domenica 7 ottobre 2007

l’Unità 6.9.07
Bioetica, laici del Comitato nel mirino: già decisa l’epurazione?
Il presidente Casavola incontra Prodi e ottiene «modifiche sulla composizione». Il «dimissionato» Marini: non ci hanno informati
di Mauro Scanu


TUTTI contro tutti nel Comitato Nazionale di bioetica (Cnb). Dopo che la scorsa settimana alcuni consiglieri di area laica avevano fortemente criticato l’operato del neopresidente, Francesco Paolo Casavola, arriva il «licenziamento» dei tre vicepresidenti, che nulla hanno a che fare con l’iniziativa assunta dai tre consiglieri. Almeno questo sarebbe l’esito di un incontro tra lo stesso Casavola e Prodi, cui ha fatto seguito una nota ufficiale in cui si spiega che il premier «ha anche accolto il suggerimento di effettuare modifiche all’attuale composizione dell’ufficio di presidenza del comitato stesso per garantirne la funzionalità, già nei prossimi giorni». Una formula un po’ sibillina che ha fatto pensare a molti che Prodi avesse avallato la decisione di Casavola di azzerare il comitato di presidenza di cui fanno parte Luca Marini, Elena Cattaneo e Cinzia Caporale. Al momento nessuno dei tre ha ricevuto però comunicazioni ufficiali.
Ma il loro stop sarebbe una sorta di risposta alle accuse mosse contro Casavola da alcuni consiglieri. Tutto è cominciato lo scorso 28 settembre con la pubblicazione su Left-Avvenimenti di una lettera infuocata in cui si accusava Casavola di «pochezza di risultati», «scarsa informazione», «gestione unilaterale» e «poco rispettosa del regolamento vigente». A lanciare le accuse alcuni componenti del Cnb, Carlo Flamigni, Demetrio Neri e Gilberto Corbellini, ai quali si è associato il presidente della Consulta di Bioetica Maurizio Mori. Secondo gli autori della lettera, i nove mesi di cattiva gestione di Casavola avrebbero penalizzato il pluralismo a scapito di alcune tesi precostituite.
A far saltare la mosca al naso ai «dissidenti» è stata la fresca nomina del genetista Bruno Dallapiccola come rappresentante del Cnb nella commissione del Consiglio Superiore di Sanità incaricata di dare un parere sulle linee-guida della legge 40 sulla procreazione assistita. Come è noto, Dallapiccola è presidente del comitato «Scienza e vita» ed è stato uno dei maggiori sostenitori del partito dell’astensione al referendum. Altro punto è stata la nomina di Adriano Bompiani, Luca Marini (oltre ancora a Dallapiccola, tutti di «Scienza e vita») a membri di una commissione dedicata allo stoccaggio delle staminali.
«Casavola è andato da Prodi a chiedere aiuto, come si fa con papà - ha commentato Corbellini - . In questi casi è difficile stabilire i nessi di causa-effetto, ma già la settimana scorsa Casavola aveva dichiarato che sarebbe andato a Palazzo Chigi. A prescindere da ciò che si sono detti, questa sostituzione dei vicepresidenti arriva proprio all’indomani di quell’incontro». Secondo Corbellini la vicenda sarebbe un concentrato di errori e goffaggini che dimostrerebbero l’impreparazione di Casavola: «La bioetica è un argomento complesso in cui convergono punti di vista molto differenti, che dovrebbero essere tutelati senza distinzione come dice la Costituzione. Quindi non ci si può improvvisare presidenti del Cnb. Soprattutto se non sa cosa sia la clonazione, una diagnosi pre-impianto o il testamento biologico. In questo caso il diritto romano non può aiutare».
Chiaro il commento di uno dei tre dimissionati, Luca Marini. «Delle due l’una - ha detto - o le critiche sono fondate ed allora responsabile è l’intero Ufficio di Presidenza ed in primo luogo il massimo responsabile del buon funzionamento complessivo del Cnb, o le critiche sono infondate ed allora la decisione di sostituire i vice-presidenti assume un significato tutto da scoprire».

l’Unità 6.9.07
Pansa, il giustiziere sul ring della storia
di Bruno Gravagnuolo


POLEMICHE Ancora una lunga invettiva e un’«autorecensione» contro i critici. Scompaiono la storiografia e la discussione sulla memoria, a beneficio di nuovi casi di cronaca volti a generare emozioni e non comprensione del biennio 43-45

Giampaolo Pansa vittimista piagnucoloso e aggressivo? Mediatico trionfatore «revisionista» che gioca a fare il perseguitato? Macché! A respingere con foga l’accusa, mossagli un anno fa dalla storico Giovanni De Luna, è Pansa stesso. Nel mezzo della sua ultima fatica: I Gendarmi della memoria, Sperling &Kupfer, pp. 504, Euro 19. Accusa respinta così: «...Il mio difetto è quello opposto. Essere sempre stato troppo orgoglioso... Di alzare le spalle di fronte alle critiche. E di considerarmi un ultrà del revisionismo. Uno spaccone sul terreno della storia da completare. Un fanatico dell’andare controcorrente...».
Ecco, dopo I figli dell’aquila, Il sangue dei vinti, Prigionieri del silenzio, Sconosciuto 1945 e La grande bugia, il sesto «massiccio» della torrenziale Opera Omnia polemica del «secondo» Pansa si potrebbe recensire con le stesse parole fuggite dal seno dell’autore. Uno zibaldone rivelatore di un vissuto, di un animus. Pugnace, arroventato. Ormai esasperato e autoreferenziale. In una sorta di resa dei conti umorale, psicologicamente bizzarra. Perché in questo caso, e più che in precedenza, tutto l’argomentare del volume, condito di nuove vendette e omicidi partigiani, è nient’altro che un’invettiva continua. Un contrattacco personale verso i critici, e una sorta di autorecensione polemica. Con alternanza di casi sanguinosi, episodi legati alle contestazioni subite da Pansa (drammatizzate). Brandelli di conversazioni private a sostegno delle idee dell’autore, caricature a iosa di chi lo ha criticato, o non difeso a sufficienza. E satira, e cattura di refusi o di lapsus avversari. Come quando Ingrao confonde Budapest e Praga da Fazio in Tv. E ovviamente piccoli excursus storiografici, e antefatti e paradossi, che dovrebbero inchiodare i «gendarmi della memoria», ossia coloro che vorrebbero sequestrare la verità storica sulla resistenza e sugli scenari inquietanti che essa nascondeva. Il tutto con buona pace di quanti continuano a santificarla agiograficamente e ideologicamente. Così parlò Pansa.
Naturalmente, in tanto spreco di contumelie, dove la storia scompare e diviene rissa di paese, non manca l’affondo politico al cuore del presente: questa sinistra è bacata, dice Pansa. Divisa tra moderati ipocriti (che non difendono Pansa dal «linciaggio») e radicali «vetero». Che presidiano come guardie rosse assatanate l’antifascismo violento e gruppettaro, erede di un certo antifascismo di ieri. E sottopongono a pestaggio simbolico chi invece come Pansa osa gridare il re è nudo. Perciò la conclusione: sinistra non adatta governare, immatura. E proprio il nodo irrisolto di antifascismo e resistenza - continua Pansa - è una palla al piede da troncare e rimuovere.
Come poi Pansa voglia spiantare la «zavorra» è presto detto. E ce lo aveva già spiegato con nitore nella puntata precedente del suo «sequel» di oltre seimila pagine. Così: tagliare, o per lo meno allentare, il vincolo ideale forte che lega la resistenza e l’antifascismo alla Costituzione repubblicana. Dal momento che una Costituzione democratica si giustifica di per sè coi suoi istituti condivisi, non già coi retaggi. Oltre le scissioni di quella che bene o male fu una «guerra civile», malgrado i meriti antifascisti. E perciò è ora di smetterla di considerare l’antifascismo come base valoriale privilegiata, come «paradigma» o «matrice». Operazione, sosteneva già Pansa nella Grande bugia, magari da condurre gradualmente. Tenendo conto di certe sensibilità, e però dalla direzione obbligata: quella indicata nella scorsa legislatura dal Marcello Pera presidente del Senato. Che in tal senso mostrò di gradire molto il discorso di Pansa, a sua volta ben contento di incassare quel giudizio e di farlo suo sul finire del suo penultimo volume.
La discussione su questo punto sarebbe molto lunga, intanto perché non esistono Costituzioni e repubbliche nel vuoto spinto, senza eventi, e annessi valori privilegiati da tramandare. Così come è arcinoto che quello dell’espunzione dell’antifascismo dalla Costituzione e dalla Repubblica è stato a lungo un cavallo di battaglia delle destre moderate e più retrive in Italia (altro che temi cancellati!). E tuttavia proprio questo punto è amblematico dell’ «autotranello» e dell’equivoco in cui Pansa cade. E l’equivoco è il seguente. Una demolizione polemica della resistenza e dei suoi «miti», recriminatoria sul sangue dei vinti e non sorretta da equilibrio e senso storico, precipita fatalmente in invettiva ideologica. In crociata storiografica: da giustiziere contro gendarmi. Con corto circuito esiziale tra storiografia e politica. Sino al punto da offuscare i problemi, invelenire il clima e fare arretrare la civile conversazione sulla memoria. Conversazione trasformata in un ring. E forse anche oltre le intenzioni iniziali dell’autore, che però non fa nulla per disinnescare la spirale della rissa, e che anzi rilancia senza badare a spese: dal vittimismo, alla goliardia da Bagaglino, all’uso di virgolettati strappati dai contesti o non autorizzati. E tratti da annotazioni e chiacchiere private.
Peccato, perché qualche sano problema Pansa lo sfiora nella sua ultima torrenziale produzione. Primo fra tutti l’entità e il significato delle rese dei conti post-25 aprile. Fa bene Pansa a ricordarle e a narrarle. Ma fa malissimo a non farne storia, bensì cronaca nuda e perciò opaca. Volta a produrre indignazione e non comprensione. Non è questione di note a più pagina o di pura assenza del contraddittorio nelle singole istruttorie. Bensì di totale mancanza di storia globale e locale. Nessun riferimento alla ripresa di lotte sociali e di classe in zone bracciantili e mezzadrili, vessate prima dal fascismo poi dalla furia omicida nazifascista. Nessun riferimento alla tragedia italiana senza stato, tra anarchia sociale, sovversivismo e Cln privo di controllo sul territorio. Nulla o quasi sul numero delle vittime civili delle rappresaglie nazifasciste: 15mila. E su quello degli scomparsi nei campi: 50mila. Sugli ebrei italiani scomparsi: 10 mila italiani, dall’Italia e no allo Yad Yashem di Gerusalemme. Mentre sulle vittime partigiane si dà più credito a fonti Rsi, che non alle stime di questori e prefetti di allora, certo non filocomunisti! (che dimezzano a meno di 10mila il numero indicato da Pansa). E nemmeno una parola, o quasi, sulle lotte interne al Pci, e tra Pci e comunisti jugoslavi, debolmente contrastati da Togliatti, epperò contrastati. E ancora, nulla sui 30mila fascisti liberati e riciclati. Sull’amnistia di Togliatti non applicata ai partigiani, incarcerati e spesso giudicati colpevoli di reati commessi in anni di operazioni belliche. Sì, niente «contesto». Di quell’Italia a pezzi, massacrata dal fascismo, lacera, risentita, tumultuosa. Il che non assolve certo gli assassini comunisti di Porzus, né quelli di Don Pessina o dell’ingegner Vischi delle Reggiane. O dei tanti repubblichini che non fecero mai del male, ma vissuti per via della «guerra ai civili» nera come simboli odiosi. Infine il Pci. Falso che abbia coltivato la «subordinata» dell’insurrezione e che i delitti dipendessero da questa tentazione. Il Pci non poteva e non voleva tale scenario. E quelli che in alto ipotizzarono una via più radicale (Longo, Secchia) non erano dei volgari assassini. Come che sia fu Togliatti a troncare la doppiezza. In alto e in basso. E la Repubblica gli deve molto.

l’Unità 7.10.07
«Creato in laboratorio il primo cromosoma artificiale»
Il Guardian anticipa i risultati della ricerca di Craig Venter
Ma lo staff dello scienziato americano frena
di Pietro Greco


