lunedì 15 ottobre 2007

l'Unità 15.10.07
Pc cinese, via al congresso del partito-azienda
di Siegmund Ginzberg


OGGI A PECHINO si apre il diciassettesimo congresso del Pcc. È un assise di dinosauri. Ma sono dinosauri dinamici. La Cina corre come un treno, ha bisogno di petrolio e materie prime ma non fa guerre. E come scrive il Financial Times «ha trasformato il Partito comunista in una grande holding»

Non ci sono mai state, né è previsto che ci siano un giorno primarie nel Partito comunista cinese. Non c’è molta suspense sul fatto che il 17mo Congresso del Pcc, che si apre oggi a Pechino, confermerà Hu Jintao, per altri cinque anni, a capo del partito. E non ci sarà bisogno che si presentino poi di fronte all’elettorato per essere confermati lui presidente e Wen Jibao capo del governo: la Cina non vota a suffragio universale per eleggere i propri dirigenti nazionali.
La suspense, concordano tutti gli esperti, riguarda semmai la successione, chi gli subentrerà dopo il 2012. Non è questione da poco. Sui successori erano scivolati anche leader del calibro di Mao Tse-tung e Deng Xiaoping. Anzi avevano addirittura portato il paese sull’orlo della catastrofe, l’uno con la rivoluzione culturale, l’altro con piazza Tiananmen. La successione in Cina si misura sull’ordine di arrivo dei nuovi entranti nei massimi organismi del partito, l’ufficio politico e il suo comitato permanente.
Si dice che la grande novità sul piano della «democrazia interna di partito» potrebbe essere che stavolta ci sarà un numero di candidati maggiore di quelli che risulteranno eletti. Pare che abbiano studiato con molta attenzione il precedente dell’ultimo congresso del Partito comunista vietnamita, tenutosi lo scorso anno, in cui c’erano addirittura due candidati al posto di segretario generale. E forse applicheranno il metodo ai successori in pectore. Non si tratta di outsider o nuovi arrivati: i nomi che circolano tra i candidati in lizza sono quelli di personalità testate, già al vertice della nomenclatura di partito. C’è, tra i politologi, chi prova a classificarli e distinguerli tra «populisti», che insistono sulla «società armoniosa», cioè preoccupati di non allargare la frattura tra la Cina che corre e si arricchisce e quella che invece è rimasta povera (tra questi Li Keqiang, segretario del Liaoning, nel nord est industriale, una regione di fabbriche che hanno dovuto chiudere ed operai licenziati, che sarebbe anche il favorito di Hu) ed «elitisti», attenti soprattutto a non danneggiare la crescita economica a rotta di collo, il boom delle regioni costiere (tra questi il segretario di Shanghai, Xi Jianping).
Il Pcc non è un partito a vocazione maggioritaria. È un partito a vocazione totalitaria. Non fanno neanche finta di imitare la democrazia occidentale. Non pretendono trasparenza nelle decisioni e nella scelta dei propri gruppi dirigenti. I 73 milioni di membri del Pcc sono agli occhi del restante miliardo di cinesi una «casta» da far impallidire quella di cui si parla da noi. In un paese dove si stima che ci siano 162 milioni di persone che hanno accesso a internet e 450 milioni di telefonini, tutti i mezzi di informazione, sono controllati dal partito, tutte le decisioni vengono prese a porte chiuse. Il partito ha l’emplein dei poteri forti e deboli insieme. Il partito controlla non solo le forze armate, in omaggio al principio maoista per cui «il potere nasce dalla canna del fucile», ma anche la magistratura, l’opinione pubblica, la Banca centrale, l’economia di Stato, e a quanto pare ora persino quella privata. Ho trovato diabolicamente affascinante la descrizione, letta l’altro giorno sul Financial Times, la descrizione di come un partito che continua a chiamarsi «comunista», sia riuscito a «colonizzare» persino i centri nevralgici del proprio «capitalismo» privato. «Sono riusciti a fare del Partito comunista cinese la più grande holding al mondo», è il modo in cui la mette, con una battuta, ma forse neanche tanto, Ding Xueliang, testa d’uovo della americana Carnegie Endowment a Pechino. Sono insomma riusciti a realizzare un «partito azienda», verrebbe da dire.
Certo, il partito non è affatto monolitico, né in economia, né sulle scelte politiche, né sul resto. Si scontrano mille fazioni fondate su gruppi di interesse, differenze tra città e regioni, giochi di potere locali, interessi personali, come in qualsiasi altro sistema politico. C’è una corruzione diffusa e dilagante, ci sono risse a non finire, capricci c’è arroganza da parte dei potenti, ci sono scontri feroci. Eppure, pare che alla fine il sistema funzioni perché tutti alla fine dipendono dalle decisioni di «un solo padrone».
Qualcosa di familiare con le vicende politiche di casa nostra? Forse. Ma con una differenza: che loro se lo sono potuti permettere perché vanno a gonfie vele. Noi no. Tutto questo è roba da età della pietra, preistoria della democrazia. Senza neanche troppi sforzi per presentarsi con un volto più moderno. In un certo senso il Congresso di Pechino si presenta come un’assise di dinosauri, destinati all’estinzione se non sapranno adeguarsi. Ma la cosa da cui non si può prescindere è che questi dinosauri sono i più dinamici, vispi che ci siano al mondo di questi tempi. La Cina corre come un treno, cambia con un ritmo mozzafiato. L’economia cinese ha un bisogno disperato di petrolio e materie prime, molto più dell’America, ma non hanno fatto guerre. Anzi, sono diventati pacificatori, gli «aggiustatutto» delle grandi crisi internazionali. «Mr. Fixit» delle crisi nucleari, li ha definiti il New York Times dopo che hanno convinto Kim Jong Il a rinunciare all’atomica, a Washington si guarda a Pechino per l’Iran. C’è da rammaricarsi che non li abbiano coinvolti in Iraq.
È alla Cina che si guarda perché fermino la mano ai generali in Birmania. Da quando è diventato lui il capo del partito, cinque anni fa, Hu Jintao pare insomma non averne sbagliata una. Ha consolidato senza scosse il suo potere, ha mediato tra le mille anime del partito unico, ha promosso i suoi alleati nelle regioni, è riuscito ad evitare che si scannassero l’un l’altro. Ha saputo dosare rassicurazioni alla casta, a coloro che temono di perdere i privilegi, con rassicurazioni a coloro che stanno male, ai contadini, agli sfruttati, ai più deboli.

l'Unità 15.10.07
1917, cronaca del giorno in cui nacque il Novecento
di Bruno Gravagnuolo


IL 25 OTTOBRE di novant’anni fa (7 novembre per il nostro calendario), in una Pietrogrado distratta i bolscevichi prendono il potere. Marcello Flores, in un saggio, analizza ora per ora l’evento. Con un interrogativo: «quella» Rivoluzione era inevitabile?

La Rivoluzione d’Ottobre era inevitabile? Vecchia domanda ancora buona, nonché titolo di un famoso saggio di Mevdevev risalente a prima del 1989, e pubblicato in Italia in una bella edizione con «guardia rossa» sulla copertina dagli Editori Riuniti. Il saggio in questione era centrato in realtà più sulla «guerra civile» successiva al 25 ottobre (7 novembre per il nostro calendario) che sulla domanda di cui sopra. Che nondimeno rilanciava con forza. Tesi revisionista di Mevdevev: «gli eventi oscillarono fino all’ultimo». E, soprattutto, non era affatto necessario l’epilogo catastrofico della «guerra civile» che a sua volta segnò indelebilmente identità e struttura dello stato bolscevico in senso totalitario, malgrado le correzioni apportate da Lenin nel 1921 con la Nuova Politica Economica. Insomma, diceva lo storico, un’altra rivoluzione era possibile, e quel tipo di Rivoluzione non necessariamente «doveva» essere quel che poi fu.
Oggi, in concomitanza con il novantesimo di quegli eventi, un altro studioso si confronta con quel problema: Marcello Flores, storico a Siena e assessore in quella città. Autore di libri importanti sul Novecento e in particolare sulla violenza del secolo come Il Secolo Mondo (Bologna, 2002) Tutta la violenza di un secolo (Milano 2005) e Il genocidio degli armeni (Bologna 2006). Storico dunque che lavora con una dimensione comparata e che fa uso di strumenti «molecolari»: la musica, l’immaginario, l’iconografia, il linguaggio comune. Oltre alle fonti d’archivio, naturalmente.
E stavolta Flores si misura, in un suo saggio breve, proprio con l’«evento singolo»: la presa del potere bolscevica. Nella convulsa giornata politica del 25 ottobre 1917, tra l’istituto Smolny, sede dei Soviet e del congresso panrusso, il palazzo d’Inverno, il Palazzo della Tauride e gli altri luoghi del dramma disseminati in una distratta Pietrogrado, per nulla elettrizzata o coinvolta, come invece la leggenda dell’Oktjabr di Eizenstein ci ha tramandato.
Il libretto di Flores si intitola 1917, la Rivoluzione (Einaudi, pp. 139, euro 8) e contiene anche un utile cronologia dei fatti, decisivi a capire l’evento. Il suo pregio è esattamente questo: circoscrivere la narrazione alla rottura di un equilibrio. Quello del «dualismo di potere». Invalso dopo che la «rivoluzione di febbraio» - con la fine dello zarismo - aveva sancito appunto la nascita di due centri di legittimazione. Il governo provvisorio espressione della Duma da un lato, e l’assemblea panrussa dei soviet (di fabbrica, circoscrizioni e distretti contadini), dall’altro. Poteri bilanciati, reciprocamente ostili ma anche contaminati, poiché nell’uno e nell’altro v’erano menscevichi, socialisti rivoluzionari e laburisti (tale era Kerenskj). Un patto instabile e irrisolto, che esponeva il governo al controllo dei soviet, e poneva i soviet sotto la minaccia del governo provvisorio, su cui premevano dall’interno le forze militari decise a protrarre la guerra del 1914-18, accanto all’Intesa. Grande peso specifico avevano inoltre i liberali (i «cadetti») nel governo, e ovviamente i bolscevichi, capaci via via di egemonizzare e guidare maggioranze sovietiste sempre più infiltrate e dominate dalle loro parole d’ordine.
Quello tra i due poteri non era un accordo costituzionale, nel senso di «costituzionalizzato», bensì legato all’emergenza di una situazione molto fluida e bisognosa di una definizione risolutiva. Mentre premevano sullo sfondo i problemi irrisolti. La guerra, la fame, l’anarchia sociale, e le aspettive di riforma agraria già in moto con le riforme abbozzate dal ministro Stolypin, ucciso da un attentato nel 1911.
Situazione impossibile quindi, e indecisa. E il pregio del libro di Flores è proprio quello di fissarne un’ istantanea mobile, fluida e animata da una «colonna sonora». I rumori dello Smolny, certo. Con il rimbombo dei fucili sul pavimento, le grida e le accensioni improvvise al comparire, dai sotterranei di quel collegio femminile, di gente come Lenin, Trotzky, Kamenev. E poi le bandiere rosse, le canzoni, dalla «Marsigliese operaia», tipica dell’atmosfera di febbraio, all’«Internazionale», contesa tra menscevichi e bolscevichi. Inoltre le autoblindo, i fogli di giornali, il cinema di allora, e l’iconologia degli eroi. Per un po’ lo stesso Kerensky e la sua «santa russia laica» furono sugli scudi.
Si badi, tutto era molto più quotidiano e normale di quanto non ci possa oggi immaginare. A confronto di quel che sarebbe accaduto dopo, con la guerra civile, le fucilazioni e gli espropri specie nelle campagne (espropri di derrate).
E tuttavia tra quei palazzi e la rada da cui l’incrociatore Aurora spara i suoi colpi a salve all’alba del 25 Ottobre, il dramma politico «indeciso» si consuma. Accadono alcune cose. Primo: la polarizzazione tra i ceti sociali: «verchy» e «nizi», ceti alti e bassi. Una contrapposizione che spinge anche i più moderati su posizioni estreme, e li costringe a scegliere «esistenzialmente» una barricata. Poi: l’acuirsi di un‘insostenibilità carica di attese. Non si capisce né si decide chi abbia il potere di continuare la guerra, oppure di porvi fine. E il tutto mentre le guarnigioni si ribellano, e lo stesso potere di decisione militare è stato consegnato nelle mani del soviet di Pietrogrado: con un’intesa concordata con lo stesso governo provvisorio. Ancora: due tentativi di colpi di stato. Quello di Kornilov bloccato dai bolscevichi chiamati in soccorso dallo stesso Kerensky che li aveva messi fuori legge. E quello dei bolscevichi, poi abortito. Non basta perché da febbraio, dopo la famosa «seconda domenica di sangue» c’erano state l’abdicazione di Nicola II, la rinuncia di suo fratello il Granduca Alessio, il governo del princie L’Vov, il governo di Kerensky, le dimissioni di ministri della guerra. E rivolte, sparatorie, la cacciata del soviet dal Palazzo di Tauride. In una città senza viveri e senza combustibile.
Finché la situazione precipita, e proprio secondo le direttive sapientemente costruite da Lenin, rientrato dalla Finlandia e proclamate dalle Tesi d’Aprile: tutto il potere ai soviet, pace senza annessioni, terra ai contadini.
L’abilità di Lenin, contro l’attendismo di altri bolscevichi, sta in questo: recepire la radicalizzazione. Assecondarla, e farsi portavoce di un principio d’ordine. Di un principio decisionale. Semplice. Comprensibile. Efficace. Invano i socialisti rivoluzionari e i menscevichi tentano di dare una forma lineare al processo, ipotizzando al soviet - dove via via vanno in minoranza - un «governo di tutti i socialisti di sinistra». L’errore loro è quello di voler evitare una rottura, di temporeggiare sulla guerra, ma soprattutto sulla cacciata di quel governo Kerensky, che annovera numerosi socialisti di sinistra al suo interno. È quello di confidare in un trapasso pacifico, democratico, poi da sanzionare con l’impegno già strappato dell’«Assemblea Costituente» (liquidata dai bolscevichi in seguito). Impossibile, in quelle condizioni castrofiche, ogni transizione morbida.
Ed è così che i bolscevichi «danno» i tempi. Votano infatti il 25 ottobre l’ordine del giorno sul governo unitario, ma contestualmente, e in precedenza, hanno già occupato i punti strategici della città, grazie al Comando militare del soviet che hanno «infiltrato». Giocano sui due tavoli, i bolscevichi. Sono emanazione del soviet, ma al contempo forzano ad esso la mano. Sicchè dopo aver votato la mozione unitaria, e aver assistito all’uscita per protesta dei menscevichi avversi, vanno a raccogliere - unici depositari del potere - l’eredità di Kerenski, messo in fuga nella stessa giornata.
Già, perchè Lenin e i suoi hanno sloggiato con la forza il governo provvisorio. E il voto unitario al Soviet è solo sanzione del già accaduto: la fine di Kerensky. Sanzione inutile e secondaria, peraltro, perchè il «putsch» ha già imposto la sua legge.
Domanda: fu putsch o rivoluzione? Vecchia domanda anch’essa. Fu tutt’e due. Fu rivoluzione, perché il sommovimento andava avanti da febbraio ed era un’onda da incanalare soltanto. Cosa che i bolscevichi fecero, profittando dell’indecisione degli altri, laddove in politica, e specie in situazioni come quella, i vuoti non esistono.
A questo punto la rivoluzione inizia davvero, o meglio re-inizia. Con i decreti sulla pace, sulla terra e con quelli sulle banche e l’industria. Poco a poco Lenin stringe il cerchio e marginalizza i comprimari, menscevichi e socialisti. Abolisce la proprietà privata e «dà» la terra ai contadini, ma senza dire come e «quanto». Rimettendo all’arbitrio politico la gestione della questione contadina. Di sicuro avviene che tutta la campagna passa sotto il controllo della «Ceka» e delle sue requisizioni, volte a consentire il comunismo integrale, poi quello «di guerra» legato all’inevitabile guerra civile suscitata dal «giacobinismo contro il Capitale». Più in là verranno Brest-Litovsk, la pace coi tedeschi e poi l’assedio dall’esterno. Ma senza dubbio è Lenin a imprimere un accelerazione inaudita a tutto il processo, in bilico tra volontà di instaurare ordine e «nuovi rapporti di produzione», e aspettive di rivoluzione mondiale.
Che cosa fu quell’Ottobre 1917? Una grande rottura, certo, dell’ordine globale. Scatenata prima di tutto dalla carneficina imperialista della prima guerra mondiale, che spiantava gli equilibri multietnici zaristi. Rottura con l’esterno, e interna. Con polarizzazione irrimediabile tra i ceti sociali, e impossibilità di una mediazione democratica, a meno che i democratici non avessero accettato di far argine ai bolscevichi. Egemonizzandoli, per poi magari reprimerli. Ma infine l’Ottobre fu ricostruzione di un Impero, con nuove simbologie eredi delle vecchie. E un tasso di religiosità di massa «mediatico» e propagandistico, capace di controllare masse semibarbariche, orfane di un vecchio ordine.
Ben per questo Bertrand Russell parlò di un «bolscevismo che univa le caratteristiche della Rivoluzione francese con quelle della nascita dell’Islam». E Keynes addirittura di un «Lenin che è un Maometto e non un Bismarck». In realtà Lenin, nonché Maometto, fu anche e in parte un Bismarck, quando installò con Brest-Litovsk lo stato sovietico nella geopolitica mondiale successiva al 1918.
E nondimeno resta un fatto, che oggi è più di una percezione retrospettiva: l’Ottobre 1917 fu sigillo inaugurale di una emancipazione barbarica e di massa. In quanto eredità rinnovata dello zarismo, riproiettata dinamicamente all’esterno. Segnale mondiale della fine di un certo ordine imperiale internazionale. E contraccolpo liberatorio - ma insieme repressivo - delle attese che la Rivoluzione, come «Mito» in azione, aveva suscitato a partire dal febbraio 1917.
Infine L’Ottobre bolscevico fu edificazione di una Chiesa mondiale, che Stalin rinsalderà come «fortezza». Sulle basi della pulsione volontaristica e militare leniniana. Quella «Chiesa» scatenerà processi di liberazione, e al contempo li stroncherà. Evocando anche opposti totalitarismi. Con conseguenze incalcolabili sulla storia dell’intera umanità. E, come dice Flores nelle righe finali, «con conseguenze incalcolabili per l’intero movimento operaio e per la stessa possibilità e credibilità del socialismo». Ecco perché vale ancora la pena di chiedersi: la Rivoluzione d’ottobre, «quella» Rivoluzione, era inevitabile?

