WELFARE/ BERTINOTTI: VOTO LAVORATORI, ANALIZZARE DISSENSI E DISAGI
Fatto di democrazia, rispetto per maggioranza ma..
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Aprile on line 8.10.07
Il peso dell'etica sulla scienza
conversazione con Carlo Flamigni di Emma Berti
Mario Capecchi, biofisico che lavora negli Stati Uniti, ha vinto il Premio Nobel per la medicina con altri due ricercatori grazie al suo lavoro sulle cellule staminali embrionali, ottenendo risultati che difficilmente avrebbe potuto conseguire in Italia. Ne abbiamo parlato con Carlo Flamigni, membro del Comitato Nazionale di Bioetica
Mario Capecchi, biofisico nato a Verona e trasferitosi a sette anni negli Stati Uniti, dove lavora, ha vinto il Premio Nobel per la medicina. Il riconoscimento è stato assegnato ad un team di tre scienziati (Oliver Smithies, Martin Evans e Capecchi) grazie al loro lavoro sulle cellule staminali embrionali, che attraverso la tecnica del gene targeting, ha permesso di ottenere cambiamenti nel patrimonio genetico delle cavie da laboratorio.
Si tratta di un passo avanti notevole, che potrebbe essere sfruttato anche nel campo della medicina clinica: attraverso questa tecnologia è possibile costruire modelli di qualsiasi malattia genetica umana, studiarne l'evoluzione e l'efficacia delle potenziali terapie. Si potrebbero quindi correggere geni endogeni nel tessuto umano.
Noi abbiamo parlato con Carlo Flamigni, membro del Comitato Nazionale di Bioetica.
Cosa pensa di questo Premio Nobel?
E' un premio nobel che va ad un'avventura con grandi probabilità di essere positiva, poiché ci dà delle possibilità e delle speranze molto concrete per poterci occupare di problemi finora insolubili.
Può spiegarci quali sono questi problemi?
Partiamo dalle cellule staminali: sono cellule che si dividono in due parti, una uguale alla prima, l'altra parzialmente o completamente differenziata. La prima è in qualche modo una cellula eterna, l'altra rinuncia all'eternità per diventare una cellula lavoratrice. Le cellule staminali sono poi divisibili in base alla loro potenza, e le più potenti sono quelle embrionali. Noi abitualmente le prendiamo dagli embrioni, per la precisione dalla massa cellulare interna dei blastociti. Sono in grado di fare tutto: un embrione, un essere umano, ma non la placenta (ricavabile solo da embrioni a quattro, otto cellule - morule - , ma nascerebbe un problema morale perché un blastomero di una morula è capace di diventare un individuo).
Le cellule staminali esistono anche nel cordone ombelicale, nel liquido amniotico, nel testicolo, nei tessuti, in tante altre parti, ma sono teoricamente meno potenti, e tutte le volte che le ricerche sulle cellule adulte hanno dato qualche frutto, non si è poi riusciti a ripetere l'intervento o ad avere gli stessi risultati.
Ma gli studi paralleli delle cellule staminali embrionali e delle cellule adulte si confidano continuamente dei segreti, e questo crea il problema della complicità. Per cui, se anche domani si dovesse arrivare a risultati straordinari grazie agli studi sulle cellule adulte, che sono quelle che vanno bene anche ai cattolici, nascerebbe il problema della cooperatio ad malum: ovvero, avendo ottenuto quel risultato, quel farmaco, quella cura anche attraverso ricerche inaccettabili sul piano morale, questi non si potrebbero usare. Dal momento in cui la contaminazione della ricerca è effettiva e quotidiana, ci si chiede se abbia senso continuare la polemica sull'abbandono della ricerca sulle embrionali e la continuazione di quella sulle staminali adulte. Bisogna far capire l'importanza fondamentale, indispensabile delle informazioni ottenibili attraverso gli studi sulle prime e la sollecitazione scientifica che questi permettono.
In Italia i problemi sollevati da ricerche di questo tipo sono soprattutto etici, ma esiste anche il problema della mancanza di fondi.
A proposito di fondi, ultimamente sono venute fuori informazioni poco comprensibili su una specie di potestà che ha il Ministro della Salute di affidare grandi quantità di denaro per scopi di ricerca all'Istituto Superiore della Sanità, il quale, senza concorso né valutazioni qualitative, sceglie la persona a cui affidare questa somma. E guarda caso, i ricercatori che si occupano, tra le altre cose, di cellule staminali, e che hanno dimostrato interesse e fatto richiesta, sono rimaste incomprensibilmente fuori.
In Italia questi ricercatori non solo vengono puniti moralmente, parlando di loro come di persone eticamente scorrette, ma vengono colpiti direttamente nel campo di lavoro, danneggiando le loro ricerche. Ci sono molte lettere indirizzate all'ISS, in cui si chiede in base a quali norme, a quali consuetudini possono avvenire cose del genere, ma non è ancora arrivata nessuna risposta.
E' possibile trovare un modo per emarginare la questione morale?
Negli Stati Uniti ci sono moltissimi modelli sperimentali che dovrebbero consentire di bypassare in qualche modo il problema, ma fino ad ora non hanno trovato applicazione. In quel paese i maggiori investimenti si fanno proprio sulle cellule staminali embrionali, perché garantiscono risultati più sicuri, maggiori conquiste nel campo delle acquisizioni di informazioni scientifiche. Ma in Italia persino l'idea di usare cellule staminali embrionali prodotte altrove è stata considerata peccaminosa, e alcuni dei nostri parlamentari, sbagliando, hanno detto che questa operazione era proibita.
Restando in Italia, la Legge 40 sulla procreazione assistita prevede che gli embrioni in soprannumero, anziché essere destinati alla ricerca, vengano congelati, ma non se ne specifica l'utilizzo. Non sarebbe più plausibile, se non sensata, una regolamentazione invece del ricorso a un vero e proprio veto alla ricerca?
Noi stiamo cercando di elaborare un documento che permetta (non per questi embrioni, per i quali non si riesce a trovare una luce nella legge, che andrebbe modificata per consentirne l'utilizzo)di utilizzare a fini scientifici gli embrioni anomali, che al momento vengono lasciati morire nel brodo colturale. Il Comitato Nazionale di Bioetica, sul piano degli embrioni abbandonati e congelati, ha auspicato che questi vengano utilizzati per la vita. Ma adottarli per farli nascere significa poter garantire ai genitori che non presentano anomalie, il che implica un problema: noi non abbiamo linee guida, ma quelle americane pongono molte limitazioni al caso.
Secondo lei, ora che c'è di mezzo un Nobel, si placheranno le polemiche che criminalizzano queste ricerche? Cambierà qualcosa?
Non credo. Dobbiamo renderci conto che in Italia c'è una grande novità, anche se non assoluta: l'attuale pontefice, tra i tanti modi per sostenere la verità della propria fede ha scelto quello più duro. Ha affermato che di verità ce n'è una sola e che lui ne è il portatore e il simbolo. L'etica della verità è molto dispendiosa e molto conflittuale, e soprattutto non si ferma mai. C'è una specie di crescendo che comincia con il non possumus, che va avanti con la definizione delle altre religioni come sette, che affronta temi come arte e scienza dicendo che senza fede e religione diventano degli accompagnatori ignobili della parte peggiore dell'uomo. Insomma, io credo che sia un crescendo che una volta iniziato non promette nulla di buono, e che non sia facilmente ostacolabile, almeno non nei tempi brevi.