HA UN PADRE, CRAIG VENTER, di professione biologo e imprenditore, e ha già un nome, Mycoplasma laboratorium, il primo «organismo vivente artificiale» che, secondo le anticipazioni del quotidiano inglese «The Guardian», avrebbe visto la luce nella cittadina di Rockville, Maryland, Usa. Ma lo staff dello scienziato americano in serata frena: «Il Guardian è avanti sulla musica», fa sapere il portavoce di Venter, Heather Kowalski - «Non lo abbiamo ancora realizzato, quando lo faremo ci sarà una pubblicazione, manca poco».
Il fulmine biotecnologico non giunge affatto inatteso: già da tempo si sapeva che Craig Venter e la sua equipe stavano lavorando alla produzione del «genoma artificiale» di un batterio. Ma il tuono è piuttosto forte. «Siamo a una grande svolta filosofica nella storia della specie umana. Siamo passati dalla capacità di leggere il nostro codice genetico alla capacità di scriverlo. Il che ci consentirà di fare cose mai fatte prima», si autocelebra lo scienziato americano. «E ora, per la prima volta Dio ha un competitore», chiosa preoccupato Pat Mooney, il bioeticista canadese direttore dell’Etc group.
Ma di cosa si tratta? Prima di rispondere, un rilievo di metodo. Che nei fatti scientifici conta. Eccome. Tutto ciò che sappiamo del Mycoplasma laboratorium - piuttosto poco - si basa su dichiarazioni non verificate dello stesso Craig Venter pubblicata dal «Guardian». Ma poiché il nostro è persona di straordinaria abilità - ha messo a punto una tecnica molto veloce ed economica per sequenziare il genoma e con questa tecnica ha letto, tra l’altro, l’intero genoma umano - concediamogli, almeno in prima battuta, un credito che negheremmo ad altri. Dunque, Venter sostiene di aver riscritto, lettera per lettera, il cromosoma di un batterio, il Mycoplasma genitalium: in pratica, ha sintetizzato in laboratorio un codice genetico di 580.000 basi nucleotidiche (le lettere) che contiene 381 geni, copiando quasi per intero (ha evitato la sintesi di una parte non funzionale) il genoma del genitalium. All’impresa avrebbe partecipato un gruppo di venti ricercatori, tra cui il premio Nobel per la medicina Hamilton Smith. Quando il cromosoma sintetico verrà trapiantato nella cellula di un batterio, sostiene Venter, ne assumerà il controllo, inizierà a replicarsi e darà vita a una nuova forma di vita. Il biologo americano è già riuscito a trapiantare con pieno successo il cromosoma di un batterio, per così dire, naturale in una cellula batterica. E si dice «certo al 100%» che il trapianto funzionerà anche con il cromosoma artificiale.
Venter si aspetta molto da questo nuovo sviluppo dell’ingegneria genetica sia in termini di conoscenza di base, sia in termini di applicazioni. Potremo mettere a punto organismi, sostiene, capaci di regalarci fonti nuove e sconosciute di energia (?). O altro ancora. In realtà, prima di arrivare anche solo a ipotizzare delle applicazioni, occorrerà dimostrare, di seguito: che siamo davvero in grado di «copiare» il cromosoma di un organismo vivente; che questo cromosoma, inserito in una cellula, si comporta come un cromosoma naturale, attivando tutti i processi del metabolismo e dell’autoreplicazione; che, saremo in grado di «scrivere» cromosomi diversi da quelli naturali conosciuti capaci di esprimersi compiutamente; che, infine, sapremo controllare la questi «cromosomi artificiali». Insomma, c’è molta ricerca ancora da fare. E sia gli entusiasmi sia le preoccupazioni sono per ora del tutto prematuri.
Resta il fatto che, se l’annuncio di Venter è fondato, si tratta di una passaggio importante. Imparare a scrivere un intero codice genetico sarebbe, come usa dire, «una pietra miliare» nella storia recente ma già densissima della biologia molecolare.
Ma non sarebbe, di per sé, il superamento di una soglia storica. Non avremmo acquisito con questo passaggio, pur fondamentale, la capacità di «dar vita alla vita». Per un fatto molto semplice. Perché non c’è alcuna soglia assoluta prima della quale non c’è vita e dopo la quale c’è la vita. La vita è l’insieme di una serie di processi. Ciò che Venter e la sua equipe hanno acquisito è la capacità di controllare uno, sia pure molto importante. Ma già prima l’uomo era riuscito a controllare alcuni processi tipici della vita e, in futuro, altri riuscirà a controllarne.
L’importante è che il controllo di questi processi biologici sia assunto in maniera trasparente. Che le conoscenze - tutte le conoscenze - siano a disposizione di tutti. In modo che tutti possano giudicarle. E tutti possano decidere, democraticamente, come utilizzarle.

l’Unità 7.10.07
«Che», la rivoluzione alla prova in una vita
di Maurizio Chierici


Esce martedi con l’Unità il volume Guevara al tempo di Guevara di Saverio Tutino nella collana «Le Chiavi del Tempo» diretta da Bruno Gravagnuolo. Martedì sono quarant’anni che il Che è stato ucciso ma non svaniscono i sentimenti, e il guerrigliero dei guerriglieri resta il sentimento che accompagna le generazioni cresciute attorno al suo mito. Per lo più amato, ma anche bistrattato da chi porta la cravatta. Libri e dvd. Film vecchi e nuovi. Il racconto di Saverio Tutino non sfoglia i libri degli altri. È il diario di un testimone vissuto all’Avana negli anni del Che.

Lo guarda da vicino, ne registra le parole e le riascolta per capire se l’idealismo radicale di Guevara e il pragmatismo nazionalista di Castro potessero convivere nella costruzione di un futuro al quale si aggrappavano intellettuali di cultura europea e latini alla disperazione. Cuba è un piccolo segno, ma sono gli anni del Vietnam che inginocchia la superpotenza: vola l’utopia. Tutino ne è trascinato. Ma lentamente si affacciano i dubbi. Tutino arriva all’Avana mentre Kennedy annuncia il blocco aeronavale di Cuba, 1962. Da Praga al Canada dove viene perquisito assieme ad ogni passeggero. Dieci ore di sosta e riparte con la Cubana d’Aviacion accompagnata da due caccia starfighter americani: seguono il volo «fino a quando si profilano i contorni dell’isola». l’Unità lo ha mandato a raccontare la crisi dei missili e appena si mescola alle voci dell’Avana capisce il rischio di una guerra «palpabile, quasi spettacolare». Fino a quando i russi abbandonano l’isola, l’impressione non cambia. La sfida affascina i giovani, però Tutino ha 40 anni: viene dalla Resistenza in Piemonte, ha studiato a Parigi respirando gli entusiasmi della sinistra francese. A Cuba si propone non solo di mettere in fila le notizie, ma di osservare la rinascita del progetto inseguito nella lotta al fascismo e che l’Italia intiepidita dal benessere cominciava ad annebbiare. Dorme all’Habana Libre, vecchio Hilton che ha cambiato nome. Fruga biblioteche, lavora nei campi mescolandosi ai cubani «per imparare concreti aspetti della libertà collettiva». La legione straniera della speranza si è raccolta a Cuba, da Vargas Llosa a Garcia Marquez. Masetti, l’argentino che aveva raccontato alla radio le imprese di Castro e Guevara sulla Sierra, apre Prensa Latina, agenzia in concorrenza con le multinazionali del «mondo fuori». L’indecisione sul modello economico apre fessure tra i tecnici di Castro e i programmi estremi del Che, che vorrebbe abolire la moneta, centralizzare ogni risorsa. Il peso dovrebbe diventar solo un’unità teorica di misura nella contabilità rigidissima dello stato. Non deve servire a comprare qualcosa. Ma la realtà non segue utopia ed entusiasmo. Burocrazia che risorge lenta e inefficace. Si riaffaccia la corruzione. Solo Raul Castro, con Fidel malato, ne denuncia il malaffare impegnando ogni controllo per combatterla. Non nei giorni del Tutino cubano, qualche mese fa, 45 anni dopo. La rivoluzione comincia a dividersi tra Mosca e Pechino mentre l’ordine sovietico impone il ritorno alla monocoltura dello zucchero. Sbarca all’Avana macchinari obsoleti che Mosca considera fuori uso. Con questo spirito il Cremlino aiuta Castro ad «industrializzare l’isola». I fantasmi del trozkismo aprono sospetti che sfiorano le amicizie di Tutino. Non sarà più un ospite così gradito. Non capendo cosa gli altri possano pensare delle riflessioni ad alta voce sull’evoluzione della rivoluzione, Tutino finisce per «parlare da solo».
All’Habana Libre fa amicizia con Celia, madre del Che. Ogni giorno parlano di tante cose, Tutino le chiede di incontrare il figlio. Celia promette di intercedere, ma ogni volta la risposta è negativa. Non lo vuole vedere per due buoni motivi: perché è giornalista e perché scrive su l’Unità, allora quotidiano del Partito comunista «il più pacifista dei partiti comunisti del mondo». Troppo tranquillo per piacergli... E il giornalista non ha occasione di fare domande ma di ascoltarlo sì. Può seguirne l’evoluzione del pensiero, quando si arrabbia o tace o parla troppo. Una volta Guevara appare improvvisamente nell’albergo. Gira fra i tavoli degli scacchisti al campionato del mondo: «passo calmo, quasi pesante. Sigaro tra le dita. Nessuno osa abbordarlo mentre osserva la partita fra il sovietico Spaskije l’americano Fisher. La presenza di Guevara in quel luogo e in quel momento di grave tensione internazionale non era un evento consueto. Non si faceva mai vedere in giro per città. A Cuba si diceva che nel gioco degli scacchi fosse più bravo di Fidel. Erano le due anime della rivoluzione, eppure nessuno osava parlare di dualismo...». Che invece comincia e si allarga. L’affondo di Algeri di Guevara contro l’Unione Sovietica precisa i disegni ormai diversi dei protagonisti della rivoluzione. Realisticamente Castro si adegua a Mosca perché senza l’Urss Cuba non sopravvive. Il Che continua a sognare la liberazione dei popoli umiliati e allunga i passi fuori dall’isola.
Guevara ai tempi di Guevara, racconto delle voci raccolte tra virgolette, insegue il Che stampandone l’immagine su un Castro non del tutto amato dopo i primi entusiasmi al primo sbarco dall’Italia. La deduzione di chi ha attraversato a lungo la realtà cubana non può essere che personale, ma l’analisi resta curiosa: trasforma l’Avana in un posto dove la politica ricorda più o meno come si fa politica in ogni capitale del mondo. Con tanti misteri in più, dipendenze meno mascherate dalle grandi potenze, ma sono le verità nascoste il filo che accompagna il sospetto dell’autore, ombra che si espande alle spalle del monumento Guevara. Tutino ne è affascinato in modo diverso da chi ne riceve il mito da lontano. Fa capire che le sue improvvidenze allargano l’ammirazione nelle masse costrette alla razionalità delle società normali, soffocando umori che ribollono nelle persone più rassegnate. In un certo senso Guevara vive la sua avventura per tutti. Avventura di ministro intransigente con chi tradisce il dovere. Di politico che non conosce la mediazione e non sopporta il dominio sovietico. Di guerrigliero che al ritorno dal Congo non ha riguardi per Mosca. Tutino esplora gli imbarazzi di Fidel, coglie ciò che considera l’ambiguità delle mezze parole e ne deduce che mai due persone così vicine nella storia e nella vita hanno coltivato nella stessa rivoluzione vocazioni tanto diverse.
Il racconto dell’ultimo viaggio in Bolivia - solidarietà di Cuba che affievolisce, ordini di Mosca che invitano i comunisti di La Paz all’abbandono - riesce ad essere diverso dalle biografie della tradizione guevariana. Com’è diverso il profilo che Tutino disegna delle tre donne della vita di Guevara: Hilda che in Guatemala piega al marxismo la generosità di un ragazzo scandalizzato dall’ingiustizia sociale; Aleida moglie paziente che aspetta e aspetta; Tania, protagonista del Kgb, un po’argentina un po’ tedesca dell’Est, guerrigliera senza paura e senza pruderies in amore. Dopo la morte, coi russi ancora all’Avana, il lutto per Guevara viene provvisoriamente rimosso dall’ufficialità, non dal cuore della gente e dal ricordo di Tutino. Che annota: «Nel suo modo di rivolgersi agli altri diventava un vero comunicatore. Se scriveva versi era un mediocre poeta, ma quando parlava agli operai in fabbrica, a donne e impiegati dei ministeri, o quando mandava lettere ai parenti e amici lontani, usava un linguaggio misurato, cercava toni sobri. I cubani tendevano l’orecchio appena qualcuno riferiva di una cosa detta in privato dal Che. Il suo parere si distingueva per un contenuto che comunque andava controcorrente. Forse era davvero un po’ folle pensare di poter cambiare il mondo e salvare l’umanità assistendo a tutto questo nel giro di una vita, la propria». Nelle ultime righe il libro dei dubbi conclude coi dubbi: «Molti uomini politici e filosofi hanno avuto voglia di migliorare l’universo senza arrivare agli estremi del Che. Fidel Castro, per esempio, potrebbe pretendere di aver cercato più del Che la politica per fare quello che tutti e due volevano. Bisogna vedere chi dei due pensava più a se stesso che agli altri». Da vent’anni Tutino non torna all’Avana.

l’Unità 7.10.07
L’inesorabile marea del colore di Rothko
di Renato Barilli


RETROSPETTIVA Nel rinato Palaexpo romano un’eccezionale raccolta dell’opera dell’artista ebreo-lituano che fu tra i protagonisti della Scuola di New York. Il suo astrattismo «soft»

Grande festa, giovedì scorso, a Roma per la presentazione alla stampa del Palazzo delle Esposizioni dopo il lungo rifacimento cui è stato sottoposto, alla presenza del sindaco Veltroni, giustamente orgoglioso della rete museale che in questi anni l’Urbe ha realizzato sotto la sua regia. E c’erano pure il Presidente del Palazzo, Van Straten, e i curatori delle tre mostre con cui si è celebrata la riapertura, dedicate rispettivamente a Mark Rothko, Mario Ceroli e Stanley Kubrik. Per la retrospettiva Rothko (fino al 6 gennaio, cat. Skira) ha parlato, in buon italiano, il curatore Oliver Wick mettendone in giusto risalto l’eccezionalità. Era da quasi mezzo secolo che l’artista statunitense non ritornava in forze nel nostro Paese, precisamente dalla Biennale di Venezia del 1958 in cui gli era stato dedicato il padiglione Usa, e subito dopo c’era stata pure una presenza consistente alla Galleria nazionale, voluta da Palma Bucarelli. Ma soprattutto, come ha osservato Wick, sarà forse impossibile che una rassegna di tanta completezza si riveda in giro per il mondo, visti gli alti prezzi raggiunti dalle tele di questo artista e le difficoltà crescenti di ottenerne i prestiti.
Rothko è appartenuto alla favolosa Scuola di New York, assieme ai Pollock e De Kooning e Gorky e Motherwell, per citarne i più famosi, con cui gli Usa hanno assunto, nel corso del secondo conflitto mondiale, la leadership in ambito occidentale, ma senza troncare un lungo e forte cordone ombelicale con l’Europa. E come poteva essere, se molti di questi esponenti di grido venivano proprio dal Vecchio Continente? Il nostro Rothko nasce nel 1903 in Lituania da famiglia ebraica, come attesta l’appendice «witz» che ne completava il cognome, prima di decidere di tagliarlo. De Kooning veniva dall’Olanda, Gorky dall’Armenia, non è però che dai nostri «vecchi parapetti» si portassero dietro tesori di sapienza, al contrario, se ne andavano ancora ragazzini assieme alle famiglie secondo un destino di poveri emigranti, e dunque, semmai, l’Europa, coi suoi tesori di sapienza, la dovevano scoprire da lontano, come portarne i semi a germogliare su un terreno tanto più fecondo e propizio. In effetti tutti e tre questi oriundi ebbero un destino giovanile impacciato, di esperimenti timidi, di non spiccata audacia. Però i venti di terre lontane erano in agguato, a impadronirsi di quelle povere spoglie. Basti vedere, del nostro Rothko, un Autoritratto del ’36, eseguito quando si era già insediato a New York, che sarebbe di fattura abbastanza convenzionale, se non apparisse già il tratto stilistico che ne avrebbe profondamente dominato ogni futura manifestazione, un allargarsi dei tratti, come se, per troppa liquefazione del colore, questo dilagasse sul foglio sfuggendo ai tentativi di imbrigliarlo entro linee di contorno. Ciò vale per ogni altra prova di quegli incerti inizi, in cui l’artista si sofferma a delineare tante figurette, una folla che sciama lungo le vie della città, ma intanto muri, infissi, vetrate si vanno allargando in un’onda di piena illimitata, che comprime le esili icone costringendole ad abbarbicarsi sulla verticale, nel tentativo si salvarsi da quel processo stritolante. Il massimo di audacia per il giovane artista, in quegli anni, è di seguire le orme del surrealismo europeo, il che lo porta anche in questo caso a dipanare esili grafismi, come se estraesse dalle profondità oceaniche strani molluschi, stelle e cavallucci marini, i quali però dimostrano di aver subito una compressione a molte atmosfere, da cui escono schiacciati, come fossero già dei reperti fossili incistati nella roccia. In fondo, la similitudine primaria che vale per l’arte di Rothko è proprio quella di una marea che avanza inesorabile e cancella, spiana, leviga tutto quanto incontra sulla sua strada, proprio come l’onda montante cancella i timidi solchi scavati nella sabbia. E ben presto tutto giace sepolto, sotto quello strato liquido. Col che verrebbe fatto di dire che mal si addice a Rothko l’etichetta generale attraverso cui la Scuola di New York è passata alla storia, come Espressionismo astratto. Sembra valere per lui l’aggettivo più del sostantivo, fino a farne un campione di astrattismo, un erede di Mondrian, un compagno di via rispetto ai due dissidenti della Scuola quali furono Ad Reinhardt e Barnett Newman. Ma c’è tanta consistenza, in quegli strati monocromi che a prima vista invadono le tele del Nostro, si sente che essi coprono tante minute esistenze, che sono fatti di un brodo vitale, e del resto nel loro caso non contano solo i rapporti orizzontali, da uno strato all’altro, ma al contrario quelle ampie chiazze si dispongono le une sopra le altre, a galleggiare, a schiacciare verso il basso le distese sottostanti. Se Umberto Boccioni avesse potuto vedere queste evoluzioni dinamiche di bolle liquide o aeree le une sopra le altre, avrebbe forse esclamato che proprio questo intendeva, preconizzando che in futuro si sarebbe fatta arte con i gas. Il Novecento potrebbe essere visto tutto come lo scontro tra forme hard e forme soft, Mondrian contro Kandinsky, Forse, in questo dilemma, Rothko sarebbe da collocare più sul fronte del soft che dello hard.

