mercoledì 3 ottobre 2007

Nel mese di settembre i contatti con "segnalazioni" sono stati in tutto 42417, così suddivisi:

1. Italy - 37.017 - 87,27%
2. Other - 2.394 - 5,64%
3. France - 664 - 1,57%
4. United States - 653 - 1,54%
5. Sweden - 419 - 0,99%
6. Portugal - 319 - 0,75%
7. United Kingdom - 180 - 0,42%
8. Germany - 180 - 0,42%
9. Switzerland - 122 - 0,29%
10. Belgium - 89 - 0,21%
11. Spain - 57 - 0,13%
12. Canada - 50 - 0,12%
13. Turkey - 22 - 0,05%
14. Netherlands - 20 - 0,05%
15. Uruguay - 17 - 0,04%
16. Hong Kong - 17 - 0,04%
17. Brazil - 15 - 0,04%
18. Maldives - 12 - 0,03%
19. Luxembourg - 11 - 0,03%
20. Norway - 10 - 0,02%
21. Ireland - 10 - 0,02%
22. Greece - 8 - 0,02%
23. Argentina - 8 - 0,02%
24. Austria - 8 - 0,02%
25. Romania - 7 - 0,02%
26. Poland - 6 - 0,01%
27. Albania - 6 - 0,01%
28. Czech Republic - 6 - 0,01%
29. Serbia Montenegro - 5 - 0,01%
30. Egypt - 5 - 0,01%
31. India - 5 - 0,01%
32. Japan - 5 - 0,01%
33. Hungary - 5 - 0,01%
34. Australia - 5 - 0,01%
35. Venezuela - 5 - 0,01%
36. Malaysia - 4 - 0,01%
37. Malta - 4 - 0,01%
38. Mauritius - 4 - 0,01%
39. Croatia - 4 - 0,01%
40. United Arab Emirates - 3 - 0,01%
41. Chile - 3 - 0,01%
42. Russian Federation - 3 - 0,01%
43. South Africa - 2 - 0,00%
44. Thailand - 2 - 0,00%
45. Mexico - 2 - 0,00%
46. Morocco - 2 - 0,00%
47. Bulgaria - 2 - 0,00%
48. Burundi - 2 - 0,00%
49. Indonesia - 2 - 0,00%
50. Iran - 2 - 0,00%
51. Dominican Republic - 2 - 0,00%
52. Denmark - 1 - 0,00%
53. Korea (South) - 1 - 0,00%
54. Bolivia - 1 - 0,00%
55. Colombia - 1 - 0,00%
56. Cote D'Ivoire - 1 - 0,00%
57. Bahamas - 1 - 0,00%
58. Latvia - 1 - 0,00%
59. Qatar - 1 - 0,00%
60. Peru - 1 - 0,00%
61. Philippines - 1 - 0,00%
62. San Marino - 1 - 0,00%
63. Vatican City State - 1 - 0,00%
Repubblica 3.10.07
I pm: al G8 agenti come Black bloc
"Fu una guerra tra bande, il governo di allora faccia autocritica"
di Massimo Calandri


Ognuno racconta la sua verità, come se le violenze di tutti trovassero comunque giustificazione
C´è chi ha messo in atto devastazioni preordinate della città, e chi inammissibili violenze sugli inermi
La verità con la V maiuscola non arriverà mai finché le autorità del governo di allora non faranno autocritica
Le dure parole dei pm Canepa e Canciani Sentenza a dicembre

GENOVA - Nella requisitoria i pubblici ministeri parlano di una «guerra tra bande»: da una parte i Black Bloc e le frange più violente del movimento no-global, dall´altra le forze dell´ordine. Due bande che sei anni dopo non smettono di contrapporsi, rifiutando il dialogo e continuando a negare: gli uni le «devastazioni preordinate della città», gli altri le «inammissibili violenze ai danni di manifestanti inermi». I magistrati hanno rievocato quei giorni di luglio 2001 augurandosi di raggiungere «almeno» la verità giudiziaria. Perché quella sui fatti del G8, «la Verità con l´iniziale maiuscola», la si attende inutilmente da allora. E non arriverà mai se i protagonisti di quei giorni - «in primo luogo l´autorità di Governo, presieduto da Berlusconi e dal suo ministro per gli Interni, Scajola» - non si assumeranno pubblicamente le rispettive responsabilità. «Ma questa autocritica, questa riflessione, questa assunzione consapevole di responsabilità deve essere fatta altrove. Non qui».
Anna Canepa e Andrea Canciani hanno usato parole dure ed amare per sostenere la loro tesi nel processo ai 25 italiani accusati di aver «devastato» e «saccheggiato» la città di Genova. E´ il procedimento contro le presunte Tute Nere, il primo di quelli relativi al G8 che arriverà a sentenza: la decisione è attesa entro Natale. Per gli altri più importanti processi - l´assalto della polizia alla scuola Diaz, i soprusi e le violenze nella caserma di Bolzaneto - si dovrà attendere primavera. Ieri i pm hanno esordito nella loro requisitoria sottolineando di voler delimitare l´oggetto del procedimento: «Fatti commessi da alcune persone, pochissime rispetto alla moltitudine che partecipò agli scontri. Ma solo su questi episodi dobbiamo concentrarci: evitando le strumentalizzazioni di chi vuole colmare il vuoto lasciato da mancate indagini parlamentari», e cercando anche «di non essere coinvolti nell´omicidio del povero Carlo Giuliani».
Un lavoro ancora più difficile e complicato per via degli «approcci ideologici» delle parti coinvolte. Polizia, manifestanti. Ognuno racconta la sua verità - con l´iniziale logicamente minuscola - e nega o travisa, «come se le violenze di tutti trovassero comunque giustificazione, in un calderone che è la negazione della presa di coscienza e della responsabilità».
Il processo ai 25 manifestanti era cominciato nel marzo 2004: 120 udienze, 197 testimoni ascoltati. Migliaia di fotografie, chilometri di pellicola. Nella ricostruzione dei fatti l´apporto dell´informazione è stato straordinario. «Forse l´evento più mediaticamente rappresentato della storia». I pm hanno aggiunto i video girati dalle telecamere fisse del traffico, i nastri delle comunicazioni via-radio delle forze dell´ordine, la registrazione delle telefonate con richieste d´aiuto fatte dai genovesi. «Solo in questo modo è stato possibile accertare cos´era davvero accaduto». Le prove documentali hanno rimediato alla parzialità delle testimonianze. I magistrati hanno impostato il loro intervento (ci vorranno altre cinque udienze per concludere) ricordando che il vertice a Genova fu deciso dal governo D´Alema, e che all´ultimo la gestione passò a Berlusconi e Scajola. Hanno rievocato l´ordinanza che istituiva la famigerata Zona Rossa, e l´informativa degli Interni sul Blocco Nero. Fino a quella mattina di venerdì, 20 luglio: cominciò tutto in piazza Paolo Da Novi, con alcuni ragazzi in tuta nera che sradicavano un cartello stradale...

Repubblica 3.10.07
La lezione di Gandhi contro il terroorismo
di Amartya Sen


Il Mahatma ci ha insegnato che se una persona commette atti contrari all´etica questo fornisce degli argomenti formidabili e una forza immensa ai suoi oppositori, anche a quelli violenti

Gandhi si preoccupava della moralità del comportamento personale, ma non solo di quello, e noi sottovaluteremmo l´ampiezza del suo pensiero politico se cercassimo di vedere la nonviolenza semplicemente come un codice di comportamento (per quanto tale codice possa essere importante).
Consideriamo il grande problema del terrorismo nel mondo di oggi. Nel combattere il terrorismo, la risposta gandhiana non può essere vista prendere la forma, principalmente, del pregare gli aspiranti terroristi di desistere dal perpetrare le loro crudeltà, e nemmeno la forma aperta (nuovamente, per quanto importante essa sia) del dialogo e dell´interazione pubblica in modi pacifici con degli avversari potenziali. Le idee di Gandhi sulla prevenzione della violenza andavano molto più in là, includendo istituzioni sociali e priorità pubbliche così come credenze e impegni individuali. Tenendo a mente questo, e perseguendo il tema generale della rilevanza dei valori gandhiani al di fuori dell´India, pongo questa domanda: c´è qualcosa che gli Stati Uniti d´America e l´Inghilterra in particolare possano oggi proficuamente imparare dall´analisi politica di Gandhi?
Alcune delle lezioni di un approccio gandhiano alla violenza e al terrorismo mondiali sono abbastanza chiare. Forse la più semplice e una che è stata recentemente molto discussa è l´importanza dell´educazione nel coltivare la pace piuttosto che la discordia. Le implicazioni di questo includono la necessità di scoraggiare, e se possibile di eliminare del tutto, scuole nelle quali l´odio verso altre comunità o gruppi di persone in generale sia incoraggiato e nutrito. Questo non si applica solo alle scuole coraniche militanti [le madrassas], ma anche ad altre strutture educative di impostazione ristretta, nelle quali sia promosso un forte senso di identità settaria, che allontanino un essere umano dall´altro sulla base della religione, dell´appartenenza etnica, della casta o del credo. C´è ancora molto da fare in questo campo in India, come sappiamo da diversi eventi recenti, inclusi gli omicidi settari a Mumbai nel 1992-1993 o la violenza nel Gujarat del 2002. Ma fortunatamente il paese sembra aver fatto un passo indietro rispetto a quello che sembrava a un certo punto essere un inarrestabile allontanarsi dalla tolleranza laica e dal rispetto reciproco non settario che erano così importanti per Gandhi.

Scoraggiare l´educazione settaria
Vorrei concentrare l´attenzione sulla rilevanza delle idee gandhiane al di fuori dell´India, inclusi gli Stati Uniti d´America e l´Inghilterra. Si potrebbe pensare che le lezioni di Gandhi siano ampiamente comprese in America e in Inghilterra, e ad un certo livello certamente lo sono. Per esempio, la predicazione militante nelle moschee e nelle scuole coraniche è stata ultimamente al centro di molta attenzione in Inghilterra, specialmente dopo il massacro del luglio scorso a Londra operato da alcuni terroristi di origine locale. Gli inglesi sono stati molto scioccati dal fatto che dei giovani provenienti da famiglie immigrate, nati e cresciuti in Inghilterra, fossero inclini a uccidere altre persone in Inghilterra con tanta determinazione. In risposta a questo choc molti luoghi di predicazione dell´odio e di insegnamento vengono limitati o chiusi in Gran Bretagna, il che è certamente una mossa comprensibile. Ma io sostengo che l´intera forza della comprensione di Gandhi in questo campo non sia ancora stata afferrata dalla politica britannica.

La perdita di statura morale dei combattenti per la democrazia
Comunque, prima di entrare in questo argomento, voglio parlare di un altro punto di rilevanza generale. Uno dei grandi messaggi di Gandhi è che tu non puoi sconfiggere la cattiveria, inclusa la cattiveria violenta, finché tu non ti sei completamente liberato di una simile sporcizia. Questo ha una grande e immediata importanza oggi. Per esempio, ogni atrocità commessa allo scopo di ottenere informazioni utili alla sconfitta del terrorismo, che sia nel centro di detenzione di Guantanamo oppure nel carcere di Abu Ghraib in Iraq, contribuisce a generare più terrorismo. Il problema è non solo che quella tortura è sempre sbagliata (il che è vero), né che la tortura difficilmente produce informazioni affidabili, dal momento che il torturato dice qualunque cosa possa liberarlo da quella misera condizione (il che è altrettanto vero). Ma andando oltre questi punti ovvi sebbene importanti, Gandhi ci ha anche insegnato che la perdita di statura morale da parte di una persona fornisce una forza immensa ai suoi oppositori violenti.

L´imbarazzo globale che l´iniziativa anglo-americana ha sofferto a cau-sa di queste trasgressioni sistematiche, e il modo in cui un comportamento cattivo da parte di coloro che pretendono di combattere per la democrazia e i diritti umani è stato usato dai terroristi per avere più reclute e un po´ di simpatia e sostegno pubblici, potranno avere sorpreso gli strateghi militari che siedono a Washington o a Londra, ma sono perfettamente allineati con ciò che il Mahatma Gandhi ha cercato di insegnare al mondo. Il tempo non ha diminuito la forza degli argomenti di Gandhi, né la loro straordinaria rilevanza per il mondo.

Gandhi sarebbe anche stato sorpreso del fatto che sebbene gli Stati Uniti stessi, almeno in linea di principio, si oppongano fermamente alla tortura eseguita sul suolo americano o da parte di personale americano (in effetti l´America ha una storia rimarchevole di codificazione e asserzione dei diritti e delle libertà individuali che risale agli emendamenti alla Costituzione degli Stati Uniti elaborati nel secolo XVIII), molte persone che ricoprono ruoli di rilievo in America approvano, e supportano attivamente, la procedura di quelle che sono chiamate extraordinary renditions. In quella terribile procedura, sospetti di terrorismo vengono spediti in paesi che praticano la tortura sistematicamente, cosicché gli interrogatori possono essere condotti senza le restrizioni che si applicano negli Stati Uniti d´America. Il punto che emerge dagli argomenti di Gandhi non è solo che questa è una pratica fortemente antietica, ma anche che non è questo il modo di vincere una guerra contro il terrorismo e la crudeltà. È importante capire che Gandhi non solo ci ha offerto una visione della moralità, ma anche una comprensione politica di come il comportamento di una persona può essere, secondo la sua natura, sorgente di una grande forza o di una tremenda debolezza. Naturalmente, i valori gandhiani devono essere visti e compresi nei termini degli argomenti posti da Gandhi a loro sostegno. Non importa quanto uno possa essere terribilmente ben armato, la perdita di statura morale ne mina la forza in modo definitivo. Il valore di una tale visione non è mai stato più grande di quanto lo sia oggi.

Repubblica 3.10.07
Dove finisce l'otto per mille segreto da un miliardo di euro
di Curzio Maltese


Nove milioni per la campagna pubblicitaria sullo tsunami ma alle vittime è andato solo un terzo. E alla fine l´ottanta per cento dei contributi assegnati rimane alla Chiesa cattolica