Poi c'è un altro problema fondamentale nel nostro paese: la Chiesa si prende lo spazio che i politici le lasciano, e i nostri politici le lasciano tutto lo spazio che possono, spaventati dall'eventualità di essere considerati anticlericali, di perdere voti, di diventare impopolari. Io credo che ci siano problemi di dignità e di laicità che dovrebbero proibire ai politici comportamenti così disdicevoli.
La questione etica pesa più nel nostro Paese che altrove perché abbiamo il Vaticano?
Si, infatti Cavour avrebbe dovuto dire "libera chiesa in libero stato, possibilmente confinante", ma purtroppo si è dimenticato di aggiungere quest'ultimo particolare.
Quindi la sua ricetta è far passare la ricerca per la laicità dello stato?
Si, io ho girato molto, in sedi di partito da Pordenone e Messina. E ovunque quando iniziavo a parlare di bioetica la gente mi chiedeva di parlare di laicità. Secondo me il senso dell'importanza dello stato laico c'è, la gente vuole sentirne parlare e vuole capire il perché del tradimento operato dalle persone a cui ci affidiamo. Le persone che ci conducono politicamente ci tradiscono, fanno finta di niente, non ascoltano, sono disattente, hanno la sindrome dell'accettazione.
Ma è anche vero che la nostra gente, quando il suo segretario di partito dice qualcosa, lo segue. Bisogna vedere per quanto tempo e fino a che punto, anche perché non è chiaro dove tutto questo ci stia portando. E io non credo ci porti dalla parte giusta.
Non si rischia di confondere l'etica con la religione?
Certo, ma non solo. Laicità vuol dire non dare particolare valore a nessuna ideologia, nessuna religione, nessuna confessione, ma tutelarle e proteggerle tutte allo stesso modo. E vuol dire anche non dare niente alle istituzioni che si sono costruite senza democrazia, come Opus Dei e massoneria. Uno Stato che legifera in relazione al favore che può dare un'ideologia particolare è uno stato disonesto. Questo lo diceva Abbagnano, un grande filosofo, non lo dico io.
Insomma, non vede prospettive rosee..
No, sono pessimista, lo dico da tempo. D'altra parte avevo espresso opinione contraria anche rispetto al referendum, avevo detto che secondo me ci avrebbe portato in un budello chiuso.
A questo punto conto molto sul fatto che gli attuali politici passino a "miglior vita". Nel senso che vincano tutti al totocalcio (anche se forse non ne hanno bisogno) e che passino i loro ultimi cinquant'anni nelle isole del Pacifico. Sarebbe una vita decisamente migliore.
l’Unità 9.10.07
Da bambino di strada a scienziato
di Pietro Greco
Aveva quattro anni quando venne abbandonato, mentre sua mamma era prigioniera a Dachau
Quella di Mario Capecchi non è, tecnicamente, la storia di un «cervello in fuga». Perché l’italiano che ieri ha vinto il premio Nobel per la medicina ha studiato in America fin dalle elementari ed è, quindi, a tutti gli effetti un «cervello americano». Tuttavia il biologo è nato a Verona, nel 1937. Ed è, piuttosto, un «italiano in fuga».
La sua storia ci dice molto sul passato (e del presente) del nostro Paese. Mario è frutto di una breve relazione tra una poetessa americana, Lucy Ramberg, e un pilota italiano, Luciano. La famiglia Ramberg frequenta da tempo l’Italia (la nonna americana di Mario è sepolta ad Assisi) e Lucy partecipa dalla vita culturale italiana.
A Bolzano fa parte di un gruppo di artisti, i Bohemiens, per nulla accomodanti col nazismo. E così la donna, nel 1941, viene arrestata dalla Gestapo e deportata a Dachau. Aveva appena fatto in tempo a vendere tutto e ad affidare figlio e averi a una famiglia di contadini. In sei mesi i soldi svaniscono e Mario viene abbandonato per strada: ha quattro anni.
Nei cinque anni successivi vaga per le città del Nord Italia con bande di bambini che si arrangiano per sopravvivere, un po’ mendicando un po’ rubacchiando. Lucy, intanto, sopravvive alla deportazione e - a guerra finita - ritorna in Italia a cercare suo figlio. Lo trova solo nel 1947 in un ospedale di Reggio Emilia. Mario stenta a riconoscere la madre, ma infine la famigliola è riunita. E pronta ad abbandonare il paese che l’ha divisa e che, ora, offre loro ben poche speranze. Lucy torna in America. Mario, «italiano in fuga», ha nove anni e può, finalmente, iniziare i suoi studi. Che sessant’anni dopo lo porteranno a Stoccolma (la cerimonia ufficiale di premiazione è prevista per dicembre) per ricevere il massimo premio cui uno scienziato possa ambire.
Mario Capecchi ha ottenuto lo scorso 12 maggio 2007 la laurea honoris causa in Biotecnologie mediche dall’università di Bologna, su proposta del professor Giovanni Romeo. E nella città emiliana torna di frequente, per tenere i suoi apprezzati corsi di genetica medica presso la Scuola Europea di Medicina Genetica (ESGM) che Romeo organizza ogni primavera a Bertinoro di Romagna.
Proprio Giovanni Romeo ha ricostruito la storia del piccolo Mario nella laudatio tenuta in occasione del conferimento della laurea ad honorem a Capecchi. Il quale a sua volta l’aveva tratteggiata in un’intervista concessa alla rivista scientifica inglese Nature nel 2004 intitolata Dagli stracci alla ricerca.
Mario Capecchi ha avuto come maestro un altro italiano - lui sì «cervello in fuga» - Salvatore Luria, laureato a Torino, discepolo di Giuseppe Levi, emigrato negli Usa per sfuggire alle leggi razziali fasciste e vincitore del Premio Nobel per ricerche effettuate in America.
La loro storia ci ricorda quanto ha perso l’Italia e quanto ha perso l’Europa a causa del nazifascismo. «La mia speranza - ha dichiarato ieri Capecchi - è che il premio che mi è stato dato stimoli l’Italia a investire di più in ricerca scientifica».
l’Unità 9.10.07
Rizzo denuncia: ci sono dei brogli. Bonanni: bufale
Prima un battibecco, poi un crescendo di botta e risposta: Marco Rizzo, eurodeputato dei Comunisti Italiani, ha denunciato ieri notte nel corso della trasmissione Porta a Porta presunti brogli nella consultazione referendaria sul welfare, e immediata si scatena l’ira del segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, che definisce «gratuite» le accuse. Fotografia e documenti alla mano, Rizzo sostiene che nella giornata di ieri ci sono stati lavoratori che hanno votato più di una volta: «Se è vero - sostiene - è uno schiaffo ai sindacati e non a Marco Rizzo, che è un comunista».
