Mare Mediterraneo: la civiltà conviviale
di Elena Doni
Da un lato l’identità efficientista atlantica e angloamericana
Dall’altro i tempi e gli stili di vita «mediterranei»
CULTURE Uno studio a più voci a cura di Franco Cassano e Danilo Zolo riscopre un’antica verità proclamata dal grande storico Braudel: quello del «mare nostrum» è un unico destino. Plurale. Dove cristiani e islamici respirano con lo stesso ritmo
E se avessimo sbagliato tutto? Nel senso di aver guardato solo a ovest e nell’esserci lasciati abbagliare dal mito dell’efficientismo, del giovanilismo, delle verità assolutiste e della ricchezza come ricompensa dei giusti? È il dubbio che semina il volume L’alternativa mediterranea (Feltrinelli, Euro 40) curato da un sociologo, Franco Cassano e da un filosofo, Danilo Zolo. Un libro di 656 pagine che raccoglie scritti di autori europei e arabi e propone il Mediterraneo, «mare fra le terre», come antidoto alle ideologie «atlantiste» che hanno portato alle guerre umanitarie o preventive nei Balcani, in Medio Oriente e in Iraq.
Partendo dal grande storico francese Fernand Braudel (che, prigioniero in Germania dal 1940 al 1945, teneva lezioni ai suoi compagni di sventura, e in campo di concentramento cominciò la redazione a memoria de Il Mediterraneo all’epoca di Filippo II) si sottolinea l’unità, la coerenza e la grandezza nella storia dell’area. Per auspicare un’identità mediterranea. Diceva Braudel: «Io resto convinto che i turchi del Mediterraneo vivono e respirano con lo stesso ritmo dei cristiani perché l’intero mare mediterraneo condivide il medesimo destino». Un destino di grandezza che durò molti secoli: ben oltre, sottolinea lo storico, l’epoca di Colombo e di Vasco de Gama. A proposito di una comune identità mediterranea il francese Serge Latouche, scrive in uno dei saggi contenuti nel libro, che questa potrebbe dare all’Europa una civiltà «più conviviale, più umana, più sociale, più tollerante, più culturale, più amante della famiglia e dell’arte del vivere», che faccia da argine «all’Europa delle borse globali, delle banche centrali, di Francoforte e dell’americanizzazione forsennata». E quanto a tolleranza, osserviamo noi, Venezia ha costituito per secoli un miracolo di libertà: per fare solo un esempio, la dottrina di Averroé, il grande commentatore di Aristotele, condannata perché negava l’immortalità dell’anima sia dall’islam che dai papi, fu insegnata per tutto il Rinascimento nell’università di Padova, il centro ufficiale di studi della Serenissima.
Progetto entusiasmante da dirsi, quello dell’alternativa mediterranea, ma problematico da realizzarsi. Come nota uno dei curatori, Danilo Zolo, nel capitolo introduttivo intitolato «La questione mediterranea», a questo bel sogno culturale si oppongono drammatici dati concreti: l’incancrenirsi della questione palestinese, il permanente squilibrio di prosperità tra i paesi del nord e quelli del sud del Mediterraneo. E l’incomprensione - spesso anche l’ignoranza - da parte dell’Europa dei problemi, delle difficoltà e dei valori della civiltà arabo-islamica. Basti pensare che la nozione stessa di stato, anche se oggi largamente diffusa nel mondo arabo, è un’eredità coloniale sovrapposta alla tradizione musulmana della umma, la comunità dei credenti. Molta attenzione dovrebbe essere data invece, scrive Zolo, alla produzione di pensatori politici islamici contemporanei, impegnati in una nuova riflessione su temi come l’emancipazione femminile e i diritti individuali.
Proprio a questa carenza di informazione sul mondo della riva sud del Mediterraneo viene incontro il volume, proponendo ampi saggi che spaziano dall’esportazione della democrazia nei paesi del Medio Oriente e del Mediterraneo (Alessandra Persichetti), all’associazionismo civile nei paesi arabo-islamici (Orsetta Giolo), dall’integrazione musicale tra Europa e islam dall’antichità all’orchestra di Piazza Vittorio (Gianfranco Salvatore), dalla situazione militare del Mediterraneo (Angelo Baracca) al ruolo della donna nei paesi del Maghreb (Hafidha Chefir), dalla situazione penitenziaria in Marocco (Nour-eddine Saoudi) al costituzionalismo in Europa e nell’islam mediterraneo (Gustavo Gozzi).
Molti ancora gli argomenti trattati in questo libro che pone domande scomode e sottolinea ambiguità e contraddizioni. Per esempio nel capitolo curato da Predrag Matvejevic, da qualche anno cittadino italiano, «quale Mediterraneo, quale Europa?, o in quello di Ali El Kentz, sociologo al Centro di ricerche di Algeri, «Tra finzione e realtà». Il primo, che dichiara di fare «un discorso disperato», dice che l’immagine offerta oggi dal Mediterraneo non è affatto rassicurante: dilaniato dai conflitti, diviso dalle disparità tra nord e sud e con la diffidenza che la costa sud mantiene dopo l’esperienza del colonialismo. «Il Mediterraneo si presenta come uno stato di cose, non riesce a diventare un progetto», scrive Matvejevic. Quanto a El Kenz, lo studioso algerino osserva che il progetto euro-mediterraneo è stato concepito e in parte realizzato dalla sola Unione Europea, mentre i paesi arabi del Mediterraneo sono passivi e attendisti. La Commissione Europea detta l’agenda e le priorità: con la conseguenza che migliaia di piccole imprese familiari e artigianali rischiano di chiudere, gli investimenti tardano ad arrivare e il nuovo settore privato dei paesi arabi insidia il pubblico, per esempio nella scuola che sta cedendo il passo alle istituzioni private (anche quelle incantate dalle «tre i», si direbbe), con la conseguente diminuzione, per esempio in Egitto, del tasso di scolarizzazione e del peggioramento della qualità dell’insegnamento dovuto alla diminuzione degli stipendi degli insegnanti.
È dunque solo un sogno di poeti e intellettuali quello di un nuovo mondo mediterraneo? Certo molti e gravi sono i fattori che si oppongono alla sua realizzazione: primo fra tutti il perdurare delle guerre. Ma dati economici recentissimi che riguardano proprio il nostro paese indicano una tendenza della quale non si può non tenere conto: l’Italia è infatti il primo partner commerciale europeo del Mediterraneo, con un aumento del 7% nel 2006 rispetto all’anno precedente. E l’italiano è diventato la lingua franca del Mediterraneo, proprio grazie agli intensi rapporti commerciali e al fatto che sono soprattutto navi italiane , con equipaggi che hanno dovuto imparare l’italiano, a solcare il mare che il latino chiamava Nostrum. Oggi la Società Dante Alighieri tiene 190 corsi di lingua italiana di livello superiore nell’area mediterranea.
l’Unità 8.10.07
L’intervista. Parla il ministro della Cultura egiziana, candidato alla direzione dell’Unesco
Faruk Osni:«L’arte e il dialogo multiculturale contro tutti i fanatici»
di e. d.
Farouk Hosny è Ministro della Cultura in Egitto ed è candidato alla Direzione dell’Unesco. Noto per le sue posizioni liberali, è stato attaccato l’anno scorso per una dichiarazione contraria al rigorismo islamico.
È appena terminato in Egitto il Festival Internazionale del teatro sperimentale e tra poco ci sarà una rassegna di cinema dove l’Italia sarà presente con cinque film. È l’America a fare la parte del leone o la cultura dei paesi europei fa sentire la sua voce, probabilmente più vicina a quella del mondo arabo?
