martedì 9 ottobre 2007

Apcom 8.10.07
WELFARE/ BERTINOTTI: VOTO LAVORATORI, ANALIZZARE DISSENSI E DISAGI
Fatto di democrazia, rispetto per maggioranza ma..
qui

Aprile on line 8.10.07
Il peso dell'etica sulla scienza
conversazione con Carlo Flamigni di Emma Berti


Mario Capecchi, biofisico che lavora negli Stati Uniti, ha vinto il Premio Nobel per la medicina con altri due ricercatori grazie al suo lavoro sulle cellule staminali embrionali, ottenendo risultati che difficilmente avrebbe potuto conseguire in Italia. Ne abbiamo parlato con Carlo Flamigni, membro del Comitato Nazionale di Bioetica

Mario Capecchi, biofisico nato a Verona e trasferitosi a sette anni negli Stati Uniti, dove lavora, ha vinto il Premio Nobel per la medicina. Il riconoscimento è stato assegnato ad un team di tre scienziati (Oliver Smithies, Martin Evans e Capecchi) grazie al loro lavoro sulle cellule staminali embrionali, che attraverso la tecnica del gene targeting, ha permesso di ottenere cambiamenti nel patrimonio genetico delle cavie da laboratorio.

Si tratta di un passo avanti notevole, che potrebbe essere sfruttato anche nel campo della medicina clinica: attraverso questa tecnologia è possibile costruire modelli di qualsiasi malattia genetica umana, studiarne l'evoluzione e l'efficacia delle potenziali terapie. Si potrebbero quindi correggere geni endogeni nel tessuto umano.

Noi abbiamo parlato con Carlo Flamigni, membro del Comitato Nazionale di Bioetica.

Cosa pensa di questo Premio Nobel?
E' un premio nobel che va ad un'avventura con grandi probabilità di essere positiva, poiché ci dà delle possibilità e delle speranze molto concrete per poterci occupare di problemi finora insolubili.

Può spiegarci quali sono questi problemi?
Partiamo dalle cellule staminali: sono cellule che si dividono in due parti, una uguale alla prima, l'altra parzialmente o completamente differenziata. La prima è in qualche modo una cellula eterna, l'altra rinuncia all'eternità per diventare una cellula lavoratrice. Le cellule staminali sono poi divisibili in base alla loro potenza, e le più potenti sono quelle embrionali. Noi abitualmente le prendiamo dagli embrioni, per la precisione dalla massa cellulare interna dei blastociti. Sono in grado di fare tutto: un embrione, un essere umano, ma non la placenta (ricavabile solo da embrioni a quattro, otto cellule - morule - , ma nascerebbe un problema morale perché un blastomero di una morula è capace di diventare un individuo).

Le cellule staminali esistono anche nel cordone ombelicale, nel liquido amniotico, nel testicolo, nei tessuti, in tante altre parti, ma sono teoricamente meno potenti, e tutte le volte che le ricerche sulle cellule adulte hanno dato qualche frutto, non si è poi riusciti a ripetere l'intervento o ad avere gli stessi risultati.

Ma gli studi paralleli delle cellule staminali embrionali e delle cellule adulte si confidano continuamente dei segreti, e questo crea il problema della complicità. Per cui, se anche domani si dovesse arrivare a risultati straordinari grazie agli studi sulle cellule adulte, che sono quelle che vanno bene anche ai cattolici, nascerebbe il problema della cooperatio ad malum: ovvero, avendo ottenuto quel risultato, quel farmaco, quella cura anche attraverso ricerche inaccettabili sul piano morale, questi non si potrebbero usare. Dal momento in cui la contaminazione della ricerca è effettiva e quotidiana, ci si chiede se abbia senso continuare la polemica sull'abbandono della ricerca sulle embrionali e la continuazione di quella sulle staminali adulte. Bisogna far capire l'importanza fondamentale, indispensabile delle informazioni ottenibili attraverso gli studi sulle prime e la sollecitazione scientifica che questi permettono.

In Italia i problemi sollevati da ricerche di questo tipo sono soprattutto etici, ma esiste anche il problema della mancanza di fondi.
A proposito di fondi, ultimamente sono venute fuori informazioni poco comprensibili su una specie di potestà che ha il Ministro della Salute di affidare grandi quantità di denaro per scopi di ricerca all'Istituto Superiore della Sanità, il quale, senza concorso né valutazioni qualitative, sceglie la persona a cui affidare questa somma. E guarda caso, i ricercatori che si occupano, tra le altre cose, di cellule staminali, e che hanno dimostrato interesse e fatto richiesta, sono rimaste incomprensibilmente fuori.

In Italia questi ricercatori non solo vengono puniti moralmente, parlando di loro come di persone eticamente scorrette, ma vengono colpiti direttamente nel campo di lavoro, danneggiando le loro ricerche. Ci sono molte lettere indirizzate all'ISS, in cui si chiede in base a quali norme, a quali consuetudini possono avvenire cose del genere, ma non è ancora arrivata nessuna risposta.

E' possibile trovare un modo per emarginare la questione morale?
Negli Stati Uniti ci sono moltissimi modelli sperimentali che dovrebbero consentire di bypassare in qualche modo il problema, ma fino ad ora non hanno trovato applicazione. In quel paese i maggiori investimenti si fanno proprio sulle cellule staminali embrionali, perché garantiscono risultati più sicuri, maggiori conquiste nel campo delle acquisizioni di informazioni scientifiche. Ma in Italia persino l'idea di usare cellule staminali embrionali prodotte altrove è stata considerata peccaminosa, e alcuni dei nostri parlamentari, sbagliando, hanno detto che questa operazione era proibita.

Restando in Italia, la Legge 40 sulla procreazione assistita prevede che gli embrioni in soprannumero, anziché essere destinati alla ricerca, vengano congelati, ma non se ne specifica l'utilizzo. Non sarebbe più plausibile, se non sensata, una regolamentazione invece del ricorso a un vero e proprio veto alla ricerca?
Noi stiamo cercando di elaborare un documento che permetta (non per questi embrioni, per i quali non si riesce a trovare una luce nella legge, che andrebbe modificata per consentirne l'utilizzo)di utilizzare a fini scientifici gli embrioni anomali, che al momento vengono lasciati morire nel brodo colturale. Il Comitato Nazionale di Bioetica, sul piano degli embrioni abbandonati e congelati, ha auspicato che questi vengano utilizzati per la vita. Ma adottarli per farli nascere significa poter garantire ai genitori che non presentano anomalie, il che implica un problema: noi non abbiamo linee guida, ma quelle americane pongono molte limitazioni al caso.

Secondo lei, ora che c'è di mezzo un Nobel, si placheranno le polemiche che criminalizzano queste ricerche? Cambierà qualcosa?
Non credo. Dobbiamo renderci conto che in Italia c'è una grande novità, anche se non assoluta: l'attuale pontefice, tra i tanti modi per sostenere la verità della propria fede ha scelto quello più duro. Ha affermato che di verità ce n'è una sola e che lui ne è il portatore e il simbolo. L'etica della verità è molto dispendiosa e molto conflittuale, e soprattutto non si ferma mai. C'è una specie di crescendo che comincia con il non possumus, che va avanti con la definizione delle altre religioni come sette, che affronta temi come arte e scienza dicendo che senza fede e religione diventano degli accompagnatori ignobili della parte peggiore dell'uomo. Insomma, io credo che sia un crescendo che una volta iniziato non promette nulla di buono, e che non sia facilmente ostacolabile, almeno non nei tempi brevi.

Poi c'è un altro problema fondamentale nel nostro paese: la Chiesa si prende lo spazio che i politici le lasciano, e i nostri politici le lasciano tutto lo spazio che possono, spaventati dall'eventualità di essere considerati anticlericali, di perdere voti, di diventare impopolari. Io credo che ci siano problemi di dignità e di laicità che dovrebbero proibire ai politici comportamenti così disdicevoli.

La questione etica pesa più nel nostro Paese che altrove perché abbiamo il Vaticano?
Si, infatti Cavour avrebbe dovuto dire "libera chiesa in libero stato, possibilmente confinante", ma purtroppo si è dimenticato di aggiungere quest'ultimo particolare.

Quindi la sua ricetta è far passare la ricerca per la laicità dello stato?
Si, io ho girato molto, in sedi di partito da Pordenone e Messina. E ovunque quando iniziavo a parlare di bioetica la gente mi chiedeva di parlare di laicità. Secondo me il senso dell'importanza dello stato laico c'è, la gente vuole sentirne parlare e vuole capire il perché del tradimento operato dalle persone a cui ci affidiamo. Le persone che ci conducono politicamente ci tradiscono, fanno finta di niente, non ascoltano, sono disattente, hanno la sindrome dell'accettazione.

Ma è anche vero che la nostra gente, quando il suo segretario di partito dice qualcosa, lo segue. Bisogna vedere per quanto tempo e fino a che punto, anche perché non è chiaro dove tutto questo ci stia portando. E io non credo ci porti dalla parte giusta.

Non si rischia di confondere l'etica con la religione?
Certo, ma non solo. Laicità vuol dire non dare particolare valore a nessuna ideologia, nessuna religione, nessuna confessione, ma tutelarle e proteggerle tutte allo stesso modo. E vuol dire anche non dare niente alle istituzioni che si sono costruite senza democrazia, come Opus Dei e massoneria. Uno Stato che legifera in relazione al favore che può dare un'ideologia particolare è uno stato disonesto. Questo lo diceva Abbagnano, un grande filosofo, non lo dico io.

Insomma, non vede prospettive rosee..
No, sono pessimista, lo dico da tempo. D'altra parte avevo espresso opinione contraria anche rispetto al referendum, avevo detto che secondo me ci avrebbe portato in un budello chiuso.
A questo punto conto molto sul fatto che gli attuali politici passino a "miglior vita". Nel senso che vincano tutti al totocalcio (anche se forse non ne hanno bisogno) e che passino i loro ultimi cinquant'anni nelle isole del Pacifico. Sarebbe una vita decisamente migliore.

l’Unità 9.10.07
Da bambino di strada a scienziato
di Pietro Greco


Aveva quattro anni quando venne abbandonato, mentre sua mamma era prigioniera a Dachau

Quella di Mario Capecchi non è, tecnicamente, la storia di un «cervello in fuga». Perché l’italiano che ieri ha vinto il premio Nobel per la medicina ha studiato in America fin dalle elementari ed è, quindi, a tutti gli effetti un «cervello americano». Tuttavia il biologo è nato a Verona, nel 1937. Ed è, piuttosto, un «italiano in fuga».
La sua storia ci dice molto sul passato (e del presente) del nostro Paese. Mario è frutto di una breve relazione tra una poetessa americana, Lucy Ramberg, e un pilota italiano, Luciano. La famiglia Ramberg frequenta da tempo l’Italia (la nonna americana di Mario è sepolta ad Assisi) e Lucy partecipa dalla vita culturale italiana.
A Bolzano fa parte di un gruppo di artisti, i Bohemiens, per nulla accomodanti col nazismo. E così la donna, nel 1941, viene arrestata dalla Gestapo e deportata a Dachau. Aveva appena fatto in tempo a vendere tutto e ad affidare figlio e averi a una famiglia di contadini. In sei mesi i soldi svaniscono e Mario viene abbandonato per strada: ha quattro anni.
Nei cinque anni successivi vaga per le città del Nord Italia con bande di bambini che si arrangiano per sopravvivere, un po’ mendicando un po’ rubacchiando. Lucy, intanto, sopravvive alla deportazione e - a guerra finita - ritorna in Italia a cercare suo figlio. Lo trova solo nel 1947 in un ospedale di Reggio Emilia. Mario stenta a riconoscere la madre, ma infine la famigliola è riunita. E pronta ad abbandonare il paese che l’ha divisa e che, ora, offre loro ben poche speranze. Lucy torna in America. Mario, «italiano in fuga», ha nove anni e può, finalmente, iniziare i suoi studi. Che sessant’anni dopo lo porteranno a Stoccolma (la cerimonia ufficiale di premiazione è prevista per dicembre) per ricevere il massimo premio cui uno scienziato possa ambire.
Mario Capecchi ha ottenuto lo scorso 12 maggio 2007 la laurea honoris causa in Biotecnologie mediche dall’università di Bologna, su proposta del professor Giovanni Romeo. E nella città emiliana torna di frequente, per tenere i suoi apprezzati corsi di genetica medica presso la Scuola Europea di Medicina Genetica (ESGM) che Romeo organizza ogni primavera a Bertinoro di Romagna.
Proprio Giovanni Romeo ha ricostruito la storia del piccolo Mario nella laudatio tenuta in occasione del conferimento della laurea ad honorem a Capecchi. Il quale a sua volta l’aveva tratteggiata in un’intervista concessa alla rivista scientifica inglese Nature nel 2004 intitolata Dagli stracci alla ricerca.
Mario Capecchi ha avuto come maestro un altro italiano - lui sì «cervello in fuga» - Salvatore Luria, laureato a Torino, discepolo di Giuseppe Levi, emigrato negli Usa per sfuggire alle leggi razziali fasciste e vincitore del Premio Nobel per ricerche effettuate in America.
La loro storia ci ricorda quanto ha perso l’Italia e quanto ha perso l’Europa a causa del nazifascismo. «La mia speranza - ha dichiarato ieri Capecchi - è che il premio che mi è stato dato stimoli l’Italia a investire di più in ricerca scientifica».

l’Unità 9.10.07
Rizzo denuncia: ci sono dei brogli. Bonanni: bufale


Prima un battibecco, poi un crescendo di botta e risposta: Marco Rizzo, eurodeputato dei Comunisti Italiani, ha denunciato ieri notte nel corso della trasmissione Porta a Porta presunti brogli nella consultazione referendaria sul welfare, e immediata si scatena l’ira del segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, che definisce «gratuite» le accuse. Fotografia e documenti alla mano, Rizzo sostiene che nella giornata di ieri ci sono stati lavoratori che hanno votato più di una volta: «Se è vero - sostiene - è uno schiaffo ai sindacati e non a Marco Rizzo, che è un comunista».
In collegamento telefonico, Bonanni ribatte: «La politica deve stare lontana dal referendum sul welfare, perché questa attenzione sta creando spaccature in alcuni posti che stanno ledendo i lavoratori». Il leader della Cisl, muove dure accuse all’esponente dei comunisti italiani che, dice, «a consultazioni aperte decidere di dare una bufala con questo racconto. Ma così facendo lede l’interesse dei lavoratori». Sarcastico, poi, Bonanni aggiunge: «Chiameremo i rappresentanti dell’Onu per garantire la sicurezza e la correttezza del voto».
Nella giornata di sabato ad Empoli è apparsa una scritta all’ingresso della sede della Camera del lavoro - «Cgil, comitato garanzia imprenditori ladroni» - accompagnata dal disegno della stella a cinque punte. Sull’accaduto indagano gli agenti del commissariato di Empoli e la digos di Firenze. Ferma la condanna del gesto da parte del mondo politico.

