martedì 2 ottobre 2007

l’Unità 2.10.07
Welfare, accordo sì accordo no. Il dilemma sbarca a Mirafiori
Montezemolo: nessuna modifica


La sinistra dell'Unione non accetta il diktat di Romano Prodi sul protocollo sul welfare da inserire in Finanziaria. Il pomo della discordia resta quello: l'accordo firmato dai sindacati lo scorso 23 luglio che dopo la bocciatura della Fiom è proprio in questi giorni all'esame delle assemblee dei lavoratori e il 12 ottobre dovrebbe essere tradotto in un disegno di legge collegato alla Finanziaria. Lo slittamento dell'approvazione definitiva a referendum concluso aveva già importunato il centrista Lamberto Dini. Poi domenica sono scoppiate polemiche tra le due ali estreme della compagine di governo. Infine è intervenuto il premier Romano Prodi per chiarire che il protocollo sul welfare non è emendabile, «è stato firmato dalle parti sociali e quindi rimane quello firmato con le parti sociali». Anche se, ha aggiunto il premier, «il Parlamento ha una sua ampia libertà di azione».
Lunedì però la sinistra torna alla carica. Sono «incomprensibili le polemiche sull'intangibilità del protocollo sul welfare», sostiene Titti Di Salvo, capogruppo della Sinistra Democratica alla Camera. A suo giudizio, «il rispetto dovuto al referendum, un appuntamento straordinario della democrazia italiana, non può esimere il Parlamento dall'assunzione di responsabilità. Si tratta di migliorare il protocollo (lavori usuranti, contratti a termine e staff leasing) e non peggiorarlo, avendo sempre in mente la scadenza del 31 dicembre». «Ci risulterebbero perciò incomprensibili e gratuite le polemiche ideologiche sull'intangibilità del protocollo - aggiunge - polemiche che arrivassero da dentro o fuori la coalizione».
Mentre per Marina Sereni, vicepresidente gruppo l'Ulivo, è la sinistra a porre continui aut aut su questo tema. Il presidente della Camera Fausto Bertinotti chiudendo la festa di Rifondazione aveva detto che su questa questione del welfare «la partita è ancora aperta». Prodi e Damiano la considerano chiusa. La verità è che l'ultima parola, a quanto pare, spetterà ai lavoratori.
In una intervista rilasciata a Repubblica il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani indica nel sì al referendum tra i lavoratori l'elemento decisivo per la tenuta del governo. Decisivo «per ragioni di merito - dice Epifani - ma anche perché in caso contrario salterebbe il "banco"». Epifani appare deluso dal mancato taglio delle tasse a vantaggio dei lavoratori, sui soldi per la pubblica amministrazione. Ma dice che «nelle condizioni date» la manovra presentata è la migliore possibile e comunque nelle mani dei lavoratori e dei pensionati -5 milioni di persone che si esprimeranno dopo 50mila assemblee- c'è ora «una grossa responsabilità». L'intervista di Epifani non è piaciuta ai collega della Uil, Luigi Angeletti e della Cisl Raffaele Bonanni che vi hanno letto un eccessiva politicizzazione del voto dei lavoratori. Ma il premier Prodi precisa: «Mi aspetto che i lavoratori votino liberamente, ma mi auguro che si rendano conto di come sia un protocollo attento ai diritti dei più deboli», aggiungendo che comunque alla fine lui è convinto che anche questa volta le divisioni non avranno la meglio.
Secondo quanto riferisce la Cisl le assemblee in corso stanno andando tutte nel senso di un'approvazione del protocollo d'accordo a maggioranza, dopo la bocciatura in un referendum interno da parte della sola Fiom. Ma proprio in queste ore sono in corso alcune delle assemblee più delicate, come quelle gestite da Cgil Cisl e Uil lunedì mattina appunto nello stabilimento Fiat di Mirafiori.Il segretario Ui Angeletti ha negato di essere stato fischiato durante l'assemblea a porte chiuse. Ma ha ammesso l'esistenza di un forte malessere tra gli operai, «determinato soprattutto dalla consapevolezza di essere tra coloro che lavorano di più e guadagnano di meno e ovviamente chiedono al sindacato di rendere conto di questa situazione. Ci sono state anche argomentazioni politiche - ha detto ancora - del tipo "il governo non ci ascolta molto e anche se dice di essere di sinistra non fa cose che noi condividiamo"». Fischi dunque no ma mugugni sì, sia tra i promotori del no sia tra quelli del sì. Nei pronostici del voto dell'8, 9 e 10 ottobre per Angeletti: «Se si andrà in tanti a votare, con una percentuale intorno al 60-70%, sarà un pareggio o addirittura vinceremo», ha proseguito il segretario generale della Uil. «È chiaro che se voteranno in pochi è scontata la vittoria del no».
La riduzione delle tasse sulle imprese previsto dalla Finanziaria è un passo nella giusta direzione, ma ora bisogna pensare a detassare gli stipendi dei lavoratori. Così il presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, in occasione dell'incontro con le matricole della Luiss, commenta la manovra per il 2008. «Valutiamo sempre i governi non in sé, ma sui singoli provvedimenti - spiega Montezemolo - a parte quello che ha già detto Confindustria che sul fisco per le imprese, sullo sviluppo e crescita del Paese, si è andati nella strada giusta, credo che bisogna porsi dei problemi seri a cominciare dal fatto che i lavoratori sono quelli che contribuiscono di più insieme all'imprenditore e al management, al successo delle imprese».
Secondo Montezemolo ora è il momento di intervenire e detassare gli stipendi dei lavoratori. «Pagano regolarmente le tasse in busta paga e non evadono. Credo - sostiene il leader degli industriali - che una forte riflessione sulla detassazione di quello che è lo stipendio sia necessario fare. Credo che bisogna cominciare a restituire con meno tasse in busta paga, tasse a chi le paga regolarmente come i lavoratori».

l’Unità 2.9.07
L’intervista di Epifani e il salto del «banco»
Se al referendum vincesse il no «salterebbe il banco». Così Guglielmo Epifani intervistato da Repubblica


«Soltanto il sì può salvare questo governo», è stato il titolo del quotidiano che nel «banco» ha visto, appunto, Prodi e la sua squadra. Piombo, se detto da un sindacalista, in ogni caso abbastanza per scatenare un putiferio. Da destra, sinistra e centro accuse al segretario della Cgil di trasformare il referendum sindacale in una consultazione sul governo. A poco è servita la smentita di Corso d’Italia: «Titolazione e contenuto dell’intervista di Epifani a “La Repubblica” contengono affermazioni mai espresse dal segretario». «Epifani non ha mai asserito: “se le fabbriche votano no al protocollo cade il governo”. Spiace riscontrare che, come conseguenza della scelta del quotidiano, emerga una evidente forzatura del pensiero del segretario della Cgil».
Nel giorno in cui gli operai di Mirafiori in assemblea esprimevano il proprio malessere con fischi (o mugugni che dir si voglia) e la maggioranza continuava in fibrillazione il confronto-scontro sul protocollo sul welfare, l’intervista e il suo titolo sono state benzina sul fuoco. Dentro la Cgil, è durissimo l’attacco di Giorgio Cremaschi ormai in aperta rottura con il segretario Epifani. «L’intervista è la dimostrazione della crisi del gruppo dirigente della Cgil, che da tempo ha perso la bussola» attacca il leader dell’ala sinistra Rete 28 aprile. A suo avviso il «ruolo» di Cgil, Cisl e Uil è «quello di essere i 3-4 senatori mancanti per la maggioranza».
Ma si smarcano anche Cisl e Uil, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti parlano di errore e temono che la «politicizzazione» della consultazione, il rischio che diventi un si o un no sul governo e non sull’accordo e magari quello che i “no” aumentino. L’«appello» al voto ha fatto infuriare la sinistra, che vuole modificare il protocollo sul welfare e confida nel voto contrario dei lavoratori per farlo pesare. E come un fiume carsico, riaffiora il caro tema dell’autonomia sindacale. «Ad Epifani vorrei ricordare che la Cgil si è sempre considerata autonoma dal governo, dai partiti, dai padroni, e tale deve rimanere», arringa Manuela Palermi, capogruppo Pdci alla Camera. «Che adesso i lavoratori debbano votare “si” a un accordo che li penalizza, addirittura per salvare il governo, pare proprio eccessivo», aggiunge per lo stesso partito Marco Rizzo. E per il senatore di Prc, Fosco Giannini, sono «dichiarazioni gravissime».
fe. m.

l’Unità 2.9.07
Il «protocollo» non piace a Mirafiori
Tra sì e no, una discussione forte. Tensione, fischi e contestazioni alle assemblee
di Giampiero Rossi


RABBIA Mirafiori si conferma un banco di prova difficile per il sindacato. Nessuno, ieri mattina, si aspettava che presentare l’accordo di luglio sul welfare nella fabbrica-totem dei metalmeccanici italiani sarebbe stata una passeggiata. E gli operai torinesi del-
la Fiat hanno confermato le aspettative di dirigenti di Cgil, Cisl e Uil che hanno avuto il delicato compito di illustrare punto per punto i contenuti del protocollo sul quale i lavoratori e i pensionati italiano dovranno pronunciarsi tra otto giorni.
È toccato al segretario generale della Uil Luigi Angeletti e alla segretaria confederale della Cgil Morena Piccinini, ieri mattina, affrontare la spigolosa platea di Mirafiori, rispettivamente ai reparti carrozzerie e verniciatura. Assemblee civili, durante le quali a nessuno è stato impedito di parlare. Ma dove sono emersi prepotentemente, senza filtri, i dubbi e i timori degli operai. Certo, le "contestazioni", quelle vere, sono tutt’altra cosa, sottolinea chi ricorda certi interventi sindacali difesi con strenui forzi fisici dai servizi d’ordine che proteggevano il palco, ma questo non significa che non si sia percepita - a dir poco - una certa diffidenza e un po’ di delusione. Tanto per capire che aria tira nei reparti Fiat sono molto illuminanti le parole di Angeletti al termine dell’assemblea, quando il leader della Uil non si sottrae a un pronostico sul possibile esito della consultazione nello stabilimento torinese: «Se la partecipazione al voto sarà alta pareggeremo, se sarà bassa vinceranno i no«. A suggerire questa interpretazione dell’umore dei circa 1.500 lavoratori che hanno animato l’assemblea non sono stati tanto i fischi (che pure ci sono stati, ma mai di intensità tale da disturbare chi parlava), quanto gli applausi (questi sì, più nitidi) rivolti ai delegati sindacali che si sono succeduti al microfono per manifestare la loro opinione contraria a quella dei sindacati confederali. I "no", insomma, hanno ricevuto un consenso più evidente rispetto ai "sì".
Ma cosa c’è in quei no, al di là delle posizioni ormai chiare all’interno dello schieramento sindacale "ufficiale", cioè la lacerante opposizione all’accordo espressa dalla Fiom? «Noi abbiamo cercato, come è nostro dovere, di spiegare il protocollo nel merito, nei suoi contenuti oggettivi - dice Morena Piccinini, fresca reduce dall’assemblea alla verniciatura - ma nel corso della discussione abbiamo potuto renderci conto che a molti lavoratori è arrivata un’informazione incompleta, a tratti persino distorta». Un esempio? «Tra gli stessi che ci hanno rinfacciato di non aver difeso il loro diritto ad andare in pensione abbiamo potuto constatare che ce n’erano tanti che in realtà quel diritto lo hanno potuto mantenere intatto, proprio grazie all’intesa che ha scongiurato la scure dello scalone Maroni. E poi mentre parlavamo ci rendevamo conto che accanto a quello che protestava per gli scalini c’era quell’altro che pensava al figlio studente. Insomma, abbiamo trovato una grande attenzione al merito, che poi è l’oggetto vero degli incontri di queste settimane»
In realtà, sottolinea ancora la dirigente della Cgil, a turbare persone che devono mandare avanti famiglie con buste paga che raramente sfondano il muro dei 1.100 euro al mese sono questioni cruciali che appartengono alla sfera del welfare ma che non rientrano nel protocollo di luglio: «Casa, contratto e salario, politica fiscale. Sono questioni che generano una forte tensione tra i lavoratori - spiega Piccinini - ma dobbiamo fare molta attenzione a non scaricare tutto sul testo dell’accordo di luglio. Sono temi sui quali il sindacato intende fare la sua battaglia una volta concluso il capitolo di questa consultazione e sui quali la politica deve dare delle risposte che finora non ha fornito». Un punto, inoltre tengono a chiarire i sindacati: «Questo non è un referendum sul governo, ma un referendum sul protocollo di luglio», come dice la segretaria Cgil. Anche se, secondo Angeletti, la distanza tra operai e governo esiste eccome: «Il problema del governo non è l’eventuale no al protocollo, ma la sua coesione interna - dice il leader della Uil - e l’interesse dei lavoratori non è far cadere Prodi, anche se mi sembra che ci sia stata finora una politica fatta più che altro per tirare a campare».

l’Unità 2.9.07
Ma la legge anti-violenza che fine ha fatto?
Il decreto da dieci mesi fermo alla Commissione giustizia. Bloccato da uno schieramento trasversale che vuole approvare le norme in tre pacchetti diversi. E intanto le donne sono vittime di stupri e omicidi
di Anna Tarquini


SE IL DECRETO contro la violenza sessuale fosse già legge forse nessuno avrebbe dovuto leggere la storia di Sara, uccisa con un pugno in testa dopo anni di persecuzioni da parte di chi si sentiva rifiutato. Non l’avrebbe letta nessuno perché la nuova norma-
tiva voluta dal ministro Pollastrini e da dicembre 2006 in discussione alla Commissione Giustizia preveder questa nuova fattispecie di reato. Ma quella legge è ferma al palo. Anzi, rischia di non trovare mai la strada maestra perché c’è chi vuole fermarla. E non è solo l’opposizione a disseminare mine: anche all’interno della stessa maggioranza c’è chi preferirebbe scorporare alcune norme troppo avanzate - come ad esempio quella che prevede il reato di stalking o tutta quella parte di norme che riguarda la prevenzione e l’accompagno delle vittime di abusi sessuali - e procedere in via spedita all’approvazione delle sole norme che prevedono un inasprimento delle pene. Dopo un anno di lavori a rilento l’ultima seduta della Commissione presieduta da Pisicchio ha fatto accendere la spia: troppe norme estranee, il testo di legge si occupa di troppe altre cose. Come ha affermato Paolo Gambescia dell’Ulivo: «...la Commissione deve scegliere se trattare della violenza sessuale ovvero del contenuto del disegno di legge governativo, che va ben oltre il tema della violenza sessuale, disciplinando altri ed eterogenei fenomeni di violenza e prevaricazione che, probabilmente, dovrebbero seguire un percorso autonomo...». Si riferisce forse Gambescia alla Bindi, che ha imposto nel ddl l’iserimento di un reato per proteggere gli anziani dalle truffe. Ma non solo questo.
Il là, la pietra dello scandalo, è la norma che punisce come aggravante l’omofobia e l’odio di genere. Scoppia in agosto, il primo agosto. Parte della commissione è per scorporare questi reati dal pacchetto antiviolenza, l’arcigay lo denuncia. Ma non sono solo queste nuove regole e non è solo l’opposizione a fare ostruzionismo. L’obiettivo è quello di scorporare il ddl antiviolenza in tre per dare precedenza alle norme penali e affiancare, in un iter indipendente che dovrebbe poi procedere con le norme sull’omofobia, anche tutte le innovazioni che riguardano la prevenzione, l’accompagno della vittima. Le norme che - appunto - dovrebbero contribuire a cambiare la cultura da dove nasce lo stupro e la violenza contro le donne.
Così scorporato il terzo pacchetto antiviolenza porterebbe con se ad esempio l’obbligatorietà da parte delle amministrazioni locali di fare campagna di informazione e sensibilizzazione, il registro dei centri antiviolenza, l’assistenza sanitaria alle vittime, il sostegno sociale con protezione e supporto anche economico la dove fosse necessario. E ancora l’equiparazione dei maltrattamenti familiari alla violenza e l’estensione di questi reati anche per chi coinvolge i minori e per chi li sottrae portandoli all’estero. Sarebbe stralciato anche l’articolo 612 bis che punisce «chiunque ripetutamente molesti o minacci qualcuno in modo da turbare le sue normali condizioni di vita». Se qualcuno avesse deciso che il reato di atti persecutori dovesse essere costituito e regolamentato in fretta Sara Wasington forse avrebbe potuto denunciare il suo molestatore che la perseguitava da tre anni. C’è però chi non vuole questa legge che per la prima volta affronta in maniera organica l’intero tema della violenza e degli abusi sessuali. Di ieri l’ultimo appello di Barbara Pollastrini: «La Finanziaria segna passi importanti per le donne. Abbiamo scelto di mettere al centro del confronto due grandi capitoli: quello per i diritti umani (con la richiesta precisa di un investimento per il contrasto alle molestie e alle violenze contro le donne), e la conferma dei finanziamenti per le azioni contro l’infibulazione e la tratta. Su questo fronte la risposta è stata positiva. Ora cerco un sostegno bipartisan».