l'Unità 15.10.07
Il nuovo libro della filosofa-psicanalista
Italiani, riscoprite la felicità, L’invito di Irigaray
di m.s.p.


Luce Irigaray chiude questo suo nuovo libro con una «lezione sulla felicità» tenuta a Modena, al festival di filosofia organizzato dalla fondazione San Carlo, all’indomani dell’attentato delle Twin Towers: c’è un nesso tra Ground Zero e la felicità? Sì, perché, dice Irigaray, «i regimi totalitari si sono insediati a partire dalla disperazione umana, una disperazione anzitutto morale e non solo economica, come si pretende tuttora». Se disperazione e fondamentalismo, di là, vanno a braccetto, di qua, sul nostro fronte occidentale, Irigaray radiografa un’infelicità diffusa strettamente legata al consumismo e ai falsi desideri che esso ci impone. Oltre i propri confini è un libro che la filosofa-psicanalista-linguista ha scritto girando per l’Italia ed è dedicato a noi che ci viviamo (sua anche la versione italiana del testo). Scandito in quattro tappe: Imparare ad amare, Una democrazia da ripensare, Ci manca una cultura della nostra energia, Ai confini della terra, ai confini di noi stessi, esso ricostruisce l’originale pensiero di Irigaray sulla necessità basilare del dialogo e sul rapporto tra privato e pubblico come fondamento per un nuovo modo di vivere comunitario. A scandire il percorso, quattro interviste cui lei stessa si è sottoposta, a opera di due donne, la responsabile per la cultura della Regione Campania e la presidente dell’associazione «Il filo di Arianna» di Verona, e due uomini, un professore di filosofia politica a Ca’Foscari e il padre priore dell’eremo camaldolese di Fonte Avellana. La prosa è sempre quella di Irigaray, limpida, capace di tradurre un massimo di complessità in un massimo di semplicità. E incoraggiante: «Mi chiedo se un certo numero di dirigenti politici, di scienziati, fra l’altro medici, di persone di cultura, anzitutto sociologi - con il sostegno di certi giornalisti per articolare, e perfino orientare, il coro delle loro parole - non sfruttino la nostra disperazione per assicurare il loro potere. Tanto che, appena qualcuno suggerisce una vita verso uno stare meglio, loro gridano tutti insieme “Sei un utopista!”. Sono loro a non avere capito che è utopistico vivere senza l’orizzonte di un divenire» scrive. Ecco un libro che, alla politica, può insegnare molto.

l'Unità 15.10.07
La testimonianza della fondatrice di «Cure autism now»
Così Dov bambino autistico imparò a parlare
di Cristiana Pulcinelli


Dov non parla, non comunica in nessun modo. È disinteressato a qualsiasi giocattolo, passa il suo tempo dondolandosi ritmicamente, il suo sguardo è sempre assente e i suoi movimenti non sono controllati. All’età di due anni gli viene diagnosticata una forma grave di autismo. Nonostante gli sforzi, sembra che non ci sia nessuna possibilità di miglioramento. Tanto che, dopo alcuni anni, anche i medici, gli psicologi, i terapisti cominciano ad abbandonarlo.
Poi, dall’India, arriva Tito, un ragazzino di 13 anni anche lui affetto da un autismo grave, insieme a sua madre Soma. E la speranza dei genitori di Dov si riaccende. Attraverso un lungo addestramento, infatti, Soma è riuscita ad insegnare a Tito a comunicare indicando le lettere dell’alfabeto disegnate su un cartellone. E Tito ha imparato a farlo così bene che, in questo modo, ha scritto un libro di poesie. I suoi comportamenti imprevedibili, difficili, a volte violenti, sono rimasti gli stessi, ma Tito ha dato voce ad un mondo interiore complesso e profondo. Un mondo che, forse, hanno tutti i bambini autistici, ma che nessuno riesce a penetrare.
La madre di Dov vuole sapere tutto da Tito: può ascoltare? E vedere? E capisce quello che gli viene detto? E cosa prova? Tito risponde a tutte le domande in modo intelligente, divertente, spesso doloroso. Soma, pazientemente, comincia ad insegnare anche a Dov a parlare, sia pure in un modo diverso da quello che intendiamo noi tutti.
La storia di Dov e Tito viene raccontata in Un figlio diverso, di Portia Iversen. Portia è davvero la madre di Dov. Faceva la sceneggiatrice a Los Angeles, dopo la nascita di Dov decide di creare una fondazione assieme al marito: Can, ovvero Cure Autism Now, che oggi è una delle fonti di finanziamento non governative più importanti al mondo per le ricerche sull’autismo. Nel libro racconta in prima persona la storia del suo incontro con queste due persone speciali e di come, attraverso di loro, abbia imparato a conoscere suo figlio.
Soma oggi vive negli Stati Uniti dove lavora con persone affette da autismo. La sua scuola si trova su Internet all’indirizzo: www.halo-soma.org

l'Unità 15.10.07
Il diavolo confessore
di Maurizio Chierici


La chiesa argentina guarda al suo passato... per esempio al cappellano militare Von Wernich, che confessava i prigionieri del regime sotto tortura, invitandoli a collaborare perché l’Altissimo lo pretendeva...

Il vescovo vicario della diocesi di san Miguel visitava giovani donne che stavano per partorire. Nude e incappucciate per non riconoscerlo. Se ne andava col bambino appena nato mentre la madre veniva assassinata