«Sicuramente i paesi europei sono più vicini al mondo arabo: c’è una tradizione secolare di scambi commerciali e culturali in tutto il bacino del Mediterraneo. Ci sono stati tensioni e conflitti, ma dialogo e interessi dei popoli hanno sempre avuto la meglio. La cultura e l’arte sono il perno su cui si basano il dialogo e la comprensione tra civiltà diverse. La presenza dell’Italia con cinque film al Festival Internazionale del Cairo non può che aumentare i nostri scambi artistici e culturali, tenuto conto anche del grandissimo apporto dell’Italia al settore cinematografico. Quanto agli Stati Uniti, enorme macchina per fabbricare sogni, non possiamo che accettare il suo ruolo primario. Hollywood ha fatto sognare il mondo intero: che sia il benvenuto. E noi ci auguriamo che il mondo intero sia presente al Festival Internazionale del Cairo».
Lei ha manifestato avversione per le posizioni del fondamentalismo islamico, tanto da vedersi minacciato per i suoi discorsi di apertura sul velo. Ma l’anno scorso il Gran Muftì Ali Gomaa ha emesso una fatwa contro la scultura e chi la pratica. Non teme che settori del clero vicini alla dottrina wahabita possano impedirle di favorire una politica di conoscenza tra culture diverse?
«Io sono convinto delle mie idee e non le impongo agli altri perché ritengo che la tolleranza sia vitale in tutti i contesti. Difendo le mie idee e non temo la reazione degli avversari perché la libertà d’espressione è sacra. Penso tuttavia che il Gran Muftì sia stato male interpretato: tanto vero che il Simposio di Scultura di Assuan si è svolto senza problemi. Gli intellettuali egiziani e arabi in genere mi hanno sostenuto contro coloro che volevano creare dissidi a danno dell’arte e della libertà d’espressione».
Lei è candidato alla direzione generale dell’Unesco. Se fosse stato direttore quando i taleban decisero di distruggere le statue di Budda a Bamiyan cosa avrebbe fatto?
«Prima di tutto penso che sarebbe stato opportuno mandare, come inviati dell’Unesco, persone che conoscessero bene il contesto culturale e religioso dei taleban, per tentare di negoziare pacificamente. Purtroppo il regime radicale dei taleban era ossessionato dalla distruzione. All’epoca l’Unesco lanciò a quel regime un appello internazionale sostenuto dal mondo intero. Ma la rapidità con cui agirono i taleban non lasciò tempo ad alcun negoziato».
Lei è vissuto otto anni in Italia. Quali sono i pittori che ha nel cuore e quale grande mostra di pittura spera di portare in Egitto?
«Ricordo il mio soggiorno a Roma come un sogno. Grazie ai miei amici italiani, intellettuali o artisti, ho potuto godere dei più importanti avvenimenti culturali. Sono amici che mi hanno aiutato a conoscere l’Italia profonda. Ammiro pittori come Turcato, Vedova, Fontana, Sironi, Santomaso e De Chirico. Ci sono molte cose in Italia che mi fanno sognare. Il mio sogno più grande è di vedere i grandi maestri italiani del Novecento esposti al Gran Museo del Cairo».
l’Unità 8.10.07
Craig Venter non ha creato la vita, l’ha copiata
di Pietro Greco
Occorrono molte condizioni per la riproduzione del Dna e delle proteine
Si aprono scenari promettenti per la genetica sui quali si deve poter scegliere
La scoperta del biologo americano ha innescato discussioni etiche senza fondamento. Ciò che è stato sintetizzato esiste già in natura e non viene dal nulla. E la nostra specie da sempre fa «innesti»
C’era da aspettarselo. Il «cromosoma artificiale» di Craig Venter sta creando dibattito. E il dibattito si polarizza intorno a questioni assolute e un po’ astratte: può l’uomo sostituirsi a Dio e creare la vita? In realtà, entrambi i presupposti della domanda sono infondati. Sia perché Craig Venter (ammesso che abbia davvero sintetizzato il cromosoma artificiale di un batterio) non «ha creato la vita». Sia perché, ove l’avesse creata, non si sarebbe certamente «sostituito a Dio».
Craig Venter e i suoi 20 collaboratori non hanno creato la vita per una serie di motivi correlati tra loro. In primo luogo perché un cromosoma non è, di per sé, la vita. Un organismo vive solo se esiste un insieme dinamico di processi che coinvolge una serie enorme di molecole e strutture cellulari. Il Dna è una molecola essenziale. Ma non basta. Occorre che esso produca proteine e che le proteine lo inducano a «esprimersi», anche sulla base di stimoli ambientali. Occorre poi che il cromosoma (tutto il Dna di una cellula) abbia la capacità di autoriprodursi (grazie al concorso sinergico delle proteine). Insomma, un cromosoma è condizione necessaria ma non sufficiente per avere la vita. Inoltre Venter non ha sintetizzato un «nuovo cromosoma», che esprimendosi codifica per la produzione di «nuove proteine». Ha fatto molto di meno. Ha ricopiato, con qualche taglio e senza alcuna aggiunta funzionale, il cromosoma di un organismo vivente già esistente. Insomma, se anche identificassimo il Dna con la vita in un’operazione riduzionistica estrema, potremmo dire che il grande biologo americano – un po’ come i falsari con la Gioconda di Leonardo – ha «copiato la vita», ma non l’ha certo creata.
Occorrerà, probabilmente, che molta acqua passi sotto i ponti della scienza prima che i biologi riescano a creare la vita, mettendo a punto cromosomi che non esistono in natura o addirittura organismi viventi che non esistono in natura. In questo momento non sappiamo minimamente come fare per realizzare anche solo un gene che non esiste in natura capace di produrre proteine che non esistono in natura. La concreta possibilità di poter realizzare un cromosoma completamente nuovo, con centinaia di geni non esistenti in natura e che, in un ambiente cellulare adatto, inneschi processi stabili di metabolismo e di autoriproduzione – insomma l’idea di poter creare anche solo minuscoli organismi viventi sconosciuti in natura è – e lo sarà per molto e molto tempo – al di fuori di ogni realistica possibilità.
Certo, possiamo modificare organismi viventi. Come facciamo con le biotecnologie, introducendo per esempio un gene umano nel cromosoma di un batterio e inducendolo a produrre per noi insulina umana. Tecnicamente questo batterio è un «organismo nuovo», anche se le sue componenti sono del tutto naturali. Se intendiamo per questo «creare la vita», allora ne siamo capaci non solo da alcuni decenni, ma da alcuni millenni: cos’è il grano o cosa sono i nostri amici cani, se non evoluzione accelerata a opera dell’uomo di organismi che prima non esistevano in natura?
Ma ammettiamo che in un futuro più o meno remoto diventeremo capaci di creare davvero «vita artificiale» o, addirittura di creare «intelligenza artificiale» – come da decenni senza scandalo cercano di fare schiere di scienziati, ingegneri e filosofi – avremmo illegittimamente «preso il posto di Dio»?
La domanda per un non credente è priva di senso. Per cui dobbiamo intendere per Dio semplicemente la natura. Dunque, creando nuove forme di vita – più o meno intelligente – avremmo usurpato una funzione che non è nostra, ma appartiene alla natura (Dio)? Anche in questo caso la domanda è priva di solide fondamenta. L’uomo è parte integrante della natura. Della storia evolutiva del mondo. Non esistono in natura limiti invalicabili. Come non esistevano per quei batteri produttori di ossigeno che con il loro terribile veleno hanno arrugginito il mondo, consumato il più grande olocausto della storia della vita e creato un ambiente adatto alla nostra esistenza. Se nel corso della sua evoluzione l’uomo modifica l’ambiente pre-esistente non compie nessun «atto contro natura». Se e quando riuscirà a creare un cromosoma, un organismo o addirittura un’intelligenza davvero artificiali, non avrà fatto altro che comportarsi «secondo natura».
Questo non diminuisce la nostra responsabilità. Al contrario, la esalta. Proprio perché siamo parte della natura, abbiamo il dovere di non segare il ramo dell’albero sul quale siamo seduti. In pratica significa che siamo chiamati a operare scelte difficili di autodeterminazione. E lo dovremo fare – senza angoscia né iattanza – ma con grande consapevolezza e con grande trasparenza. In piena democrazia.