l’Unità 2.9.07
Birmania: cento morti, 4000 desaparecidos
L’opposizione pensa a uno sciopero generale. Milizie delle minoranze etniche rinnovano gli attacchi all’esercito in varie zone del Paese. L’inviato dell’Onu dal capo della giunta
di Gabriel Bertinetto


L’INVIATO DELL’ONU Ibrahim Gambari ha lasciato ieri Rangoon (Yangon) diretto a Naypidaw, la nuova capitale che i generali hanno fatto costruire nel cuore della jungla. Lì oggi sarà finalmente ricevuto dal capo del regime. Dopo una giornata di estenuante attesa, l’ufficio delle Nazioni Unite a Rangoon ha potuto finalmente confermare ieri notte che a Gambari era stato comunicato che «potrà incontrare il generale Than Shwe martedì (oggi)». Gambari aveva già incontrato il numero quattro del regime sabato al suo arrivo in Birmania, e domenica ha potuto rimanere a colloquio per più di un’ora con Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, leader del movimento democratico, trattenuta da molti anni agli arresti domiciliari a Rangoon. Sull’andamento di entrambi i colloqui non si è saputo quasi nulla.
La diplomazia internazionale ripone grandi speranze nella missione del rappresentante di Ban Ki-moon. L’obiettivo è quello di convincere la giunta al potere a porre fine alle violenze e ad avviare un dialogo con l’opposizione. La portavoce di Ban Ki-moon, Marie Okabe, ha affermato che il segretario dell’Onu ha parlato ieri con Gambari chiedendogli di convincere i dirigenti birmani «a fermare la repressione delle proteste pacifiche, rilasciare i detenuti» e avviare un credibile processo di riconciliazione nazionale.
Dopo giorni e giorni di proteste popolari e di violenta repressione militare, da qualche giorno la mobilitazione anti-regime a Rangoon sembra affievolirsi, anche se fonti della diaspora democratica birmana all’estero rivelano che i sindacati avrebbero proclamato uno sciopero generale contro la dittatura. Contemporaneamente i movimenti armati delle varie etnie che da anni sono in lotta con il governo centrale, avrebbero rinnovato gli attacchi all’esercito regolare. Questo avrebbe costretto la giunta a spostare parte delle truppe da Rangoon ad altre zone del Paese. Nell’ex-capitale comunque nessuno ieri osava più radunarsi nelle strade, presidiate a ognuno dei principali incroci dai soldati fedeli a Than Shwe. Scomparsi, rimossi dai soldati, i rotoli di filo spinato che monaci e cittadini democratici avevano sistemato intorno alla pagoda Shwedagon, luogo simbolo della rivolta contro la dittatura, da dove sono partiti molti cortei.
Le autorità sostengono che i morti negli scontri della settimana scorsa sono stati dieci. La cifra è contestata dagli oppositori che attraverso le loro rappresentanze in esilio parlano invece di un centinaio di vittime. Incerto anche il numero delle persone arrestate. L’Associazione di aiuto ai detenuti politici (Aadp), che ha sede a Bangkok, nella vicina Thailandia, e cerca di tenere i contatti con le persone detenute nelle quarantatre carceri birmane, ritiene che gli arresti siano stati nelle ultime due settimane ben 1500. Bo Kyi, co-segretario dell’associazione, riferisce che molti sono stati torturati in cella. Ancora più inquietante il quadro descritto alla Bbc da fonti vicine alle milizie filo-governative. I monaci arrestati sarebbero 4000, ammassati in una scuola tecnica e in un ex-ippodromo in attesa di essere trasferiti in alcune prigioni nel nord della Birmania.
Amnesty International ha rivolto ieri un appello al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite affinché sia imposto un embargo totale alla vendita di armi alla Birmania. L’organizzazione ha anche sollecitato i principali fornitori -in particolare Cina e India, ma anche Russia, Serbia, Ucraina e i paesi dell’Associazione nazioni Sudest asiatico (Asean)- a «proibire il coinvolgimento di proprie agenzie, compagnie e singole persone nella fornitura, diretta o indiretta, di materiale militare e di sicurezza, munizioni e consulenza, compresi i trasferimenti definiti “non letali”».

Repubblica 2.9.07
"Il manifesto" lancia "l'Album di famiglia". In edicola bustine con cinque pezzi a 90 centesimi
Da Marx a Gobetti, da Stalin a Pol Pot in 220 figurine il pantheon anti-Pd
di Paolo Griseri


Non ci saranno solo comunisti previsti anche personaggi negativi
Due mesi di tempo per completare la collezione. Un unico autore per tutte le didascalie

Scambieresti un Bakunin doppio con un Occhetto? E un Gobetti con un Gramsci? L´ultima provocazione del manifesto coincide, non casualmente, con il varo del nuovo Pd. Mentre Ds e Margherita fondono le loro storie, o le seppelliscono come sostiene la sinistra radicale, il "quotidiano comunista" propone ai suoi lettori "l´Album di famiglia". Duecentoventi figurine da acquistare in edicola come se gli uomini che hanno fatto, nel bene e nel male, la storia della sinistra fossero altrettanti calciatori da immortalare nella raccolta della vita.
In via Tomacelli c´è aria di mistero sui nomi di chi ha ottenuto il privilegio di finire sull´album. Pare che la proposta fosse stata fatta alla Panini, mitica casa editrice degli album di calcio ma che alla fine si sia scelto di autoprodurre l´album con l´editrice del manifesto. Come sempre, a fianco delle motivazioni politiche, spinge la necessità di fare cassa per porre rimedio alla situazione finanziaria del giornale. Il battage pubblicitario inizia oggi con un slogan enigmatico: «Gli unici che possono attaccare i comunisti sono i comunisti».
Per attaccare i comunisti sull´album ci saranno due mesi di tempo. Tanto rimarranno in edicola le bustine da cinque figurine al prezzo di 90 centesimi. Ma in redazione non nascondono di aspettarsi il successo dell´iniziativa: sono state già prodotte un milione e ottocentomila buste. Non ci saranno personaggi rari o introvabili, come invece accadeva un tempo con i calciatori. Lo impedisce la legge: «Ogni acquirente - dicono i redattori - dovrà avere le stesse possibilità di completare l´album. Non ci sarà la ricerca spasmodica del Pizzaballa di turno».
Nell´album non ci saranno sono personaggi positivi e non solo comunisti: «Abbiamo deciso - dicono in via Tomacelli - di inserire figure che hanno avuto un ruolo nella storia della sinistra internazionale. Nel bene e nel male». Così accanto all´ovvio Marx ci saranno il liberale Piero Gobetti e lo scrittore Primo Levi. E non mancheranno i mostri: da Stalin a Ceausescu a Pol Pot. Inevitabile la presenza dei segretari del Pci, compreso Luigi Longo che radiò il gruppo del Manifesto nel novembre del 1969. Tra i politici italiani c´è un posto anche per Veltroni: «A suo dire - spiega la didascalia - non è mai stato comunista». Segue il curriculum del sindaco di Roma nel Pci.
Le didascalie sono tutte redatte dallo stesso, misterioso, autore. Che in calce alla foto di Stalin, scrive: «´Terrore dei fascisti e dei falsi comunisti´, diceva uno slogan degli anni ´70. Terrore di sicuro». Non più tenero è il giudizio su Pol Pot: «Uno dei nostri peggiori mostri». «Come in tutte la famiglie ci sono i parenti che uno non vorrebbe avere», spiegano in redazione. Del resto fa parte della storia del giornale la capacità di guardare in faccia anche gli album di famiglia più scomodi. «Album di famiglia», era infatti il titolo dell´editoriale con cui Rossana Rossanda spiegò che proprio dalla storia della sinistra italiana venivano i teorici e i manovali del terrorismo.
Oggi l´idea dell´album è diventato un gioco e fa evidentemente il verso al dibattito estivo su chi debba far parte del «Pantheon» del nuovo Pd. Così tra le 220 figurine ci sono le vignette di Vauro e alcuni simboli delle rivoluzioni mondiali, dalla ghigliottina al cappuccio di Marcos. E non manca il vecchio «compagno ciclostile». Dal 12 ottobre si gioca: scambieresti la cagnetta Laika, eroina dell´epopea sovietica, con il compagno segretario Enrico Berlinguer?

il manifesto 2.10.07
Grandezza e tragedia all'inizio di un mondo nuovo
di Hannah Arendt


L'amore è una potenza e non un sentimento. Si impadronisce dei cuori, ma non nasce dal cuore. L'amore è una potenza dell'universo, nella misura in cui l'universo è vivo. Essa è la potenza della vita e ne garantisce la continuazione contro la morte. Per questo l'amore «supera» la morte. Appena si è impossessato di un cuore, l'amore diventa una potenza ed eventualmente una forza.
L'amore brucia, colpisce l'infra, ovvero lo spazio-mondo fra gli uomini, come il fulmine. Questo è possibile soltanto se vi sono due uomini. Se si aggiunge il terzo, allora lo spazio si ristabilisce immediatamente. Dall'assoluta assenza di mondo (= spazio) degli amanti nasce il nuovo mondo, simboleggiato dal figlio. In questo nuovo infra, nel nuovo spazio di un mondo che inizia, devono stare ora gli amanti, essi vi appartengono e ne sono responsabili. Proprio questa è però la fine dell'amore. Se l'amore persiste, anche questo nuovo mondo viene distrutto. L'eternità dell'amore può esistere soltanto nell'assenza di mondo (dunque: «e se Dio vorrà, ti amerò anche di più dopo la morte» - ma non perché allora io non «vivrò» più e di conseguenza potrò forse essere fedele o qualcosa del genere, ma a condizione di continuare a vivere dopo la morte e di aver perduto in essa soltanto il mondo!) o come amore degli «abbandonati», non a causa dei sentimenti, ma perché, assieme agli amanti, è andata perduta la possibilità di un nuovo spazio mondano.
In quanto potenza universale (dell'universo) della vita, l'amore non ha propriamente una origine umana. Nulla ci inserisce in modo sicuro e inesorabile nell'universo vivente più dell'amore, al quale nessuno può sfuggire. Appena però questa potenza si impadronisce dell'uomo e lo getta verso un altro e brucia l'infra del mondo e del suo spazio fra i due, proprio l'amore diventa «ciò che vi è di più umano» nell'uomo, ovvero un'umanità che persiste senza mondo, senza oggetto (l'amato non è mai oggetto), senza spazio. L'amore consuma, consuma il mondo, e dà un'idea di che cosa sarebbe un uomo senza mondo. (Perciò lo si pensa spesso in relazione a una vita in «un altro mondo», ovvero in una vita senza mondo.)
L'amore è una vita senza mondo. In quanto tale, si manifesta come creatore di mondo; esso crea, genera un mondo nuovo. Ogni amore è l'inizio di un mondo nuovo; è questa la sua grandezza e la sua tragedia. Infatti, in questo mondo nuovo, nella misura in cui non è soltanto nuovo, ma anche appunto mondo, l'amore soccombe.
L'amore è dunque in primo luogo la potenza della vita; noi apparteniamo al vivente poiché sottostiamo a questa potenza. Chi non ha mai subito questa potenza non vive, non appartiene al vivente. In secondo luogo, esso è il principio che distrugge il mondo e indica così che l'uomo è ancora senza mondo, che egli è « più » del mondo, benché senza mondo non possa durare. Così, l'amore rivela proprio ciò che è specificamente umano nell'universo vivente. Il discorso degli amanti è così vicino alla poesia perché è il discorso puramente umano. E, in terzo luogo, l'amore è il principio creativo che oltrepassa il semplice fatto di essere vivi, poiché dalla sua amondanità nasce un nuovo mondo. In quanto tale, «supera» la morte, o ne è il vero e proprio principio opposto. Soltanto perché crea esso stesso un mondo nuovo, l'amore rimane (oppure sono gli amanti che tornano indietro) nel mondo. L'amore senza figli o senza un mondo nuovo è sempre distruttivo (antipolitico!); ma proprio allora produce ciò che è propriamente umano in tutta la sua purezza.
(dal Quaderno XVI, Maggio 1953-giugno 1953)


il manifesto 2.10.07
Hannah Arendt. Appunti allo stato nascente sulla tirannia degli assoluti
Dai «Diari» della pensatrice tedesca, in uscita nei prossimi giorni per Neri Pozza, anticipiamo una pagina dedicata alla potenza universale dell'amore
di Olivia Guaraldo


Così gelosa del proprio privato, Hannah Arendt non avrebbe con ogni probabilità apprezzato la pubblicazione delle sue ruminazioni filosofico-politiche, il loro svelamento allo sguardo indagatore - e un po' voyeuristico - del pubblico. Arendt fu sempre, infatti, strenua sostenitrice della necessità di separare politicamente la sfera pubblica da quella privata, non per tutelare quest'ultima, ma per preservare la pluralità dello spazio pubblico, evitando che venisse ridotto a una «biologia» dei sentimenti e a una economia dei bisogni.
Del resto, Arendt - come ogni altro intellettuale novecentesco che non sia vissuto oltre gli anni '70 - difficilmente avrebbe potuto prevedere (e approvare) gli sviluppi di un mercato editoriale tanto spettacolarizzato quanto incoraggiato dal rumoroso caravanserraglio di feste, festival, fiere. Parte di questa spettacolarizzazione, è noto, si nutre instancabilmente dell'inedito (sia esso il diario, il taccuino, il carteggio, il corso registrato o gli appunti lasciati incompleti) che è oggi la merce editorialmente più appetibile. Sebbene i Diari - versione italiana del Denktagebuch, il nome tedesco che le curatrici Ursula Ludz e Ingeborg Nordmann hanno dato ai ventotto quaderni di appunti della pensatrice tedesca, appena tradotti a cura di Chantal Marazìa per i tipi di Neri Pozza (pp. 688, euro 55) - non abbiano nulla a che fare con documenti di carattere privato nel senso pieno del termine, e nemmeno stuzzichino appetiti pettegoli di sorta, rimane forte la sensazione, scorrendo qua e là le pagine, di invadere uno spazio privato, un pensiero che è sul punto di farsi ma ancora acerbo, abbozzato, libero di ruminare sulle proprie incertezze, indecisioni e letture.
Il disagio, tuttavia, si mescola ben presto al piacere (un piacere un po' perverso, voyeuristico appunto) di assistere dal vivo alla costruzione teorica delle grandi opere arendtiane, da The Human Condition a On Revolution, da Between Past and Future a The Life of the Mind. L'impropria traduzione di Denktagebuch con Diari potrà forse far pensare alle lettrici e ai lettori che, come in ogni diario, vi si trovino riflessioni personali, private, intime. Nulla di tutto ciò: si tratta di taccuini di lavoro, quaderni di appunti in cui la pensatrice annotava - in maniera abbastanza sistematica - citazioni di autori, poesie, parole-chiave, brevi ragionamenti e altrettanto fugaci riflessioni teoriche su alcune questioni centrali nel dibattito filosofico novecentesco.
Se di inedito si deve parlare, tuttavia, non è nel senso tradizionale del termine. I diari, infatti, non rivelano nulla di sensazionalmente nuovo sull'opera di Arendt. Se di «nuovo» si tratta, è invece nel senso di una nuova emozione: ciò che l'illuminante pensiero di Arendt ci aveva già trasmesso lo ritroviamo qui allo stato nascente, in una sorta di rozza, caotica ma affascinante officina teorica in cui ci pare di sentire il respiro e la fatica del lavoro intellettuale. Arendt insomma ci viene incontro, o meglio, siamo noi che, attraverso la scansione cronologica dei documenti pazientemente messa a punto dalle curatrici dell'edizione tedesca, prendiamo confidenza con una nuova emozione, che è quella di sentire il pensiero arendtiano pulsare, sbocciare, prendere lentamente la forma che avrà poi nei testi maturi.
Gran parte dei taccuini è relativa agli anni 1950-'58, non a caso l'epoca in cui Arendt lavora alla sua opera di maggiore rilevanza teorica: The Human Condition (trad. it.Vita activa). I diari ci offrono l'opportunità di cogliere e di avere riconfermata la centralità e la radicalità di alcune questioni che quel testo mette in luce, prima fra tutte la distinzione tra fabbricare e agire. La tradizione del pensiero politico ha scambiato l'azione politica per «fabbricazione», costruzione di un prodotto finale, che, come tale, è attività solitaria, mentre l'azione è per natura plurale. «Da Platone in poi (e fino a Heidegger) questa pluralità è d'ostacolo all'uomo - nel senso che essa non vuole lasciargli la sua sovranità. L'uomo è però sovrano soltanto in quanto fabbricante, cioè in quanto lavoratore. Se le categorie del lavoro produttivo vengono applicate alla politica, allora 1. la pluralità viene concepita come somma degli individui isolati, e precisamente di coloro che isolatamente fabbricano nella scissione soggetto-oggetto. Oppure 2. la pluralità è pervertita a un individuo-mostro chiamato umanità».
Sono già presenti, in queste annotazioni del 1950, le note posizioni arendtiane relative alla politica come sfera di esibizione dell'unicità e ambito di piena realizzazione della pluralità umana: «la politica nasce nell'infra-tra-gli-uomini, dunque del tutto al di fuori dell'uomo. Non esiste perciò una sostanza propriamente politica. La politica nasce nell'infra e si stabilisce quale relazione. Hobbes lo aveva capito». La politica come relazione, come in-between che permette agli uomini di «nascere di nuovo», non secondo il ritmo biologico, animale, del corpo, bensì secondo quello davvero umano della relazione con altri. Tutto questo è patrimonio arendtiano acquisito: i diari ci offrono però il noto sotto forma nuova, primitiva, e per questo potente nella sua brevità.
Difficile riassumere in poco spazio la ricchezza di materiale che i Diari ci presentano. Tuttavia una cosa si percepisce immediatamente: ciò che rimane costante, e ciò che Arendt si sforza di sviscerare dalle citazioni e nei pensieri abbozzati che, ossessivamente, ricompaiono dopo anni, è un modo efficace di formulare e rafforzare argomentativamente la critica agli «assoluti» filosofico-politici della tradizione. Storia, Umanità, Progresso, Verità sono alcuni dei termini che ossessivamente ricorrono, nel tentativo di venir scalzati dal piedistallo epocale su cui la filosofia li ha collocati.
E proprio alla filosofia sono rivolte, nei Diari, alcune delle parole più dure, non mediate dalla revisione o dall'attenuazione, come invece avvenne nei testi pubblicati. Quella filosofia che Arendt aveva amato alla follia - ci piace pensare che abbia amato più la filosofia di quanto abbia amato Heidegger - ma che, proprio in forza di quell'amore, l'aveva irrimediabilmente delusa dopo il 1933 (e Heidegger con essa). «L'affinità tra il filosofo e il tiranno da Platone in poi (...). La logica occidentale, che passa per pensiero e ragione, è tiranna by definition. Di fronte alle leggi immodificabili della logica non vi è nessuna libertà; se la politica è una faccenda che riguarda l'uomo, e la costituzione ragionevole, allora soltanto la tirannide può generare una buona politica. La questione è: esiste un pensiero che non sia tirannico?».
Chi conosce e ama il pensiero arendtiano troverà in questi Diari parole nuove per cose già note, provando però in questa scorpacciata di «Arendt in aforismi» una inaspettata sensazione di vicinanza, quasi di intimità con una pensatrice che poco amava gli attaccamenti morbosi. Consapevoli di questa ambiguità, non possiamo tuttavia resistere alla tentazione di varcare la soglia dell'intimo «luogo» del pensiero arendtiano, ricordando però che proprio Hannah Arendt non si stancava mai di ribadire che il pensiero non ha luogo.