Non so quale tormento ha sconvolto i cattolici argentini nell’ascoltare il racconto dei sopravvissuti alle squadre della morte dei generali P2. Nella tribuna dell’imputato era seduto il cappellano militare Christian Von Wernich e le Tv e i fotografi che cercavano di cogliere nel volto un’ombra di imbarazzo (se non di pentimento) trovavano occhi di ghiaccio, labbra piegate nel sarcasmo quando, chi uscito vivo dalle prigioni clandestine, spiegava quale inferno aveva attraversato. L’ho visto e rivisto in Tv per evitare il luogo comune del colpevole indifferente, ma Von Wernich resisteva nel rappresentarsi come luogo comune senza speranza. Ha confessato i prigionieri che non si erano arresi alla tortura non avendo segreti da raccontare, invitandolo a collaborare perché l’Altissimo lo pretendeva. Chi confidava la verità nascosta - abbandono di ogni credente al confessore - era lontano dal sospetto di un confessore spia dei torturatori. L’accusa ha inchiodato all’ergastolo Von Wernich: 7 omicidi, 32 casi di tortura ripetuta dopo le notizie raccolte nel confessionale e 42 amici spariti nel nulla. Nove anni fa il capitano Scilingo, primo repressore ad aver confidato a Horacio Verbitsky (autore de Il volo, editore Feltrinelli) come funzionava la repressione, racconta delle parole di consolazione con le quali Von Wermich ed altri cappellani militari accompagnavano i condannati a morte verso l’aereo che li avrebbe dispersi in mare: la volontà del Signore lo pretendeva, segno dell’ amore col quale proteggeva la patria. «Rassegnati, Dio lo sa». Nell’interpretazione di questi sacerdoti, la rassegnazione disinfettava dagli insetti maligni la nuova società che il delirio dei militari stava disegnando. Ma non erano insetti e non erano maligni: solo ragazzi che non sopportavano l’oppressione armata.
Ecco perché 30 anni dopo memoria e perdono restano i problemi irrisolti della Chiesa nel continente più cattolico del mondo. Von Wermich non è diventato improvvisamente colpevole otto giorni fa. Subito dopo la sentenza del tribunale, la Chiesa annuncia procedure per decidere il destino di un prete del quale si conoscono i delitti da tempo immemorabile. Negli ultimi mesi ogni vescovo ha incontrato ogni giorno su ogni giornale e ogni Tv i racconti dei testimoni e i documenti che provano l’orrore. Non a caso il comunicato della Commissione Episcopale appare cinque minuti dopo l’annuncio dell’ergastolo. Perché cinque minuti dopo e non cinque anni o cinque mesi fa come i credenti pretendevano? Poche righe che deludono: «Il vangelo di Cristo impone a noi discepoli una condotta rispettosa verso i fratelli. Un sacerdote cattolico, per azioni e omissioni, si è allontanato dall’esigenze della missione che gli era stata affidata. Chiediamo perdono con pentimento sincero mentre pregiamo Dio nostro Signore di illuminarci per poter compiere la missione di unità e di servizio».
Non una parola di pena per le vittime. La deviazione di Von Wermich rimpicciolisce nella deviazione personale ed il silenzio della comunità ecclesiale è il peccato inspiegabile che ha riunito tanti vescovi e tanti sacerdoti, alcuni di loro prossimi al processo. E dopo la sentenza se ne aggiungono altri. Il vescovo vicario della diocesi di san Miguel, Federico Gogala, visitava giovani donne che stavano per partorire. Nude e incappucciate per non riconoscerlo. Se ne andava col bambino appena nato mentre la madre veniva assassinata. Una suora e un’infermiera stanno testimoniando. E testimoniano le nonne di piazza di Maggio con la prova di una nipote ritrovata: era stata data in adozione dal Movimento Familiare Cristiano vicino al vescovo ausiliare Gocala. Comprensibile l’imbarazzo e il dolore eppure nessuna spiegazione su «omissioni ed azioni» che tormentano il clero argentino, ma anche sacerdoti e cattolici di tutte le americhe latine. Non hanno saputo affrontare il passato prossimo con la chiarezza compagna di viaggio della loro missione. Per il diritto canonico la decisione sul futuro sacerdotale dell’ex cappellano militare è competenza del vescovo della diocesi, monsignor Martin Elizaide, 67 anni, profilo incolore nella gerarchia argentina. Facile pensare che il verdetto risentirà degli umori della conferenza episcopale. La procedura sarà lunga, Martin Elizaide non ha indicato quanto durerà. A Von Wermich è consentito ricorrere al tribunale vaticano se gli sarà proibito per sempre di esercitare la funzione ministeriale.
Passato lo choc per la condanna che ritiene falsata da falsi testimoni, Von Wermich riprenderà a confessare, celebrare messa come ogni parroco in pace con Dio; potrà distribuire la comunione ad altri torturatori chiusi nella stessa prigione fino a quando la decisione del vescovo non lo impedirà. Ma glielo proibirà per sempre o «la contrizione palese per il male commesso» potrà risorgerlo a nuova vita restituendogli messa, comunione e confessione? Su Ernesto Cardenal e Manuel D’Escoto, ministri nel governo sandinista, papa Wojtyla aveva alzato l’indice del rimprovero. Hanno perso la messa per sempre. L’altro fratello, Ferdinando Cardenal, fratello di Ernesto e gesuita, a 70 anni ha riaffrontato il noviziato con l’umiltà di un seminarista adolescente. Ed è tornato a celebrare dopo anni di punizione...
I delitti di Von Vernich oscurati da silenzio e complicità aprono un capitolo finora esplorato con imbarazzo: il rapporto tra cappellani militari e dittature, dall’America Centrale a Brasile, Cile, Argentina. Con quale spiritualità si sono rivolti a Dio gomito a gomito con le squadre della morte? Fedeli alla loro coscienza o ligi all’obbedienza dovuta che incatena ogni militare? Fino al processo Von Wernich, ai cappellani militari di Argentina e Cile non era successo niente. Si sapeva e si sa delle ambiguità a volte degenerate in collaborazione al delitto. Sembra impossibile che i vescovi cappellani militari e i vescovi amici dei vescovi militari non abbiano saputo niente. Possibile che i nunzi apostolici, ambasciatori del Papa, non si siano rivolti a Roma supplicando di intervenire? Forse i doveri diplomatici e l’amicizia personale con gli strateghi della repressione hanno annacquato nell’ipocrisia quel dovere che impone la fede e l’esempio del pastore. Vent’anni dopo, 1996, i vescovi argentini finalmente si fanno vivi con un’autocritica superficiale. Nel 2000 chiedono per la prima volta perdono. In Cile il silenzio continua. Nella cattedrale castrense di Santiago, alla messa della domenica vecchi e nuovi militari si accostano all’altare con la devozione di Pinochet.
La storia dei rapporti chiesa-stato ha conosciuto in Argentina momenti che imbarazzano la rilettura. Subito dopo il colpo di stato 1976, il cardinale di Buenos Aires Carlo Aramburu invita i fedeli a collaborare col governo dei generali «i cui membri appaiono assai bene ispirati». Gran parte dei vescovi e il nunzio apostolico Pio Laghi (oggi cardinale) assistono alla cerimonia di insediamento del generale Videla. Laghi è l’unico diplomatico straniero presente. Perché? Tre mesi dopo benedice a Tucuman le truppe impegnate nella repressione: «L’autodifesa contro chi vorrebbe far prevalere idee estranee alla nazione... impone misure determinate. In queste circostanze si potrà rispettare il diritto fin dove si potrà». Anche il cardinale Benelli, sostituto segretario di stato vaticano, si dichiara «soddisfatto per l’orientamento assunto dal nuovo governo argentino nella sua vocazione cristiana e occidentale». Paolo VI era stanco e malato. Lo si informa in qualche modo nascondendo quasi tutto. Anche Giovanni Paolo II viene a sapere della tragedia argentina dalle madri di piazza di Maggio. La Chiesa di Buenos Aires imponeva il silenzio ma le madri alle quali avevano rubato i ragazzi vengono a Roma sperando di informare il papa. Per sopravvivere attorno al vaticano lavorano come perpetue o inservienti in collegi religiosi e parrocchie. Ed è così che è Wojtyla e non un vescovo argentino a pronunciar per primo la parola «desaparecido». Tardi, purtroppo: 30 mila morti.
Ieri, come oggi, in Argentina e nel continente latino (Venezuela compreso) si delineano due Chiese lontane tra loro. Tanti preti e due vescovi fra le vittime. Romero e dodici religiosi in Salvador. Due vescovi e religiosi assassinati in Argentina. Il primo a morire don Carlos Mugica, fondatore del movimento dei sacerdoti terzomondismi. Poi padre Josè Tedeschi, poi l’intera comunità dei Pallottini: tre preti, due seminaristi. Il vescovo Enrique Angeletti viene ucciso al ritorno da un convegno in Ecuador organizzato dai teologi della liberazione; il vescovo Carlos Ponce muore a San Nicolas in un incidente stradale che la polizia definisce «immaginario». Due suore francesi violentate, torturate e uccise dal guardiamarina Astiz. Quando l’indulto del presidente Menem impedisce libera gli assassini in diretta Tv l’ambasciatore francese anziché complimentarsi con Astiz, nuovo capitano di vascello dalla divisa immacolata, scandisce un giudizio che gela la cerimonia: «Non sapevo che per far carriera nella marina argentina servissero eccellenti qualità criminali». E a Parigi il cardinale Marty rifiuta di celebrare messa nell’ambasciata di Buenos Aires. Due vescovi argentini - Karlic e Novak - precedono il mea culpa ufficiale invocando perdono per il male che la chiesa «non ha impedito, sopportato e in qualche caso aiutato». Ma il vescovo Laguna, portavoce della confederazione episcopale, se ne era lamentato: possono parlare a titolo personale, non a nome della chiesa. Il regime cade ma certe solidarietà non svaniscono. 24 settembre 1991: il nunzio apostolico Ubaldo Calabresi organizza un ricevimento per festeggiare il dodicesimo anniversario dell’investitura di Giovanni Paolo II. Fra gli invitati i generali Videla, Viola e l’ammiraglio Massera mandanti dell’uccisione di migliaia persone, riconosciuti colpevoli in tribunale ma perdonati e rimessi in libertà dall’indulto.
La Chiesa continua a tacere. L’altra Chiesa argentina guarda al futuro in modo diverso. Dopo la condanna di Von Wernich la Commissione Giustizia e Pace assistita dal vescovo Jorge Casaretto (71 anni, origini genovesi) si preoccupa del dolore dei familiari ed esprime pietà per le vittime invitando la giustizia a scoprire quali complicità e quanti tradimenti siano allo radice di una tragedia impossibile da nascondere. Casaretto ha guidato la Caritas negli anni del disastro economico: metà Argentina non sapeva cosa mangiare. Ha aperto mense popolari, bussato alle porte che contano per raccogliere risorse. Ma Von Wernich appartiene all’altra Chiesa. L’ergastolo illumina lo scandalo dei sacerdoti che hanno trasformato la confessione in gadget della tortura. «Era difficile», sospirava il vescovo Laguna nella sua stanzetta di Morelos, qualche anno fa, «restare fedeli alla promessa e sopravvivere nella paura». Difficile, ma non impossibile.
mchierici2@libero.it

L'inno del Pd secondo Crozza
(sulla musica de L'Internazionale)
Compagni, avanti gran partito / Noi siamo dei lavoratori / Ma anche degli imprenditori / Stiamo un po' di qua e di là! / Noi non siamo più nelle officine / O nei campi a lavorar / Siamo in banca oppure alle anteprime / Oppure in chiesa per pregar! / Noi veniam da lontano / E lontano si andrà / Con stile e in aeroplano / Viaggiando in business class! / Su lottiam l'ideale / Nostro alfine sarà / Ma non è chiaro quale / Ma che importanza ha? / Viva Rosy, Viva Walter, Viva Franceschin...
(da Crozza Italia, andato in onda ieri sera su La7, ripreso dal Corsera di oggi)

Il primo cittadino della Capitale non esclude che in caso di voto anticipato il Pd possa decidere di andare alle elezioni senza allearsi con la sinistra radicale: «Possiamo essere pronti a votare anche da soli: il nostro obiettivo è un partito a vocazione maggioritaria che possa arrivare a prendere dal 37 al 40 per cento dei consensi». (dal Corsera di oggi)

Corriere della Sera 15.10.07
Ma Ferrero attacca: ridiscutere tutto il Protocollo
di Enrico Marro


ROMA — Le critiche opposte di Confindustria e sindacati al disegno di legge sul welfare che traduce l'accordo del 23 luglio «aprono una fase nuova», attacca il ministro della Solidarietà sociale, Paolo Ferrero. Non vale più la pretesa di blindare il testo, osserva il rappresentante di Rifondazione comunista nel governo Prodi, perché sono stati gli stessi firmatari a riaprire la questione. «Ormai, l'uovo intero non c'è più. La frittata è fatta e quindi vale la pena di aprire una discussione politica, innanzitutto nella maggioranza e poi in Parlamento, per vedere come deve venire questa frittata».
Ma lei è consapevole che se salta l'accordo sul welfare, dal primo gennaio scatta lo scalone Maroni, cioè l'aumento a 60 anni dell'età minima per la pensione?
«Certo. Proprio perché ho presente questo rischio, dico che serve un chiarimento nella maggioranza sui problemi sollevati dalle parti sociali. Anche in questa occasione Rifondazione continuerà a fare quello che ha sempre fatto: chiedere l'applicazione del programma, che prevede, lo ricordo, anche la lotta alla precarietà».
A sentire la Confindustria, ma anche la Cisl, sul contratto a termine sono stati introdotti nuovi vincoli e quindi il governo avrebbe ceduto alle sinistre, ottenendo peraltro solo la sua astensione in consiglio dei ministri.
«Alcuni passettini in avanti ci sono stati. Per esempio, concedere una sola proroga del contratto a termine dopo 36 mesi è meglio che poterne fare infinite. Ma considerando che uno può passare dall'interinale all'apprendistato al contratto a termine, può sempre rimanere precario per 10 anni. Il problema non è risolto ».
Lei in Consiglio dei ministri ha protestato per questo ma non si è accorto delle questioni poi sollevate dai sindacati sulle pensioni, cioè che mancherebbe per i giovani la garanzia di una pensione pari al 60% della retribuzione.
«È vero, ma ho avuto il testo, una cinquantina di pagine, solo 10 minuti prima del Consiglio. Ho guardato le parti sui contratti a termine e sui lavori usuranti, dove avevamo chiesto modifiche, ma non potevo immaginare che ci fosse addirittura un peggioramento da destra sul resto. E invece è stato così. Ovviamente sostengo in pieno le richieste dei sindacati sulle pensioni».
Ma garantire il 60% significa sovvertire il metodo contributivo (pensione calcolata in base ai contributi). Se uno con i versamenti non arriva al 60%, chi paga?
«La fiscalità generale. Del resto è così anche in altri Paesi, come la tanto citata Danimarca. Lì si garantisce una pensione minima a carico della fiscalità e il resto con i contributi».
Quindi alla fine dovremmo pagare più tasse?
«Ricordo che già dalla scorsa Finanziaria sono stati aumentati i contributi in maniera strutturale. E comunque se si fanno scendere le pensioni a livello di fame, la fiscalità deve intervenire lo stesso, per sostenere i nuovi poveri».
Lei andrà alla manifestazione di sabato sulla precarietà? I sindacati dicono che è inutile dopo la consultazione che ha visto l'82% dei voti a favore del protocollo sul welfare.
«Ancora non ho deciso. Ma nella manifestazione verranno raccolte anche le critiche dei sindacati sul disegno di legge. Quanto al referendum, anche chi ha detto di sì non è che pensi che è tutto a posto. Noi abbiamo vinto le elezioni, ma i lavoratori non hanno ancora vinto nella società».

Corriere della Sera 15.10.07
Il desiderio? Crolla se si dorme poco
Solo 6 ore e mezzo di sonno. E una donna su tre perde la voglia di fare l'amore
di Simona Ravizza


MILANO — Troppo stanche e stressate per fare l'amore. Costrette a ridurre le ore di sonno per districarsi tra mille impegni (lavoro full time, marito da non trascurare, figli da accompagnare a scuola, casa da tenere in ordine), una donna su tre oggi vede cadere a picco il desiderio sessuale. E i rapporti con il partner si riducono a una volta al mese, con il rischio di mandare in crisi la coppia.
È il risultato di uno studio che sarà presentato oggi a Napoli al Congresso italiano di ginecologia e ostetricia da Alessandra Graziottin, direttore del Centro di ginecologia San Raffaele-Resnati di Milano (www.alessandragraziottin.it). L'obiettivo della ricerca «Sonno, disturbi sessuali e riproduttivi» è spingere le donne — definite di recente dalla psicoterapeuta Elena Rosci le nuove acrobate della vita — a riflettere sulla necessità di dormire anche per avere una vita sessuale attiva. «La deprivazione cronica di sonno riduce l'energia vitale e fa virare l'umore verso la depressione, con ripercussioni dirette sull'eccitazione — spiega Graziottin —. Il circuito della funzione sessuale viene frenato». L'indagine è stata svolta su un campione di 200 pazienti tra i 20 e i 50 anni che si sono presentate al Centro di ginecologia del San Raffaele- Resnati per problemi sessuali. Nel 32% dei casi è emerso che il calo della voglia di fare l'amore è legato a doppio filo alla carenza di sonno: un problema che colpisce soprattutto le lavoratrici under 40 con almeno un figlio.
Rispetto agli anni Settanta, oggi si trascorre un'ora e mezzo in meno sotto le lenzuola (come dimostrato di recente da numerosi studi americani). È una riduzione che per le donne va di pari passo, tra l'altro, con la crescita dell'occupazione femminile e lo stress provocato dalla necessità di conciliare carriera e famiglia. Ai tempi in cui Adriano Celentano cantava «Chi non lavora non fa l'amore/Questo mi ha detto ieri mia moglie/Coi soldi che le do non ce la fa più», le donne che lavoravano erano il 20% contro il 46% attuale. Alla luce degli ultimi dati, il ritornello forse va rivisitato: «Chi lavora troppo, non fa l'amore». Il tempo che si trascorre a letto è calato, infatti, a sei ore e mezzo contro le otto consigliate da William Dement, fondatore del primo centro di ricerca sul sonno alla Stanford University e autorità a livello mondiale sul tema. Di qui, il nuovo fenomeno. Dai risvolti preoccupanti.
Allarga le braccia l'imprenditrice Gianna Martinengo, fondatrice della Didael, azienda pioniera dell'E-Learning in Italia, nonché responsabile del Comitato impresa donna della Camera di Commercio di Milano: «Con due figli prima e sei nipoti adesso, è da una vita che dormo sei ore a notte. Vado a letto all'una e mi sveglio alle sette del mattino. Lo stesso fanno migliaia di altre donne divise tra carriera e famiglia ». Alla base del legame sesso-sonno ci sono principalmente due motivazioni scientifiche. «Lo stress cronico da carenza di sonno da un lato aumenta l'adrenalina che provoca uno stato di allerta anti-erotico, dall'altro fa alzare la prolattina, un ormone che spegne il desiderio — sottolinea la Graziottin —. Così si riduce il desiderio, la frequenza dei rapporti e la soddisfazione sessuale».
Stress, insonnia, problemi di coppia. È un maledetto circolo vizioso, fotografato anche dal Dipartimento degli Studi sociali e politici dell'Università Statale con un'indagine su 1.700 italiani dal titolo «Sonno e rumination», realizzata dalla psicologa Gabriella Pravettoni. «Il troppo lavoro rischia di mandare in crisi due coppie su tre — osserva Pravettoni —. Il rimuginio sugli obiettivi professionali da raggiungere e sulle molteplici incombenze familiari cui far fronte mette a dura prova la vita di relazione, anche perché spesso all'interno della coppia ci sono priorità diverse. Purtroppo, dopo una fase di consolidamento del rapporto, si dà per scontata la comprensione del partner. Errore da non fare».
Ma non finisce qui. La diminuzione delle ore di sonno può avere risvolti ben più gravi. Dall'aumento del 30% del rischio di ammalarsi di tumore al seno, all'82% di probabilità in più in gravidanza di avere disturbi di ipertensione e di fare nascere bambini prematuri. «Lo dimostrano due ricerche appena pubblicate — dice Graziottin —. Il primo sulla rivista internazionale Cancer causes control, il secondo condotto dallo studioso argentino Perez Chada. Dobbiamo capire, insomma, che ogni volta che non rispettiamo il ritmo sonno-veglia rischiamo di pagare un prezzo in salute».