Le campagne dell´«otto per mille» della Chiesa cattolica, che ogni primavera invadono ´etere, Rai, Mediaset e radio nazionali, sono considerate nel mondo pubblicitario un modello di comunicazione. Ben girate, splendida fotografia, musiche di Morricone, storie efficaci, a volte indimenticabili. Chi non ricorda quella del 2005, imperniata sulla tragedia dello tsunami? Lo spot apre su un fragile villaggio di capanne, dalla spiaggia i pescatori scalzi scrutano l´orizzonte cupo. Voce fuori campo: «Quel giorno dal mare è arrivata la fine, l´onda ha trasformato tutto in nulla». Stacco sul logo dell´otto per mille: «Poi dal niente, siete arrivati voi. Le vostre firme si sono trasformate in barche e reti». Zoom su barche e reti. «Barche e reti capaci di crescere figli e pescare sorrisi». Slogan: «Con l´otto per mille alla Chiesa cattolica, avete fatto tanto per molti». Un capolavoro.
La campagna 2005, affidata come le precedenti alla multinazionale Saatchi & Saatchi, secondo Il Sole 24 Ore è costata alla Chiesa nove milioni di euro. Il triplo di quanto la Chiesa ha poi donato alle vittime dello tsunami, tre milioni (fonte Cei), lo 0,3 per cento della raccolta. Nello stesso anno, l´Ucei, l´unione delle comunità ebraiche italiane, versò per lo Sri Lanka e l´Indonesia 200 mila euro, il 6 per cento dell´«otto per mille». Un´offerta in proporzione venti volte superiore, in un´area dove non esistono comunità ebraiche.
Gli spot della Chiesa cattolica sono per la maggioranza degli italiani l´unica fonte d´informazione sull´otto per mille. Consegue una serie di pregiudizi assai diffusi. Credenti e non credenti sono convinti che la Chiesa cattolica usi i fondi dell´otto per mille soprattutto per la carità in Italia e nel terzo mondo. Le due voci occupano la totalità dei messaggi, ma costituiscono nella realtà il 20 per cento della spesa reale, come conferma Avvenire, che pubblica per la prima volta il resoconto sul numero del 29 settembre. L´80 per cento del miliardo di euro rimane alla Chiesa cattolica.
Tanto meno gli spot cattolici si occupano d´informare che le quote non espresse nella dichiarazione dei redditi, il 60 per cento, vengono comunque assegnate sulla base del 40 per cento di quanto è stato espresso e finiscono dunque al 90 per cento nelle casse della Cei. Questo compito in effetti spetterebbe allo Stato italiano. Lo Stato avrebbe dovuto illustrare e giustificare ai cittadini un meccanismo tanto singolare di «voto fiscale», unico fra i paesi concordatari. In Spagna per esempio le quote non espresse nel «cinque per mille» restano allo Stato. In Germania lo Stato si limita a organizzare la raccolta dei cittadini che possono scegliere di versare l´8 o 9 per cento del reddito alla Chiesa cattolica o luterana o ad altri culti.
Il principio dell´assoluta volontarietà è la regola nel resto d´Europa. Lo Stato italiano lo adotta infatti per il «cinque per mille». Anzi, fa di peggio. Il «cinque per mille» è nato nel 2006 per destinare appunto lo 0,5 dell´Irpef (660 milioni di euro, stima ufficiale delle Entrate) a ricerca e volontariato. Nel primo (e unico) anno hanno aderito il 61 per cento dei contribuenti, contro il 40 dell´ «otto per mille»: un successo enorme. Le sole quote volontarie ammontano a oltre 400 milioni. Ma con la Finanziaria del 2007 il governo ha deciso di porre un tetto di 250 milioni al fondo, che si chiama sempre «cinque per mille» ma è ridotto nei fatti a meno del due. Le quote eccedenti verranno prelevate dall´erario. Con una mano lo Stato dunque regala 600 milioni di quote non espresse alla Cei e con l´altra sottrae 150 milioni di quote espresse a favore di onlus e ricerca. Nella stessa pagina del modulo 730 il «voto fiscale» espresso da un cittadino in alto a favore delle chiese vale in termini economici quattro volte il voto nel «cinque per mille». Perché due pesi e due misure?
Lo Stato in diciassette anni non ha speso una parola pubblica, uno spot, una pubblicità Progresso, per spiegare il senso, il meccanismo e la destinazione reale dell´otto per mille. Ed è l´unico «concorrente» che ne avrebbe i mezzi, oltre al dovere morale. Gli altri (Valdesi, Ebrei, Luterani, Avventisti, Assemblee di Dio) dispongono di fondi minimi per la pubblicità, peraltro regolarmente denunciati nei resoconti. Mentre la Chiesa cattolica è l´unica a non dichiarare le spese pubblicitarie, riprova di scarsa trasparenza.
L´unica voce a rompere il silenzio dello Stato fu nel 1996 quella di una cattolica, come spesso accade, la diessina Livia Turco, allora ministro per la Solidarietà. Turco propose di destinare la quota statale di otto per mille a progetti per l´infanzia povera. Il «cassiere» pontificio, monsignor Attilio Nicora, rispose che «lo Stato non doveva fare concorrenza scorretta alla Chiesa». Fine del dibattito. Oggi Livia Turco ricorda: «Nella mia ingenuità, pensavo che la mia proposta incontrasse il favore di tutti, compresa la Chiesa. L´Italia è il paese continentale con la più alta percentuale di povertà infantile. Al contrario la reazione della Chiesa fu durissima, infastidita, e dalla politica fui subito isolata. Ho vissuto quella vicenda con grande amarezza».
La politica non ha mai più osato fare «concorrenza» alla Chiesa cattolica, anzi l´ha favorita con un pessimo uso del fondo. Nel 2004 i media hanno dato grande risalto alla trovata del governo Berlusconi di utilizzare 80 dei 100 milioni ricevuti dall´otto per mille per finanziare le missioni militari, in particolare in Iraq. Degli altri venti milioni, quasi la metà (44,5 per cento) sono finiti nel restauro di edifici di culto, quindi ancora alla Chiesa. La percentuale di «voti» allo Stato italiano è crollata dal 23 per cento del 1990 all´8,3 del 2006.
All´atteggiamento remissivo dello Stato italiano ha fatto da contraltare una crescente aggressività da parte delle gerarchie ecclesiastiche e soprattutto dei politici al seguito, cattolici e neo convertiti, nel rivendicare il denaro pubblico. In agosto, quando la commissione europea ha chiesto lumi al governo Prodi sui privilegi fiscali del Vaticano, nell´ipotesi si tratti di «aiuti di Stato» mascherati, l´ex ministro Roberto Calderoli, già protagonista delle battaglie anticlericali della Lega anni Novanta, ha chiesto al Papa di «scomunicare l´Unione Europea». Rocco Buttiglione ha avanzato un argomento in disuso fra gli intellettuali dai primi del ‘900, ma oggi di gran moda. Secondo il quale i privilegi concessi dalla Stato al Vaticano sarebbero «una compensazione per la confisca dei beni ecclesiastici dello Stato Pontificio».
Un revanscismo già sepolto dalla Chiesa del Concilio. Nel 1970 Paolo VI aveva «festeggiato» con la visita in Campidoglio la breccia di Porta Pia: «atto della Provvidenza», una «liberazione» per la Chiesa da un potere temporale che ne ostacolava l´autentica missione. Joseph Ratzinger scrive ne «Il sale della terra»: «Purtroppo nella storia è sempre capitato che la Chiesa non sia stata capace di allontanarsi da sola dai beni materiali, ma che questi le siano stati tolti da altri; e ciò, alla fine, è stata per lei la salvezza».
La legge 222 del 1985 istitutiva dell´otto per mille, perlopiù sconosciuta ai polemisti, in ogni caso non accenna ad alcuna forma di «risarcimento» per le confische (argomento insensato nell´Italia di vent´anni fa). Lo scopo primario della legge di revisione del Concordato fascista del ‘29 era di garantire un sostituto della «congrua», ovvero lo stipendio di Stato ai sacerdoti. Nei primi anni lo Stato s´impegnava infatti a integrare l´otto per mille, fino a 407 miliardi, nel caso di una raccolta insufficiente per pagare gli stipendi. In cambio il Vaticano accettava che una commissione bilaterale valutasse ogni tre anni l´ipotesi di ridurre l´otto per mille nel caso contrario di un gettito eccessivo.
Ora, dal 1990 al 2007, l´incasso per la Cei è quintuplicato e la spesa per gli stipendi dei preti, complice la crisi di vocazioni, è scesa alla metà, dal 70 al 35 per cento. Eppure la commissione italo-vaticana non ha mai deciso un adeguamento. Perché? Senza avventurarsi in filosofia del diritto, si può forse raccontare il percorso di uno dei componenti laici della commissione, Carlo Cardia. Il professor Cardia, insigne giurista di formazione comunista, consigliere di Enrico Berlinguer e Pietro Ingrao, ha esordito da fiero «difensore del diritto negato in Italia all´ateismo» («Ateismo e libertà religiose», De Donato, 1973). Nel 2001 è Cardia a invocare una riduzione dell´otto per mille, in un saggio pubblicato dalla presidenza del consiglio: «Dall´otto per mille derivano ormai alla Chiesa cattolica, meglio: alla Cei, delle somme veramente ingenti, che hanno superato ogni previsione. Si parla ormai di 900-1000 miliardi l´anno di lire. Il livello è tanto più alto in quanto il fabbisogno per il sostentamento del clero non supera i 400-500 miliardi. Ciò vuol dire che la Cei ha la disponibilità annua di diverse centinaia per finalità chiaramente "secondarie" rispetto a quella primaria del sostentamento del clero; e che lievitando così il livello del flusso finanziario si potrebbe presto raggiungere il paradosso per il quale è proprio il sostentamento del clero ad assumere il ruolo di finalità secondaria».
Previsione perfetta. «Tutto ciò - concludeva Cardia - porterebbe a vere e proprie distorsioni nell´uso del danaro da parte della Chiesa cattolica; e, più in generale, riaprirebbe il capitolo di un finanziamento pubblico irragionevole che potrebbe raggiungere la soglia dell´incostituzionalità se riferito al valore della laicità quale principio supremo dell´ordinamento».
Nel tempo il professor Cardia è diventato illustre collaboratore di Avvenire, il giornale dei vescovi. I suoi temi sono cambiati: l´apologia del rapporto fra i giovani e Benedetto XVI, la lotta ai Dico, l´esaltazione del Family Day. Ciascuno naturalmente ha il diritto di cambiare idea. Ma è opportuno che, avendole cambiate sul giornale della Cei, continui a far parte di una commissione governativa chiamata a stabilire quanti soldi lo Stato deve versare alla Cei? Nell´ultimo editoriale su Avvenire il professor Cardia tuona contro l´inchiesta di Repubblica, «una delle più colossali operazioni di disinformazione degli ultimi tempi».
Senza contestare nel merito un singolo dato, nega con veemenza che la Chiesa costi troppo agli italiani e s´indigna per «l´indecente» accostamento con la «casta». E´ lo stesso professor Cardia che il 20 febbraio scorso dichiara in un´intervista: «Io porterei la quota dell´otto per mille al sette, vista l´imponente massa di danaro che smuove. Basti pensare che dall´84 a oggi nessuno, se non per controversie politiche, vi ha posto mano».
Con le altre confessioni lo Stato è assai meno generoso. In risposta a un´interrogazione dei soliti radicali, nel luglio scorso il ministro Vannino Chiti ha citato come prova della bontà del meccanismo «il fatto che anche i valdesi hanno chiesto e ottenuto le quote non espresse». Chiesto sì, ottenuto mai. Incontro la «moderatrice» della Tavola Valdese, Maria Bonafede, il «Ruini» dei valdesi, nella modesta sede vicino alla Stazione Termini. «Per motivi etici avevamo rinunciato alle quote non espresse, ma nel 2000, visto l´uso che ne faceva lo Stato, le abbiamo chiese. Abbiamo incontrato governi di destra e di sinistra, il vecchio Letta e il nuovo. Ogni volta ci rinviano. Se la ottenessimo oggi, la vedremmo solo nel 2010. Lo Stato anticipa i soldi alla Cei, ma agli altri li versa con tre anni di ritardo».
Ai valdesi sono andati nel 2006 circa 5 milioni 700 mila euro, ma avrebbero diritto a oltre 13 milioni. Il resto lo trattiene lo Stato. La Tavola Valdese usa i soldi dell´otto per mille al 94 per cento per la carità e il rimanente alla pubblicità. I pastori valdesi vivono delle donazioni spontanee. Lo stipendio base, uguale dalla «moderatrice» all´ultimo pastore, è di 650 euro al mese. Maria Bonafede spiega: «I soldi dell´otto per mille arrivano dalla società e vi debbono tornare. Se una Chiesa non riesce a mantenersi con le libere offerte, è segno che Dio non vuole farla sopravvivere».
(hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)

Repubblica Firenze 3.10.07
Troppo pubblico, Toni Negri a porte chiuse
Il luogo è ancora segreto, verrà fatto però un video del faccia a faccia


Spostato ancora l´incontro tra il filosofo, l´urbanista Koolhass e lo scrittore Scurati, oltre duemila volevano esserci

Diventa privato il confronto tra l´urbanista Rem Koolhass, Toni Negri e Antonio Scurati. Le polemiche per la presenza di Negri, condannato in via definitiva per insurrezione armata contro i poteri dello Stato, e le richieste di annullamento avevano innescato un meccanismo di pubblicità enorme tanto che, nel giro di una settimana, sono arrivate alla Fondazione oltre duemila richieste di partecipare all´evento. Troppe per essere ospitate in Palazzo Vecchio, la sede istituzionale scelta dalla Fondazione, con il patrocinio del Comune, una scelta che aveva sollevato le proteste della destra. Ma troppe anche per la seconda sede ipotizzata come alternativa, il Teatro Verdi. Trovare un´ulteriore sede, più capiente, poteva anche essere possibile, ma era una situazione difficilmente gestibile dagli organizzatori: l´Osservatorio sull´architettura della Fondazione Targetti avrebbe dovuto affrontare una gestione «logistica e di sicurezza non sostenibile»
Niente incontro al Verdi, quindi, ma un faccia a faccia ci sarà ugualmente. E parteciperanno anche gli altri due relatori attesi, il patron della Targetti Sankey, Paolo Targetti, e l´assessore all´urbanistica Gianni Biagi. Segreto il luogo, ma chi vorrà potrà vedere successivamente il dialogo tra gli autori di «New York Delirius» e «Imperium»: il video verrà proposto nel sito internet della fondazione, www.fondazionetargetti.it. «Certo, ci sarò» conferma l´assessore all´urbanistica Gianni Biagi, mai vicino alle posizioni di Negri ma di cui aveva difeso la partecipazione al convegno perché «in Italia, c´è ancora la libertà di espressione».
«Ci dispiace per il disagio, per le persone che non riceveranno l´informazione in tempo - dice Stella Targetti della Fondazione - ma riteniamo di aver fatto la scelta più opportuna, non ci sentivamo in grado di garantire le condizioni ottimali per una corretta fruizione dell´incontro. Non ci aspettavamo questa adesione di folla, siamo rimasti spiazzati. Evidenemente la pubblicità negativa fatta si è trasformata in pubblicità positiva. Hanno trasformato un incontro sull´urbanistica in qualcos´altro».
(m.f.)

Corriere della Sera 3.10.07
Il Quirinale taglia le spese Scontro Bertinotti-governo
Il presidente della Camera: sui costi esecutivo in ritardo Replica di Palazzo Chigi: nessuna invasione di campo


ROMA — Scoppia uno scontro istituzionale sui tagli della politica e coinvolge il presidente della Camera Fausto Bertinotti e il premier Romano Prodi. Ad accendere il cerino è l'articolo 8 della Finanziaria che prevede il blocco dello stipendio dei parlamentari per cinque anni. «L'avevamo già fatto, il governo arriva con qualche mese di ritardo», commenta Bertinotti. I costi vanno ridotti a tutti i livelli della politica e dell'amministrazione «altrimenti si finisce per litigare e non si ottengono risultati », replica Romano Prodi al Tg1.
Mentre Camera e governo si contendono il primo posto nella gara dei risparmi, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano pubblica il bilancio del Quirinale: per quest'anno le spese per la Presidenza superano le previsioni. A gennaio il Colle aveva «chiesto» 224 milioni, ne sono stati spesi 241. Ma per i 17 milioni di maggiori spese, annunciano dal Quirinale, non verranno chiesti fondi allo Stato: la presidenza provvederà «con risorse proprie e risparmi di gestione». Se l'obiettivo risparmio non è stato raggiunto, spiegano al Colle, il motivo è che quasi il 90 per cento riguarda le retribuzioni che sono costi «rigidi». Ma la cura dimagrante decisa nei mesi scorsi dovrebbe dare i suoi frutti a breve: «Con un decreto presidenziale è stata disposta, dal primo gennaio 2008, la cessazione del meccanismo di allineamento automatico delle retribuzioni al 90 percento di quelle del personale del Senato», si legge nella nota quirinalizia.
In attesa dei risparmi del Colle infuria la polemica politica sui risparmi dei parlamentari. Non è la prima volta che Bertinotti rivendica di aver agito per primo e per tempo («ben prima del grido di Grillo») per calmierare gli stipendi dei parlamentari e limare i privilegi. E ieri è tornato a ribadire: «C'è qualche propensione all'invasione di campo ma sono questioni di carattere».
Da Palazzo Chigi arriva la replica: «Sulla riduzione dei costi della politica l'unico intento è quello di fare proposte costruttive che possano migliorare la situazione, poi deciderà il Parlamento ». La norma sul blocco degli stipendi nella Finanziaria riguarda non solo i deputati ma gli eurodeputati e i consiglieri regionali, spiegano a Palazzo Chigi, e per questo si trova nella legge di bilancio perché si tratta di una diminuzione dei trasferimenti alle istituzioni e dunque di «risorse da investire per altri obiettivi — insiste il ministro Vannino Chiti —. Non c'è ragione per gelosie».

Corriere della Sera 3.10.07
Total sotto inchiesta: «Crimini contro l'umanità»

L'accusa: «Manodopera forzata in un gasdotto birmano». Il ruolo di Kouchner
di Massimo Nava

PARIGI — Complicità in crimini contro l'umanità: l'accusa di cui dovrebbe rispondere la Total per i servizi resi alla giunta militare birmana compromette l'immagine del gruppo petrolifero e mette nell'imbarazzo la Francia, chiamata a dar prova di coerenza dopo aver affermato a gran voce, per bocca del presidente Sarkozy, la necessità di sanzioni economiche e l'obbligo morale di tagliare presenze e congelare investimenti (non solo francesi) in Birmania.
L'imbarazzo coinvolge il ministro degli Esteri, Bernard Kouchner, che ieri, durante il dibattito all'Assemblea nazionale, ha dovuto assicurare che la Total «non sarà esonerata» da eventuali sanzioni contro il regime.
Il gruppo petrolifero è stato messo sotto inchiesta dalla magistratura del Belgio, Paese che dispone di una legislazione pertinente (si pensi all'istruttoria per il genocidio in Ruanda) in relazione a crimini di questo genere, anche nel caso in cui le vittime non siano cittadini belgi. La causa è stata promossa da quattro rifugiati birmani e si riferisce ai lavori di costruzione, negli anni Novanta, del gigantesco gasdotto di Yadana, nel sud del Paese, che oggi alimenta le centrali elettriche della Thailandia con una produzione di 17 milioni di metri cubi al giorno.
La costruzione del gasdotto birmano è stata spesso al centro di indagini internazionali che denunciavano il ricorso a lavori forzati sotto il controllo dell'esercito. Da parte sua, la Total ha sempre negato di aver favorito queste pratiche, per ammettendo, nel 2001, di aver indennizzato operai birmani, circa 400, nel periodo di apertura dei cantieri.
Per sgomberare il campo dai sospetti, nel 2003 la Total affidò una missione al socialista Bernard Kouchner, allora libero da incarichi di governo. Chi meglio del «french doctor» noto per il suo impegno umanitario e per la difesa dei diritti dell'uomo poteva accertare la verità? Kouchner venne contattato da Jean Veil, figlio di Simone Veil e avvocato della Total. L'attuale ministro degli Esteri si recò in Birmania con la moglie, Christine Ockrent, nota giornalista, che realizzò per Elle
un'intervista con la leader dell'opposizione Aung San Suu Kyi, la quale dichiarava: «E' necessario rifiutare ogni forma di aiuto che possa avvantaggiare la giunta militare». Al termine della missione, retribuita 25 mila euro, il sito della Total pubblicò il rapporto di Kouchner che tracciava un'immagine positiva del gruppo petrolifero, escludendo che la Total potesse essersi prestata «ad attività contrarie ai diritti dell'uomo». «Non è più l'epoca di embarghi e sanzioni, la cui efficacia è limitata e provoca sofferenze fra i più poveri», scriveva nel rapporto il french doctor, il quale ha sempre respinto l'accusa di benevolenza retribuita nei confronti della Total, ricordando al contrario i benefici apportati alla popolazione locale sul piano sanitario.
Le polemiche sulla missione di Kouchner vennero archiviate, come la situazione politica e civile della Birmania. Intanto continuarono gli affari e i commerci. Non solo della Total, ma delle innumerevoli società americane, europee, cinesi e asiatiche.
La questione si è riproposta in questi giorni, quando la strategia delle sanzioni economiche (non solo per la Birmania, ma anche nei confronti dell'Iran) è stata riproposta con forza proprio dalla Francia. «Facciamo appello alle società private, per esempio alla Total, a dar prova di grande prudenza per quanto riguarda gli investimenti in Birmania e chiedo che non ce ne siano di nuovi», ha detto Nicolas Sarkozy dopo aver ricevuto il leader dell'opposizione in esilio a Parigi, Sein Win.
Da parte sua, la Total non ha commentato l'iniziativa della magistratura belga. Il gruppo, ai tempi della tangentopoli francese o dei traffici sul petrolio di Saddam, ha dovuto affrontare accuse non meno gravi della schiavitù nei villaggi della Birmania. Sarkozy promette un cambio di atteggiamenti e mentalità anche in politica estera. Vedremo.