il Riformista 2.10.09
Epifani non vuol fare regali a Bertinotti


Ai piani alti della Cgil c’è anche un po’ di malumore nei confronti di Romano Prodi. La decisione del governo di separare il Protocollo dalla finanziaria, rimandandone l’approvazione di due settimane, al 12 ottobre, ha messo in agitazione la segreteria e lo stesso Guglielmo Epifani. Sembra quasi, malignava qualcuno ieri in Corso d’Italia, un regalo a Rifondazione, che da qui a quella data avrà più margini per conquistarsi spazio sui giornali e aumentare la pressione in vista dell’appuntamento del 20 ottobre. Proprio mentre ai tre sindacati confederali spetta il delicato compito di convincere cinquantamila assemblee di lavoratori in giro per il paese della bontà dell’intesa. Il paradosso è che una bocciatura dell’accordo - del tutto improbabile - metterebbe a rischio la sopravvivenza del governo, ragiona un segretario confederale Cgil: «e questa è proprio l’ultima cosa che vuole Rifondazione».
Prodi, evidentemente, lo sa. Tanto che fonti di Palazzo Chigi assicuravano ieri che «da qui al 12 ottobre il protocollo sarà blindato» e che le parole di Prodi di ieri vanno interpretate esattamente in questo senso: «trovare la sintesi», come ha detto il Prof, significa che conta di replicare il copione della finanziaria. Fino all’ultimo giorno c’era chi scommetteva sul no di Ferrero alla manovra, alla fine il ministro ha votato sì. Da qui a dieci giorni Prodi conta di convincerlo anche ad approvare il Protocollo, senza cambiarne una virgola.
Nel frattempo, all’interno della Cgil (ma anche di Cisl e Uil), costretta a subire le beghe di Palazzo Chigi e irritata per il rinvio di due settimane del Protocollo, si sta diffondendo la volontà di dare una riposta al governo. Formalmente, slegata dalla vexata quaestio dell’accordo su pensioni e welfare, ma in realtà non potrà che essere percepita come uno schiaffo all’esecutivo. Una grande mobilitazione, c’è chi parla addirittura di una manifestazione, sul peso del fisco sul lavoro dipendente, già denunciato nei giorni scorsi da Epifani e Bonanni come il vero tema dimenticato della finanziaria. Sull’ipotesi, a Corso d’Italia le bocche sono cucite, anche la segretaria confederale della Cgil, Marigia Maulucci, non conferma. Ma annuncia ad ogni modo che il sindacato guidato da Guglielmo Epifani «chiederà di aprire un tavolo specifico che affronti il problema delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti attraverso un intervento sulla politica dei redditi. Dobbiamo affrontare tre grandi nodi: il fisco, le politiche contrattuali e il controllo delle tariffe».
Come se non bastassero la guerriglia di Rifondazione e le ambiguità di Prodi, a rendere più pesante la giornata di ieri a Guglielmo Epifani ha contribuito un’intervista a Repubblica che la sua portavoce ha dovuto smentire in mattinata nei passaggi essenziali. Passaggi che collegavano l’eventuale bocciatura dell’accordo tout court alla caduta del governo, con cui Epifani in sostanza assumeva su di sé la croce di un esecutivo traballante. Ma il segretario della Cgil non aveva detto che il no al protocollo avrebbe fatto saltare il governo, ma che perfino i più aspri contestatori dell’intesa speravano in un’affermazione del sì perché altrimenti sarebbe «saltato il banco». Un’intervista che rischiava di creare un vero e proprio terremoto nella confederazione e di rendere il compito impossibile, a chi sta spiegando l’accordo nei luoghi di lavoro. Uscita oltretutto il giorno delle assemblee della prima e più simbolica fabbrica italiana, Mirafiori. Che invece non sono andate male, nonostante le contestazioni delle tute blu. Dalla Fiom raccontano che «più che i fischi al sì, si sentivano gli applausi al no all’accordo. Ma da qui alla bocciatura, c’è un abisso».

Rosso di Sera 1.10.07
Birmania, tutti i colori del rosso
di Elettra Deiana


La solidarietà con l’eroica lotta dei monaci buddisti, che in Birmania – denominata Myanmar dai militari al potere - stanno sfidando la feroce giunta militare, fino al sacrificio della vita, è il rosso, il colore delle loro tuniche, il colore del sangue e del coraggio. Con i monaci, come sempre in ogni luogo del pianeta, quando esplode la rivolta popolare, le ragazze e i ragazzi birmani riempiono le strade e le piazze e poi fotografi, reporter, giornalisti del mondo globale, anche loro disposti al rischio estremo, come dimostra l’assassinio del reporter e operatore giapponese Keriji Nagai ucciso dalla polizia nelle vie di Rangoon. C’è una lunga lotta per la democrazia in Birmania. Una lotta segnata dalla repressione sanguinaria della giunta militare, una scia di sangue con annessi e connessi di persecuzione politica, abusi e soprusi di ogni genere, violazione di ogni diritto. E la leader dell’opposizione, premio Nobel per la pace, Suu Kyi, confinata in carcere, poi agli arresti domiciliari, poi di nuovo, in questi giorni di passione, imprigionata perché la sua presenza, con quella dei monaci, non renda ancora più dilagante la protesta. Ancora una volta le armi contro gli inermi, la violenza la mobilitazione non violenta. La rivolta viaggia su Internet e a differenza di vent’anni fa, quando un massacro senza termine mise fine alle proteste senza che il mondo desse segno di esserne consapevole, questa volta le immagini arrivano ovunque e non si può far finta di niente. Nonostante la repressione infatti i filmati delle manifestazioni e le violenze dei militari vengono trasmesse su youtube, mentre Skype vine utilizzato per mandare in onda la voce del popolo. La comunità internazionale fa pressioni, Bush minaccia ritorsioni ma l’Onu non riesce ad assumere una posizione di condanna condivisa da tutti i Paesi membri perché Cina Russia e India non vogliono né sanzioni economiche né interferenze politiche negli affari interni di Myanmar. In Birmania infatti è in gioco la democrazia ma sono in gioco anche interessi economici e politici e manovre di geopolitica di grande rilievo per l’intera zona e per il Paese. Molti Paesi occidentali guardano da tempo con interesse alle grandi risorse naturali di Myanmar e sarebbero interessati a intraprendere nel Paese affari di ogni tipo se soltanto uno spiraglio democratico si aprisse e rendesse digeribile agli occhi dell’occidente una tale scelta. La stessa attenzione proviene dalla Cina e dall’India. In particolare Pechino non vede di buon occhio il generale Than Shawe, capo della giunta e filo-indiano. La Cina vorrebbe un leader filo-cinese in grado di adottare un percorso moderato avviando il dialogo con la leader dell’opposizione Aung San Suu Kiji. Per Pechino sarebbe una prospettiva positiva anche per avere credenziali di sensibilità liberale in vista delle Olimpiadi.
Insomma interessi, manovre, contraddizioni. Ma sopra ogni cosa l’aspirazione alla democrazia della popolazione. Una sfida e una speranza per la vita di donne e uomini di quel Paese.

Liberazione 2.10.07
Fiat, la delusione degli operai:
«No all'accordo governo-sindacati»
di Fabio Sebastiani


Operai infuriati e delusi: «Sulla previdenza
ci aspettavamo almeno la libertà di scelta»

Dire che le tute blu sono contrarie al protocollo di luglio 2007 è quasi un eufemismo. Dire che la contestazione sia stata sonora e travolgente non corrisponde esattamente al vero. L'assemblea alle carrozzerie di Mirafiori che il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti, ha tenuto ieri davanti a 1.500 tute blu, alla fine, si è risolta in un confronto civile. I fischi e i mugugni non sono certo mancati. Ma solo per rintuzzare la claque accuratamente preparata dalla Uil. L'orientamento che esce dalla Fiat, è molto netto: l'accordo tra Prodi e Cgil, Cisl e Uil è da cancellare. D'altronde è il risultato di «una vera assemblea sindacale, non del salotto di Porta a Porta», commenta a caldo il segretario della Fiom di Torino Giorgio Airaudo.
I lavoratori e le lavoratrici hanno apprezzato molto il fatto che il segretario della Uil, così come aveva promesso, sia tornato a trovarli. A parte questa cortesia, però, non hanno usato mezze misure per rispedire al mittente un testo «concluso senza consultarci né prima né durante». Oltre al merito, quindi, c'è anche una critica di metodo. La sala mensa delle Carrozzerie è territorio off limits per la stampa. Per ricostruire quel che è veramente accaduto nelle due assemblee - l'altra si è tenuta alla verniciatura con la partecipazione della segretaria nazionale della Cgil Morena Piccinini - occorre prima assistere alla conferenza stampa improvvisata da Angeletti davanti alla "Porta 2" in corso Tazzoli e poi aspettare l'uscita degli operai del primo turno.
Le due versioni concordano ampiamente. E' lo stesso Angeletti a raccontare il dissenso, usando il "sindacalese": «Se al voto dovessero andare tutti qui finirebbe in pareggio», dice. Su dieci interventi, quattro sono stati a favore del no. E hanno preso applausi convinti. Gli altri, invece, si sono persi in domande secondarie su Tfr e fisco. Un iscritto Fiom ha provato a schierarsi con il sì, ma è stato sommerso dalle contestazioni. Qualche fischio l'ha preso anche Angeletti, ma su uno scivolone vero e proprio. Quando, per parare le eventuali critiche all'accordo ha tirato fuori il classico argomento del sindacato, che a Roma non conta nulla. «E allora che ci stai a fare?», gli hanno urlato i lavoratori. E, chiamato in causa sull'intervista a Repubblica del suo omologo in Cgil, Guglielmo Epifani, il leader della Uil stempera i toni: «Se il governo cade o meno è per altri motivi, il protocollo non c'entra nulla».
Questo è successo ieri a Mirafiori. Una fotografia un po' diversa dalla rumorosa assemblea con i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil di un anno fa. Ma non certo lontana da quello che pensavano, e pensano tuttora, i lavoratori.
Due i temi presi di mira dalle tute blu: la falsa abolizione dello scalone Maroni e la detassazione degli straordinari. Nel primo caso, i lavoratori contestano il tradimento delle attese, facendo pagare al sindacato il carico del governo; nel secondo, la fine di qualsiasi possibilità di assunzione per i giovani. Senza parlare dello «scandalo» dei contratti a termine, che qui viene visto come l'ennesimo regalo alle imprese.
Le persone all'uscita sfilano via verso i pullman. Ma le telecamere piazzate davanti alla "Porta 2" hanno lo stesso potere di una calamita: «Questi sindacati fanno tante parole e alla fine è come dicono loro», borbotta un lavoratore. «Assemblea abbastanza agitata», dice un altro. Stella, da una vita in fabbrica, oggi, con la busta paga arriva a malapena alla terza settimana; iscritta al sindacato? «Non ce la farei a pagare la tessera. Ho una figlia a carico, e una nipotina di un anno e mezzo». «Sulla previdenza ci aspettavamo almeno la libertà di scelta nel decidere se rimanere o meno. E invece niente. Scalino o scalone, siamo sempre lì», aggiunge. Ovviamente, in ballo ci sono pure gli usuranti. I lavoratori e le lavoratrici sentono puzza di bruciato e avvertono: «Se ci sono soldi per 5mila ci devono essere pure per 10mila».
Per la segretaria nazionale della Cgil Morena Piccinini, «in giro c'è molta confusione». «Si stenta a partire da un punto di realtà per cominciare il confronto», continua. «Quella che ho raccolto io dai lavoratori - aggiunge Piccinini - è stata una certa tensione, soprattutto rispetto al tema dei salari e del fisco. E quindi va fatta la giusta distinzione ad attribuire questo malcontento al protocollo». Le conseguenze di un voto negativo? «Porrà dei problemi - risponde Piccinini - ma questo non significa che cadrà il governo».
Il segretario della Fiom Gianni Rinaldini intervenuto nell'assemblea al montaggio, nel secondo turno, non si è limitato solo ad esporre i contenuti dell'accordo, ma ha fatto anche un forte appello al voto (qualsiasi voto). In effetti la partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici al referendum è ancora una grande incognita. Nei commenti presi a caldo davanti ai cancelli, l'atteggiamento prevalente è quello della disaffezione, ma bisognerà aspettare la fine delle assemblee per capire cosa sta realmente accadendo «la cosa peggiore sarebbe la scarsa partecipazione - sottolinea Rinaldini ai giornalisti radunati davanti alla "Porta 2" - sarebbe un brutto segnale perché vuol dire che il disagio si esprime in una direzione che non fa bene a nessuno».