Repubblica 9.10.07
Welfare, buona affluenza al voto
Scatta il referendum, il Pdci denuncia brogli. Prodi ottimista sull´intesa
Buona affluenza per i sindacati Epifani: "Bella giornata per il Paese"
di Luisa Grion


ROMA - Fiato sospeso sul Welfare: da ieri mattina nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro di tutta Italia si vota per dire «sì» o «no» al pacchetto Damiano su precariato, ammortizzatori sociali e previdenza. Le consultazioni si chiuderanno domani pomeriggio alle 14 e - a detta dei sindacati - già verso le 17 arriveranno i dati dei primi exit poll. La complessa partita, dunque, è del tutto aperta e resterà tale fino alla pubblicazione dei risultati finali del referendum che arriveranno giusto in tempo per il dibattito al Consiglio dei ministri di venerdì.
E lì, infatti, che - se dal referendum non dovesse risultare un «sì» forte e pieno - inizieranno le trattative su come e dove rivedere le norme. Certo è che il pacchetto approderà sul tavolo dei ministri così com´è - lo ha confermato lo stesso Damiano - e che ad attenderlo ci sarà un fronte non compatto.
I ministri Mussi e Ferrero hanno infatti già dichiarato il loro dissenso. «La parte sul lavoro non la voto» ha detto il ministro dell´Università, che però ha anche previsto come il referendum «lo vincerà il sì con una certa quantità di no». Il che vorrà dire, ha precisato «che il testo non andrà stravolto», «ma migliorarlo a favore dei lavoratori - ha aggiunto - non è mica una bestemmia».
Un polemica decisa arriva anche dal ministro Ferrero: «C´è un terremoto nella società che dice così non funziona, questo non ci piace. Spero che il governo ascolti i lavoratori e la società».
Due «no» sono quindi annunciati, ma in realtà il futuro del Protocollo e gli spazi di mediazione sono appesi agli esiti del referendum e alle percentuali più o meno pesanti che si potranno ottenere. Il premier Prodi è ottimista. «Mi dicono che l´affluenza è buona è questa è una buona notizia. Spero in un risultato positivo: la consultazione è un fatto importante». Si sbilancia il presidente della Camera Fausto Bertinotti che spiega come gli sembri «evidente una vittoria del sì». «Ho una qualche esperienza sindacale per poter fare una previsione che non teme smentite» ha detto.
Il ministro Damiano, anche lui convinto che «andrà bene», ricorda comunque che il Parlamento è sovrano e apre le porte a possibili aggiustamenti (su lavori usuranti e contratti a termine), ma avverte che «con troppe modifiche si rischia di far saltare l´equilibrio sociale».
Tutti tesi sul voto, dunque, al quale i sindacati sperano che partecipino 5 milioni di lavoratori. Ore nervose sulle quali già aleggia una denuncia di brogli. Marco Rizzo, Pdci, assicura che «in troppi casi è stato possibile votare più volte, senza esibire documento alcuno e senza registrare il proprio nome». E racconta il caso di una lavoratrice che in provincia di Taranto ha votato tre volte, nelle tre sedi di Cgil, Cisl e Uil. Il sindacato respinge le accuse: «Si vede che Rizzo si è già accorto di aver perso e agita fantasmi e manipolazioni su quello che è un libero voto» ha detto Nino Sorgi, segretario organizzativo Cisl.
Quanto alla affluenza alle urne, per i sindacati «i dati sono positivi»: la Uil prevede che oltre il 70 per cento del lavoratori risponda all´appello e che si superi, quindi, le presenze registrate alle urne quando si votò sulla riforma Dini (66 per cento). Ma c´è anche chi, l´SdL ad esempio, parla di "partecipazione scarsissima". Guglielmo Epifani ha parlato di «bella giornata per il sindacato, per i lavoratori e per il Paese».

Repubblica 9.10.07
Che Guevara. Il mito indistruttibile di un fanatico della rivoluzione
di Carlos Franqui


Quarant'anni fa veniva ucciso in Bolivia l'uomo che con Castro aveva guidato la rivolta cubana
L'ho conosciuto nel luglio del '56 e per l'ultima volta l'ho visto a Parigi nel '65
Rovinò Cuba con riforme di tipo sovietico e la centralizzazione dell'economia
Oggi all'Avana è diventato un eroe per turisti che si disputano T-shirt e altri souvenir

Conobbi Ernesto Guevara nel luglio del 1956, quando mi trovavo in prigione insieme a Castro e ai futuri protagonisti della spedizione del Granma, nella prigione messicana Miguel Schultz, e lo vidi per l´ultima volta nell´aprile del 1965, a Parigi. Il nostro fu un rapporto conflittuale che durò nove anni. Ci dicevamo molte verità scomode, ma entrambi sapevano che l´altro non sarebbe andato a raccontarle a Fidel o alla Seguridad. La prima discussione fu riguardo a Stalin, e le ultime parola che gli sentii dire furono: «Con Fidel, né matrimonio né divorzio», in una conferenza a Parigi, alla Mutualité.
Quarant´anni dopo la sua fine, in Bolivia, Guevara continua a essere un mito consumistico, senza che nessuno analizzi le sue azioni e le sue parole, e senza che nessuno metta in pratica le sue teorie e i suoi atti. Se Ernesto "Che" Guevara potesse sentire tutto questo dalla tomba, che nessuno sa dove si trovi con esattezza, maledirebbe questa falsa mitologia.
Castro ha una sola ideologia, il potere; Guevara era un rivoluzionario fanatico, del genere di Lenin, Trotskij o Mao. Dal 1956 al 1963, fu un filosovietico esaltato, che rovinò Cuba con l´acquisto di fabbriche e attrezzature che non servivano, con la centralizzazione dell´economia, la soppressione della contabilità delle imprese, il lavoro volontario e i campi di punizione. Nel 1963-1964, scoprì e affermò che l´Unione Sovietica non era quella che credeva lui. Ruppe con l´Urss nel 1964 ad Algeri, litigò con i partiti comunisti ed entrò in conflitto con Castro, illudendosi che Fidel lo avrebbe appoggiato nel suo illusorio progetto di diventare il leader della rivoluzione mondiale, con i suoi «due o tre Vietnam», secondo il messaggio che lanciò alla riunione della Ospaal (Organizzazione di solidarietà dei popoli dell´Africa, Asia e America Latina), nel 1966.
Guevara giudicava «borghesi» tutti i rivoluzionari che non la pensavano come lui, elogiava i contadini ma sosteneva che bisognava farla finita con loro, perché erano una classe antirivoluzionaria; quel fanatismo lo portò a fucilare 55 militari batistiani alla Cabaña, alcuni colpevoli di crimini e altri no. Per Castro, la realtà è se stesso; Guevara vedeva la realtà così come era, e risolveva il conflitto ricorrendo a un nuovo dogma. Se si conoscono le fucilazioni simboliche della Sierra Maestra, nel 1957, è perché fu lui stesso a renderle pubbliche nel suo libro Passaggi della guerra rivoluzionaria. Se nella guerriglia a volte fuggì, e altre volte diede prova di coraggio, lo rese pubblico nella sua cronaca «della paura e del valore». Nonostante il suo fanatismo, aveva coscienza delle sue azioni: per questo parla del primo soldato che uccise sulla Sierra giudicandolo una vittima del sistema.
Nel suo libro La guerra di guerriglia, contraddice la teoria leninista che afferma che «non esiste rivoluzione senza movimento rivoluzionario», scrivendo che «la guerriglia è la madre e la generatrice della rivoluzione». Il Che si proclamava marxista indipendente, ma alcune sue affermazioni non hanno niente di marxista. Neruda racconta: «Avevo visto all´Avana sacchi di sabbia disseminati in punti strategici; parlavamo di una possibile invasione americana, e lui d´improvviso disse: "La guerra, la guerra, siamo sempre contro la guerra, ma quando l´abbiamo fatta non riusciamo a vivere senza. A ogni istante, vogliamo ricominciare"». Lui stesso racconta al presidente egiziano Nasser che con la conquista del potere la rivoluzione si burocratizza, e allora si fa una nuova rivoluzione.
Nessuno, tranne Castro, ha avuto tanto potere a Cuba come quello di cui ha goduto il Che Guevara tra il 1959 e il 1963, e dunque è lui che porta la responsabilità del primo grande fallimento della rivoluzione cubana. Ma che cosa direbbe Che Guevara, mito turistico a Cuba, della vendita di magliette e tutto il resto, lui tanto austero e rigido, e nemico dei privilegi, che direbbe dell´attuale corruzione della cupola e dell´apparato del potere, dell´apartheid turistico, economico e medico? La rovina della Cuba attuale è la negazione del pensiero e delle azioni di Guevara.
Se ci fu qualcuno che cercò di convincere il Che che la rivoluzione cubana non dovette il suo trionfo all´avanguardia guerrigliera, ma all´azione clandestina e all´appoggio finale della popolazione, e che non si poteva confondere avanguardia e movimento, quello fui io.
L´abbandono di Castro e quella falsa teoria sono i principali responsabili della sua morte e del suo fallimento in Bolivia. Leggete il suo diario, pubblicato in Italia da Feltrinelli, e vedrete che Guevara scrive che si erano persi i contatti con Manila (Castro, L´Avana), mentre migliaia di guerriglieri latinoamericani addestrati sull´isola aspettavano di essere inviati a dargli rinforzo, ordine che non arrivò mai.
Anni dopo la morte del Che, centinaia di migliaia di soldati cubani furono inviati a combattere in Africa, là dove Guevara fu abbandonato la prima volta. Castro lo abbandonò e lo lasciò morire perché la rivoluzione mondiale era solo per lui, e non per Guevara. Quelli che adesso si riempiono la bocca del mito guevariano, perché non incolpano della morte del Che il grande colpevole, quello che lo mandò laggiù e lo lasciò morire solo?
Riporto alcune frasi di Guevara scritte di suo pugno e pubblicate in numerosi testi e libri.
«Qualcosa funziona male in Unione Sovietica, nel suo sistema, e non si può dire che sia a causa di calamità naturali (…), che ha a che vedere con l´organizzazione dei kolchoz, la decentralizzazione, l´autogestione finanziaria o gli stimoli materiali, con la scarsa attenzione dedicata allo sviluppo degli stimoli morali».
«L´odio come fattore di lotta, l´odio intransigente per il nemico, che spinge più in là delle leggi naturali dell´essere umano, e lo trasforma in un´efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere. Un popolo senza odio non può trionfare su un nemico brutale».
(Traduzione di Fabio Galimberti)

Repubblica 9.10.07
Dalla visita a Togliatti nel 1964 a icona pop
Il guerrigliero a Montecitorio
di Filippo Ceccarelli


Varcò la soglia del palazzo con una grossa Mauser brunita in vista alla cintola
Lo conobbero anche Ingrao, a cui non piacque, e Nicolini

«Alto, bello, in divisa militare verde oliva, il Guerrigliero apparve nel vano della porta barocca del palazzo che Innocenzo III aveva destinato alla curia papale».
Forse non tutti sanno che, una mattina, Ernesto Che Guevara varcò la soglia di Montecitorio. «Portava alla cintola, bene in vista, una grossa Mauser brunita, che gli aveva causato una discussione con il maresciallo dei carabinieri di guardia alla Camera dei deputati, accanto al gran valletto in polpe, marsina e mazza dal pomo dorato, che si chiamava Salvo Berté». Era un giorno dell´aprile del 1964, e il prezioso ricordo si deve a Massimo Caprara (Quando le Botteghe erano oscure, il Saggiatore, 1997), che a quel tempo era deputato del Pci, nonché dirigente di fiducia di Palmiro Togliatti.
E proprio da Togliatti, al terzo piano, Caprara condusse il Che di passaggio a Roma, non senza avergli fatto visitare il palazzo, compreso il corridoio dei busti, rispetto ai quali il Guerrigliero mostrò un evidente disinteresse che non si interruppe nemmeno di fronte al marmo di Garibaldi. Fu piuttosto incuriosito sul perché a Roma la gente non giocasse a scacchi per strada.
Sono ormai pochissimi, in Italia, quelli che hanno conosciuto di persona il Che. Uno è Pietro Ingrao, che lo incontrò a Cuba. Quattro ore di colloquio serrato, ma senza restare convinto dal personaggio: «Mi sembrava che sottovalutasse l´occidente - ha raccontato a Nicola Tranfaglia (Le cose impossibili, Editori riuniti, 1990) e lo vedesse tutto strettamente subalterno all´imperialismo e al capitalismo».
Un altro che assistette dal vivo a una performance del Che, una specie di disquisizione su un murales raffigurante un rivoluzionario che impugnava un fucile americano, è Renato Nicolini, spedito all´Avana per un raduno di studenti d´architettura che si concluse con l´approvazione di un ordine del giorno che diceva: «Dovere degli studenti di architettura è di combattere l´imperialismo».
La sua testimonianza si trova in un´opera collettiva che poi è il primo libro curato dal giovane Walter Veltroni, Il sogno degli anni ‘60 (Savelli, 1981). Alla fine del volume alcuni degli autori accettarono di rispondere a un questionario su libri, dischi e programmi preferiti. C´era anche la richiesta - veltronianissima - di indicare quali fossero state i giorni più tristi, le peggiori notizie del decennio, e ben sette risposero: «La morte del Che».
Quando uscì quel libro, il culto di Che Guevara si era già più che affermato, travalicando i confini della politica e ponendosi decisamente nel solco della cultura popolare. La figura apollinea che Togliatti aveva fatto accomodare sul divano di pelle rossa di Montecitorio era divenuta ormai da più di un decennio la classica icona pop.
Era stato Giangiacomo Feltrinelli, come racconta il figlio Carlo nel suo Senior Service (Feltrinelli, 1999), a farsi dare dal fotografo Alberto Korda i negativi della famosissima foto con il basco: «Che in the sky with jacket». C´era vento, quel giorno, e il ritratto prese corpo durante un funerale. Lo scatto della Leica di Korda consentì la più compiuta e potente sopravvivenza di Guevara in dimensione visiva, idolatrica, per certi versi anche spettrale, comunque efficacissima. Sui muri, sulle magliette, sugli adesivi, perfino in tribunale: «A Milano - ha scritto il trotzkista Livio Maitan (La strada percorsa, Massari, 2002) - mi è capitato di assistere a una causa di operai dell´Alfa in cui il giudice stesso si era preoccupato che ci fosse nell´aula, sia pure in effigie, la "querida presencia" del Comandante Che Guevara».
Meno noto è che tale «amata presenza» fosse condivisa dall´estrema destra e che quel ritratto campeggiava, accanto a una croce celtica stilizzata, all´ingresso del «Dioniso», noto ritrovo romano di sessantottini neri. «Addio Che», secondo Luciano Lanna e Filippo Rossi (Fascisti immaginari, Vallecchi, 2003) s´intitola una canzone che Pier Francesco Pingitore compose per Gabriella Ferri per i dischi del Bagaglino. Cavaliere solitario o liberatore di oppressi, l´Italia ideologica se lo prese senza troppe distinzioni. Quella post-ideologica di Jovanotti pure - anche a rischio di metterlo al fianco di madre Teresa di Calcutta.