Corriere della Sera 3.10.07
DOMANI SU «MAGAZINE»
Trent'anni di sogni trascritti da Federico Fellini


MILANO — A letto... con Gianni Agnelli, o con Pasolini. A colloquio con Paolo VI e, in toni accesi, con Moro. Condannato a morte per impiccagione... Per 30 anni Federico Fellini ha scritto e disegnato i suoi sogni (incubi) notturni, vere e proprie avventure del suo inconscio dotato di grande creatività.
Erano blindate nel caveau di una banca, ora sono diventate un volume, Il libro dei sogni (a cura di Tullio Kezich e Vittorio Boarini) che uscirà da Rizzoli il 17 e che Magazine, in edicola domani con il Corriere, anticipa. I sogni sono tutti datati e trasformati in vignette, fumetti, con lunga didascalia scritto di pugno dal regista, la grafia sottile e fitta. Il «cast» del mondo onirico felliniano è da Oscar: c'è Sophia Loren annegata nella vasca da bagno e Ponti con parrucca rossa; c'è Giorgio Strehler trasformato in bellissima donna; c'è la moglie Giulietta Masina ma anche Mina. E, onnipresente, lui, Federico, di spalle, più magro, coi capelli, «turbato» da Hitler, Almirante, o deliziato dalle sue gigantesse con seni e glutei traboccanti dalle nuvole.

Rosso di Sera 3.10.07
Caro Gavino, salottieri proprio no


Caro Gavino Angius, comprendiamo la tua decisione di uscire dalla Sinistra Democratica. A dire il vero, non avevamo capito perché ci eri entrato. Del resto al congresso Ds vi siete presentati con mozioni diverse che avevano prospettive diverse.
Non ci stupiamo, anzi, l'avevamo largamente previsto. A chi ci diceva che la “questione socialista” sarebbe stata un ostacolo per la “Cosa Rossa”, rispondevamo che sarebbe durata lo spazio di un mattino. Così è stato. I problemi della “Cosa Rossa” sono ben diversi dall'adesione al Pse.
Auguri, quindi, per la tua nuova avventura. Serve, in Italia, una forza laica e liberalsocialista, che bilanci il Pd soprattutto sul piano dell'indipendenza dalle gerarchie ecclesiastiche. Serve una sinistra che, anch'essa attenta alla laicità, metta al centro il lavoro.
Per questo il Partito socialista che farai con Boselli potrà essere, almeno su questo piano, un nostro prezioso alleato. Ed anche su altri. Hai detto, proprio oggi, che il protocollo del Welfare non è intoccabile e che dovrà tenere conto della consultazione tra i lavoratori. E' giusto.
Quello che proprio sbagli è attaccarci, definendoci una sinistra “massimalista e salottiera”.
Massimalisti non siamo, ma anche se lo fossimo lo saremmo nel senso che vorremmo il massimo. Non ci pare peggio di chi non vuole nulla o non si sa cosa vuole.
In ogni caso, “salottieri”, no. Il 20 ottobre scenderemo in piazza, per una manifestazione che a te chissà perché non piace (ci sembra un po' contraddittorio questa avversione con il tuo ragionamento sul protocollo sul Welfare), non staremo a casa.
I salotti sono comodi. Anche quelli delle case degli operai, anche quelli delle case dei precari. Ma ogni tanto bisogna uscire di casa, abbandonare salotto, divano e poltrona e consumare le suole.

il Messaggero 3.10.07
L’Arte ritrovata
Sono rientrate in Italia le prime opere, per un valore di 40 milioni di euro, restituite dal Getty Museum: un affresco, un’antefissa e due vasi unici al mondo
di Fabio Isman


L’accordo stipulato a luglio con il vicepremier e ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli, è stato sottoscritto in modo formale pochi giorni fa; ed è contestualmente iniziato il ritorno dei capolavori d’archeologia. Altre 35 opere giungeranno nel nostro Paese nelle prossime settimane; e la più importante, la Venere di Morgantina, sarà restituita nel 2010. Il complesso dei 40 reperti ha un valore stimato (solo ai fini assicurativi e non a quelli del mercato che sarebbero assai maggiori) in ben 300 milioni di dollari, circa 215 milioni di euro, oltre 400 miliardi delle nostre antiche lire: da sola, la Venere è quotata oltre 25 milioni di euro.
I primi quattro reperti ritornati ieri in Italia sono un grande frammento d’affresco romano, una lunetta con una Maschera d’Ercole del I secolo dopo Cristo (valutato 10 milioni di euro); l’eccezionale kantharos a figure rosse con maschera, attribuito al “Pittore della Fonderia” e ad Eufronio come vasaio, databile al 480 avanti Cristo, 2.500 anni or sono, un pezzo senza eguali al mondo, valutato 15 milioni di euro. Agli atti del processo contro Marion True, già curator del Getty, c’è anche un’orribile fotografia con il “pezzo” appena scavato: il Pm Paolo Ferri, che con i carabinieri del Patrimonio artistico ha condotto le indagini da cui, oggi, provengono queste restituzioni, conferma che, quando l’ha vista per la prima volta, è stato colto da «un brivido».
E gli altri due: un’antefissa a forma di Menade e Sileno danzanti, d’inizio V secolo a.C. (ha una quotazione sui cinque milioni di euro); e un altro grande vaso, una lekythos a figure rosse, proveniente da Paestum, del 350 circa prima di Cristo, attribuita ad Asteas e decorata con il Giardino delle Esperidi, che vale anch’essa attorno ai 10 milioni di euro.
«Tutti questi oggetti, come gli altri che ormai stanno per arrivare, saranno destinati ai musei delle zone dove erano stati scavati e da cui provengono», promette il Ministro; quindi, la Venere, scavata ad Aidone in provincia di Enna, andrà in Sicilia; i vasi apuli saranno invece collocati in Puglia; quelli etruschi verosimilmente al museo di Villa Giulia, a Roma; le statue d’età romana al Museo nazionale di Palazzo Massimo, e così via.
Ma questo non avverrà subito. I primi reperti appena restituiti dagli americani, per un po’ di tempo non lasceranno infatti la Capitale. Perché Rutelli pensa, giustamente, a un’esposizione, che li mostri tutti assieme; magari, anche con gli altri oggetti, spesso assai prestigiosi come il Vaso d’Asteas d’Eufronio, decorato con il Ratto d’Europa, che il Getty ed alcuni altri musei americani hanno restituito in quest’ultimo biennio.
Dal Metropolitan di New York, giusto per citare un caso, con il celebre Cratere pure di Eufronio, così grande da contenere ben 15 litri di liquido (lo si usava per il vino), prelevato da Cerveteri a gennaio 1971 e che sarà consegnato al nostro Paese a gennaio 2008, rientreranno un eccezionale corredo di 15 argenti ellenistici (scavati di frodo, anch’essi a Morgantina), e un’anfora attica a figure rosse, attribuita al “Pittore di Berlino”, di cui Giacomo Medici (uno tra i maggiori “intermediari” al mondo, condannato in primo grado a 10 anni di carcere, e altrettanti milioni di euro da rifondere allo Stato, per i danni provocati al patrimonio culturale), in Porto Franco a Ginevra, conservava ben 34 foto, scattate prima del restauro e subito dopo lo scavo.
Una mostra del genere avrebbe un immenso valore: intanto, permetterebbe ai cittadini di ammirare opere mai viste fino ad ora perché scavate di frodo e subito esportate; inoltre, conterrebbe un forte significato educativo, per la tutela del patrimonio; infine, varrebbe a sottolineare a dovere un atto, la restituzione di opere illegalmente acquistate, che così massiccio non s’era mai visto prima.
Il problema, per una manifestazione del genere, è la sede: ne servirebbe una altrettanto significativa ed emblematica, quanto lo sarebbe questa mostra. Perché allora, ricordandosi, per carità, dei Bronzi di Riace, ma anche della Dama con l’ermellino di Leonardo e delle più recenti rassegne dedicate alla Turchia ed alla mostra europea per i 50 anni dei Trattati di Roma (in quell’incredibile cornice, senza simili sulla Terra, che è la Sala dei Corazzieri), non pensare al Quirinale?
Nessun luogo sarebbe più idoneo, per solenizzare un atto storico e anche la collaborazione internazionale tra due Paesi e tra il Ministero dei Beni culturali ed alcuni dei massimi musei al mondo, che ha permesso a tanti fondamentali capolavori di ritornare nel “loro” luogo, da cui i “predoni dell’arte perduta” (però ora ritrovata) li avevano sradicati in modo assolutamente criminale. Sarebbe un ottimo suggello per la “Grande Razzia” che si è consumata in Italia dal 1970 fino a pochissimi anni or sono.

Liberazione 3.10.07
In Italia c'è una classe sociale oppressa: la borghesia
L'assist di Guglielmo a Luca Cordero ecc.
di Anubi D'Avossa Lussurgiu


In Italia c'è una classe sociale oppressa: la borghesia. Una sua parte, poi, è particolarmente perseguitata: i grandi capitalisti. Non lo sapevate? Colpa della censura attuata dagli oppressori. Adesso, però, potete saperlo: perché c'è un uomo che, eroicamente, sfida quella censura e punta apertamente l'indice contro l'oppressione. E' un libero pensatore, è Luca Cordero di Montezemolo. Non sapevate nemmeno questo, vero? Pensavate fosse un miliardario, il capo dell'associazione degli industriali, insomma un padrone, padrone anche di condizionare il potere politico: perché così vi racconta la disinformatija di questo Paese bolscevico. Ecco invece cos'ha detto ieri: c'è in Italia «il rischio che non si voglia riformare lo Stato per non perdere i privilegi».
Voi pensavate veramente che questo non fosse tanto il rischio del presente, quanto la storia dell'Italia già consegnataci dal quarantennio democristiano a presidio proprio degli interessi capitalistici? Voi pensavate che quanto a privilegi non se la cavasse male, ad esempio, la Fiat attualmente rappresentata proprio da Luca Cordero eccetera, con le centinaia di migliaia di miliardi (di vecchie lire) ricevute in sovvenzioni dello Stato nel corso dei decenni, anche quando cassintegrava o licenziava i suoi operai? E pensate tuttora che una situazione di privilegio sia la quota d'imposizione fiscale sulle rendite speculative pari non solo alla metà di quelle applicate nel resto d'Europa ma ad ancor meno di quella che grava sui correntisti, insomma sul piccolo risparmio? Ecco, appunto: siete inconsapevoli vittime della propaganda di regime.
Ammirate, ancora, il coraggio della verità di Montez: «Non è possibile che in questo Paese se si critica la politica o il sindacato, non si può parlare perché si viene tacciati di antipolitica o antisindacalismo». Voi, ancora imbevuti delle menzogne della dittatura proletaria, vi chiederete: e chi critica le imprese? Domanda oziosa: perché infatti non le critica nessuno. Nel mondo rovesciato di Luca Cordero di Montezemolo la spiegazione è semplice: le imprese non sono criticate, perché sono oppresse. Anzi, come il Prodi di Corrado Guzzanti, forse non esistono, forse non esiste nemmeno lui, Montez, forse anche lui è morto nel 1973: non in un incidente stradale, ma in un gulag, abbattuto con un colpo alla nuca da un delegato Flm che ora si gode i suoi privilegi in Costa Smeralda, travestito da Briatore.
La prova più eclatante che questa realtà parallela è quella vera potete ottenerla anche senza ingerire la pillola di Montez-Neo. La prova che chiaramente il mondo reale è quello descrittoci da lui, viene da Angeletti ed Epifani, cioè due dei capi della trimurti sindacale che è una delle gambe del regime, insieme allo Stato chiaramente in mano a proletari, sottoproletari e rumeni difesi dalle Guardie Rosse travestite da Carabinieri (avete mai notato di che colore è la banda sui loro pantaloni?). Angeletti ha detto l'altro ieri all'attonita platea di delegati e operai delle Carrozzerie di Mirafiori, per difendere l'accordo di luglio: «Noi non contiamo più niente, saremo i poveri del futuro». Ed Epifani ha detto ieri alle lavoratrici e ai lavoratori Wind, sullo stesso accordo: «Se salta tutto lavoratori e pensionati non stanno meglio, stanno peggio».
Voi vedete bene che c'è una sola spiegazione razionale a queste parole, ed è che ha ragione Montezemolo. Perché queste parole rovesciano completamente le credenze diffuse sin qui dalla propaganda (e infatti chi le ha ascoltate proprio non ha potuto crederci e ha reagito così scompostamente come sappiamo): ossia che lavoratrici e lavoratori generalmente siano già poveri, per non parlare di quelli precari. E invece no, le cose non stavano così, avevano tutto il potere: e adesso hanno tutto da perdere, perché è cominciata la lotta di liberazione. Della borghesia. Il governo, un po' come Gorbaciov, ha ceduto e ha aperto la diga: e i segretari generali si ritrovano a parlare un po' come la Sed tedesco-orientale nel 1989.
Non a caso sostiene Guglielmo Epifani, capo della Cgil, la maggiore organizzazione sindacale, dispensatrice sin qui di salari scandalosamente alti, di orari indecentemente ridotti e di contratti d'inaudita arroganza: «Se avessi fatto un accordo con me stesso sarebbe stato strepitoso ma gli accordi li devi fare con gli altri. E in questo il governo non ce l'ha resa facile. Magari si fosse trattato di un governo amico». Ora: se Epifani rappresentasse davvero una cospicua parte d'una classe subalterna, diciamo sfruttata, di fronte ad un governo non amico, diciamo avverso, su una proposta che riguarda i diritti di chi rappresenta, cosa dovrebbe fare? Anzi, cosa avrebbe dovuto fare, invece di firmarlo? Se non metterlo in discussione, ed eventualmente organizzare una vertenza, una mobilitazione, una lotta? Vedete bene, ancora, che le cose non possono stare così.
Basta scherzare: nel mondo rovesciato di Luca Cordero di Montezemolo, dove alla politica dominante «manca la cultura del mercato» e il sindacato presiede agli «ostacoli» che impedirebbero il libero sviluppo del mercato medesimo, Epifani è l'immagine perfetta d'un potere che capitola. E il punto è che in realtà è proprio così: quella significata dalle parole dei segretari generali è la resa di un'idea di sindacato, ossia del potere democratico di chi lavora di contrattare, almeno, il suo destino. Ciò di cui Epifani e Angeletti vogliono persuadere le loro platee nelle fabbriche e negli uffici, è che il potere dei padroni è assoluto. Che il futuro è tutto loro, dei padroni. Senza alcuna risposta possibile a quella domanda lanciata (oltre ai fischi) in Mirafiori: «E allora che ci state a fare?».
E' sapendo questo che La Stampa , cioè il giornale della Fiat, può riassumere la partita politica come ha fatto con l'editoriale di Geremicca di ieri: la sinistra deve rendersi conto che è nell'angolo. Perché se - come previsto, viste le "regole" - nella consultazione sindacale vincono i sì al patto del 23 luglio, tutta l'agitazione della sinistra stessa è inutile. Ma se per accidente . facciamo per assurdo - dovessero pur vincere i no, l'accordo rimarrebbe comunque qual è: come hanno detto sia Prodi sia Montezemolo sia Epifani. Ossia: il sì vale, il no, no. E' un modo, certo, per intimare alla sinistra politica di piantarla e allinearsi ai vertici di Cgil Cisl e Uil. Ma è la rivelazione della vera paura: che anche per i paradossi di Montez, anche per la concertazione, questa concertazione a perdere, possa giungere, referendum o non referendum, l'ora d'un ben più preoccupante V-Day. Ed è per questo che si bastona la sinistra politica: non perché si tema davvero che nel Palazzo si possano cambiare le carte in tavola, ma perché si vuole convincere il malessere sociale che non ha alcuno sbocco politico. Che il futuro è di Luca Cordero di Montezemolo, persuadetevene. E dacché suo, a lui arreso, è già il sindacato, potete ben persuadervi che nel suo mondo non ci sarà altra politica che la sua: cioè, oltre a quella di Berlusconi che aveva già reinventato la realtà allo stesso modo, quella del Piddì.
Come si capisce, tutta la campagna di contestazione ai "privilegi" della politica e dei poteri pubblici, che pure esistono, vista dall'alto e cioè da chi dall'alto del suo potere economico e sociale la sollecita, è totalmente falsa. Di mira non c'è affatto una maggiore autonomia della società dal potere politico: c'è, anzi, l'intimazione ad ogni opposizione sociale di dismettere qualsiasi velleità di autonomia dal quadro politico. Come insegna Epifani.