Corriere della Sera 8.10.07
Welfare, al via il voto in fabbrica Governo-Rifondazione, si tratta
Il ministro dell'Economia: vinceranno i sì, modifiche senza snaturare il protocollo Ferrero: più tutele su pensioni e precarietà. Dini avverte: se cambiano non voto
di Mario Sensini
ALLE URNE Il voto inizia oggi esi concluderà mercoledì.
Venerdì è stato convocato il Consiglio dei ministri per il varo del protocollo sul welfare, che non è stato approvato ma solo discusso
ROMA — Rifondazione e Comunisti non mollano la presa sul Welfare. «Lavoreremo lealmente dentro la maggioranza, senza ultimatum e senza minacce, ma lavoreremo per cambiare il Protocollo» sostiene il segretario del Pdci Oliviero Diliberto. Franco Giordano, segretario di Rifondazione, si dice addirittura ottimista. Secondo lui «ci sono le condizioni per modificare il Protocollo ». La sinistra, però, chiede molto e, anzi, alza la posta: norme più vincolanti per la stabilizzazione dei precari, ma anche modifiche alla riforma previdenziale, sui lavori usuranti e sulle quote per l'età pensionabile. Troppo per l'ala riformista e liberista della maggioranza, e forse anche per lo stesso Romano Prodi che vede più lontano un compromesso in cui, tutto sommato, ancora spera.
A cinque giorni dal Consiglio dei ministri chiamato a trasformare il Protocollo in disegno di legge da agganciare alla Finanziaria, e alla vigilia della consultazione dei lavoratori, le posizioni sono ancora molto distanti. Il ministro del Lavoro, Cesare Damiano, è pronto a qualche aggiustamento, ma solo formale, mentre il titolare dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, tiene fermi i suoi paletti. «Sugli usuranti un accordo si può trovare, ma bisogna che ci sia coerenza con la cifra stanziata » per ampliare la platea di chi può ritirarsi prima dal lavoro, 252 milioni l'anno. «Se si modifica l'intesa in modo radicale bisognerà trovare la copertura» dice Padoa- Schioppa, senza chiudere la porta.
Sul precariato, invece, il ministro non apre molti spazi. Il Protocollo stabilisce che dopo 36 mesi i contratti a termine, in linea di massima, vengano stabilizzati, ma «non credo che ci possa essere un automatismo assoluto » dice Padoa-Schioppa manifestando, però, ottimismo. «Sono convinto che la grande maggioranza dei lavoratori sarà favorevole.
L'accordo ci sarà e non sarà snaturato» sostiene il ministro, che confida molto nel referendum che si apre oggi nelle fabbriche. Nei 30 mila seggi sono attesi 5 milioni di voti entro mercoledì. I risultati dovrebbero arrivare il giorno stesso del Consiglio dei ministri, riunione che si preannuncia assai difficile. Lamberto Dini, che ieri ha presentato il manifesto dei Liberali Democratici, ha garantito che se la sinistra radicale tenterà di annacquare ancora il Protocollo, presenterà in Parlamento emendamenti di segno opposto (e altrettanto è pronto a fare con la Finanziaria). «Non si può tradire un accordo già fatto, scavalcando i sindacati» ha detto Dini, mentre il direttore generale di Confindustria, Maurizio Beretta, presente alla convention, insiste: «Il Protocollo deve essere approvato così com'è». Come sostiene, del resto, il sindacato. «In tutti gli accordi, ci sono dei compromessi, ma gli accordi si rispettano e se si cambiano, si cambiano tra i contraenti» dice il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani, convinto del sì dei lavoratori.
Corriere della Sera 8.10.07
Il rimpasto. Comitato di bioetica: via i tre vicepresidenti
di M. D. B.
ROMA — Rimpasto nel Comitato nazionale di bioetica. Dopo le polemiche della scorsa settimana oggi dovrebbe esserci il decreto di sostituzione dei tre vicepresidenti. A Cinzia Caporale, Elena Cattaneo e Luca Marini succedono Riccardo Di Segni, medico e rabbino capo della comunità ebraica romana, Laura Palazzani, docente di filosofia del diritto alla Lumsa, e Lorenzo D'Avack, filosofo del diritto all'università Roma Tre. È la risposta del presidente Francesco Paolo Casavola agli attacchi sintetizzati in una lettera dove tre esponenti del comitato (Carlo Flamigni, Demetrio Neri e Gilberto Corbellini) gli contestavano alcune iniziative dove ha privilegiato l'area cattolica.
Casavola nei giorni scorsa era andato da Prodi presentando le dimissioni che il premier aveva respinto. Il ricambio dei tre vice non è stato per il momento motivato. Forse la necessità di dare una svolta e risolvere le difficoltà di gestione. Ma la decisione di Casavola non accontenta il bioeticista Demetrio Neri: «Non capisco il gesto. Questo non basta, il presidente Casavola deve rispondere alle nostre accuse».
E, intanto, forse per prevenire nuove polemiche, Lorenzo D'Avack, chiarisce: «La mia appartenenza culturale è laica, mi sono schierato a favore della ricerca sugli embrioni malformati o adottabili».
Corriere della Sera 8.10.07
La repressione in Birmania
La Cina è vicina. Ma a tutte le dittature
di Christopher Hitchens
Il fatto di essermi unito a un gruppo di giovani e appassionati dimostranti che protestavano a Washington (e io che credevo che i miei giorni da «dimostrante» fossero finiti...), mi è stato di aiuto per fare luce su una questione solo apparentemente secondaria.
La folla era unita e compatta nell'intonare «Birmania libera, libera, libera»: questo può sembrare anche un dettaglio trascurabile, tuttavia penso sia giusto opporsi all'uso di nuovi nomi dal sapore grottesco come Myanmar e Yangon, e mi compiaccio che il Washington Post continui a chiamarli Birmania e Rangoon.
Questo tipo di enfasi è molto rivelatrice. «Lanka» è la parola in Sinhala che sta a designare Ceylon, e «Sri» significa «sacro », cosicché il nome «Sri Lanka» esprime il concetto che l'isola sia a un tempo di lingua singalese e religione buddista. I Tamil tendono ancora a chiamarla «Ceylon», oppure, per dimostrare il proprio nazionalismo, «Eelam». E così, per un nome, la gente muore.
C'è chi mi scrive per dirmi che sulla religione prendo abbagli, perché l'opposizione alla spaventosa dittatura birmana è guidata da monaci buddisti. Su questo punto tali persone sbagliano due volte, in primo luogo perché le immagini delle manifestazioni mostrano anche una presenza significativa di uomini e donne in abiti civili; in secondo luogo, perché la dittatura stessa è buddista, e ha speso larghe somme di denaro nella costruzione di templi.
Mi sta bene che dei monaci facciano parte dell'opposizione, ma il buddismo ha una forte responsabilità, ad esempio, in Sri Lanka e Cambogia, e se i suoi fatalistici discepoli si vogliono attribuire del merito in un caso, devono anche riconoscere la propria responsabilità negli altri.
Ad ogni modo, la nostra speranza non deve risiedere in una futura repubblica buddista in Birmania, ma in un Paese che si emancipi dal totalitarismo in tutte le sue forme. Siamo di fronte a un dispotismo insolitamente lungo: nel libro di Emma Larkin Finding George Orwell in Burma, leggiamo che i birmani scherzano sul fatto che in realtà George Orwell ha dedicato al loro Paese un'intera trilogia: non soltanto i Giorni in Birmania, ma anche La fattoria degli Animali e 1984.
La settimana scorsa circolavano voci abbastanza fondate secondo cui, in alcune città, l'esercito non era intenzionato a sparare sulla folla (immagine convenzionale di una situazione rivoluzionaria): questo ci lascia sperare che stavolta il popolo birmano possa avere l'occasione di rovesciare il demenziale despotismo che lo imprigiona quasi dall'inizio dell'era post-coloniale.