Corriere della Sera 15.10.07
Incontri su teatro e scienza
Galileo l'eretico del linguaggio
di Giulio Giorello


Mercoledì 17 ottobre, presso il Museo Diocesano di Milano (ore 20.30) prende il via la rassegna «Galileo e l'arte del discorso ovvero dell'Eresia della parola», quattro incontri a cura di Giulio Ballio, Giulio Giorello e Stefano Moriggi organizzata dal Piccolo Teatro e dal Museo Diocesano. La rassegna si concluderà il 28 novembre con gli interventi di Aldo Gargani, Giulio Giorello e Gianni Vattimo. Per informazioni: www.piccoloteatro. org; www.museodiocesano.it

«Ma Signori miei, alla fin fine è possibile che l'uomo, come non sa leggere giusto nel cielo, non sappia leggere giusto neanche nella Bibbia». Implacabile è stato Bertolt Brecht nella sua Vita di Galileo.
Non meno implacabile era il Galileo in carne e ossa, quando rivendicava il libero esame delle «novità» di recente apparse in cielo, senza lasciarsi condizionare da vincoli esterni — anche se «nobilmente» ispirati da un preteso rispetto della Sacra Scrittura. In anticipo di qualche secolo, Galileo (che di suo si definiva «cattolico, anzi cattolicissimo ») aveva dichiarato guerra a qualsiasi fondamentalismo che prendeva alla lettera le parole di un Libro per farne un'arma. Non c'è solo, però, il fondamentalismo dei religiosi.
Non meno pernicioso è anche quello di filosofi o di scienziati che temano di mettere in discussione anche la meno rilevante delle loro certezze. Quando Galileo polemizzava coi suoi colleghi che troppo seguivano «le pedate», cioè le orme delle autorità del passato (a cominciare da Aristotele), aveva soprattutto a cuore che la ragione di ciascuno non rinunciasse allo spirito critico, facendosi schiava dell'intelletto altrui. E quando invitava a contemplare con il suo «tubo ottico» (il cannocchiale) la scabra superficie della Luna, i satelliti di Giove, le fasi di Venere o le macchie solari, sapeva che stava mandando in pezzi una più che millenaria concezione dell'universo; e se in nome di Platone o di Archimede esortava a penetrare i segreti del Libro del Mondo «che è scritto in caratteri geometrici », di fatto stava ponendo le premesse di «nuove scienze» capaci di tradurre in formule matematiche le osservazioni di chi ha il coraggio di sporcarsi le mani con gli esperimenti.
Aveva intuito che l'efficacia di un qualsiasi «modello» matematico di un fenomeno naturale sta nella sua capacità di sfruttare insieme numeri e figure. Si può anche non riuscire nell'intento, ma Galileo era convinto che quando il controllo sperimentale e il successo tecnologico premiano qualche ipotesi audace si è sulla buona strada verso la verità. Qualche anno fa lo storico della scienza Morris Kline dichiarava che queste asserzioni galileiane costituiscono una vera e propria dichiarazione di indipendenza intellettuale che precede di più di un secolo quella dei «risoluti ribelli» americani del 1776!
«Desidero la vera costituzion dell'universo » scriveva Galileo nel suo Saggiatore (1623) e sembra quasi il tono di un amante appassionato. La comunità scientifica del tempo aveva, alla fine, accettato i risultati delle sue osservazioni al telescopio, ma faticava a seguirlo nella sua difesa del copernicanesimo — e in particolare di quella strana ed «eretica » idea che la nostra Terra non fosse ferma al centro dell''universo ma «viaggiasse per i cieli ». Era davvero in buona fede quello che il nostro Carlo Emilio Gadda chiamava, non senza una certa ironia, il «maligno pisano»? Più volte gli studiosi hanno sottolineato come Galileo non sia mai riuscito a esibire una prova definitiva a sostegno del sistema copernicano. E non era questo il segno più evidente della sua «malignità» agli occhi di papa Urbano VIII, che avrebbe alla fine consentito che lo scienziato fosse portato davanti al tribunale dell'Inquisizione?
Se, da scientisti, pensiamo che la conoscenza debba essere dotata di assoluta certezza, dovremmo paradossalmente essere dalla parte di chi ha condannato Galileo! Ma la sua incessante battaglia per il moto della Terra era riuscita a rendere pubblica una tale quantità di «incontri concordanti », ovvero di evidenze tra loro coerenti per la nuova cosmologia, che questa era divenuta sempre più plausibile e degna comunque di ulteriore analisi, almeno da parte degli ingegni più competenti e più capaci di disfarsi dei pregiudizi ereditati dalla tradizione. Galileo si era rivelato un maestro nel saper argomentare a favore della scelta di esplorare coraggiosamente quel nuovo continente del sapere che Copernico aveva dischiuso qualche decennio prima. L'eresia del pisano era una sola, quella della parola.
La parola è lo strumento che ci consente di relativizzare ogni certezza.

Liberazione 14.10.07
Nasce il Pd, antipolitica e potere (c'era una volta il riformismo)
di Stefano Bocconetti


Non è il solito paradosso della politica. Uno dei tanti della politica italiana, come suggerirebbe Grillo dal suo blog. E' il paradosso per definizione, quello destinato a cambiare le carte in tavola. Quello col quale un po' tutti si troveranno a fare i conti. Dunque, oggi in quasi ventimila seggi, allestiti ovunque - dalle strade alle parrocchie - molta gente andrà a scegliere il leader del partito democratico. Un milione, due milioni, di più. In realtà già si sa come andrà a finire: vincerà il sindaco di Roma, Walter Veltroni. E più o meno si sa anche di quanto: la sua (le sue liste) avranno fra il 75 e l'80 per cento, la sua rivale più autorevole Rosi Bindi, fra il 10 e il 15, Letta, il ministro Letta, fra il 3 e il 5. Agli altri due concorrenti - che hanno fatto più colore che proposte - le briciole: zero e qualcosa.
Ma anche questo non ha molta rilevanza. Di più conta quel paradosso. Quello per cui, in tempi di riflessioni sull'antipolitica, stamattina si svolgerà un rito dal sapore democratico. Le persone, uomini e donne (e giovanilismi: possono votare anche i sedicenni), versando un euro, potranno decidere chi li rappresenterà. Chi li guiderà. Potranno decidere chi "governerà" il loro partito nelle varie regioni e nelle varie città. Perché assieme al leader nazionale si sceglieranno anche i dirigenti locali. Eppure quella che potrebbe apparire come una grande prova di democrazia, quella che sembrerebbe una chance offerta al rinnovamento dei partiti, sancirà la fine della politica. Per un pezzo della sinistra sarà la fine di un modo di immaginare la politica.
Anche qui. Non tanto e non solo perché l'apparente forma democratica s'è scontrata in questi mesi con manovre e scontri che farebbero impallidire anche un Antonio Gava. Le segreterie dei due partiti che non riescono a mettersi d'accordo su un nome, tanto che appena nella primavera scorsa si parlava di un "reggente" in vista di tempi migliori, fino alle liste fatte col bilancino. E fino alla scelta di Rosi Bindi di accettare il faticoso ruolo di outsider, pur di costringere questi apparati a parlare un po'- almeno un po' - di programmi.
Tutto questo c'è, è evidente. E lo scrivono anche i giornali amici del piddì. Ma il paradosso riguarda qualcosa di più profondo, di più serio. Perché l'incoronazione di Veltroni, e la chiusura definitiva con la storia del Pci - "con la chiave buttata nel Tevere", come si dice a Roma quando si parla di qualcosa di cui ci si vuole dimenticare in fretta - significano anche la nascita di un partito che ha nel suo Dna, che ha nei suoi atti istitutivi - formali e informali, come l'ultimo libro del sindaco di Roma - il rifiuto della politica.
Anche di quella che un po' superficialmente i media definiscono "riformista".
Discorsi esagerati? Veltroni l'altro giorno dal Lingotto di Torino - dove ha iniziato e concluso la campagna elettorale per le primarie - ha riproposto in pillole la filosofia del suo nuovo partito. Parte da assunti indimostrabili, parte da affermazioni che sono state smentite sistematicamente nel corso dei decenni trascorsi, e anche lì, a Torino, Veltroni ha provato a mettere insieme bisogni inconciliabili. Profitti alle imprese e salari operai, difesa dell'ambiente e meno vincoli. E via così. Apparentemente a tutti un po', qualcuno dirà nel vecchio stile democristiano. Ma in realtà, una scelta, la scelta di fondo c'è. Ed è netta: l'accettazione del principio che è l'impresa il motore di questo paese. Quello che va bene a Montezemolo, va bene per riflesso a tutto il paese.
Il nuovo partito democratico, insomma, ha scelto l'esistente. I "confini" dentro cui lavorerà, farà iniziativa sono quelli dati. E dati una volta per sempre. Certo, lì dentro, c'è spazio - o almeno Veltroni ne è convinto - non per un po' di redistribuzione ma comunque per un bel po' di assistenza. Ma la cornice è quella, resterà quella. E questo è esattamente la fine della politica. Immaginata - anche dai tanti pensatori che ciclicamente entrano nel pantheon veltroniano - per trasformare l'esistente. Per non accontentarsi. Per provare a forzare i vincoli dati, imposti da qualcuno e spacciati per universali. Per provare a immaginare qualcos'altro.
Fine della politica, non solo fine di una storia politica. E questo, probabilmente, conta di più, molto di più delle conseguenze immediate che avrà l'elezione del sindaco di Roma. Perché i giornali sono pieni tutti i giorni di retroscena in cui si disegnano scenari assai negativi per la stabilità del governo Prodi. Per ultimo "Il Foglio" di Ferrara che si è andato a spulciare un articolo, nelle pagine interne, sul quotidiano "Adige" a firma di Giorgio Tonini. Che non è uno qualsiasi ma - lo sanno tutti - da tempo è il ghost-writer del sindaco. E lì, Tonini parla esplicitamente della necessità, a gennaio, di arrivare ad una verifica di governo. Cancellando definitivamente il programma e scegliendo quattro, cinque cose su cui lavorare per invertire la china. E se non ce la si faccesse, bene, sarebbe arrivato il momento che Prodi passi la mano al neosegretario dei democratici.
Scenari che confermano le intuizioni di chi aveva sempre spiegato che la nascita del piddì avrebbe portato con sè minacce alla coesione della maggioranza. Ma le maggioranze e i governi passano.
A terra resta invece un nuovo partito che ha chiuso definitivamente con l'ambizione a cambiare. Sarà il partito della gestione dove, appunto, potranno esserci tutti. Sarà il partito del governo e basta.
E non sarà un partito riformista. Certo, è vero non lo erano più da tempo neanche i diesse. Perché forse, in tempi di ripensamenti su tutto, è arrivato il momento di ridare un senso alle parole. Loro, i diesse (ex ds per chi leggerà queste righe, con le primarie di stamattina la loro esperienza si chiude) hanno usato quella definizione come sinonimo di moderati. Erano moderati e si chiamavano riformisti. Parola che invece, da che movimento operaio è movimento operaio, ha sempre indicato altro. Ha indicato un diverso modo, una diversa strada per arrivare allo stesso fine, allo stesso obiettivo. I riformisti si contrapponevano ai rivoluzionari, pensando che al socialismo - sì al socialismo - ci si arrivasse con gradualità, a tappe. Rifiutavano la logica dell'appuntamento decisivo, della presa del palazzo che tutto cambia. Ma non parlavano di riforme e basta. Parlavano di riforme per cambiare questo e quello, di riforme per redistribuire risorse. Dalle imprese al lavoro. Parlavano di riforme come passi in avanti, lenti ma significativi, verso l'obiettivo di cambiare, e cambiare radicalmente, l'ordine delle cose esistenti. Da tempo, una parte - la parte allora maggioritaria - di ciò che discende dal Pci ha rinunciato a tutto questo. Hanno continuato a parlare di riforme, cominciando a dimenticarsi a cosa e chi sarebbero dovute servire. Fino a farle diventare un'altra cosa: controriforme.
Il riformismo dei diesse era finito da tempo. Anche perché in questi anni, in questi decenni è accaduto qualcosa. E' accaduto che il capitale ha scelto di chiudere gli spazi al riformismo. Il vecchio patto sociale, quello che è servito a costruire il welfare dalle nostre parti, è saltato. Le imprese vogliono tutto e subito. Vogliono vincere il referendum e vogliono che chi non ci sta, i metalmeccanici, siano messi alla gogna. Vogliono precarietà per chi entra al lavoro e salari di fame. Vogliono far saltare qualsiasi compromesso. E vogliono cinquemila miliardi di cuneo fiscale.
Questo è l'esistente. E questo Veltroni ha accettato come immodificabile. Così muore la politica. Anche se andranno a votare in cinque milioni.