Liberazione 3.10.07
Pisapia: «Rischiamo di scivolare verso uno stato di polizia»
«Profili incostituzionali nel piano Amato»
di Angela Mauro


Il caso del Br Piancone: «Non si risolve il problema attaccando i giudici»
Cofferati attacca il questore di Bologna? «Segue logiche egocentriche»

Cofferati che a Bologna se la prende con il questore Cirillo accusandolo di non aver impedito lo "street rave" non autorizzato di sabato scorso. Cofferati che poi alza la voce con Amato, chiedendo poteri di polizia per i sindaci. E il ministro degli Interni che, da parte sua, si appresta a presentare in consiglio dei ministri (il 12 ottobre prossimo) un piano sulla sicurezza con il quale si affida ai prefetti il potere di espellere chi viola la sicurezza pubblica. Il rischio è che «pian piano si scivoli verso uno stato di polizia», lancia l'allarme Giuliano Pisapia per denunciare la tendenza, che sembra prevalere tra i maggiorenti del Piddì, a non salvaguardare quella «divisione dei poteri» che sta alla base di ogni democrazia.
Concentrare poteri nelle mani dei sindaci, come chiede il primo cittadino di Bologna, denota una mancanza di rispetto per le «competenze e professionalità» delle forze di polizia e di quei questori che, come Cirillo, «evitano tensioni e scontri che sarebbero nocivi per la sicurezza pubblica». In questo, spiega il giurista, Cofferati mostra una «logica egocentrica». Dall'altro lato, assegnare poteri di espulsione ai prefetti denota «fondati profili di incostituzionalità» e significa non tener conto del fatto che la legge attuale già prevede diversi meccanismi di espulsione. Se a tutto questo si aggiunge l'attacco di Amato ai giudici che hanno scarcerato l'ex br Piancone, riarrestato ieri in una rapina a Siena, il quadro che viene fuori è quello di un «abisso» in cui si è consapevolmente cacciato un centrosinistra che quando era all'opposizione faceva «battaglia comune contro la Bossi-Fini». L'attacco del ministro degli Interni ai magistrati è «l'ultima dimostrazione di chi parla più per colpire l'opinione pubblica che per risolvere i problemi», dice Pisapia.

Ma perchè il centrosinistra ha intrapreso questa via?
Evidentemente si ritiene che si andrà alle elezioni anticipate e si pensa di battere la destra lanciando questo tipo di messaggi all'opinione pubblica. Un calcolo sbagliato perchè il piano Amato risulterà inefficace e la delusione degli elettori aumenterà. E' già successo con il pacchetto sulla sicurezza approvato dal governo di centrosinistra nel 2001 (Amato premier, Fassino alla Giustizia, Enzo Bianco al Viminale, ndr.), con l'opposizione del Prc. E' risultato inefficace, tanto che gli stessi problemi si ripresentano oggi. Ma dico: il centrosinistra ha dimenticato quella lezione? Errare è umano, ma perseverare è diabolico.

Partiamo dall'ultimo caso di cronaca, quello dell'arresto di Piancone e dell'attacco di Amato contro i giudici che lo hanno scarcerato. Perchè tanta veemenza?
Si parla per colpire l'opinione pubblica e non per risolvere i problemi. La realtà è che bisogna considerare che ogni decisione giudiziaria può comportare dei rischi. L'importante è che il beneficio sia stato concesso sulla base di quanto previsto dalla legge. Così come è importante ricordare che meno dello 0.8 per cento delle persone che hanno usufruito dei benefici dell'ordinamento penitenziario non ha commesso ulteriori reati. Il che significa che oltre 500mila persone che negli ultimi dieci anni hanno usufruito di tali benefici si sono reinserite completamente nella società, mentre se non ci fosse stata la legge Gozzini probabilmente sarebbero tornate a delinquere. Non si possono accusare nè i giudici, nè la legge per un singolo fatto che purtroppo è fisiologico ma che, qualora determinasse un ulteriore inasprimento dell'ordinamento penitenziario, non determinerebbe la diminuzione dei reati ma il loro aumento. Amato dimentica di essere al governo da quasi due anni: anzichè sbraitare di fronte a fatti gravi ma numericamente limitati, dovrebbe riflettere su quanto ha fatto il governo per creare le condizioni affinchè fatti del genere non accadano. Mi riferisco all'aumento degli organici degli educatori, assistenti sociali e magistrati di sorveglianza. In questo senso il governo Prodi non ha fatto nulla.

Ora sembra che voglia fare molto in materia di sicurezza, con tutto un pacchetto che Amato presenterà in consiglio. Che ne pensi?
Si propongono nuovi strumenti di espulsione dimenticando che la legge attualmente in vigore prevede l'espulsione da parte del giudice previa condanna, l'espulsione per motivi di sicurezza, quella valida come sanzione sostitutiva alla detenzione e quella amministrativa da parte del ministro per chi abbia recato danno all'ordine pubblico dello Stato. Inoltre, la legge prevede già l'espulsione amministrativa da parte del prefetto. Si dimentica poi l'incapacità del ministro di provvedere alle espulsioni già decise. Non basta: si dimentica la battaglia di tutto il centrosinistra, nella scorsa legislatura, contro la Bossi-Fini e contro la scelta di affidare al giudice di pace le espulsioni, sottraendole così alla competenza della magistratura ordinaria.

Assegnare maggiori poteri ai prefetti è una scelta che definiresti fascista?
Presenta fondati profili di incostituzionalità. La logica che sottende il pacchetto Amato va contro il buon senso e, non si può dimenticarlo, anche contro il programma dell'Unione. Affidare ai prefetti il potere di espellere chi nuoce alla sicurezza pubblica significa anche rischiare di mandare in giro per il mondo un individuo potenzialmente pericoloso. Invece su di lui andrebbero fatti accertamenti e, qualora risultasse appartenente a gruppi vietati dalla legge oppure intento a organizzare un attentato, si dovrebbe procedere con l'applicazione delle norme esistenti e con tutte le garanzie giudiziarie. Oltretutto, lo stesso concetto di sicurezza pubblica è generico, non ha precedenti giurisprudenziali, è un bene giuridico indistinto. Il rischio è di dar luogo a provvedimenti arbitrari: un domani un prefetto potrebbe anche espellere chi partecipa ad una manifestazione non autorizzata.

Un centrosinistra che copia dalla destra, dunque. Quale può essere la ricetta della sinistra?
Maggiore prevenzione e controllo del territorio, in consonanza con la cittadinanza, per garantire il suo "senso" di sicurezza, e utilizzando le 20mila unità delle forze dell'ordine attualmente impiegate in ufficio. E poi, anzichè proporre nuove norme, si pensi a modificare la Bossi-Fini nel senso previsto dal programma dell'Unione, cioè garantendo un maggiore inserimento, insieme alle politiche di prevenzione e repressione con una certezza della pena non necessariamente detentiva. Invece si è scelto di procedere per proclami. Si ragiona su temi così delicati non sulla base di dati oggettivi, ma lanciando messaggi demagogici nel timore di essere scavalcati dalla destra. Ho appena letto una delle ultime affermazioni di Veltroni: "Essere buoni con i buoni e cattivi con i cattivi". Io direi: buoni con i buoni e severi con i cattivi nel rispetto del principio di uguaglianza per non essere forti con i deboli e deboli con i forti. Aggiungo che è emblematico il caso di Treviso. Dopo l'omicidio dei due coniugi, barbaramente uccisi nell'agosto scorso, il ministero degli Interni ha inviato 50 investigatori in zona grazie ai quali si è riusciti a individuare i colpevoli. Ma dopo cosa è successo? Anzichè valorizzare il successo ottenuto contro la criminalità, lo stesso giorno è iniziata la caccia ai lavavetri con tutte le giuste polemiche che sono seguite. E' iniziata a Firenze ed è stata purtroppo sostenuta da molti sindaci di centrosinistra.

L'ha sostenuta anche Cofferati che ora accusa il questore di Bologna per non aver impedito la street parade non autorizzata di sabato scorso e chiede poteri di polizia per i sindaci. Siamo alla deriva totale?
Quando in fatto di sicurezza si pensa di cercare accordi con An, piuttosto che con i propri alleati a sinistra, come fa Cofferati, non si tratta più di deriva ma di un cambiamento genetico della cultura che dovrebbe essere di sinistra. Oggi i sindaci hanno già a disposizione molti strumenti di carattere amministrativo per garantire la vivibilità in città. Se gli si danno anche poteri di polizia, si scivola pian piano verso uno stato di polizia.

Cofferati sfiducia la polizia, Amato sfiducia i giudici. Stessa logica?
Io dico che la divisione dei poteri è fondamentale in democrazia: ad ognuno, le proprie competenze e responsabilità. Un sindaco che non apprezzi il questore che riesce ad evitare tensioni e scontri, che metterebbero a rischio anche la sicurezza dei cittadini, segue una logica egocentrica e pensa di essere l'unico capace di risolvere i problemi. Questo è molto pericoloso. E' l'inizio di un abisso, spero non irreversibile.

martedì 2 ottobre 2007

l’Unità 2.10.07
Welfare, accordo sì accordo no. Il dilemma sbarca a Mirafiori
Montezemolo: nessuna modifica


La sinistra dell'Unione non accetta il diktat di Romano Prodi sul protocollo sul welfare da inserire in Finanziaria. Il pomo della discordia resta quello: l'accordo firmato dai sindacati lo scorso 23 luglio che dopo la bocciatura della Fiom è proprio in questi giorni all'esame delle assemblee dei lavoratori e il 12 ottobre dovrebbe essere tradotto in un disegno di legge collegato alla Finanziaria. Lo slittamento dell'approvazione definitiva a referendum concluso aveva già importunato il centrista Lamberto Dini. Poi domenica sono scoppiate polemiche tra le due ali estreme della compagine di governo. Infine è intervenuto il premier Romano Prodi per chiarire che il protocollo sul welfare non è emendabile, «è stato firmato dalle parti sociali e quindi rimane quello firmato con le parti sociali». Anche se, ha aggiunto il premier, «il Parlamento ha una sua ampia libertà di azione».
Lunedì però la sinistra torna alla carica. Sono «incomprensibili le polemiche sull'intangibilità del protocollo sul welfare», sostiene Titti Di Salvo, capogruppo della Sinistra Democratica alla Camera. A suo giudizio, «il rispetto dovuto al referendum, un appuntamento straordinario della democrazia italiana, non può esimere il Parlamento dall'assunzione di responsabilità. Si tratta di migliorare il protocollo (lavori usuranti, contratti a termine e staff leasing) e non peggiorarlo, avendo sempre in mente la scadenza del 31 dicembre». «Ci risulterebbero perciò incomprensibili e gratuite le polemiche ideologiche sull'intangibilità del protocollo - aggiunge - polemiche che arrivassero da dentro o fuori la coalizione».
Mentre per Marina Sereni, vicepresidente gruppo l'Ulivo, è la sinistra a porre continui aut aut su questo tema. Il presidente della Camera Fausto Bertinotti chiudendo la festa di Rifondazione aveva detto che su questa questione del welfare «la partita è ancora aperta». Prodi e Damiano la considerano chiusa. La verità è che l'ultima parola, a quanto pare, spetterà ai lavoratori.
In una intervista rilasciata a Repubblica il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani indica nel sì al referendum tra i lavoratori l'elemento decisivo per la tenuta del governo. Decisivo «per ragioni di merito - dice Epifani - ma anche perché in caso contrario salterebbe il "banco"». Epifani appare deluso dal mancato taglio delle tasse a vantaggio dei lavoratori, sui soldi per la pubblica amministrazione. Ma dice che «nelle condizioni date» la manovra presentata è la migliore possibile e comunque nelle mani dei lavoratori e dei pensionati -5 milioni di persone che si esprimeranno dopo 50mila assemblee- c'è ora «una grossa responsabilità». L'intervista di Epifani non è piaciuta ai collega della Uil, Luigi Angeletti e della Cisl Raffaele Bonanni che vi hanno letto un eccessiva politicizzazione del voto dei lavoratori. Ma il premier Prodi precisa: «Mi aspetto che i lavoratori votino liberamente, ma mi auguro che si rendano conto di come sia un protocollo attento ai diritti dei più deboli», aggiungendo che comunque alla fine lui è convinto che anche questa volta le divisioni non avranno la meglio.
Secondo quanto riferisce la Cisl le assemblee in corso stanno andando tutte nel senso di un'approvazione del protocollo d'accordo a maggioranza, dopo la bocciatura in un referendum interno da parte della sola Fiom. Ma proprio in queste ore sono in corso alcune delle assemblee più delicate, come quelle gestite da Cgil Cisl e Uil lunedì mattina appunto nello stabilimento Fiat di Mirafiori.Il segretario Ui Angeletti ha negato di essere stato fischiato durante l'assemblea a porte chiuse. Ma ha ammesso l'esistenza di un forte malessere tra gli operai, «determinato soprattutto dalla consapevolezza di essere tra coloro che lavorano di più e guadagnano di meno e ovviamente chiedono al sindacato di rendere conto di questa situazione. Ci sono state anche argomentazioni politiche - ha detto ancora - del tipo "il governo non ci ascolta molto e anche se dice di essere di sinistra non fa cose che noi condividiamo"». Fischi dunque no ma mugugni sì, sia tra i promotori del no sia tra quelli del sì. Nei pronostici del voto dell'8, 9 e 10 ottobre per Angeletti: «Se si andrà in tanti a votare, con una percentuale intorno al 60-70%, sarà un pareggio o addirittura vinceremo», ha proseguito il segretario generale della Uil. «È chiaro che se voteranno in pochi è scontata la vittoria del no».
La riduzione delle tasse sulle imprese previsto dalla Finanziaria è un passo nella giusta direzione, ma ora bisogna pensare a detassare gli stipendi dei lavoratori. Così il presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, in occasione dell'incontro con le matricole della Luiss, commenta la manovra per il 2008. «Valutiamo sempre i governi non in sé, ma sui singoli provvedimenti - spiega Montezemolo - a parte quello che ha già detto Confindustria che sul fisco per le imprese, sullo sviluppo e crescita del Paese, si è andati nella strada giusta, credo che bisogna porsi dei problemi seri a cominciare dal fatto che i lavoratori sono quelli che contribuiscono di più insieme all'imprenditore e al management, al successo delle imprese».
Secondo Montezemolo ora è il momento di intervenire e detassare gli stipendi dei lavoratori. «Pagano regolarmente le tasse in busta paga e non evadono. Credo - sostiene il leader degli industriali - che una forte riflessione sulla detassazione di quello che è lo stipendio sia necessario fare. Credo che bisogna cominciare a restituire con meno tasse in busta paga, tasse a chi le paga regolarmente come i lavoratori».

l’Unità 2.9.07
L’intervista di Epifani e il salto del «banco»
Se al referendum vincesse il no «salterebbe il banco». Così Guglielmo Epifani intervistato da Repubblica


«Soltanto il sì può salvare questo governo», è stato il titolo del quotidiano che nel «banco» ha visto, appunto, Prodi e la sua squadra. Piombo, se detto da un sindacalista, in ogni caso abbastanza per scatenare un putiferio. Da destra, sinistra e centro accuse al segretario della Cgil di trasformare il referendum sindacale in una consultazione sul governo. A poco è servita la smentita di Corso d’Italia: «Titolazione e contenuto dell’intervista di Epifani a “La Repubblica” contengono affermazioni mai espresse dal segretario». «Epifani non ha mai asserito: “se le fabbriche votano no al protocollo cade il governo”. Spiace riscontrare che, come conseguenza della scelta del quotidiano, emerga una evidente forzatura del pensiero del segretario della Cgil».
Nel giorno in cui gli operai di Mirafiori in assemblea esprimevano il proprio malessere con fischi (o mugugni che dir si voglia) e la maggioranza continuava in fibrillazione il confronto-scontro sul protocollo sul welfare, l’intervista e il suo titolo sono state benzina sul fuoco. Dentro la Cgil, è durissimo l’attacco di Giorgio Cremaschi ormai in aperta rottura con il segretario Epifani. «L’intervista è la dimostrazione della crisi del gruppo dirigente della Cgil, che da tempo ha perso la bussola» attacca il leader dell’ala sinistra Rete 28 aprile. A suo avviso il «ruolo» di Cgil, Cisl e Uil è «quello di essere i 3-4 senatori mancanti per la maggioranza».
Ma si smarcano anche Cisl e Uil, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti parlano di errore e temono che la «politicizzazione» della consultazione, il rischio che diventi un si o un no sul governo e non sull’accordo e magari quello che i “no” aumentino. L’«appello» al voto ha fatto infuriare la sinistra, che vuole modificare il protocollo sul welfare e confida nel voto contrario dei lavoratori per farlo pesare. E come un fiume carsico, riaffiora il caro tema dell’autonomia sindacale. «Ad Epifani vorrei ricordare che la Cgil si è sempre considerata autonoma dal governo, dai partiti, dai padroni, e tale deve rimanere», arringa Manuela Palermi, capogruppo Pdci alla Camera. «Che adesso i lavoratori debbano votare “si” a un accordo che li penalizza, addirittura per salvare il governo, pare proprio eccessivo», aggiunge per lo stesso partito Marco Rizzo. E per il senatore di Prc, Fosco Giannini, sono «dichiarazioni gravissime».
fe. m.