Ho pensato che il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, fosse stato davvero corretto nell'elencare i suoi regimi meno favoriti, durante il discorso alle Nazioni Unite della settimana scorsa, e nel tentativo di fare aumentare la pressione internazionale sui teppisti di Rangoon.
I governi che aveva selezionato erano quelli, eccezionalmente repellenti, che considerano il cittadino proprietà dello Stato, e quelli, eccezionalmente oppressivi, che sono rimasti al potere fino a quando i cittadini si sono messi letteralmente a urlare per rivendicare la libertà. Non ho bisogno di elencare uno per uno questi sistemi di potere guidati da vecchi criminali, eccetto per il fatto che una cosa li accomuna tutti: ciascuno di essi, da Cuba allo Zimbabwe, è difeso dal voto cinese all'Onu.
Chi ha a cuore, o ha la pretesa di avere a cuore, i diritti umani deve cominciare ad affrontare questo problema con franchezza.
Esiste un'iniziativa per salvare quei pochi che non stati ancora massacrati nel Darfur? Tale iniziativa incontrerà il veto dei cinesi. Esiste qualcuno che si preoccupa del fatto che il presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe, tratta una popolazione disperata come se fosse di sua proprietà? La Cina è pronta a sostenere Mugabe. I Nord Coreani stanno morendo di fame, e sono isolati al punto che un playboy demente riesce a fare il bullo con le armi nucleari? Pechino accorre a proteggere il playboy demente. Quanto ancora il Sudest asiatico potrà tollerare la vergogna e la miseria della giunta birmana? Tanto quanto sarà stretto l'abbraccio della Cina.
L'identità del Tibet viene cancellata dalla deliberata importazione di coloni cinesi. Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, un uomo che rivendica anche di conoscere e determinare la vita sessuale dei suoi sudditi (è, incidentalmente, l'essenza stessa del totalitarismo), riceve armi e finanziamenti dalla Cina.
È una storia simile a quella in cui incappò Bill Clinton, il quale voleva che le Nazioni Unite affrontassero il presidente serbo Slobodan Milosevic, e venne ostacolato (tra gli altri, dalla Cina); ed è la stessa cosa di quando il presidente Bush chiese alle Nazioni Unite di fare valere le sue risoluzioni nei confronti di Saddam Hussein: ma ora mi tocca sentire gli attivisti dei diritti umani piagnucolare sulla Birmania e la nostra inazione, e, contemporaneamente, lamentarsi dell'unica volta in cui un presidente degli Stati Uniti ha avuto il coraggio di vincere l'opposizione della Cina (e della Russia, e, talvolta, della Francia), sulla possibilità di qualsiasi soccorso internazionale.
La Cina, inoltre, rivendica ancora alcuni territori indiani e vietnamiti (oltre, naturalmente, Taiwan), e sta costruendo un vasto esercito, nonché un'enorme flotta oceanica, per sostenere i suoi piani ambiziosi.
Anche se a causa dell'11 settembre 2001 ora sembra che sia successo un milione di anni fa, non dovremmo tuttavia dimenticare cosa successe quando un aereo americano fu coinvolto in un incidente di volo sopra l'isola Hainan durante i primi giorni di questa amministrazione: i cinesi reagirono come se l'incidente fosse stato deliberato, sequestrarono l'aereo e l'equipaggio per diversi giorni, e montarono manifestazioni di massa isteriche e scioviniste.
Gli eventi in Medio Oriente hanno poi oscurato questa minacciosa immagine, ma in effetti è proprio all'interno di quella regione che la cinica politica cinese è più plateale. Se Pechino l'avesse avuta vinta, Saddam Hussein sarebbe ancora al potere. L'Iran viene rifornito di missili cinesi Silkworm.
La Cina, e questo è l'aspetto più orribile, compra la maggior parte del petrolio dal Sudan, e in cambio fornisce armi (assieme alla copertura diplomatica all'Onu), per la pulizia etnica in Darfur («Sangue per petrolio» sarebbe una descrizione appropriata per questo scambio commerciale, anche se non ho visto tale espressione usata molto spesso).
Tutti sono pronti, d'altro canto, a spassarsela alle Olimpiadi del 2008 a Pechino. Se ci fosse una sola richiesta capace di riassumere tutte le esigenze di rispetto dei diritti umani nel mondo contemporaneo, sarebbe proprio l'appello a boicottare o cancellare una celebrazione tanto disgustosa.
Il regime di Pechino, con il suo voto alle Nazioni Unite, sostiene il dispotismo In nome della libertà, bisognerebbe boicottare le Olimpiadi. Ma non andrà così
© C. Hitchens 2007 distribuito dal New York Times Syndicate Traduzione di Francesca Santovetti
Corriere della Sera 8.10.07
Per i devoti dell'ateismo Adamo ed Eva minacciano i diritti umani
di Pierluigi Battista
Il Consiglio d'Europa ha messo al bando le teorie creazionistiche perché le ha giudicate «pericolose»
La stupidità censoria attraversa ciecamente gli oceani e con il suo zelo non si accorge di oltrepassare ripetutamente la soglia del ridicolo. L'amministrazione di Chicago ha contestato l'intestazione di una via a Saul Bellow, che di quella città è stato il narratore sommo, per via di un presunto «razzismo» dello scrittore. Bellow razzista, ma davvero? Razzista perché ha scolpito con il suo «chi è il Tolstoj degli Zulu? Il Proust degli abitanti di Papua? Sarei lieto di poterli leggere» un paradosso arguto che è una sfida ai dettami del politicamente corretto? Ma gli arcigni sacerdoti di un dogma grottesco si esibiscono anche sul palcoscenico europeo. Lanciano pensosi allarmi, cercano di stabilire per decreto ciò che bisogna leggere e cosa mandare al rogo. Fanno i burocrati del pensiero, come quei solerti vigilantes dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa che nei giorni scorsi hanno votato a maggioranza un documento perché da tutte le aule del continente venga bandito quel pericoloso virus chiamato «creazionismo», il cui insegnamento è nientemeno che una minaccia all'integrità dei «diritti umani».
I diritti umani messi a rischio dai militanti dell'antidarwinismo? Attentatori della dignità umana quei seguaci del «creazionismo» che sono i più devoti credenti in un «disegno intelligente», emanazione della volontà divina, contrapposto agli schemi della dottrina evoluzionista? Magari saranno anche patetici, i creazionisti, così refrattari all'idea che noi umani non saremmo altro che discendenti delle scimmie, ancora tanto offesi che Darwin abbia osato contraddire con supponenza scientista lo spirito e la lettera delle Sacre Scritture. Ma «pericolosi», nemici dei diritti umani, che senso ha? E addirittura la richiesta di vietarne d'imperio il proselitismo. E persino la condanna retroattiva all'ex ministro Moratti, rea di tollerare che i manuali dell'ideologia creazionista potessero entrare nei recinti scolastici, come se la scuola pubblica, aconfessionale in tutto, debba farsi per forza ingabbiare senza possibilità di contraddittorio «pluralista» nella confessione evoluzionistico-darwiniana. Ma Darwin, personificazione dello spirito critico e curioso, sarebbe stato il primo ad inorridire per il fervore dei suoi tardi apostoli asserragliati nella fortezza istituzionale europea e impegnati a emanare direttive fantasticamente sciocche. Per protesta, salirebbe definitivamente a bordo del Beagle, il brigantino della regia marina britannica usato per le sue esplorazioni, malgrado soffrisse di un terrificante mal di mare. Meglio il perenne mal di mare che lo spettacolo degli epigoni abusivi i quali, per fare la guerra culturale agli atei devoti, si sono trasformati in una nuova maschera dell'ideologismo moderno: i devoti dell'ateismo.