Liberazione 14.10.07
Luigi Manconi: «L'allarme criminalità avrà anche i suoi fondamenti, ma è indubbio che c'è un costante impegno degli "imprenditori politici della paura" che mobilitano in continuazione le ansie collettive»
intervista di Davide Varì


Luigi Manconi, sociologo e sottosegretario alla Giustizia, è chiaro e preciso come sempre: «L'allarme criminalità avrà anche i suoi fondamenti, ma è indubbio che c'è un costante impegno degli "imprenditori politici della paura" che mobilitano in continuazione le ansie collettive». E ultimamente, bersaglio preferito di questo genere di "imprenditori" è l'indulto. Non a caso titoli e presunte inchieste sui giornali si susseguono per dimostrarne l'effetto moltiplicatore di criminalità. Eppure gli unici dati disponibili, quelli pubblicati nella relazione del ministero degli interni nel 2007, parlano di una sostanziale stabilità di reati e crimini.
Onorevole Manconi, continuano le accuse e gli attacchi nei confronti dell'indulto. E' possibile capire con certezza se quel provvedimento di clemenza ha davvero determinato un aumento della criminalità?
Visto che molti lettori di Liberazione hanno fatto il Liceo: "Post hoc ergo propter hoc". Ovvero, se si adotta rigidamente e senza la dovuta capacità di disaggregare i dati e soprattutto senza aspettare che essi siano come si dice, stabilizzati, si dovrebbe affermare che dopo l'indulto, e quindi grazie all'indulto, gli infanticidi in Italia sono diminuiti del 67%. Questo dicono infatti le statistiche.
Quindi ci sta dicendo che molti si esercitano a prendere i dati più utili per suffragare le proprie tesi...
Dico solo che si deve essere molto lucidi prima di trovare correlazioni cosi ferree, ovvero meccaniche tra l'indulto e l'andamento dei dati relativi all'attività criminale nei mesi successivi le scarcerazioni.
Come dimostra il suo paradosso sugli infanticidi...
Certo, se infatti il dato sugli infanticidi potrebbe apparire eccentrico, la diminuzione dei furti in appartamento registrata in molte metropoli come andrebbe spiegata? Insomma, tutti questi dati sui quali ovviamente si deve riflettere, andrebbero considerati in una serie storica che confermerebbe quello che oggi già sappiamo: esiste una sostanziale stabilità, purtroppo su livelli elevati, di molti indicatori relativi al tasso di criminalità. Ma si registrano anche molti altri indicatori che tendono verso il basso. Oltretutto c'è qualcosa di perverso in questa volontà di correlare il provvedimento di clemenza con l'innalzamento del tasso di delinquenza, ovvero che la catastrofe di cui oggi si parla sarebbe accaduta oggi, tra un anno, oppure esattamente quando quelli che hanno beneficiato dell'indulto sarebbero comunque usciti per fine pena.
Comunque i primi dati resi noti dal ministro Mastella parlano di una bassa recidività tra le persone che hanno beneficiato dell'indulto...
A essere coerenti nel manovrare cifre e statistiche, dobbiamo sempre tener presente che tra quanti escono per fine pena, senza sconti ne benefici, la recidiva, dunque quella catastrofe di cui abbiamo appena detto, è regolarmente tripla rispetto a quella sinora registrata tra gli indultati.
Eppure si continua a parlare di allarme criminalità...
L'allarme per la criminalità c'è, è reale e preoccupante, ed è legato a dati obiettivi. Dopo di che, su questi dati obiettivi, si innesta l'opera degli "imprenditori politici della paura" che mobilitano le ansie collettive. Per capirci, se un telegiornale apre la sua edizione quotidiana sempre con due notizie di cronaca nera, il gioco, e che gioco e terribile e pericoloso, è fatto.

Liberazione 14.10.07
Storie libertine di cardinali vescovi, cortigiane e nobildonne romane
Nel nome della magnificentia
di Maria Calderoni


Nel nome della magnificentia. Quella, grandiosamente rinascimentale, che Pietro Riario, cardinale in Roma sotto papa Sisto IV (seconda metà del 1400) grandiosamente ostenta e coltiva da vero principe (della Chiesa). Magnificentia che va dalle vesti tempestate di pietre preziose alla profusione di oro e argento degli apparati decorativi, con il contorno di efebi, tutti azzimati in abiti di velluto e seta, nonché cantori, ballerini, ballerine, musici.
In quella autentica reggia che è il palazzo di piazza Santi Apostoli, in cui il Riario si insedia appena indossata la porpora, feste, ricevimenti, gran balli di carnevale si susseguono con fastosa frequenza. Passa alla storia il ricevimento da lui dato in onore di Eleonora d'Aragona, figlia del re di Napoli; e mitico «il banchetto della durata di sei ore in tre portate di 42 vivande, con ogni portata introdotta da uno scalco a cavallo e una schiera di valletti elegantemente vestiti». Con contorno di teatranti toscani e belle ragazze sotto forma di naiadi vestite solo di veli azzuri.
Sono feste che spesso volgono in gozzoviglie e più propriamente in orge, ma non vi è dubbio, scrive lo storico Platina nel suo Vite dei pontefici (1715), il cardinale Riario «ha sostenuto ingenti spese per avere in casa una gran quantità di oro e argento, abiti sontuosi, cortine ed arazzi, cavalli aitanti, servitori in vesti di seta e scarlatto, giovani scrittori e artisti famosi». E anche attori, danzatrici e cantanti, tra cui Tiresia che «Pietro mantiene con una prodigalità tale che si comprende dall'uso di scarpette ricoperte di perle». Morirà comunque prima dei trent'anni, Pietro il Magnico; secondo i maligni a causa delle crapule, ma forse, più verosimilmente, via veleno.
Pietro Riario, gaudente, umanista e spendaccione, non è che uno della lunga schiera di cardinali e vescovi molto portati ai piaceri terreni che illustrano la storia del Papato. Donne di cuori e di cardinali, principi della Chiesa e cortigiane: anche questa è un pagina di storia. Giovanni Burcardo, maestro cerimoniere di Alessandro VI, aveva coniato al tempo una definizione che assolveva anima e corpo: «Cortigiana, ovvero prostituta onesta».
All'appassionante tema devolve 300 pagine il nuovo libro di Claudio Rendina - Cardinali e cortigiane, (Newton Compton) - documentatissima cronaca vera di «storie libertine di principi della Chiesa e donne affascinanti; vescovi e diaconi gaudenti, prostitute e nobildonne spudorate, tra intrighi politici, traffici commerciali e avventure galanti». E in un contesto unico al mondo, il Papato del più grande potere temporale.
Donna Olimpia è per noi oggi solo una strada e una piazza dalle parti di Monte Verde. Ma chi è questa Donna Olimpia? Ai suoi tempi seconda metà del 1600, fu una potenza, la "papessa" Olimpia, vedova di un Pamphili, cognata nonché "favorita" di papa Innocenzo X. Nata Maidalchini, ambiziosa, faccendiera e astuta, lei «compra, vende, dà i soldi a strozzo». Sfruttando la debolezza del papa, che le è succube, arriva ad essere la più gran Dama e la dominatrice di Roma. La Papessa. «Chi vuole ottenere un favore o un'udienza dal papa deve chiederlo a lei, definita la "porta" del Vaticano; che bisogna "ungere", perché Olimpia è avida di denaro, si arricchisce tra imbrogli, furti e prebende». Ma non le basta. Vuole la carriera ecclesiastica anche per il figlio Camillo e non le occorre molto «per fargli avere il cappello cardinalizio». Insaziabile, Regina del Carnevale nell'anno di grazia 1645, malata di grandiosità, fa erigere, con salasso di pubblico denaro, palazzi, giardini, gran ville sull'Aurelia Antica.
A lei e alla sua influenza su Innocenzo X si devono il Casino del Bel Respiro, il Giardino del Teatro, i Bagni di Donna Olimpia con tanto di spaggia privata, l'ingrandimento e l'abbellimento del principesco palazzo Pamphili a piazza Navona. Ivi compreso il capolavoro del Bernini, la Fontana dei Quattro Fiumi con l'obelisco. Va bene, ci vogliono un mucchio di soldi, e, per la bisogna non si trova di meglio che aggiungere la gabella di un quattrino per libbra sulla carne e sul sale. «Così, mentre vengono trasportati i pezzi dell'obelisco, sui muri della piazza compaiono scritte come questa: «Noi volemo altro che guglie e fontane/ pane volemo, pane, pane, pane!».
La Papessa Olimpia, anche protettrice delle prostitute. Annota infatti Claudio Rendina che, secondo un "Avviso" del 1645, la favorita del papa concede alle meretrici romane «che mettano l'arme di Sua Eccellenza sopra la porta e che vadino in carrozza senza riguardo alcuno, come se fossero honorate». Ovviamente «con tanto di tangente sulle loro entrate». Odiata dal popolo per il lusso, gli scandali e i balzelli, durante la carestia del 1647 viene aggredita dalla folla, la sua carrozza rovesciata; e alla morte di Innocenzo X, il nuovo papa Alessandro V la fa esiliare fuori Roma. Poi le viene intentato un processo con nove capi d'accusa tra cui appropriazione indebita di denaro dello Stato e dei tesori del papa. Non li restituirà mai. «Muore di peste il 16 settembre del 1657. Lascia un'eredità eccezionale per quei tempi: due milioni di scudi».
Cardinali e cortigiane, quello di Rendina è un quadro formidabile e fosco, gloria e miseria del papato all'ombra del potere temporale. «Cardinali come uomini di corte, quella di un qualunque altro sovrano, in veste di nunzi apostolici, ovvero di ambasciatori, e ministri di un re. E in simili ambienti si accompagnano ad altri cortigiani, conti, marchesi, duchi, scrittori, musicisti, artisti, persino giullari, ma anche a donne, come mogli di nobili, nonché nubili, qualificate cortigiane in quanto dame di compgnia della Regina o favorite del Sovrano, ovvero amanti di nobili laici od ecclesiastici».
Prostitute d'alto bordo, alcune famose per bellezza personalità e talento, hanno spesso, come i cardinali, la loro corte, e possiedono case e ville sontuose, «dove ospitano il loro amante ufficiale, ma anche la clientela selezionata». Con la benedizione del Cupolone.
Donna Olimpia e le altre. Madama Lucrezia, per citare, di cui è perdutamente innamorato il re di Napol Alfonso d'Aragona; Vannozza Cattanei, la bellissima amante di Rodrigo Borgia, nipote di Callisto III; quanto al cardinale Cesare Borgia avrà come amante Fiammetta, «la cortigiana di Roma più famosa in quegli anni, e va da lei la sera addirittura con la porpora, con tanto di spada, per difendersi dai banditi e da indesiderati spioni della sua tresca amorosa».
Lo Zoppino (pseudonimo di Francisco Delicado, sacerdote e scrittore spagnolo, autore di una Vita delle cortigiane di Roma ) si dilunga sulle arti seduttive di una Lucrezia detta Matrema, nota anche a Pietro Aretino; la Divina Imperia, signora di Palazzo Chigi, è immortalata da Raffaello; e Bianca Capello, è la celebre, intelligente favorita che assurge a granduchessa (e poi tante, tante altre). Del resto, nella Roma papalina, tra cortigiane, prostitute d'alto, basso e bassissimo rango, le donne dedite al famoso mestiere più antico del mondo, alla fine del Quattrocento sono, secondo Stefano Infessura (Diario della città di Roma , 1890), un'enormità, ben 6.800 su una popolazione di 50.000 abitanti. E il numero è aumentato sempre di più fino al pontificato di Pio V, che nel 1656 vorrebbe sì cacciarle, ma l'impresa si rivela impossibile. Infatti, «tra loro e i protettori andrebbero via da Roma non meno di 25.000 persone, la città si svuoterebbe». E' una "terra de donne", insomma, il santo capoluogo del papato, una terra di piacere. In ogni caso, le cortigiane, o curiales come vengono riguardosamente definite, costituiscono l'aristocazia delle meretrici. E' una di esse, al secolo Clementina Verdesi, che Gioacchino Belli celebra a modo suo: come «puttana santissima».

domenica 14 ottobre 2007

l'Unità 14.10.07
L’adunata di An tra «via Prodi» e croci celtiche
In piazza per «più sicurezza», prova di forza di Fini: siamo 500mila. Tra la folla saluti romani sull’inno di Mameli
di Natalia Lombardo