In collegamento telefonico, Bonanni ribatte: «La politica deve stare lontana dal referendum sul welfare, perché questa attenzione sta creando spaccature in alcuni posti che stanno ledendo i lavoratori». Il leader della Cisl, muove dure accuse all’esponente dei comunisti italiani che, dice, «a consultazioni aperte decidere di dare una bufala con questo racconto. Ma così facendo lede l’interesse dei lavoratori». Sarcastico, poi, Bonanni aggiunge: «Chiameremo i rappresentanti dell’Onu per garantire la sicurezza e la correttezza del voto».
Nella giornata di sabato ad Empoli è apparsa una scritta all’ingresso della sede della Camera del lavoro - «Cgil, comitato garanzia imprenditori ladroni» - accompagnata dal disegno della stella a cinque punte. Sull’accaduto indagano gli agenti del commissariato di Empoli e la digos di Firenze. Ferma la condanna del gesto da parte del mondo politico.
Repubblica 9.10.07
Welfare, buona affluenza al voto
Scatta il referendum, il Pdci denuncia brogli. Prodi ottimista sull´intesa
Buona affluenza per i sindacati Epifani: "Bella giornata per il Paese"
di Luisa Grion
ROMA - Fiato sospeso sul Welfare: da ieri mattina nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro di tutta Italia si vota per dire «sì» o «no» al pacchetto Damiano su precariato, ammortizzatori sociali e previdenza. Le consultazioni si chiuderanno domani pomeriggio alle 14 e - a detta dei sindacati - già verso le 17 arriveranno i dati dei primi exit poll. La complessa partita, dunque, è del tutto aperta e resterà tale fino alla pubblicazione dei risultati finali del referendum che arriveranno giusto in tempo per il dibattito al Consiglio dei ministri di venerdì.
E lì, infatti, che - se dal referendum non dovesse risultare un «sì» forte e pieno - inizieranno le trattative su come e dove rivedere le norme. Certo è che il pacchetto approderà sul tavolo dei ministri così com´è - lo ha confermato lo stesso Damiano - e che ad attenderlo ci sarà un fronte non compatto.
I ministri Mussi e Ferrero hanno infatti già dichiarato il loro dissenso. «La parte sul lavoro non la voto» ha detto il ministro dell´Università, che però ha anche previsto come il referendum «lo vincerà il sì con una certa quantità di no». Il che vorrà dire, ha precisato «che il testo non andrà stravolto», «ma migliorarlo a favore dei lavoratori - ha aggiunto - non è mica una bestemmia».
Un polemica decisa arriva anche dal ministro Ferrero: «C´è un terremoto nella società che dice così non funziona, questo non ci piace. Spero che il governo ascolti i lavoratori e la società».
Due «no» sono quindi annunciati, ma in realtà il futuro del Protocollo e gli spazi di mediazione sono appesi agli esiti del referendum e alle percentuali più o meno pesanti che si potranno ottenere. Il premier Prodi è ottimista. «Mi dicono che l´affluenza è buona è questa è una buona notizia. Spero in un risultato positivo: la consultazione è un fatto importante». Si sbilancia il presidente della Camera Fausto Bertinotti che spiega come gli sembri «evidente una vittoria del sì». «Ho una qualche esperienza sindacale per poter fare una previsione che non teme smentite» ha detto.
Il ministro Damiano, anche lui convinto che «andrà bene», ricorda comunque che il Parlamento è sovrano e apre le porte a possibili aggiustamenti (su lavori usuranti e contratti a termine), ma avverte che «con troppe modifiche si rischia di far saltare l´equilibrio sociale».
Tutti tesi sul voto, dunque, al quale i sindacati sperano che partecipino 5 milioni di lavoratori. Ore nervose sulle quali già aleggia una denuncia di brogli. Marco Rizzo, Pdci, assicura che «in troppi casi è stato possibile votare più volte, senza esibire documento alcuno e senza registrare il proprio nome». E racconta il caso di una lavoratrice che in provincia di Taranto ha votato tre volte, nelle tre sedi di Cgil, Cisl e Uil. Il sindacato respinge le accuse: «Si vede che Rizzo si è già accorto di aver perso e agita fantasmi e manipolazioni su quello che è un libero voto» ha detto Nino Sorgi, segretario organizzativo Cisl.
Quanto alla affluenza alle urne, per i sindacati «i dati sono positivi»: la Uil prevede che oltre il 70 per cento del lavoratori risponda all´appello e che si superi, quindi, le presenze registrate alle urne quando si votò sulla riforma Dini (66 per cento). Ma c´è anche chi, l´SdL ad esempio, parla di "partecipazione scarsissima". Guglielmo Epifani ha parlato di «bella giornata per il sindacato, per i lavoratori e per il Paese».
Repubblica 9.10.07
Che Guevara. Il mito indistruttibile di un fanatico della rivoluzione
di Carlos Franqui
Quarant'anni fa veniva ucciso in Bolivia l'uomo che con Castro aveva guidato la rivolta cubana
L'ho conosciuto nel luglio del '56 e per l'ultima volta l'ho visto a Parigi nel '65
Rovinò Cuba con riforme di tipo sovietico e la centralizzazione dell'economia
Oggi all'Avana è diventato un eroe per turisti che si disputano T-shirt e altri souvenir
Conobbi Ernesto Guevara nel luglio del 1956, quando mi trovavo in prigione insieme a Castro e ai futuri protagonisti della spedizione del Granma, nella prigione messicana Miguel Schultz, e lo vidi per l´ultima volta nell´aprile del 1965, a Parigi. Il nostro fu un rapporto conflittuale che durò nove anni. Ci dicevamo molte verità scomode, ma entrambi sapevano che l´altro non sarebbe andato a raccontarle a Fidel o alla Seguridad. La prima discussione fu riguardo a Stalin, e le ultime parola che gli sentii dire furono: «Con Fidel, né matrimonio né divorzio», in una conferenza a Parigi, alla Mutualité.
Quarant´anni dopo la sua fine, in Bolivia, Guevara continua a essere un mito consumistico, senza che nessuno analizzi le sue azioni e le sue parole, e senza che nessuno metta in pratica le sue teorie e i suoi atti. Se Ernesto "Che" Guevara potesse sentire tutto questo dalla tomba, che nessuno sa dove si trovi con esattezza, maledirebbe questa falsa mitologia.
Castro ha una sola ideologia, il potere; Guevara era un rivoluzionario fanatico, del genere di Lenin, Trotskij o Mao. Dal 1956 al 1963, fu un filosovietico esaltato, che rovinò Cuba con l´acquisto di fabbriche e attrezzature che non servivano, con la centralizzazione dell´economia, la soppressione della contabilità delle imprese, il lavoro volontario e i campi di punizione. Nel 1963-1964, scoprì e affermò che l´Unione Sovietica non era quella che credeva lui. Ruppe con l´Urss nel 1964 ad Algeri, litigò con i partiti comunisti ed entrò in conflitto con Castro, illudendosi che Fidel lo avrebbe appoggiato nel suo illusorio progetto di diventare il leader della rivoluzione mondiale, con i suoi «due o tre Vietnam», secondo il messaggio che lanciò alla riunione della Ospaal (Organizzazione di solidarietà dei popoli dell´Africa, Asia e America Latina), nel 1966.