Liberazione 2.10.07
Ci sono due Italie: la più forte vuole cancellare la più debole
di Piero Sansonetti


Se uno vi dice che in una certa parte del mondo c'è un paese dove il capo degli industriali avverte il Parlamento che una determinata legge - che il Parlamento ancora non ha vagliato - dovrà essere approvata e basta, a scatola chiusa, e che non c'è margine per discutere, per modificare, per migliorare, e spiega al Parlamento che il suo compito è dire sì e non impicciarsi di politica, voi cosa direste? Vi chiedereste: in che parte del mondo, e in che tempo possono avvenire queste cose? Forse nell'America Latina degli anni '70 e 80?
E invece no, e lo sapete benissimo. Quel capo degli industriali ha un nome spagnolesco ma è italiano: Cordero di Montezemolo. E il Parlamento a cui è stato ordinato di rinunciare ai suoi poteri è il nostro Parlamento. E sapete anche benissimo che prima di questa intimazione del capo degli industriali, altre intimazioni, analoghe, erano venute dal Presidente del Consiglio, molto infastidito dalle richieste di discussione avanzate dalla sinistra, da alcuni ministri e persino dai sindacati, anzi dai capi massimi dei sindacati (e questa è la cosa che provoca - diciamo così - più stupore e dolore).
***
Guardate le cose che sono successe ieri e capirete facilmente che ci troviamo di fronte a due Italie, ma che una delle due vorrebbe imporre la scomparsa dell'altra. Una Italia è quella, per esempio, degli operai metalmeccanici, che nel luogo simbolo della nostra classe operaia - luogo simbolo da più di un secolo: la Fiat - contestano l'accordo governo-sindacati sul welfare, criticano in modo severissimo - anche se molto calmo e civile - i propri dirigenti sindacali, chiedono che l'accordo sia cambiato e domandano ai propri dirigenti perché contro quell'accordo non hanno fatto fuoco e fiamme. E poi, domandano ancora: se quell'accordo fosse stato proposto da un governo di centrodestra, non avreste forse fatto lo sciopero generale?
Poi c'è una seconda Italia che della Fiat Mirafiori se ne frega, ne nega l'esistenza e dice che le decisioni del governo e dei vertici sindacali non si discutono e che una democrazia vera è una democrazia che decide e non una democrazia che discute. Questa seconda Italia è potentissima. Perché tiene insieme Confindustria, vertici sindacali e il gruppo dirigente del principale partito di governo, cioè il Pd, ed è sostenuta in modo abbastanza evidente, anche se non dichiarato, dall'intero schieramento di centrodestra. Non voglio usare parole a sproposito, come spesso si fa in politologia, ma io credo che se la "prima Italia" non saprà resistere alla "seconda", se non riuscirà a restare in piedi, a combattere, a restituire dei colpi, se verrà sconfitta e "spianata", allora non c'è dubbio che in Italia ci sarà un regime. Cos'è un regime? L'abolizione dell'opposizione. Sicuramente oggi - molto più che nel quinquennio trascorso - ci sono forze potentissime che questo disegno lo hanno ben chiaro in mente. Forze dell'impresa, forze politiche. E probabilmente la cosa potrebbe non dispiacere nemmeno al Vaticano.
Il mese di ottobre sarà decisivo per far fallire questa manovra, o assistere - disperati - alla sua riuscita. Ci sono molti appuntamenti decisivi. Tre soprattutto. Il referendum sul welfare, le primarie del Pd e il 20 ottobre. Da questo triplo salto può uscire la crisi politica o la tenuta del governo Prodi, ma non è questa l'unica incertezza: se Prodi resterà in sella, a seconda di come andranno le cose - e di come si svolgeranno i tre appuntamenti - potrà essere un Prodi costretto a svoltare a sinistra, sbattendo la porta in faccia a quelle componenti che anelano al regime, o invece un Prodi debolissimo, prigioniero degli industriali e dei settori più conservatori e "regimisti" del Pd.
Più si va a destra, più Prodi è debole, più si sposta a sinistra più si rafforza, anche se rischia i capricci dei vari Dini, i quali però non hanno molte carte da giocarsi salvo quella di minacciare di vendersi a Berlusconi. Operazione assai rischiosa, perchè li taglierebbe fuori dalla nascita del Partito democratico e li vedrebbe emarginati dalla vastissima area di potere che quel partito controlla, restando molto incerto il compenso che Berlusconi potrebbe garantire loro.
Per quello che riguarda la tenuta di Prodi, ieri l'Unità sosteneva che il rischio, per il premier, viene dal 20 ottobre. Cioè dalla manifestazione che abbiamo indetto noi insieme a il manifesto e a Carta. Non è così, chiunque lo vede. La nostra manifestazione potrà costringere Prodi a spostarsi a sinistra, ma non è decisiva per la sua tenuta o caduta. Quello che davvero è decisivo è l'appuntamento del 14 ottobre, cioè le primarie e la proclamazione di Veltroni. Ci sono un paio di ipotesi: che le primarie vadano bene al Pd, cioè con molti votanti, quattro o cinque milioni, e con un trionfo di Veltroni. In questo caso la leadership di Prodi sarebbe praticamente azzerata, e si tratterebbe di vedere solo quando e come Veltroni gli subentrerà alla guida. La seconda ipotesi è che le primarie vadano maluccio, cioè con meno di due milioni di votanti, o con un risultato non brillantissimo di Veltroni, e questo provocherà la fine della leadership di Veltroni, e un vero e proprio terremoto nel Pd che si ritroverà di nuovo acefalo. In tutte e due i casi per il governo saranno guai.
Anche gli altri due appuntamenti di ottobre sono incerti. Il referendum, si sa, lo vinceranno i gruppi dirigenti sindacali, ci mancherebbe. Cioè vincerà il si. Il sindacato è una macchina potentissima e ha un grande controllo sulle categorie più numerose, per esempio i pensionati. Però non basterà vincere il referendum, bisognerà vincere anche tra i lavoratori attivi, in particolare nelle fabbriche del nord e tra i metalmeccanici. Altrimenti ci si presenta alla trattativa politica con un "si" giuridicamente inoppugnabile, ma il cui valore morale e politico sarebbe molto ridimensionato.
Infine il 20 ottobre. State sicuri che se la manifestazione riuscirà e sarà grande, porterà molte frecce nella faretra della sinistra. E la sinistra ne ha bisogno, ne ha assoluto bisogno. Perché oggi - lo leggete su tutti i giornali, lo sentite dalle dichiarazioni dei dirigenti del centrosinistra - c'è una opinione assai diffusa che dice che la sinistra seria è quella che soggiace a qualunque diktat del centro, tace e porta voti. A una gran parte del mondo politico economico l'unica sinistra che piace, e che sembra adeguata alla modernità, è la sinistra morta. Se il 20 ottobre sarà molto forte, loro ci resteranno male, noi potremo sorridere.
* * *
Nell'operazione di spostamento a destra del paese - attraverso lo spostamento a destra del partito democratico - i sindaci Ds hanno avuto un gran ruolo. Sergio Cofferati è un po' seccato per il fatto che alcuni suoi colleghi, come Domenici di Firenze e Veltroni di Roma, lo hanno scavalcato in comportamenti moderati e benpensanti. Ed è corso ai ripari. Ieri ha annunciato che denuncerà gli organizzatori della street parade (manifestazione giovanile che si è svolta a Bologna, facendo infuriare Cofferati, il quale vorrebbe ammettere, in città, solo cortei dei cadetti dell'accademia di Marina) e che non parteciperà più a riunioni di comitati per l'ordine pubblico che permettono simili oscenità, come i giovani lasciati liberi per strada. Che volete? Ormai Cofferati è così. Domenica sera è stata leggendaria la sua intervista a Fabio Fazio. Prima Cofferati ha sostenuto che invece di affrontare i problemi grandi - come vorrebbe la noiosa sinistra massimalista - è meglio affrontare tanti problemi piccoli. Perchè tanti problemi piccoli valgono uno grande. Per esempio, invece di misurarsi col complicatissimo tema della speculazione, è meglio prendersela con un piccolo campo nomadi, un gruppetto di giovani che beve birra, qualche lavavetri, un po' di mendicanti, scacciare una decina di senza casa e altre cose così... se poi le metti tutte insieme, queste piccole cose, è come se avessi affrontato un problema grande come la speculazione, e ti senti meglio.
Fazio lo guardava un po' incredulo. E allora Cofferati ha spiegato che lui qualche anno fa, prima di fare il sindaco, faceva un altro mestiere. Ha detto che faceva il capo del sindacato, della Cgil. Fazio si è illuminato. Gli detto: «Ah, ecco: ma allora era lei? Sa che non la riconoscevo più? E' un sacco di tempo che quando la vedo, mi dico: ma io questo già l'ho visto da qualche parte...» . Cofferati sembrava soddisfatto e annuiva. Forse, preso nella sua parte di sceriffo, neanche s'è accorto della presa in giro.

Liberazione 2.10.07
Perché tutti quei delitti dietro il muro perbenista?
di Lea Melandri

Per fortuna non ci sono solo fidanzati, mariti, amanti che uccidono le donne. Apprendo con sollievo dall'articolo di Luca Stanzione e Daniele Licheni ( Liberazione 30. 9.07 ) che si è tenuto domenica 30 settembre a Roma, presso la Direzione nazionale del Prc, un convegno dei Giovani Comunisti "di genere maschile", convinti che il dibattito sul "totalitarismo patriarcale" non sia meno urgente della lotta "contro l'invasività dell'impresa", per cui dovrebbe inondare da subito la sinistra che si avvia a diventare "unita e plurale". Un anno fa era uscito un "appello", promosso dall'associazione Maschile Plurale, che portava come titolo: "La violenza contro le donne ci riguarda: prendiamo parola come uomini". Poche gocce nel mare del silenzio -‘omertoso', mi verrebbe da dire -, che ostentatamente politici ciarlieri, intellettuali logorroici, oppongono alla verità più inquietante che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi, molto più subdola e più nascosta dell'ingiustizia sociale, dello sfruttamento economico, della devastazione dell'ambiente? No davvero! Forse non è ancora il "sovvertimento" che si augurano Luca e Daniele, ma è uno di quegli ‘scarti', di quelle aperture, di quei passi a lato, che la coscienza storica fa raramente, che possono solo essere tenuti in ombra, repressi, ma non cancellati. E' quel "segnale dell'avvenire" che, simile all'"utopia" di Walter Benjamin, si annuncia come percezione acuta delle esigenze radicali del presente.
La goccia scava la pietra, dicevano i latini, ma oggi le poche voci che finalmente collocano stupri e omicidi di donne all'interno del dominio più duraturo della storia umana -quello di un sesso sull'altro-, facendone in questo modo una questione centrale della politica, si trovano davanti una muraglia fatta di ignoranza, falsa neutralità, indifferenza o arrogante diniego. Leggendo i giornali, ascoltando i notiziari televisivi sugli ultimi delitti, che hanno come vittima una donna, colpisce l'evidente schizofrenia tra i dati statistici - i "numeri" della carneficina che oltrepassa ogni confine di tempo e di luogo- e la narrazione che gli scorre a lato, preoccupata di riempire dei particolari più morbosamente orrorifici la scena in cui poter collocare il ‘folle' di turno. Ogni volta, con un rituale che dovrebbe far riflettere sulle ossessioni e sulle paure della nostra epoca, il ‘mostruoso' emerge dalla ‘normalità' di una casa, di una famiglia, di un paese, di una classe sociale, e sempre, anziché chiedersi che cosa nasconde quella facciata tranquilla di perbenismo, si sposta l'attenzione sul "raptus" momentaneo di follia che sottrae inspiegabilmente un individuo al suo ambiente, alla educazione ricevuta, alla sua appartenenza di sesso, ai suoi legami più intimi.
E' così che l'abnorme, l'osceno, l'imprevisto, facendosi esterno, "straniero" alla situazione da cui ha origine, viene opportuno e benefico a sollevare da ogni responsabilità collettiva, da interrogativi diversi da quelli processuali. Bruno Vespa, il gran cerimoniere di tutte le stagioni, di tutti i fatti e misfatti, ricostruisce a Porta a Porta la scena del delitto con puntigliosa dovizia di particolari, chiama i suoi esperti a far concorrenza a giudici e avvocati, appronta uno spettacolo e una audience assicurata per un discreto numero di sere. Perché arrivi agli spettatori un sia pur passeggero brivido per il perverso cinismo che passa in questo "normale" intrattenimento, occorre aspettare Luciana Littizzetto o qualche altra lucida scheggia di ironia. E ben vengano i comici, se, oltre a farci ridere, riescono a scoperchiare per un momento i sepolcri imbiancati del conformismo, dell'arroganza, della manipolazione irresponsabile di verità evidenti.
Evidente è che gli uomini violentano e uccidono le donne: non sono i malati di mente, i marginali, i pezzenti, i teppisti, i criminali noti, ma giovani "normali", rispettosi e avviati a buona carriera. Evidente è che il luogo primo di questo femminicidio è la casa, la famiglia, il luogo che sta in cima ai "valori" della retorica di destra, ma anche delle politiche sociali di una parte della sinistra, senza che nessuno si chieda se la violenza non nasca proprio da lì, da quei lacci famigliari che, istituzionalizzando l'infanzia, perpetuano al medesimo tempo lo sfruttamento del lavoro femminile gratuito, la lontananza delle donne dalla sfera pubblica, la subordinazione al potere maschile dato come "naturale", l'ideologia che le vuole eternamente madri. "La violenza contro le donne -ha scritto Marco Deriu- "parla sempre più di una mancata elaborazione e di un affanno maschile di fronte a una libertà femminile, piuttosto che di un potere maschile e di una sottomissione femminile". Se è sicuramente vero che la crescita di autonomia delle donne è sentita come una minaccia, per chi ha creduto finora di poter disporre del loro corpo e della loro dedizione incondizionata, chi, se non gli uomini stessi -a partire da quelli che rivestono posti di potere, di visibilità, di autorevolezza e di ascolto pubblico-, può cominciare a smascherare la falsa naturalezza di un dominio che si è fatto forte finora della separazione tra famiglia e società, della divisione sessuale del lavoro, del silenzio storico delle donne, o della loro difficoltà a farsi ascoltare, e che ancora oggi, astutamente, vorrebbe far passare la violenza di genere come un problema di "sicurezza"? Se il re ormai è nudo, i suoi imbanditori la fanno ancora da protagonisti sulla scena pubblica, e non c'è da meravigliarsi se la gente non riesce più a distinguere i paladini degli oppressi dagli oppressori. C'è almeno un caso in cui la confusione è totale, ed è la violenza sessista.