l’Unità 2.9.07
Il «protocollo» non piace a Mirafiori
Tra sì e no, una discussione forte. Tensione, fischi e contestazioni alle assemblee
di Giampiero Rossi


RABBIA Mirafiori si conferma un banco di prova difficile per il sindacato. Nessuno, ieri mattina, si aspettava che presentare l’accordo di luglio sul welfare nella fabbrica-totem dei metalmeccanici italiani sarebbe stata una passeggiata. E gli operai torinesi del-
la Fiat hanno confermato le aspettative di dirigenti di Cgil, Cisl e Uil che hanno avuto il delicato compito di illustrare punto per punto i contenuti del protocollo sul quale i lavoratori e i pensionati italiano dovranno pronunciarsi tra otto giorni.
È toccato al segretario generale della Uil Luigi Angeletti e alla segretaria confederale della Cgil Morena Piccinini, ieri mattina, affrontare la spigolosa platea di Mirafiori, rispettivamente ai reparti carrozzerie e verniciatura. Assemblee civili, durante le quali a nessuno è stato impedito di parlare. Ma dove sono emersi prepotentemente, senza filtri, i dubbi e i timori degli operai. Certo, le "contestazioni", quelle vere, sono tutt’altra cosa, sottolinea chi ricorda certi interventi sindacali difesi con strenui forzi fisici dai servizi d’ordine che proteggevano il palco, ma questo non significa che non si sia percepita - a dir poco - una certa diffidenza e un po’ di delusione. Tanto per capire che aria tira nei reparti Fiat sono molto illuminanti le parole di Angeletti al termine dell’assemblea, quando il leader della Uil non si sottrae a un pronostico sul possibile esito della consultazione nello stabilimento torinese: «Se la partecipazione al voto sarà alta pareggeremo, se sarà bassa vinceranno i no«. A suggerire questa interpretazione dell’umore dei circa 1.500 lavoratori che hanno animato l’assemblea non sono stati tanto i fischi (che pure ci sono stati, ma mai di intensità tale da disturbare chi parlava), quanto gli applausi (questi sì, più nitidi) rivolti ai delegati sindacali che si sono succeduti al microfono per manifestare la loro opinione contraria a quella dei sindacati confederali. I "no", insomma, hanno ricevuto un consenso più evidente rispetto ai "sì".
Ma cosa c’è in quei no, al di là delle posizioni ormai chiare all’interno dello schieramento sindacale "ufficiale", cioè la lacerante opposizione all’accordo espressa dalla Fiom? «Noi abbiamo cercato, come è nostro dovere, di spiegare il protocollo nel merito, nei suoi contenuti oggettivi - dice Morena Piccinini, fresca reduce dall’assemblea alla verniciatura - ma nel corso della discussione abbiamo potuto renderci conto che a molti lavoratori è arrivata un’informazione incompleta, a tratti persino distorta». Un esempio? «Tra gli stessi che ci hanno rinfacciato di non aver difeso il loro diritto ad andare in pensione abbiamo potuto constatare che ce n’erano tanti che in realtà quel diritto lo hanno potuto mantenere intatto, proprio grazie all’intesa che ha scongiurato la scure dello scalone Maroni. E poi mentre parlavamo ci rendevamo conto che accanto a quello che protestava per gli scalini c’era quell’altro che pensava al figlio studente. Insomma, abbiamo trovato una grande attenzione al merito, che poi è l’oggetto vero degli incontri di queste settimane»
In realtà, sottolinea ancora la dirigente della Cgil, a turbare persone che devono mandare avanti famiglie con buste paga che raramente sfondano il muro dei 1.100 euro al mese sono questioni cruciali che appartengono alla sfera del welfare ma che non rientrano nel protocollo di luglio: «Casa, contratto e salario, politica fiscale. Sono questioni che generano una forte tensione tra i lavoratori - spiega Piccinini - ma dobbiamo fare molta attenzione a non scaricare tutto sul testo dell’accordo di luglio. Sono temi sui quali il sindacato intende fare la sua battaglia una volta concluso il capitolo di questa consultazione e sui quali la politica deve dare delle risposte che finora non ha fornito». Un punto, inoltre tengono a chiarire i sindacati: «Questo non è un referendum sul governo, ma un referendum sul protocollo di luglio», come dice la segretaria Cgil. Anche se, secondo Angeletti, la distanza tra operai e governo esiste eccome: «Il problema del governo non è l’eventuale no al protocollo, ma la sua coesione interna - dice il leader della Uil - e l’interesse dei lavoratori non è far cadere Prodi, anche se mi sembra che ci sia stata finora una politica fatta più che altro per tirare a campare».

l’Unità 2.9.07
Ma la legge anti-violenza che fine ha fatto?
Il decreto da dieci mesi fermo alla Commissione giustizia. Bloccato da uno schieramento trasversale che vuole approvare le norme in tre pacchetti diversi. E intanto le donne sono vittime di stupri e omicidi
di Anna Tarquini


SE IL DECRETO contro la violenza sessuale fosse già legge forse nessuno avrebbe dovuto leggere la storia di Sara, uccisa con un pugno in testa dopo anni di persecuzioni da parte di chi si sentiva rifiutato. Non l’avrebbe letta nessuno perché la nuova norma-
tiva voluta dal ministro Pollastrini e da dicembre 2006 in discussione alla Commissione Giustizia preveder questa nuova fattispecie di reato. Ma quella legge è ferma al palo. Anzi, rischia di non trovare mai la strada maestra perché c’è chi vuole fermarla. E non è solo l’opposizione a disseminare mine: anche all’interno della stessa maggioranza c’è chi preferirebbe scorporare alcune norme troppo avanzate - come ad esempio quella che prevede il reato di stalking o tutta quella parte di norme che riguarda la prevenzione e l’accompagno delle vittime di abusi sessuali - e procedere in via spedita all’approvazione delle sole norme che prevedono un inasprimento delle pene. Dopo un anno di lavori a rilento l’ultima seduta della Commissione presieduta da Pisicchio ha fatto accendere la spia: troppe norme estranee, il testo di legge si occupa di troppe altre cose. Come ha affermato Paolo Gambescia dell’Ulivo: «...la Commissione deve scegliere se trattare della violenza sessuale ovvero del contenuto del disegno di legge governativo, che va ben oltre il tema della violenza sessuale, disciplinando altri ed eterogenei fenomeni di violenza e prevaricazione che, probabilmente, dovrebbero seguire un percorso autonomo...». Si riferisce forse Gambescia alla Bindi, che ha imposto nel ddl l’iserimento di un reato per proteggere gli anziani dalle truffe. Ma non solo questo.
Il là, la pietra dello scandalo, è la norma che punisce come aggravante l’omofobia e l’odio di genere. Scoppia in agosto, il primo agosto. Parte della commissione è per scorporare questi reati dal pacchetto antiviolenza, l’arcigay lo denuncia. Ma non sono solo queste nuove regole e non è solo l’opposizione a fare ostruzionismo. L’obiettivo è quello di scorporare il ddl antiviolenza in tre per dare precedenza alle norme penali e affiancare, in un iter indipendente che dovrebbe poi procedere con le norme sull’omofobia, anche tutte le innovazioni che riguardano la prevenzione, l’accompagno della vittima. Le norme che - appunto - dovrebbero contribuire a cambiare la cultura da dove nasce lo stupro e la violenza contro le donne.
Così scorporato il terzo pacchetto antiviolenza porterebbe con se ad esempio l’obbligatorietà da parte delle amministrazioni locali di fare campagna di informazione e sensibilizzazione, il registro dei centri antiviolenza, l’assistenza sanitaria alle vittime, il sostegno sociale con protezione e supporto anche economico la dove fosse necessario. E ancora l’equiparazione dei maltrattamenti familiari alla violenza e l’estensione di questi reati anche per chi coinvolge i minori e per chi li sottrae portandoli all’estero. Sarebbe stralciato anche l’articolo 612 bis che punisce «chiunque ripetutamente molesti o minacci qualcuno in modo da turbare le sue normali condizioni di vita». Se qualcuno avesse deciso che il reato di atti persecutori dovesse essere costituito e regolamentato in fretta Sara Wasington forse avrebbe potuto denunciare il suo molestatore che la perseguitava da tre anni. C’è però chi non vuole questa legge che per la prima volta affronta in maniera organica l’intero tema della violenza e degli abusi sessuali. Di ieri l’ultimo appello di Barbara Pollastrini: «La Finanziaria segna passi importanti per le donne. Abbiamo scelto di mettere al centro del confronto due grandi capitoli: quello per i diritti umani (con la richiesta precisa di un investimento per il contrasto alle molestie e alle violenze contro le donne), e la conferma dei finanziamenti per le azioni contro l’infibulazione e la tratta. Su questo fronte la risposta è stata positiva. Ora cerco un sostegno bipartisan».

l’Unità 2.9.07
Birmania: cento morti, 4000 desaparecidos
L’opposizione pensa a uno sciopero generale. Milizie delle minoranze etniche rinnovano gli attacchi all’esercito in varie zone del Paese. L’inviato dell’Onu dal capo della giunta
di Gabriel Bertinetto


L’INVIATO DELL’ONU Ibrahim Gambari ha lasciato ieri Rangoon (Yangon) diretto a Naypidaw, la nuova capitale che i generali hanno fatto costruire nel cuore della jungla. Lì oggi sarà finalmente ricevuto dal capo del regime. Dopo una giornata di estenuante attesa, l’ufficio delle Nazioni Unite a Rangoon ha potuto finalmente confermare ieri notte che a Gambari era stato comunicato che «potrà incontrare il generale Than Shwe martedì (oggi)». Gambari aveva già incontrato il numero quattro del regime sabato al suo arrivo in Birmania, e domenica ha potuto rimanere a colloquio per più di un’ora con Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, leader del movimento democratico, trattenuta da molti anni agli arresti domiciliari a Rangoon. Sull’andamento di entrambi i colloqui non si è saputo quasi nulla.
La diplomazia internazionale ripone grandi speranze nella missione del rappresentante di Ban Ki-moon. L’obiettivo è quello di convincere la giunta al potere a porre fine alle violenze e ad avviare un dialogo con l’opposizione. La portavoce di Ban Ki-moon, Marie Okabe, ha affermato che il segretario dell’Onu ha parlato ieri con Gambari chiedendogli di convincere i dirigenti birmani «a fermare la repressione delle proteste pacifiche, rilasciare i detenuti» e avviare un credibile processo di riconciliazione nazionale.
Dopo giorni e giorni di proteste popolari e di violenta repressione militare, da qualche giorno la mobilitazione anti-regime a Rangoon sembra affievolirsi, anche se fonti della diaspora democratica birmana all’estero rivelano che i sindacati avrebbero proclamato uno sciopero generale contro la dittatura. Contemporaneamente i movimenti armati delle varie etnie che da anni sono in lotta con il governo centrale, avrebbero rinnovato gli attacchi all’esercito regolare. Questo avrebbe costretto la giunta a spostare parte delle truppe da Rangoon ad altre zone del Paese. Nell’ex-capitale comunque nessuno ieri osava più radunarsi nelle strade, presidiate a ognuno dei principali incroci dai soldati fedeli a Than Shwe. Scomparsi, rimossi dai soldati, i rotoli di filo spinato che monaci e cittadini democratici avevano sistemato intorno alla pagoda Shwedagon, luogo simbolo della rivolta contro la dittatura, da dove sono partiti molti cortei.
Le autorità sostengono che i morti negli scontri della settimana scorsa sono stati dieci. La cifra è contestata dagli oppositori che attraverso le loro rappresentanze in esilio parlano invece di un centinaio di vittime. Incerto anche il numero delle persone arrestate. L’Associazione di aiuto ai detenuti politici (Aadp), che ha sede a Bangkok, nella vicina Thailandia, e cerca di tenere i contatti con le persone detenute nelle quarantatre carceri birmane, ritiene che gli arresti siano stati nelle ultime due settimane ben 1500. Bo Kyi, co-segretario dell’associazione, riferisce che molti sono stati torturati in cella. Ancora più inquietante il quadro descritto alla Bbc da fonti vicine alle milizie filo-governative. I monaci arrestati sarebbero 4000, ammassati in una scuola tecnica e in un ex-ippodromo in attesa di essere trasferiti in alcune prigioni nel nord della Birmania.
Amnesty International ha rivolto ieri un appello al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite affinché sia imposto un embargo totale alla vendita di armi alla Birmania. L’organizzazione ha anche sollecitato i principali fornitori -in particolare Cina e India, ma anche Russia, Serbia, Ucraina e i paesi dell’Associazione nazioni Sudest asiatico (Asean)- a «proibire il coinvolgimento di proprie agenzie, compagnie e singole persone nella fornitura, diretta o indiretta, di materiale militare e di sicurezza, munizioni e consulenza, compresi i trasferimenti definiti “non letali”».

Repubblica 2.9.07
"Il manifesto" lancia "l'Album di famiglia". In edicola bustine con cinque pezzi a 90 centesimi
Da Marx a Gobetti, da Stalin a Pol Pot in 220 figurine il pantheon anti-Pd
di Paolo Griseri


Non ci saranno solo comunisti previsti anche personaggi negativi
Due mesi di tempo per completare la collezione. Un unico autore per tutte le didascalie

Scambieresti un Bakunin doppio con un Occhetto? E un Gobetti con un Gramsci? L´ultima provocazione del manifesto coincide, non casualmente, con il varo del nuovo Pd. Mentre Ds e Margherita fondono le loro storie, o le seppelliscono come sostiene la sinistra radicale, il "quotidiano comunista" propone ai suoi lettori "l´Album di famiglia". Duecentoventi figurine da acquistare in edicola come se gli uomini che hanno fatto, nel bene e nel male, la storia della sinistra fossero altrettanti calciatori da immortalare nella raccolta della vita.
In via Tomacelli c´è aria di mistero sui nomi di chi ha ottenuto il privilegio di finire sull´album. Pare che la proposta fosse stata fatta alla Panini, mitica casa editrice degli album di calcio ma che alla fine si sia scelto di autoprodurre l´album con l´editrice del manifesto. Come sempre, a fianco delle motivazioni politiche, spinge la necessità di fare cassa per porre rimedio alla situazione finanziaria del giornale. Il battage pubblicitario inizia oggi con un slogan enigmatico: «Gli unici che possono attaccare i comunisti sono i comunisti».
Per attaccare i comunisti sull´album ci saranno due mesi di tempo. Tanto rimarranno in edicola le bustine da cinque figurine al prezzo di 90 centesimi. Ma in redazione non nascondono di aspettarsi il successo dell´iniziativa: sono state già prodotte un milione e ottocentomila buste. Non ci saranno personaggi rari o introvabili, come invece accadeva un tempo con i calciatori. Lo impedisce la legge: «Ogni acquirente - dicono i redattori - dovrà avere le stesse possibilità di completare l´album. Non ci sarà la ricerca spasmodica del Pizzaballa di turno».
Nell´album non ci saranno sono personaggi positivi e non solo comunisti: «Abbiamo deciso - dicono in via Tomacelli - di inserire figure che hanno avuto un ruolo nella storia della sinistra internazionale. Nel bene e nel male». Così accanto all´ovvio Marx ci saranno il liberale Piero Gobetti e lo scrittore Primo Levi. E non mancheranno i mostri: da Stalin a Ceausescu a Pol Pot. Inevitabile la presenza dei segretari del Pci, compreso Luigi Longo che radiò il gruppo del Manifesto nel novembre del 1969. Tra i politici italiani c´è un posto anche per Veltroni: «A suo dire - spiega la didascalia - non è mai stato comunista». Segue il curriculum del sindaco di Roma nel Pci.
Le didascalie sono tutte redatte dallo stesso, misterioso, autore. Che in calce alla foto di Stalin, scrive: «´Terrore dei fascisti e dei falsi comunisti´, diceva uno slogan degli anni ´70. Terrore di sicuro». Non più tenero è il giudizio su Pol Pot: «Uno dei nostri peggiori mostri». «Come in tutte la famiglie ci sono i parenti che uno non vorrebbe avere», spiegano in redazione. Del resto fa parte della storia del giornale la capacità di guardare in faccia anche gli album di famiglia più scomodi. «Album di famiglia», era infatti il titolo dell´editoriale con cui Rossana Rossanda spiegò che proprio dalla storia della sinistra italiana venivano i teorici e i manovali del terrorismo.
Oggi l´idea dell´album è diventato un gioco e fa evidentemente il verso al dibattito estivo su chi debba far parte del «Pantheon» del nuovo Pd. Così tra le 220 figurine ci sono le vignette di Vauro e alcuni simboli delle rivoluzioni mondiali, dalla ghigliottina al cappuccio di Marcos. E non manca il vecchio «compagno ciclostile». Dal 12 ottobre si gioca: scambieresti la cagnetta Laika, eroina dell´epopea sovietica, con il compagno segretario Enrico Berlinguer?