Guevara giudicava «borghesi» tutti i rivoluzionari che non la pensavano come lui, elogiava i contadini ma sosteneva che bisognava farla finita con loro, perché erano una classe antirivoluzionaria; quel fanatismo lo portò a fucilare 55 militari batistiani alla Cabaña, alcuni colpevoli di crimini e altri no. Per Castro, la realtà è se stesso; Guevara vedeva la realtà così come era, e risolveva il conflitto ricorrendo a un nuovo dogma. Se si conoscono le fucilazioni simboliche della Sierra Maestra, nel 1957, è perché fu lui stesso a renderle pubbliche nel suo libro Passaggi della guerra rivoluzionaria. Se nella guerriglia a volte fuggì, e altre volte diede prova di coraggio, lo rese pubblico nella sua cronaca «della paura e del valore». Nonostante il suo fanatismo, aveva coscienza delle sue azioni: per questo parla del primo soldato che uccise sulla Sierra giudicandolo una vittima del sistema.
Nel suo libro La guerra di guerriglia, contraddice la teoria leninista che afferma che «non esiste rivoluzione senza movimento rivoluzionario», scrivendo che «la guerriglia è la madre e la generatrice della rivoluzione». Il Che si proclamava marxista indipendente, ma alcune sue affermazioni non hanno niente di marxista. Neruda racconta: «Avevo visto all´Avana sacchi di sabbia disseminati in punti strategici; parlavamo di una possibile invasione americana, e lui d´improvviso disse: "La guerra, la guerra, siamo sempre contro la guerra, ma quando l´abbiamo fatta non riusciamo a vivere senza. A ogni istante, vogliamo ricominciare"». Lui stesso racconta al presidente egiziano Nasser che con la conquista del potere la rivoluzione si burocratizza, e allora si fa una nuova rivoluzione.
Nessuno, tranne Castro, ha avuto tanto potere a Cuba come quello di cui ha goduto il Che Guevara tra il 1959 e il 1963, e dunque è lui che porta la responsabilità del primo grande fallimento della rivoluzione cubana. Ma che cosa direbbe Che Guevara, mito turistico a Cuba, della vendita di magliette e tutto il resto, lui tanto austero e rigido, e nemico dei privilegi, che direbbe dell´attuale corruzione della cupola e dell´apparato del potere, dell´apartheid turistico, economico e medico? La rovina della Cuba attuale è la negazione del pensiero e delle azioni di Guevara.
Se ci fu qualcuno che cercò di convincere il Che che la rivoluzione cubana non dovette il suo trionfo all´avanguardia guerrigliera, ma all´azione clandestina e all´appoggio finale della popolazione, e che non si poteva confondere avanguardia e movimento, quello fui io.
L´abbandono di Castro e quella falsa teoria sono i principali responsabili della sua morte e del suo fallimento in Bolivia. Leggete il suo diario, pubblicato in Italia da Feltrinelli, e vedrete che Guevara scrive che si erano persi i contatti con Manila (Castro, L´Avana), mentre migliaia di guerriglieri latinoamericani addestrati sull´isola aspettavano di essere inviati a dargli rinforzo, ordine che non arrivò mai.
Anni dopo la morte del Che, centinaia di migliaia di soldati cubani furono inviati a combattere in Africa, là dove Guevara fu abbandonato la prima volta. Castro lo abbandonò e lo lasciò morire perché la rivoluzione mondiale era solo per lui, e non per Guevara. Quelli che adesso si riempiono la bocca del mito guevariano, perché non incolpano della morte del Che il grande colpevole, quello che lo mandò laggiù e lo lasciò morire solo?
Riporto alcune frasi di Guevara scritte di suo pugno e pubblicate in numerosi testi e libri.
«Qualcosa funziona male in Unione Sovietica, nel suo sistema, e non si può dire che sia a causa di calamità naturali (…), che ha a che vedere con l´organizzazione dei kolchoz, la decentralizzazione, l´autogestione finanziaria o gli stimoli materiali, con la scarsa attenzione dedicata allo sviluppo degli stimoli morali».
«L´odio come fattore di lotta, l´odio intransigente per il nemico, che spinge più in là delle leggi naturali dell´essere umano, e lo trasforma in un´efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere. Un popolo senza odio non può trionfare su un nemico brutale».
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Repubblica 9.10.07
Dalla visita a Togliatti nel 1964 a icona pop
Il guerrigliero a Montecitorio
di Filippo Ceccarelli
Varcò la soglia del palazzo con una grossa Mauser brunita in vista alla cintola
Lo conobbero anche Ingrao, a cui non piacque, e Nicolini
«Alto, bello, in divisa militare verde oliva, il Guerrigliero apparve nel vano della porta barocca del palazzo che Innocenzo III aveva destinato alla curia papale».
Forse non tutti sanno che, una mattina, Ernesto Che Guevara varcò la soglia di Montecitorio. «Portava alla cintola, bene in vista, una grossa Mauser brunita, che gli aveva causato una discussione con il maresciallo dei carabinieri di guardia alla Camera dei deputati, accanto al gran valletto in polpe, marsina e mazza dal pomo dorato, che si chiamava Salvo Berté». Era un giorno dell´aprile del 1964, e il prezioso ricordo si deve a Massimo Caprara (Quando le Botteghe erano oscure, il Saggiatore, 1997), che a quel tempo era deputato del Pci, nonché dirigente di fiducia di Palmiro Togliatti.
E proprio da Togliatti, al terzo piano, Caprara condusse il Che di passaggio a Roma, non senza avergli fatto visitare il palazzo, compreso il corridoio dei busti, rispetto ai quali il Guerrigliero mostrò un evidente disinteresse che non si interruppe nemmeno di fronte al marmo di Garibaldi. Fu piuttosto incuriosito sul perché a Roma la gente non giocasse a scacchi per strada.
Sono ormai pochissimi, in Italia, quelli che hanno conosciuto di persona il Che. Uno è Pietro Ingrao, che lo incontrò a Cuba. Quattro ore di colloquio serrato, ma senza restare convinto dal personaggio: «Mi sembrava che sottovalutasse l´occidente - ha raccontato a Nicola Tranfaglia (Le cose impossibili, Editori riuniti, 1990) e lo vedesse tutto strettamente subalterno all´imperialismo e al capitalismo».
Un altro che assistette dal vivo a una performance del Che, una specie di disquisizione su un murales raffigurante un rivoluzionario che impugnava un fucile americano, è Renato Nicolini, spedito all´Avana per un raduno di studenti d´architettura che si concluse con l´approvazione di un ordine del giorno che diceva: «Dovere degli studenti di architettura è di combattere l´imperialismo».
La sua testimonianza si trova in un´opera collettiva che poi è il primo libro curato dal giovane Walter Veltroni, Il sogno degli anni ‘60 (Savelli, 1981). Alla fine del volume alcuni degli autori accettarono di rispondere a un questionario su libri, dischi e programmi preferiti. C´era anche la richiesta - veltronianissima - di indicare quali fossero state i giorni più tristi, le peggiori notizie del decennio, e ben sette risposero: «La morte del Che».