Repubblica Firenze 9.10.07
Il pm Pietroiusti ricorre contro l'assoluzione del senatore di An Achille Totaro e di 5 suoi colleghi di partito
"Contro Fanciullacci non fu critica politica"
L’accusa era quella di aver diffamato il partigiano definendolo "vigliacco assassino"


Il senatore di An Achille Totaro non esercitò il diritto di critica politica quando definì un «vigliacco assassino» Bruno Fanciullacci, medaglia d´oro della Resistenza. Lo sostiene il pm Angela Pietroiusti, che ha presentato appello contro la assoluzione di Achille Totaro e di cinque suoi colleghi di partito dall´accusa di diffamazione della memoria del giovane partigiano, che morì il 17 luglio 1944. Dopo essere stato atrocemente torturato si gettò da una finestra di Villa Triste, pur di non tradire i suoi compagni.
Quella di Totaro - secondo il pm - fu una campagna denigratoria che non può essere considerata una libera manifestazione del pensiero tutelata dall´articolo 21 della Costituzione. Ciò perché il senatore non si limitò a criticare, anche duramente, come era suo diritto, l´uccisione del filosofo Giovanni Gentile, che fu colpito a morte il 15 aprile 1944, mentre rientrava a casa senza scorta e disarmato, da un gruppo di partigiani comunisti guidati da Fanciullacci. Quello di Totaro fu - sostiene il pm - un attacco diretto a colpire l´intera figura morale del giovane combattente della Resistenza. Ciò è dimostrato dal fatto, secondo il pm, che tutti gli imputati hanno spiegato che non conoscevano la storia di quel periodo di guerra né la figura di Fanciullacci. Dunque il loro fu un attacco alla persona, del tutto scollegato dal contesto di guerra.
Il pm Pietroiusti contesta che Totaro e i suoi compagni intendessero portare un contributo scientifico alla conoscenza del drammatico periodo storico in cui si colloca il delitto Gentile, quando a Firenze comandavano i tedeschi e i fascisti di Salò, il fronte avanzava e infuriava la guerra partigiana. L´attacco a Fanciullacci aveva soltanto - a suo giudizio - una finalità di strumentalizzazione politica. E quelle parole «vigliacco» e «assassino» sono soltanto offese che niente hanno a che vedere con i giudizi anche durissimi espressi dagli storici sul delitto Gentile. Perché - come ha detto più volte la Cassazione - il diritto di critica storica impone una approfondita indagine degli avvenimenti e un linguaggio corretto. E i giudizi, anche duramente critici, non possono comunque coinvolgere l´intera personalità del soggetto.
(f.s.)

Corriere della Sera Roma 9.10.07
La Sapienza. D'oro e d'argento le due opere del 2.300 a.C. riportate alla luce dalla missione archeologica romana
Ebla, il ritorno delle due regine
Paolo Matthiae scopre, durante gli scavi in Siria, due preziose statuette
di Paolo Brogi


Due regine, in oro e argento, sono riemerse dalle rosse terre di Ebla, in Siria, dove in oltre quarant'anni di scavi la missione archeologica dell'università di Roma la Sapienza guidata da Paolo Matthiae sta riportando alla luce la lontana e sconosciuta civiltà fiorita tra il 2400 e il 1600 a.C. Due preziose statuette in miniatura riaccendono i riflettori su Tell Mardikh, nella Siria settentrionale, e dopo la recente scoperta del grande Tempio della Roccia costituiscono il nuovo evento scientifico dell'importante e fortunata campagna di scavi di Ebla.
Il raro ritrovamento è avvenuto nel corso dell'ultima campagna archeologica, la 44ª, durante la quale sono proseguiti i lavori all'interno del grande tempio scoperto tre anni fa ed è stata affrontata anche una zona della Reggia che finora era stata poco investigata.
Lì, in un magazzino reale a ridosso degli Archivi amministrativi in cui trent'anni fa furono trovate le 17 mila tavolette cuneiformi che hanno permesso di decifrare l'antichissima lingua eblaita, giacevano interrate e pressoché intatte le due statuette di personaggi femminili, due regine.
Una in argento, l'altra in oro, la prima in piedi, l'altra seduta, una di fronte all'altra, probabilmente l'ultima regina di Ebla alla vigilia della prima distruzione della città nel 2300 in raccoglimento davanti alla regina madre divinizzata. Nelle tavolette si ripetono molti nomi di sovrane. Ma quello più ricorrente, nell'ultimo periodo del 2300 a.C., è Dusigu.
Splendida è soprattutto la regina madre, con un grande mantello in lana arricciata, la novità di un'acconciatura particolarissima con fasce di tessuto incrociate, la coppetta di diaspro in mano come in un banchetto rituale funerario. Con lei, a Tell Mardikh, per la prima volta è riaffiorato l'oro di Ebla.
«Facevano parte di un gruppo statuario che comprende anche un incensiere di bronzo che abbiamo ritrovato tra le due statuette - spiega Matthiae -. Il tutto poteva essere la sommità di uno stendardo o di un'insegna regale. Re e regine defunti erano divinizzati ad Ebla, come protettori della società dei vivi ed erano oggetto di culto assiduo, come abbiamo riscontrato nei testi degli archivi».
Nella stessa sala del Palazzo Reale dove sono state trovate le due statuette è stato scoperto infine anche uno splendido sigillo cilindrico di un alto dignitario dell'età degli Archivi, il cui nome è ripetutamente menzionato nei testi stessi degli Archivi.
Questo sigillo, che era decorato da due capsule d'oro di cui si è conservato solo il rivestimento dell'interno, presenta i tipici temi della lotta tra esseri mitici e animali selvaggi, tra i quali compaiono anche le figure di un re e di una regina, che sono probabilmente altri due antenati regali divinizzati.

il manifesto 8.10.07
Giustizia: la sinistra che riempie le prigioni
di Patrizio Gonnella (Presidente dell'Associazione Antigone)


Nelle prigioni italiane ci sono oggi poco più di 46 mila detenuti. Un numero di poco inferiore agli abitanti di Rieti e di poco superiore a quelli di Biella. 46 mila persone non sono un problema di risorse, siano essi i detenuti italiani o il totale dei reatini o dei biellesi.
La tutela della loro salute è solo un problema di organizzazione, di volontà politica, di scelte normative. Nel 1999 l’allora ministro della Salute Rosy Bindi dette avvio alla riforma della medicina penitenziaria sino ad allora alle dipendenze strette del ministero della Giustizia. Previde che strumenti, soldi e medici dovessero passare al servizio sanitario nazionale.
Resistenze, negligenze, inadempienze si sono protratte per otto anni, impedendo il buon esito della riforma. Ora si attende il primo gennaio 2008, data che dovrebbe segnare il fatidico passaggio di competenze. Così il medico potrà ragionare da medico, operare da medico, obiettare come fa un medico. Risponderà del suo lavoro ad un altro medico. Potrà assomigliare più al medico di fiducia che a un poliziotto vestito di bianco. La salute dei detenuti rischierà in tal modo di essere meno succube di reali o fittizie esigenze di sicurezza.
Resta infatti tra le pagine tragiche dell’amministrazione della giustizia quella dell’infermeria di Bolzaneto con medici, poliziotti e generali tutti insieme a organizzare su larga scala trattamenti che la magistratura non ha esitato a definire inumani o degradanti. Eppure la tortura non è stata ancora elevata a rango di reato. Inutilmente sono passati vent’anni da quando l’Italia si era impegnata a farlo in seno alle Nazioni Unite.
Il diritto alla salute in carcere si protegge con adeguati interventi diagnostici e terapeutici. Si protegge anche con misure e azioni preventive. L’affollamento e l’assenza di riservatezza, l’ozio forzato e la noia, il distacco sociale e affettivo da parenti e amici, la sessualità negata sono l’origine del disagio psichico che colpisce percentuali elevatissime di detenuti, curati e neutralizzati a suon di psicofarmaci. Nel frattempo sui media si continua a chiedere sicurezza, più galera per i tossicodipendenti, per i rumeni, per i clienti delle prostitute, per i vagabondi, per i lavavetri.
Il prossimo 12 ottobre va in Consiglio dei ministri il pacchetto sicurezza targato Giuliano Amato. Un pacchetto sicurezza che, se le indiscrezioni saranno confermate, ammazzerà definitivamente ogni potenzialità riformatrice che c’era dietro il provvedimento di indulto. La sinistra si sta rinchiudendo in un orribile cul de sac. La criminalizzazione della miseria porterà in galera nuove decine di migliaia di persone. Tutto questo sta avvenendo senza che nessuno reagisca. La Chiesa è tutta impegnata sul fronte dell’antirelativismo etico, i mass media seminano paura, i partiti inseguono la Chiesa e i mass media. Per approssimazione si può dire che oggi più o meno un milione di persone sono impegnate attivamente nel terzo settore.
A quel milione di persone che - con contratti di solito precari - si occupano dei cosiddetti ultimi della società (quelli presi di mira dall’ordinanza Cioni e dal pacchetto Amato) oggi si deve chiedere di far sentire la loro voce, affinché si affranchino dal ricatto economico privato e pubblico e dicano con forza il loro no alla criminalizzazione delle povertà diffuse, loro che di povertà si occupano. Alle loro centrali cooperative chiediamo di riprendere a fare politica e di opporsi alla definitiva e drammatica trasformazione dello stato sociale in stato carcerario.

il manifesto 9.10.07
«Seminò coscienza nel mondo»: Fidel ricorda il Che
Il leader cubano celebra sul Granma «l'eccezionale combattente caduto un 8 ottobre di 40 anni fa», il «messaggero dell'internazionalismo militante» che «combatté con noi e per noi»
di Fidel Castro Ruz


Mi fermo un istante nella mia lotta quotidiana per chinare la testa, con rispetto e gratitudine, davanti all'eccezionale combattente che cadde un 8 ottobre di 40 anni fa. Per l'esempio che ci ha lasciato con la sua Columna invasora che attraversò il terreni pantanosi al sud delle antiche province di Oriente e Camagüey inseguito dalle forze nemiche, liberatore della città di Santa Clara, creatore del lavoro volontario, protagonista di onorevoli missioni politiche all'estero, messaggero dell' internazionalismo militante nell'est del Congo e in Bolivia, seminatore di coscienze nella nostra America e nel mondo. Lo ringrazio per quello che cercò di fare e non poté fare nel suo paese natale, perché fu come un fiore strappato prematuramente dal suo stelo.
Ci ha lasciato il suo stile inconfondibile di scrivere, con eleganza, brevità e sincerità, ogni dettaglio di quello che gli passava per la mente. Era un predestinato, ma non lo sapeva.
Combatté con noi e per noi.
Ieri si è compiuto il trentunesimo anniversario della strage dei passeggeri e del personale dell'equipaggio dell'aereo cubano fatto saltare in pieno volo ed entriamo nel decimo anniversario della crudele e ingiusta incarcerazione dei cinque eroi anti-terroristi cubani. Anche davanti a tutti loro chiniamo la testa. Con grande emozione ho visto e ascoltato in televisione l'atto commemorativo.
*Dal Granma del 7 ottobre


il Riformista 9.10.07
Rifondazione si sente più precaria di Prodi
di Stefano Cappellini


Stavolta può davvero accadere di tutto. Per Rifondazione comunista comincia una delle settimane più difficili della sua storia. E per il governo Prodi la sopravvivenza alla finanziaria dipende da una serie di passaggi sempre più stretti. Ricapitolando: il tavolo di trattativa tra governo e sinistra radicale ha prodotto dei compromessi graditi a entrambe le parti, per esempio sul tetto di lavoratori “usurati” che sfuggiranno ai nuovi limiti di pensionamento (c’è la disponibilità ad alzarlo oltre quota 7000 l’anno) e su alcune parti secondarie del Protocollo sul welfare. Bastano questi passi avanti a immaginare un accordo in vista del Consiglio dei ministri di venerdì? No. Lo ha annunciato ieri il ministro Paolo Ferrero. Lo ha confermato il ministro e leader di Sinistra democratica Fabio Mussi: «Sono pronto a votare no». Il problema è che, nonostante la volontà reciproca di non rompere, resta ancora una distanza incolmabile su un punto che Rifondazione, come il resto della Cosa rossa, considera irrinunciabile: la limitazione temporale dei contratti a termine. Le modifiche apportate in queste ore dal ministro del Lavoro Cesare Damiano al suo Protocollo sono buone per tenere calmi i sindacati, non la sinistra dell’Unione. Che aspetta fiduciosa di conoscere giovedì sera i dati disaggregati del referendum tra i lavoratori promosso dal sindacato. Nessun dubbio sulla vittoria dei sì. Ma se il responso tra i lavoratori attivi, insomma nelle fabbriche, premiasse fortemente il no, come spera Franco Giordano e ed è pronta a giurare la Fiom, Rifondazione porterà la battaglia fino in fondo, dando battaglia in Consiglio dei ministri e trasformando la manifestazione anti-precariato del 20 ottobre in un punto di non ritorno.
In realtà, una scappatoia concordata a mezza bocca tra governo e Cosa rossa per evitare la rottura ci sarebbe. Si tratterebbe di utilizzare l’iter parlamentare della legge di bilancio per colmare la distanza tra le parti, introducendo alcune modifiche e trovando un compromesso a metà strada. Alla Camera si potrebbe fare senza troppi problemi, come spiega il capogruppo Prc alla Camera Gennaro Migliore: «Credo che si possa trovare un accordo perché l’iter parlamentare è autorevole e assolutamente autonomo nelle sue scelte». Il problema è che al Senato, dove quasi certamente sulla finanziaria sarà posta la fiducia, la pattuglia diniana è pronta a sfilarsi davanti a una concessione del genere alla sinistra dell’Unione. E dalle parti di Giordano c’è chi ritiene che Prodi abbia stretto un patto con Dini, garantendogli la blindatura del provvedimento nelle sue parti essenziali. Chi ha parlato con Giordano in queste ore spiega che il partito non mollerà. «Possiamo anche accettare - spiegano gli uomini più vicini al segretario - di ingoiare il boccone amaro sulla previdenza, sulla quale non mancheremo comunque di alzare la voce, ma sul precariato ci giochiamo la faccia». Ma messa alle strette, e davanti all’impossibilità di ottenere soddisfazione, Rifondazione avrebbe davvero il coraggio di rompere? La risposta, si suggerisce al quartier generale di viale del Policlinico, stavolta potrebbe essere affermativa. Perché archiviata la sconfitta sul welfare, il Prc dovrebbe subito aggiungerci quella sulla legge elettorale, dove il blitz bipartisan alla Camera per votare un proporzionale alla tedesca, vecchio pallino bertinottiano, è già vicino al fallimento a causa dell’ostilità dei leader principali dei due schieramenti, Water Veltroni e Silvio Berlusconi. Dunque, si spiega nel Prc, «noi possiamo anche farci carico dell’ennesimo sacrificio e garantire altri mesi di vita a Prodi. Ma a quale scopo? Quello di andare a referendum sulla legge elettorale l’anno prossimo? Non possono chiederci anche di suicidarci».