E così l'euroburocrazia, incapace di trovare una posizione univoca nei confronti di chi, come l'Iran, calpesta per davvero i diritti umani con la disinvoltura dettata dall'impunità, impotente con i militari dispotici che stanno schiacciando nel sangue i monaci birmani, non trova altro passatempo che non sia la denuncia del «creazionismo » come teoria incompatibile con una parodia di «diritti umani» calpestati da chi? Addirittura da chi si ostina a dar torto a Darwin giurando eterna fedeltà alla Bibbia e ai progenitori Adamo ed Eva. Uno spettacolo di intolleranza culturale che è il contrario di ciò che idealmente si professa. Una manifestazione di paura che attanaglia i custodi dell'unico pensiero autorizzato e vidimato dalle istituzioni europee fino al punto di immaginarsi un nuovo nemico nelle vesti del creazionismo. La scienza non c'entra. C'entra l'incrollabile pretesa di parlare nel nome di una presunta nuova Verità. Ciao, Darwin.
il Riformista 8.10.07
Due o tre cose a proposito dell’Arancione
di Paolo Franchi
Leggo, sull’Espresso, sull’Unità e altrove, che qui al Riformista Paolo Soldini, reo, così si dice, di non aver procurato alla famiglia Angelucci un appuntamento con Veltroni, sarebbe vittima di un’epurazione. Apprendo, da una lettera diffusa alle agenzie prima ancora di arrivare sul mio tavolo, che Peppino Caldarola proprio non può più continuare a collaborare con un quotidiano come il nostro, diventato l’organo o, dice lui, «la cattedra ambulante», di un «partito invisibile» (immagino il ri-costituendo partito socialista), mentre c’è da sostenere (lui di recente ha deciso di farlo, abbandonando gli invisibili al loro destino) la causa di Walter. E sento in giro (ne riferisce anche Liberazione) voci antipatiche, definiamole con un eufemismo così, su di me e sulle sorti di questo giornale, alimentate dai casi (si fa per dire) sovradescritti.
Anche perché si tratta di persone che conosco e che mi conoscono da una vita, vorrei chiarire, per i lettori, come stanno le cose. Alla lettera di Caldarola ho già risposto venerdì su questo giornale, e non ho altro da aggiungere. Quanto a Soldini, è presto detto. Quando, nel giugno del 2006, sono stato chiamato a dirigere il Riformista, Soldini come vice lo ho voluto io, non certo perché era il portavoce di Veltroni in Campidoglio, e nemmeno solo perché è mio amico da una vita (per un suo improrogabile impegno, tanti anni fa, anticipai persino la data del mio matrimonio…), ma soprattutto perché era (è) un eccellente professionista, con alle spalle una carriera importante in Italia e fuori (Berlino, Bruxelles), desideroso anche lui, prima di andare in pensione, di fare un’esperienza nuova in un giornale “diverso” come questo. Pensavo che avrebbe potuto darmi una mano importante, in una redazione giovane, e a me sostanzialmente sconosciuta, nel primo anno di direzione: lo ha fatto benissimo, e gliene sono grato.
Quattro mesi fa Soldini non è stato affatto epurato per motivi inconfessabili. Il suo contratto da vicedirettore era in scadenza, e Soldini non mi ha mai chiesto di rinnovarlo, ma ha trattato con l’editore, in pieno accordo con me, un diverso rapporto di lavoro con il giornale. Il nuovo contratto che ha firmato prevede che scriva (e scrive, nella più assoluta libertà, articoli importanti), piuttosto che lavorare, come suo dirsi, al “governo della macchina”. Io, che nel frattempo avevo nominato un nuovo vicedirettore, Massimiliano Gallo, un vicedirettore a pienissimo titolo, che non avrei mai indicato se non nutrissi nei suoi confronti la massima stima e la massima fiducia, avrei preferito che Soldini, oltre a scrivere, continuasse a dare il suo contributo, in forme ovviamente nuove, anche all’ideazione e all’organizzazione del giornale; e che il suo nome restasse nella gerenza. Non ho mancato di farlo presente più volte all’editore, che però alla fine ha deciso altrimenti, attenendosi a un’interpretazione letterale del nuovo contratto sottoscritto con Soldini. E io lo ho annunciato alla redazione manifestando il mio dissenso su questo punto. Tutto qui.
Mi scuso con i lettori se li ho annoiati ricostruendo per sommi capi il mio punto di vista su vicende che (almeno lo spero, o voglio sperarlo) sono tutte interne al Riformista. Ma, ripeto, ho sentito il dovere di farlo soprattutto per i rumours su di noi che, a partire da ricostruzioni imprecise di queste vicende, si sono moltiplicati sui giornali e in rete. I più sgradevoli non sono quelli che ipotizzano una mia imminente sostituzione: non ne ho alcun sentore, ma un direttore, come l’allenatore di una squadra di calcio, sa bene che una simile eventualità è sempre nell’ordine delle cose possibili. Molto più sgradevoli e, se fossero fondate, molto più preoccupanti (non solo per l’Arancione) sono alcune interpretazioni del perché, attorno a quel che capita in un piccolo giornale come il Riformista, si è d’improvviso creata tanta attenzione. Secondo le quali (cito Liberazione) «l’idea che dietro questo vociferare ci sia un Veltroni o più in generale un Partito democratico innervosito dal mancato allineamento del giornale forse non è poi così peregrina». Io non voglio credere che le cose stiano così, ma mi piacerebbe avere qualche motivo in più per esserne convinto. In ogni caso, almeno per quel che mi riguarda, nessun problema. Cercherò, per quanto so e posso, di fare un giornale della sinistra ancora meno allineato (e non solo nei confronti del Pd) e ancora più anticonformista. Per il resto, chi vivrà vedrà.
Aprile on line 5.10.07
Aspettando lo scrutinio
di Carla Ronga
Il referendum sul protocollo welfare, che tra l'8 e il 10 ottobre chiamerà a raccolta milioni di lavoratori e pensionati italiani, si avvicina e la discussione politica, anche nella sinistra, non si placa. L'intesa raggiunta in estate tra governo e parti sociali rappresenta il "pomo della discordia" dentro la maggioranza di governo. Intanto il fronte del no si mobilita e lancia il "precarity day"
Cosa accadrà il 12 ottobre, quando il Consiglio dei ministri tornerà a riunirsi per esaminare il pacchetto welfare sottoscritto con i sindacati? I ministri Paolo Ferrero (Prc), Fabio Mussi (Sinistra democratica), Alfonso Pecoraro Scanio (Verdi) e Alessandro Bianchi (Comunisti italiani) paleseranno il loro dissenso su parte della legge finanziaria? Gli occhi sono puntati soprattutto sul titolare del dicastero della Solidarietà sociale Ferrero, che già l'anno scorso espresse il proprio malumore non sottoscrivendo in prima battuta la legge finanziaria.
A influire sull'atteggiamento dei quattro ministri sarà l'andamento del referendum sindacale tra i lavoratori sulla bontà dell'accordo sottoscritto con il governo che si conclude il 10 ottobre.
Dopo le contestazioni dei lavoratori della Fiat di Mirafiori e l'annunciato sciopero degli statali e dei lavoratori della scuola per il prossimo 26 e 27 ottobre, l'esito del referendum è imprevedibile. E se il Sì appare scontato, è la percentuale dei No che può costituire un problema.
Qualora il dissenso dovesse oscillare tra il 20 e il 30 per cento, come segnala più di un sondaggio, Rifondazione e Pdci potrebbero ricavarne il giudizio che vale la pena rappresentare quei lavoratori che non si riconoscono nell'accordo. In questo caso, Ferrero e Bianchi non approverebbero quanto può emergere dal Consiglio dei ministri, rimandando al dibattito parlamentare la possibilità di modifiche della legge finanziaria, che per ora Prodi non sembra disposto a concedere, anche per pressione dell'ala moderata dell'Unione. Più sfumata è la posizione di Sinistra democratica e Verdi, che non hanno voluto interferire nelle scelte dei sindacati. "Da oggi fino al 10 ottobre la cosa più importante, rispetto al protocollo, è il giudizio che le lavoratrici, i lavoratori e i pensionati esprimeranno nelle 50.000 assemblee: di fronte a quel giudizio tutte le forze politiche della maggioranza dovranno assumere responsabilità", è la posizione espressa dalla capogruppo di SD, Titti Di Salvo, che non nasconde la preoccupazione sul passaggio nelle aule parlamentari, in primis al Senato: "Non rinunciamo ad immaginare un'azione realistica per migliorare l'accordo, ma siamo tutti esentati dal compiere qualsiasi azione che consenta ad altri di peggiorarlo".