Quando uscì quel libro, il culto di Che Guevara si era già più che affermato, travalicando i confini della politica e ponendosi decisamente nel solco della cultura popolare. La figura apollinea che Togliatti aveva fatto accomodare sul divano di pelle rossa di Montecitorio era divenuta ormai da più di un decennio la classica icona pop.
Era stato Giangiacomo Feltrinelli, come racconta il figlio Carlo nel suo Senior Service (Feltrinelli, 1999), a farsi dare dal fotografo Alberto Korda i negativi della famosissima foto con il basco: «Che in the sky with jacket». C´era vento, quel giorno, e il ritratto prese corpo durante un funerale. Lo scatto della Leica di Korda consentì la più compiuta e potente sopravvivenza di Guevara in dimensione visiva, idolatrica, per certi versi anche spettrale, comunque efficacissima. Sui muri, sulle magliette, sugli adesivi, perfino in tribunale: «A Milano - ha scritto il trotzkista Livio Maitan (La strada percorsa, Massari, 2002) - mi è capitato di assistere a una causa di operai dell´Alfa in cui il giudice stesso si era preoccupato che ci fosse nell´aula, sia pure in effigie, la "querida presencia" del Comandante Che Guevara».
Meno noto è che tale «amata presenza» fosse condivisa dall´estrema destra e che quel ritratto campeggiava, accanto a una croce celtica stilizzata, all´ingresso del «Dioniso», noto ritrovo romano di sessantottini neri. «Addio Che», secondo Luciano Lanna e Filippo Rossi (Fascisti immaginari, Vallecchi, 2003) s´intitola una canzone che Pier Francesco Pingitore compose per Gabriella Ferri per i dischi del Bagaglino. Cavaliere solitario o liberatore di oppressi, l´Italia ideologica se lo prese senza troppe distinzioni. Quella post-ideologica di Jovanotti pure - anche a rischio di metterlo al fianco di madre Teresa di Calcutta.
Repubblica Firenze 9.10.07
Il pm Pietroiusti ricorre contro l'assoluzione del senatore di An Achille Totaro e di 5 suoi colleghi di partito
"Contro Fanciullacci non fu critica politica"
L’accusa era quella di aver diffamato il partigiano definendolo "vigliacco assassino"
Il senatore di An Achille Totaro non esercitò il diritto di critica politica quando definì un «vigliacco assassino» Bruno Fanciullacci, medaglia d´oro della Resistenza. Lo sostiene il pm Angela Pietroiusti, che ha presentato appello contro la assoluzione di Achille Totaro e di cinque suoi colleghi di partito dall´accusa di diffamazione della memoria del giovane partigiano, che morì il 17 luglio 1944. Dopo essere stato atrocemente torturato si gettò da una finestra di Villa Triste, pur di non tradire i suoi compagni.
Quella di Totaro - secondo il pm - fu una campagna denigratoria che non può essere considerata una libera manifestazione del pensiero tutelata dall´articolo 21 della Costituzione. Ciò perché il senatore non si limitò a criticare, anche duramente, come era suo diritto, l´uccisione del filosofo Giovanni Gentile, che fu colpito a morte il 15 aprile 1944, mentre rientrava a casa senza scorta e disarmato, da un gruppo di partigiani comunisti guidati da Fanciullacci. Quello di Totaro fu - sostiene il pm - un attacco diretto a colpire l´intera figura morale del giovane combattente della Resistenza. Ciò è dimostrato dal fatto, secondo il pm, che tutti gli imputati hanno spiegato che non conoscevano la storia di quel periodo di guerra né la figura di Fanciullacci. Dunque il loro fu un attacco alla persona, del tutto scollegato dal contesto di guerra.
Il pm Pietroiusti contesta che Totaro e i suoi compagni intendessero portare un contributo scientifico alla conoscenza del drammatico periodo storico in cui si colloca il delitto Gentile, quando a Firenze comandavano i tedeschi e i fascisti di Salò, il fronte avanzava e infuriava la guerra partigiana. L´attacco a Fanciullacci aveva soltanto - a suo giudizio - una finalità di strumentalizzazione politica. E quelle parole «vigliacco» e «assassino» sono soltanto offese che niente hanno a che vedere con i giudizi anche durissimi espressi dagli storici sul delitto Gentile. Perché - come ha detto più volte la Cassazione - il diritto di critica storica impone una approfondita indagine degli avvenimenti e un linguaggio corretto. E i giudizi, anche duramente critici, non possono comunque coinvolgere l´intera personalità del soggetto.
(f.s.)
Corriere della Sera Roma 9.10.07
La Sapienza. D'oro e d'argento le due opere del 2.300 a.C. riportate alla luce dalla missione archeologica romana
Ebla, il ritorno delle due regine
Paolo Matthiae scopre, durante gli scavi in Siria, due preziose statuette
di Paolo Brogi
Due regine, in oro e argento, sono riemerse dalle rosse terre di Ebla, in Siria, dove in oltre quarant'anni di scavi la missione archeologica dell'università di Roma la Sapienza guidata da Paolo Matthiae sta riportando alla luce la lontana e sconosciuta civiltà fiorita tra il 2400 e il 1600 a.C. Due preziose statuette in miniatura riaccendono i riflettori su Tell Mardikh, nella Siria settentrionale, e dopo la recente scoperta del grande Tempio della Roccia costituiscono il nuovo evento scientifico dell'importante e fortunata campagna di scavi di Ebla.
Il raro ritrovamento è avvenuto nel corso dell'ultima campagna archeologica, la 44ª, durante la quale sono proseguiti i lavori all'interno del grande tempio scoperto tre anni fa ed è stata affrontata anche una zona della Reggia che finora era stata poco investigata.
Lì, in un magazzino reale a ridosso degli Archivi amministrativi in cui trent'anni fa furono trovate le 17 mila tavolette cuneiformi che hanno permesso di decifrare l'antichissima lingua eblaita, giacevano interrate e pressoché intatte le due statuette di personaggi femminili, due regine.
Una in argento, l'altra in oro, la prima in piedi, l'altra seduta, una di fronte all'altra, probabilmente l'ultima regina di Ebla alla vigilia della prima distruzione della città nel 2300 in raccoglimento davanti alla regina madre divinizzata. Nelle tavolette si ripetono molti nomi di sovrane. Ma quello più ricorrente, nell'ultimo periodo del 2300 a.C., è Dusigu.
Splendida è soprattutto la regina madre, con un grande mantello in lana arricciata, la novità di un'acconciatura particolarissima con fasce di tessuto incrociate, la coppetta di diaspro in mano come in un banchetto rituale funerario. Con lei, a Tell Mardikh, per la prima volta è riaffiorato l'oro di Ebla.