IPAZIA, MARTIRE DEL FANATISMO CRISTIANO

Figlia di un celebre matematico del Museo dell'insegnamento di Alessandria d'Egitto, Teone, il cui Commentario all'Almagesto di Tolomeo viene considerato uno dei migliori lavori di astronomia della scuola alessandrina, Ipazia, nata intorno al 370, fu istruita dal padre nelle scienze esatte (specialmente astronomia e geometria), ma subì anche influenze teosofiche e occultistiche, in quanto frequentò la scuola neoplatonica di Alessandria.
A quel tempo ogni filosofo o scienziato alessandrino era un po' alchimista, in quanto i confini tra scienza e magia non erano rigorosamente tracciati. Non dimentichiamo che i greci avevano raccolto in Alessandria il sapere magico, mistico ed esoterico, andato poi distrutto, delle filosofie e religioni egizie e assiro-babilonesi.
Si devono a Ipazia e a suo padre le edizioni delle opere di Euclide, Archimede e Diofanto che presero la via dell'Oriente durante i secoli, e tornarono in Occidente in traduzione araba, dopo un millennio di rimozione.
Ed è noto anche il loro lavoro a proposito del “Sistema matematico” di Tolomeo, astronomo, matematico e geografo alessandrino del II sec. la cui teoria astronomica geocentrica restò in auge fino alla “rivoluzione copernicana” del XVI secolo.
Su di lei non vi sono dati sicuri, non essendoci rimasto alcuno scritto: sono citati solo tre titoli di tre opere di matematica e di astronomia: Commentario alla Aritmetica di Diofanto, Commentario al Canone astronomico e Commentario alle sezioni coniche d'Apollonio Pergeo, considerato il suo capolavoro All'insegnamento delle scienze esatte è certo che aggiunse quello della filosofia, commentando Platone, Aristotele e i filosofi maggiori.
Il suo discepolo più illustre fu Sinesio di Cirene, filosofo neoplatonico, poeta e oratore, che poi divenne, forse tradendo l'insegnamento di Ipazia, vescovo cristiano di Tolemaide. Dopo la morte di Ipazia egli cercherà di fondere le dottrine gnostiche con quelle neoplatoniche, senza tuttavia perdere mai di vista la fondamentale concezione platonica alla quale si attenne da vicino in due opuscoli: uno "sugli Egizi", dove espose in forma allegorica le condizioni della corte di Costantinopoli, l'altro "sui Sogni" in cui sostenne la possibilità di servirsi del sogno a scopo divinatorio.

Le coniche di Apollonio
Insegnava come Socrate per le strade e il prefetto romano Oreste si diceva che cercasse il suo consiglio nelle questioni di carattere pubblico e che addirittura fosse suo discepolo. Ipazia non teneva il suo sapere per sé, né lo condivideva soltanto con i suoi allievi. Al contrario, lo dispensava con grande liberalità a chiunque e per questo si conquistò grande considerazione fra i suoi concittadini. Ipazia insegnò ininterrottamente ad Alessandria per più di vent’anni.
Molto importante per la sua formazione culturale fu un viaggio compiuto ad Atene, ove si aggregò alla scuola teosofica di Plutarco.
Ipazia vedeva nel cristianesimo soprattutto il fanatismo e la violenza, in quanto il vescovo Teofilo aveva fatto distruggere, oltre a vari monumenti della civiltà greco-orientale, anche il famoso tempio di Serapide e l'annessa biblioteca.
Seguace di un sistema eclettico di filosofia, Ipazia può essere considerata come una gnostica che cercò di difendere la rinascita del platonismo contro il cristianesimo. I neoplatonici, che si diffusero dal III al V sec., volevano la fusione di tutte le chiese in un unico organismo a sfondo più filosofico che teologico, o se vogliamo più intellettuale che ecclesiale.
La scuola di Alessandria appartiene, stando alle fonti classiche, all’ultima grande corrente del neoplatonismo, fiorita tra la prima metà del V e la prima metà del VII secolo. La tendenza erudita, che aveva man mano acquistato rilevanza nelle scuole che la precedettero, era diventata qui prevalente, respingendo in secondo piano la speculazione prettamente metafisica. Il disinteresse per la costruzione della gerarchia emanatistica che era stata concepita nei suoi tre momenti della permanenza in sé, dell'uscita da sé e del ritorno in sé, aveva condotto all'abbandono di quel politeismo classico che in tale gerarchia era stato inquadrato, soprattutto ad opera della scuola siriaca.
In teoria le possibilità d'intesa col cristianesimo (ovvero con la scuola catechetica alessandrina) sembravano essere maggiore che altrove, ma proprio la sensazione che questa forma di neoplatonismo potesse costituire un'alternativa valida al cristianesimo, faceva dei cristiani i nemici più accesi, che mal digerivano peraltro l'accentuato interesse del neoplatonismo per le questioni di carattere scientifico.
Dopo la morte del vescovo Teofilo, la cattedra vescovile fu occupata, nel 412, da suo nipote Cirillo, di idee fondamentaliste, specie contro i novaziani e i giudei, e che venne subito in urto col prefetto romano Oreste.
Come noto il cristianesimo, che cessò d'essere perseguitato con l'editto di Costantino nel 313, diventando religione di stato con l'editto di Teodosio nel 380, iniziò a sua volta a perseguitare nel 392, quando furono distrutti i templi greci e bruciati i libri pagani.
Vari scritti del cristianesimo primitivo, quali l'Epistola agli Ebrei, quella attribuita a Barnaba, la Didachè, secondo molti storici proverebbero che in Alessandria c'era una spiccata tendenza della stessa chiesa ufficiale verso lo gnosticismo.
A questo tendenza intellettualistica aveva cercato di porre rimedio la scuola catechetica, ma la difesa non era stata condotta senza far gravi concessioni all'avversario, ammettendo, oltre all'interpretazione allegorica delle scritture, l'esistenza di una gnosi ortodossa, che rendeva perfetto chi la possedeva e l’innalzava al di sopra del semplice fedele.
Cirillo si trova nella difficile situazione di porre un argine alla scuola catechetica che intreccia rapporti sempre più stretti con i rappresentanti neoplatonici alessandrini e la necessità di dettare la formula della retta fede in Oriente, in virtù di quella tradizione dottrinale che gli derivava da Demetrio.
Ad Alessandria vi erano, allora, pagani e idolatri d'ogni culto, e cristiani di tutti gli scismi ed eresie, nonché una cospicua colonia di ebrei fatta oggetto di discriminazioni da parte dei cristiani. Gli ebrei, risentiti, si difesero e il patriarca Cirillo li cacciò dalla città saccheggiandone le sinagoghe.
Il prefetto Oreste fece arrestare un seguace di Cirillo, sottoponendolo a pubblica punizione, ma una folla cristiana, per rappresaglia, ferì il prefetto. A motivo di ciò l'attentatore, che era monaco, fu giustiziato e Cirillo ne fece l'elogio come fosse stato martirizzato.
Cirillo tentò di conciliarsi con Oreste, ma il tentativo fallì, forse anche a causa di Ipazia. Oreste invano sollecitava l'intervento dell'imperatore d'Oriente Teodosio II, il quale però era soggetto alla volontà della sorella Pulcheria, imperatrice di fatto e strettamente legata al cristianesimo di Cirillo.
Cirillo, che mal sopportava la predicazione pagana di Ipazia, divenuta ad Alessandria la rappresentante più qualificata della filosofia ellenica, si convinse che l'ostacolo maggiore alla risoluzione della controversia fosse proprio lei.
Pur non dando un espresso ordine, egli istigò il gruppo fanatico di monaci parabolani ed eremiti della Tebaide guidati da Pietro il Lettore a togliere di mezzo Ipazia. E così, dopo averla trascinata fino alla chiesa che prendeva il nome da Cesario, quasi volessero compiere una sorta di sacrificio umano, prima Pietro con una mazza ferrata, poi gli altri monaci con pugnali fatti di conchiglie, massacrarono il corpo di Ipazia e lo bruciarono. Era l'anno 415, il IV dell'episcopato di Cirillo.
Gli assassini rimasero impuniti. Oreste chiese un'inchiesta; Costantinopoli non poté non concederla, e mandò ad Alessandria un tale Edesio, il quale non fece nulla, poiché si lasciò corrompere da Cirillo. Oreste ottenne soltanto dei provvedimenti per arginare l'ingerenza politica dei vescovi nei poteri civili. Cirillo in seguito verrà addirittura santificato come esempio di sicura ortodossia.
Fu Damascio, filosofo neoplatonico (480/prima metà del sec.VI a.C.), quinto successore di Proclo nello scolarcato dell’Accademia, che per primo, nella Vita di Isidoro, incolpò Cirillo del delitto.
Nella Storia ecclesiastica dell'ariano Filostorgio, nato circa il 368 d.C. e dunque contemporaneo dei fatti narrati, si arriva a sostenere che l'assassinio non era opera di una amorfa folla fanatica, ma di quel clero cristiano che, ad Alessandria in modo particolare, voleva spadroneggiare su tutti.
In ogni caso, la partenza frettolosa, successivamente, di molti dotti, segnò l'inizio del declino di Alessandria come il più grande centro di erudizione antica.
Gli ultimi neoplatonici furono tolti di mezzo dall'imperatore Giustiniano, che chiuse la scuola platonica nel 529 d.C. Essi fuggirono in Persia presso Chosroe I, il quale era curioso di filosofia e garantì di professare liberamente il platonismo (531). Questo diritto fu addirittura sancito nel trattato di pace tra Giustiniano e Chosroe. E' degno di nota come, al crepuscolo ormai del pensiero greco, la libertà di filosofare venisse garantita ai Greci, contro il loro cristianissimo imperatore, dall'ultimo grande sovrano persiano, della dinastia dei Sassanidi.
Ipazia viene ricordata, ancora oggi, come la prima matematica della storia, anzi, fu la sola matematica per più di un millennio: per trovarne altre, da Maria Agnesi a Sophie Germain, bisognerà attendere il Settecento. Ipazia fu anche l'inventrice dell'astrolabio, del planisfero e dell'idroscopio.

Fonti su Ipazia - Cirillo di Alessandria
Sinesio di Cirene, Epistolario, Milano 1969.
Sinesio di Cirene, Il Regno, Milano 1970.
Gemma Beretta, Ipazia d'Alessandria, Editori Riuniti
Augusto Franchetti (a cura di), Roma al femminile, ed. Laterza
Q. Bigoni "Ipazia alessandrina" in Atti Istituto Veneto K. Prachter "Filosofia dei greci"
"Il Teurgo" settembre-ottobre 1985
G. Quiriconi, Notizia storico-critica su Ipazia e Sinesio, Milano 1978.
A. Agabiti, Ipazia, Ragusa 1979.
G. Bigoni, Ipazia alessandrina. Studio storico, Venezia 1887.
www.womensciencenet.org

lunedì 8 ottobre 2007

l’Unità 8.10.07
Mare Mediterraneo: la civiltà conviviale
di Elena Doni


Da un lato l’identità efficientista atlantica e angloamericana
Dall’altro i tempi e gli stili di vita «mediterranei»

CULTURE Uno studio a più voci a cura di Franco Cassano e Danilo Zolo riscopre un’antica verità proclamata dal grande storico Braudel: quello del «mare nostrum» è un unico destino. Plurale. Dove cristiani e islamici respirano con lo stesso ritmo