Ma la Brambilla dov’è? È il giallo che schiarisce il nero dominante della manifestazione nazionale di Alleanza Nazionale, sotto il Colosseo, alla vigilia delle primarie. Una prova di piazza riuscita, anche come schiaffo a Berlusconi in viaggio d’affari nella dacia di Putin. Dal palco Gianni Alemanno grida: «Questa è la più grande manifestazione della destra dal dopoguerra» (che brividi...); «siamo in 500mila» esulta Matteoli che temeva un flop; a occhio saranno stati 150 o 200mila. Ma se An dimostra ancora d’essere l’unico vero partito del centrodestra, le sue fila sono ancora intrise di nostalgie fasciste, purtroppo espresse dai più giovani. Grandi bandiere con croci celtiche nazi-fasciste, «Faccetta nera» intonata dai megafoni, manifesti col Duce e slogan che gli fanno il verso: un «salutiamo romano» su striscione nero, come le divise fra i militanti. Ma decine di saluti romani scattano a molla in onore dell’«Elmo di Scipio» dell’Inno di Mameli. Per Alemanno sono gesti «fisiologici». Magliette nere con scritte «credere obbedire combattere» da Latina «Littoria»; una bandiera col simbolo della «X Mas» e l’ascia bipenne di Ordine Nuovo; slogan al «grido di battaglia Boia chi molla»: l’anima nera dell’Msi non si è evoluta del tutto in An, nonostante Fini anche ieri abbia tentato un (noioso) discorso di governo su «legalità, sicurezza» e trasparenza ma da partito d’ordine: spedire a casa i lavavetri che sono «per lo più sono clandestini e non meritano né il carcere né un lavoro», i campi Rom «non siano a tempo indeterminato ma solo di trastito».
Pochi slogan e tanti insulti anche verso i gay (e verso Luxuria) nei cortei che sfilano a lungo. Nel mirino c’è soprattutto Prodi, oggetto di insulti e di «vaffa» in serie, sbeffeggiato come Pinocchio e fatto a fette (simbolicamente) da una mortadella (vera) portata da Gramazio e divorata in un rito cannibalesco da Alemanno.
Gianfranco Fini e i big di An hanno fatto la spola in moto fra i tre cortei che, dalle tre, hanno invaso il centro di Roma: da piazza della Repubblica, da San Giovanni, e da piazza Indipendenza quello più duro e goliardico di Azione Giovani. Il leader del partito, stavolta col casco, a bordo di una Honda Transalp, Maurizio Gasparri su uno scooterone Gianni Alemanno su una enduro fiammeggiante.
Spavalda in camicia rossa con volant e berretto nero, Alessandra Mussolini si piazza alla testa del corteo col suo striscione di «Azione Sociale». Alemanno e Gasparri piombano come falchi, dopo un battibecco la fanno retrocedere ma la Nipote resta in testa e poi fiammeggia sul palco. «Alessà togliete sta camicia...» le gridano. «Non posso, c’ho solo questa...» risponde lei, nera dentro ma che vuole «sdoganare i colori».
Michela Brambilla si nota ma non la vede nessuno. «La Brambilla c’è, non c’è, dov’è?» è il passaparola fra i cronisti. Non la scovano neppure le Iene. Ignazio La Russa minimizza, «L’ho sentita alle tre, dice che c’è ma non vuole fare la prima donna». Dei Circoli della Libertà ci sono più bandiere che militanti ( c’è anche una decina di africani); di Mvb neppure un bagliore rosso salmone, però telefona all’Ansa e spiega: «Sono qui, ho il pass ma non salgo sul palco perché la manifestazione è di An, 10 e lode. Berlusconi? Mi consulto sempre con lui e condivide la mia presenza qui». Sfilano pacati il liberal Adornato e Sanza, Fi.
In tono ducesco, Alemanno dal palco infamma la folla, «liberiamoci dai cretini al comando», urla, e poi lancia i segnali politici più chiari: «Da oggi faremo la battaglia perché Veltroni si dimetta da sindaco di Roma, perché non si può avere un sindaco a mezzo servizio». E per il Campidoglio non esclude che possa correre Fini: «Lui o un altro uomo, sarò comunque di An». Ma Fini può essere «il futuro leader del centrodestra». Essere lì sotto il Colosseo, in uno scenario «romanamente» simbolico per gli eredi del Msi (mai così fotografate le mappe di Roma dell’epoca fascista, su via dei Fori Imperiali), è una conquista per An concessa, con tre mesi di trattative, proprio da Veltroni sindaco.
Del quale Fini boccia il «modello Roma: illusione di propaganda»; il leader di An non infiamma se non con un «presto torneremo al governo». E per quasi un’ora illustra i punti del volantino stampati come «l’alternativa» proposta dalla destra che sarà il «motore della Cdl». Accoglie «commosso» il suo «popolo della libertà», ignora sia Berlusconi che Storace, si appella all’unità in An: «Non è più tempo di personalismi e frazionamenti».
Romano Prodi non apprezza: «Una manifestazione di insulti. Hanno finito gli insulti e sono andati a casa».

l'Unità 14.10.07
Dei delitti (minori) e delle pene (eccessive)
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi


Ci si continua a interrogare sul perché dell’indulto (“era proprio indispensabile?”, “non si poteva risolvere altrimenti il problema del sovraffollamento?”). Due notizie di cronaca spicciola spiegano, in maniera assai efficace, per quali ragioni si è dovuti giungere ad adottare quel provvedimento.
La prima. Antonio C., 41 anni, di Avellino, ha patteggiato, in direttissima presso il tribunale di Milano, sei (6!) mesi di reclusione per il reato di violazione degli obblighi speciali di sorveglianza. L’uomo era stato arrestato dieci giorni prima per un furto ad un supermercato; a seguito di ciò, gli era stato comminato l’obbligo di residenza nel comune del capoluogo lombardo, con la prescrizione aggiuntiva del reperimento, dalle 21.00 alle 07.00, presso il suo domicilio. Che Antonio, non avendo una casa, ha eletto nei pressi di una panchina di piazzale Aquileia (vicino al carcere di S. Vittore). La violazione degli obblighi di sorveglianza scatta automaticamente anche quando il sorvegliato commetta un altro reato: come ha fatto quest’uomo, tornando a rubare. Un giaccone e due paia di calze: questa la refurtiva. Dal reato di furto è stato prosciolto per assenza di querela (il commerciante derubato ha ritenuto di non dover denunciare un senzatetto): Antonio C. ha invece dovuto patteggiare quella pena, per la violazione di cui sopra, che lo obbliga a un trasloco coatto dalla sua panchina al carcere di S. Vittore. Il suo avvocato ha avanzato richiesta di scarcerazione, con obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria per la firma quotidiana. Il pubblico ministero, al momento, sembra non opporsi; e, dunque, è possibile che Antonio esca dal carcere, nelle prossime settimane: da quel carcere dove si trova senza neppure una querela a carico, per una giacca e due paia di calzini.
Altra vicenda, sempre a Milano. Notizia del 25 settembre scorso: due anni di prigione, con prole al seguito, per avere sottratto qualche flacone di shampoo e di bagnoschiuma dagli scaffali di un supermercato. Questa la sentenza emessa dal gup contro due giovani donne marocchine, Kharima e Ghiziane, 24 e 26 anni, per “lenire la prostrazione” (così scrive il giudice) degli esercenti milanesi, colpiti quotidianamente da piccoli furti e sottrazioni indebite di merce. La cronaca del reato è banale: due vigilantes del supermarket notano le donne infilare tre confezioni di shampoo e quattro di bagnoschiuma sotto il pannolino di uno dei loro bebè. Decidono di bloccarle, ma quelle tentano la fuga: così il furto diventa “rapina impropria” e la pena sale. Sale tanto, che nonostante lo sconto di un terzo per la scelta del rito abbreviato, vengono comminati 24 mesi di detenzione: di "carcere vero", come sottolinea ancora il magistrato. Due anni di S. Vittore - anche loro lì - con bambini al seguito: per 66 euro e 20 centesimi di merce sottratta (lo shampoo e il bagnoschiuma costano un po’ troppo in quel supermercato, che vien da esclamare: che furto!).
Qual è la morale di queste due storie? No, non è certo un elogio del taccheggio; tanto meno il suggerimento larvato che su furti e furtarelli si debba tutti chiudere un occhio. Già, in quelle due vicende c’è anche il disagio dei commercianti (di quelli di Milano e di molte altre città) che hanno diritto di svolgere la propria attività senza venire danneggiati da troppi furti. Ma c’è, crediamo, anche una questione di equità: ovvero, di proporzionalità tra il reato e la pena. E, a monte di questa, l’ombra di questioni di giustizia sociale, che certo non possono essere risolte con il codice penale; e che, tuttavia, non possono rimanere estranee all’amministrazione della giustizia, non definitivamente.
Infine, tornando alle domande d’apertura: cos’hanno a che vedere queste due storie con l’indulto? Semplice: se il codice penale italiano, e l’applicazione che la magistratura ne propone, producono sentenze quali le due appena esaminate, allora - non c’è scampo - le nostre carceri saranno sempre affollate. Inutilmente affollate. Perché quale persona di buon senso è disposta a credere che quelle due giovani donne, ad esempio, scontati due anni di reclusione, saranno meno disposte a tornare al piccolo furto per riuscire a sopravvivere? Quale persona di buon senso può pensare che, nel momento in cui saranno scarcerate, il loro status sociale, il loro livello di integrazione nella nostra società, sarà tale da consentire loro di trovare agevolmente lavoro o casa? E sarà tale da includerle in sistemi di relazioni lontani dall’illegalità, da immetterle in percorsi professionali e umani, virtuosi e positivi? Hai voglia i media, e certi arruffapopolo, a raccontare che questo è un Paese di impuniti... Ma va là! Questo è un Paese dove il carcere è pressoché la sola sanzione prevista per ogni illecito: poche misure alternative e pochi lavori socialmente utili, programmi di recupero, multe e interdizioni. In ogni caso davvero poco. A cosa serve l’indulto, allora? Risposta: a svuotare le nostre affollatissime carceri, periodicamente (o quasi), da ladri di galline, tossicodipendenti, immigrati sprovvisti di permesso di soggiorno. Di queste persone, in larga misura, le nostre celle sono piene. C’è un problema a monte? Esiste una soluzione? Sì: il problema si chiama politica penale. Lo si risolve invertendo la tendenza di questi ultimi anni: depenalizzando molti reati che non comportano allarme sociale né danno diretto per terzi, prevedendo sanzioni alternative alla reclusione per altri che non mettono a rischio l’incolumità dei cittadini. Così facendo c’è la possibilità di non dover ricorrere periodicamente a condoni penali: la possibilità di tenere in carcere (in un carcere che non somigli a una scatola di sardine e che non violi sistematicamente i diritti dei cittadini privati della libertà) chi è veramente pericoloso e chi minaccia di tornare a commettere crimini gravi. Per tutta la durata della pena, se ciò si rivela necessario.

Post Scriptum: apprendiamo, mentre scriviamo queste ultime righe, che Antonio C. resterà a S. Vittore ancora per un po’. Così ha deciso il giudice, rigettando l’istanza di scarcerazione presentata dal suo legale. Tuttavia, per una strana eterogenesi dei fini, ciò potrebbe non rivelarsi una soluzione negativa: un assistente sociale attivo in quel carcere si è detto disponibile ad accogliere Antonio in casa sua e a trovargli un lavoro, qualora gli venissero concessi i domiciliari. Chissà?
Scrivere a: abuondiritto@abuondiritto.it

Repubblica 14.10.07
Il falso Ligabue canta in tv "Troppa dc dentro ´sto pd"
di Leandro Palestini


Tutti i voti son buoni, solo se li danno a noi, ci vediamo da Bruno prima o poi. C´è troppa diccì dentro ‘sto piddì, c´è troppo piccì dentro ‘sto piddì

ROMA - Ironia della sorte: sarà la satira di RaiTre con il fuoco amico di Serena Dandini a colpire stasera Walter Veltroni, leader del nascituro Partito Democratico. A seggi chiusi, a Parla con me si vedrà Neri Marcoré nei panni di un irriverente Luciano Ligabue: l´imitatore si esibirà nel nuovo inno del Partito Democratico, cantato sulle note di Certe notti, cavallo di battaglia del cantautore. Il cuore della critica politica? «C´è troppa diccì dentro ‘sto piddì, c´è troppo piccì dentro ‘sto piddì». Al futuro leader Ligabue prospetta come un incubo l´abbraccio dei suoi compagni di partito: «Da Bindi a Fassino, da Rutelli a Parisi, che gioia sarà». A Walter, Liga ricorda che «la festa è finita», tra le righe insinua un atroce dubbio. «Certe volte non so se se sei buono o ingenuo o coglione oppure ce fai».
Sabato di prove al vetriolo al Teatro delle Vittorie per il debutto di Parla con me. Anche il teatrante Ascanio Celestini non fa sconti al gracile Pd, picchia duro sul rito della partecipazione alle primarie. Un padre chiede: «Siete andati a votare alle primarie?». La madre risponde: «Ma perché, ci dobbiamo andare se tanto lo sanno già tutti che il candidato del centrosinistra è quello lì che mo´ fa il sindaco di Roma? Queste primarie sono una presa in giro». Celestini associa le primarie ai test dell´esame della patente. Nello sketch il padre esclude che il Pd abbia mai pensato a una consultazione elettorale. La prova? «Domani non ci daranno i risultati delle primarie. Ci daranno i voti. Chi ha messo la crocetta su Veltroni è promosso. Chi s´è sbagliato e l´ha messa su Bindi viene rimandato. Chi ha votato Adinolfi e quegli altri verrà bocciato».
Rideranno Walter Veltroni e friends? Serena Dandini non se lo vuole chiedere, preferisce spiegare con candore: «Ci sono le primarie. È una puntata atipica». Già, nella scaletta del suo talk show, anche le inchieste al citofono di Andrea Rivera («sveglierà la gente alle 7 del mattino, per invitarli al voto») riguarderanno le consultazioni del Pd. E con un certo azzardo Dario Vergassola «da bamboccione è stato promosso inviato della politica»: in diretta, verso mezzanotte, sarà a piazza dei Santissimi Apostoli, quartier generale del Partito Democratico, per i primi commenti a caldo.

Repubblica 14.10.07
Max Ernst. Inconscio copia e incolla
di Massimo Bucchi


Sotto il titolo collettivo "Una settimana di bontà" Adelphi pubblica i tre romanzi-collage "fabbricati" dal pittore surrealista in cinque anni febbrili, tra il 1929 e il ´34. Un brillante autore di satira che ha fatto del "saccheggio delle immagini" la sua cifra artistica ci guida attraverso questi orrori novecenteschi raccontati con una lingua inventata per l´occasione
L´artista si trova solo al suo tavolo con intorno miriadi di inquietanti presenze In ogni tavola ogni figura vuole prevalere In quel momento bisogna ascoltare le voci
È la fase che va dal crollo di Wall Street all´avvento del nazismo È un incubo letterario o una semplice trascrizione?