Repubblica 5.10.07
Aborti, mai così pochi in Italia Turco: "La legge non si tocca"
Dimezzati rispetto a 25 anni fa. Sempre meno le teen-ager
di Caterina Paolini


ROMA - La 194 non si tocca, parola di ministro. Il motivo? Funziona: le interruzioni di gravidanza, nel 2006, hanno raggiunto il minimo storico. «È una legge saggia e lungimirante e non c´è alcun bisogno di cambiarla, casomai si devono moltiplicare gli sforzi per fare più educazione sulla contraccezione, per i giovani e per le straniere che ormai rappresentano un terzo degli aborti. E lavorare per far diminuire il prezzo dei preservativi. Il mio sogno resta comunque un paese dove non ci sia bisogno di ricorrere all´aborto».
A difendere la legge, i dati che dimostrano come le interruzioni di gravidanza siano quasi dimezzate dall´82, scendendo nel 2006 al minimo storico di 130mila, è il ministro della salute Livia Turco che ieri ha presentato al parlamento la relazione sulla 194. Una fotografia che racconta un paese che cambia tra cultura, accenni di emancipazione e nuove migrazioni. Un paese diviso in due: con le italiane che vi ricorrono sempre meno e le immigrate che invece triplicano le interruzioni. Con una media nazionale che parla di 234 aborti ogni mille bambini nati.
Sempre meno italiane abortiscono: 93 mila l´anno scorso, il 60% in meno rispetto all´82. Diminuisce anche il numero delle ragazze sotto i vent´anni che chiedono aiuto per una gravidanza non voluta, sette su mille: un dato molto inferiore alla media europea dove il fenomeno è invece in netta crescita. Le statistiche, invece, raccontano come sia triplicato in dieci anni il numero delle straniere che interrompono la gravidanza: erano il 10% nel 1996, adesso sono il 29%. Come dire: un aborto ogni tre ha come paziente un´immigrata.
«Se tra le italiane soprattutto più istruite, colte e giovani, la contraccezione è diventata un fatto normale, così non è tra le immigrate che ricorrono all´aborto perché non conoscono la legge, i consultori. Sono intimorite, sole, spesso clandestine», spiega il ministro Turco.
Ma chi è nella maggioranza dei casi la donna che ricorre all´interruzione di gravidanza? L´identikit raccolto dal ministero dice che ha tra i 20 ed i 24 anni, sposata nel 46,7% dei casi, con la licenza media (46.5%), licenza superiore (39,7%), laurea (6,5%). Nella maggior parte dei casi (45,8%) è una lavoratrice. Nel 27,9% è una casalinga, nel 15,6% è disoccupata o in cerca di primo impiego.
Le statistiche dicono ancora che gli aborti vengono praticati nel 97% per cento dei casi entro i 90 giorni, nel 2.7% dei casi entro la ventesima settimana e solo nello 0,7 nella 21esima. Ma nell´Italia che cambia, solo mille su 130 mila aborti vengono effettuati usando la terapia farmacologica, la pillola Ru486, mentre nel resto dell´Europa questa pratica, meno invasiva e traumatica, è ormai di routine e viene scelta e praticata su una donna ogni quattro.
Come distribuzione geografica è al nord che si concentra il maggior numero di aborti avvenuti nel 2006: 59.827 contro i 28.681 del centro, i 29.940 del sud e gli 11.585 delle isole. La regione "capofila" in valori assoluti è la Lombardia (22.248 interruzioni volontarie), seguono Lazio (15.250), Emilia Romagna (11.458) Le interruzioni sono in diminuzione quasi ovunque, ma con qualche caso in controtendenza. Tra il 2005 e il 2006, ad esempio, si è registrato un +18,6% di aborti volontari in Basilicata, in Valle d´Aosta (+13,2%) e Campania (+5,7%).

Repubblica 5.10.07
"La vera svolta è stata la contraccezione"
La ginecologa Kustermann: donne più consapevoli, allarme straniere
Bisogna potenziarli Il colloquio è fondamentale per capire cosa è successo e anche per evitare un nuovo incidente
di Carla Brambilla


MILANO - «Le donne italiane hanno imparato a usare la contraccezione. E quindi ricorrono molto meno all´aborto. Non solo. Dalle statistiche risulta che hanno un tasso di recidiva di aborto tra i più bassi a livello internazionale (18% di aborti ripetuti contro una media europea del 25%). Insomma abortiscono meno e ancor meno capita loro di ricadere nello stesso incidente». Alessandra Kustermann responsabile del Servizio di Diagnosi prenatale della Mangiagalli di Milano, una delle ginecologhe più impegnate da anni a favore delle donne (coordinatrice del Centro di soccorso violenza sessuale), commenta con grande soddisfazione l´ultima relazione del ministro della Salute Livia Turco sull´aborto in Italia.
Resta un dato allarmante: la forte crescita di aborti tra le giovani cittadine straniere, che toccano il 29,6% del totale.
«Certo. Oggi da noi, al Mangiagalli, una donna su 4 che partorisce è straniera. E straniera è addirittura una donna su due tra quelle che ricorrono all´aborto volontario».
Come si spiega il fenomeno? Con l´ignoranza? Con una minore cultura della contraccezione tra le cittadine straniere?
«Le donne straniere costrette ad abortire sono molto spesso povere e devono lavorare per mantenere la famiglia. Per loro avere un nuovo figlio significa interrompere il progetto per cui sono emigrate, che è quello di mandare soldi a casa. Tra le giovani straniere c´è un´elevata fertilità. Bisogna tener conto del fatto, poi, che la nostra immigrazione è relativamente stabile. È ovvio che le donne che arrivano per la ricostituzione del nucleo familiare, se sono giovani e hanno già un marito, spesso devono fare i conti con nuove gravidanze».
Che cosa si deve fare per risolvere il problema?
«Bisogna potenziare i consultori familiari. Perché è dimostrato: la capacità di usare la contraccezione dipende da quanto viene fatto bene il colloquio che precede l´aborto. Il consultorio deve diventare il tramite con l´ospedale, che poi praticherà tecnicamente l´interruzione di gravidanza. È durante il colloquio in cui viene richiesto l´aborto che bisogna parlare del fallimento del metodo contraccettivo usato. Quando poi la donna tornerà al consultorio familiare per la visita di controllo post-aborto sarà cominciato il percorso che porta a un aumento della contraccezione».
Secondo il Ministro della Salute Livia Turco non c´è nessuna necessità di modificare la legge 194, quella che regola l´interruzione volontaria della gravidanza. Una legge che continua ad essere «efficace, saggia e lungimirante». Cosa ne pensa?
«Sottoscrivo in pieno la posizione di Livia Turco. Questa è la strada che dobbiamo seguire. Se vogliamo che meno donne straniere ricorrano all´aborto dobbiamo potenziare al massimo la possibilità di ottenere dei risultati positivi. Potenziare i consultori familiari vuol dire potenziare la conoscenza dei metodi contraccettivi efficaci. Con le donne italiane il risultato è stato ottenuto. Adesso si tratta di pensare a programmi appositi fatti su misura per le straniere. Programmi che tengano conto delle loro diverse condizioni di vita, di cultura, di costumi».

Repubblica 5.10.07
La generazione del Nulla
Quando la vita perde il senso
di Umberto Galimberti


ANTICIPAZIONI Esce il nuovo libro di Umberto Galimberti dedicato al malessere che si aggira fra i giovani cancellando prospettive e orizzonti
Famiglie in allarme. Scuola incapace di agire Solo il mercato si interessa a loro
Friedrich Nietzsche descrive questa mancanza di fine e di una risposta al perché

Esce in questi giorni il nuovo libro di L'ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani (Feltrinelli, pagg. 184, euro 12). Ne anticipiamo parte dell´introduzione.