Liberazione 2.10.07
Le donne devono rompere con l'ordine patriarcale
Alla politica serve un partenariato equo, solidale, mite, ispirato alla condivisione e alla reciprocità
di Elettra Deiana

Rivoluzionare le relazioni tra i sessi a tutti i livelli, compresi i più alti della sfera pubblica e del potere politico, non può che far bene alla politica, offrirle un'opportunità e una concreta condizione per rianimare con efficacia il ruolo perduto e ritrovare una qualche credibilità, sociale e di senso. Con particolare evidenza in Italia ma in realtà quasi ovunque, la crisi della politica si manifesta anche nell'esasperazione, al limite del grottesco, del suo portato storico maschile, cioè del suo essere un'esperienza di, tra e per uomini, a cui le donne non hanno potuto accedere se non con molto ritardo e sempre in forme secondarie e aggiuntive, che non hanno mai veramente scalfito il grumo profondo - vera e propria dimensione antropologica - di quella complessa vicenda umana, maschile e "al maschile", che è stata la politica nella modernità. Oggi la politica in crisi continua a blaterare - e ad agire - con voce maschile su tutto, anche quando la gravità dei processi richiederebbe la sobrietà del dubbio, della sperimentazione, della circolarità; e anche quando è così evidente, ormai, la portata globale e spiazzante della rivoluzione femminile, i segni del conflitto e delle contraddizioni tra i sessi che essa ha reso evidenti, laceranti e che solo un'altra radicale antropologia politica e un'altra radicale dimensione del pensiero politico potrà assumere e agire positivamente.
Possiamo chiamarla - quest'altra dimensione - un partenariato tra donne e uomini. Io così la chiamo e penso a un partenariato equo, solidale, mite, ispirato alla condivisione e alla reciprocità, fondato sul riconoscimento dell'altro, sulla critica di ogni presunzione fondamentalista e di ogni appartenenza predeterminata. E capace di misurarsi radicalmente col principio della responsabilità pubblica verso il pianeta, la questione sociale, la pace nelle relazioni internazionali. Servono uomini e donne a questo, che attraverso una profonda condivisione dei percorsi avviino un nuovo corso, in primis morale, della politica. Perché la politica, ormai prigioniera della mercificata dimensione mediatica, non può fare altro che sbrindellarsi sempre più, tra il cinismo manifesto degli uomini di destra e quello, camuffato e talvolta mescolato a uno stucchevole buonismo, di quelli una volta di sinistra, mentre la piazza, da luogo del consapevole agire collettivo, rischia di trasformarsi nel buco nero del disagio e dell'impazzimento sociale.
Ma di tutto il rinnovamento della politica ha bisogno, fuorché di nuovi miti e di nuove mitologie salvifiche. Evitiamo di ridurre le donne a un mito un po' patetico. Invocare un ruolo più incisivo delle donne nelle istituzioni pubbliche e nei luoghi delle decisioni politiche, quelle che contano veramente, è prima di tutto e essenzialmente una battaglia democratica e di civiltà, che va ostinatamente perseguita, soprattutto in Italia, dove il monopolio maschile del potere continua a essere asfissiante. Ma da qui a pensare che da questo impegno, automaticamente, discenda chissà quale nuova qualità della politica ce ne corre. Le donne, solo per il fatto di essere donne, non possono fare molto per rinnovare veramente la politica. Il ragionamento vale ovviamente anche per gli uomini, soltanto che loro, invece, si ostinano a pensare di avere una innata e indiscutibile competenza per la sfera pubblica e non riflettono su quanto anche questa presunzione oggi concorra fortemente a screditare e delegittimare la politica. Già se riconoscessero il grottesco di quel loro pretendere di rappresentare tutto, parlare di tutto, decidere tutto e facessero un consapevole passo a lato, già questo sarebbe un bel contributo al rinnovamento della politica. Ma le donne, per essere davvero agenti del rinnovamento, dovrebbero rompere radicalmente con quel loro destreggiarsi tra adattamento e omologazione, con quella disposizione, che viene da lontano, a farsi legittimare dagli uomini accontentandosi soprattutto di compiacerli e ricavando per sé spazi a lato. In politica ciò è evidente. Si chiama complicità femminile con e nell'ordine patriarcale. Rompere dunque, facendo della loro storia materia grande della politica, a partire da un posizionamento politico, un'idea del mondo, una pratica pubblica. Molta parte dell'esperienza umana femminile e femminista ha trovato la ragione di fondo della sua forza di elaborazione teorica e di pratica politica nella scelta di posizionarsi e di partire da sé, cioè in un forte radicamento nel presente e nell'esperienza concreta. Questo è uno snodo essenziale per riconquistare autenticità e forza di coinvolgimento alla politica. Uno snodo su cui costruire e sedimentare pratica,comportamenti, rappresentazione di senso. La rivoluzione femminile ha fatto una breccia decisiva, reso evidente e ormai fuori di ogni discussione il problema dei rapporti tra i sessi come problema della politica. Ma è ancora un inizio su cui lavorare ma con la consapevolezza che non sarà un pranzo di gala. Presunzione maschile e complicità femminile: una nuova radicale antropologia politica che ne faccia radicalmente a meno.
*deputata prc

Liberazione 2.10.07
Bertinotti: «La sinistra è l'antidoto all'antipolitica»
Due ore di botta e risposta, domenica a Roma fra il Presidente della Camera e il giornalista Minoli
«Non mi sento affatto parte della casta». «Non servono leggi, i partiti devono autoriformarsi»
di Stefano Bocconetti


Le risposte sono lunghe, piene di racconti. Di esempi presi dalla propria storia. Risposte tutt'altro che diplomatiche, allora. Come del resto gli aveva chiesto Giovanni Minoli, che lo sta intervistando. Ma forse non c'è solo questo. Molto probabilmente di più pesa questo splendido ex cinema Universal stracolmo di persone. La sua gente. Che lo faranno «sentire a casa», come dirà più di una volta. «Di nuovo a casa».
Ecco perché le due ore di botta e risposta, domenica mattina fra Bertinotti e il giornalista di Mixer - che hanno concluso il prolungamento settembrino della Festa di Liberazione romana - sono stati assai diversi dai tradizionali dibattiti politici. Qui le domande sono state immediate, dirette. Come quando Minoli ha chiesto, quasi sorprendendo la gente: «Ma lei si sente parte della casta?». Anche la risposta all'inizio è stata immediata, secca: «No, per niente».
Ma poi s'è fatta più lunga, più articolata. Accompagnata da aneddoti, da tanti ricordi. Storie accompagnate dalle richieste di conferma rivolte alla moglie, Lella, che era lì, in prima fila. Storie di tanti anni fa, di quando Bertinotti sindacalista non riusciva a prendere lo stipendio. Neanche a Natale. E di come quella volta per avere almeno due lire in tasca per le festività, si decise di spedire una «delle compagne, che faceva un lavoro oscuro ma preziosissimo», a ritirare i "bollini" mensili. A ritirare la quota di iscrizione dei lavoratori al sindacato.
Una storia che racconta tutto il contrario della vita di un appartenente alla casta.
E ancora: Bertinotti svela di quando il Pci gli chiese di candidarsi alle politiche. In un collegio sicuro, in un momento in cui «i partiti erano ancora in grado di decidere chi sarebbe stato eletto». E lui disse di no. Gli interessava di più restare dov'era, al sindacato. Tanto da prendersi i rimbrotti di uno scorbutico Pajetta: «Ma dì un po', chi ti credi di essere che dici no ad una richiesta come questa?».
Parole informali, racconti, allora. Che la dicono lunga sul clima dell'incontro dell'altro giorno al teatro di via Bari. E che introducono al tema attorno al quale hanno ruotato le due ore di discussione: la crisi della politica, le risposte all'antipolitica.
Anche qui, nulla di scontato. Perché Bertinotti dice che sicuramente l'immagine che dà la politica è brutta, è percepita come bruttissima dall'opinione pubblica. E qui bisogna intervenire subito. Come del resto la Camera sta cominciando a fare, anche se nessuno - tantomeno la grande stampa - ne parla. E' molto tempo, però, che esistono sprechi e privilegi della politica. Solo che adesso c'è qualcuno - molti, in verità - che spingono per sollevare polveroni. Ma la risposta potrà venire solo dalla politica. «Perché è vero che la politica prende molto - come del resto prende molto in tutti gli altri paesi democratici, in tutto il resto d'Europa - ma quel "molto" è percepito come intollerabile fino a che la politica non sarà in grado di restituire». Di garantire servizi, welfare, redistribuzione sociale. Fin tanto insomma che non ci sarà «una buona politica».
Si parla di «politica» ma in realtà Bertinotti circoscrive il campo: perché il compito di rispondere all'antipolitica, spetta quasi solo alla sinistra. «E' la sinistra la principale, forse l'unica risorsa per sconfiggere la delusione». Per sconfiggere l'antipolitica.
A Minoli tutto ciò però sembra non bastare. Insiste, entra nel merito delle tante proposte che si leggono sui giornali in queste ore. Chiede a Bertinotti un parere sul progetto di Fassino illustrato in tante recentissime interviste. Progetto che magari Fassino avrebbe potuto trasformare in disegno di legge anziché limitarsi a farne scrivere i giornali (osservazione di Bertinotti che non è piaciuta al segretario diesse che ha subito replicato: «Non accetto lezioni su come si fa il parlamentare»). Ma il punto non è questo: per il Presidente della Camera è giusto intervenire. Ma la via non è quella legislativa, quanto l'autoriforma dei partiti. Anche per ciò che riguarda i candidati sotto processo. E pure qui un ricordo, di qualche tempo fa. Di quando il pool antimafia chiese a tutti i partiti di non inserire nelle liste siciliane anche chi era solo "sotto inchiesta". Cosa che Rifondazione ha fatto e altri no. Ma per libera scelta. Anche perché osserva Bertinotti esistono diversi tipi di reato: «E non si può mettere sullo stesso piano un sospettato di mafia con chi magari ha fatto un blocco stradale per difendere il proprio posto di lavoro».
I partiti devono autoriformarsi, allora. Ad un osservatore sembrerebbe un discorso destinato all'impopolarità. Ma non in questa sala che sottolinea quasi ogni suo passaggio con applausi fortissimi. E Bertinotti va avanti: e spiega che spetta proprio ai partiti ricostruire la partecipazione, la democrazia. Spetta a loro riprogettare un modello di società, ricostruire quel «tessuto» che aveva reso l'Italia un caso unico al mondo. Partiti che potrebbero, rapidamente - magari entro l'anno - scrivere una vera riforma elettorale che eviti il brutto quesito referendario e procedere speditamente ad una drastica riduzione dei parlamentare e dei senatori. Ma partiti, ancora, che devono guardare molto, molto più in là del contingente.
Devono ricostruire grandi soggettività. Di più: mettendo nel conto che un partito che avvia una ricostruzione di questa portata può anche perdere. Non se lo augura ma è una possibilità: «Perché ricordiamoci che Mitterrand perse due elezioni prima di far conquistare alla sinistra l'Eliseo».
Partiti, dunque. Che devono tornare ad essere lo strumento attraverso cui passa, si organizza la partecipazione delle persone, dei singoli, delle associazioni. Ed eccolo arrivato a parlare del 20 ottobre. «Mi chiede se si può stare al governo e organizzare manifestazioni di protesta? Davvero non riesco a capire: perché no?». E aggiunge che è sbagliata una sinistra condannata o a stare all'opposizione o al governo, a patto, però, di rompere i legami con la sua gente, la sua base. Esiste un'altra possibilità, esiste un altro modo di stare al governo. Ed è qui che Bertinotti sorprende di nuovo il suo interlocutore. Perché parla della manifestazione del 20 ottobre mettendola assieme alle primarie del nascente partito democratico, in programma una settimana prima. Il 14 ottobre. Li considera insieme, come elementi importanti di stimolo della partecipazione, come la ricerca di un nuovo modo d'essere dei partiti. «Indipendentemente dal giudizio che si può dare sulle due iniziative, indipendentemente su quale sia la collocazione politica delle forze che le hanno organizzate».
C'è un segnale, insomma, che viene dalle vicende di questi anni. Che viene dalla lettura di ciò che è accaduto in Europa, in Germania o in Francia. E' che laddove i partiti «rinunciano», laddove i «partiti» si fanno travolgere dall'antipolitica vince il governo dei tecnocrati. Vince chi ha fastidio dei partiti. Di quello strumento che è stato inventato e che resta il mezzo a disposizione delle persone. Per provare a strappare un po' più di giustizia.

lunedì 1 ottobre 2007

Corriere della Sera 1.10.09
Bertinotti. Lite con Fassino su Marchionne e tagli alla politica


ROMA — E' a distanza, ma è duro il botta e risposta tra Fausto Bertinotti e Piero Fassino sui costi della politica. Il presidente della Camera, a «Liberafesta», punzecchia il leader dei Ds, che giorni fa gli aveva scritto per chiedere di bloccare gli aumenti automatici ai deputati: «Le proposte di Fassino sui costi della politica? Sono condivisibili, ma non ho visto proposte di legge depositate da lui alla Camera...», la stoccata di Bertinotti, che al leader Ds rimprovera anche l'apprezzamento per l'Ad della Fiat Sergio Marchionne: «Tra Marchionne e il Papa sceglierei il socialismo e se tertium non datur, uscirei di scena».
Replica seccamente Fassino, ma solo sul tema dei costi della politica: «Bertinotti non può certo insegnarmi a fare il parlamentare, la sua è una polemica pretestuosa: dei 10 punti da me indicati, 5 li ho ritrovati in Finanziaria».

Corriere della Sera 1.10.09
Duello tra sinistra e moderati
Il presidente della Camera: partita aperta
Prodi: l'accordo non si discute. «Si va avanti come deciso, è chiaro che le Camere hanno libertà di azione»
di Francesco Alberti


BOLOGNA — Romano Prodi ce la mette tutta per non farsi rovinare la domenica del post-Finanziaria e alle 7 della sera, dopo aver esultato come un bambino di fronte al bis mondiale del ciclista e amico Paolo Bettini, con il quale anni fa pedalò per una settantina di chilometri tra i calanchi dell'Appennino reggiano, torna con la testa a Roma e alza disco rosso davanti all'ennesima offensiva della sinistra radicale su Welfare e dintorni: «Il protocollo non si tocca— dice deciso ai microfoni del Tg3 —, è stato firmato con le parti sociali e non si può cambiare in modo unilaterale... ». Nessuna intenzione quindi di trasformare il Consiglio dei ministri del 12 ottobre, chiamato a ratificare l'accordo, nell'ennesimo percorso di guerra: «Si va avanti come deciso...». Poi, naturalmente, le logiche del Parlamento seguiranno il loro corso («E' chiaro — aggiunge il premier — che le Camere hanno ampia libertà d'azione»): ma questo è l'unico spiraglio che il Professore concede alle speranze dei vari Bertinotti e Ferrero, cercando di placare i timori (e le minacce) di Dini, Bonino e compagnia.
Domenica troppo breve per riprendersi dagli affanni della maratona sulla Finanziaria. Ma sufficiente comunque a consolidare in Prodi la convinzione che, con il varo unanime della manovra, «è stato fatto un passo importante», una sorta di ricostituente per la salute sempre gracile della maggioranza e dell'esecutivo. Anche se nessuno sottovaluta le mille trappole che nei prossimi due mesi attendono la Finanziaria in Parlamento, il Professore trova comunque ragioni d'ottimismo in due considerazioni. La prima: «Questa manovra è stata voluta e gradita da tutti i ministri, da tutte le componenti dell'esecutivo, e se quindi qualcuno in Senato non la votasse, beh, non lo capirei proprio». La seconda: «Stiamo cominciando, come promesso, a restituire. Nella Finanziaria le tasse calano e la prova è data dal taglio del-l'Ici, che diminuisce drasticamente ». Il sereno però finisce qui e tra le tante nubi che appesantiscono l'orizzonte la più minacciosa resta quella sul Welfare. Alla sinistra, che non si rassegna all'idea che la partita sul Protocollo sia chiusa, Prodi ricorda che l'accordo «sarà esaminato e approvato nella seduta del Cdm del 12 ottobre» e, aggiunge, la decisione di rinviarla a quella data nasce principalmente dal fatto che l'agenda dell'ultimo Consiglio dei ministri «era pienissima». Un rinvio tecnico, quindi, a detta del premier. Ma che comunque cade a puntino per il governo: se infatti, come probabile, il referendum che si terrà il 10 ottobre nelle fabbriche sancirà il via libera dei lavoratori al Protocollo, per la sinistra diventerà piuttosto complicato continuare ad incalzare il governo sulla necessità di rimettere mano all'accordo.
Anche perché, nel frattempo, Prodi intende capitalizzare al massimo la «leggerezza » di questa Finanziaria, esaltandone i vantaggi per la collettività. Un martellamento che avrà al centro il tema tasse: «Noi seguiamo il programma — afferma —: l'anno scorso abbiamo compiuto un'azione di risanamento. Ora si comincia a ridistribuire e, se la lotta all'evasione continuerà a funzionare, daremo altre soddisfazioni ai contribuenti». L'ultimo pensiero è per il Pd, a 14 giorni dalle primarie. Oggi il Professore incontrerà i candidati alla segreteria per dire loro che sogna «un partito forte e con l'anima ». Altra scommessa.