il manifesto 2.10.07
Grandezza e tragedia all'inizio di un mondo nuovo
di Hannah Arendt


L'amore è una potenza e non un sentimento. Si impadronisce dei cuori, ma non nasce dal cuore. L'amore è una potenza dell'universo, nella misura in cui l'universo è vivo. Essa è la potenza della vita e ne garantisce la continuazione contro la morte. Per questo l'amore «supera» la morte. Appena si è impossessato di un cuore, l'amore diventa una potenza ed eventualmente una forza.
L'amore brucia, colpisce l'infra, ovvero lo spazio-mondo fra gli uomini, come il fulmine. Questo è possibile soltanto se vi sono due uomini. Se si aggiunge il terzo, allora lo spazio si ristabilisce immediatamente. Dall'assoluta assenza di mondo (= spazio) degli amanti nasce il nuovo mondo, simboleggiato dal figlio. In questo nuovo infra, nel nuovo spazio di un mondo che inizia, devono stare ora gli amanti, essi vi appartengono e ne sono responsabili. Proprio questa è però la fine dell'amore. Se l'amore persiste, anche questo nuovo mondo viene distrutto. L'eternità dell'amore può esistere soltanto nell'assenza di mondo (dunque: «e se Dio vorrà, ti amerò anche di più dopo la morte» - ma non perché allora io non «vivrò» più e di conseguenza potrò forse essere fedele o qualcosa del genere, ma a condizione di continuare a vivere dopo la morte e di aver perduto in essa soltanto il mondo!) o come amore degli «abbandonati», non a causa dei sentimenti, ma perché, assieme agli amanti, è andata perduta la possibilità di un nuovo spazio mondano.
In quanto potenza universale (dell'universo) della vita, l'amore non ha propriamente una origine umana. Nulla ci inserisce in modo sicuro e inesorabile nell'universo vivente più dell'amore, al quale nessuno può sfuggire. Appena però questa potenza si impadronisce dell'uomo e lo getta verso un altro e brucia l'infra del mondo e del suo spazio fra i due, proprio l'amore diventa «ciò che vi è di più umano» nell'uomo, ovvero un'umanità che persiste senza mondo, senza oggetto (l'amato non è mai oggetto), senza spazio. L'amore consuma, consuma il mondo, e dà un'idea di che cosa sarebbe un uomo senza mondo. (Perciò lo si pensa spesso in relazione a una vita in «un altro mondo», ovvero in una vita senza mondo.)
L'amore è una vita senza mondo. In quanto tale, si manifesta come creatore di mondo; esso crea, genera un mondo nuovo. Ogni amore è l'inizio di un mondo nuovo; è questa la sua grandezza e la sua tragedia. Infatti, in questo mondo nuovo, nella misura in cui non è soltanto nuovo, ma anche appunto mondo, l'amore soccombe.
L'amore è dunque in primo luogo la potenza della vita; noi apparteniamo al vivente poiché sottostiamo a questa potenza. Chi non ha mai subito questa potenza non vive, non appartiene al vivente. In secondo luogo, esso è il principio che distrugge il mondo e indica così che l'uomo è ancora senza mondo, che egli è « più » del mondo, benché senza mondo non possa durare. Così, l'amore rivela proprio ciò che è specificamente umano nell'universo vivente. Il discorso degli amanti è così vicino alla poesia perché è il discorso puramente umano. E, in terzo luogo, l'amore è il principio creativo che oltrepassa il semplice fatto di essere vivi, poiché dalla sua amondanità nasce un nuovo mondo. In quanto tale, «supera» la morte, o ne è il vero e proprio principio opposto. Soltanto perché crea esso stesso un mondo nuovo, l'amore rimane (oppure sono gli amanti che tornano indietro) nel mondo. L'amore senza figli o senza un mondo nuovo è sempre distruttivo (antipolitico!); ma proprio allora produce ciò che è propriamente umano in tutta la sua purezza.
(dal Quaderno XVI, Maggio 1953-giugno 1953)


il manifesto 2.10.07
Hannah Arendt. Appunti allo stato nascente sulla tirannia degli assoluti
Dai «Diari» della pensatrice tedesca, in uscita nei prossimi giorni per Neri Pozza, anticipiamo una pagina dedicata alla potenza universale dell'amore
di Olivia Guaraldo


Così gelosa del proprio privato, Hannah Arendt non avrebbe con ogni probabilità apprezzato la pubblicazione delle sue ruminazioni filosofico-politiche, il loro svelamento allo sguardo indagatore - e un po' voyeuristico - del pubblico. Arendt fu sempre, infatti, strenua sostenitrice della necessità di separare politicamente la sfera pubblica da quella privata, non per tutelare quest'ultima, ma per preservare la pluralità dello spazio pubblico, evitando che venisse ridotto a una «biologia» dei sentimenti e a una economia dei bisogni.
Del resto, Arendt - come ogni altro intellettuale novecentesco che non sia vissuto oltre gli anni '70 - difficilmente avrebbe potuto prevedere (e approvare) gli sviluppi di un mercato editoriale tanto spettacolarizzato quanto incoraggiato dal rumoroso caravanserraglio di feste, festival, fiere. Parte di questa spettacolarizzazione, è noto, si nutre instancabilmente dell'inedito (sia esso il diario, il taccuino, il carteggio, il corso registrato o gli appunti lasciati incompleti) che è oggi la merce editorialmente più appetibile. Sebbene i Diari - versione italiana del Denktagebuch, il nome tedesco che le curatrici Ursula Ludz e Ingeborg Nordmann hanno dato ai ventotto quaderni di appunti della pensatrice tedesca, appena tradotti a cura di Chantal Marazìa per i tipi di Neri Pozza (pp. 688, euro 55) - non abbiano nulla a che fare con documenti di carattere privato nel senso pieno del termine, e nemmeno stuzzichino appetiti pettegoli di sorta, rimane forte la sensazione, scorrendo qua e là le pagine, di invadere uno spazio privato, un pensiero che è sul punto di farsi ma ancora acerbo, abbozzato, libero di ruminare sulle proprie incertezze, indecisioni e letture.
Il disagio, tuttavia, si mescola ben presto al piacere (un piacere un po' perverso, voyeuristico appunto) di assistere dal vivo alla costruzione teorica delle grandi opere arendtiane, da The Human Condition a On Revolution, da Between Past and Future a The Life of the Mind. L'impropria traduzione di Denktagebuch con Diari potrà forse far pensare alle lettrici e ai lettori che, come in ogni diario, vi si trovino riflessioni personali, private, intime. Nulla di tutto ciò: si tratta di taccuini di lavoro, quaderni di appunti in cui la pensatrice annotava - in maniera abbastanza sistematica - citazioni di autori, poesie, parole-chiave, brevi ragionamenti e altrettanto fugaci riflessioni teoriche su alcune questioni centrali nel dibattito filosofico novecentesco.
Se di inedito si deve parlare, tuttavia, non è nel senso tradizionale del termine. I diari, infatti, non rivelano nulla di sensazionalmente nuovo sull'opera di Arendt. Se di «nuovo» si tratta, è invece nel senso di una nuova emozione: ciò che l'illuminante pensiero di Arendt ci aveva già trasmesso lo ritroviamo qui allo stato nascente, in una sorta di rozza, caotica ma affascinante officina teorica in cui ci pare di sentire il respiro e la fatica del lavoro intellettuale. Arendt insomma ci viene incontro, o meglio, siamo noi che, attraverso la scansione cronologica dei documenti pazientemente messa a punto dalle curatrici dell'edizione tedesca, prendiamo confidenza con una nuova emozione, che è quella di sentire il pensiero arendtiano pulsare, sbocciare, prendere lentamente la forma che avrà poi nei testi maturi.
Gran parte dei taccuini è relativa agli anni 1950-'58, non a caso l'epoca in cui Arendt lavora alla sua opera di maggiore rilevanza teorica: The Human Condition (trad. it.Vita activa). I diari ci offrono l'opportunità di cogliere e di avere riconfermata la centralità e la radicalità di alcune questioni che quel testo mette in luce, prima fra tutte la distinzione tra fabbricare e agire. La tradizione del pensiero politico ha scambiato l'azione politica per «fabbricazione», costruzione di un prodotto finale, che, come tale, è attività solitaria, mentre l'azione è per natura plurale. «Da Platone in poi (e fino a Heidegger) questa pluralità è d'ostacolo all'uomo - nel senso che essa non vuole lasciargli la sua sovranità. L'uomo è però sovrano soltanto in quanto fabbricante, cioè in quanto lavoratore. Se le categorie del lavoro produttivo vengono applicate alla politica, allora 1. la pluralità viene concepita come somma degli individui isolati, e precisamente di coloro che isolatamente fabbricano nella scissione soggetto-oggetto. Oppure 2. la pluralità è pervertita a un individuo-mostro chiamato umanità».
Sono già presenti, in queste annotazioni del 1950, le note posizioni arendtiane relative alla politica come sfera di esibizione dell'unicità e ambito di piena realizzazione della pluralità umana: «la politica nasce nell'infra-tra-gli-uomini, dunque del tutto al di fuori dell'uomo. Non esiste perciò una sostanza propriamente politica. La politica nasce nell'infra e si stabilisce quale relazione. Hobbes lo aveva capito». La politica come relazione, come in-between che permette agli uomini di «nascere di nuovo», non secondo il ritmo biologico, animale, del corpo, bensì secondo quello davvero umano della relazione con altri. Tutto questo è patrimonio arendtiano acquisito: i diari ci offrono però il noto sotto forma nuova, primitiva, e per questo potente nella sua brevità.
Difficile riassumere in poco spazio la ricchezza di materiale che i Diari ci presentano. Tuttavia una cosa si percepisce immediatamente: ciò che rimane costante, e ciò che Arendt si sforza di sviscerare dalle citazioni e nei pensieri abbozzati che, ossessivamente, ricompaiono dopo anni, è un modo efficace di formulare e rafforzare argomentativamente la critica agli «assoluti» filosofico-politici della tradizione. Storia, Umanità, Progresso, Verità sono alcuni dei termini che ossessivamente ricorrono, nel tentativo di venir scalzati dal piedistallo epocale su cui la filosofia li ha collocati.
E proprio alla filosofia sono rivolte, nei Diari, alcune delle parole più dure, non mediate dalla revisione o dall'attenuazione, come invece avvenne nei testi pubblicati. Quella filosofia che Arendt aveva amato alla follia - ci piace pensare che abbia amato più la filosofia di quanto abbia amato Heidegger - ma che, proprio in forza di quell'amore, l'aveva irrimediabilmente delusa dopo il 1933 (e Heidegger con essa). «L'affinità tra il filosofo e il tiranno da Platone in poi (...). La logica occidentale, che passa per pensiero e ragione, è tiranna by definition. Di fronte alle leggi immodificabili della logica non vi è nessuna libertà; se la politica è una faccenda che riguarda l'uomo, e la costituzione ragionevole, allora soltanto la tirannide può generare una buona politica. La questione è: esiste un pensiero che non sia tirannico?».
Chi conosce e ama il pensiero arendtiano troverà in questi Diari parole nuove per cose già note, provando però in questa scorpacciata di «Arendt in aforismi» una inaspettata sensazione di vicinanza, quasi di intimità con una pensatrice che poco amava gli attaccamenti morbosi. Consapevoli di questa ambiguità, non possiamo tuttavia resistere alla tentazione di varcare la soglia dell'intimo «luogo» del pensiero arendtiano, ricordando però che proprio Hannah Arendt non si stancava mai di ribadire che il pensiero non ha luogo.

il Riformista 2.10.09
Epifani non vuol fare regali a Bertinotti


Ai piani alti della Cgil c’è anche un po’ di malumore nei confronti di Romano Prodi. La decisione del governo di separare il Protocollo dalla finanziaria, rimandandone l’approvazione di due settimane, al 12 ottobre, ha messo in agitazione la segreteria e lo stesso Guglielmo Epifani. Sembra quasi, malignava qualcuno ieri in Corso d’Italia, un regalo a Rifondazione, che da qui a quella data avrà più margini per conquistarsi spazio sui giornali e aumentare la pressione in vista dell’appuntamento del 20 ottobre. Proprio mentre ai tre sindacati confederali spetta il delicato compito di convincere cinquantamila assemblee di lavoratori in giro per il paese della bontà dell’intesa. Il paradosso è che una bocciatura dell’accordo - del tutto improbabile - metterebbe a rischio la sopravvivenza del governo, ragiona un segretario confederale Cgil: «e questa è proprio l’ultima cosa che vuole Rifondazione».
Prodi, evidentemente, lo sa. Tanto che fonti di Palazzo Chigi assicuravano ieri che «da qui al 12 ottobre il protocollo sarà blindato» e che le parole di Prodi di ieri vanno interpretate esattamente in questo senso: «trovare la sintesi», come ha detto il Prof, significa che conta di replicare il copione della finanziaria. Fino all’ultimo giorno c’era chi scommetteva sul no di Ferrero alla manovra, alla fine il ministro ha votato sì. Da qui a dieci giorni Prodi conta di convincerlo anche ad approvare il Protocollo, senza cambiarne una virgola.
Nel frattempo, all’interno della Cgil (ma anche di Cisl e Uil), costretta a subire le beghe di Palazzo Chigi e irritata per il rinvio di due settimane del Protocollo, si sta diffondendo la volontà di dare una riposta al governo. Formalmente, slegata dalla vexata quaestio dell’accordo su pensioni e welfare, ma in realtà non potrà che essere percepita come uno schiaffo all’esecutivo. Una grande mobilitazione, c’è chi parla addirittura di una manifestazione, sul peso del fisco sul lavoro dipendente, già denunciato nei giorni scorsi da Epifani e Bonanni come il vero tema dimenticato della finanziaria. Sull’ipotesi, a Corso d’Italia le bocche sono cucite, anche la segretaria confederale della Cgil, Marigia Maulucci, non conferma. Ma annuncia ad ogni modo che il sindacato guidato da Guglielmo Epifani «chiederà di aprire un tavolo specifico che affronti il problema delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti attraverso un intervento sulla politica dei redditi. Dobbiamo affrontare tre grandi nodi: il fisco, le politiche contrattuali e il controllo delle tariffe».
Come se non bastassero la guerriglia di Rifondazione e le ambiguità di Prodi, a rendere più pesante la giornata di ieri a Guglielmo Epifani ha contribuito un’intervista a Repubblica che la sua portavoce ha dovuto smentire in mattinata nei passaggi essenziali. Passaggi che collegavano l’eventuale bocciatura dell’accordo tout court alla caduta del governo, con cui Epifani in sostanza assumeva su di sé la croce di un esecutivo traballante. Ma il segretario della Cgil non aveva detto che il no al protocollo avrebbe fatto saltare il governo, ma che perfino i più aspri contestatori dell’intesa speravano in un’affermazione del sì perché altrimenti sarebbe «saltato il banco». Un’intervista che rischiava di creare un vero e proprio terremoto nella confederazione e di rendere il compito impossibile, a chi sta spiegando l’accordo nei luoghi di lavoro. Uscita oltretutto il giorno delle assemblee della prima e più simbolica fabbrica italiana, Mirafiori. Che invece non sono andate male, nonostante le contestazioni delle tute blu. Dalla Fiom raccontano che «più che i fischi al sì, si sentivano gli applausi al no all’accordo. Ma da qui alla bocciatura, c’è un abisso».