I giovani, anche se non sempre lo sanno, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui.
Le famiglie si allarmano, la scuola non sa più cosa fare, solo il mercato si interessa di loro per condurli sulle vie del divertimento e del consumo, dove ciò che si consuma non sono tanto gli oggetti che di anno in anno diventano obsoleti, ma la loro stessa vita, che più non riesce a proiettarsi in un futuro capace di far intravedere una qualche promessa. Il presente diventa un assoluto da vivere con la massima intensità, non perché questa intensità procuri gioia, ma perché promette di seppellire l´angoscia che fa la sua comparsa ogni volta che il paesaggio assume i contorni del deserto di senso.
Interrogati non sanno descrivere il loro malessere perché hanno ormai raggiunto quell´analfabetismo emotivo che non consente di riconoscere i propri sentimenti e soprattutto di chiamarli per nome. E del resto che nome dare a quel nulla che li pervade e che li affoga? Nel deserto della comunicazione, dove la famiglia non desta più alcun richiamo e la scuola non suscita alcun interesse, tutte le parole che invitano all´impegno e allo sguardo volto al futuro affondano in quell´inarticolato, all´altezza del quale c´è solo il grido, che talvolta spezza la corazza opaca e spessa del silenzio che, massiccio, avvolge la solitudine della loro segreta depressione, come stato d´animo senza tempo, governato da quell´ospite inquietante che Nietzsche chiama "nichilismo" e così definisce: «Nichilismo: manca il fine, manca la risposta al "perché?". Che cosa significa nichilismo? Che i valori supremi perdono ogni valore».
E perciò le parole che alla speranza alludono, le parole di tutti più o meno sincere, le parole che insistono, le parole che promettono, le parole che vogliono lenire la loro segreta sofferenza languono intorno a loro come rumore insensato, in quella stagione dove i nostri giovani passano, dalla primavera in cui la vita li ha immessi, a quell´inverno dell´anima dove anche il rigore del gelo si fa sempre meno avvertito.
Un po´ di musica sparata nelle orecchie per cancellare tutte le parole, un po´ di droga per anestetizzare il dolore o per provare una qualche emozione, tanta solitudine tipica di quell´individualismo esasperato, sconosciuto alle generazioni precedenti, indotto dalla persuasione che, stante l´inaridimento di tutti i legami affettivi, non ci si salva se non da soli, magari attaccandosi, nel deserto dei valori, a quell´unico generatore simbolico di tutti i valori che nella nostra cultura si chiama denaro.
Va da sé che quando il disagio non è del singolo individuo, ma l´individuo è solo la vittima di una diffusa mancanza di prospettive e di progetti, quando non di sensi e di legami affettivi, in cui la nostra cultura particolarmente si distingue, è ovvio che le cure farmacologiche a cui oggi si ricorre fin dalla prima infanzia o quelle psicoterapiche che curano le sofferenze che originano nel singolo individuo sono per la gran parte inefficaci. E questo perché se l´uomo, come dice Goethe, è un essere volto alla costruzione di senso (Sinngebung), nel deserto dell´insensatezza che l´atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde, il disagio non è più "psicologico", ma "culturale". E allora è sulla cultura collettiva e non sulla sofferenza individuale che bisogna agire, perché questa sofferenza non è la causa, ma la conseguenza di un´implosione culturale di cui i giovani, parcheggiati nelle scuole, nelle università, nei master, nel precariato, sono le prime vittime.
E che dire di una società che non impiega il massimo della sua forza biologica che i giovani esprimono dai quindici ai trent´anni, progettando, ideando, generando, se appena si profila loro una meta realistica, una prospettiva credibile, una speranza che, proprio perché non è una promessa vuota, è in grado di attivare quella forza che i giovani sentono dentro di sé e poi fanno implodere, anticipando la delusione per non vedersela di fronte? Non è in questo prescindere dai giovani il vero segno del tramonto della nostra cultura? Un segno ben più minaccioso dell´avanzare degli integralismi di altre culture, dell´efficientismo sfrenato di popoli che si affacciano nella nostra storia e con la nostra si coniugano, avendo rinunciato a tutti i valori che non si riducano al valore del denaro.
Se il disagio giovanile non ha origine psicologica ma culturale, inefficaci appaiono i rimedi elaborati dalla nostra cultura, sia nella versione religiosa perché Dio è davvero morto, sia nella versione illuminista perché non sembra che la ragione sia oggi il regolatore dei rapporti tra gli uomini, se non in quella formula ridotta della "ragione strumentale" che garantisce il progresso tecnico, ma non un ampliamento dell´orizzonte di senso per la latitanza del pensiero e l´aridità del sentimento. E in effetti, scrive Heidegger, «l´esito dell´aggirarsi del più inquietante fra tutti gli ospiti è lo spaesamento come tale. Per questo non serve a niente metterlo alla porta, perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, esso si aggira per la casa. Ciò che occorre è accorgersi di quest´ospite e guardarlo bene in faccia». (...)
Vorrei intanto che si facesse piazza pulita di tutti i rimedi escogitati senza aver intercettato la vera natura del disagio dei nostri giovani che, nell´atmosfera nichilista che li avvolge, non si interrogano più sul senso della sofferenza propria o altrui, come l´umanità ha sempre fatto, ma - e questa, come ci ricorda Günther Anders, è un´enorme differenza - sul significato stesso della loro esistenza, che non appare loro priva di senso perché costellata dalla sofferenza, ma al contrario appare insopportabile perché priva di senso. La negatività che il nichilismo diffonde, infatti, non investe la sofferenza che, con gradazioni diverse, accompagna ogni esistenza e intorno a cui si affollano le pratiche d´aiuto, ma più radicalmente la sottile percezione dell´insensatezza del proprio esistere. E se il rimedio fosse altrove? Non nella ricerca esasperata di senso come vuole la tradizione giudaico-cristiana, ma nel riconoscimento di quello che ciascuno di noi propriamente è, quindi della propria virtù, della propria capacità, o, per dirla in greco, del proprio daímon che, quando trova la sua realizzazione, approda alla felicità, in greco eu-daimonía?
In questo caso il nichilismo, nella desertificazione di senso che opera, può segnalare che a giustificare l´esistenza non è tanto il reperimento di un senso, sognato più dal desiderio (talvolta illimitato) che dalle nostre effettive capacità, quanto l´arte del vivere (téchne tou bíou) come dicevano i Greci, che consiste nel riconoscere le proprie capacità (gnothi seautón, conosci te stesso) e nell´esplicitarle e vederle fiorire secondo misura (katà métron).
Questo spostamento dalla cultura cristiana a quella greca potrebbe indurre nei giovani quella gioiosa curiosità di scoprire se stessi e trovar senso in questa scoperta che, adeguatamente sostenuta e coltivata, può approdare a quell´espansione della vita a cui per natura tendono la giovinezza e la sua potenza creativa. Se proprio attraverso il nichilismo i giovani sapessero operare questo spostamento di prospettiva capace di farli incuriosire di sé, "l´ospite inquietante" non sarebbe passato invano. Ma perché ciò possa avvenire è necessario che gli adulti non si consegnino alla rassegnazione e alla fatalità, ma sappiano accompagnare i giovani alla scoperta della loro simbolica, che è custodita e secretata nel loro cuore ora silenzioso ora tumultuoso, della cui forza, forse, li abbiamo privati, spuntando quelle che il Salmo 127 definisce "frecce": «Come frecce in mano a un eroe sono i figli della giovinezza».
Per riscoprire questa simbolica occorre distanziarsi dallo sguardo sociologico che punta gli occhi sulla devianza (i drogati, i violenti, gli sfaccendati), versione scientifica delle ansie genitoriali che si nutrono di timore per il futuro, senza neppure il sospetto che la devianza forse altro non è che la frustrazione della simbolica che anima la giovinezza. E anche dallo sguardo psicologico che considera la giovinezza come un´età di mezzo in cui non si è più bambini e non si è ancora adulti, e perciò età faticosa, difficile, fonte di sofferenze e di ansie, età di transito, età inadeguata. Niente di più falso. La loro età non è un "transito". Il futuro è già ben descritto nel loro presente giovanile che, se può apparire aberrante, è solo perché noi adulti, consegnati alla nostra rassegnazione, quando non al cosiddetto "sano realismo", abbiamo svilito il segreto della giovinezza, che è quel dispositivo simbolico in cui sono già ben scritte e descritte le figure del futuro, che solo la nostra pigrizia mentale e affettiva ci impedisce di cogliere.

Repubblica 5.10.07
Un colore severo e pieno di silenzio
di Fabrizio D’Amico


Da domani si apre al pubblico la mostra romana di uno dei maggiori pittori del Novecento di certo uno dei più coinvolgenti
Ebreo russo nato nel 1903, l´artista giunse presto negli Stati Uniti. A New York tenne una personale nel 1944
Fin dai primi anni Sessanta il Moma e molti musei europei gli dedicarono ampie rassegne retrospettive
Muore suicida nel 1970 alla vigilia dell´inaugurazione di una grande sala alla Tate Gallery di Londra
Voleva che nella sua pittura ci si perdesse rinunciando a pretendere un´esperienza razionale o cognitiva

Per una volta, questa nostra città ci stupisce in positivo; anzi, per chi sia abituato ai suoi fumosi "grandi eventi" e in particolare, per quanto riguarda l´arte visiva, ai nomi altisonanti chiamati a battezzare mostre di pochissimo momento, ci lascia a bocca aperta. La mostra di Rothko, che inaugura la riapertura di Palazzo delle Esposizioni, è davvero una grande e splendida mostra (catalogo Skira), non solo degna di una delle poche vere capitali dell´arte mondiali (Parigi, Londra, New York), ma che addirittura possiamo immaginare difficilmente ripetibile, ovunque. E se, nei tre mesi che durerà la sua apertura (dopo l´odierna inaugurazione, da domani, 6 ottobre, sino alla prossima Epifania), avrà il pubblico che si merita, non è una speranza vana immaginare che chi la visiterà avrà almeno un metro plausibile per misurare la bellezza possibile dell´arte del nostro tempo; e, per converso, per percepire tutta l´inutilità che, spacciata per arte, da ogni parte ci assale.
Temevamo la difficoltà dell´impresa: Rothko è uno dei pittori del XX secolo per i quali è più arduo ottenere prestiti, e, in aggiunta a ciò, uno dei più difficili a mostrare: tanto che addirittura ossessiva fu, in vita, la preoccupazione che egli per primo sempre denunciò circa il modo con cui le sue opere venivano esposte; al punto che, per quest´ossessione, rinunciò più volte a partecipare a mostre anche importanti, e per converso offrì in dono nuclei importanti di sue opere alla sola condizione che i musei destinati ad accoglierle s´impegnassero ad esporle secondo i criteri da lui stesso suggeriti. L´illuminazione (possibilmente naturale, altrimenti puntata sul soffitto o sul pavimento, mai diretta e mai eccessiva); la distanza dei quadri fra loro, che suggeriva brevissima; l´altezza, assai contenuta, cui dovevano essere appesi, per evitare che «se ne volassero per l´aria»; la distanza, persino, da cui dovevano essere guardati, breve al punto da non avvertire più con lo sguardo i margini del dipinto - tanto da smarrirsi, quasi, dentro di essi.
Tutto ciò, dalle mani sapienti del curatore Oliver Wick, è stato oggi - assieme a una scelta ampia e corretta delle opere - assicurato: per quanto lo consentono le condizioni di sicurezza universalmente imposte, certo assai diverse e più severe di quelle che si trovò ad affrontare Rothko, e attente anche al valore mercantile dei suoi dipinti (una curiosità: nella seconda metà degli anni ´50, al primo culmine della maturità espressiva dell´artista, per una sua opera veniva richiesta a Roma, ove l´avevano portato Giorgio Franchetti e Plinio de'Martiis, una cifra oscillante fra 800 e 3.000 dollari; nel maggio del 2007, una sua opera è stata battuta a New York a quasi 73 milioni di dollari). Il che, anche, dà la misura dello sforzo dell´organizzazione e del curatore per ottenere i prestiti dai principali musei internazionali: dalla Tate di Londra alla National Gallery di Washington, dal Guggenheim, il Metropolitan e il Whitney di New York e da Basilea, Baltimora, Los Angeles, Minneapolis, oltre che dalla collezione dei figli, Christopher e Kate Rothko.
Ebreo russo nato nel 1903, Rothko è giunto presto negli Stati Uniti; dal ´25 si stabilisce a New York, ove tiene una personale ad "Art of this Century" di Peggy Guggenheim nel ´44. Insegnante dal ´48 in una scuola d´arte che ha fondato con Baziotes, David Hare e Motherwell, si lega alle importanti gallerie di Betty Parsons prima, di Sidney Janis poi, fino alla clamorosa rottura con quest´ultimo nel ´62, per protesta contro il sostegno dato dal mercante alla Pop; riconosciuto come uno dei massimi interpreti della pittura americana fin dai primi anni Sessanta, quando il Moma di New York e molti musei europei gli dedicano ampie mostre retrospettive, muore suicida nel 1970, alla vigilia dell´inaugurazione d´una grande sala personale di sue opere alla Tate Gallery di Londra. È un pittore - certo uno dei maggiori del secolo ventesimo - di cui, conosciuta l´opera, è difficile non subire per sempre il fascino. Da un colore variato, respirante, mai fermo, chiuso in forme imperfettamente geometriche che sembrano galleggiare come in un amnio, Rothko giunge, alla fine della vita, a un colore severo e immoto, diviso da una lunga striscia che, simile ad un ininterrotto orizzonte, percorre l´intera lunghezza del dipinto - un colore cieco ora di profondità e spessori, tutto di nuovo e soltanto dato sulla superficie.
Nel 1961 tenne al Moma di New York la sua prima retrospettiva, che risultò essere per lui un momento cruciale: da allora si manifestò chiaramente l´idea che la sua opera dovesse mirare ad essere un organismo plastico unitario, dotato di vita e di capacità autonoma rispetto agli elementi (i singoli quadri) di cui era costituito: nella sua pittura, voleva che ci si perdesse: rinunciando a pretendere per essa un´esperienza lucidamente razionale o cognitiva, per attingerne invece una emotiva, esistenziale, interamente coinvolgente. Per questo, dopo l´antologica di New York, Rothko fu soprattutto interessato a rispondere a poche, grandi commissioni che prevedevano la possibilità di collocare vaste serie di suoi dipinti, stabilmente, in spazi museali, o comunque pubblici. Sino a quando, alla maggiore di quelle commissioni - una cappella, che volle multiconfessionale a Houston - Rothko destinò ogni sua energia, dal ´64 al ´67, ed oltre: sino a smarrire in quell´impresa come la sua ultima fiamma.
In quella cappella, inaugurata appena dopo la sua morte, Rothko aveva cercato quella che Dore Ashton chiamerà «un´espressione della divinità senza un Dio»; e in essa darà figura compiutamente a quel luogo che cercava, creato dal colore - rosso, bruno, nero - e svelato dalla poca luce che lentamente lo avvolge e lo trascina nello spazio della contemplazione, affine ma più complesso di quello unicamente pertinente alla pittura. Oggi, al Palazzo delle Esposizioni, Wick ha immaginato lo spazio a disposizione come quello d´una grande basilica: con la sua abside e le sue cappelle laterali. E sembra di risentirvi il silenzio che Rothko avrebbe desiderato per esso.

Corriere della Sera 5.10.07
Pubblicate le sue confessioni notturne fra il '34 e il '69
Nei sogni di Adorno le ossessioni segrete
Hitler, forme femminili, dinosauri: le strane figure ricorrenti del filosofo
di Ranieri Polese


Molta angoscia per l'esilio dalla Germania ma anche una passione irrisolta per la «bella bimba», il suo giovane amore impossibile