«Facevano parte di un gruppo statuario che comprende anche un incensiere di bronzo che abbiamo ritrovato tra le due statuette - spiega Matthiae -. Il tutto poteva essere la sommità di uno stendardo o di un'insegna regale. Re e regine defunti erano divinizzati ad Ebla, come protettori della società dei vivi ed erano oggetto di culto assiduo, come abbiamo riscontrato nei testi degli archivi».
Nella stessa sala del Palazzo Reale dove sono state trovate le due statuette è stato scoperto infine anche uno splendido sigillo cilindrico di un alto dignitario dell'età degli Archivi, il cui nome è ripetutamente menzionato nei testi stessi degli Archivi.
Questo sigillo, che era decorato da due capsule d'oro di cui si è conservato solo il rivestimento dell'interno, presenta i tipici temi della lotta tra esseri mitici e animali selvaggi, tra i quali compaiono anche le figure di un re e di una regina, che sono probabilmente altri due antenati regali divinizzati.
il manifesto 8.10.07
Giustizia: la sinistra che riempie le prigioni
di Patrizio Gonnella (Presidente dell'Associazione Antigone)
Nelle prigioni italiane ci sono oggi poco più di 46 mila detenuti. Un numero di poco inferiore agli abitanti di Rieti e di poco superiore a quelli di Biella. 46 mila persone non sono un problema di risorse, siano essi i detenuti italiani o il totale dei reatini o dei biellesi.
La tutela della loro salute è solo un problema di organizzazione, di volontà politica, di scelte normative. Nel 1999 l’allora ministro della Salute Rosy Bindi dette avvio alla riforma della medicina penitenziaria sino ad allora alle dipendenze strette del ministero della Giustizia. Previde che strumenti, soldi e medici dovessero passare al servizio sanitario nazionale.
Resistenze, negligenze, inadempienze si sono protratte per otto anni, impedendo il buon esito della riforma. Ora si attende il primo gennaio 2008, data che dovrebbe segnare il fatidico passaggio di competenze. Così il medico potrà ragionare da medico, operare da medico, obiettare come fa un medico. Risponderà del suo lavoro ad un altro medico. Potrà assomigliare più al medico di fiducia che a un poliziotto vestito di bianco. La salute dei detenuti rischierà in tal modo di essere meno succube di reali o fittizie esigenze di sicurezza.
Resta infatti tra le pagine tragiche dell’amministrazione della giustizia quella dell’infermeria di Bolzaneto con medici, poliziotti e generali tutti insieme a organizzare su larga scala trattamenti che la magistratura non ha esitato a definire inumani o degradanti. Eppure la tortura non è stata ancora elevata a rango di reato. Inutilmente sono passati vent’anni da quando l’Italia si era impegnata a farlo in seno alle Nazioni Unite.
Il diritto alla salute in carcere si protegge con adeguati interventi diagnostici e terapeutici. Si protegge anche con misure e azioni preventive. L’affollamento e l’assenza di riservatezza, l’ozio forzato e la noia, il distacco sociale e affettivo da parenti e amici, la sessualità negata sono l’origine del disagio psichico che colpisce percentuali elevatissime di detenuti, curati e neutralizzati a suon di psicofarmaci. Nel frattempo sui media si continua a chiedere sicurezza, più galera per i tossicodipendenti, per i rumeni, per i clienti delle prostitute, per i vagabondi, per i lavavetri.
Il prossimo 12 ottobre va in Consiglio dei ministri il pacchetto sicurezza targato Giuliano Amato. Un pacchetto sicurezza che, se le indiscrezioni saranno confermate, ammazzerà definitivamente ogni potenzialità riformatrice che c’era dietro il provvedimento di indulto. La sinistra si sta rinchiudendo in un orribile cul de sac. La criminalizzazione della miseria porterà in galera nuove decine di migliaia di persone. Tutto questo sta avvenendo senza che nessuno reagisca. La Chiesa è tutta impegnata sul fronte dell’antirelativismo etico, i mass media seminano paura, i partiti inseguono la Chiesa e i mass media. Per approssimazione si può dire che oggi più o meno un milione di persone sono impegnate attivamente nel terzo settore.
A quel milione di persone che - con contratti di solito precari - si occupano dei cosiddetti ultimi della società (quelli presi di mira dall’ordinanza Cioni e dal pacchetto Amato) oggi si deve chiedere di far sentire la loro voce, affinché si affranchino dal ricatto economico privato e pubblico e dicano con forza il loro no alla criminalizzazione delle povertà diffuse, loro che di povertà si occupano. Alle loro centrali cooperative chiediamo di riprendere a fare politica e di opporsi alla definitiva e drammatica trasformazione dello stato sociale in stato carcerario.
il manifesto 9.10.07
«Seminò coscienza nel mondo»: Fidel ricorda il Che
Il leader cubano celebra sul Granma «l'eccezionale combattente caduto un 8 ottobre di 40 anni fa», il «messaggero dell'internazionalismo militante» che «combatté con noi e per noi»
di Fidel Castro Ruz
Mi fermo un istante nella mia lotta quotidiana per chinare la testa, con rispetto e gratitudine, davanti all'eccezionale combattente che cadde un 8 ottobre di 40 anni fa. Per l'esempio che ci ha lasciato con la sua Columna invasora che attraversò il terreni pantanosi al sud delle antiche province di Oriente e Camagüey inseguito dalle forze nemiche, liberatore della città di Santa Clara, creatore del lavoro volontario, protagonista di onorevoli missioni politiche all'estero, messaggero dell' internazionalismo militante nell'est del Congo e in Bolivia, seminatore di coscienze nella nostra America e nel mondo. Lo ringrazio per quello che cercò di fare e non poté fare nel suo paese natale, perché fu come un fiore strappato prematuramente dal suo stelo.
Ci ha lasciato il suo stile inconfondibile di scrivere, con eleganza, brevità e sincerità, ogni dettaglio di quello che gli passava per la mente. Era un predestinato, ma non lo sapeva.
Combatté con noi e per noi.
Ieri si è compiuto il trentunesimo anniversario della strage dei passeggeri e del personale dell'equipaggio dell'aereo cubano fatto saltare in pieno volo ed entriamo nel decimo anniversario della crudele e ingiusta incarcerazione dei cinque eroi anti-terroristi cubani. Anche davanti a tutti loro chiniamo la testa. Con grande emozione ho visto e ascoltato in televisione l'atto commemorativo.