E se avessimo sbagliato tutto? Nel senso di aver guardato solo a ovest e nell’esserci lasciati abbagliare dal mito dell’efficientismo, del giovanilismo, delle verità assolutiste e della ricchezza come ricompensa dei giusti? È il dubbio che semina il volume L’alternativa mediterranea (Feltrinelli, Euro 40) curato da un sociologo, Franco Cassano e da un filosofo, Danilo Zolo. Un libro di 656 pagine che raccoglie scritti di autori europei e arabi e propone il Mediterraneo, «mare fra le terre», come antidoto alle ideologie «atlantiste» che hanno portato alle guerre umanitarie o preventive nei Balcani, in Medio Oriente e in Iraq.
Partendo dal grande storico francese Fernand Braudel (che, prigioniero in Germania dal 1940 al 1945, teneva lezioni ai suoi compagni di sventura, e in campo di concentramento cominciò la redazione a memoria de Il Mediterraneo all’epoca di Filippo II) si sottolinea l’unità, la coerenza e la grandezza nella storia dell’area. Per auspicare un’identità mediterranea. Diceva Braudel: «Io resto convinto che i turchi del Mediterraneo vivono e respirano con lo stesso ritmo dei cristiani perché l’intero mare mediterraneo condivide il medesimo destino». Un destino di grandezza che durò molti secoli: ben oltre, sottolinea lo storico, l’epoca di Colombo e di Vasco de Gama. A proposito di una comune identità mediterranea il francese Serge Latouche, scrive in uno dei saggi contenuti nel libro, che questa potrebbe dare all’Europa una civiltà «più conviviale, più umana, più sociale, più tollerante, più culturale, più amante della famiglia e dell’arte del vivere», che faccia da argine «all’Europa delle borse globali, delle banche centrali, di Francoforte e dell’americanizzazione forsennata». E quanto a tolleranza, osserviamo noi, Venezia ha costituito per secoli un miracolo di libertà: per fare solo un esempio, la dottrina di Averroé, il grande commentatore di Aristotele, condannata perché negava l’immortalità dell’anima sia dall’islam che dai papi, fu insegnata per tutto il Rinascimento nell’università di Padova, il centro ufficiale di studi della Serenissima.
Progetto entusiasmante da dirsi, quello dell’alternativa mediterranea, ma problematico da realizzarsi. Come nota uno dei curatori, Danilo Zolo, nel capitolo introduttivo intitolato «La questione mediterranea», a questo bel sogno culturale si oppongono drammatici dati concreti: l’incancrenirsi della questione palestinese, il permanente squilibrio di prosperità tra i paesi del nord e quelli del sud del Mediterraneo. E l’incomprensione - spesso anche l’ignoranza - da parte dell’Europa dei problemi, delle difficoltà e dei valori della civiltà arabo-islamica. Basti pensare che la nozione stessa di stato, anche se oggi largamente diffusa nel mondo arabo, è un’eredità coloniale sovrapposta alla tradizione musulmana della umma, la comunità dei credenti. Molta attenzione dovrebbe essere data invece, scrive Zolo, alla produzione di pensatori politici islamici contemporanei, impegnati in una nuova riflessione su temi come l’emancipazione femminile e i diritti individuali.
Proprio a questa carenza di informazione sul mondo della riva sud del Mediterraneo viene incontro il volume, proponendo ampi saggi che spaziano dall’esportazione della democrazia nei paesi del Medio Oriente e del Mediterraneo (Alessandra Persichetti), all’associazionismo civile nei paesi arabo-islamici (Orsetta Giolo), dall’integrazione musicale tra Europa e islam dall’antichità all’orchestra di Piazza Vittorio (Gianfranco Salvatore), dalla situazione militare del Mediterraneo (Angelo Baracca) al ruolo della donna nei paesi del Maghreb (Hafidha Chefir), dalla situazione penitenziaria in Marocco (Nour-eddine Saoudi) al costituzionalismo in Europa e nell’islam mediterraneo (Gustavo Gozzi).
Molti ancora gli argomenti trattati in questo libro che pone domande scomode e sottolinea ambiguità e contraddizioni. Per esempio nel capitolo curato da Predrag Matvejevic, da qualche anno cittadino italiano, «quale Mediterraneo, quale Europa?, o in quello di Ali El Kentz, sociologo al Centro di ricerche di Algeri, «Tra finzione e realtà». Il primo, che dichiara di fare «un discorso disperato», dice che l’immagine offerta oggi dal Mediterraneo non è affatto rassicurante: dilaniato dai conflitti, diviso dalle disparità tra nord e sud e con la diffidenza che la costa sud mantiene dopo l’esperienza del colonialismo. «Il Mediterraneo si presenta come uno stato di cose, non riesce a diventare un progetto», scrive Matvejevic. Quanto a El Kenz, lo studioso algerino osserva che il progetto euro-mediterraneo è stato concepito e in parte realizzato dalla sola Unione Europea, mentre i paesi arabi del Mediterraneo sono passivi e attendisti. La Commissione Europea detta l’agenda e le priorità: con la conseguenza che migliaia di piccole imprese familiari e artigianali rischiano di chiudere, gli investimenti tardano ad arrivare e il nuovo settore privato dei paesi arabi insidia il pubblico, per esempio nella scuola che sta cedendo il passo alle istituzioni private (anche quelle incantate dalle «tre i», si direbbe), con la conseguente diminuzione, per esempio in Egitto, del tasso di scolarizzazione e del peggioramento della qualità dell’insegnamento dovuto alla diminuzione degli stipendi degli insegnanti.
È dunque solo un sogno di poeti e intellettuali quello di un nuovo mondo mediterraneo? Certo molti e gravi sono i fattori che si oppongono alla sua realizzazione: primo fra tutti il perdurare delle guerre. Ma dati economici recentissimi che riguardano proprio il nostro paese indicano una tendenza della quale non si può non tenere conto: l’Italia è infatti il primo partner commerciale europeo del Mediterraneo, con un aumento del 7% nel 2006 rispetto all’anno precedente. E l’italiano è diventato la lingua franca del Mediterraneo, proprio grazie agli intensi rapporti commerciali e al fatto che sono soprattutto navi italiane , con equipaggi che hanno dovuto imparare l’italiano, a solcare il mare che il latino chiamava Nostrum. Oggi la Società Dante Alighieri tiene 190 corsi di lingua italiana di livello superiore nell’area mediterranea.

l’Unità 8.10.07
L’intervista. Parla il ministro della Cultura egiziana, candidato alla direzione dell’Unesco
Faruk Osni:«L’arte e il dialogo multiculturale contro tutti i fanatici»
di e. d.


Farouk Hosny è Ministro della Cultura in Egitto ed è candidato alla Direzione dell’Unesco. Noto per le sue posizioni liberali, è stato attaccato l’anno scorso per una dichiarazione contraria al rigorismo islamico.
È appena terminato in Egitto il Festival Internazionale del teatro sperimentale e tra poco ci sarà una rassegna di cinema dove l’Italia sarà presente con cinque film. È l’America a fare la parte del leone o la cultura dei paesi europei fa sentire la sua voce, probabilmente più vicina a quella del mondo arabo?
«Sicuramente i paesi europei sono più vicini al mondo arabo: c’è una tradizione secolare di scambi commerciali e culturali in tutto il bacino del Mediterraneo. Ci sono stati tensioni e conflitti, ma dialogo e interessi dei popoli hanno sempre avuto la meglio. La cultura e l’arte sono il perno su cui si basano il dialogo e la comprensione tra civiltà diverse. La presenza dell’Italia con cinque film al Festival Internazionale del Cairo non può che aumentare i nostri scambi artistici e culturali, tenuto conto anche del grandissimo apporto dell’Italia al settore cinematografico. Quanto agli Stati Uniti, enorme macchina per fabbricare sogni, non possiamo che accettare il suo ruolo primario. Hollywood ha fatto sognare il mondo intero: che sia il benvenuto. E noi ci auguriamo che il mondo intero sia presente al Festival Internazionale del Cairo».
Lei ha manifestato avversione per le posizioni del fondamentalismo islamico, tanto da vedersi minacciato per i suoi discorsi di apertura sul velo. Ma l’anno scorso il Gran Muftì Ali Gomaa ha emesso una fatwa contro la scultura e chi la pratica. Non teme che settori del clero vicini alla dottrina wahabita possano impedirle di favorire una politica di conoscenza tra culture diverse?
«Io sono convinto delle mie idee e non le impongo agli altri perché ritengo che la tolleranza sia vitale in tutti i contesti. Difendo le mie idee e non temo la reazione degli avversari perché la libertà d’espressione è sacra. Penso tuttavia che il Gran Muftì sia stato male interpretato: tanto vero che il Simposio di Scultura di Assuan si è svolto senza problemi. Gli intellettuali egiziani e arabi in genere mi hanno sostenuto contro coloro che volevano creare dissidi a danno dell’arte e della libertà d’espressione».
Lei è candidato alla direzione generale dell’Unesco. Se fosse stato direttore quando i taleban decisero di distruggere le statue di Budda a Bamiyan cosa avrebbe fatto?
«Prima di tutto penso che sarebbe stato opportuno mandare, come inviati dell’Unesco, persone che conoscessero bene il contesto culturale e religioso dei taleban, per tentare di negoziare pacificamente. Purtroppo il regime radicale dei taleban era ossessionato dalla distruzione. All’epoca l’Unesco lanciò a quel regime un appello internazionale sostenuto dal mondo intero. Ma la rapidità con cui agirono i taleban non lasciò tempo ad alcun negoziato».
Lei è vissuto otto anni in Italia. Quali sono i pittori che ha nel cuore e quale grande mostra di pittura spera di portare in Egitto?
«Ricordo il mio soggiorno a Roma come un sogno. Grazie ai miei amici italiani, intellettuali o artisti, ho potuto godere dei più importanti avvenimenti culturali. Sono amici che mi hanno aiutato a conoscere l’Italia profonda. Ammiro pittori come Turcato, Vedova, Fontana, Sironi, Santomaso e De Chirico. Ci sono molte cose in Italia che mi fanno sognare. Il mio sogno più grande è di vedere i grandi maestri italiani del Novecento esposti al Gran Museo del Cairo».

l’Unità 8.10.07
Craig Venter non ha creato la vita, l’ha copiata
di Pietro Greco


Occorrono molte condizioni per la riproduzione del Dna e delle proteine
Si aprono scenari promettenti per la genetica sui quali si deve poter scegliere

La scoperta del biologo americano ha innescato discussioni etiche senza fondamento. Ciò che è stato sintetizzato esiste già in natura e non viene dal nulla. E la nostra specie da sempre fa «innesti»

C’era da aspettarselo. Il «cromosoma artificiale» di Craig Venter sta creando dibattito. E il dibattito si polarizza intorno a questioni assolute e un po’ astratte: può l’uomo sostituirsi a Dio e creare la vita? In realtà, entrambi i presupposti della domanda sono infondati. Sia perché Craig Venter (ammesso che abbia davvero sintetizzato il cromosoma artificiale di un batterio) non «ha creato la vita». Sia perché, ove l’avesse creata, non si sarebbe certamente «sostituito a Dio».
Craig Venter e i suoi 20 collaboratori non hanno creato la vita per una serie di motivi correlati tra loro. In primo luogo perché un cromosoma non è, di per sé, la vita. Un organismo vive solo se esiste un insieme dinamico di processi che coinvolge una serie enorme di molecole e strutture cellulari. Il Dna è una molecola essenziale. Ma non basta. Occorre che esso produca proteine e che le proteine lo inducano a «esprimersi», anche sulla base di stimoli ambientali. Occorre poi che il cromosoma (tutto il Dna di una cellula) abbia la capacità di autoriprodursi (grazie al concorso sinergico delle proteine). Insomma, un cromosoma è condizione necessaria ma non sufficiente per avere la vita. Inoltre Venter non ha sintetizzato un «nuovo cromosoma», che esprimendosi codifica per la produzione di «nuove proteine». Ha fatto molto di meno. Ha ricopiato, con qualche taglio e senza alcuna aggiunta funzionale, il cromosoma di un organismo vivente già esistente. Insomma, se anche identificassimo il Dna con la vita in un’operazione riduzionistica estrema, potremmo dire che il grande biologo americano – un po’ come i falsari con la Gioconda di Leonardo – ha «copiato la vita», ma non l’ha certo creata.
Occorrerà, probabilmente, che molta acqua passi sotto i ponti della scienza prima che i biologi riescano a creare la vita, mettendo a punto cromosomi che non esistono in natura o addirittura organismi viventi che non esistono in natura. In questo momento non sappiamo minimamente come fare per realizzare anche solo un gene che non esiste in natura capace di produrre proteine che non esistono in natura. La concreta possibilità di poter realizzare un cromosoma completamente nuovo, con centinaia di geni non esistenti in natura e che, in un ambiente cellulare adatto, inneschi processi stabili di metabolismo e di autoriproduzione – insomma l’idea di poter creare anche solo minuscoli organismi viventi sconosciuti in natura è – e lo sarà per molto e molto tempo – al di fuori di ogni realistica possibilità.
Certo, possiamo modificare organismi viventi. Come facciamo con le biotecnologie, introducendo per esempio un gene umano nel cromosoma di un batterio e inducendolo a produrre per noi insulina umana. Tecnicamente questo batterio è un «organismo nuovo», anche se le sue componenti sono del tutto naturali. Se intendiamo per questo «creare la vita», allora ne siamo capaci non solo da alcuni decenni, ma da alcuni millenni: cos’è il grano o cosa sono i nostri amici cani, se non evoluzione accelerata a opera dell’uomo di organismi che prima non esistevano in natura?
Ma ammettiamo che in un futuro più o meno remoto diventeremo capaci di creare davvero «vita artificiale» o, addirittura di creare «intelligenza artificiale» – come da decenni senza scandalo cercano di fare schiere di scienziati, ingegneri e filosofi – avremmo illegittimamente «preso il posto di Dio»?
La domanda per un non credente è priva di senso. Per cui dobbiamo intendere per Dio semplicemente la natura. Dunque, creando nuove forme di vita – più o meno intelligente – avremmo usurpato una funzione che non è nostra, ma appartiene alla natura (Dio)? Anche in questo caso la domanda è priva di solide fondamenta. L’uomo è parte integrante della natura. Della storia evolutiva del mondo. Non esistono in natura limiti invalicabili. Come non esistevano per quei batteri produttori di ossigeno che con il loro terribile veleno hanno arrugginito il mondo, consumato il più grande olocausto della storia della vita e creato un ambiente adatto alla nostra esistenza. Se nel corso della sua evoluzione l’uomo modifica l’ambiente pre-esistente non compie nessun «atto contro natura». Se e quando riuscirà a creare un cromosoma, un organismo o addirittura un’intelligenza davvero artificiali, non avrà fatto altro che comportarsi «secondo natura».
Questo non diminuisce la nostra responsabilità. Al contrario, la esalta. Proprio perché siamo parte della natura, abbiamo il dovere di non segare il ramo dell’albero sul quale siamo seduti. In pratica significa che siamo chiamati a operare scelte difficili di autodeterminazione. E lo dovremo fare – senza angoscia né iattanza – ma con grande consapevolezza e con grande trasparenza. In piena democrazia.

Corriere della Sera 8.10.07
Welfare, al via il voto in fabbrica Governo-Rifondazione, si tratta
Il ministro dell'Economia: vinceranno i sì, modifiche senza snaturare il protocollo Ferrero: più tutele su pensioni e precarietà. Dini avverte: se cambiano non voto
di Mario Sensini


ALLE URNE Il voto inizia oggi esi concluderà mercoledì.
Venerdì è stato convocato il Consiglio dei ministri per il varo del protocollo sul welfare, che non è stato approvato ma solo discusso

ROMA — Rifondazione e Comunisti non mollano la presa sul Welfare. «Lavoreremo lealmente dentro la maggioranza, senza ultimatum e senza minacce, ma lavoreremo per cambiare il Protocollo» sostiene il segretario del Pdci Oliviero Diliberto. Franco Giordano, segretario di Rifondazione, si dice addirittura ottimista. Secondo lui «ci sono le condizioni per modificare il Protocollo ». La sinistra, però, chiede molto e, anzi, alza la posta: norme più vincolanti per la stabilizzazione dei precari, ma anche modifiche alla riforma previdenziale, sui lavori usuranti e sulle quote per l'età pensionabile. Troppo per l'ala riformista e liberista della maggioranza, e forse anche per lo stesso Romano Prodi che vede più lontano un compromesso in cui, tutto sommato, ancora spera.
A cinque giorni dal Consiglio dei ministri chiamato a trasformare il Protocollo in disegno di legge da agganciare alla Finanziaria, e alla vigilia della consultazione dei lavoratori, le posizioni sono ancora molto distanti. Il ministro del Lavoro, Cesare Damiano, è pronto a qualche aggiustamento, ma solo formale, mentre il titolare dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, tiene fermi i suoi paletti. «Sugli usuranti un accordo si può trovare, ma bisogna che ci sia coerenza con la cifra stanziata » per ampliare la platea di chi può ritirarsi prima dal lavoro, 252 milioni l'anno. «Se si modifica l'intesa in modo radicale bisognerà trovare la copertura» dice Padoa- Schioppa, senza chiudere la porta.
Sul precariato, invece, il ministro non apre molti spazi. Il Protocollo stabilisce che dopo 36 mesi i contratti a termine, in linea di massima, vengano stabilizzati, ma «non credo che ci possa essere un automatismo assoluto » dice Padoa-Schioppa manifestando, però, ottimismo. «Sono convinto che la grande maggioranza dei lavoratori sarà favorevole.
L'accordo ci sarà e non sarà snaturato» sostiene il ministro, che confida molto nel referendum che si apre oggi nelle fabbriche. Nei 30 mila seggi sono attesi 5 milioni di voti entro mercoledì. I risultati dovrebbero arrivare il giorno stesso del Consiglio dei ministri, riunione che si preannuncia assai difficile. Lamberto Dini, che ieri ha presentato il manifesto dei Liberali Democratici, ha garantito che se la sinistra radicale tenterà di annacquare ancora il Protocollo, presenterà in Parlamento emendamenti di segno opposto (e altrettanto è pronto a fare con la Finanziaria). «Non si può tradire un accordo già fatto, scavalcando i sindacati» ha detto Dini, mentre il direttore generale di Confindustria, Maurizio Beretta, presente alla convention, insiste: «Il Protocollo deve essere approvato così com'è». Come sostiene, del resto, il sindacato. «In tutti gli accordi, ci sono dei compromessi, ma gli accordi si rispettano e se si cambiano, si cambiano tra i contraenti» dice il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani, convinto del sì dei lavoratori.