Il filosofo sogna, e la mattina dopo trascrive. Capita così che il 17 dicembre del 1967 Theodor W. Adorno lasci questa nota: la sua bellissima amante gli dice che deve comprarsi una lavatrice per l'uccello (Schwanz). Alle sue obiezioni («faccio il bagno tutti i giorni»), lei ribatte che solo con quella macchina uno è veramente pulito là, e non puzza. Lui aggiunge: «Se la compro, lei mi amerà con la bocca». La bella signora gli ricorda A. Questa A. che compare più volte nei sogni degli ultimi due anni (Adorno muore il 6 agosto 1969, in Svizzera), è una giovane attrice di Monaco. A volte, nelle lettere, la chiama «la bella bimba». Ma è un amore non corrisposto. Li separano troppi anni, lui essendo nato nel 1903, lei nel 1937. A. non ci sta. Così, nell'ultimo sogno (12 aprile 1969) Adorno dice di aver esposto ad A. il progetto di andare a vivere insieme. Nel ricordo gli sembra che lei ne sia rimasta entusiasta. Poi — sono in cima a un'alta torre — pensano di buttarsi giù, ma decidono di non farlo. Alla fine lui le dice: «Dunque, io cercherò di morire con te. Ma mentre dicevo "cercherò" sentivo che lei era assolutamente contraria». Esce ora Sui sogni di Theodor W. Adorno da Bollati Boringhieri, tradotto e curato con eccellente lavoro da Michele Ranchetti. Pubblicato nel 2006 in Germania da Suhrkamp (titolo: Traumprotokolle), contiene 109 sogni compresi fra il 1934 e il 1969, cinquantacinque dei quali appartengono al periodo dell'esilio, e fra questi ben 49 degli anni — 1941-48 — di Los Angeles. «Rispetto all'edizione tedesca, senza note, solo con una postfazione assai vaga», spiega Ranchetti, «ho lavorato molto per identificare i personaggi che compaiono nei sogni. E per spiegarne il contesto, lasciando emergere l'umanità complessa del filosofo. Comunque, nel rispetto della volontà di Adorno, quella cioè di presentare i sogni senza interpretazione». A dispetto di Freud, si direbbe, un caso raro in un secolo totalmente condizionato dalla psicoanalisi. «Non del tutto. Ho scoperto un precedente: nel 1926, l'editore tedesco Rowohlt aveva pubblicato una raccolta di sogni senza commenti. Molti erano presi da opere letterarie (dalla Bibbia in giù) ma altri erano richiesti a persone viventi, per esempio a Walter Benjamin».
Perché oltre la metà dei sogni appartengono al periodo dell'esilio? «Perché Adorno soffre per la lontananza dal suo paese, vive quasi con un senso di colpa il fatto di non essere presente nel momento della tragedia. E questa ferita non si rimarginerà più». Già nel settembre del 1948, ancora a Los Angeles, scrive che il problema che lo angoscia «è il recupero della perduta vita europea». Qualcosa, appunto, che anche nei successivi vent'anni di vita in Germania non lo lascerà più. Lo provano i molti sogni sulla fine del mondo che lo accompagnano, o quelli sulla condanna a morte (spesso per crocifissione, o per decapitazione). Compaiono pure spaventosi animali preistorici (Triceratops, Anchylosaurus). Del resto, nonostante il prestigio della rinata Scuola di Francoforte e dei suoi corsi universitari, qualcosa di stonato rimane. Forse per via delle polemiche che lo vedono protagonista, dalla celebre frase contro chi scrive liriche dopo Auschwitz agli attacchi contro Heidegger, reazionario e oscuro. E Heidegger appare in un sogno ambientato in un bordello: la maitresse legge un'opera del filosofo di Essere e tempo.
Amici e nemici, del resto, sono presenti nel libro dei sogni; la moglie Gretel, Horkheimer, con cui ha scritto la Dialettica dell'Illuminismo, Benjamin, Kracauer, Scholem, l'allievo Habermas. Compare anche Hitler (gennaio '54) che da un altoparlante annuncia che «Ieri la mia unica figlia è rimasta vittima di un incidente. Perciò, come espiazione, ordino che oggi tutti i treni deraglino». C'è San Carlo Borromeo, incongrua presenza di un sogno fatto a Locarno. Dei bambini ebrei in un campo di concentramento (giugno '57) intonano una canzone che dice: La nostra Mamme non è stata ancora impiccata.
Nel marzo del '66, profeticamente, sogna di essere escluso dal consiglio di facoltà. Con il '68 le cose precipitano. Adorno viene contestato dai suoi stessi studenti che ripetutamente gli impediscono di tener lezione. Nei primi mesi del '69 chiama la polizia per liberare la facoltà. Qualche giorno dopo, in Svizzera, dopo un'escursione con la moglie a 3000 metri, viene stroncato da un infarto. Fra i molti inediti lasciati, appunto, anche questo taccuino dei sogni che ora finalmente vede la luce. Qui il filosofo abbandona l'arduo linguaggio della teoria dialettica per regalarci un flusso di immagini di forte suggestione. Come quella (ottobre 1948) di un ballo erotico che sembra una prefigurazione del Kubrick di Eyes Wide Shut. Solo su una pista da ballo, Adorno è invitato a danzare da una ragazza, forse bulgara, forse triestina. Lui le fa scivolare la mano sotto il vestito e le palpa il sedere (Adorno scrive popo). La stringe a sé, cominciano a baciarsi. Ma li interrompe la voce di un uomo che parla inglese: per il codice americano quello è un atto contro la pubblica decenza. E lo minaccia di sbatterlo in prigione.

Corriere della Sera 5.10.07
Dormiveglia e archetipi
Anche la pelle genera immagini
di Giuseppe Bonaviri


Nel fascinoso cammino sul filone del dormiveglia e della sua narrazione archetipica, due sono i pensieri posseduti dall'uomo, quello razionale e quello notturno, mentre supporto fondamentale di ogni psichismo resta la memoria intesa come capacità coordinatrice, propulsiva e archivistica delle nostre esperienze. Il pensiero notturno o dormivegliante si manifesta ed attiva nella fase preonirica, al di fuori è inconcepibile ed inesistente. La scaturigine di fondo di questo pensiero notturno è in gran parte sensoriale. È sufficiente che durante il presonno sottostiamo a stimoli cutanei o viscerali (prurigini, somatostesie, algie, psicostesie) perché si presenti.
Questo pensiero ha due caratteristiche: l'enorme dispersione di idee e subidee e la intonazione essenzialmente immaginativa. Si presuppone che questa forma di pensiero sia nata da meccanismi generatori primordiali che hanno investito tutta la materia, la quale, come è ben noto, deriva dall'elettromagnetismo degli atomi. Gli atomi come regolati, allora, di leggi universali ripetitive. Questi meccanismi regolatori ripetitivi nel corso dei millenni si sono trasferiti dalla cellula ai sistemi pluricellulari. Il dormiveglia nacque da questi meccanismi—primum pensante — generatori a tipo arcaico-ripetitivo. Avendo le manifestazioni della vita ancestrale un'origine ripetitivo- ossessiva, è facile arguire che il pensiero dormivegliante sia posseduto da una ossessione di fondo, in sé contenente l'idea tenebrosa del labirinto, che possiede e ingloba ed equivale allo stato ansiogeno.
Parliamo allora di attività allucinatoria del dormiveglia e suddividiamo le modalità psicodinamiche del presonno in due: i microsogni che nascono di colpo in noi in assoluto vuoto mentale senza una spiegazione ancora scientifica; il dormiveglia, vera condizione di prepensiero con le molteplici idee che in apparente vuoto mentale insorgono in noi paragonabili a un grappolo ideativo. Questo, come bozzolo onirico, è percepito in modo allucinatorio dileguandosi istantaneamente nella nostra mente.
È ovvio che un vero sogno segue altre pulsioni e strutturazione. Si potrebbe immaginare come una strana modalità legata all'inquietudine dell'uomo con flussi temporo-spaziali ed ipotizzare l'esistenza di un determinismo diverso tra tesi fisiologico somatica e distorta patologica del presonno. Ciò può rendere meglio al lettore e a chi lo percepisce soffrendone, le essenze piene di complessità racchiuse in questa modalità di addormentamento paragonabile a un ciuffo di papaveri smossi lungo una cunetta da un soffio di vento in primavera. Chi soffre di turbe psichiche profonde vive, in modo assai più complesso, questo stato di addormentamento che, a tutt'oggi, nonostante i progressi della scienza, rimane un mistero dell'io profondo se pur nella fuggevolezza del percepibile, nella drammaticità sconosciuta dell'evento quotidiano tra veglia e sonno.
Nella nostra pelle ci sono i dermatomeri che se stimolati, danno origine allo scorrere di questo protopensiero o meglio di sensazioni a noi comunemente ignote. È risaputo, tra l'altro, che la cute nasce — durante il periodo embrionale — dallo stesso foglietto da cui ha origine il cervello, dunque, il rivestimento cutaneo può considerarsi vera e propria cassa di amplificazione del pensiero nel dormivegliante. Potremmo dire che questa duplicazione del cervello sul nostro rivestimento corporale, pur senza averne chiare nozione biologiche, sottostà alle stesse funzioni sia del cervello che della cute. Nonostante il tanto vantato sviluppo tecnologico odierno, ci sono probabilmente tanti strati di realtà sommerse e sconosciute. Dove non esistessero confini mentali, esisterebbero capacità metamorfizzanti come trame insolite di esistenze.

Corriere della Sera 7.10.07
«Cureremo ambiente e tumori I rischi? La guerra dei batteri»
di Giovanni Caprara


BERGAMO — «Un'idea genialissima quella di Venter che ha radici lontane ma che lui ha saputo concretizzare aprendo prospettive di grande interesse per la salute umana». Roberto Sitia, un passato da ricercatore allo Sloan Cancer Center di New York e ora professore di biologia cellulare e molecolare all'Università San Raffaele di Milano, commenta con entusiasmo dal festival Bergamoscienza la creazione del cromosoma di sintesi.
Altri tentativi lo avevano preceduto?
«Una ventina d'anni fa il biochimico americano e premio Nobel Arthur Kornberg produceva un virus sintetico. E' lo stesso filone di ricerche ma adesso Craig Venter ha compiuto un passo avanti significativo con il suo lavoro sul batterio Mycoplasma genitalium soprattutto per le applicazioni immaginabili. Il suo lavoro, tuttavia, non è ancora completato e richiede altri passi significativi».
Perché, che cosa deve aggiungere?
«Lui ha replicato il Dna che è nel cuore della cellula, ma si dovrà arrivare all'aggiunta, sempre sinteticamente, sia del citoplasma che è quella sostanza in cui è immerso, sia della membrana, che tutto racchiude».
Come mai Venter dopo aver mappato per primo il genoma umano esplora adesso questa nuova frontiera, quali vantaggi presenta?
«È un'idea genialissima, potrebbe essere utile anche per produrre energia
e proiettati in varie direzioni. In campo ambientale si può immaginare, ad esempio, la fabbricazione di microorganismi capaci di assorbire l'anidride carbonica. Sistemati su un'automobile impedirebbero le venefiche esalazioni che contribuiscono al riscaldamento del clima. Ma si potrebbe pensare addirittura a microrganismi concepiti per generare energia».
«Direi che sono ancora più interessanti perché legati a numerose malattie di vasto impatto sociale. Fabbricando dei batteri in grado di produrre insulina è facile immaginare il vantaggio nel trattamento del diabete. Ma probabilmente gli obiettivi di Venter sono più mirati alla creazione degli anticorpi impiegati in svariate terapie tumorali. C'è in questo campo un'esigenza drammatica per la cura dei linfomi, ad esempio, e arrivare a farmaci proteici per via sintetica garantirebbe innanzitutto due cose importanti ».
«La prima è che costruendo sinteticamente il Dna che serve si escludono quelle parti che potrebbero essere dannose. In secondo luogo si riuscirebbe a sfornarli con un prezzo dieci volte più basso. Le conseguenze nelle cure sono facili da intuire».
C'è chi prospetta persino visioni da fantascienza.
«In effetti è proprio con la tecnica ideata ora da Venter che gli scienziati riusciranno a ingegnerizzare i microrganismi insegnando loro a modificare le proteine garantendo ai nuovi prodotti le caratteristiche delle cellule umane. Le conseguenze sarebbero entusiasmanti perché attraverso di esse ridurremo il fenomeno del rigetto nei trapianti d'organo, uno dei problemi ancora irrisolti».
Ma si temono anche applicazioni negative e, soprattutto, «Come ogni scoperta può, di certo, essere sfruttata male. Per questa via sarebbe verosimile la realizzazione di batteri resistenti a molti antibiotici e che, distribuiti, sarebbero in grado, silenziosamente, di sterminare popolazioni. Oppure si possono mettere insieme microorganismi con tossine come ricina o botulino. La biologia sintetica, come si chiama questa branca della scienza, porta con sé un lato oscuro difficile da eliminare e già entrato, purtroppo, nelle cronache. C'è la storia vera della ricina usata da un agente russo per eliminare una spia bulgara. E' evidente che se diventa più semplice ottenere queste sostanze, come consente il metodo di Venter, non c'è dubbio che una nuova porta si apre pure nel ricorso a fini perversi. Ma più importanti sono i vantaggi e le buone applicazioni che ne possono derivare».

Corriere della Sera 7.10.07
Il libro dello studioso inglese che lamenta: i critici hanno ignorato il capitolo sul football
Hobsbawm: il calcio globale contro le nazioni
«Ma quando i campioni africani tornano nei loro Paesi diventano simboli d'identità»
di Guido Santevecchi


Poco prima di morire, nel 1981, Bill Shankly disse: «Ci sono persone convinte che il calcio sia una questione di vita o di morte. La verità è che è una faccenda molto più seria». Bill era stato uno dei più grandi allenatori di football del Regno Unito. La sua frase è passata alla storia calcistica come un mito da bar sport. Ma come si può catalogare ora il Beautiful Game dopo che in campo è sceso anche Eric Hobsbawm, monumento vivente della storiografia contemporanea? Il professore che ha introdotto i concetti di Secolo breve e Lungo XIX secolo ora afferma: «Il football è un esempio da manuale delle contraddizioni interne della globalizzazione al tempo dello Stato nazione».
Hobsbawm ha presentato la teoria l'altra sera al Times Cheltenham Literature Festival, parlando della sua nuova opera Globalisation, Democracy and Terrorism (uscirà in Italia a fine mese da Rizzoli con il titolo «La fine dello Stato »). E ha spiegato di aver dedicato al tema pedatorio un capitolo perché è rimasto affascinato dal modo in cui il Gioco più bello del mondo si è trasformato in un business globale dominato «dall'imperialismo di poche imprese capitaliste » come il Manchester United, il Real Madrid, il Milan. Il ragionamento è elevato, com'è giusto attendersi dallo studioso marxista che ha prodotto The Age of Revolution, The Age of Capital, The Age of Empires e The Age of Extremes.
«Né l'identificazione locale né quella nazionale definiscono l'economia del football ai giorni nostri. La globalizzazione ha permesso a un consorzio di club ricchi, in una cerchia delimitata di Paesi dell'Europa occidentale, di costituirsi come marchi globali che hanno relativamente poco contatto con le loro radici locali e ingaggiano elementi da tutto il mondo. Questi club brand fanno profitto vendendo prodotti come le T-shirt con i loro colori, cedendo i diritti televisivi e riducendo il numero di persone che guardano le partite dal vivo andando allo stadio».
È esagerato prendere il calcio come parabola della globalizzazione? Non proprio se si pensa che solo in Inghilterra le venti squadre della Premiership hanno incassato quest'anno un miliardo di sterline (1,5 miliardi di euro) dalle tv. E che proprio ieri il Financial Times in un commento ha criticato l'oligarca russo Roman Abramovich che vuol decidere la formazione del suo Chelsea: «Abramovich non ha più know-how calcistico del tifoso medio che paga il suo biglietto d'ingresso per ogni partita, ogni settimana». Affare serio, quando il giornale paladino del liberismo contesta a un leader d'azienda il diritto di guidarla fino in fondo. Affare serissimo quando Will Hutton, scrittore, direttore della Work Foundation e governor della London School of Economics, si scaglia contro «la brama di denaro che sarà la morte del calcio». Nella City di Londra che non perde occasione per accusare il protezionismo francese dei «campioni nazionali», Hutton dà l'allarme contro la minaccia della «piratesca ingerenza di proprietari stranieri» nel football britannico.
Ecco perché Hobsbawm, a 90 anni appena compiuti, indossa i panni dell'arbitro e fischia. Cercando di riportare in gioco i valori nazionali. Il nazionalismo. «Lo si vede ogni volta che c'è in ballo la Coppa del Mondo», dice il professore nato in Egitto, cresciuto in Austria e sbarcato in Inghilterra nel 1933. E spiega: «Quello che fa funzionare tutto il sistema è il fatto che il calcio resta una faccenda non legata a fattori economici, per una grande massa di persone che lo usa per identificare se stessa e il proprio Paese».
Il suo ragionamento è molto articolato, non sono chiacchiere da Curva Sud: i campioni internazionali, in particolare quelli che vengono dall'Africa, fanno grandi le squadre europee, ma al tempo stesso quando tornano a giocare la Coppa del Mondo con la nazionale, per esempio in Camerun, danno un senso di appartenenza e di unità che la nazione non aveva mai compreso. Il calcio diventa così «un caso da libro di testo » della tensione tra economia globale e lealtà locale.
Hobsbawm, che vive a Londra, dimostra di seguire con attenzione anche le pagine sportive dei quotidiani. Cita come esempio di «contraddizione interna all'era della globalizzazione» il pensiero di Arsène Wenger, che non è un economista e nemmeno un filosofo, ma l'allenatore francese dell'Arsenal. «C'era una bella intervista con Wenger qualche giorno fa che dipinge molto bene il quadro. Il manager diceva: "A me non interessano le nazionali, ma so che dobbiamo averle nel sistema, perché sono loro che continuano a far affluire il denaro"».
Wenger il globalizzatore, capace di mettere in campo per l'Arsenal (squadra del Nord di Londra seguita tradizionalmente da un pubblico progressista) 11 stranieri e nessun inglese, è stato accusato da chi teme che il football locale abbia perso l'anima.
Hobsbawm osserva che la tensione tra esigenze del commercio globale e lealtà locali ha indebolito Paesi come il Brasile che esporta i suoi talenti. Il fenomeno avrebbe anche fomentato il razzismo latente in Olanda e Spagna, dove i tifosi sono in crisi d'identità, dilaniati tra l'orgoglio per i successi dei loro club cittadini e la frustrazione per il fatto che le vittorie vengono grazie ai piedi di giocatori venuti da Paesi considerati inferiori. Lo stesso sta succedendo nella vita fuori dagli stadi: gli Stati nazione scoprono che la loro forza viene erosa dagli interessi transnazionali della globalizzazione.
Conclusione del vecchio storico marxista: «Lo Stato nazione si sta sgretolando, ma non ne possiamo fare a meno. Come il football dei ricchi club deve convivere con le nazionali, perché il mondo non è globalizzabile fino in fondo».
Il professore l'altra sera si è lamentato per la disattenzione dei critici: «Nessuno nelle recensioni di Globalisation, Democracy and Terrorism si è occupato del capitolo sul calcio. Con un'eccezione che non vi sorprenderà: i brasiliani».