Se avete presente la Commedia, e soprattutto la sua più celebre versione iconografica. Se ne volete il totale rovesciamento e addirittura la negazione. Beh, ecco Max Ernst. Il Doré di se stesso, il Doré di un poema che non è mai stato scritto, in cui l´assenza programmatica di un testo strutturato è il vero perno del progetto. Quattrocento e otto tavole. Tre romanzi in cinque anni febbrili. Parole presenti solo in forma di brevi didascalie alle illustrazioni, e nell´ultimo libro nemmeno quelle. La donna 100 teste, Il sogno di una ragazzina che volle entrare al Carmelo, Una settimana di bontà. Tre romanzi paralleli, oggi stampati in un unico volume, ma non un tragitto di elevazione in tre cantiche. Perché il percorso è contemporaneo e non sequenziale, perché dall´inferno come da se stessi non c´è uscita. Perché il paradiso è un modo di dire e il purgatorio doveva apparire al nostro autore come una categoria piccolo borghese. Da non trascurare l´ipotesi di un romanzo d´evasione. Evasione dell´io sociale che viene invano inseguito e braccato nella giungla dell´inconscio.
Ognuno di questi tre romanzi è in realtà pensato come una sequenza cinematografica, ma ogni tavola a sua volta è un trailer che promette all´infinito altre sequenze e altre rivelazioni. L´idea guida è stata l´Annessione, conseguente alla Conquista. Rinunciare temporaneamente o per sempre ai propri disegni autografi, ai propri quadri, per impadronirsi di un mondo altro, e di altri. Pensate a come è noioso avere sempre e comunque a che fare con se stessi. Avere sempre le stesse idee, lo stesso stile, non sorprendersi mai di sé, dipingere continuamente quasi le stesse cose, fossero pure le figure della Sistina, anche se il pubblico seguita magari a cadere nella trappola e magari ama quello che per l´artista è ormai insopportabile. L´arco del progetto di Ernst va dal 1929 al 1934. Uomo del suo tempo, anticipa e profetizza l´avvenire quanto può. E, a futura memoria, diventa per anni un saccheggiatore di giornali, cataloghi, riviste dell´Ottocento. Ritaglia e accumula stampe popolari su fatti di sangue, di sesso, di violenza. Raccoglie algide stampe scientifiche di strumenti e di macchinari. Stampe di animali mostruosi reali o immaginari. E tutto ciò che strappa alle bancarelle del Lungosenna lo stiva e l´organizza come un gigantesco ammasso di materiale simbolico. D´altronde sarebbe mai nata la pop art se non avesse tirato fuori dai suoi cassetti decenni di back glass, le testate di vetro serigrafato dei flipper, o depositi di piccola pubblicità silografata?
Più che un doctor Livingstone, Ernst è un Alessandro il Macedone. Penetra militarmente nel nuovo continente iconografico di riferimento sconvolgendo e poi governando. Deve aver provato su di sé l´infinita ebbrezza di passare da conquistatore sotto un arco di trionfo posto addirittura all´ingresso del suo nuovo regno, prima ancora di verificare i risultati di una qualsiasi operatività. Si fa imperatore, si fa dio. Si arroga il potere di disporre a suo piacimento di un popolo di immagini ormai sottomesso, può riscattarlo dal suo livello "inferiore" per trasferirlo in domini più rarefatti. Certo che anche altri autori utilizzano altrove per proprio conto gli strumenti di cui Ernst non è il monopolista, certo che la sua ricerca non è isolata né unica, ma nessuno opera con le sue stesse implacabili determinazione e coerenza. È suo il monumento che la ragione artistica erige all´inconscio. Tutto in realtà diventa "suo". La sua attenzione al pasting, all´incollaggio e al ritocco delle immagini ritagliate, è maniacale. Se non si possono notare le sovrapposizioni, il punto delle contaminazioni, i tagli, significa che il tutto è diventato fusione unica, che è uno solo l´autore. Esattamente come, a livello della nostra quotidianità, il dormiente autore di un sogno.
Ma, al dunque, quanto inconscio c´è in giro all´epoca? Ed è tutto coltivato per uso personale o ne spaccia già la grande distribuzione? Non è possibile capirlo restando nei termini e nei confini della storia dell´arte. Però ricordiamoci che in quel periodo si è usciti da poco dal più grande massacro della storia, la Prima guerra mondiale, e in qualche modo si cerca di rimuoverla. Siamo proprio negli anni, questi dei romanzi di Ernst, che vanno dal crollo di Wall Street all´avvento del nazismo. È incubo letterario il suo o semplice trascrizione? O traduzione dell´orrore nascosto in una lingua inventata per l´occasione? Giocare con i simboli (avete mai provato?) è emozionante come leggere i tarocchi. Si cercano indicazioni sul presente e irrompono rivelazioni sul futuro. Non viene fuori però nulla di buono in questa proiezione sull´avvenire della ragione. Il lettore di carte Max Ernst lo dice ai suoi consultanti, fingendo per non turbarli troppo che il responso sia frutto di invasamento artistico, ma lo dice.
Il surrealismo è probabilmente l´intenzione artistica che ha avuto più impatto e più penetrazione presso pubblici diversi. Magritte e Dalì sono diventati icone pop, citate, trascritte, riprodotte in ogni forma e in ogni occasione. Come sa bene chiunque si occupi di pubblicità, illustrazione, umorismo. L´uso smodato delle tecniche surrealistiche probabilmente deriva dalla convinzione di poter raggiungere per questa strada una sorta di legittimazione artistica, una dignità di livello, un meccanismo meglio funzionante e più coinvolgente di altri. Ci sarebbe da chiedersi come mai un´arte così rivoluzionaria e sconvolgente sia finita nelle mani di chi ha il vezzo di dimostrare soltanto una capacità tecnica superiore rispetto alla comune produzione di serie.
Max Ernst usa il surreale quasi solo per codificarlo. Insieme alla Commedia, l´Organon. Agli orologi appassiti sui rami di Dalì, all´uomo dal volto coperto dalla mela dipinto da Magritte, non ha nessun logo personale o commerciale da opporre. Sa che il contenuto della sua arte, di tutta l´arte, è la forma. Volendolo citare bisognerebbe rappresentare l´intera sua tavola, l´intera scena. Altrimenti, sezionando e asportando, si torna esattamente allo stato iniziale, a un´immagine ritagliata qualsiasi che ha rapporto soltanto con se stessa e perde ogni significato al di fuori del suo contesto. Semplicemente il prodotto Ernst non si presta all´uso, respinge lo zoom. Ha stabilito un metodo ma non vuole trarre profitto dalla sua applicazione. Ha rinunciato al linguaggio perché sa di trattare dell´indicibile. Ha inventato e perfezionato le tecniche per scoprire come è possibile aggirare e surrogare la ragione, ma, ci piace pensare, con l´orrore per l´enormità degli orrori che andava svelando a se stesso. Un Oppenheimer ante litteram. Della fissione mentale.
Le invenzioni di Michelangelo sono arrivate quasi a determinare in modo autoritativo l´immaginario iconografico (scenografico?) della religione cattolica. Ernst si è lasciato alacremente e felicemente possedere dal mondo apparentemente libero del surreale. L´inconscio è un animale misterioso, con associazioni mentali gestite in proprio e dirette verso un preciso obbiettivo con mani d´acciaio. Abbandonarsi quindi non significa mai essere liberi e creativi. Non gestire un progetto vuol dire lasciarsi andare a un progetto che è in noi prima di noi. L´artista Ernst si trova solo al suo tavolo con intorno miriadi di inquietanti presenze. In ogni tavola ogni figura vuole prevalere, l´una esclude l´altra, si lega all´altra ancora, sfugge, invade, suggerisce, ostacola. In quel momento bisogna ascoltare le voci. Perché la narrazione non è che è una finta narrazione, l´unità di tempo è assenza di ogni tempo, l´unità di luogo è l´irrealtà di ogni luogo. Quindi nel corso del lavoro saranno le immagini ad autodeterminarsi, a decidere con cosa coniugarsi, se in piena luce o in un notturno, se in un paesaggio urbano o domestico, se in un´atmosfera più allucinata o più perversa. Visto che, nel proprio profondo come nel sociale, non si è mai liberi contro ma sempre liberi attraverso, l´artista accetta delle proposte, altre ne rifiuta. Beffa il ripetitivo e in fondo monotono progetto dell´inconscio incanalandolo nell´affronto di una storia. Sfrutta ciò che l´inconscio sa o intuisce (in fondo è un ossimoro) come campanello d´allarme sociale. Il riconoscimento è sempre parte essenziale del conflitto creativo.
Sembra un paradosso. Ma il mondo apparentemente "libero" del surreale non può ignorare la ragione se non vuole cessare di esistere come comunicazione sociale. Nelle fantasie che sgorgano dal proprio inconscio l´artista in equilibrio sulla sua corda tesa tiene sempre presente che l´arte è tale solo se può essere riconosciuta come comunicazione significante. Il bypass della ragione, l´appello diretto al profondo, può funzionare per un istante in uno spot o in una inserzione pubblicitaria, ma poi anche lì si deve tornare all´evocazione del prodotto. Ernst sa che sta costruendo e rivelando un grande codice sociale di comunicazione, che sta stabilendo delle leggi in tutti i loro articoli e commi. Vuole un´altra arte. Ha mai sognato di realizzare una scultura con frammenti strappati a Fidia, a Prassitele, a Policleto? Ha mai sognato un monumento ciclopico, una narrazione per gruppi dove Atena si deterge una zampa equina con lo strigile, dove i mostruosi serpenti del Laocoonte hanno la testa di Pericle stretta nell´elmo e in cui un Discobolo stringe un gigantesco seno della Venere di Milo? Ha mai sognato di risalire, controcorrente come il salmone, il fiume fino alla sua sorgente?
Il collage è tutto meno che una rinuncia a se stessi. Ha a che fare più con la volontà di potenza che con l´umiltà dell´amanuense. Ogni accostamento di immagine può essere un´intuizione luminosa, ma dev´essere vagliato e valutato nella sua consistenza artistica, nei sottili equilibri della costruzione dei significati. L´inconscio è pieno di trappole. Esiste una parola d´ordine, e il sogno che la possiede può passare dalla cruna di un messaggio trasmissibile o anche soltanto intuitivo. Senza questo passaggio il sogno significa qualcosa solo per il suo sognatore. Ben poco ci interessiamo infatti ai sogni individuali altrui, ma qui il passaggio è epocale e il sogno diventa esperienza pubblica e comune. La Musa ha permesso all´arte di Max Ernst quello che sarebbe stato impossibile raggiungere con strumenti diversi: l´immaginare con assoluta certezza.

Corriere della Sera 14.10.07
Il leader Cgil e la filosofia: può aiutare chi è senza lavoro
di M. Mar.


«La filosofia può aiutare anche nelle difficoltà che la vita di tutti i giorni ci pone: compreso il lavoro, l'occupazione e i problemi che nascono quando ci si ritrova disoccupati...». Si conclude così la prefazione di Guglielmo Epifani, leader della Cgil a un libro dal titolo che può apparire persino stridente a chi un posto di lavoro ce l'aveva e ora si ritrova senza: Filosofia per disoccupati (edizioni Rizzoli), A scriverlo è Jen-Louis Cianni, ex direttore comunicazione della compagnia aerea francese Air Litoral, ritrovatosi da un giorno all'altro senza lavoro. Classe media, buona cultura, mezz'età, Cianni è un esempio di come liberalizzazioni e globalizzazioni abbiano fatto sentire i propri effetti anche in ambiti e ceti un tempo quasi indenni da problemi occupazionali, si sottolinea nella prefazione.
Epifani sa di maneggiare materiale non facile. E quindi se la «disoccupazione determina un vuoto che la meditazione filosofica aiuta a riempire fino a ritrovare la stima di se stessi», a Epifani non sfugge che «la disoccupazione annulla una parte delle distanze sociali: ma non quelle culturali, quando ci sono». Spesso infatti quello che accade a molti è di non riuscire a trovare il rimedio nella «lettura di Socrate» quanto la «strada della disperazione, dell'estraniamento sociale, che spesso è quella che conduce all'alcol alla droga: un volto del disagio sociale del nostro tempo che esprime il bisogno di un progetto di società che porti a non lasciare indietro nessuno». E la filosofia? «La vecchia domanda che, anche a me, in molti hanno posto quando decisi di studiare filosofia: "a che cosa serve?" — scrive il leader della Cgil —, ha oggi molte più risposte di quelle che fino a poco tempo fa si potevano dare». Fino, appunto, ad aiutare che si ritrova dall'oggi al domani senza un lavoro e «con una famiglia da mantenere». Epifani pone però una condizione: «che si chieda ai filosofi più di cambiare il mondo piuttosto che interpretarlo. Più utilmente devono aiutarci a fornirci di un nostro giudizio, che è il solo a muovere il cambiamento e le riforme di cui c'è bisogno».

Corriere della Sera 14.10.07
Bonanni: ci vogliono fregare Palazzo Chigi subisce la sinistra
di Enrico Marro


ROMA — Non sa se è più soddisfatto o più arrabbiato. Raffaele Bonanni è stato il primo a chiedere al governo di riconvocare sindacati e imprese sul protocollo del welfare, rivolgendosi al sottosegretario alla presidenza, Enrico Letta. E, ora che Letta ha annunciato la convocazione, il segretario della Cisl è ovviamente soddisfatto. Ma, a sorpresa, annuncia che al tavolo non si dovrà discutere solo delle lamentele della Confindustria sui contratti a termine, ma anche del capitolo previdenza. Perché, sostiene Bonanni, il governo, che venerdì ha tradotto in legge il protocollo del 23 luglio, «sta cercando di fregare anche noi».
Perché?
«Perché risultano penalizzati i giovani attraverso i nuovi coefficienti di calcolo delle pensioni per coloro che hanno il sistema contributivo e perché c'è un aumento dei contributi per i lavoratori dipendenti, senza prima aspettare che si siano realizzati i risparmi sugli enti previdenziali».
Scusi, ma l'aggiornamento dei coefficienti di calcolo è previsto nel protocollo.
«Sì, ma lì è previsto anche che ai giovani deve essere garantita una pensione pari ad almeno il 60% della retribuzione. Dove sta questa norma?».
E della stretta sui contratti a termine di cui si lamenta la Confindustria?
«Non voglio entrare nel merito. Ne discuteremo al tavolo. Qui mi preme dire che il protocollo ha subito modifiche sostanziali: è uno schiaffo a tutte le parti sociali».
E adesso?
«Tutte le cose cambiate vanno rimesse a posto, perché l'accordo del 23 luglio è inviolabile, anche nelle virgole».
Ma il governo e il Parlamento non contano nulla?
«Il governo ha concluso con sindacati e imprese l'accordo, che è stato approvato con oltre 4 milioni di voti dai lavoratori e dai pensionati. Questo è quello che conta. Invece mi pare che Prodi e il ministro del Lavoro Damiano abbiano subito la pressione delle sinistre che volevano prendersi la rivincita dopo aver perso nelle fabbriche. Ma non permetteremo a nessuno di scavalcare il sindacato. Quanto al Parlamento, se si mantiene integro l'accordo, c'è la maggioranza per approvarlo».
Col concorso dell'Udc di Pier Ferdinando Casini?
«Se il Parlamento è sovrano, è sovrano tutto e con riferimento a ciascun parlamentare».
Ieri, la prima reazione della Cgil, a differenza della sua, è stata di dire che la Confindustria non aveva motivo di lamentarsi perché il disegno di legge Damiano applicava puntualmente l'accordo.
«Evidentemente non avevano letto il testo».
Oggi ha parlato con il leader della Cgil, Guglielmo Epifani?
«Non l'ho trovato. Ma ero sicuro che, subito dopo aver letto il testo, sarebbe scattata anche nella Cgil la verve sindacale ».
Epifani è stato il primo a capitalizzare la vittoria nel referendum sindacale. Il giorno dopo ha incontrato il leader della Confindustria, Luca di Montezemolo. Si sente tagliato fuori?
«Non scherziamo. Non sovvertiamo la realtà. A nessuno può sfuggire il ruolo discreto e paziente svolto dalla Cisl che ha portato prima all'accordo, il 23 luglio, poi al successo nella consultazione e ora nella sua difesa. Montezemolo lo avevo incontrato la settimana prima al convegno di Capri. Siamo d'accordo sul fatto che ora bisogna aprire una nuova fase e puntare alla riforma della contrattazione ».
Ma Cgil, Cisl e Uil su questo non hanno mai trovato una posizione comune.
«Nel protocollo siamo stati tutti d'accordo nel mettere gli incentivi al salario aziendale. Anche in questo caso c'è stato un paziente lavoro della Cisl per raggiungere questo che era un risultato impensabile fino a poco tempo fa. Ci sono tutte le premesse per aprire una discussione che porti a un aumento dei salari legato alla produttività. Accanto a questo, però, bisogna anche alleggerire il fisco sulle retribuzioni ».
È la vertenza che lancerete con la manifestazione nazionale di novembre?
«Sì. In questa Finanziaria è necessario introdurre una detrazione grande sul lavoro dipendente ».
Grande quanto?
«Grande. E poi, in prospettiva, bisogna anche abbassare le aliquote Irpef, perché siamo stufi di pagare al posto di altri ».