Corriere della Sera 1.10.09
Giordano: «Romano eviti di dare ordini»


ROMA — «Noi non stiamo agli ordini di Prodi»: la prima reazione del leader del Prc, Franco Giordano, quando i collaboratori gli leggono le parole del presidente del Consiglio è una staffilata.
Il commento ufficiale è assai più cauto. Il segretario di Rifondazione comunista sa che sta per aprirsi, in seno alla maggioranza, l'ennesimo braccio di ferro e vuole soppesare parole e modi.
Ma la Cosa rossa non è da sola in questa vicenda. Anche dalla Cgil giungono proteste. Guglielmo Epifani ripete ai suoi: «Quest'accordo non è intangibile: mi stupisco di certe dichiarazioni».
Sì, per la Cgil l'intesa non è intangibile e non lo è neanche per Giordano. Il leader del Prc con i compagni di partito usa toni ben diversi da quelli ufficiali. Alla stampa affida solo queste parole: «Il presidente del Consiglio sa benissimo che ci sono alcuni punti di quell'intesa su cui Rifondazione comunista non è d'accordo. Il Parlamento è sovrano, lo dice lui stesso, quindi cercheremo di cambiare l'accordo nelle aule perché così com'è non possiamo votarlo».
Ma con i fedelissimi il leader del Prc è meno diplomatico: «Prodi — spiega — sta cercando di barcamenarsi perché vuole stemperare la polemica che si è aperta su questo argomento, vuole che le acque si calmino prima del Consiglio dei ministri del 12 ottobre». Dopodichè il leader del Prc confida che l'inquilino di palazzo Chigi, al di là della fermezza dei toni assunti ieri, voglia «modificare l'accordo»: «Credo che alla fine apporterà delle modifiche su alcuni punti, non penso che lascerà veramente l'accordo così com'è».
Ma Giordano sa che Rifondazione comunista, in questo frangente, potrebbe essere «il capro espiatorio» di quella crisi di governo che non si è aperta sulla Finanziaria, ma che si potrebbe aprire sul capitolo Welfare e pensioni. «Mi rendo conto — è la riflessione ad alta voce che il leader del Prc affida ai collaboratori — che a qualcuno ha dato fastidio il nostro ruolo nella discussione sulla Finanziaria che segna un piccolo passo avanti nella direzione della ridistribuzione. Ed è chiaro che ci sono poteri, come le banche o le grandi imprese, che temono di subìre un contraccolpo dalla modifica dell'accordo. Noi, però, abbiamo sempre agito con grande trasparenza, se poi gente come Lamberto Dini vuole utilizzarci come alibi per i suoi giochi di palazzo questa è un'altra storia. Non è che noi possiamo restare immobili per questa ragione. Prodi sa che la sua coalizione deve rispondere anche ai lavoratori e sono loro che noi vogliamo rappresentare, non gli interessi di una parte». Già, i lavoratori che si esprimeranno proprio alla vigilia del Consiglio dei ministri del 12 ottobre, quello in cui verrà discusso l'accordo sul Welfare. Ma l'esito di quel referendum è scontato: vinceranno i sì all'intesa, se non altro perché nelle assemblee è vietato spiegare le ragioni del «no» («Il sindacato è l'ultimo pezzo di Bulgaria comunista rimasto in Europa», è il commento malizioso di uno dei leader della Fiom, Giorgio Cremaschi). E infatti non è che a Rifondazione comunista si aspettino sorprese dal risultato. Anche loro danno per acquisita la vittoria dei «sì». «Ma— avverte Giordano — sarà un risultato che andrà letto e interpretato. Se c'è disagio, e ci sarà, va ascoltato, non si può chiudere la questione dicendo "hanno vinto i sì". Sarebbe una pazzia: nessuna persona saggia lo farebbe. E penso che non vorrà farlo neanche il presidente del Consiglio...».
A Rifondazione, insomma, sono sicuri che vi saranno delle fabbriche dove vincerà il no, fabbriche significative, e ritengono che minimizzare certi segnali sarebbe una sciocchezza, tanto più in un momento come questo in cui la politica non è che sia troppo amata. Giordano comunque di un'altra cosa è convinto: «Se ci ascoltassero e capissero che noi agiamo sempre in perfetta coerenza eviterebbero i drammoni a cui poi bisogna porre rimedio all'ultimo minuto. Che a noi questo accordo non piaccia è noto, come è nota la nostra decisione di non votarlo se non cambia».

Corriere della Sera 1.10.09
Bertinotti: giochi aperti sul welfare Dai «moderati» altolà alla sinistra
di Roberto Zuccolini


No da Damiano e Rutelli. Ferrero rilancia, la Bonino lo gela: irricevibile Il presidente della Camera contro Bossi: le sue parole generano odio

ROMA — Giusto poche ore per assaporare il «gusto» della Finanziaria approvata dal Consiglio dei ministri e subito per il governo ricomincia un nuovo tormentone che si chiama Welfare. Ad aprire il discorso è Fausto Bertinotti che, alla festa di Liberazione, non ha problemi a dire che sull'accordo siglato questa estate con le parti sociali «la partita è ancora aperta». Lo stesso pensa tutto il suo partito, Rifondazione comunista e, con diverse sfumature, il Pdci, Sinistra democratica e Verdi. Tanto che la domenicale levata di scudi fa subito insorgere i moderati del governo, dal ministro del Lavoro Cesare Damiano a Francesco Rutelli, che, a loro volta, promettono: «Il patto non si tocca». E assicurano che il 12 ottobre, quando se ne parlerà in Consiglio dei ministri, non ci saranno cambiamenti.
Il presidente della Camera parla di «partita aperta» ed è convinto che, «come si è fatto con la Finanziaria, si possa lavorare a una soluzione che accontenti tutti, soprattutto lavoratori e pensionati». In altre parole, auspica una nuova trattativa, pari a quella che c'è stata per la manovra economica, di cui — precisa — «dirsi orgogliosi sarebbe troppo».
«Il Welfare — spiega — è un passaggio impegnativo: è una delle questioni più importanti per la vita di un Paese e, di conseguenza, per la vita concreta delle persone. La precarietà è una malattia sociale. E non ci sarà vera democrazia e vera Europa senza combattere a fondo la precarietà ».
È un Bertinotti d'attacco, anche perché gioca in casa: «È in corso una consultazione molto importante tra i lavoratori». Cioè il referendum sul protocollo del Welfare. Ma, a suo giudizio, «la sinistra non deve essere la carta assorbente delle decisioni dei sindacati» mantenendo la sua autonomia: «Il giudizio della Fiom va tenuto in conto. Come anche il fatto che quattro partiti della maggioranza chiedono cambiamenti». E paragona il corteo del 20 ottobre contro il patto sul Welfare al voto per le primarie del Pd: «Sono appuntamenti della democrazia». Bertinotti parla anche di molte altre cose. Che, ad esempio, non sarà lui a guidare la Cosa rossa, che «la popolarità» di Veltroni supplisce ad un Partito democratico nato «senza programma», che «entro l'anno» si potrebbe ridurre il numero dei parlamentari. E se la prende con Umberto Bossi che il giorno prima aveva invitato alla «liberazione» il popolo padano: «Parole come quelle possono contribuire in modo drammatico a generare odio».
Ma per tutta la giornata è il tema del Welfare a dominare. Da Margherita e Ds giungono precisi altolà. Per Francesco Rutelli «il Protocollo è intoccabile». E lo stesso dice il ministro del Lavoro Cesare Damiano: «È ovvio che il governo tradurrà integralmente l'accordo». Escludendo quindi ogni margine di manovra. Mentre il socialista Enrico Boselli risponde direttamente a Bertinotti: «Dovrà rassegnarsi al voto dei lavoratori».
Il segretario dei Ds Piero Fassino getta acqua sul fuoco: «Non c'è una spaccatura nella maggioranza». Ma Franco Giordano (Prc) va all'attacco: «Se dal referendum dei lavoratori emergerà una sofferenza, il Protocollo dovrà essere cambiato». E tutti, nella sinistra radicale, dal Pdci a Sinistra democratica, definiscono «assurda» l'intangibilità del patto. Il leader dei Verdi, Alfonso Pecoraro Scanio, è però più prudente: «È vero che il Protocollo non è intoccabile, ma non può neanche essere stravolto ». Si assiste infine ad un duello tra ministri. La radicale Emma Bonino se la prende con il titolare della Solidarietà Sociale, Paolo Ferrero (Prc), favorevole ad una correzione dell'accordo: «Ciò che dice è irricevibile. Contraddice il presidente del Consiglio». Risposta di Ferrero: «Di irricevibile c'è solo la possibilità che peggiorino le condizioni dei lavoratori e dei pensionati»

Corriere della Sera 1.10.09
Politica e tv. Affondo del presidente della Camera. E il cda si divide. Curzi: parole giustissime. Urbani con Floris: è bravissimo
E Fausto difese Clemente: Ballarò? Sono a disagio
di Paola Di Caro


ROMA — Sembrava una polemica chiusa, quasi con il lieto fine se è vero che Clemente Mastella, al centro del caso televisivo del momento, la sua partecipazione a una «calda» puntata di Ballarò, aveva ricevuto la solidarietà di quasi tutto il mondo politico e l'onore delle armi dal suo «nemico» Beppe Grillo. Ma ieri, la querelle si è riaperta. Perché dal suo blog il comico genovese è tornato ad attaccare (indirettamente) il leader dell'Udeur, stavolta in qualità di Guardasigilli, per il caso del trasferimento del pm di Catanzaro De Magistris e della conseguente sospensione di un gruppo di studenti che avevano manifestato in suo appoggio: «Ci vogliono 10, 100, 1000 De Magistris». Ma soprattutto perché a censurare pesantemente l'atteggiamento della «tivù pubblica» nei confronti di Mastella è sceso in campo Fausto Bertinotti.
Il presidente della Camera, che già nei giorni scorsi si era espresso criticamente sulla contestata puntata di Ballarò, è tornato ieri sull'argomento durante la festa di Liberazione. E a Giovanni Minoli che lo intervistava, così ha risposto sul caso Mastella: «Mi trovo umanamente a disagio, e trovo inaudito che il servizio pubblico possa fare una operazione da capro espiatorio, in cui in discussione non è il politico, ma la persona, la sua famiglia ». E ancora: «Il rispetto è un elemento di civiltà, altrimenti la politica diventa barbarie. E io contro la barbarie mi ribello».
Al presidente della Camera non arrivano repliche ufficiali dai vertici di viale Mazzini. Non parla il presidente della Rai Claudio Petruccioli, e nemmeno il conduttore della trasmissione, Giovanni Floris, interviene nella polemica. Ma a dimostrazione che il caso resta aperto, e non solo per il singolo episodio quanto per i difficili rapporti tra tivù e politica, ci sono le diverse opinioni di due consiglieri di amministrazione della Rai come Giuliano Urbani e Sandro Curzi.
«Bertinotti? Tutto condivisibile, giustissimo, da sottoscrivere: ma come mai il presidente della Camera protesta solo ora per il trattamento riservato a un politico? Potrei citare molti altri casi scandalosi come e più di questo, spesso riguardanti esponenti della mia parte politica, ma lo scandalo arriva solo ora», si amareggia Giuliano Urbani, che fu tra i fondatori di Forza Italia. E che non ci sta a creare un nuovo «capro espiatorio»: «Ballarò non è stato certo il caso più grave di giornalismo sbagliato: anzi, Floris è bravissimo e fa belle trasmissioni, sarebbe ingiusto prendersela con lui solo per questo episodio. Certo, se si fosse seguito di più il modello Vespa in Rai— niente aggressioni e più approfondimenti — la barbarie sarebbe stata minore di quella a cui assistiamo, perché ricordiamolo: il linciaggio non è tra i doveri della libera informazione ».
Molto diverso il giudizio di Sandro Curzi, che condivide in toto le parole di Bertinotti e che ha apprezzato moltissimo «proprio l'intervista pubblica che gli ha fatto Minoli: incalzante, approfondita, rapida, senza ossequio nè ostilità. Quello sì che è un giornalismo da imitare...». Detto questo, all'ex direttore del Tg3 i talk show attuali sembrano «poco adeguati ad affrontare la difficoltà di questa seria crisi della democrazia che stiamo vivendo: compito del giornalismo è alzare la testa e tenere la schiena dritta, ma non bisogna fare i "grillini", perché una cosa è il comico altra il giornalista, una cosa le inchieste belle— come quelle di Report — che magari ti dicono cosa può aver combinato il Mastella di turno, altra sono le trasmissioni che vivono sulle disgrazie del politico: lì il gioco è falsato, fare la caccia alla volpe quando si è in tanti cani è troppo facile...».

l’Unità 1.10.09
Bertinotti: le parole di Bossi creano odio
Contro le minacce della Lega tutto il centrosinistra. Finocchiaro a An: resterete alleati?
di Giuseppe Vittori


Bertinotti preoccupato: parole che «generano odio». Anna Finocchiaro decisa: Fini dica se vuole restare alleato alla Lega. Parisi sarcastico: la CdL non governa nemmeno le sue parole. L’ultima sparata di Bossi continua a tenere banco. Il giorno dopo la chiamata dei popoli del Nord alla «guerra di liberazione» evocata dal Senatùr, il presidente della Camera Fausto Bertinotti non nasconde i timori e contrattacca: dichiarazioni di quel tenore «possono contribuire in modo drammatico a generare odio, in una società dove sono in atto tendenze disgregatrici. Capisco che è un periodo in cui chi la spara più grossa ha i titoli. Ma io non sono per accettare come innocente chi la spara grossa». L'ex leader di Rifondazione non accetta le parole d'ordine del Carroccio: «Non puoi usare un termine come guerra di liberazione. Primo, perché parli di guerra nel tuo Paese, e poi perché per noi di guerra di Liberazione ce ne è solo una, quella contro i fascisti».
Dello stesso avviso è la capogruppo dell'Ulivo alla Camera, Anna Finocchiaro, che ribadisce l'intenzione di portare la questione in Parlamento e chiama nuovamente in causa gli alleati delle camicie verdi. Nel mirino ci sono An e il suo leader Gianfranco Fini. «Avevo già chiesto quale fosse l'opinione di An. Torno ad insistere: chiedo a Fini di sapere se, dopo quello che è avvenuto, ritiene di proseguire nella sua alleanza politica con la Lega Nord. Noi e tutti gli italiani vorremmo avere una riposta chiara».
Le contestate parole del leader leghista non lasciano indifferenti né il ministro della Difesa Arturo Parisi, per il quale «la Cdl dimostra di non saper governare le proprie parole», né il ministro della Famiglia Rosy Bindi: «Bossi può urlare quanto vuole - spiega - ma dovrà confrontarsi nel lavoro parlamentare con la modifica della Costituzione e della legge elettorale, nel rispetto della Costituzione».
L’udeurrino Mauro Fabris provoca: «La CdL si decida: o Bossi è un alleato credibile o è un millantatore». Mentre per Pecoraro si tratta di «parole inaccettabili».
Nel centrodestra regna il silenzio. I leader non si pronunciano. Parla solo il segretario dell'Udc Lorenzo Cesa, e lo fa per criticare Bossi e bacchettare Bertinotti, rispolverando gli «opposti estremismi»: «I veri moderati devono contrastare, come hanno sempre fatto, gli opposti estremismi che minano alla base governabilità e confronto democratico. Con le provocazioni di Bossi non si costruisce una valida alternativa al centrosinistra. E spiace che alcuni amici del centrodestra non lo capiscano. E sbaglia Bertinotti, che con il suo doppiopesismo assolve sempre e comunque la sinistra e concentra le critiche solo in una direzione».

l’Unità 1.10.09
Violenza sulle donne. Solo nel 2006 le vittime sono state 112
Come la Spagna ha affrontato il drammatico problema

Escalation impressionante, ma l’Italia resta a guardare
di Maria Serena Palieri


Settanta e centododici. Tenete a mente queste due cifre. La prima, settanta, è il numero di donne uccise in un anno in Spagna per quei motivi che tradizionalmente si chiamano «passionali»: è la cifra che lì ha fatto scattare l’allarme rosso e che, nel 2005, ha ispirato l’adozione di misure ad hoc, la più importante i «tribunali di genere», corti specializzate nei reati che maturano in quel territorio specialissimo che sono i rapporti tra i due sessi. La seconda, centododici, è quella delle donne che, nel 2006, in Italia, sono state vittime di un «amore criminale», come diceva il titolo di una bella trasmissione di Raitre: donne uccise, cioè, da un uomo cui erano affettivamente legate, marito, fidanzato, ragazzo, compagno, amante, oppure da un uomo che aspirava a essere tale, ma a cui loro, le vittime, avevano detto «no».
Stando alle cronache, nel 2007 il numero dovrebbe crescere: il viso sorridente di Chiara di Garlasco è ancora sulle prime pagine, ed ecco affiorare da un laghetto alle porte di Torino il corpo di Sara, uccisa da Nando Locampo, ammiratore respinto (sembra) e reo confesso.
Quanto deve salire il numero perché, anche da noi, scatti l’allarme rosso? Non è chiaro che un «femminicidio» così ha dei motivi che vanno oltre la sfera del privato: che affondano (anche se gli assassini non lo sanno) in un’emergenza, in uno stato attuale dei rapporti di potere tra i due sessi, in una crisi dell’identità maschile dove si mescolano, con esiti come questi sanguinari, tragica fragilità e tragica protervia? Affrontare questo tipo di reati per ciò che sono, delitti cioè che maturano dentro il territorio particolare - specifico e complesso - dei rapporti tra i due sessi, richiede uno sforzo culturale. Non usiamo la parola «rivoluzione» perché siamo convinte che, nel nostro Paese, sono in molte e in molti ad averlo capito, questo. Un governo progressista (un governo di centrosinistra almeno questo dovrebbe essere, no?) dovrebbe fare lo sforzo di cominciare a usare degli strumenti culturalmente adeguati: se più di cento donne vengono annualmente uccise «per amore», e se il numero cresce, questi casi non possono finire genericamente alla voce «omicidi». Li si guardi per quello che sono. E, per ciò che sono - il frutto tragico di una guerra che corre sottotraccia - li si affronti: protezione per chi è vittima di quella molestia ossessiva, quella «amorosa» persecuzione che spesso precede la mattanza? tribunali ad hoc? programmi di formazione per ragazzi e ragazze nelle scuole?
Noi siamo convinte che la politica, in questo campo, possa fare: la riforma della legge sulla violenza sessuale, per esempio, se non ha ridotto il numero degli stupri né ha aumentato, se non in modo non davvero rilevante, il numero delle denunce, ha almeno prodotto commissariati più accoglienti per le vittime e aule di tribunale più umane verso di esse.
Sono riforme e provvedimenti a costo zero o limitato, costano solo voglia di guardare la realtà in faccia, onestà intellettuale, un po’ di immaginazione. E lavoro d’équipe tra diversi ministeri, Pari Opportunità, Istruzione, Giustizia, Interno, Solidarietà sociale. Ah, già: porteranno voti? Per caso è questa la domanda - orribilmente disincantata - che dovremo porci se, nelle prossime settimane, invece la politica non farà un bel niente?

l’Unità 1.10.09
2007, noi e quel film che chiamiamo vita
di Beppe Sebaste


UN SONDAGGIO di «Focus» dice che due italiani su tre credono ai fantasmi. Ma cosa significa questa parola - «fantasmi» appunto - in un’epoca in cui la tecnologia «riproduce» e mantiene vivo anche ciò che non c’è più?