il manifesto 6.10.07
Welfare, se non cambia no del Prc
Giordano: «Senza modifiche voteremo no anche in parlamento». Congresso a marzo sull'unità a sinistra
di M. Ba.


«Se non ci sono modifiche significative sulle pensioni e la lotta alla precarietà è sicuro che Rifondazione voterà no al protocollo sul welfare sia in consiglio dei ministri che in parlamento». Al comitato politico nazionale, il massimo organo del partito, il volto di Franco Giordano racconta più di mille parole sul vertice di giovedì con Prodi: «Se ci vengono poste obiezioni di bilancio sulla precarietà sono infondate, perché si tratta di interventi a costo zero per lo stato».
Ancora ieri il premier ha definito l'incontro con Rifondazione «approfondito e costruttivo» ma l'impressione, dentro il Prc, è diametralmente opposta. A sette giorni dal consiglio dei ministri Paolo Ferrero conferma la linea dura: «Continuiamo a chiedere modifiche prima del consiglio dei ministri di venerdì. Cambiarlo è un problema di tutta la maggioranza perché non è detto che il parlamento lo modifichi in meglio. Se non cambia, certo, non ci sono le condizioni per votarlo».
Le reazioni degli alleati non si fanno attendere. Il segretario Ds Piero Fassino critica «il metodo degli ultimatum». Mentre il sottosegretario a palazzo Chigi Enrico Letta giudica «impossibili interventi unilaterali» e premette che eventuali modifiche sono possibili solo con l'accordo di tutti i firmatari di luglio, cioè sindacati e Confindustria.
Ma che le richieste di Rifondazione e Pdci non siano più un tabù lo dimostra l'andamento delle assemblee nelle fabbriche e il prudente via libera a miglioramenti rilanciato da Titti Di Salvo, capogruppo alla camera di Sd assai vicina alla Cgil: «Evitiamo di compiere azioni per peggiorarlo. Sul protocollo Sinistra democratica ha sempre dato un giudizio che, seppure positivo, indicava la necessità di alcuni cambiamenti (usuranti, contratti a termine, staff leasing). Ora ci fa ben sperare che attorno alle considerazioni che abbiamo sempre sostenuto si sta aggregando un consenso molto ampio». Silenzio invece dai Verdi, che oggi terranno un delicato consiglio federale proprio sull'unità a sinistra (sul tavolo i nodi della costituente ecologista e della sinistra arcobaleno).
La riunione del comitato politico di Rifondazione (che si concluderà oggi) avvia la fase congressuale che dovrebbe chiudersi a marzo con le assise nazionali. La relazione di Giordano delinea già l'ossatura del documento congressuale, che porrà al centro la costruzione dell'unità a sinistra in soggetto «unitario e plurale». Un obiettivo sul quale il Prc non è più disposto a rallentare e anzi dovrà essere al centro degli «stati generali della sinistra» convocati per dicembre. «Dovranno essere il vero avvio del cantiere a sinistra - spiega Giordano in una pausa dei lavori - un appuntamento aperto, non di quattro partiti, ma di tutto il popolo della sinistra, sul modello dei forum sociali praticati dai movimenti». E' chiaro che da qui a marzo,possono accadere tante cose. Per questo la consultazione sul governo (reclamata ancora ieri da Ramon Mantovani) non è da escludere.
I primi due anni di governo non sono stati esaltanti per Rifondazione. Scontate le critiche delle minoranze - la Sinistra critica di Salvatore Cannavò e Franco Turigliatto, l'Ernesto di Fosco Giannini e Gianni Pegolo, i gruppi "trotzkisti" - meno scontati i malumori palpabili nel mare magnum della maggioranza bertinottiana, anche se ancora piuttosto limitati, almeno apertamente.
La maggioranza del partito anzi tenderà a rafforzarsi, perché l'area di minoranza coordinata da Claudio Grassi (Essere comunisti) ha confermato che di fatto non presenterà una sua mozione ma solo emendamenti a quella della maggioranza. Un via libera alla «federazione della sinistra» che prelude, un domani, a un ritorno in segreteria dopo lo scontro durissimo al congresso di Venezia nel 2005. «Il nuovo rapporto critico verso il governo fa ben sperare per tornare a una gestione unitaria del partito», commenta Grassi.

un vecchio equivoco che continua: se dio in Spinoza è senza intelletto e volontà dipende dal fatto che esso per il filosofo di Amsterdam è l'unica "realtà", priva di oggetti da pensare e volere...
il Riformista 6.10.07

Spinoza, dio è senza intelletto e volontà
Con illuministica cautela ha diviso la filosofia dalla teologia. Per un'etica naturale del mondo
di Orlando Franceschelli


Spinoza (16321677), in un'epoca che lasciava ben poca libertà ai filosofi, aveva scelto come motto del proprio sigillo: caute. Una regola di prudenza cui seppe attenersi senza per questo rinunciare alle sue idee. Destinate però a essere addirittura maledette. Come fece la sinagoga di Amsterdam, sua città natale, quando da giovane lo scomunicò. E come avvenne dopo la sua morte nell'intera Europa, a lungo percorsa dalle peggiori accuse contro il "cane giudeo". Oggi conosciamo bene i motivi di tanta avversione: Spinoza è stato il primo grande illuminista. L'iniziatore dell'emancipazione moderna dalla tradizione creazionista e metafisica. Da collocare a pieno titolo nella "schiera dei liberatori". Quelli veri. E perciò abbastanza "esigua". È con queste parole che Filippo Mignini conclude la sua presentazione delle Opere di Spinoza (Mondadori). Un'edizione dell'intero corpus spinoziano preziosa non solo per l'accuratezza filologica, ma anche per il modo in cui sa guidare il lettore a un effettivo confronto con questa «voce mite e ferma che l'Occidente offre alla storia del mondo». Una delle poche in grado di indicare a tutti un «percorso di illuminazione e di libertà». Mai ideologicamente polemico col contenuto morale di giustizia e carità della parola di Jahvè. Ma reso possibile dall'«opera di totale naturalizzazione dell'esperienza umana» avviata mediante l'equiparazione di Dio con la Natura. "Deus sive Natura": una delle espressioni più celebri con cui Spinoza indica il suo Dio. Divenuto ormai senza intelletto e volontà. Senza alcuna capacità come con approvazione dirà anche Einstein di preoccuparsi per il destino dell'uomo. Divenuto a sua volta, da immagine del Creatore, parte, anzi piccola parte della natura (particula naturae).
Ovviamente, una simile opera di separazione della filosofia dalla teologia e di fuoriuscita dalla tradizione biblica e platonicocristiana, risulta assai complessa. E colloca Spinoza in una posizione di sostanziale unicità: «O solitario, ti ho riconosciuto abbastanza?», si chiedeva ancora Nietzsche mentre lo annoverava tra i propri precursori. Ma su un punto è bene soffermarsi: l'aver riguadagnato, come Mignini ribadisce con Karl Löwith, «una comprensione naturale dell'uomo e del mondo», lo
induce a scrivere comunque un'Etica. In un primo momento Spinoza voleva indicare il proprio sistema con il termine Filosofia. Ma poi preferì Etica. Nella convinzione che le nostre conoscenze devono avere anche una ricaduta morale: devono essere finalizzate a capire ciò che promuove e ciò che ostacola la nostra libertà. Tanto che le stesse nozioni di bene e male, inutilizzabili in riferimento alla sovrumana realtà del DioNatura e alle cose considerate in se stesse, devono essere conservate (retinenda sunt) quando cerchiamo di farci l'idea di un "modello della natura umana". Più precisamente: dell'uomo che, entro la parzialità e necessità della propria condizione naturale, si sforza di essere libero. Divenendo così ciò che in natura vi è di più utile per ogni uomo. Al punto che, al contrario di quanto sosteneva Hobbes col suo assolutismo, la salvaguardia e l'incremento della libertà risultano necessari anche alla sicurezza dello Stato.
Oggi, la critica dei pregiudizi teologici e antropocentrici del disegno divino ha assunto il volto dell'evoluzionismo. Dall'etica dimostrata da Spinoza "con ordine geometrico", siamo arrivati alla genealogia dell'uomo e del senso morale prospettata da Darwin. L'auspicio è che anche questa edizione delle opere di Spinoza che a Feuerbach appariva come un Mosè dei materialisti moderni e con la cui grandezza anche lo Stato di Israele ha sentito il bisogno di riconciliarsi favorisca nella cultura e nella sfera pubblica italiana un confronto alto con la separazione tra fede e filosofia e con la rinascita del naturalismo. Con l'eredità "mite e ferma" dell'illuminismo. Del messaggio di liberazione da cui è sorta l'Europa moderna e liberale.
E ciò di cui le nostre società plurali hanno maggiormente bisogno. Tanto più di fronte a sfide bioetiche e neointegralismi che tornano ad allarmare ogni coscienza laica.

Repubblica 7.10.07
Né entusiasmo né paura
di Umberto Veronesi


Se qualcosa è scientificamente pensabile, prima o poi qualcuno la realizzerà. L´incertezza è soltanto quando e come.
Per questo l´annuncio di Craig Venter di essere alle soglie della vita artificiale non ha sorpreso gli scienziati e molti pensatori. Già diversi anni fa Michel Houellebeck nel suo libro "Le particelle elementari" (che Oskar Roheler trasformò in un bellissimo film) raccontava di un biologo che era riuscito a riprodurre artificialmente il Dna in laboratorio. Dall´immaginazione alla realtà il passo è importante; va vissuto però senza eccessivi entusiasmi, perché non ne avremo vantaggi immediati, e senza paure, perché non prelude a nessuna catastrofe.
Primo, perché il Dna è all´origine del vita, ma da solo è impotente. Il suo compito è quello di creare degli stampi per gli aminoacidi, che a loro volta costruiscono le proteine, le quali portano a compimento le istruzioni ricevute dal Dna. Non ha dunque un funzionamento autonomo, ma è parte di un meccanismo di interazione fra strutture biologiche differenziate. Per questo il cromosoma sintetico di Vender è inserito in una cellula vivente.
Secondo, perché oggi, grazie alla possibilità di trasferire geni da un organismo all´altro e di scomporre e rimettere insieme frammenti di Dna, abbiamo una disponibilità enorme di Dna. Una produzione artificiale che aumenti le riserve, in questo momento è di interesse concreto limitato. Già possiamo ottenere nuove sostanze e organismi. L´esempio classico è quella dell´insulina, prodotta oggi con un batterio, l´Escherichia coli, in cui è stato inserito Dna umano. E così si producono moltissimi altri farmaci e molti vaccini. Possiamo avere nuove specie di piante (e già l´abbiamo fatto ad esempio per avere piante che cresceranno anche in carenza di acqua o che si difenderanno da sole dai parassiti, per cui non ci sarà più bisogno dei pesticidi che minano la nostra alimentazione), di animali (e anche questo abbiamo in corso, per far sì per esempio che i loro organi diventino compatibili e possano essere tollerati dal corpo umano in caso di trapianto di tessuti ed organi).
Terzo, se qualcuno teme che una possibile vita artificiale possa invece interessare la criminalità mondiale, si sbaglia. Dovrebbe rendersi conto che i terroristi dispongono di armi nucleari, chimiche, biologiche (virus letali) così sofisticate che non hanno certo bisogno di nuovo Dna per sviluppare le loro azioni. Non ci si può nascondere dietro il paravento della scienza: sono altri i modi per combattere il terrorismo nel mondo.
La conclusione è che il tema della scoperta di Vender è, più che scientifico, filosofico e ideologico: stiamo parlando per la prima volta nella storia della possibilità di creare la vita umana. E qui da una parte il mondo della scienza esulta perché celebra il trionfo assoluto della razionalità; dall´altra si apre il dibattito all´interno del mondo religioso e teologico. La fede sancisce che la creazione della vita appartiene a Dio. Tuttavia se l´uomo è opera di Dio, anche quando crea la vita, esegue un intervento divino. Se il pensiero razionale (il logos) è di origine divina, anche i suoi prodotti lo sono. Se Dio crea il pensiero, ne crea anche i limiti e dunque se decide di dare all´uomo la facoltà di creare la vita, come possiamo mettere in dubbio la sua imperscrutabile volontà?
La questione è aperta e irrisolta. Io, come laico, ne sono lontano perché sono convinto che il movimento creazionista riceve dall´annuncio di Venter una condanna definitiva. Rafforza invece la mia convinzione che i limiti della scienza devono essere posti dall´uomo. La creazione della vita ci precipita nella riflessione cruciale di come l´umanità può utilizzare i risultati della scienza. E la verità è che troppo spesso siamo spiazzati eticamente e giuridicamente. È quindi urgente raccogliere le forze e creare un movimento che sia di ragione e di morale. Già alcuni anni fa ho lanciato l´idea della costituzione di una sorta di organo consultivo permanente, o, come già l´ho definita, una Camera Alta per la Scienza: un gruppo di intellettuali indipendenti esperti nelle scienze, nella filosofia, nel diritto, nell´economia, nella sociologia, nella teologia, che esamini i problemi con serietà per poi sottoporre le loro conclusioni ai governi, e che abbia un peso nelle agende politiche.
Non possiamo permettere che l´umanità vada allo sbando, con il rischio che qualche scienziato spregiudicato faccia un uso ancora più spregiudicato delle sue scoperte. Ormai il dibattito etico è aperto, la discussione ad alto livello è improcrastinabile e i temi sono infiniti: la fecondazione assistita, gli embrioni soprannumerari, la diagnosi preimpianto, l´aborto terapeutico, la sperimentazione sull´uomo, la clonazione, il consenso informato, il testamento biologico, lo stato vegetativo permanente, l´eutanasia. La scienza avanza e la cultura non può restare indietro. Cominciamo quindi a combattere la mistificazione e l´ignoranza che crea false paure e false euforie. Perché l´ignoranza non dà nessun diritto, né a credere, né a non credere.