Rosso di Sera 1.10.07
Birmania, tutti i colori del rosso
di Elettra Deiana


La solidarietà con l’eroica lotta dei monaci buddisti, che in Birmania – denominata Myanmar dai militari al potere - stanno sfidando la feroce giunta militare, fino al sacrificio della vita, è il rosso, il colore delle loro tuniche, il colore del sangue e del coraggio. Con i monaci, come sempre in ogni luogo del pianeta, quando esplode la rivolta popolare, le ragazze e i ragazzi birmani riempiono le strade e le piazze e poi fotografi, reporter, giornalisti del mondo globale, anche loro disposti al rischio estremo, come dimostra l’assassinio del reporter e operatore giapponese Keriji Nagai ucciso dalla polizia nelle vie di Rangoon. C’è una lunga lotta per la democrazia in Birmania. Una lotta segnata dalla repressione sanguinaria della giunta militare, una scia di sangue con annessi e connessi di persecuzione politica, abusi e soprusi di ogni genere, violazione di ogni diritto. E la leader dell’opposizione, premio Nobel per la pace, Suu Kyi, confinata in carcere, poi agli arresti domiciliari, poi di nuovo, in questi giorni di passione, imprigionata perché la sua presenza, con quella dei monaci, non renda ancora più dilagante la protesta. Ancora una volta le armi contro gli inermi, la violenza la mobilitazione non violenta. La rivolta viaggia su Internet e a differenza di vent’anni fa, quando un massacro senza termine mise fine alle proteste senza che il mondo desse segno di esserne consapevole, questa volta le immagini arrivano ovunque e non si può far finta di niente. Nonostante la repressione infatti i filmati delle manifestazioni e le violenze dei militari vengono trasmesse su youtube, mentre Skype vine utilizzato per mandare in onda la voce del popolo. La comunità internazionale fa pressioni, Bush minaccia ritorsioni ma l’Onu non riesce ad assumere una posizione di condanna condivisa da tutti i Paesi membri perché Cina Russia e India non vogliono né sanzioni economiche né interferenze politiche negli affari interni di Myanmar. In Birmania infatti è in gioco la democrazia ma sono in gioco anche interessi economici e politici e manovre di geopolitica di grande rilievo per l’intera zona e per il Paese. Molti Paesi occidentali guardano da tempo con interesse alle grandi risorse naturali di Myanmar e sarebbero interessati a intraprendere nel Paese affari di ogni tipo se soltanto uno spiraglio democratico si aprisse e rendesse digeribile agli occhi dell’occidente una tale scelta. La stessa attenzione proviene dalla Cina e dall’India. In particolare Pechino non vede di buon occhio il generale Than Shawe, capo della giunta e filo-indiano. La Cina vorrebbe un leader filo-cinese in grado di adottare un percorso moderato avviando il dialogo con la leader dell’opposizione Aung San Suu Kiji. Per Pechino sarebbe una prospettiva positiva anche per avere credenziali di sensibilità liberale in vista delle Olimpiadi.
Insomma interessi, manovre, contraddizioni. Ma sopra ogni cosa l’aspirazione alla democrazia della popolazione. Una sfida e una speranza per la vita di donne e uomini di quel Paese.

Liberazione 2.10.07
Fiat, la delusione degli operai:
«No all'accordo governo-sindacati»
di Fabio Sebastiani


Operai infuriati e delusi: «Sulla previdenza
ci aspettavamo almeno la libertà di scelta»

Dire che le tute blu sono contrarie al protocollo di luglio 2007 è quasi un eufemismo. Dire che la contestazione sia stata sonora e travolgente non corrisponde esattamente al vero. L'assemblea alle carrozzerie di Mirafiori che il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti, ha tenuto ieri davanti a 1.500 tute blu, alla fine, si è risolta in un confronto civile. I fischi e i mugugni non sono certo mancati. Ma solo per rintuzzare la claque accuratamente preparata dalla Uil. L'orientamento che esce dalla Fiat, è molto netto: l'accordo tra Prodi e Cgil, Cisl e Uil è da cancellare. D'altronde è il risultato di «una vera assemblea sindacale, non del salotto di Porta a Porta», commenta a caldo il segretario della Fiom di Torino Giorgio Airaudo.
I lavoratori e le lavoratrici hanno apprezzato molto il fatto che il segretario della Uil, così come aveva promesso, sia tornato a trovarli. A parte questa cortesia, però, non hanno usato mezze misure per rispedire al mittente un testo «concluso senza consultarci né prima né durante». Oltre al merito, quindi, c'è anche una critica di metodo. La sala mensa delle Carrozzerie è territorio off limits per la stampa. Per ricostruire quel che è veramente accaduto nelle due assemblee - l'altra si è tenuta alla verniciatura con la partecipazione della segretaria nazionale della Cgil Morena Piccinini - occorre prima assistere alla conferenza stampa improvvisata da Angeletti davanti alla "Porta 2" in corso Tazzoli e poi aspettare l'uscita degli operai del primo turno.
Le due versioni concordano ampiamente. E' lo stesso Angeletti a raccontare il dissenso, usando il "sindacalese": «Se al voto dovessero andare tutti qui finirebbe in pareggio», dice. Su dieci interventi, quattro sono stati a favore del no. E hanno preso applausi convinti. Gli altri, invece, si sono persi in domande secondarie su Tfr e fisco. Un iscritto Fiom ha provato a schierarsi con il sì, ma è stato sommerso dalle contestazioni. Qualche fischio l'ha preso anche Angeletti, ma su uno scivolone vero e proprio. Quando, per parare le eventuali critiche all'accordo ha tirato fuori il classico argomento del sindacato, che a Roma non conta nulla. «E allora che ci stai a fare?», gli hanno urlato i lavoratori. E, chiamato in causa sull'intervista a Repubblica del suo omologo in Cgil, Guglielmo Epifani, il leader della Uil stempera i toni: «Se il governo cade o meno è per altri motivi, il protocollo non c'entra nulla».
Questo è successo ieri a Mirafiori. Una fotografia un po' diversa dalla rumorosa assemblea con i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil di un anno fa. Ma non certo lontana da quello che pensavano, e pensano tuttora, i lavoratori.
Due i temi presi di mira dalle tute blu: la falsa abolizione dello scalone Maroni e la detassazione degli straordinari. Nel primo caso, i lavoratori contestano il tradimento delle attese, facendo pagare al sindacato il carico del governo; nel secondo, la fine di qualsiasi possibilità di assunzione per i giovani. Senza parlare dello «scandalo» dei contratti a termine, che qui viene visto come l'ennesimo regalo alle imprese.
Le persone all'uscita sfilano via verso i pullman. Ma le telecamere piazzate davanti alla "Porta 2" hanno lo stesso potere di una calamita: «Questi sindacati fanno tante parole e alla fine è come dicono loro», borbotta un lavoratore. «Assemblea abbastanza agitata», dice un altro. Stella, da una vita in fabbrica, oggi, con la busta paga arriva a malapena alla terza settimana; iscritta al sindacato? «Non ce la farei a pagare la tessera. Ho una figlia a carico, e una nipotina di un anno e mezzo». «Sulla previdenza ci aspettavamo almeno la libertà di scelta nel decidere se rimanere o meno. E invece niente. Scalino o scalone, siamo sempre lì», aggiunge. Ovviamente, in ballo ci sono pure gli usuranti. I lavoratori e le lavoratrici sentono puzza di bruciato e avvertono: «Se ci sono soldi per 5mila ci devono essere pure per 10mila».
Per la segretaria nazionale della Cgil Morena Piccinini, «in giro c'è molta confusione». «Si stenta a partire da un punto di realtà per cominciare il confronto», continua. «Quella che ho raccolto io dai lavoratori - aggiunge Piccinini - è stata una certa tensione, soprattutto rispetto al tema dei salari e del fisco. E quindi va fatta la giusta distinzione ad attribuire questo malcontento al protocollo». Le conseguenze di un voto negativo? «Porrà dei problemi - risponde Piccinini - ma questo non significa che cadrà il governo».
Il segretario della Fiom Gianni Rinaldini intervenuto nell'assemblea al montaggio, nel secondo turno, non si è limitato solo ad esporre i contenuti dell'accordo, ma ha fatto anche un forte appello al voto (qualsiasi voto). In effetti la partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici al referendum è ancora una grande incognita. Nei commenti presi a caldo davanti ai cancelli, l'atteggiamento prevalente è quello della disaffezione, ma bisognerà aspettare la fine delle assemblee per capire cosa sta realmente accadendo «la cosa peggiore sarebbe la scarsa partecipazione - sottolinea Rinaldini ai giornalisti radunati davanti alla "Porta 2" - sarebbe un brutto segnale perché vuol dire che il disagio si esprime in una direzione che non fa bene a nessuno».

Liberazione 2.10.07
Ci sono due Italie: la più forte vuole cancellare la più debole
di Piero Sansonetti


Se uno vi dice che in una certa parte del mondo c'è un paese dove il capo degli industriali avverte il Parlamento che una determinata legge - che il Parlamento ancora non ha vagliato - dovrà essere approvata e basta, a scatola chiusa, e che non c'è margine per discutere, per modificare, per migliorare, e spiega al Parlamento che il suo compito è dire sì e non impicciarsi di politica, voi cosa direste? Vi chiedereste: in che parte del mondo, e in che tempo possono avvenire queste cose? Forse nell'America Latina degli anni '70 e 80?
E invece no, e lo sapete benissimo. Quel capo degli industriali ha un nome spagnolesco ma è italiano: Cordero di Montezemolo. E il Parlamento a cui è stato ordinato di rinunciare ai suoi poteri è il nostro Parlamento. E sapete anche benissimo che prima di questa intimazione del capo degli industriali, altre intimazioni, analoghe, erano venute dal Presidente del Consiglio, molto infastidito dalle richieste di discussione avanzate dalla sinistra, da alcuni ministri e persino dai sindacati, anzi dai capi massimi dei sindacati (e questa è la cosa che provoca - diciamo così - più stupore e dolore).
***
Guardate le cose che sono successe ieri e capirete facilmente che ci troviamo di fronte a due Italie, ma che una delle due vorrebbe imporre la scomparsa dell'altra. Una Italia è quella, per esempio, degli operai metalmeccanici, che nel luogo simbolo della nostra classe operaia - luogo simbolo da più di un secolo: la Fiat - contestano l'accordo governo-sindacati sul welfare, criticano in modo severissimo - anche se molto calmo e civile - i propri dirigenti sindacali, chiedono che l'accordo sia cambiato e domandano ai propri dirigenti perché contro quell'accordo non hanno fatto fuoco e fiamme. E poi, domandano ancora: se quell'accordo fosse stato proposto da un governo di centrodestra, non avreste forse fatto lo sciopero generale?
Poi c'è una seconda Italia che della Fiat Mirafiori se ne frega, ne nega l'esistenza e dice che le decisioni del governo e dei vertici sindacali non si discutono e che una democrazia vera è una democrazia che decide e non una democrazia che discute. Questa seconda Italia è potentissima. Perché tiene insieme Confindustria, vertici sindacali e il gruppo dirigente del principale partito di governo, cioè il Pd, ed è sostenuta in modo abbastanza evidente, anche se non dichiarato, dall'intero schieramento di centrodestra. Non voglio usare parole a sproposito, come spesso si fa in politologia, ma io credo che se la "prima Italia" non saprà resistere alla "seconda", se non riuscirà a restare in piedi, a combattere, a restituire dei colpi, se verrà sconfitta e "spianata", allora non c'è dubbio che in Italia ci sarà un regime. Cos'è un regime? L'abolizione dell'opposizione. Sicuramente oggi - molto più che nel quinquennio trascorso - ci sono forze potentissime che questo disegno lo hanno ben chiaro in mente. Forze dell'impresa, forze politiche. E probabilmente la cosa potrebbe non dispiacere nemmeno al Vaticano.
Il mese di ottobre sarà decisivo per far fallire questa manovra, o assistere - disperati - alla sua riuscita. Ci sono molti appuntamenti decisivi. Tre soprattutto. Il referendum sul welfare, le primarie del Pd e il 20 ottobre. Da questo triplo salto può uscire la crisi politica o la tenuta del governo Prodi, ma non è questa l'unica incertezza: se Prodi resterà in sella, a seconda di come andranno le cose - e di come si svolgeranno i tre appuntamenti - potrà essere un Prodi costretto a svoltare a sinistra, sbattendo la porta in faccia a quelle componenti che anelano al regime, o invece un Prodi debolissimo, prigioniero degli industriali e dei settori più conservatori e "regimisti" del Pd.
Più si va a destra, più Prodi è debole, più si sposta a sinistra più si rafforza, anche se rischia i capricci dei vari Dini, i quali però non hanno molte carte da giocarsi salvo quella di minacciare di vendersi a Berlusconi. Operazione assai rischiosa, perchè li taglierebbe fuori dalla nascita del Partito democratico e li vedrebbe emarginati dalla vastissima area di potere che quel partito controlla, restando molto incerto il compenso che Berlusconi potrebbe garantire loro.
Per quello che riguarda la tenuta di Prodi, ieri l'Unità sosteneva che il rischio, per il premier, viene dal 20 ottobre. Cioè dalla manifestazione che abbiamo indetto noi insieme a il manifesto e a Carta. Non è così, chiunque lo vede. La nostra manifestazione potrà costringere Prodi a spostarsi a sinistra, ma non è decisiva per la sua tenuta o caduta. Quello che davvero è decisivo è l'appuntamento del 14 ottobre, cioè le primarie e la proclamazione di Veltroni. Ci sono un paio di ipotesi: che le primarie vadano bene al Pd, cioè con molti votanti, quattro o cinque milioni, e con un trionfo di Veltroni. In questo caso la leadership di Prodi sarebbe praticamente azzerata, e si tratterebbe di vedere solo quando e come Veltroni gli subentrerà alla guida. La seconda ipotesi è che le primarie vadano maluccio, cioè con meno di due milioni di votanti, o con un risultato non brillantissimo di Veltroni, e questo provocherà la fine della leadership di Veltroni, e un vero e proprio terremoto nel Pd che si ritroverà di nuovo acefalo. In tutte e due i casi per il governo saranno guai.
Anche gli altri due appuntamenti di ottobre sono incerti. Il referendum, si sa, lo vinceranno i gruppi dirigenti sindacali, ci mancherebbe. Cioè vincerà il si. Il sindacato è una macchina potentissima e ha un grande controllo sulle categorie più numerose, per esempio i pensionati. Però non basterà vincere il referendum, bisognerà vincere anche tra i lavoratori attivi, in particolare nelle fabbriche del nord e tra i metalmeccanici. Altrimenti ci si presenta alla trattativa politica con un "si" giuridicamente inoppugnabile, ma il cui valore morale e politico sarebbe molto ridimensionato.
Infine il 20 ottobre. State sicuri che se la manifestazione riuscirà e sarà grande, porterà molte frecce nella faretra della sinistra. E la sinistra ne ha bisogno, ne ha assoluto bisogno. Perché oggi - lo leggete su tutti i giornali, lo sentite dalle dichiarazioni dei dirigenti del centrosinistra - c'è una opinione assai diffusa che dice che la sinistra seria è quella che soggiace a qualunque diktat del centro, tace e porta voti. A una gran parte del mondo politico economico l'unica sinistra che piace, e che sembra adeguata alla modernità, è la sinistra morta. Se il 20 ottobre sarà molto forte, loro ci resteranno male, noi potremo sorridere.
* * *
Nell'operazione di spostamento a destra del paese - attraverso lo spostamento a destra del partito democratico - i sindaci Ds hanno avuto un gran ruolo. Sergio Cofferati è un po' seccato per il fatto che alcuni suoi colleghi, come Domenici di Firenze e Veltroni di Roma, lo hanno scavalcato in comportamenti moderati e benpensanti. Ed è corso ai ripari. Ieri ha annunciato che denuncerà gli organizzatori della street parade (manifestazione giovanile che si è svolta a Bologna, facendo infuriare Cofferati, il quale vorrebbe ammettere, in città, solo cortei dei cadetti dell'accademia di Marina) e che non parteciperà più a riunioni di comitati per l'ordine pubblico che permettono simili oscenità, come i giovani lasciati liberi per strada. Che volete? Ormai Cofferati è così. Domenica sera è stata leggendaria la sua intervista a Fabio Fazio. Prima Cofferati ha sostenuto che invece di affrontare i problemi grandi - come vorrebbe la noiosa sinistra massimalista - è meglio affrontare tanti problemi piccoli. Perchè tanti problemi piccoli valgono uno grande. Per esempio, invece di misurarsi col complicatissimo tema della speculazione, è meglio prendersela con un piccolo campo nomadi, un gruppetto di giovani che beve birra, qualche lavavetri, un po' di mendicanti, scacciare una decina di senza casa e altre cose così... se poi le metti tutte insieme, queste piccole cose, è come se avessi affrontato un problema grande come la speculazione, e ti senti meglio.
Fazio lo guardava un po' incredulo. E allora Cofferati ha spiegato che lui qualche anno fa, prima di fare il sindaco, faceva un altro mestiere. Ha detto che faceva il capo del sindacato, della Cgil. Fazio si è illuminato. Gli detto: «Ah, ecco: ma allora era lei? Sa che non la riconoscevo più? E' un sacco di tempo che quando la vedo, mi dico: ma io questo già l'ho visto da qualche parte...» . Cofferati sembrava soddisfatto e annuiva. Forse, preso nella sua parte di sceriffo, neanche s'è accorto della presa in giro.