Il Comitato politico nazionale di Rifondazione, che si è riunito per il fine settimana, deve discutere di questo scenario e del proprio congresso che dovrebbe essere fissato nel mese di marzo del 2008. Nonostante non ci sia un pieno accordo politico tra le quattro forze della sinistra sulle cose da fare e sull'atteggiamento da tenere nei confronti del governo Prodi, la scelta è quella di procedere comunque al varo di una federazione che possa presentarsi unita alle elezioni amministrative del 2008, con l'auspicio che i nodi politici possano nel frattempo sciogliersi.
Tra Prc, Pdci, Sinistra democratica e Verdi si è aperta anche una discussione sulla leadership che cela un problema di merito. Il nome di Nichi Vendola, attuale governatore della Puglia, inizia a circolare insistentemente come la novità che potrebbe favorire una maggiore competizione con il Partito democratico di Walter Veltroni. L'eccesso di continuismo di una federazione che congela le quattro formazioni politiche così come sono, anche se può rendere irreversibile la scelta della presentazione unitaria alle scadenze elettorali, non entusiasma quanti preferirebbero il varo di una vera e propria fase costituente di un nuovo soggetto politico.
Sulla strada della federazione o della costituente pesa quello che può accadere nei prossimi giorni sul fronte del governo.
Un atteggiamento non unitario tra le quattro forze politiche sulla legge finanziaria e sulla riforma del welfare potrebbe far saltare gli equilibri fin qui ricercati. I leader di Prc, Pdci, Sinistra democratica e Verdi hanno presentato un proprio promemoria alla vigilia dell'approvazione della legge finanziaria da parte del Consiglio dei ministri. Romano Prodi ha tenuto conto solo in parte delle loro richieste. E' soprattutto la parte relativa alla riforma del welfare, quella che riguarda l'accordo con Cgil, Cisl e Uil, che continua a non convincere Rifondazione e Pdci. I due partiti sono critici sia sull'elevamento processuale dell'età pensionabile e sulla defiscalizzazione degli straordinari, sia sulla non abolizione della Legge 30 sulla precarietà del lavoro. Anche se Rifondazione, la cui posizione iniziale era quella di un netto rifiuto dell'intesa, si sta ora concentrando sulla richiesta di modifica di alcuni punti critici.
Dall'altro polo dell'Unione, l'ala ultrariformista e più moderata - rappresentata dai radicali, dall'Udeur, e, soprattutto, dai Liberaldemocratici di Lamberto Dini -, intima al governo Prodi di non cambiare una virgola all'accordo stipulato a luglio, pena voto negativo in Senato.
E le parti sociali? Se si esclude il no all'accordo da parte della Fiom, nelle migliaia di assemblee aziendali e di fabbrica che precedono la consultazione referendaria, gli esponenti di Cgil, Cisl e Uil stanno portando avanti le ragioni dell'intesa. Al tempo stesso, Montezemolo ha accettato di buon grado la "sintesi" ( in realtà alquanto sbilanciata a favore della Confindustria) che governo e sindacati sono riusciti a trovare e ha dato il via libera all'accordo.
A questo punto è chiaramente determinante il risultato del referendum tra i lavoratori. I sindacati hanno parlato chiaro: se dalla consultazione arrivasse un largo consenso per l'intesa di luglio, allora il protocollo potrà essere solo leggermente modificato, e solo con l'accordo di tutte le parti sociali. "Se si userà il buon senso - ha detto il segretario della Cgil Guglielmo Epifani - potremo, forse, con il sì di coloro che l'hanno sottoscritto, rendere il protocollo ancora più efficace". Stesso ragionamento da parte del leader della Cisl Raffaele Bonanni: "Tutte le parti insieme possono fare quello che vogliono, rivedere alcuni punti. E' una parte da sola o anche due su tre che non possono fare niente". Da parte del governo, il ministro del Lavoro Cesare Damiano ha affermato più volte che c'è la disponibilità a ridiscutere alcuni singoli punti del protocollo, senza stravolgerne la sostanza.
Diversa la situazione se dalle fabbriche dovesse uscire un no, o anche un sì molto stretto. Nel primo caso, Epifani ha già assicurato che ritirerebbe la sua firma dall'accordo; le ripercussioni sul governo inoltre potrebbero essere molto violente, in quanto da sinistra arriverebbero richieste di modifica strutturali al protocollo, che difficilmente verrebbero accettate dalle forze moderate. Anche una risicata vittoria del sì, però, potrebbe non essere sufficiente a difendere la forza dell'accordo.
Le assemblee sul territorio proseguono, fornendo delle indicazioni abbastanza contrastanti. Dopo i mugugni del "fabbricone" di Mirafiori, alla Piaggio di Pontedera, la più grande azienda metalmeccanica toscana, la Fiom fa sapere che il no dei lavoratori all'accordo è "nettissimo". Diverse le reazioni in altre aziende, come per esempio all'Avio di Rivalta Torinese, dove l'assemblea ha ribadito il suo sostegno all'azione dei sindacati e del governo. Intanto è lo stesso Bonanni ad affermare che "nelle fabbriche il sì all'accordo sul welfare è in fortissimo recupero, lo ammettono anche coloro che sono per il no".
Ma proprio dalle fila del "no" si moltiplicano in questi giorni le iniziative. Mentre i sindacati vanno nelle fabbriche e fanno votare operai e lavoratori, il movimento contro la precarietà apre la sua consultazione autogestita sul protocollo sul welfare: seggi in tutta Italia per far votare "gli invisibili - dicono i promotori - quelli senza tutele e senza prospettive" e si affidano ad un sito internet (www.consultazioneprecaria.org). Il tutto sotto l'occhio attento di San Precario la cui effige è un po' il simbolo del movimento che vigilerà anche sul "precarity day" del 9 ottobre, quando il movimento "uscirà" dal mondo virtuale per occupare in decine di città contemporaneamente le agenzie di lavoro interinale. Il giorno clou della rivolta è però fissato per il 12 ottobre, con una manifestazione per ricordare a Prodi e al suo governo che aveva promesso la cancellazione della legge 30 (dopo l'infortunio di Francesco Caruso nessuno la chiama più legge Biagi) e mettergli sotto il naso il risultato del referendum.
Le firme sotto l'appello a dire no al protocollo vanno dai centri sociali alle associazioni di immigrati, dai Cobas alla Rete 28 aprile della Cgil, quella di Giorgio Cremaschi, e i giovani di Rifondazione comunista.
Corriere della Sera 8.10.07
Moravia: una religione chiamata comunismo
Perché un intellettuale borghese decise di sposare la teoria rivoluzionaria
di Alberto Moravia
Appena finita la guerra si verificarono nella mia vita due avvenimenti importanti. Il primo fu che mi iscrissi al Partito comunista. Immagino che ogni uomo agisca per motivi al tempo stesso interessati e disinteressati, personali e impersonali. I motivi disinteressati della mia iscrizione al Partito (lo chiamerò d'ora in poi così senza aggiungere la parola comunista, per noi comunisti il Partito comunista è il partito, senza più) non differiscono granché da quelli di tanti che in quel periodo fecero lo stesso passo (...)
Parlare di questi motivi disinteressati mi sembra inutile, perché io qui intraprendo di raccontare una storia molto personale che mi permetterà di definirmi di fronte a me stesso e agli altri e i motivi disinteressati, appunto perché tali, non hanno mai definito nessuno e sono sempre stati invece patrimonio comune di tutti gli uomini. Mi basti dunque affermare che mi iscrissi al partito in perfetta buona fede, con sufficiente entusiasmo sentimentale e buona conoscenza dottrinaria.