Repubblica 7.10.07
La speranza in un batterio
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza


In Perché la scienza, meno di due anni fa, dicevamo che la creazione della vita in laboratorio sarebbe quasi certamente divenuta possibile in questo secolo.
Siamo ancora nel primo decennio, ma una notizia diffusa in tutto il mondo dalle agenzie di stampa informa che è stato compiuto un nuovo passo fondamentale in questa direzione. L´istituto scientifico diretto da Craig Venter, con sede a San Diego, California, ha annunciato che una sua équipe di ricerca, diretta dal premio Nobel Hamilton Smith, ha costruito un cromosoma artificiale e lo ha introdotto all´interno di una cellula batterica vivente, dove ha sostituito il cromosoma originario di cui la natura aveva dotato il batterio.
L´annuncio ufficiale dell´esperimento, con le relative specifiche tecniche, è atteso per i prossimi giorni o settimane, ma la notizia non è una semplice indiscrezione, perché è stata comunicata dallo stesso Craig Venter in un´intervista all´inglese Guardian. A quanto pare, ci troviamo di fronte alla prima forma di vita costruita in laboratorio.
Di cosa si tratta esattamente? Un batterio è un organismo microscopico formato da una sola cellula, al cui interno è presente un unico cromosoma, di solito di forma circolare. I ricercatori hanno lavorato su un batterio presente nell´apparato riproduttivo umano, il Mycoplasma genitalium, il cui genoma è costituito da 600.000 coppie di nucleotidi (le basi chimiche che formano ogni Dna, convenzionalmente indicate dalle lettere A, C, G, T), organizzate in circa 500 geni. In laboratorio sono stati ricostruiti 381 di questi geni, a partire da sostanze chimiche semplici: si è prodotta cioè una versione semplificata del genoma di Mycoplasma, lasciando da parte circa 1/5 del genoma originario e mantenendo nel genoma sintetico solo le parti essenziali per rendere possibile la vita.
Il cromosoma prodotto in laboratorio è quindi stato inserito in una cellula di Mycoplasma genitalium, la cui attività risulta ora diretta da questo nuovo Dna. Se il batterio così formato risulta effettivamente vitale, cioè in grado di riprodursi (come dovrebbe essere implicito nell´annuncio, ma bisognerà attendere la comunicazione ufficiale e le verifiche di altri gruppi di ricerca per pronunciarsi), siamo davanti alla creazione di una nuova forma di vita, emersa non dal laboratorio della natura ma dalle mani dell´uomo. Si tratterebbe di una nuova specie del genere Mycoplasma, che i ricercatori hanno già opportunamente battezzato Mycoplasma laboratorium.
Più che di creazione vera e propria, bisognerebbe parlare di assemblaggio, ed è importante tenere presente che l´équipe di ricerca non ha costruito l´intero batterio, ma solo il suo cromosoma, che potrà funzionare solo utilizzando i meccanismi biochimici già presenti nella cellula del batterio originario. Ma questo non toglie nulla all´importanza dell´esperimento, perché è il cromosoma a dirigere il macchinario biochimico della cellula, rendendo possibili tutte le attività che le permettono di vivere e riprodursi.
La costruzione di un cromosoma artificiale non è una novità assoluta. Nel 2003, lo stesso gruppo di ricerca aveva assemblato le 5386 coppie di nucleotidi del Dna del batteriofago (un virus che divora i batteri, come dice il nome). Ma il nuovo passo avanti ora annunciato porta molto più vicini all´obiettivo annunciato da Venter già parecchi anni orsono: quello di produrre batteri artificiali, progettati e costruiti in laboratorio, che permettano di affrontare problemi ecologici che abbiamo difficoltà a trattare per altre vie. Per esempio, batteri in grado di assorbire l´anidride carbonica prodotta dai processi di combustione, che accumulandosi nell´atmosfera è divenuta la principale responsabile del riscaldamento globale; o batteri in grado di produrre idrogeno per azionare i motori del futuro; o di purificare acque inquinate; o di ridurre la tossicità di scorie radioattive. È impossibile enumerare, o anche solo prevedere, tutte le possibili applicazioni della creazione di microrganismi artificiali, ma non bisogna dimenticare che il loro impiego in medicina potrebbe rivelarsi fondamentale per combattere microrganismi patogeni contro cui gli antibiotici stanno perdendo efficacia.
Nelle parole dello stesso Venter: «Dopo avere imparato a leggere il codice genetico, ora stiamo imparando a scriverlo. Questo ci dà la capacità ipotetica di fare cose che non avremmo mai potuto prendere in considerazione prima».
Non potrà mancare, ora, chi ci verrà a dire che con questi esperimenti si sta aprendo il vaso di Pandora, da cui ogni male si rovescerà sul mondo. Da un altro punto di vista, viene da osservare che la vita ha generato una straordinaria varietà di forme, alcune delle quali intelligenti: non c´è da stupirsi che ora alcune di queste cerchino di generare la vita stessa. Ma il punto fondamentale della questione sta nell´uso che sapremo fare di queste nuove capacità creative: se le useremo per risanare l´ambiente, curare le malattie, produrre energia, o per scatenare qualche guerra batteriologica.

Repubblica 7.10.07
Dietro il velame de li versi oscuri
di Eugenio Scalfari


NEL MARE, anzi nell´oceano di parole contrapposte, di ultimatum, di ricatti, di processi in piazza, di rabbia e d´uno spregiudicato uso della televisione, il rischio è quello di alimentare una deriva anarcoide che consegni il paese e le istituzioni a un signor Nessuno senza alcuno sbocco politico che non sia il naufragio. In Italia è già accaduto e più d´una volta. Può ancora accadere. Siamo già un pezzo avanti su questa strada, la deriva è già cominciata.
L´aspetto peggiore è appunto la gran confusione e la scarsissima comprensione dei fatti. E anche lo scambio nevrotico dei ruoli. Le reciproche interferenze. Le continue e crescenti invasioni di campo, con la conseguenza che nessuno fa più il suo mestiere e tutti ne fanno un altro. Questa è la via più breve per affossare la democrazia.
Per venirne a capo, o almeno per capire quanto sta avvenendo sotto i nostri occhi, la sola via sicura è quella di partire dalle istituzioni, riagguantando il capo di un filo e cercando di sbrogliare il gomitolo pieno di nodi che sta soffocando e vanificando gli sforzi delle persone di buona volontà e di oneste intenzioni che costituiscono la maggioranza degli italiani ed assistono impotenti e stupefatti allo sfascio della società e dello Stato.
Bisogna dunque richiamare le istituzioni all´adempimento dei loro compiti e gli uomini che le rappresentano ai doveri e ai limiti che incombono su ciascuno di loro. Il principio della divisione dei poteri è il fondamento dello stato di diritto, ma è proprio questo principio ad esser minacciato. Ed è questo principio troppo a lungo negletto che ispirerà le mie note di oggi.
Il ministro della Giustizia ha il compito di organizzare il funzionamento dell´ordinamento giudiziario, di proporre al Parlamento le modifiche che si rendano necessarie, di esercitare il potere ispettivo sul comportamento dei magistrati ma non sui processi e sulle sentenze da loro istruiti e celebrati.
Nel caso specifico che occupa le cronache di questi giorni, il ministro della Giustizia ha ritenuto cinque mesi fa di inviare ispettori nella Procura di Catanzaro. Gli ispettori (magistrati anch´essi) hanno redatto una relazione che è stata vagliata dai competenti uffici del Ministero e infine trasmessa al ministro. Questi ha ritenuto di aprire un processo disciplinare trasferendo i documenti al Consiglio superiore della magistratura affinché proceda nei confronti del procuratore di Catanzaro e del suo sostituto Luigi De Magistris. Il Csm si è riunito, i documenti sono all´esame della commissione competente che nei prossimi giorni darà inizio alle udienze ascoltando i due magistrati in questione.
I documenti trasmessi al Csm non sono noti né debbono esserlo in questa fase dell´azione disciplinare. Dobbiamo soltanto augurarci che il Csm compia il suo lavoro rapidamente e senza farsi influenzare da alcuno, arrivando ad una conclusione chiara e chiaramente motivata.
Nel frattempo il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, è stato "aggredito" nel corso della trasmissione televisiva "Annozero" guidata da Michele Santoro, alla quale, sebbene invitato, si è rifiutato di partecipare. Ha fatto bene. I ministri hanno da tempo preso il vezzo di frequentare assiduamente i salotti televisivi per acquisire una dubbia visibilità. Dovrebbero invece astenersi da simili esibizioni, sempre più stucchevoli e improprie.
Dovrebbero invece usare la televisione solo per comunicare e spiegare atti di governo rispondendo alle domande dei conduttori di quelle trasmissioni. Ne guadagnerebbe la loro dignità, la serietà delle trasmissioni e una migliore conoscenza dei fatti e degli atti da parte del pubblico.
Ma il ministro Mastella, ritenendosi aggredito, ha voluto rispondere. Ha scelto per la risposta il ruolo di capo-partito accantonando per l´occasione quello di ministro.
Scrupolo corretto ma insufficiente perché è pur sempre lui che parla. Il difetto sta in realtà nel manico: il governo è un´istituzione e i ministri ne sono interamente partecipi; in un governo non dovrebbero esistere «delegazioni di partiti». Invece esistono e ciascun ministro fa parte della propria quando addirittura non è il leader del partito e quindi della sua delegazione. Ecco un punto della massima importanza. Il governo a suo tempo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi fu non solo l´ultimo ma l´unico nella storia della Repubblica che non avesse delegazioni di partito nel governo. Altri francamente non ne ricordo. Mastella comunque, sentendosi aggredito, ha risposto. Forse con troppa veemenza, proporzionale però alla vera e propria gogna cui era stato sottoposto. Ha commesso tuttavia un gravissimo errore quando ha minacciato – se Santoro non sarà punito – di presentare una mozione in Parlamento per ottenere lo scioglimento del Consiglio d´amministrazione della Rai. Il quale (è grave che il ministro della Giustizia non lo sappia) è l´organo di una società per azioni e non può essere revocato se non sulla base di precise norme di legge e non certo dalla sfiducia del Parlamento. Sono errori assai gravi che un ministro non dovrebbe commettere e che diminuiscono la già scarsa credibilità sua e del governo di cui fa parte.
* * *
Della trasmissione di «Annozero» non sto a dire. A molti è piaciuta, ad altri no. Certamente fa parte di quel tipo di spettacoli pensati e preparati per accrescere le tensioni e le umoralità del pubblico, sulla scia dei «Vaffa» e di altre analoghe esibizioni.
Io penso che questo che stiamo attraversando sia un momento in cui il giornalismo in genere e quello televisivo in particolare che lavora più sulle immagini che sui concetti, dovrebbero dar prova di grande senso di responsabilità; ma si tratta di opinioni personali che non possono far testo, ognuno ha il suo modo, la sua maniera. Quello di Santoro è noto.
Il problema dell´ultima puntata di «Annozero», non è comunque la maniera di Santoro e neppure quella di Travaglio, al quale ormai l´esibizionismo ha preso la mano fino a condurlo a veri e propri insulti a persone assenti, che esulano dalla satira per non parlare del buongusto. Il problema sono state le "apparizioni" del procuratore De Magistris e del gip Forleo.
So che la loro manifestazione di vittimismo di magistrati perseguitati ha conquistato una folta schiera di ascoltatori e di opinione pubblica; in una situazione in cui i politici sono tutti sotto tiro il vittimismo d´un magistrato è – come si dice – il cacio sui maccheroni. La gravità di quel vittimismo sta però nel fatto che entrambi hanno alluso a intimidazioni gravi subite, a supposti Don Rodrigo e i suoi Bravacci, a interferenze della politica nell´esercizio della giurisdizione, tacendo tuttavia circostanze, nomi, fattispecie di eventuali reati.
Un procuratore della Repubblica e un giudice delle indagini preliminari non possono insinuare a vuoto, non possono parlare per enigmi. Dispongono dell´azione penale in quanto titolari dell´accusa pubblica e comunque dispongono del diritto di denuncia come qualunque altro cittadino. De Magistris in particolare ha una sede propria per difendersi ed è il Csm. La Forleo con la vicenda di Catanzaro non c´entra niente. Ha voluto esprimere la sua solidarietà ad un collega ma è andata ben oltre: ha accusato l´intera classe politica e il governo «dietro il velame de li versi oscuri». Non può farlo. Non può accendere la miccia della protesta civica mentre riveste la toga e con l´usbergo della toga.
La destra politica ha colto quest´occasione per rievocare i tempi di Tangentopoli e di Mani pulite, rimproverando la sinistra d´aver a quell´epoca spalleggiato la ghigliottina giudiziaria e d´averla usata per far fuori un intero ceto politico.
È vero. Al di là delle forme, nella sostanza la sinistra ha fiancheggiato l´azione di Mani pulite e l´opinione pubblica per alcuni mesi ha incoraggiato il cosiddetto giustizialismo. Vorrei dire tuttavia che i contesti erano alquanto diversi. La Procura di Milano, ma non solo quella, perseguì reati specifici, raccolse indizi e prove, avviò processi, alcuni dei quali finirono con assoluzioni totali o parziali, altri percorsero tutti i gradi di giudizio e si conclusero con condanne definitive, altri ancora furono bloccati a metà strada da interventi legislativi "ad hoc".
La Procura di Milano – è vero – intervenne con uno show televisivo vero e proprio ad opera dei sostituti Davigo, Di Pietro e Colombo spiegando che un decreto del ministro di Giustizia dell´epoca avrebbe reso molto difficile se non impossibile ai titolari della pubblica accusa di portare a compimento le loro investigazioni. Fu un´iniziativa sopra le righe, ma non conteneva insinuazioni diffamatorie verso terzi ignoti; denunciava come dannoso alla giustizia un atto del governo.
Ripeto: fu una prova di forza fatta alla luce del sole.
Quasi tutti i giornali l´appoggiarono, anche il nostro allora da me diretto. Probabilmente fu un errore da parte nostra anche se come ho già detto il contesto era molto diverso da quello odierno.
* * *
Alcuni magistrati – oggi – coltivano l´ossimoro, esattamente come fanno alcuni (molti) uomini politici. L´ossimoro è una figura della retorica; la contraddizione che diventa l´ossatura centrale di una logica molto speciale, una sorta di «prêt-à-porter».
Il caso più eclatante è avvenuto nell´inchiesta della Procura di Roma sul caso Visco-Speciale. Il procuratore, dopo lunghe indagini, ha concluso che il comportamento di Visco non raffigurava alcuna ipotesi di reato ed ha archiviato l´inchiesta, ma contemporaneamente ha definito «illegittimo» quello stesso comportamento che aveva accertato essere legale. Come è stato possibile costruire un ossimoro così vistoso in forza del quale un ministro viene prosciolto ma tacciato di illegalità? Il procuratore ha tentato di spiegarlo: non c´era reato a termini del codice penale ma c´era illegalità rispetto ai principi sostanziali della democrazia.
Mi domando – e lo domando alla Procura romana – se un magistrato possa introdurre in una sua ordinanza i «principi sostanziali della democrazia» dei quali, e in quanto titolare dell´azione penale, non ha alcuna veste e alcuna competenza per intervenire. La questione è molto delicata ma anche molto chiara: la Procura di Roma è andata in quel caso ben oltre i suoi poteri invadendo un campo che non le compete e commettendo una diffamazione se non addirittura una calunnia, reato - quello sì - perseguibile d´ufficio. O mi sbaglio?
* * *
In mezzo a tante ombre che oscurano l´orizzonte democratico ci sono tuttavia elementi di conforto che meritano di essere segnalati.
Il primo ci è dato dal referendum che sarà effettuato da cinque milioni di lavoratori, promosso dai sindacati confederali sul protocollo di accordo con il governo in merito al "welfare". Si sono già svolte quasi cinquantamila assemblee di cui quarantacinquemila tra lavoratori attivi nei settori pubblici, dell´industria, delle reti e del terziario e cinquemila tra i pensionati. Una consultazione di base di queste dimensioni non si era mai vista. Il voto avverrà dall´8 al 10 di questo mese e i risultati saranno resi noti il 12.
Quale che ne sia l´esito portare un numero così elevato di lavoratori a decidere le condizioni del proprio lavoro rappresenta un elemento di forza e di fiducia democratica.
L´altro appuntamento ci sarà il 14 ottobre con le primarie del Partito democratico e l´elezione d´un leader e dell´Assemblea costituente. Il favorito è Veltroni ma non sono mancate candidature alternative di prestigio. Vedremo il risultato finale dal quale uscirà finalmente il partito dei riformisti. Ma l´esito delle primarie, certamente importante, si qualificherà soprattutto sulla base dell´affluenza alle urne. Le previsioni indicano all´incirca un milione di persone e questo sarebbe già un buon risultato ma diverrebbe ottimale se quella previsione fosse largamente superata. Rappresenterebbe un punto di forza per un rilancio della politica, più necessario che mai.
Da questo punto di vista ho trovato impropria (per usare un aggettivo da lui stesso utilizzato in varie occasioni) la risposta di Prodi all´offerta di Veltroni di facilitare uno snellimento della compagine governativa mettendo a disposizione del presidente del Consiglio i mandati di ministro e di sottosegretario dei membri del governo appartenenti al nuovo partito. «Prodi ne farà ciò che riterrà più opportuno e quali che siano le sue decisioni noi le appoggeremo». La risposta però è stata secca: «Sono questioni di esclusiva competenza del presidente del Consiglio».
Nessuno lo mette in dubbio e perciò la risposta è impropria. «Aliquando dormitat Homerus» se è lecito l´accostamento.
* * *
Infine una sorta di post scriptum sul convegno dei giovani industriali a Capri. Matteo Colaninno, presidente uscente, ha concluso con grande dignità i lavori affermando che i giovani industriali non appoggeranno mai e in nessun caso lo sciopero fiscale. «Noi sappiamo che i servizi pubblici continuativi – ha detto – costituiscono la base della solidarietà e della compattezza sociale. Perciò rifiutiamo in radice ogni ipotesi di sciopero fiscale. Siamo imprenditori maturi e non amiamo le fughe in avanti e le spinte eversive».
Montezemolo, dal canto suo, ha invocato una riforma rapida della legge elettorale con la maggioranza più larga possibile. «Andare al voto con la legge attuale vorrebbe dire offendere gli italiani».
Questi due interventi mi sembrano ampiamente condivisibili e rappresentano schiarite e lembi di azzurro in un cielo cupo e tempestoso.