Liberazione 2.10.07
Perché tutti quei delitti dietro il muro perbenista?
di Lea Melandri

Per fortuna non ci sono solo fidanzati, mariti, amanti che uccidono le donne. Apprendo con sollievo dall'articolo di Luca Stanzione e Daniele Licheni ( Liberazione 30. 9.07 ) che si è tenuto domenica 30 settembre a Roma, presso la Direzione nazionale del Prc, un convegno dei Giovani Comunisti "di genere maschile", convinti che il dibattito sul "totalitarismo patriarcale" non sia meno urgente della lotta "contro l'invasività dell'impresa", per cui dovrebbe inondare da subito la sinistra che si avvia a diventare "unita e plurale". Un anno fa era uscito un "appello", promosso dall'associazione Maschile Plurale, che portava come titolo: "La violenza contro le donne ci riguarda: prendiamo parola come uomini". Poche gocce nel mare del silenzio -‘omertoso', mi verrebbe da dire -, che ostentatamente politici ciarlieri, intellettuali logorroici, oppongono alla verità più inquietante che abbiamo ogni giorno sotto gli occhi, molto più subdola e più nascosta dell'ingiustizia sociale, dello sfruttamento economico, della devastazione dell'ambiente? No davvero! Forse non è ancora il "sovvertimento" che si augurano Luca e Daniele, ma è uno di quegli ‘scarti', di quelle aperture, di quei passi a lato, che la coscienza storica fa raramente, che possono solo essere tenuti in ombra, repressi, ma non cancellati. E' quel "segnale dell'avvenire" che, simile all'"utopia" di Walter Benjamin, si annuncia come percezione acuta delle esigenze radicali del presente.
La goccia scava la pietra, dicevano i latini, ma oggi le poche voci che finalmente collocano stupri e omicidi di donne all'interno del dominio più duraturo della storia umana -quello di un sesso sull'altro-, facendone in questo modo una questione centrale della politica, si trovano davanti una muraglia fatta di ignoranza, falsa neutralità, indifferenza o arrogante diniego. Leggendo i giornali, ascoltando i notiziari televisivi sugli ultimi delitti, che hanno come vittima una donna, colpisce l'evidente schizofrenia tra i dati statistici - i "numeri" della carneficina che oltrepassa ogni confine di tempo e di luogo- e la narrazione che gli scorre a lato, preoccupata di riempire dei particolari più morbosamente orrorifici la scena in cui poter collocare il ‘folle' di turno. Ogni volta, con un rituale che dovrebbe far riflettere sulle ossessioni e sulle paure della nostra epoca, il ‘mostruoso' emerge dalla ‘normalità' di una casa, di una famiglia, di un paese, di una classe sociale, e sempre, anziché chiedersi che cosa nasconde quella facciata tranquilla di perbenismo, si sposta l'attenzione sul "raptus" momentaneo di follia che sottrae inspiegabilmente un individuo al suo ambiente, alla educazione ricevuta, alla sua appartenenza di sesso, ai suoi legami più intimi.
E' così che l'abnorme, l'osceno, l'imprevisto, facendosi esterno, "straniero" alla situazione da cui ha origine, viene opportuno e benefico a sollevare da ogni responsabilità collettiva, da interrogativi diversi da quelli processuali. Bruno Vespa, il gran cerimoniere di tutte le stagioni, di tutti i fatti e misfatti, ricostruisce a Porta a Porta la scena del delitto con puntigliosa dovizia di particolari, chiama i suoi esperti a far concorrenza a giudici e avvocati, appronta uno spettacolo e una audience assicurata per un discreto numero di sere. Perché arrivi agli spettatori un sia pur passeggero brivido per il perverso cinismo che passa in questo "normale" intrattenimento, occorre aspettare Luciana Littizzetto o qualche altra lucida scheggia di ironia. E ben vengano i comici, se, oltre a farci ridere, riescono a scoperchiare per un momento i sepolcri imbiancati del conformismo, dell'arroganza, della manipolazione irresponsabile di verità evidenti.
Evidente è che gli uomini violentano e uccidono le donne: non sono i malati di mente, i marginali, i pezzenti, i teppisti, i criminali noti, ma giovani "normali", rispettosi e avviati a buona carriera. Evidente è che il luogo primo di questo femminicidio è la casa, la famiglia, il luogo che sta in cima ai "valori" della retorica di destra, ma anche delle politiche sociali di una parte della sinistra, senza che nessuno si chieda se la violenza non nasca proprio da lì, da quei lacci famigliari che, istituzionalizzando l'infanzia, perpetuano al medesimo tempo lo sfruttamento del lavoro femminile gratuito, la lontananza delle donne dalla sfera pubblica, la subordinazione al potere maschile dato come "naturale", l'ideologia che le vuole eternamente madri. "La violenza contro le donne -ha scritto Marco Deriu- "parla sempre più di una mancata elaborazione e di un affanno maschile di fronte a una libertà femminile, piuttosto che di un potere maschile e di una sottomissione femminile". Se è sicuramente vero che la crescita di autonomia delle donne è sentita come una minaccia, per chi ha creduto finora di poter disporre del loro corpo e della loro dedizione incondizionata, chi, se non gli uomini stessi -a partire da quelli che rivestono posti di potere, di visibilità, di autorevolezza e di ascolto pubblico-, può cominciare a smascherare la falsa naturalezza di un dominio che si è fatto forte finora della separazione tra famiglia e società, della divisione sessuale del lavoro, del silenzio storico delle donne, o della loro difficoltà a farsi ascoltare, e che ancora oggi, astutamente, vorrebbe far passare la violenza di genere come un problema di "sicurezza"? Se il re ormai è nudo, i suoi imbanditori la fanno ancora da protagonisti sulla scena pubblica, e non c'è da meravigliarsi se la gente non riesce più a distinguere i paladini degli oppressi dagli oppressori. C'è almeno un caso in cui la confusione è totale, ed è la violenza sessista.

Liberazione 2.10.07
Le donne devono rompere con l'ordine patriarcale
Alla politica serve un partenariato equo, solidale, mite, ispirato alla condivisione e alla reciprocità
di Elettra Deiana

Rivoluzionare le relazioni tra i sessi a tutti i livelli, compresi i più alti della sfera pubblica e del potere politico, non può che far bene alla politica, offrirle un'opportunità e una concreta condizione per rianimare con efficacia il ruolo perduto e ritrovare una qualche credibilità, sociale e di senso. Con particolare evidenza in Italia ma in realtà quasi ovunque, la crisi della politica si manifesta anche nell'esasperazione, al limite del grottesco, del suo portato storico maschile, cioè del suo essere un'esperienza di, tra e per uomini, a cui le donne non hanno potuto accedere se non con molto ritardo e sempre in forme secondarie e aggiuntive, che non hanno mai veramente scalfito il grumo profondo - vera e propria dimensione antropologica - di quella complessa vicenda umana, maschile e "al maschile", che è stata la politica nella modernità. Oggi la politica in crisi continua a blaterare - e ad agire - con voce maschile su tutto, anche quando la gravità dei processi richiederebbe la sobrietà del dubbio, della sperimentazione, della circolarità; e anche quando è così evidente, ormai, la portata globale e spiazzante della rivoluzione femminile, i segni del conflitto e delle contraddizioni tra i sessi che essa ha reso evidenti, laceranti e che solo un'altra radicale antropologia politica e un'altra radicale dimensione del pensiero politico potrà assumere e agire positivamente.
Possiamo chiamarla - quest'altra dimensione - un partenariato tra donne e uomini. Io così la chiamo e penso a un partenariato equo, solidale, mite, ispirato alla condivisione e alla reciprocità, fondato sul riconoscimento dell'altro, sulla critica di ogni presunzione fondamentalista e di ogni appartenenza predeterminata. E capace di misurarsi radicalmente col principio della responsabilità pubblica verso il pianeta, la questione sociale, la pace nelle relazioni internazionali. Servono uomini e donne a questo, che attraverso una profonda condivisione dei percorsi avviino un nuovo corso, in primis morale, della politica. Perché la politica, ormai prigioniera della mercificata dimensione mediatica, non può fare altro che sbrindellarsi sempre più, tra il cinismo manifesto degli uomini di destra e quello, camuffato e talvolta mescolato a uno stucchevole buonismo, di quelli una volta di sinistra, mentre la piazza, da luogo del consapevole agire collettivo, rischia di trasformarsi nel buco nero del disagio e dell'impazzimento sociale.
Ma di tutto il rinnovamento della politica ha bisogno, fuorché di nuovi miti e di nuove mitologie salvifiche. Evitiamo di ridurre le donne a un mito un po' patetico. Invocare un ruolo più incisivo delle donne nelle istituzioni pubbliche e nei luoghi delle decisioni politiche, quelle che contano veramente, è prima di tutto e essenzialmente una battaglia democratica e di civiltà, che va ostinatamente perseguita, soprattutto in Italia, dove il monopolio maschile del potere continua a essere asfissiante. Ma da qui a pensare che da questo impegno, automaticamente, discenda chissà quale nuova qualità della politica ce ne corre. Le donne, solo per il fatto di essere donne, non possono fare molto per rinnovare veramente la politica. Il ragionamento vale ovviamente anche per gli uomini, soltanto che loro, invece, si ostinano a pensare di avere una innata e indiscutibile competenza per la sfera pubblica e non riflettono su quanto anche questa presunzione oggi concorra fortemente a screditare e delegittimare la politica. Già se riconoscessero il grottesco di quel loro pretendere di rappresentare tutto, parlare di tutto, decidere tutto e facessero un consapevole passo a lato, già questo sarebbe un bel contributo al rinnovamento della politica. Ma le donne, per essere davvero agenti del rinnovamento, dovrebbero rompere radicalmente con quel loro destreggiarsi tra adattamento e omologazione, con quella disposizione, che viene da lontano, a farsi legittimare dagli uomini accontentandosi soprattutto di compiacerli e ricavando per sé spazi a lato. In politica ciò è evidente. Si chiama complicità femminile con e nell'ordine patriarcale. Rompere dunque, facendo della loro storia materia grande della politica, a partire da un posizionamento politico, un'idea del mondo, una pratica pubblica. Molta parte dell'esperienza umana femminile e femminista ha trovato la ragione di fondo della sua forza di elaborazione teorica e di pratica politica nella scelta di posizionarsi e di partire da sé, cioè in un forte radicamento nel presente e nell'esperienza concreta. Questo è uno snodo essenziale per riconquistare autenticità e forza di coinvolgimento alla politica. Uno snodo su cui costruire e sedimentare pratica,comportamenti, rappresentazione di senso. La rivoluzione femminile ha fatto una breccia decisiva, reso evidente e ormai fuori di ogni discussione il problema dei rapporti tra i sessi come problema della politica. Ma è ancora un inizio su cui lavorare ma con la consapevolezza che non sarà un pranzo di gala. Presunzione maschile e complicità femminile: una nuova radicale antropologia politica che ne faccia radicalmente a meno.
*deputata prc

Liberazione 2.10.07
Bertinotti: «La sinistra è l'antidoto all'antipolitica»
Due ore di botta e risposta, domenica a Roma fra il Presidente della Camera e il giornalista Minoli
«Non mi sento affatto parte della casta». «Non servono leggi, i partiti devono autoriformarsi»
di Stefano Bocconetti


Le risposte sono lunghe, piene di racconti. Di esempi presi dalla propria storia. Risposte tutt'altro che diplomatiche, allora. Come del resto gli aveva chiesto Giovanni Minoli, che lo sta intervistando. Ma forse non c'è solo questo. Molto probabilmente di più pesa questo splendido ex cinema Universal stracolmo di persone. La sua gente. Che lo faranno «sentire a casa», come dirà più di una volta. «Di nuovo a casa».
Ecco perché le due ore di botta e risposta, domenica mattina fra Bertinotti e il giornalista di Mixer - che hanno concluso il prolungamento settembrino della Festa di Liberazione romana - sono stati assai diversi dai tradizionali dibattiti politici. Qui le domande sono state immediate, dirette. Come quando Minoli ha chiesto, quasi sorprendendo la gente: «Ma lei si sente parte della casta?». Anche la risposta all'inizio è stata immediata, secca: «No, per niente».
Ma poi s'è fatta più lunga, più articolata. Accompagnata da aneddoti, da tanti ricordi. Storie accompagnate dalle richieste di conferma rivolte alla moglie, Lella, che era lì, in prima fila. Storie di tanti anni fa, di quando Bertinotti sindacalista non riusciva a prendere lo stipendio. Neanche a Natale. E di come quella volta per avere almeno due lire in tasca per le festività, si decise di spedire una «delle compagne, che faceva un lavoro oscuro ma preziosissimo», a ritirare i "bollini" mensili. A ritirare la quota di iscrizione dei lavoratori al sindacato.
Una storia che racconta tutto il contrario della vita di un appartenente alla casta.
E ancora: Bertinotti svela di quando il Pci gli chiese di candidarsi alle politiche. In un collegio sicuro, in un momento in cui «i partiti erano ancora in grado di decidere chi sarebbe stato eletto». E lui disse di no. Gli interessava di più restare dov'era, al sindacato. Tanto da prendersi i rimbrotti di uno scorbutico Pajetta: «Ma dì un po', chi ti credi di essere che dici no ad una richiesta come questa?».
Parole informali, racconti, allora. Che la dicono lunga sul clima dell'incontro dell'altro giorno al teatro di via Bari. E che introducono al tema attorno al quale hanno ruotato le due ore di discussione: la crisi della politica, le risposte all'antipolitica.
Anche qui, nulla di scontato. Perché Bertinotti dice che sicuramente l'immagine che dà la politica è brutta, è percepita come bruttissima dall'opinione pubblica. E qui bisogna intervenire subito. Come del resto la Camera sta cominciando a fare, anche se nessuno - tantomeno la grande stampa - ne parla. E' molto tempo, però, che esistono sprechi e privilegi della politica. Solo che adesso c'è qualcuno - molti, in verità - che spingono per sollevare polveroni. Ma la risposta potrà venire solo dalla politica. «Perché è vero che la politica prende molto - come del resto prende molto in tutti gli altri paesi democratici, in tutto il resto d'Europa - ma quel "molto" è percepito come intollerabile fino a che la politica non sarà in grado di restituire». Di garantire servizi, welfare, redistribuzione sociale. Fin tanto insomma che non ci sarà «una buona politica».
Si parla di «politica» ma in realtà Bertinotti circoscrive il campo: perché il compito di rispondere all'antipolitica, spetta quasi solo alla sinistra. «E' la sinistra la principale, forse l'unica risorsa per sconfiggere la delusione». Per sconfiggere l'antipolitica.
A Minoli tutto ciò però sembra non bastare. Insiste, entra nel merito delle tante proposte che si leggono sui giornali in queste ore. Chiede a Bertinotti un parere sul progetto di Fassino illustrato in tante recentissime interviste. Progetto che magari Fassino avrebbe potuto trasformare in disegno di legge anziché limitarsi a farne scrivere i giornali (osservazione di Bertinotti che non è piaciuta al segretario diesse che ha subito replicato: «Non accetto lezioni su come si fa il parlamentare»). Ma il punto non è questo: per il Presidente della Camera è giusto intervenire. Ma la via non è quella legislativa, quanto l'autoriforma dei partiti. Anche per ciò che riguarda i candidati sotto processo. E pure qui un ricordo, di qualche tempo fa. Di quando il pool antimafia chiese a tutti i partiti di non inserire nelle liste siciliane anche chi era solo "sotto inchiesta". Cosa che Rifondazione ha fatto e altri no. Ma per libera scelta. Anche perché osserva Bertinotti esistono diversi tipi di reato: «E non si può mettere sullo stesso piano un sospettato di mafia con chi magari ha fatto un blocco stradale per difendere il proprio posto di lavoro».
I partiti devono autoriformarsi, allora. Ad un osservatore sembrerebbe un discorso destinato all'impopolarità. Ma non in questa sala che sottolinea quasi ogni suo passaggio con applausi fortissimi. E Bertinotti va avanti: e spiega che spetta proprio ai partiti ricostruire la partecipazione, la democrazia. Spetta a loro riprogettare un modello di società, ricostruire quel «tessuto» che aveva reso l'Italia un caso unico al mondo. Partiti che potrebbero, rapidamente - magari entro l'anno - scrivere una vera riforma elettorale che eviti il brutto quesito referendario e procedere speditamente ad una drastica riduzione dei parlamentare e dei senatori. Ma partiti, ancora, che devono guardare molto, molto più in là del contingente.
Devono ricostruire grandi soggettività. Di più: mettendo nel conto che un partito che avvia una ricostruzione di questa portata può anche perdere. Non se lo augura ma è una possibilità: «Perché ricordiamoci che Mitterrand perse due elezioni prima di far conquistare alla sinistra l'Eliseo».
Partiti, dunque. Che devono tornare ad essere lo strumento attraverso cui passa, si organizza la partecipazione delle persone, dei singoli, delle associazioni. Ed eccolo arrivato a parlare del 20 ottobre. «Mi chiede se si può stare al governo e organizzare manifestazioni di protesta? Davvero non riesco a capire: perché no?». E aggiunge che è sbagliata una sinistra condannata o a stare all'opposizione o al governo, a patto, però, di rompere i legami con la sua gente, la sua base. Esiste un'altra possibilità, esiste un altro modo di stare al governo. Ed è qui che Bertinotti sorprende di nuovo il suo interlocutore. Perché parla della manifestazione del 20 ottobre mettendola assieme alle primarie del nascente partito democratico, in programma una settimana prima. Il 14 ottobre. Li considera insieme, come elementi importanti di stimolo della partecipazione, come la ricerca di un nuovo modo d'essere dei partiti. «Indipendentemente dal giudizio che si può dare sulle due iniziative, indipendentemente su quale sia la collocazione politica delle forze che le hanno organizzate».
C'è un segnale, insomma, che viene dalle vicende di questi anni. Che viene dalla lettura di ciò che è accaduto in Europa, in Germania o in Francia. E' che laddove i partiti «rinunciano», laddove i «partiti» si fanno travolgere dall'antipolitica vince il governo dei tecnocrati. Vince chi ha fastidio dei partiti. Di quello strumento che è stato inventato e che resta il mezzo a disposizione delle persone. Per provare a strappare un po' più di giustizia.