«I fantasmi sono crudeli, con la realtà ci si può sempre arrangiare». Questa frase diciamo «romantica» la feci mia negli anni 70: l’epoca non la contraddiceva. Ha ancora un senso quando la cosiddetta realtà si rivela consistere della stessa sostanza di cui sono fatti i fantasmi (più o meno crudeli che siano)? E di che sostanza è fatto un fantasma? Ombra, sogno, eidolon, immagine, come quella della madre che Enea incontra nell’Ade (Eneide, XI), ma quando cerca di abbracciarla dolorosamente svanisce. Non è la stessa esperienza (rovesciata) che provò il pubblico convenuto al primo film dei fratelli Lumière, quando tutti scapparono alla vista del treno? A parte le analisi pur pertinenti di Jean Baudrillard, ogni volta che ascoltiamo un disco - che sia la voce di Billie Holiday o quella di Mina - abbiamo a che fare con la presenza di un’assenza, diciamo pure un fantasma. L’universo di copie e cloni che inonda la nostra vita tecnologico-estetica, a cui si aggiungono i robot e tutte le inquietanti forme di sostituzione del corpo, sono segni di una fantasmatizzazione della realtà. Senza bisogno di Internet, si parla di fantasmi (secoli prima di Kafka) a proposito delle lettere, e la metafisica della scrittura che rende presenti gli assenti è oggetto di trattati dal I° secolo a. C. Ma dobbiamo riconoscere al cinema di essere la più eclatante attestazione dell’esistenza dei fantasmi, materializzazione di quell'ombra dell’Ade. L’equazione cinema-fantasma è così evidente che Orson Welles la celebrò con poetica nostalgia nelle scene del suo magnifico e incompiuto Don Chisciotte, quando il cavaliere si precipita a cavallo contro uno schermo su cui sono proiettate delle immagini. I mulini a vento, o più esattamente i Giganti, non sono altro che (il) cinema.
Ora, un sondaggio pubblicato dalla rivista Focus rivela che due italiani su tre ai fantasmi ci crede, e uno su due ne ha visti. Che cosa significa? Dal momento che, Eduardo docet, «siamo noi i fantasmi», dovremmo abituarci a convivere se non altro con l’inquietudine del vederci dal di fuori, duplicati, estranei, «così vicini e così lontani», fantasmi appunto. In fondo, anche il concetto marxiano di «alienazione» appare arcaico, e i romanzi di fantascienza paranoica e psico-teologica di Philip K. Dick appaiono come documentari. Mi dice Enrico Ghezzi, «il cinema è la punta di un iceberg di un immane apparato di registrazione che segna una svolta nella storia dell’umanità: la possibilità di rivedere la propria vita».
Tutto questo, e molto altro, è scaturito dall’ultima edizione del Festival «Il vento del cinema» che si svolge ogni anno a Procida, sotto la direzione artistica, appunto, di Enrico Ghezzi. L’intensa rassegna appena conclusa era dedicata ai temi dell’al di là e del fantasma. Titolo: After life. Film meravigliosamente antiquati e attualissimi alternati al dibattito filosofico (tra i presenti, il filosofo Boris Groys), sullo spettro di sensi di questa formula, after life - «dopo la vita», ma non necessariamente «dopo la morte». Continuo a parlare con Enrico Ghezzi anche dopo il festival. Parliamo soprattutto di alcuni film, quelli di Evgenii Bauer («il primo vero e grande cineasta del fantasma»), i documentari di Frederick Wiseman, il bellissimo film del giapponese Kore-eda Hirokazu, che si chiama appunto After life.
Sembra un racconto di fantascienza ma è centrato sul cinema. Nell’ufficio spoglio in cui si ricevono delle persone, solo a un certo punto lo spettatore viene a sapere che tutti i personaggi sono morti, e i nuovi arrivati devono scegliere ognuno il ricordo preferito da vivo, con il quale sarà composto un film. Il resto della memoria verrà cancellato. Girato quasi tutto a piani fissi, il film è una celebrazione della vita ordinaria, perché i ricordi scelti sono immancabilmente comuni. Per questo viene da chiedersi: ma i film sull’al di là non raccontano poi tutti l’immanenza dell’al di qua?
«Il cinema - dice Ghezzi - può essere pensato come la costituzione di un certo ammasso di after life. È il discorso dei fratelli Lumière, costituire un magazzino di piccole immortalità. Ho usato questo termine molto americano, after life, che non è religioso, non indica né una durata né uno spazio, una vita dopo la vita, ma l’indicazione tecnica dei Lumière è molto bella. Da una parte dice la conservazione, una possibilità di tenere dei tempi di vita (io a dieci anni volevo registrare tutta la vita di mia nonna); dall’altro l’uso poliziesco dell’archivio, come controllo. Di fatto però questo meccanismo di controllo, questo ri, della registrazione, è un inveramento-avveramento di tutte le prospettive after, anche quelle religiose. Il mondo col cinema (con la registrazione, la fotografia), comincia a un certo tempo a ri-vedersi. Pensa alle fotografie di Muybridge, come la famosa fotografia del galoppo del cavallo. Per la prima volta, a partire dalla fine dell’Ottocento, l’umanità ha la possibilità di un ri-vedersi tecnico, rivedersi ed essere visti da altri. Da quel momento il mondo si scinde. La mia deduzione forse eccessiva è che da quel momento inizia una sorta di sospetto (anche paranoico, alla Dick), in cui rientrano Freud e l’idea stessa di archivio, con l’installarsi della registrazione come orizzonte, di cui il cinema è il momento più eclatante. L’ossessione di certi vecchi film per l’aller-retour, l’avanti e indietro dell'immagine, ne era in certo modo la spia».
È un caso che gran parte dei film recenti guardino la vita dalla prospettiva di un al di là? Citando a caso, mi vengono in mente American beauty, Donnie Darko, Il sesto senso, The others... «Nei film hollywodiani l’after life è ormai un vero proprio genere. Anche in film normalissimi c’è un momento after life. Il territorio mentale del cinema americano non è più il territorio-pianeta, ma un territorio interiore dissodato e immaginato, con molte cadute di gusto, da una compresenza dell’al di là, l'immaginazione di un al di là, ma immanente. Nel cinema americano il cinema si qualifica come luogo dell’after life non solo per un legame narrativo, ma perché si riconosce esso stesso così, ciò che poi era dalle origini».
C’è una singolare coincidenza tra i nostri riferimenti. Nella letteratura (da anni cerco io stesso di comporre un romanzo sui fantasmi) mi affascinano i libri la cui trama nasce da un’idea di archivio, di catalogo, di memoria, trovando gli effetti più romanzeschi in una sorta di «documentario», con l’uso di documenti veri e propri: lettere, fotografie, ritagli di giornali ecc. Come il film (e il libro) di Alina Marazzi, Un’ora sola ti vorrei; o il bellissimo I passi sulla testa (Bompiani 2007) di Giuseppe D’Agata, dove un fantasma, letteralmente, che rumoreggia al piano di sopra, interferisce con l’attività di catalogazione della biblioteca del narratore, di cui solo una piccola parte potrà sopravvivere al trasloco (tra i cui titoli, nomi, «fantasmi», appare anche il sottoscritto). Tutto questo rientra nell’ambito dell’after life, «postumo» dello still life (che, con luttuosità tutta italiana, noi diciamo «natura morta»). Ma ha anche a che fare con la poetica del fantasma - dello sfumato, della cancellazione, della parvenza - come gli oggetti della vita ordinaria degli individui, o i loro volti anonimi, sgranati e ingranditi, che popolano le esposizioni di Christian Boltanski.
Ghezzi: «Il cinema nasce proprio su queste basi, sorta di materializzazione del fantasma, più che sul sogno, che secondo me è il falso schermo del cinema. È affascinante che sia nato insieme alle prime analisi freudiane, e della Psicopatolologia della vita quotidiana, ma è solo una bella coincidenza. Il tipo di registrazione freudiano si basa sulla memoria, su ciò che non si può dire del sogni. Il cinema è già sogno. Nel sogno comunque l’after life è un’esperienza comune e continua, perché è parte dell’attività cerebrale, anche senza parlare del déjà vu (il cinema è un accumulazione abissale di déjà vu). Ma il sogno non ha tempo, ed è la sua dimensione più affascinante e paradossale, che lo porta oltre l’immaginazione dell’after life. Nel sogno sei coinvolto in uno stato intermedio, sei una specie di fantasma, ma anche narratore».
Tutto torna. Ma non è proprio il senso dei fantasmi (revenants) quello di «tornare»? Arte, cinema, letteratura, la nonna, il canto XI dell’Eneide, la madre che non puoi abbracciare, il Don Chisciotte di Orson Welles, cui Giorgio Agamben ha dedicato una pagina importante del suo Elogio della profanazione. Ma cosa lega più precisamente il fantasma all’after life, ed entrambi alla nostra epoca? Boris Groys pensa che la platonica metanoia (anticipazione dell’immortalità dell’anima nella postura dei veri filosofi) sia oggi possibile come anticipazione dell’immortalità dei corpi (l’evidenza che la vita del corpo, in una decomposizione virtualmente infinita, continua). Sostiene che la storia dell’arte moderna e contemporanea sia dalla parte del cadavere (le opere come cadaveri degli oggetti, di cui esibiscono la materialità pura). Di fatto, se la cultura di massa prospera sulla figura di vampiri, zombi, cloni e macchine viventi, per Foucault esistono luoghi - cimiteri, musei, biblioteche, discariche di rifiuti - in cui, per «eterotopia», umani e cose sono spostati in uno spazio altro, separato, come quello dei non-morti. O come gli oggetti di un archivio, un tempo vivi e funzionali.
«Noi - aggiunge Ghezzi - stiamo vivendo oggi letteralmente l’esperienza dello zombi o dell’undead, non solo come società ma come pianeta. Se pensi al discorso sulla rovina del pianeta, la nostra autocolpevolizzazione. Non c’è politico che lo dica, ma alcuni filosofi sì. I politici sono amministratori che non ammettono nemmeno di parlare della morte». È il discorso dell’immunità dei politici al tempo, contro la comunità, tutt’uno con la mortalità. «Sì, il tema che unisce i due corni del dilemma è questo, e lo abbiamo affrontato in una scorsa edizione del festival dal titolo "Rest-aura": l’invecchiamento, il reimbellettamento del film, l’after life del cinema stesso. Tendere all’immortalità, all’eternizzazione dei corpi, e insieme all’immateriale, che collide con la conservazione dei corpi. L’11 settembre è stato anche questo...».
Allora, siamo noi i fantasmi? Come in Film, scritto da Samuel Beckett per Buster Keaton, all’insegna del berkeleyano «esse est percipi» (essere è essere percepiti)? Riepilogando: è questo, il nostro mondo presente e normale, l’al di là: visto da un ri, o da un punto in cui si vede il ri, il rivedersi della registrazione. Ghezzi mi cita questa frase di Kafka: «abbiamo fatto il positivo, ora resta da fare il negativo». Anche Godard pare l’abbia usata.
A Napoli, proprio nei giorni del festival, si è inaugurata la mostra Images, fotografie dal set dei film di Bernardo Bertolucci. «Immagini rubate», mi ha detto il regista quando la mostra era a Parma, «che non rappresentano i miei film, ma l’inconscio dei miei film». Che suggeriscono l’esistenza di un fuori-campo, una «assenza / più acuta presenza» (Attilio Bertolucci). Fantasmi, still life, after life. Non solo di film.

Repubblica 1.10.09
L’evasore fiscale sul lettino di Freud
di Mario Pirani


L´atteggiamento verso le tasse ha qualcosa a che fare con la psicoanalisi? L´interrogativo mi si è posto dopo una lettera inviatami da due noti psichiatri e psicoterapeuti di diversa appartenenza scientifica, l´uno, Franco Paparo, aderente alla Società Psicoanalista Italiana, l´altro, Gianni Lotti, di scuola cognitivo-evoluzionista. I due studiosi caldeggiavano la lettura fra i dirigenti di centrosinistra di un libretto, a loro avviso prezioso uscito un anno fa e che era sfuggito anche a me: "Non pensate all´elefante" (Edizioni: Fusi orari, 2006, euro 12) , autore George Lakoff, che insegna Scienze cognitive e Linguistica all´Università di Berkeley in California. Ora questo studioso, colpito dalla vittoria di Bush, si è sforzato, sulla base delle sue competenze scientifiche, di ricercare gli errori tipici dei progressisti americani nel comunicare i propri valori fondamentali. Molte delle osservazioni di Lakoff sembrano, peraltro, attagliarsi alla contrapposizione destra-sinistra in Italia e in altri paesi occidentali.
Tema del libro è l´inanità del tentativo di cambiare la cornice concettuale (frame), entro la quale l´elettore convinto dalla destra inquadra i propri ragionamenti e, dunque, le proprie scelte politiche, confutandola direttamente. Viceversa, la comunicazione semplice e diretta dei valori progressisti ha maggiore probabilità di successo non solo nei riguardi dell´elettore indeciso, ma anche nel modificare, per così dire indirettamente e sottilmente, lo stato mentale dell´elettore di destra più convinto. Vogliamo citare un semplice esempio, tratto dal libro, per noi assolutamente attuale, sulla riduzione delle tasse. Scrive Lakoff: «Che cosa sono le tasse? Le tasse sono i soldi che paghiamo per vivere in un paese civile, per avere la democrazia e le opportunità, e per usare le infrastrutture finanziate dai contribuenti che sono venuti prima di noi: la rete autostradale, internet, la ricerca scientifica, quella medica, il sistema di comunicazioni, il trasporto aereo. Tutto questo viene pagato dai contribuenti». E più avanti: «Pagando le tasse i nostri genitori hanno investito nel futuro, nel nostro e nel loro. E se un discorso del genere fosse stato ripetuto per anni alla fine il concetto sarebbe stato incontrovertibile: le tasse sono un saggio investimento per il futuro.. E quelli che evadono le tasse, come le società che si trasferiscono alle Bermude, non pagano quello che devono al loro paese. Chi paga le tasse è un patriota. Chi le evade e manda in rovina il paese è un traditore». Lakoff, grande esperto di metafore, argomenta che i conservatori e le destre in genere perseguono l´ideale del «padre severo»: disciplina ottenuta col gioco di premi e punizioni; successo sociale ed economico individuale come supremo obiettivo di vita; affermazione della morale tradizionale come unico sostegno possibile alla vita sociale; controllo coercitivo sugli avversari; impazienza di fronte al dialogo e alle argomentazioni.
Viceversa, i progressisti sono motivati dall´ideale metaforico del «genitore premuroso»: fiducia nello sviluppo autonomo, «dall´interno» della mente e del «cuore» di ogni essere umano qualora gli si offra sostegno, sicurezza e comprensione in dose maggiore della disciplina; cooperazione fra pari e non controllo coercitivo come meta finale; crescita culturale e di consapevolezza come supremo obiettivo di vita; dialogo con gli avversari ed i diversi. Piuttosto che inseguire il conservatore sul suo terreno (cioè all´interno del suo frame), parlando di competizione e di economia per contrastarlo, il progressista farà bene a comunicare in modo semplice, chiaro e diretto i propri valori, il proprio frame. Solo secondariamente, il progressista potrà delucidare come essi si traducono in concrete scelte economico-politiche. I valori progressisti sono obiettivamente antagonisti di quelli dei conservatori, e dunque la comunicazione chiara e semplice di essi offrirà efficacemente alla mente di tutti gli elettori un frame (una trama concettuale di riferimento) diversa di quello, inattaccabile se si entra direttamente al suo interno, tipico dell´elefante (l´elefante è il simbolo del partito repubblicano negli Usa). Un discorso abbastanza suadente con qualche «ma» e qualche «se»: il «genitore premuroso» potrà apparire convincente se il livello fiscale cui il cittadino è sottoposto non esorbiterà troppo dal valore dei beni pubblici offerti in cambio e, secondariamente, se i servizi ricevuti risulteranno da una gestione efficiente e non dilapidatrice.
Altrimenti, come ha detto Ratzinger, prevale la storica avversione popolare per le tasse.