*Dal Granma del 7 ottobre
il Riformista 9.10.07
Rifondazione si sente più precaria di Prodi
di Stefano Cappellini
Stavolta può davvero accadere di tutto. Per Rifondazione comunista comincia una delle settimane più difficili della sua storia. E per il governo Prodi la sopravvivenza alla finanziaria dipende da una serie di passaggi sempre più stretti. Ricapitolando: il tavolo di trattativa tra governo e sinistra radicale ha prodotto dei compromessi graditi a entrambe le parti, per esempio sul tetto di lavoratori “usurati” che sfuggiranno ai nuovi limiti di pensionamento (c’è la disponibilità ad alzarlo oltre quota 7000 l’anno) e su alcune parti secondarie del Protocollo sul welfare. Bastano questi passi avanti a immaginare un accordo in vista del Consiglio dei ministri di venerdì? No. Lo ha annunciato ieri il ministro Paolo Ferrero. Lo ha confermato il ministro e leader di Sinistra democratica Fabio Mussi: «Sono pronto a votare no». Il problema è che, nonostante la volontà reciproca di non rompere, resta ancora una distanza incolmabile su un punto che Rifondazione, come il resto della Cosa rossa, considera irrinunciabile: la limitazione temporale dei contratti a termine. Le modifiche apportate in queste ore dal ministro del Lavoro Cesare Damiano al suo Protocollo sono buone per tenere calmi i sindacati, non la sinistra dell’Unione. Che aspetta fiduciosa di conoscere giovedì sera i dati disaggregati del referendum tra i lavoratori promosso dal sindacato. Nessun dubbio sulla vittoria dei sì. Ma se il responso tra i lavoratori attivi, insomma nelle fabbriche, premiasse fortemente il no, come spera Franco Giordano e ed è pronta a giurare la Fiom, Rifondazione porterà la battaglia fino in fondo, dando battaglia in Consiglio dei ministri e trasformando la manifestazione anti-precariato del 20 ottobre in un punto di non ritorno.
In realtà, una scappatoia concordata a mezza bocca tra governo e Cosa rossa per evitare la rottura ci sarebbe. Si tratterebbe di utilizzare l’iter parlamentare della legge di bilancio per colmare la distanza tra le parti, introducendo alcune modifiche e trovando un compromesso a metà strada. Alla Camera si potrebbe fare senza troppi problemi, come spiega il capogruppo Prc alla Camera Gennaro Migliore: «Credo che si possa trovare un accordo perché l’iter parlamentare è autorevole e assolutamente autonomo nelle sue scelte». Il problema è che al Senato, dove quasi certamente sulla finanziaria sarà posta la fiducia, la pattuglia diniana è pronta a sfilarsi davanti a una concessione del genere alla sinistra dell’Unione. E dalle parti di Giordano c’è chi ritiene che Prodi abbia stretto un patto con Dini, garantendogli la blindatura del provvedimento nelle sue parti essenziali. Chi ha parlato con Giordano in queste ore spiega che il partito non mollerà. «Possiamo anche accettare - spiegano gli uomini più vicini al segretario - di ingoiare il boccone amaro sulla previdenza, sulla quale non mancheremo comunque di alzare la voce, ma sul precariato ci giochiamo la faccia». Ma messa alle strette, e davanti all’impossibilità di ottenere soddisfazione, Rifondazione avrebbe davvero il coraggio di rompere? La risposta, si suggerisce al quartier generale di viale del Policlinico, stavolta potrebbe essere affermativa. Perché archiviata la sconfitta sul welfare, il Prc dovrebbe subito aggiungerci quella sulla legge elettorale, dove il blitz bipartisan alla Camera per votare un proporzionale alla tedesca, vecchio pallino bertinottiano, è già vicino al fallimento a causa dell’ostilità dei leader principali dei due schieramenti, Water Veltroni e Silvio Berlusconi. Dunque, si spiega nel Prc, «noi possiamo anche farci carico dell’ennesimo sacrificio e garantire altri mesi di vita a Prodi. Ma a quale scopo? Quello di andare a referendum sulla legge elettorale l’anno prossimo? Non possono chiederci anche di suicidarci».
IPAZIA, MARTIRE DEL FANATISMO CRISTIANO
Figlia di un celebre matematico del Museo dell'insegnamento di Alessandria d'Egitto, Teone, il cui Commentario all'Almagesto di Tolomeo viene considerato uno dei migliori lavori di astronomia della scuola alessandrina, Ipazia, nata intorno al 370, fu istruita dal padre nelle scienze esatte (specialmente astronomia e geometria), ma subì anche influenze teosofiche e occultistiche, in quanto frequentò la scuola neoplatonica di Alessandria.
A quel tempo ogni filosofo o scienziato alessandrino era un po' alchimista, in quanto i confini tra scienza e magia non erano rigorosamente tracciati. Non dimentichiamo che i greci avevano raccolto in Alessandria il sapere magico, mistico ed esoterico, andato poi distrutto, delle filosofie e religioni egizie e assiro-babilonesi.
Si devono a Ipazia e a suo padre le edizioni delle opere di Euclide, Archimede e Diofanto che presero la via dell'Oriente durante i secoli, e tornarono in Occidente in traduzione araba, dopo un millennio di rimozione.
Ed è noto anche il loro lavoro a proposito del “Sistema matematico” di Tolomeo, astronomo, matematico e geografo alessandrino del II sec. la cui teoria astronomica geocentrica restò in auge fino alla “rivoluzione copernicana” del XVI secolo.
Su di lei non vi sono dati sicuri, non essendoci rimasto alcuno scritto: sono citati solo tre titoli di tre opere di matematica e di astronomia: Commentario alla Aritmetica di Diofanto, Commentario al Canone astronomico e Commentario alle sezioni coniche d'Apollonio Pergeo, considerato il suo capolavoro All'insegnamento delle scienze esatte è certo che aggiunse quello della filosofia, commentando Platone, Aristotele e i filosofi maggiori.
Il suo discepolo più illustre fu Sinesio di Cirene, filosofo neoplatonico, poeta e oratore, che poi divenne, forse tradendo l'insegnamento di Ipazia, vescovo cristiano di Tolemaide. Dopo la morte di Ipazia egli cercherà di fondere le dottrine gnostiche con quelle neoplatoniche, senza tuttavia perdere mai di vista la fondamentale concezione platonica alla quale si attenne da vicino in due opuscoli: uno "sugli Egizi", dove espose in forma allegorica le condizioni della corte di Costantinopoli, l'altro "sui Sogni" in cui sostenne la possibilità di servirsi del sogno a scopo divinatorio.
Le coniche di Apollonio
Insegnava come Socrate per le strade e il prefetto romano Oreste si diceva che cercasse il suo consiglio nelle questioni di carattere pubblico e che addirittura fosse suo discepolo. Ipazia non teneva il suo sapere per sé, né lo condivideva soltanto con i suoi allievi. Al contrario, lo dispensava con grande liberalità a chiunque e per questo si conquistò grande considerazione fra i suoi concittadini. Ipazia insegnò ininterrottamente ad Alessandria per più di vent’anni.
Molto importante per la sua formazione culturale fu un viaggio compiuto ad Atene, ove si aggregò alla scuola teosofica di Plutarco.
Ipazia vedeva nel cristianesimo soprattutto il fanatismo e la violenza, in quanto il vescovo Teofilo aveva fatto distruggere, oltre a vari monumenti della civiltà greco-orientale, anche il famoso tempio di Serapide e l'annessa biblioteca.
Seguace di un sistema eclettico di filosofia, Ipazia può essere considerata come una gnostica che cercò di difendere la rinascita del platonismo contro il cristianesimo. I neoplatonici, che si diffusero dal III al V sec., volevano la fusione di tutte le chiese in un unico organismo a sfondo più filosofico che teologico, o se vogliamo più intellettuale che ecclesiale.