Corriere della Sera 8.10.07
Il rimpasto. Comitato di bioetica: via i tre vicepresidenti
di M. D. B.


ROMA — Rimpasto nel Comitato nazionale di bioetica. Dopo le polemiche della scorsa settimana oggi dovrebbe esserci il decreto di sostituzione dei tre vicepresidenti. A Cinzia Caporale, Elena Cattaneo e Luca Marini succedono Riccardo Di Segni, medico e rabbino capo della comunità ebraica romana, Laura Palazzani, docente di filosofia del diritto alla Lumsa, e Lorenzo D'Avack, filosofo del diritto all'università Roma Tre. È la risposta del presidente Francesco Paolo Casavola agli attacchi sintetizzati in una lettera dove tre esponenti del comitato (Carlo Flamigni, Demetrio Neri e Gilberto Corbellini) gli contestavano alcune iniziative dove ha privilegiato l'area cattolica.
Casavola nei giorni scorsa era andato da Prodi presentando le dimissioni che il premier aveva respinto. Il ricambio dei tre vice non è stato per il momento motivato. Forse la necessità di dare una svolta e risolvere le difficoltà di gestione. Ma la decisione di Casavola non accontenta il bioeticista Demetrio Neri: «Non capisco il gesto. Questo non basta, il presidente Casavola deve rispondere alle nostre accuse».
E, intanto, forse per prevenire nuove polemiche, Lorenzo D'Avack, chiarisce: «La mia appartenenza culturale è laica, mi sono schierato a favore della ricerca sugli embrioni malformati o adottabili».

Corriere della Sera 8.10.07
La repressione in Birmania
La Cina è vicina. Ma a tutte le dittature
di Christopher Hitchens


Il fatto di essermi unito a un gruppo di giovani e appassionati dimostranti che protestavano a Washington (e io che credevo che i miei giorni da «dimostrante» fossero finiti...), mi è stato di aiuto per fare luce su una questione solo apparentemente secondaria.
La folla era unita e compatta nell'intonare «Birmania libera, libera, libera»: questo può sembrare anche un dettaglio trascurabile, tuttavia penso sia giusto opporsi all'uso di nuovi nomi dal sapore grottesco come Myanmar e Yangon, e mi compiaccio che il Washington Post continui a chiamarli Birmania e Rangoon.
Questo tipo di enfasi è molto rivelatrice. «Lanka» è la parola in Sinhala che sta a designare Ceylon, e «Sri» significa «sacro », cosicché il nome «Sri Lanka» esprime il concetto che l'isola sia a un tempo di lingua singalese e religione buddista. I Tamil tendono ancora a chiamarla «Ceylon», oppure, per dimostrare il proprio nazionalismo, «Eelam». E così, per un nome, la gente muore.
C'è chi mi scrive per dirmi che sulla religione prendo abbagli, perché l'opposizione alla spaventosa dittatura birmana è guidata da monaci buddisti. Su questo punto tali persone sbagliano due volte, in primo luogo perché le immagini delle manifestazioni mostrano anche una presenza significativa di uomini e donne in abiti civili; in secondo luogo, perché la dittatura stessa è buddista, e ha speso larghe somme di denaro nella costruzione di templi.
Mi sta bene che dei monaci facciano parte dell'opposizione, ma il buddismo ha una forte responsabilità, ad esempio, in Sri Lanka e Cambogia, e se i suoi fatalistici discepoli si vogliono attribuire del merito in un caso, devono anche riconoscere la propria responsabilità negli altri.
Ad ogni modo, la nostra speranza non deve risiedere in una futura repubblica buddista in Birmania, ma in un Paese che si emancipi dal totalitarismo in tutte le sue forme. Siamo di fronte a un dispotismo insolitamente lungo: nel libro di Emma Larkin Finding George Orwell in Burma, leggiamo che i birmani scherzano sul fatto che in realtà George Orwell ha dedicato al loro Paese un'intera trilogia: non soltanto i Giorni in Birmania, ma anche La fattoria degli Animali e 1984.
La settimana scorsa circolavano voci abbastanza fondate secondo cui, in alcune città, l'esercito non era intenzionato a sparare sulla folla (immagine convenzionale di una situazione rivoluzionaria): questo ci lascia sperare che stavolta il popolo birmano possa avere l'occasione di rovesciare il demenziale despotismo che lo imprigiona quasi dall'inizio dell'era post-coloniale.
Ho pensato che il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, fosse stato davvero corretto nell'elencare i suoi regimi meno favoriti, durante il discorso alle Nazioni Unite della settimana scorsa, e nel tentativo di fare aumentare la pressione internazionale sui teppisti di Rangoon.
I governi che aveva selezionato erano quelli, eccezionalmente repellenti, che considerano il cittadino proprietà dello Stato, e quelli, eccezionalmente oppressivi, che sono rimasti al potere fino a quando i cittadini si sono messi letteralmente a urlare per rivendicare la libertà. Non ho bisogno di elencare uno per uno questi sistemi di potere guidati da vecchi criminali, eccetto per il fatto che una cosa li accomuna tutti: ciascuno di essi, da Cuba allo Zimbabwe, è difeso dal voto cinese all'Onu.
Chi ha a cuore, o ha la pretesa di avere a cuore, i diritti umani deve cominciare ad affrontare questo problema con franchezza.
Esiste un'iniziativa per salvare quei pochi che non stati ancora massacrati nel Darfur? Tale iniziativa incontrerà il veto dei cinesi. Esiste qualcuno che si preoccupa del fatto che il presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe, tratta una popolazione disperata come se fosse di sua proprietà? La Cina è pronta a sostenere Mugabe. I Nord Coreani stanno morendo di fame, e sono isolati al punto che un playboy demente riesce a fare il bullo con le armi nucleari? Pechino accorre a proteggere il playboy demente. Quanto ancora il Sudest asiatico potrà tollerare la vergogna e la miseria della giunta birmana? Tanto quanto sarà stretto l'abbraccio della Cina.
L'identità del Tibet viene cancellata dalla deliberata importazione di coloni cinesi. Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, un uomo che rivendica anche di conoscere e determinare la vita sessuale dei suoi sudditi (è, incidentalmente, l'essenza stessa del totalitarismo), riceve armi e finanziamenti dalla Cina.
È una storia simile a quella in cui incappò Bill Clinton, il quale voleva che le Nazioni Unite affrontassero il presidente serbo Slobodan Milosevic, e venne ostacolato (tra gli altri, dalla Cina); ed è la stessa cosa di quando il presidente Bush chiese alle Nazioni Unite di fare valere le sue risoluzioni nei confronti di Saddam Hussein: ma ora mi tocca sentire gli attivisti dei diritti umani piagnucolare sulla Birmania e la nostra inazione, e, contemporaneamente, lamentarsi dell'unica volta in cui un presidente degli Stati Uniti ha avuto il coraggio di vincere l'opposizione della Cina (e della Russia, e, talvolta, della Francia), sulla possibilità di qualsiasi soccorso internazionale.
La Cina, inoltre, rivendica ancora alcuni territori indiani e vietnamiti (oltre, naturalmente, Taiwan), e sta costruendo un vasto esercito, nonché un'enorme flotta oceanica, per sostenere i suoi piani ambiziosi.
Anche se a causa dell'11 settembre 2001 ora sembra che sia successo un milione di anni fa, non dovremmo tuttavia dimenticare cosa successe quando un aereo americano fu coinvolto in un incidente di volo sopra l'isola Hainan durante i primi giorni di questa amministrazione: i cinesi reagirono come se l'incidente fosse stato deliberato, sequestrarono l'aereo e l'equipaggio per diversi giorni, e montarono manifestazioni di massa isteriche e scioviniste.
Gli eventi in Medio Oriente hanno poi oscurato questa minacciosa immagine, ma in effetti è proprio all'interno di quella regione che la cinica politica cinese è più plateale. Se Pechino l'avesse avuta vinta, Saddam Hussein sarebbe ancora al potere. L'Iran viene rifornito di missili cinesi Silkworm.
La Cina, e questo è l'aspetto più orribile, compra la maggior parte del petrolio dal Sudan, e in cambio fornisce armi (assieme alla copertura diplomatica all'Onu), per la pulizia etnica in Darfur («Sangue per petrolio» sarebbe una descrizione appropriata per questo scambio commerciale, anche se non ho visto tale espressione usata molto spesso).
Tutti sono pronti, d'altro canto, a spassarsela alle Olimpiadi del 2008 a Pechino. Se ci fosse una sola richiesta capace di riassumere tutte le esigenze di rispetto dei diritti umani nel mondo contemporaneo, sarebbe proprio l'appello a boicottare o cancellare una celebrazione tanto disgustosa.
Il regime di Pechino, con il suo voto alle Nazioni Unite, sostiene il dispotismo In nome della libertà, bisognerebbe boicottare le Olimpiadi. Ma non andrà così
© C. Hitchens 2007 distribuito dal New York Times Syndicate Traduzione di Francesca Santovetti

Corriere della Sera 8.10.07
Per i devoti dell'ateismo Adamo ed Eva minacciano i diritti umani
di Pierluigi Battista


Il Consiglio d'Europa ha messo al bando le teorie creazionistiche perché le ha giudicate «pericolose»

La stupidità censoria attraversa ciecamente gli oceani e con il suo zelo non si accorge di oltrepassare ripetutamente la soglia del ridicolo. L'amministrazione di Chicago ha contestato l'intestazione di una via a Saul Bellow, che di quella città è stato il narratore sommo, per via di un presunto «razzismo» dello scrittore. Bellow razzista, ma davvero? Razzista perché ha scolpito con il suo «chi è il Tolstoj degli Zulu? Il Proust degli abitanti di Papua? Sarei lieto di poterli leggere» un paradosso arguto che è una sfida ai dettami del politicamente corretto? Ma gli arcigni sacerdoti di un dogma grottesco si esibiscono anche sul palcoscenico europeo. Lanciano pensosi allarmi, cercano di stabilire per decreto ciò che bisogna leggere e cosa mandare al rogo. Fanno i burocrati del pensiero, come quei solerti vigilantes dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa che nei giorni scorsi hanno votato a maggioranza un documento perché da tutte le aule del continente venga bandito quel pericoloso virus chiamato «creazionismo», il cui insegnamento è nientemeno che una minaccia all'integrità dei «diritti umani».
I diritti umani messi a rischio dai militanti dell'antidarwinismo? Attentatori della dignità umana quei seguaci del «creazionismo» che sono i più devoti credenti in un «disegno intelligente», emanazione della volontà divina, contrapposto agli schemi della dottrina evoluzionista? Magari saranno anche patetici, i creazionisti, così refrattari all'idea che noi umani non saremmo altro che discendenti delle scimmie, ancora tanto offesi che Darwin abbia osato contraddire con supponenza scientista lo spirito e la lettera delle Sacre Scritture. Ma «pericolosi», nemici dei diritti umani, che senso ha? E addirittura la richiesta di vietarne d'imperio il proselitismo. E persino la condanna retroattiva all'ex ministro Moratti, rea di tollerare che i manuali dell'ideologia creazionista potessero entrare nei recinti scolastici, come se la scuola pubblica, aconfessionale in tutto, debba farsi per forza ingabbiare senza possibilità di contraddittorio «pluralista» nella confessione evoluzionistico-darwiniana. Ma Darwin, personificazione dello spirito critico e curioso, sarebbe stato il primo ad inorridire per il fervore dei suoi tardi apostoli asserragliati nella fortezza istituzionale europea e impegnati a emanare direttive fantasticamente sciocche. Per protesta, salirebbe definitivamente a bordo del Beagle, il brigantino della regia marina britannica usato per le sue esplorazioni, malgrado soffrisse di un terrificante mal di mare. Meglio il perenne mal di mare che lo spettacolo degli epigoni abusivi i quali, per fare la guerra culturale agli atei devoti, si sono trasformati in una nuova maschera dell'ideologismo moderno: i devoti dell'ateismo.
E così l'euroburocrazia, incapace di trovare una posizione univoca nei confronti di chi, come l'Iran, calpesta per davvero i diritti umani con la disinvoltura dettata dall'impunità, impotente con i militari dispotici che stanno schiacciando nel sangue i monaci birmani, non trova altro passatempo che non sia la denuncia del «creazionismo » come teoria incompatibile con una parodia di «diritti umani» calpestati da chi? Addirittura da chi si ostina a dar torto a Darwin giurando eterna fedeltà alla Bibbia e ai progenitori Adamo ed Eva. Uno spettacolo di intolleranza culturale che è il contrario di ciò che idealmente si professa. Una manifestazione di paura che attanaglia i custodi dell'unico pensiero autorizzato e vidimato dalle istituzioni europee fino al punto di immaginarsi un nuovo nemico nelle vesti del creazionismo. La scienza non c'entra. C'entra l'incrollabile pretesa di parlare nel nome di una presunta nuova Verità. Ciao, Darwin.