Repubblica 1.10.09
Il novantenne Li Rui attacca la nomenklatura su un'autorevole rivista a due settimane dall'apertura del XVII Congresso del Partito comunista
"Compagni, più democrazia" la sfida del segretario di Mao
di Federico Rampini


Per il presidente cinese Hu Jintao e la sua generazione di tecnocrati sessantenni che dominano le leve del comando, l´ultima lezione di democrazia viene da un «nonno terribile» della nomenklatura. E´ Li Rui, 90 anni, ex segretario e biografo personale di Mao Zedong, a lanciare un attacco frontale al regime.
A due settimane dall´apertura del 17esimo congresso del partito comunista, Li non misura le parole. Esorta i dirigenti a convertirsi alla democrazia. Afferma che solo la libertà politica può mettere fine all´instabilità e alla corruzione dilagante. Chiede che i diritti civili siano effettivamente rispettati, e che siano imposti dei limiti allo strapotere del partito. La dura requisitoria di Li, un vero e proprio manifesto per la transizione alla democrazia, non circola in forma clandestina ma è pubblicata su un´autorevole rivista ideologica, Yanhuang Chunqiu ("La Cina attraverso i tempi"). Il tempismo della sua uscita è cruciale, conferma le tensioni sotterranee all´interno della classe dirigente e la crescente insofferenza di alcune élites. Al prossimo congresso Hu Jintao consoliderà il suo potere, sarà confermato segretario del partito e presidente della Repubblica, e al tempo stesso inizierà a preparare la propria successione "blindata" all´interno di una cerchia di fedelissimi. La preparazione di questo congresso è stata preceduta dal lancio delle consuete campagne contro la corruzione e per la moralizzazione del partito. Come spesso accade, la caccia ai disonesti serve come paravento per realizzare anche delle purghe politiche. L´esempio più importante è stata la caduta in disgrazia del numero uno del partito a Shanghai. Incastrato per aver rubato dal fondo pensione della municipalità, il leader di Shanghai era uno degli ultimi uomini di Jiang Zemin, il predecessore di Hu.
Spazzato via il "clan di Shanghai", Hu sta occupando tutti i posti chiave del potere, riempiendo le caselle con uomini di assoluta obbedienza. In parallelo, il presidente ha ristretto gli spazi del dissenso e la censura dell´informazione è stata irrigidita. In barba agli impegni presi per i Giochi olimpici di Pechino 2008, la libertà di espressione è in ulteriore arretramento.
E´ in questo contesto che si inserisce il duro intervento del novantenne ex segretario di Mao. Li Rui manda a dire al suo presidente che solo l´emancipazione dei cittadini è un argine efficace contro la corruzione. L´età di Li e il suo curriculum gli consentono di ignorare i rischi della censura e della repressione. Comunista fin dal 1937, assistente personale di Mao negli anni Cinquanta, alto dirigente del partito sotto Deng Xiaoping, Li non è nuovo a prese di posizione "eretiche". Più volte ha sfidato i tabù e il conformismo dei suoi compagni. Fu purgato da Mao per avere denunciato il tragico errore del Grande balzo in avanti (che fece decine di milioni di morti nel 1959). Più di recente quando Hu Jintao andò al potere fu sempre Li a mandargli una lettera aperta chiedendo che il partito facesse mea culpa per il massacro di Piazza Tiennamen del 1989. Questa sua ultima uscita è altrettanto coraggiosa. Nel numero di ottobre della rivista Li scrive che la Cina rischia di arretrare di molti decenni e di sprofondare nel caos se le democratizzazione a lungo rinviata non fa dei passi avanti, in modo da adeguare il sistema politico all´economia di mercato. E´ la tesi esattamente opposta alla visione di Hu Jintao, del premier Wen Jiabao e di tutto il gruppo dirigente: costoro al contrario dipingono l´instabilità e il caos come le conseguenze sicure qualora la Cina adottasse una liberaldemocrazia di tipo occidentale. Li vede dietro le apparenze, coglie le gravi tensioni che covano in seno alla società civile e non trovano sbocco per mancanza di pluralismo.
«Riformare il partito - scrive l´anziano dirigente - è il passaggio cruciale da cui dipende il successo o il fallimento di tutte le altre riforme. Il partito deve dare l´esempio applicando la Costituzione, deve garantire che i diritti dei cittadini siano rispettati: la libertà di espressione, d´informazione, di pubblicazione e di associazione».
L´articolo dell´ex segretario personale di Mao viene pubblicato esattamente un mese dopo un´altra manifestazione clamorosa di dissenso. Il 28 agosto il movimento per i diritti civili è uscito allo scoperto quando più di mille personalità hanno reso nota una lettera aperta a Hu Jintao. I firmatari chiedono la liberazione immediata dei prigionieri politici e la libertà di stampa, come condizione per «creare una nuova immagine del paese». «Secondo la Costituzione della Repubblica popolare - si legge nell´appello pubblico - il partito comunista si è impegnato solennemente a governare il paese come uno Stato di diritto, rispettando i diritti umani. In realtà la polizia e la magistratura sotto il comando del partito hanno continuato ad arrestare e condannare scrittori, giornalisti, avvocati e militanti democratici negli ultimi tre anni, per reati d´opinione, di parola, e per l´espressione di idee politiche». La lettera aperta naturalmente è stata censurata da tutti i mezzi d´informazione e la massa dei cittadini cinesi non ne ha saputo l´esistenza. Tuttavia l´ampiezza del numero dei firmatari è significativa. Era dai tempi del movimento di Piazza Tienanmen che non si manifestava un fronte così ampio per chiedere al regime le riforme politiche e le libertà individuali. Ora hanno anche l´appoggio di un "grande vecchio" che fu tra i pionieri della rivoluzione.

Repubblica 1.10.09
Mark Rothko
Palazzo delle Esposizioni. Dal 6 ottobre.


Dopo le mostre tenute in Italia (alla Biennale di Venezia del 1958, alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna nel 1962 e a Ca' Pesaro nel 1970), una nuova rassegna ripercorre l'opera del grande pittore. Nato in Lettonia ed emigrato negli Stati Uniti nel 1913, Rothko inizia a interessarsi all'automatismo surrealista. La mostra prende avvio dai primi dipinti su tavolette di gesso e si chiude con gli ultimi Blakform, dando conto via via dei vari cicli pittorici, che caratterizzano il suo fare. In tutto settanta dipinti, provenienti da raccolte pubbliche e private di tutto il mondo.

alteredo.org
Giordano e Ferrero intervistati su laicità e anticlericalismo


Buongiorno segretario Giordano. Siamo alla Costituente della Sinistra unita e plurale, alla Flog di Firenze, per cercare di realizzare la tanto agognata unità delle sinistre.
Cominciamo con una provocazione, visto che lei è il segretario del maggiore partito che si richiama alla tradizione comunista: ho intervistato una settimana fa Rocco Buttiglione, il filosofo Rocco Buttiglione il quale, parlando dell’impegno cattolico in politica, ha detto: “tra poco celebreremo i 20 anni dalla caduta del comunismo: e lì è la fede, è il cristianesimo, è la religione, è una grande testimonianza religiosa, morale, culturale, che ha fatto cadere il più grande impero materialista e ateo del mondo.”. Non fu un crollo di matrice economico-sociale, dunque, ma di mancanza di fede.
Ecco, lei, da comunista, sente in questa provocazione di Buttiglione un acuirsi della conflittualità tra laici e cattolici in politica?

Iniziamo dal fatto che Buttiglione ha detto una grande sciocchezza sulla vicenda dei paesi del socialismo dell’Est, che sono crollati perché hanno perso ogni possibilità di costruire e di rifondarsi su un terreno democratico, hanno perso la sfida con il mondo, non hanno investito sul protagonismo sociale, hanno negato i principi per cui erano nati.
Poi, penso che noi dobbiamo ricostruire una produzione legislativa laica nel nostro paese, e riconquistarci al contrario quello che la Costituzione ha stabilito con grandissima determinazione: che il nostro è uno Stato pienamente e autonomamente laico.
Posso dire qualcosa che può apparire paradossale? Oggi la laicità è più a rischio perché in realtà non c’è più un partito, il partito della Democrazia Cristiana, che mediava – e naturalmente era una mediazione che io non accettavo, che a me non stava bene – gli interessi delle gerarchie ecclesiastiche. Oggi è il contrario: ci sono piccoli partiti centristi che siccome sono deboli elettoralmente, flebili dal punto di vista dell’identità, cercano essi la legittimazione dalle gerarchie ecclesiastiche. Per questo l’intervento delle gerarchie ecclesiastiche arriva direttamente sulla produzione legislativa. E qui c’è un elemento di rischio molto grande.

Quella sinistra che storicamente non è mai stata molto presente sul fronte della battaglia laica, lasciandola spesso e volentieri in monopolio ai Radicali, ultimamente è rientrata in modo forte su questo terreno. Però con delle zone d’ombra ancora. Per esempio: il 15 novembre 2006 è stato bocciato un emendamento della Rosa nel Pugno alla legge finanziaria che avrebbe reintrodotto l’obbligo del pagamento dell’Ici sui beni della Chiesa Cattolica. Quell’emendamento è stato fatto fuori anche grazie ai voti del gruppo di Rifondazione Comunista. Su questo argomento Aldo Busi, durante la manifestazione Diritti ora, quando sul palco parlava Vladimir Luxuria, disse, con il suo solito linguaggio forte: “l’onorevole Luxuria non dovrebbe stare su quel palco perché, insieme a tutto il partito, ha votato contro l’emendamento che reintroduceva il pagamento dell’Ici per la Chiesa”. Ecco, c’è ancora una certa timidezza nella sinistra su questi temi? Non è ancora pienamente e convintamene anticlericale?

Noi non siamo anticlericali. Questo ci tengo a dirlo perché non vorrei essere frainteso. Noi siamo per la piena laicità dello Stato che non significa essere anticlericali. Noi siamo per una critica molto netta e molto forte di una casta, sia essa politica sia essa sacerdotale, tutta rigorosamente maschile, che decide di intervenire sui corpi delle donne, sulle relazioni, sulle affettività, che decide di negare la soggettività di diritti di relazioni che esistono nella società italiana e non solo. Mi permetto di dire, citando persino l’Antigone di Sofocle, che quelle norme che contrastano così fortemente i sentimenti sono norme destinate ad essere trasgredite. Siamo tutti disobbedienti quando ci sono delle norme, su questi terreni, che ti impongono in maniere costipata, coercitiva, coatta, modalità di relazioni che non sono il frutto di una libera scelta.

Ma allora perché avete votato contro quell’emendamento della Rosa nel Pugno sull’Ici alla Chiesa?

Come si vede noi siamo anche molto… legati, diciamo, ad una dinamica di coalizione… Abbiamo contestato e ci siamo battuti contro quella impostazione, poi quell’impostazione purtroppo è prevalsa ed è una di quelle cose negative che abbiamo fatto.

Un ultimo argomento: è doveroso fare i complimenti a tutta la sinistra che si è battuta molto bene per i pacs che poi sono diventati dico e poi ancora cus. Ciononostante, non ce l’ha fatta. Questo significa forse che in un paese come il nostro, arretrato, clericale, retrogrado come il nostro, visto tutto l’impegno profuso ma infruttuoso, è impossibile, è una battaglia già persa, contro un avversario troppo forte?

No, e penso che pazientemente, con un’iniziativa politico-culturale dobbiamo riprendere questo tema e questa battaglia. Con grande forza. Perché – guardate – il tema dei diritti civili non è appannaggio della sinistra. Il tema dei diritti civili è proprio di una società liberale. La verità è che oggi i liberisti, per poter incerare la loro politica, devono essere illiberali.
Ci sono delle osservazioni dal punto di vista culturale che sono francamente farneticanti: c’è un libro che dice il liberismo è di sinistra. Purtroppo voi radicali (...) voi o un’area radicale, acconsente a questa ipotesi. Ma la verità è che oggi il principio autoritario che distrugge il pensiero liberale, di Gobetti, persino di Einaudi…

Non dimentichiamo Mazzini…

…e di Mazzini, è il liberismo. Invece c’è una rottura tra liberalismo e liberismo e un rovesciamento di senso autoritario.

Infatti il liberista Berlusconi è la persona forse meno liberale del mondo…

Beh, lui non è neanche un liberista. È un monopolista dichiarato che cerca una strada per salvaguardare i propri interessi, altro che liberista

La ringrazio molto
Arrivederla

Intervista al Ministro della Solidarietà Sociale Paolo Ferrero:
“La laicità dello Stato è sotto pressione e messa in discussione ma dobbiamo stare attenti a non regalare l’Italia al clericalismo”

Buongiorno Ministro Ferrero, siamo al 22 settembre, e due giorni fa festeggiavamo il 137° anniversario della Breccia di Porta Pia. In piazza a Roma abbiamo visto i Radicali, i Socialisti, poca sinistra. Storicamente infatti il 20 settembre è una data che la sinistra non sente molto, però in quest’ultimo anno anche la sinistra si è resa protagonista della battaglia per la laicità dello Stato. È arrivata l’ora di recuperare il 20 settembre secondo lei?

Non so se la data del 20 settembre sia da recuperare. Forse più che quelli risorgimentali, dobbiamo recuperare i valori della Costituzione. Forse si sentono più vicini quelli e quindi credo che il punto sia avere la capacità, tutti i giorni, con le leggi così come nel dibattito culturale, di riaffermare la laicità dello Stato italiano, che indubbiamente è sotto pressione e viene messa in discussione da più parti.

Dunque, la mancanza della sinistra a Porta Pia si spiega così: è una ricorrenza risorgimentale, dunque liberale. Ma la sinistra liberale e la sinistra radicale possono su questi temi trovare una convergenza?

Penso di sì, purché sia chiaro che la battaglia per la laicità dello Stato non c’entra nulla con l’anticlericalismo. E qui invece a volte c’è un elemento di confusione. Credo che giustamente la libertà religiosa debba essere garantita per tutti, come la libertà di non essere religiosi, di non avere nessuna fede: va messo assolutamente tutto sullo stesso piano.
Secondo me questo è il punto fondamentale: la battaglia per la laicità. Poi, dentro la laicità ci sarà chi sostiene pensieri anche clericali e ci sarà chi sostiene pensieri anticlericali. Io penso che la sinistra non debba essere anticlericale. Perché penso si possa credere in Dio o non credere in Dio, essere cattolici o non essere cattolici, e fare una battaglia per la trasformazione sociale senza che questa questione della fede e della Chiesa diventi l’ostacolo a poter lottare assieme per il cambiamento.

Ma per esempio, un grande intellettuale di sinistra come Aldo Busi, mi ha detto durante un’intervista che – arrivati a questo punto del dibattito politico – non si può non essere anticlericali. E se pensiamo a tutte le polemiche intorno alla costruzione delle moschee, fino al maiale day di Calderoli, e se pensiamo che tutta la battaglia per i diritti è una battaglia che si è posta in contrapposizione con la Chiesa, ecco che laicità e anticlericalismo si avvicinano molto.

Io penso di no. Penso che in politica, come nella battaglia culturale, bisogna essere sempre capaci a distinguere. Penso che bisogna fare una battaglia a fondo contro delle idee che io ritengo siano sbagliate, ma questo senza cadere nell’anticlericalismo. Perché altrimenti questo vuol dire semplicemente regalare ad una rappresentanza che sta su posizioni discutibili, l’egemonia su tutto un mondo di persone che si sente credente e che magari ha altre posizioni. Io penso che non vada regalato nulla e che bisogna tenere ferma la battaglia per la laicità, senza cadere però cadere in giudizi sulla fede, su Dio, e non solo su qualche posizione politica.
Per questo ritengo che la battaglia per la laicità la sinistra la deve fare di più e con più coraggio. Ma allo stesso tempo deve evitare di cadere nel modo più assoluto nell’anticlericalismo perché vorrebbe dire condannare l’Italia al clericalismo.
(interviste di Edoardo Semmola)