenire. Ma la via non è quella legislativa, quanto l'autoriforma dei partiti. Anche per ciò che riguarda i candidati sotto processo. E pure qui un ricordo, di qualche tempo fa. Di quando il pool antimafia chiese a tutti i partiti di non inserire nelle liste siciliane anche chi era solo "sotto inchiesta". Cosa che Rifondazione ha fatto e altri no. Ma per libera scelta. Anche perché osserva Bertinotti esistono diversi tipi di reato: «E non si può mettere sullo stesso piano un sospettato di mafia con chi magari ha fatto un blocco stradale per difendere il proprio posto di lavoro».
I partiti devono autoriformarsi, allora. Ad un osservatore sembrerebbe un discorso destinato all'impopolarità. Ma non in questa sala che sottolinea quasi ogni suo passaggio con applausi fortissimi. E Bertinotti va avanti: e spiega che spetta proprio ai partiti ricostruire la partecipazione, la democrazia. Spetta a loro riprogettare un modello di società, ricostruire quel «tessuto» che aveva reso l'Italia un caso unico al mondo. Partiti che potrebbero, rapidamente - magari entro l'anno - scrivere una vera riforma elettorale che eviti il brutto quesito referendario e procedere speditamente ad una drastica riduzione dei parlamentare e dei senatori. Ma partiti, ancora, che devono guardare molto, molto più in là del contingente.
Devono ricostruire grandi soggettività. Di più: mettendo nel conto che un partito che avvia una ricostruzione di questa portata può anche perdere. Non se lo augura ma è una possibilità: «Perché ricordiamoci che Mitterrand perse due elezioni prima di far conquistare alla sinistra l'Eliseo».
Partiti, dunque. Che devono tornare ad essere lo strumento attraverso cui passa, si organizza la partecipazione delle persone, dei singoli, delle associazioni. Ed eccolo arrivato a parlare del 20 ottobre. «Mi chiede se si può stare al governo e organizzare manifestazioni di protesta? Davvero non riesco a capire: perché no?». E aggiunge che è sbagliata una sinistra condannata o a stare all'opposizione o al governo, a patto, però, di rompere i legami con la sua gente, la sua base. Esiste un'altra possibilità, esiste un altro modo di stare al governo. Ed è qui che Bertinotti sorprende di nuovo il suo interlocutore. Perché parla della manifestazione del 20 ottobre mettendola assieme alle primarie del nascente partito democratico, in programma una settimana prima. Il 14 ottobre. Li considera insieme, come elementi importanti di stimolo della partecipazione, come la ricerca di un nuovo modo d'essere dei partiti. «Indipendentemente dal giudizio che si può dare sulle due iniziative, indipendentemente su quale sia la collocazione politica delle forze che le hanno organizzate».
C'è un segnale, insomma, che viene dalle vicende di questi anni. Che viene dalla lettura di ciò che è accaduto in Europa, in Germania o in Francia. E' che laddove i partiti «rinunciano», laddove i «partiti» si fanno travolgere dall'antipolitica vince il governo dei tecnocrati. Vince chi ha fastidio dei partiti. Di quello strumento che è stato inventato e che resta il mezzo a disposizione delle persone. Per provare a strappare un po' più di giustizia.