Repubblica 7.10.07
Le segrete dei Templari
di Paolo Rumiz


Il 13 ottobre di sette secoli fa il re di Francia ordinò l´arresto di tutti i monaci-guerrieri del Tempio di Gerusalemme. Processo e condanna furono un´atroce montatura. Nel castello di Chinon ne restano le tracce è invisibile, sulla collina, la prigione dei cavalieri di Dio. L’ha inghiottita la pioggia, e uno strato di nubi atlantiche che dall´imbrunire ristagna compatto sopra il fiume. Nessuna traccia, a Chinon, della sinistra muraglia dietro la quale sette secoli fa il gran maestro dei Templari Jacques de Molay fu chiuso e torturato, insieme ad altri dignitari, prima di essere messo al rogo. È l´epicentro di una storia terribile, e di una leggenda nera che risveglia ancora furibonde passioni.
Alle nove di sera, sotto il maniero, il silenzio è così totale che par di sentire le pendole nelle case. A quell´ora sulla vecchia Francia scatta il coprifuoco, e a Chinon il tempo si ferma. Palazzi in tufo giallino, vecchi hotel deliziosamente fané, odore di limo fluviale, antichi selciati e una nebbia dove ci si perde come in un bicchiere di Pernod. Per strada, solo un ubriaco, che parla da solo sotto un terrificante monumento a Giovanna d´Arco, in groppa a un cavallo indemoniato che pare trascinarla all´inferno più che al cospetto di Dio.
«Ma lei che ci va a fare a Chinon? Dei Templari non è rimasto niente», mi hanno avvertito a Parigi. A sentire gli studiosi la Francia sembra il posto meno adatto d´Europa a ritrovare i monaci guerrieri. Tutto sembra spazzato via dalla persecuzione, che qui ebbe il suo micidiale epicentro. Ma ci si mise di mezzo anche la Rivoluzione, che fece a pezzi ciò che restava. A partire dal "tempio" di Parigi, trasformato in prigione dall´ancien régime e poi abbattuto come la Bastiglia.
Tutto, nel viaggio, è sembrato depistarmi da questo luogo maledetto. La pioggia, l´inferno delle tangenziali parigine, i saliscendi infiniti della Francia profonda, i boschi labirintici dopo Orléans, oltre la Loira, dove son finito davanti ai cancelli di una centrale nucleare, e poi sulla strada - sbagliata - di Laudun, la città dei "diavoli" e del rogo per stregoneria. In fondo, questo villaggio nella pioggia che pare in capo al mondo.
In posti così addormentati sette secoli non sono niente, e forse tutto cominciò in una notte così, il 13 ottobre 1307, quando gli sgherri del re - sguinzagliati nello stesso momento in tutta la Francia - uscirono per le strade per arrestare migliaia di monaci-guerrieri con l´accusa di eresia, usura, sodomia e altro. «Un crimine orribile, lamentabile, detestabile, esecrabile, inumano e abominevole», così Filippo il Bello nell´apocalittica ordinanza che in gran segreto fece scattare il primo rastrellamento su vasta scala della storia. Li presero tutti, per mettere le mani sul loro tesoro. Li separarono in prigioni diverse, li torturarono col fuoco e li obbligarono a confessare le stesse cose.
Il mattino dopo un rumore di chiavistelli mi strappa alle fantasticherie mentre aspetto nella pioggia, sotto la fortezza. È madame Esnard, la guida, che si scusa per la quantità enorme di lucchetti da aprire. Annuncia che il torrione di Coudray, dove fu incarcerato il gran maestro, è chiuso da mesi - me la sentivo - e per visitarlo ci vuole un permesso da Tours. Spiega che a Chinon trionfa la leggenda di Giovanna d´Arco, che qui fu investita della sua missione dal re di Francia. Per i Templari non viene quasi nessuno.
È strano, racconta, perché ci sono graffiti di prigionieri. Mani, cuori raggianti di luce, scudi e croci, che hanno fatto impazzire cercatori di simboli come Louis Charbonneau e il grande René Guénon. A Chinon, è vero, non è rimasto niente. È il luogo meno templare che ci sia. Ma i muri, quelli sì, parlano eccome, a strapiombo sulla Vienne, sulla collina crivellata di grotte, mascella cariata sopra i vigneti della Turenna.
Entriamo in un labirinto di gallerie, passerelle e ponteggi formicolanti di operai: a Chinon è in corso un restauro, uno dei più grandi d´Europa, un´operazione da quattordici milioni di euro, e la prigione dei Templari è là in mezzo, sigillata da un recinto, dimenticata nella pioggia. Un dentone cilindrico in tufo che affonda nella gengiva della collina per una profondità che pare collegarlo all´altro mondo.
Intanto da Tours arriva il via libera: aprono il torrione solo per noi. Entriamo con torce elettriche, molti dei graffiti possono essere letti solo così. Sotto un soffitto esagonale, formano un puzzle sulle pareti, seguono la sequenza dei pietroni di tufo come le pagine di un libro. I più noti sono all´ingresso sulla sinistra, protetti da una teca di vetro. «Lì dentro», sorride madame Esnard, «una femmina di pipistrello è venuta a ripararsi la scorsa stagione». La torcia illumina gigli, scudi, asce, costellazioni, figure di santi, croci con la base a scalini. Ma appena gli occhi si abituano al buio, ecco apparire ragnatele di iscrizioni meno profonde, addensate nelle tre feritoie aperte sul versante sud del torrione.
Nel contorno di un vascello sta scritto: «commanda eis philipe rege papa clemens quintus diabolis et dragonibus». Che significherebbe: papa Clemente e re di Francia Filippo, siete stati mandati dal diavolo e dal dragone. Filippo è definito "il falsario". Niente di esoterico: è la maledizione di uomini comuni, con le loro rabbie e le loro paure. Finemente incisi, i nomi di possibili progionieri: Jehan Galubia, Geoffroy Verceil, Besançon Philippe, Pierre Safet cuciniere del maestro del Tempio.
«Da qualche parte, in fondo alla feritoia più occidentale», spiega la guida, «c´era la firma di Jacques de Molay, ma ora non si riesce più a leggerla». Racconta che i graffiti sono stati inventariati solo trent´anni fa da un certo Yvon Roy, che li vide quando caddero i primi intonaci. Ma gli storici non si fidano, perché lo scopritore «venne lasciato solo per mesi a lavorare nella torre» e si teme abbia manipolato qualcosa per aggiungere prove in favore dei Templari. Il problema è che nessuno, ancora, ha trovato prove "contro" l´autenticità degli straordinari graffiti di Chinon.
In fondo al finestrone centrale, oltre un tappeto di escrementi di pipistrello: «Nous sommes amenes devant l´inquisiteur de france humbert paris qui tortura les freres», siamo portati davanti all´inquisitore Umberto che ha torturato i fratelli. E ancora, un po´ più in alto, oltre a un ferro di cavallo: «Abbiamo ricevuto colpi di frusta da Robert Fribault che è il boia del re…». E, infine, su una pietra in alto a sinistra della feritoia orientale: «Robert Talmont, precettore di Francia, è morto a Chinon per le torture infertegli». Per leggere, bisogna mettere la torcia lateralmente, per esaltare l´ombra nelle fessure. Ma tutto è fantasticamente chiaro, ed è forse per questo che gli storici non si fidano ancora e la Soprintendenza ha preferito lasciare i graffiti nell´ombra.
Fuori piove ancora, dall´alto della muraglia le isolette della Vienne sembrano risalire la pigra corrente come chiatte oceaniche. I muri parlano? «La realtà è che, dopo tutto il polverone sui Templari, c´è ancora tanto da sapere e tanti documenti da setacciare», brontola Alain Demurger, maxi-esperto francese sul tema, prima di consigliarmi una buona cantina da vino. È scettico sui graffiti di Chinon; preferisce lavorare sugli atti del processo, una documentazione più che sufficiente. Ma la conclusione non cambia: i cavalieri di Dio erano «gente comune», non «extraterrestri». Militari e monaci, reclute e novizi insieme, avevano il loro inevitabile "nonnismo", ed è a quei vizi che s´è aggrappato il re per le sue accuse. Colpevoli o innocenti? La Francia - giurano qui - è ancora spaccata in due.