Quanto ai motivi interessati essi furono parecchi ed esaminandoli mi accorgo che tutti più o meno mi riconducono a Maurizio e ai miei rapporti con Maurizio. Ma andiamo per ordine, la materia è ricca e in un certo modo strana e nuova, senza un criterio di scelta secondo importanza non mi riuscirà mai di dipanarla. Dunque, cominciando dal principio, tra le tante cose che Maurizio ogni tanto mi rinfacciava nella sua maniera accondiscendente e sarcastica era il mio carattere, diceva lui, di intellettuale.
Spesso, gli avveniva di dirmi «Voialtri intellettuali », oppure «tu che sei quello che volgarmente si chiama un intellettuale»; oppure ancora «non sei che un intellettuale». Debbo dire a questo punto che non ci sarebbe stato bisogno di Maurizio per farmi odiare la parola intellettuale. Essa, un po' come la parola «borghese» e tante altre, si è deteriorata col tempo, si è caricata di significati negativi che prima non aveva: oggi è quasi un insulto e non c'è persona che sentendosela affibbiare non provi l'impulso di protestare. Ma ciò che mi dispiaceva era che fosse proprio lui a dirmelo, lui per il quale, irragionevolmente, provavo tanta attrazione, che stimavo tanto non meno irragionevolmente e di cui insomma volevo diventare amico. D'altra parte, mi rendevo conto che sia pure in maniera sfavorevole e maligna, Maurizio diceva in fondo la verità: io ero, senza ombra di dubbio, quello che si chiama di solito un intellettuale. Ossia una persona colta ma povera e perciò incapace di far della cultura un mero ornamento e passatempo, costretto per campare a fare il critico cinematografico in un giornale di terz'ordine, a tradurre libri gialli, a scrivere articoli di varietà, in fondo ozioso seppure attivo, eternamente disoccupato seppure occupatissimo.
Ma non basta, anche nel fisico, come egli mi fece notare più volte, ero un perfetto tipo di intellettuale: piuttosto piccolo di statura, arruffato nei capelli, occhialuto, vestito di maglioni sportivi in luogo di camicia, le tasche piene di carte, i pantaloni sfrangiati, le scarpe infangate. Ero dunque un intellettuale in tutto e per tutto e sapevo di esserlo. Perché allora sentirmelo dire da Maurizio mi offendeva tanto?
Ho già accennato che la parola intellettuale è di per sé ormai ingiuriosa; aggiungerò che mi sentivo anche ferito dal fatto che Maurizio, adoperandola, mostrasse di non aver dubbi sul vero esser mio, di avermi classificato per sempre, una volta per tutte. In altri termini, agli occhi suoi, io non riserbavo più sorprese, ero un intellettuale, e qualunque cosa facessi non avrei potuto mai comportarmi che da intellettuale. Mancavo insomma di quella libertà che permette un margine di autonomia e di imprevisto nei rapporti umani e consente di farli uscire dalla mortificante rotaia dei meccanismi e delle abitudini. Questo ancor più che il senso ingiurioso della parola intellettuale mi feriva; e suppongo che tra i motivi interessati della mia iscrizione al partito comunista ci fosse anche quello di essere in grado di dirgli: «Tu mi credevi un intellettuale... ed ecco invece che mi sono iscritto al partito... sono un comunista... che ne dici?».
Mi verrà osservato a questo punto che farsi comunista non è la sola alternativa all'essere un intellettuale. Se avessi voluto cambiare, infatti, avrei potuto egualmente diventare, che so io, impiegato, esploratore, operaio, aviatore. È vero; ma non bisogna dimenticare che nel contegno di Maurizio verso di me, in quella sua accondiscendenza sprezzante e puntigliosa, c'entrava per molta parte un complesso, come si dice, di superiorità di chiara origine sociale: lui era ricco e io povero, lui di famiglia nota e potente, io di oscura piccola borghesia, lui elegante ben vestito mondano, io malvestito, oscuro, goffo. Senza confessarmelo forse, io mi feci comunista anche per trovarmi in una posizione accusatoria e superiore di fronte a Maurizio, anche per potergli dire: «Non soltanto non sono un intellettuale come tu dicevi, ma sono anche qualcuno che può dirti in faccia, che ha il diritto di dirti in faccia che sei condannato, che appartieni a una classe condannata, che tutti i tuoi soldi, la tua mondanità, la tua eleganza, le tue arie non ti salveranno il giorno del giudizio e che questo giorno è prossimo e che in questo giorno tu sarai pesato sulla bilancia e sarai trovato mancante e sarai buttato via tra i rifiuti, come una spazzatura». Queste cose non tanto le pensavo quanto le sentivo, con estrema vivacità, mescolate, però, sempre a quell'eterna e irragionevole attrazione che Maurizio esercitava sopra di me. Comunque questo è certamente il secondo motivo per cui mi iscrissi al partito, dico il secondo motivo personale e interessato.
Veniamo al terzo e ultimo motivo. Questo motivo, connesso con gli altri due, fu che io sentivo effettivamente di non essere abbastanza forte di fronte a Maurizio. Forte, intendo, come presenza fisica, visto che moralmente mi ritenevo molto superiore a lui. Questa presenza fisica, non potevo evidentemente crearmela: anche alzandomi in punta di piedi o gonfiando il petto non potevo diventare più alto e più robusto di quanto non fossi. (...) *** Per intendere il significato del mio incontro con Maurizio, voglio qui ripetere con enfasi che in quel tempo io ero assolutamente sicuro che una rivoluzione comunista si sarebbe prodotta al più presto in Italia; sicuro come sono adesso sicuro di scrivere queste parole. Mi pareva impossibile che le condizioni di disordine, di miseria, di corruzione e di disgregamento sociale italiane di quegli anni del dopoguerra non dovessero sboccare in una rivoluzione; non dubitavo che appena finita l'occupazione alleata, la rivoluzione sarebbe scoppiata spazzando via ogni ostacolo. Ma ancor più delle condizioni in cui si trovava il paese in quel tempo, mi sentivo portato a ritenere imminente la rivoluzione dal sentimento che custodivo in fondo al mio animo e che consideravo, tra tante passioni contraddittorie, tanta impotenza e tanta oscurità, la sola cosa ferma e luminosa della mia vita. Questo sentimento consisteva nella speranza ineffabile, rapita, quasi mistica dell'avvento di un mondo migliore in cui io stesso mi sarei sentito migliore e finalmente in pace con me stesso. (...) Immagino che sentimenti simili portino nelle persone più semplici all'esaltazione religiosa; o che portassero in altri tempi a tale esaltazione anche gli uomini di cultura. Ma io non ero una persona semplice, ero, come diceva ironicamente Maurizio, un intellettuale; inoltre non vivevo nel medioevo bensì in pieno ventesimo secolo. Il comunismo di cui conoscevo e avevo studiato le teorie mi pareva allora dare a quel miraggio tutto l'aspetto di un piano quasi di ingegnere che con calcoli matematici e ipotesi fondate sopra esperienze e valori indiscutibili e concreti si proponga in un futuro prossimo di erigere un certo edificio. Nelle mie riflessioni diuturne avevo voltato e rivoltato per tutti i sensi le teorie comuniste; e sempre più mi ero meravigliato di vedere quanto combaciassero esattamente l'entusiasmo e il calcolo, la psicologia e la statistica, la teoria e la pratica, la storia e l'utopia, i mezzi e il fine. Mi sembrava la teoria comunista un congegno meravigliosamente ben architettato, in cui i fattori morali e umani sposavano perfettamente bene quelli materiali e scientifici. Mi dicevo dunque che in un secolo come il nostro, così legato al progresso scientifico, la teoria comunista, a fondo religioso né più né meno del cristianesimo, aveva però su quest'ultimo la superiorità di esprimersi con il linguaggio del tempo che non era appunto religioso ma scientifico. Essa insomma ripresentava al mondo il vecchio sogno di una palingenesi totale, ma possibile questa volta se era vero, come mi pareva che fosse vero, che la scienza era appunto il mezzo finalmente scoperto con il quale l'uomo poteva rinnovarsi dall'imo.