il Riformista 8.10.07
Due o tre cose a proposito dell’Arancione
di Paolo Franchi


Leggo, sull’Espresso, sull’Unità e altrove, che qui al Riformista Paolo Soldini, reo, così si dice, di non aver procurato alla famiglia Angelucci un appuntamento con Veltroni, sarebbe vittima di un’epurazione. Apprendo, da una lettera diffusa alle agenzie prima ancora di arrivare sul mio tavolo, che Peppino Caldarola proprio non può più continuare a collaborare con un quotidiano come il nostro, diventato l’organo o, dice lui, «la cattedra ambulante», di un «partito invisibile» (immagino il ri-costituendo partito socialista), mentre c’è da sostenere (lui di recente ha deciso di farlo, abbandonando gli invisibili al loro destino) la causa di Walter. E sento in giro (ne riferisce anche Liberazione) voci antipatiche, definiamole con un eufemismo così, su di me e sulle sorti di questo giornale, alimentate dai casi (si fa per dire) sovradescritti.
Anche perché si tratta di persone che conosco e che mi conoscono da una vita, vorrei chiarire, per i lettori, come stanno le cose. Alla lettera di Caldarola ho già risposto venerdì su questo giornale, e non ho altro da aggiungere. Quanto a Soldini, è presto detto. Quando, nel giugno del 2006, sono stato chiamato a dirigere il Riformista, Soldini come vice lo ho voluto io, non certo perché era il portavoce di Veltroni in Campidoglio, e nemmeno solo perché è mio amico da una vita (per un suo improrogabile impegno, tanti anni fa, anticipai persino la data del mio matrimonio…), ma soprattutto perché era (è) un eccellente professionista, con alle spalle una carriera importante in Italia e fuori (Berlino, Bruxelles), desideroso anche lui, prima di andare in pensione, di fare un’esperienza nuova in un giornale “diverso” come questo. Pensavo che avrebbe potuto darmi una mano importante, in una redazione giovane, e a me sostanzialmente sconosciuta, nel primo anno di direzione: lo ha fatto benissimo, e gliene sono grato.
Quattro mesi fa Soldini non è stato affatto epurato per motivi inconfessabili. Il suo contratto da vicedirettore era in scadenza, e Soldini non mi ha mai chiesto di rinnovarlo, ma ha trattato con l’editore, in pieno accordo con me, un diverso rapporto di lavoro con il giornale. Il nuovo contratto che ha firmato prevede che scriva (e scrive, nella più assoluta libertà, articoli importanti), piuttosto che lavorare, come suo dirsi, al “governo della macchina”. Io, che nel frattempo avevo nominato un nuovo vicedirettore, Massimiliano Gallo, un vicedirettore a pienissimo titolo, che non avrei mai indicato se non nutrissi nei suoi confronti la massima stima e la massima fiducia, avrei preferito che Soldini, oltre a scrivere, continuasse a dare il suo contributo, in forme ovviamente nuove, anche all’ideazione e all’organizzazione del giornale; e che il suo nome restasse nella gerenza. Non ho mancato di farlo presente più volte all’editore, che però alla fine ha deciso altrimenti, attenendosi a un’interpretazione letterale del nuovo contratto sottoscritto con Soldini. E io lo ho annunciato alla redazione manifestando il mio dissenso su questo punto. Tutto qui.
Mi scuso con i lettori se li ho annoiati ricostruendo per sommi capi il mio punto di vista su vicende che (almeno lo spero, o voglio sperarlo) sono tutte interne al Riformista. Ma, ripeto, ho sentito il dovere di farlo soprattutto per i rumours su di noi che, a partire da ricostruzioni imprecise di queste vicende, si sono moltiplicati sui giornali e in rete. I più sgradevoli non sono quelli che ipotizzano una mia imminente sostituzione: non ne ho alcun sentore, ma un direttore, come l’allenatore di una squadra di calcio, sa bene che una simile eventualità è sempre nell’ordine delle cose possibili. Molto più sgradevoli e, se fossero fondate, molto più preoccupanti (non solo per l’Arancione) sono alcune interpretazioni del perché, attorno a quel che capita in un piccolo giornale come il Riformista, si è d’improvviso creata tanta attenzione. Secondo le quali (cito Liberazione) «l’idea che dietro questo vociferare ci sia un Veltroni o più in generale un Partito democratico innervosito dal mancato allineamento del giornale forse non è poi così peregrina». Io non voglio credere che le cose stiano così, ma mi piacerebbe avere qualche motivo in più per esserne convinto. In ogni caso, almeno per quel che mi riguarda, nessun problema. Cercherò, per quanto so e posso, di fare un giornale della sinistra ancora meno allineato (e non solo nei confronti del Pd) e ancora più anticonformista. Per il resto, chi vivrà vedrà.

Aprile on line 5.10.07
Aspettando lo scrutinio
di Carla Ronga


Il referendum sul protocollo welfare, che tra l'8 e il 10 ottobre chiamerà a raccolta milioni di lavoratori e pensionati italiani, si avvicina e la discussione politica, anche nella sinistra, non si placa. L'intesa raggiunta in estate tra governo e parti sociali rappresenta il "pomo della discordia" dentro la maggioranza di governo. Intanto il fronte del no si mobilita e lancia il "precarity day"

Cosa accadrà il 12 ottobre, quando il Consiglio dei ministri tornerà a riunirsi per esaminare il pacchetto welfare sottoscritto con i sindacati? I ministri Paolo Ferrero (Prc), Fabio Mussi (Sinistra democratica), Alfonso Pecoraro Scanio (Verdi) e Alessandro Bianchi (Comunisti italiani) paleseranno il loro dissenso su parte della legge finanziaria? Gli occhi sono puntati soprattutto sul titolare del dicastero della Solidarietà sociale Ferrero, che già l'anno scorso espresse il proprio malumore non sottoscrivendo in prima battuta la legge finanziaria.
A influire sull'atteggiamento dei quattro ministri sarà l'andamento del referendum sindacale tra i lavoratori sulla bontà dell'accordo sottoscritto con il governo che si conclude il 10 ottobre.

Dopo le contestazioni dei lavoratori della Fiat di Mirafiori e l'annunciato sciopero degli statali e dei lavoratori della scuola per il prossimo 26 e 27 ottobre, l'esito del referendum è imprevedibile. E se il Sì appare scontato, è la percentuale dei No che può costituire un problema.
Qualora il dissenso dovesse oscillare tra il 20 e il 30 per cento, come segnala più di un sondaggio, Rifondazione e Pdci potrebbero ricavarne il giudizio che vale la pena rappresentare quei lavoratori che non si riconoscono nell'accordo. In questo caso, Ferrero e Bianchi non approverebbero quanto può emergere dal Consiglio dei ministri, rimandando al dibattito parlamentare la possibilità di modifiche della legge finanziaria, che per ora Prodi non sembra disposto a concedere, anche per pressione dell'ala moderata dell'Unione. Più sfumata è la posizione di Sinistra democratica e Verdi, che non hanno voluto interferire nelle scelte dei sindacati. "Da oggi fino al 10 ottobre la cosa più importante, rispetto al protocollo, è il giudizio che le lavoratrici, i lavoratori e i pensionati esprimeranno nelle 50.000 assemblee: di fronte a quel giudizio tutte le forze politiche della maggioranza dovranno assumere responsabilità", è la posizione espressa dalla capogruppo di SD, Titti Di Salvo, che non nasconde la preoccupazione sul passaggio nelle aule parlamentari, in primis al Senato: "Non rinunciamo ad immaginare un'azione realistica per migliorare l'accordo, ma siamo tutti esentati dal compiere qualsiasi azione che consenta ad altri di peggiorarlo".

Il Comitato politico nazionale di Rifondazione, che si è riunito per il fine settimana, deve discutere di questo scenario e del proprio congresso che dovrebbe essere fissato nel mese di marzo del 2008. Nonostante non ci sia un pieno accordo politico tra le quattro forze della sinistra sulle cose da fare e sull'atteggiamento da tenere nei confronti del governo Prodi, la scelta è quella di procedere comunque al varo di una federazione che possa presentarsi unita alle elezioni amministrative del 2008, con l'auspicio che i nodi politici possano nel frattempo sciogliersi.
Tra Prc, Pdci, Sinistra democratica e Verdi si è aperta anche una discussione sulla leadership che cela un problema di merito. Il nome di Nichi Vendola, attuale governatore della Puglia, inizia a circolare insistentemente come la novità che potrebbe favorire una maggiore competizione con il Partito democratico di Walter Veltroni. L'eccesso di continuismo di una federazione che congela le quattro formazioni politiche così come sono, anche se può rendere irreversibile la scelta della presentazione unitaria alle scadenze elettorali, non entusiasma quanti preferirebbero il varo di una vera e propria fase costituente di un nuovo soggetto politico.

Sulla strada della federazione o della costituente pesa quello che può accadere nei prossimi giorni sul fronte del governo.
Un atteggiamento non unitario tra le quattro forze politiche sulla legge finanziaria e sulla riforma del welfare potrebbe far saltare gli equilibri fin qui ricercati. I leader di Prc, Pdci, Sinistra democratica e Verdi hanno presentato un proprio promemoria alla vigilia dell'approvazione della legge finanziaria da parte del Consiglio dei ministri. Romano Prodi ha tenuto conto solo in parte delle loro richieste. E' soprattutto la parte relativa alla riforma del welfare, quella che riguarda l'accordo con Cgil, Cisl e Uil, che continua a non convincere Rifondazione e Pdci. I due partiti sono critici sia sull'elevamento processuale dell'età pensionabile e sulla defiscalizzazione degli straordinari, sia sulla non abolizione della Legge 30 sulla precarietà del lavoro. Anche se Rifondazione, la cui posizione iniziale era quella di un netto rifiuto dell'intesa, si sta ora concentrando sulla richiesta di modifica di alcuni punti critici.
Dall'altro polo dell'Unione, l'ala ultrariformista e più moderata - rappresentata dai radicali, dall'Udeur, e, soprattutto, dai Liberaldemocratici di Lamberto Dini -, intima al governo Prodi di non cambiare una virgola all'accordo stipulato a luglio, pena voto negativo in Senato.

E le parti sociali? Se si esclude il no all'accordo da parte della Fiom, nelle migliaia di assemblee aziendali e di fabbrica che precedono la consultazione referendaria, gli esponenti di Cgil, Cisl e Uil stanno portando avanti le ragioni dell'intesa. Al tempo stesso, Montezemolo ha accettato di buon grado la "sintesi" ( in realtà alquanto sbilanciata a favore della Confindustria) che governo e sindacati sono riusciti a trovare e ha dato il via libera all'accordo.
A questo punto è chiaramente determinante il risultato del referendum tra i lavoratori. I sindacati hanno parlato chiaro: se dalla consultazione arrivasse un largo consenso per l'intesa di luglio, allora il protocollo potrà essere solo leggermente modificato, e solo con l'accordo di tutte le parti sociali. "Se si userà il buon senso - ha detto il segretario della Cgil Guglielmo Epifani - potremo, forse, con il sì di coloro che l'hanno sottoscritto, rendere il protocollo ancora più efficace". Stesso ragionamento da parte del leader della Cisl Raffaele Bonanni: "Tutte le parti insieme possono fare quello che vogliono, rivedere alcuni punti. E' una parte da sola o anche due su tre che non possono fare niente". Da parte del governo, il ministro del Lavoro Cesare Damiano ha affermato più volte che c'è la disponibilità a ridiscutere alcuni singoli punti del protocollo, senza stravolgerne la sostanza.
Diversa la situazione se dalle fabbriche dovesse uscire un no, o anche un sì molto stretto. Nel primo caso, Epifani ha già assicurato che ritirerebbe la sua firma dall'accordo; le ripercussioni sul governo inoltre potrebbero essere molto violente, in quanto da sinistra arriverebbero richieste di modifica strutturali al protocollo, che difficilmente verrebbero accettate dalle forze moderate. Anche una risicata vittoria del sì, però, potrebbe non essere sufficiente a difendere la forza dell'accordo.

Le assemblee sul territorio proseguono, fornendo delle indicazioni abbastanza contrastanti. Dopo i mugugni del "fabbricone" di Mirafiori, alla Piaggio di Pontedera, la più grande azienda metalmeccanica toscana, la Fiom fa sapere che il no dei lavoratori all'accordo è "nettissimo". Diverse le reazioni in altre aziende, come per esempio all'Avio di Rivalta Torinese, dove l'assemblea ha ribadito il suo sostegno all'azione dei sindacati e del governo. Intanto è lo stesso Bonanni ad affermare che "nelle fabbriche il sì all'accordo sul welfare è in fortissimo recupero, lo ammettono anche coloro che sono per il no".
Ma proprio dalle fila del "no" si moltiplicano in questi giorni le iniziative. Mentre i sindacati vanno nelle fabbriche e fanno votare operai e lavoratori, il movimento contro la precarietà apre la sua consultazione autogestita sul protocollo sul welfare: seggi in tutta Italia per far votare "gli invisibili - dicono i promotori - quelli senza tutele e senza prospettive" e si affidano ad un sito internet (www.consultazioneprecaria.org). Il tutto sotto l'occhio attento di San Precario la cui effige è un po' il simbolo del movimento che vigilerà anche sul "precarity day" del 9 ottobre, quando il movimento "uscirà" dal mondo virtuale per occupare in decine di città contemporaneamente le agenzie di lavoro interinale. Il giorno clou della rivolta è però fissato per il 12 ottobre, con una manifestazione per ricordare a Prodi e al suo governo che aveva promesso la cancellazione della legge 30 (dopo l'infortunio di Francesco Caruso nessuno la chiama più legge Biagi) e mettergli sotto il naso il risultato del referendum.
Le firme sotto l'appello a dire no al protocollo vanno dai centri sociali alle associazioni di immigrati, dai Cobas alla Rete 28 aprile della Cgil, quella di Giorgio Cremaschi, e i giovani di Rifondazione comunista.