La scuola di Alessandria appartiene, stando alle fonti classiche, all’ultima grande corrente del neoplatonismo, fiorita tra la prima metà del V e la prima metà del VII secolo. La tendenza erudita, che aveva man mano acquistato rilevanza nelle scuole che la precedettero, era diventata qui prevalente, respingendo in secondo piano la speculazione prettamente metafisica. Il disinteresse per la costruzione della gerarchia emanatistica che era stata concepita nei suoi tre momenti della permanenza in sé, dell'uscita da sé e del ritorno in sé, aveva condotto all'abbandono di quel politeismo classico che in tale gerarchia era stato inquadrato, soprattutto ad opera della scuola siriaca.
In teoria le possibilità d'intesa col cristianesimo (ovvero con la scuola catechetica alessandrina) sembravano essere maggiore che altrove, ma proprio la sensazione che questa forma di neoplatonismo potesse costituire un'alternativa valida al cristianesimo, faceva dei cristiani i nemici più accesi, che mal digerivano peraltro l'accentuato interesse del neoplatonismo per le questioni di carattere scientifico.
Dopo la morte del vescovo Teofilo, la cattedra vescovile fu occupata, nel 412, da suo nipote Cirillo, di idee fondamentaliste, specie contro i novaziani e i giudei, e che venne subito in urto col prefetto romano Oreste.
Come noto il cristianesimo, che cessò d'essere perseguitato con l'editto di Costantino nel 313, diventando religione di stato con l'editto di Teodosio nel 380, iniziò a sua volta a perseguitare nel 392, quando furono distrutti i templi greci e bruciati i libri pagani.
Vari scritti del cristianesimo primitivo, quali l'Epistola agli Ebrei, quella attribuita a Barnaba, la Didachè, secondo molti storici proverebbero che in Alessandria c'era una spiccata tendenza della stessa chiesa ufficiale verso lo gnosticismo.
A questo tendenza intellettualistica aveva cercato di porre rimedio la scuola catechetica, ma la difesa non era stata condotta senza far gravi concessioni all'avversario, ammettendo, oltre all'interpretazione allegorica delle scritture, l'esistenza di una gnosi ortodossa, che rendeva perfetto chi la possedeva e l’innalzava al di sopra del semplice fedele.
Cirillo si trova nella difficile situazione di porre un argine alla scuola catechetica che intreccia rapporti sempre più stretti con i rappresentanti neoplatonici alessandrini e la necessità di dettare la formula della retta fede in Oriente, in virtù di quella tradizione dottrinale che gli derivava da Demetrio.
Ad Alessandria vi erano, allora, pagani e idolatri d'ogni culto, e cristiani di tutti gli scismi ed eresie, nonché una cospicua colonia di ebrei fatta oggetto di discriminazioni da parte dei cristiani. Gli ebrei, risentiti, si difesero e il patriarca Cirillo li cacciò dalla città saccheggiandone le sinagoghe.
Il prefetto Oreste fece arrestare un seguace di Cirillo, sottoponendolo a pubblica punizione, ma una folla cristiana, per rappresaglia, ferì il prefetto. A motivo di ciò l'attentatore, che era monaco, fu giustiziato e Cirillo ne fece l'elogio come fosse stato martirizzato.
Cirillo tentò di conciliarsi con Oreste, ma il tentativo fallì, forse anche a causa di Ipazia. Oreste invano sollecitava l'intervento dell'imperatore d'Oriente Teodosio II, il quale però era soggetto alla volontà della sorella Pulcheria, imperatrice di fatto e strettamente legata al cristianesimo di Cirillo.
Cirillo, che mal sopportava la predicazione pagana di Ipazia, divenuta ad Alessandria la rappresentante più qualificata della filosofia ellenica, si convinse che l'ostacolo maggiore alla risoluzione della controversia fosse proprio lei.
Pur non dando un espresso ordine, egli istigò il gruppo fanatico di monaci parabolani ed eremiti della Tebaide guidati da Pietro il Lettore a togliere di mezzo Ipazia. E così, dopo averla trascinata fino alla chiesa che prendeva il nome da Cesario, quasi volessero compiere una sorta di sacrificio umano, prima Pietro con una mazza ferrata, poi gli altri monaci con pugnali fatti di conchiglie, massacrarono il corpo di Ipazia e lo bruciarono. Era l'anno 415, il IV dell'episcopato di Cirillo.
Gli assassini rimasero impuniti. Oreste chiese un'inchiesta; Costantinopoli non poté non concederla, e mandò ad Alessandria un tale Edesio, il quale non fece nulla, poiché si lasciò corrompere da Cirillo. Oreste ottenne soltanto dei provvedimenti per arginare l'ingerenza politica dei vescovi nei poteri civili. Cirillo in seguito verrà addirittura santificato come esempio di sicura ortodossia.
Fu Damascio, filosofo neoplatonico (480/prima metà del sec.VI a.C.), quinto successore di Proclo nello scolarcato dell’Accademia, che per primo, nella Vita di Isidoro, incolpò Cirillo del delitto.
Nella Storia ecclesiastica dell'ariano Filostorgio, nato circa il 368 d.C. e dunque contemporaneo dei fatti narrati, si arriva a sostenere che l'assassinio non era opera di una amorfa folla fanatica, ma di quel clero cristiano che, ad Alessandria in modo particolare, voleva spadroneggiare su tutti.
In ogni caso, la partenza frettolosa, successivamente, di molti dotti, segnò l'inizio del declino di Alessandria come il più grande centro di erudizione antica.
Gli ultimi neoplatonici furono tolti di mezzo dall'imperatore Giustiniano, che chiuse la scuola platonica nel 529 d.C. Essi fuggirono in Persia presso Chosroe I, il quale era curioso di filosofia e garantì di professare liberamente il platonismo (531). Questo diritto fu addirittura sancito nel trattato di pace tra Giustiniano e Chosroe. E' degno di nota come, al crepuscolo ormai del pensiero greco, la libertà di filosofare venisse garantita ai Greci, contro il loro cristianissimo imperatore, dall'ultimo grande sovrano persiano, della dinastia dei Sassanidi.
Ipazia viene ricordata, ancora oggi, come la prima matematica della storia, anzi, fu la sola matematica per più di un millennio: per trovarne altre, da Maria Agnesi a Sophie Germain, bisognerà attendere il Settecento. Ipazia fu anche l'inventrice dell'astrolabio, del planisfero e dell'idroscopio.
Fonti su Ipazia - Cirillo di Alessandria
Sinesio di Cirene, Epistolario, Milano 1969.
Sinesio di Cirene, Il Regno, Milano 1970.
Gemma Beretta, Ipazia d'Alessandria, Editori Riuniti
Augusto Franchetti (a cura di), Roma al femminile, ed. Laterza
Q. Bigoni "Ipazia alessandrina" in Atti Istituto Veneto K. Prachter "Filosofia dei greci"
"Il Teurgo" settembre-ottobre 1985
G. Quiriconi, Notizia storico-critica su Ipazia e Sinesio, Milano 1978.
A. Agabiti, Ipazia, Ragusa 1979.
G. Bigoni, Ipazia alessandrina. Studio storico, Venezia 1887.
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