Repubblica 8.10.07
Franco Giordano, segretario del partito: non cerco la rottura
"Resta il no del Prc ma l’accordo si troverà"
di Umberto Rosso
Penso che ci siano le condizioni per un'intesa, soprattutto sul tema della precarietà. Se non ce la facciamo in Consiglio dei ministri, le modifiche possiamo farle in Parlamento
ROMA - Segretario Giordano, tutte le previsioni della vigilia danno una larga affermazione del sì al referendum.
«Non faccio alcun pronostico, ho troppo rispetto per la forma partecipativa che è stata scelta, un esempio straordinario di democrazia diretta. Mi piacerebbe che fosse introdotto anche per i contratti di lavoro. Servirebbe una legge sulla rappresentanza sindacale, per evitare che la democrazia si fermi sull´uscio delle fabbriche».
Ma se i lavoratori approvano il protocollo, come farà Rifondazione ad andare avanti nella battaglia per cambiarlo?
«È evidente che il risultato va interpretato. Va ascoltato il malessere che sale dalle grandi fabbriche, dal pubblico impiego, da tutta la grande area del lavoro dipendente. C´è l´autonomia del sindacato, ma c´è anche l´autonomia politica, la possibilità di migliorare l´accordo in Parlamento».
I sindacati però si ritroverebbero di fronte un testo diverso da quello sottoscritto con il governo.
«Ecco il punto. Io credo che si tratti di miglioramenti condivisibili. E mi pare che si stia delineando proprio questa ipotesi. Penso che ci siano le condizioni per un´intesa, soprattutto sul tema della precarietà».
Le pare possibile nella riunione del Consiglio dei ministri del 12 ottobre?
«Se il governo non arriva con delle modifiche, non saremo in grado di garantire un voto positivo».
Diranno no tutti e quattro i ministri della Cosa rossa?
«Io parlo da segretario di Rifondazione comunista».
Una bella botta comunque per Prodi. E le conseguenze sul governo?
«Non cerchiamo e non vogliamo la rottura. Se non ce la facciamo in Consiglio dei ministri, le modifiche possiamo farle in Parlamento».
Dini, i socialisti, Mastella hanno già messo in guardia: se la sinistra presenta emendamenti, lo facciamo anche noi. Una guerra che in Senato può inguaiare Prodi.
«Non possiamo tacere perché qualcuno pensa di usare strumentalmente il confronto. Sarebbe meglio, certo, un´intesa preventiva. Ma, se così non sarà, l´intransigenza non è venuta da noi».
E da chi?
«Dalla Confindustria per esempio che, dopo aver incassato una montagna di aiuti, si muove ormai con un esagerato ruolo di soggetto politico. Spero che non sia Montezemolo a dettare al governo la riforma elettorale. La partita si gioca proprio adesso».
Quale partita?
«Per ridimensionare il ruolo di Confindustria. Sulla riduzione delle tasse, come dice anche il sindacato, non dobbiamo intervenire sulle imprese ma sul lavoro dipendente. Attraverso il recupero del fiscal drag e anche la detassazione degli aumenti contrattuali».
Una novità, quest'ultima richiesta, per il Prc.
«Sarebbe una spinta alla chiusura dei contratti, oltre a garantire aumenti contrattuali più alti».
Repubblica 8.10.07
Vita artificiale, accuse a Venter. I vescovi: "Pensa di essere Dio"
Cromosoma riprodotto, oggi l'annuncio negli Usa
di Elena Dusi
A San Diego sarà illustrato l'esperimento L'Avvenire: "Vuole mettersi in concorrenza con il Padre Eterno?"
ROMA - Dopo aver seminato sorpresa, Craig Venter raccoglie scetticismo. Lo scienziato americano che sabato ha annunciato "sto creando la prima forma di vita artificiale", ieri si è ritirato nel suo silenzio a godere gli effetti del sensazionale annuncio. I pochi dettagli della sua ricerca - rivelati al quotidiano britannico Guardian - verranno forse precisati oggi, giornata di inaugurazione della conferenza "Genomes, medicine and the environment" a San Diego. Nel frattempo alla suo portavoce Heather Kowalski è stato affidato il tentativo di marcia indietro: «Il Guardian ha anticipato i tempi. Non abbiamo realizzato ciò che ci hanno attribuito in materia di vita sintetica. Quando lo faremo, pubblicheremo la notizia su una rivista scientifica».
Il John Craig Venter Institute organizza ogni anno il simposio di San Diego, sponsorizzato da una decina di aziende farmaceutiche e ditte di biotecnologia. Stamattina nella sala Paradiso è previsto il discorso di Venter. Dalla sua bocca si attende qualche dettaglio in più sul batterio nato in laboratorio. Subito dopo prenderà la parola il Nobel per la medicina Hamilton Smith - braccio destro di Venter ed esecutore materiale dell´esperimento - per descrivere gli studi sulla "Cellula minima". Il microrganismo con il Dna artificiale è stato studiato infatti per avere un numero minimo di geni: solo quelli strettamente indispensabili alla vita. Piccolo e maneggevole, a questo batterio essenziale potrà essere aggiunto ogni gene desiderabile. Da quello che fa produrre al microrganismo carburanti puliti (idrogeno per esempio) a quello che gli ordina di sintetizzare un principio attivo utile in farmacologia o di digerire sostanze inquinanti come arsenico o anidride carbonica.
«Noi ricercatori siamo abituati a leggere notizie simili sulle riviste scientifiche, non sulle pagine dei quotidiani. Sento odore di autopromozione» commenta Roberto Defez, biotecnologo del Cnr. L´editoriale del quotidiano Avvenire da un lato saluta con favore le applicazioni di questa ricerca ("Sarebbe sciocco non augurarci di raggiungere certi traguardi. Ben vengano fonti alternative di energia e farmaci meno costosi"). Dall´altro si mostra infastidito dai toni dei due scienziati che parlano oggi a San Diego. «Quando è stato chiesto a Hamilton se stessero giocando a essere Dio - prosegue il quotidiano della Cei - Smith ha risposto: "Ma noi non stiamo giocando". E Venter stesso dice di impersonare la parte di Dio. Non si capisce perché il tono debba essere quello di chi si mette in concorrenza con il Padre Eterno».
Pierluigi Luisi, docente di biochimica all´università Roma Tre, dirige un progetto di ricerca sul genoma minimo per alcuni versi simile a quello di Venter. Non è affatto sorpreso dall´intervista del Guardian: «Sei mesi fa, in un congresso, Smith ha raccontato qualche dettaglio sul progetto. Penso che sia una dimostrazione di grande bravura tecnica, ma dal punto di vista concettuale questo esperimento non aggiunge nulla alla scienza». Giovanni Murtas, altro protagonista del nuovo filone della "biologia sintetica" a Roma Tre, spiega qual è il procedimento più probabile seguito nel laboratorio di Venter. «Del batterio Mycoplasma genitalium hanno prima di tutto sequenziato il genoma, leggendolo "lettera per lettera". Poi hanno eliminato i frammenti di Dna a loro parere non essenziali alla vita, passando da 517 a 381 geni. A quel punto non ha fatto altro che ricopiare le sequenze delle "lettere" del Dna con degli strumenti molto avanzati dal punto di vista tecnologico, sintetizzando il nuovo Dna».
Neanche sul sito web di Richard Dawkins, il biologo americano più ateo che ci sia, i commenti dei lettori sono particolarmente favorevoli al criptico annuncio di Venter. Accennando all´ansia da brevetto dello scienziato, un lettore che si fa chiamare Baeoz ironizza: «Venter sta per ricevere una lettera di protesta dall´avvocato di Dio per violazione del copyright».