Corriere della Sera 8.10.07
Moravia: una religione chiamata comunismo
Perché un intellettuale borghese decise di sposare la teoria rivoluzionaria
di Alberto Moravia


Appena finita la guerra si verificarono nella mia vita due avvenimenti importanti. Il primo fu che mi iscrissi al Partito comunista. Immagino che ogni uomo agisca per motivi al tempo stesso interessati e disinteressati, personali e impersonali. I motivi disinteressati della mia iscrizione al Partito (lo chiamerò d'ora in poi così senza aggiungere la parola comunista, per noi comunisti il Partito comunista è il partito, senza più) non differiscono granché da quelli di tanti che in quel periodo fecero lo stesso passo (...)
Parlare di questi motivi disinteressati mi sembra inutile, perché io qui intraprendo di raccontare una storia molto personale che mi permetterà di definirmi di fronte a me stesso e agli altri e i motivi disinteressati, appunto perché tali, non hanno mai definito nessuno e sono sempre stati invece patrimonio comune di tutti gli uomini. Mi basti dunque affermare che mi iscrissi al partito in perfetta buona fede, con sufficiente entusiasmo sentimentale e buona conoscenza dottrinaria.
Quanto ai motivi interessati essi furono parecchi ed esaminandoli mi accorgo che tutti più o meno mi riconducono a Maurizio e ai miei rapporti con Maurizio. Ma andiamo per ordine, la materia è ricca e in un certo modo strana e nuova, senza un criterio di scelta secondo importanza non mi riuscirà mai di dipanarla. Dunque, cominciando dal principio, tra le tante cose che Maurizio ogni tanto mi rinfacciava nella sua maniera accondiscendente e sarcastica era il mio carattere, diceva lui, di intellettuale.
Spesso, gli avveniva di dirmi «Voialtri intellettuali », oppure «tu che sei quello che volgarmente si chiama un intellettuale»; oppure ancora «non sei che un intellettuale». Debbo dire a questo punto che non ci sarebbe stato bisogno di Maurizio per farmi odiare la parola intellettuale. Essa, un po' come la parola «borghese» e tante altre, si è deteriorata col tempo, si è caricata di significati negativi che prima non aveva: oggi è quasi un insulto e non c'è persona che sentendosela affibbiare non provi l'impulso di protestare. Ma ciò che mi dispiaceva era che fosse proprio lui a dirmelo, lui per il quale, irragionevolmente, provavo tanta attrazione, che stimavo tanto non meno irragionevolmente e di cui insomma volevo diventare amico. D'altra parte, mi rendevo conto che sia pure in maniera sfavorevole e maligna, Maurizio diceva in fondo la verità: io ero, senza ombra di dubbio, quello che si chiama di solito un intellettuale. Ossia una persona colta ma povera e perciò incapace di far della cultura un mero ornamento e passatempo, costretto per campare a fare il critico cinematografico in un giornale di terz'ordine, a tradurre libri gialli, a scrivere articoli di varietà, in fondo ozioso seppure attivo, eternamente disoccupato seppure occupatissimo.
Ma non basta, anche nel fisico, come egli mi fece notare più volte, ero un perfetto tipo di intellettuale: piuttosto piccolo di statura, arruffato nei capelli, occhialuto, vestito di maglioni sportivi in luogo di camicia, le tasche piene di carte, i pantaloni sfrangiati, le scarpe infangate. Ero dunque un intellettuale in tutto e per tutto e sapevo di esserlo. Perché allora sentirmelo dire da Maurizio mi offendeva tanto?
Ho già accennato che la parola intellettuale è di per sé ormai ingiuriosa; aggiungerò che mi sentivo anche ferito dal fatto che Maurizio, adoperandola, mostrasse di non aver dubbi sul vero esser mio, di avermi classificato per sempre, una volta per tutte. In altri termini, agli occhi suoi, io non riserbavo più sorprese, ero un intellettuale, e qualunque cosa facessi non avrei potuto mai comportarmi che da intellettuale. Mancavo insomma di quella libertà che permette un margine di autonomia e di imprevisto nei rapporti umani e consente di farli uscire dalla mortificante rotaia dei meccanismi e delle abitudini. Questo ancor più che il senso ingiurioso della parola intellettuale mi feriva; e suppongo che tra i motivi interessati della mia iscrizione al partito comunista ci fosse anche quello di essere in grado di dirgli: «Tu mi credevi un intellettuale... ed ecco invece che mi sono iscritto al partito... sono un comunista... che ne dici?».
Mi verrà osservato a questo punto che farsi comunista non è la sola alternativa all'essere un intellettuale. Se avessi voluto cambiare, infatti, avrei potuto egualmente diventare, che so io, impiegato, esploratore, operaio, aviatore. È vero; ma non bisogna dimenticare che nel contegno di Maurizio verso di me, in quella sua accondiscendenza sprezzante e puntigliosa, c'entrava per molta parte un complesso, come si dice, di superiorità di chiara origine sociale: lui era ricco e io povero, lui di famiglia nota e potente, io di oscura piccola borghesia, lui elegante ben vestito mondano, io malvestito, oscuro, goffo. Senza confessarmelo forse, io mi feci comunista anche per trovarmi in una posizione accusatoria e superiore di fronte a Maurizio, anche per potergli dire: «Non soltanto non sono un intellettuale come tu dicevi, ma sono anche qualcuno che può dirti in faccia, che ha il diritto di dirti in faccia che sei condannato, che appartieni a una classe condannata, che tutti i tuoi soldi, la tua mondanità, la tua eleganza, le tue arie non ti salveranno il giorno del giudizio e che questo giorno è prossimo e che in questo giorno tu sarai pesato sulla bilancia e sarai trovato mancante e sarai buttato via tra i rifiuti, come una spazzatura». Queste cose non tanto le pensavo quanto le sentivo, con estrema vivacità, mescolate, però, sempre a quell'eterna e irragionevole attrazione che Maurizio esercitava sopra di me. Comunque questo è certamente il secondo motivo per cui mi iscrissi al partito, dico il secondo motivo personale e interessato.
Veniamo al terzo e ultimo motivo. Questo motivo, connesso con gli altri due, fu che io sentivo effettivamente di non essere abbastanza forte di fronte a Maurizio. Forte, intendo, come presenza fisica, visto che moralmente mi ritenevo molto superiore a lui. Questa presenza fisica, non potevo evidentemente crearmela: anche alzandomi in punta di piedi o gonfiando il petto non potevo diventare più alto e più robusto di quanto non fossi. (...) *** Per intendere il significato del mio incontro con Maurizio, voglio qui ripetere con enfasi che in quel tempo io ero assolutamente sicuro che una rivoluzione comunista si sarebbe prodotta al più presto in Italia; sicuro come sono adesso sicuro di scrivere queste parole. Mi pareva impossibile che le condizioni di disordine, di miseria, di corruzione e di disgregamento sociale italiane di quegli anni del dopoguerra non dovessero sboccare in una rivoluzione; non dubitavo che appena finita l'occupazione alleata, la rivoluzione sarebbe scoppiata spazzando via ogni ostacolo. Ma ancor più delle condizioni in cui si trovava il paese in quel tempo, mi sentivo portato a ritenere imminente la rivoluzione dal sentimento che custodivo in fondo al mio animo e che consideravo, tra tante passioni contraddittorie, tanta impotenza e tanta oscurità, la sola cosa ferma e luminosa della mia vita. Questo sentimento consisteva nella speranza ineffabile, rapita, quasi mistica dell'avvento di un mondo migliore in cui io stesso mi sarei sentito migliore e finalmente in pace con me stesso. (...) Immagino che sentimenti simili portino nelle persone più semplici all'esaltazione religiosa; o che portassero in altri tempi a tale esaltazione anche gli uomini di cultura. Ma io non ero una persona semplice, ero, come diceva ironicamente Maurizio, un intellettuale; inoltre non vivevo nel medioevo bensì in pieno ventesimo secolo. Il comunismo di cui conoscevo e avevo studiato le teorie mi pareva allora dare a quel miraggio tutto l'aspetto di un piano quasi di ingegnere che con calcoli matematici e ipotesi fondate sopra esperienze e valori indiscutibili e concreti si proponga in un futuro prossimo di erigere un certo edificio. Nelle mie riflessioni diuturne avevo voltato e rivoltato per tutti i sensi le teorie comuniste; e sempre più mi ero meravigliato di vedere quanto combaciassero esattamente l'entusiasmo e il calcolo, la psicologia e la statistica, la teoria e la pratica, la storia e l'utopia, i mezzi e il fine. Mi sembrava la teoria comunista un congegno meravigliosamente ben architettato, in cui i fattori morali e umani sposavano perfettamente bene quelli materiali e scientifici. Mi dicevo dunque che in un secolo come il nostro, così legato al progresso scientifico, la teoria comunista, a fondo religioso né più né meno del cristianesimo, aveva però su quest'ultimo la superiorità di esprimersi con il linguaggio del tempo che non era appunto religioso ma scientifico. Essa insomma ripresentava al mondo il vecchio sogno di una palingenesi totale, ma possibile questa volta se era vero, come mi pareva che fosse vero, che la scienza era appunto il mezzo finalmente scoperto con il quale l'uomo poteva rinnovarsi dall'imo.

Repubblica 8.10.07
Franco Giordano, segretario del partito: non cerco la rottura
"Resta il no del Prc ma l’accordo si troverà"
di Umberto Rosso


Penso che ci siano le condizioni per un'intesa, soprattutto sul tema della precarietà. Se non ce la facciamo in Consiglio dei ministri, le modifiche possiamo farle in Parlamento

ROMA - Segretario Giordano, tutte le previsioni della vigilia danno una larga affermazione del sì al referendum.
«Non faccio alcun pronostico, ho troppo rispetto per la forma partecipativa che è stata scelta, un esempio straordinario di democrazia diretta. Mi piacerebbe che fosse introdotto anche per i contratti di lavoro. Servirebbe una legge sulla rappresentanza sindacale, per evitare che la democrazia si fermi sull´uscio delle fabbriche».
Ma se i lavoratori approvano il protocollo, come farà Rifondazione ad andare avanti nella battaglia per cambiarlo?
«È evidente che il risultato va interpretato. Va ascoltato il malessere che sale dalle grandi fabbriche, dal pubblico impiego, da tutta la grande area del lavoro dipendente. C´è l´autonomia del sindacato, ma c´è anche l´autonomia politica, la possibilità di migliorare l´accordo in Parlamento».
I sindacati però si ritroverebbero di fronte un testo diverso da quello sottoscritto con il governo.
«Ecco il punto. Io credo che si tratti di miglioramenti condivisibili. E mi pare che si stia delineando proprio questa ipotesi. Penso che ci siano le condizioni per un´intesa, soprattutto sul tema della precarietà».
Le pare possibile nella riunione del Consiglio dei ministri del 12 ottobre?
«Se il governo non arriva con delle modifiche, non saremo in grado di garantire un voto positivo».
Diranno no tutti e quattro i ministri della Cosa rossa?
«Io parlo da segretario di Rifondazione comunista».
Una bella botta comunque per Prodi. E le conseguenze sul governo?
«Non cerchiamo e non vogliamo la rottura. Se non ce la facciamo in Consiglio dei ministri, le modifiche possiamo farle in Parlamento».
Dini, i socialisti, Mastella hanno già messo in guardia: se la sinistra presenta emendamenti, lo facciamo anche noi. Una guerra che in Senato può inguaiare Prodi.
«Non possiamo tacere perché qualcuno pensa di usare strumentalmente il confronto. Sarebbe meglio, certo, un´intesa preventiva. Ma, se così non sarà, l´intransigenza non è venuta da noi».
E da chi?
«Dalla Confindustria per esempio che, dopo aver incassato una montagna di aiuti, si muove ormai con un esagerato ruolo di soggetto politico. Spero che non sia Montezemolo a dettare al governo la riforma elettorale. La partita si gioca proprio adesso».
Quale partita?
«Per ridimensionare il ruolo di Confindustria. Sulla riduzione delle tasse, come dice anche il sindacato, non dobbiamo intervenire sulle imprese ma sul lavoro dipendente. Attraverso il recupero del fiscal drag e anche la detassazione degli aumenti contrattuali».
Una novità, quest'ultima richiesta, per il Prc.
«Sarebbe una spinta alla chiusura dei contratti, oltre a garantire aumenti contrattuali più alti».

Repubblica 8.10.07
Vita artificiale, accuse a Venter. I vescovi: "Pensa di essere Dio"
Cromosoma riprodotto, oggi l'annuncio negli Usa
di Elena Dusi


A San Diego sarà illustrato l'esperimento L'Avvenire: "Vuole mettersi in concorrenza con il Padre Eterno?"

ROMA - Dopo aver seminato sorpresa, Craig Venter raccoglie scetticismo. Lo scienziato americano che sabato ha annunciato "sto creando la prima forma di vita artificiale", ieri si è ritirato nel suo silenzio a godere gli effetti del sensazionale annuncio. I pochi dettagli della sua ricerca - rivelati al quotidiano britannico Guardian - verranno forse precisati oggi, giornata di inaugurazione della conferenza "Genomes, medicine and the environment" a San Diego. Nel frattempo alla suo portavoce Heather Kowalski è stato affidato il tentativo di marcia indietro: «Il Guardian ha anticipato i tempi. Non abbiamo realizzato ciò che ci hanno attribuito in materia di vita sintetica. Quando lo faremo, pubblicheremo la notizia su una rivista scientifica».
Il John Craig Venter Institute organizza ogni anno il simposio di San Diego, sponsorizzato da una decina di aziende farmaceutiche e ditte di biotecnologia. Stamattina nella sala Paradiso è previsto il discorso di Venter. Dalla sua bocca si attende qualche dettaglio in più sul batterio nato in laboratorio. Subito dopo prenderà la parola il Nobel per la medicina Hamilton Smith - braccio destro di Venter ed esecutore materiale dell´esperimento - per descrivere gli studi sulla "Cellula minima". Il microrganismo con il Dna artificiale è stato studiato infatti per avere un numero minimo di geni: solo quelli strettamente indispensabili alla vita. Piccolo e maneggevole, a questo batterio essenziale potrà essere aggiunto ogni gene desiderabile. Da quello che fa produrre al microrganismo carburanti puliti (idrogeno per esempio) a quello che gli ordina di sintetizzare un principio attivo utile in farmacologia o di digerire sostanze inquinanti come arsenico o anidride carbonica.
«Noi ricercatori siamo abituati a leggere notizie simili sulle riviste scientifiche, non sulle pagine dei quotidiani. Sento odore di autopromozione» commenta Roberto Defez, biotecnologo del Cnr. L´editoriale del quotidiano Avvenire da un lato saluta con favore le applicazioni di questa ricerca ("Sarebbe sciocco non augurarci di raggiungere certi traguardi. Ben vengano fonti alternative di energia e farmaci meno costosi"). Dall´altro si mostra infastidito dai toni dei due scienziati che parlano oggi a San Diego. «Quando è stato chiesto a Hamilton se stessero giocando a essere Dio - prosegue il quotidiano della Cei - Smith ha risposto: "Ma noi non stiamo giocando". E Venter stesso dice di impersonare la parte di Dio. Non si capisce perché il tono debba essere quello di chi si mette in concorrenza con il Padre Eterno».
Pierluigi Luisi, docente di biochimica all´università Roma Tre, dirige un progetto di ricerca sul genoma minimo per alcuni versi simile a quello di Venter. Non è affatto sorpreso dall´intervista del Guardian: «Sei mesi fa, in un congresso, Smith ha raccontato qualche dettaglio sul progetto. Penso che sia una dimostrazione di grande bravura tecnica, ma dal punto di vista concettuale questo esperimento non aggiunge nulla alla scienza». Giovanni Murtas, altro protagonista del nuovo filone della "biologia sintetica" a Roma Tre, spiega qual è il procedimento più probabile seguito nel laboratorio di Venter. «Del batterio Mycoplasma genitalium hanno prima di tutto sequenziato il genoma, leggendolo "lettera per lettera". Poi hanno eliminato i frammenti di Dna a loro parere non essenziali alla vita, passando da 517 a 381 geni. A quel punto non ha fatto altro che ricopiare le sequenze delle "lettere" del Dna con degli strumenti molto avanzati dal punto di vista tecnologico, sintetizzando il nuovo Dna».
Neanche sul sito web di Richard Dawkins, il biologo americano più ateo che ci sia, i commenti dei lettori sono particolarmente favorevoli al criptico annuncio di Venter. Accennando all´ansia da brevetto dello scienziato, un lettore che si fa chiamare Baeoz ironizza: «Venter sta per ricevere una lettera di protesta dall´avvocato di Dio per violazione del copyright».