Corriere della Sera 14.10.07
A cinque anni dall'insediamento, il presidente vuole accelerare lo sviluppo senza nulla concedere nel campo dei diritti civili
Cina, l'imperatore rosso lancia la sua lunga marcia
Domani a Pechino il diciassettesimo Congresso del Partito comunista La scommessa di Hu Jintao: consolidare il potere e indicare un successore
di Fabio Cavalera


PECHINO — Il gruppo dirigente cinese non vuole regolare i conti col passato, con la Rivoluzione culturale e con Tienanmen 1989, però sa guardare al futuro e al ruolo che intende ricoprire nella economia globale, nella corsa arrembante e priva di scrupoli alle materie prime e alle fonti energetiche. Questa moderna ambiguità, affascinante e piena di stimoli ma generativa di preoccupazioni giustificate, è la caratteristica di quello che si chiama comunismo cinese ma che ormai è qualcosa di molto diverso. Non è più maoismo e non è capitalismo, non è collettivismo e non è mercato libero. Una equivocità irrisolta di cui è fedele rappresentazione il congresso comunista che si apre domani: il diciassettesimo dalla fondazione nel 1921.
I comunisti cinesi non hanno mai interrotto la loro lunga marcia: il partito aveva una originaria impronta marxista e leninista che però è scomparsa; è diventato un dispotico partito maoista e pure tale ispirazione è svanita; ha sposato le aperture di Deng Xiaoping e le ha gestite; si è trasformato — nella attuale fisionomia — in un partito- Stato con una caratterizzazione pesantemente autoritaria, confuciana, universale, tecnocratica, che intrattiene strette relazioni con i regimi sanguinari della Birmania e del Sudan, che non smette di sognare la riunificazione con Taiwan, che tratta con le democrazie occidentali. Il cammino non è concluso. I congressi, tappe lungo questo percorso, hanno ratificato le svolte, preparato le purghe, innescato le riforme o le controriforme. E hanno puntellato la storia della Cina. Anche il prossimo è destinato a lasciare una traccia chiara e significativa: da qui parte il viaggio verso la Cina che sarà guidata dagli uomini e dalle donne che sono i figli di Deng Xiaoping, non di Mao, i quarantenni e i cinquantenni, meno ideologici più pragmatici e più aperti. Dopo Mao, Deng, Jiang Zemin e Hu Jintao si affacciano i dirigenti della quinta generazione. Saranno tiranni o monarchi illuminati?
A una lettura sommaria, la riunione dei 2.217 delegati consolida e consacra la leadership dell'ingegnere Hu Jintao, erede prediletto dell'apparato, l'uomo che dal 1992 si trova nell'Ufficio politico del Politburo, il sancta santorum della Cina. Un predestinato, aveva appena 39 anni e quel giovane signore fece capolino nella gerontocrazia del Comitato centrale. Ora è un sessantenne dai modi garbati, dalla memoria straordinaria, mai sfiorato da uno scandalo, con fama da innovatore ma è più un conservatore, misterioso e inaccessibile, inarrivabile. Mai un'intervista, mai un pettegolezzo.
Che questo sia il suo congresso non vi è dubbio: si era insediato segretario nel 2002 e dopo cinque anni impone la sua legge. Passa così nell'olimpo dei Grandi. Lo statuto del partito sarà cambiato per portare le dottrine e le linee strategiche di Hu Jintao (l'armoniosità sociale, lo sviluppo scientifico controllato e sostenibile) allo stesso rango delle modernizzazioni di Deng Xioping e delle «tre rappresentanze » di Jiang Zemin (il partito tutela gli interessi delle forze produttive, operai e imprenditori, e degli intellettuali, ma non dei contadini che sono 700 milioni). Hu Jintao era un principe fra i nove principi dell'Ufficio politico, diventa un imperatore che chiede alla Cina di proseguire lungo la rotta della integrazione nel libero mercato, che si propone di aggiustare le disuguaglianze di reddito causate dal disordine economico, che però vuole realizzare questo ambizioso programma sia senza riformare la carta dei diritti civili e politici sia senza discutere i drammi e le violenze che il sistema totalitario ha prodotto. Rappresenta alla perfezione l'ambiguità di un gruppo dirigente che però ha due meriti: ha saputo rendere una parte della Cina più ricca e ha programmato per tempo il ricambio dei vertici del partito, dello Stato, della Amministrazione, ponendo con ciò le premesse di un'altra svolta. Dietro al contenuto di facciata del diciassettesimo congresso — la legittimazione del suo leader enigmatico e accomodante — vi è la costruzione di un passaggio delicato: il testimone fra cinque anni sarà consegnato a un altro numero uno, più giovane, che rappresenterà storie e realtà differenti da quelle dell'oggi. La scelta cadrà fra coloro che in questa assemblea saranno chiamati nel Politburo e nell'Ufficio politico permanente, l'organo più potente della Cina.
I nomi nuovi sono: Xi Jinping, segretario a Shanghai, ingegnere chimico, sposato con una famosa donna di spettacolo; Li Keqiang, laurea in legge e master in economia, segretario nella provincia del Liaoning, pupillo di Hu Jintao; Wang Yang, laurea alla Università di Scienza e Tecnologia, vicedirettore della Commissione per lo Sviluppo e le Riforme; Bo Xilai, laurea in storia, ministro e «mago» del commercio internazionale; infine Li Yuanchao, matematico, con un soggiorno ad Harvard, vice ministro della cultura.
Il diciassettesimo congresso ha una chiave di lettura precisa. Hu Jintao è un professionista della vecchia retorica e della vecchia politica, gli spetta il compito difficile di preparare, al riparo da scossoni, la successione. Chi verrà dopo di lui sarà un leader globale, svezzato nelle complesse relazioni internazionali, con una solida esperienza a livello locale, forse pronto ad affrontare il capitolo conclusivo della evoluzione comunista: la riforma del sistema verso un modello di democrazia. Hu Jintao sarà l'ultimo imperatore di un partito che monopolizza il potere senza alcuna base legale. Nella immensa sala della Assemblea del popolo sotto le insegne della falce e martello covano la sfida e la svolta per la Cina del ventunesimo secolo. Un impero intollerante che può diventare «monarchia» costituzionale.

Corriere della Sera 14.10.07
Psiche Un ampio e rigoroso studio conferma che i micronutrienti hanno effetti su depressione e ansia
Supplementi di buon umore
Come vitamine e sali minerali influenzano la mente
di Angelo de' Micheli


Ricerca Valutati quasi 100 anni di studi sugli effetti che vitamine e sali minerali hanno sulla depressione e sull'ansia
L'umore è anche quello che mangi
Confermato: alcuni micronutrienti influenzano la psiche

La scarsità di alcuni microelementi impedisce ai geni di liberare neurotrasmettitori che regolano il tono dell'umore

Vitamine, ferro, potassio, calcio, magnesio e zinco possono influenzare il tono dell'umore? Insomma, potrebbe bastare cambiare dieta per veder sparire ansia e depressione? Un gruppo di studiosi canadesi, coordinati dal dottor Bonnie J. Kaplan, dell'Università di Calgary nello stato dell'Alberta, ha deciso di fare il punto su un settore piuttosto controverso della medicina, per vedere se e come la moderna ricerca è riuscita a suffragare credenze, spesso antiche, e talvolta legate più al folclore che alla scienza. I ricercatori non si sono risparmiati e hanno ripreso tutto il materiale scientifico pubblicato sull'argomento a partire dagli anni Venti fino ad oggi.
Fondamentalmente, gli studi analizzati erano di due tipi: o partivano dall'osservazione che un basso livello di un certo micronutriente era più frequente tra chi soffriva di una determinata patologia psichiatrica, oppure andavano a verificare se all'aumento delle dosi ingerite di una certa sostanza corrispondeva un miglioramento dei sintomi. Lo studio, pubblicato sull'ultimo numero dello Psychological Bullettin, per dare ordine alla materia, ha preso avvio da quattro modelli differenti, ma complementari, di spiegazione.
Il primo, presuppone che i disturbi dell'umore possano derivare da errori congeniti del metabolismo: se si assimila male una particolare sostanza, pur introducendola in quantità adeguate, la sua carenza può favorire un certo disturbo. Il secondo: che i disturbi dell'umore derivino direttamente dalla carenza di vitamine, o sali minerali. La terza ipotesi fa leva sull'idea che la scarsità di alcuni microelementi impedisca ai geni di esprimersi in modo funzionale e quindi di liberare quei neurotrasmettitori che regolano il tono dell'umore. L'ultima ipotesi vuole che la prolungata assenza di microelementi possa causare una specifica patologia il cui effetto è ridurre il tono dell'umore.
Kaplan, nella sua ricerca, ricorda come già Ippocrate dicesse: «Fai che il cibo sia la tua medicina e la medicina sia il tuo cibo» e, dopo aver preso in considerazione quasi un secolo di studi sugli effetti di alcune vitamine e sali minerali — in passato assimilabili solo con l'alimentazione, oggi disponibili anche sotto forma di integratori — conclude che effettivamente molti micronutrienti agiscono sull'umore ( vedi tabella qui sotto). Una conclusione incontrovertibile? E che ci porterà a modificare il modo di alimentarci, o a ricorrere agli integratori se soffriamo di ansia o depressione?
«In buona sostanza — chiarisce Stefano Govoni, direttore del Dipartimento di farmacologia sperimentale e applicata dell'Università di Pavia — la ricerca ha rivelato che l'intervento nutrizionale è fortemente associato con il controllo di geni importanti in diverse funzioni biologiche. Analizzando i diversi micronutrienti, Kaplan giunge poi a diverse conclusioni. Ad esempio, sottolinea come bassi livelli di acido folico siano associati a quadri depressivi; discorso equivalente può essere fatto per la vitamina B12 e per la vitamina E, ma su quest'ultima i pareri non sono concordi. Ma si sa anche che la carenza di calcio (nello studio di Kaplan analizzata relativamente ai disturbi dell'umore dovuti alla sindrome premestruale) sembra provocare ansia e depressione e riduzione delle capacità cognitive: percezione, memoria, apprendimento. Bassi livelli di ferro sembrerebbero poi avere un ruolo di primo piano in gravi disturbi di personalità. Identica conclusione per il magnesio, che Kaplan ha studiato in relazione a comportamenti maniacali e stati di agitazione. Il magnesio, inoltre, sembra avere un ruolo di tutto rispetto nei disturbi depressivi bipolari, quella situazione in cui il paziente vive lunghi periodi di euforia alternata a periodi di forte depressione».
«Non dimentichiamo però — tiene a puntualizzare Govoni — che, se il settore degli integratori si colloca all'interno della giusta attenzione della attuale medicina per la prevenzione, è stato in parte inquinato da uno sviluppo commerciale tumultuoso, che ha posto in secondo piano lo sviluppo di studi per confermarne il razionale per l'impiego e valutarne, in modo adeguato, l'azione sull'organismo. Ora questo atteggiamento è cambiato e le ricerche che esaminano, dal punto di vista molecolare, i meccanismi di vari principi di origine naturale e di molti alimenti si stanno moltiplicando. E lo studio di Kaplan sui rapporti tra micronutrienti e malattie psichiatriche è un buon esempio di questa razionalizzazione del settore ».
«Quello degli integratori, e dei prodotti naturali in genere, è un settore cui il pubblico guarda con grande attenzione, perché lo percepisce come più rispettoso dell'organismo — conclude Govoni — e ha effettivamente notevoli valenze nel campo della salute, ma ci sono problemi ancora non risolti di regolamentazione e di documentazione scientifica dei prodotti proposti».

Corriere della Sera 14.10.07
Cronobiologia. Alterando il ritmo sonno-veglia i sintomi depressivi migliorano
Notti in bianco e si torna sereni
di Franca Porciani


Una passeggiata in bicicletta che si prolunga per una notte intera e la depressione scompare. Lo scoprì con stupore un gruppo di medici tedeschi nei lontani anni Sessanta: accadde inaspettatamente ad un paziente.
Che cosa può avere di curativo, in una malattia psichiatrica così importante, una notte in bianco? La capacità di spostare in avanti il ritmo sonno-veglia, slittamento che porta con sé una sorta di resincronizzazione di altri ritmi biologici, principalmente quelli degli ormoni ipofisari, tiroidei e surrenalici, fra i quali il più studiato è il cortisolo (nessuna sostanza viene prodotta nel nostro organismo in modo caotico, ma tutto accade secondo una ciclicità che può essere circadiana, ma anche mensile; è il caso, ad esempio, degli ormoni sessuali femminili).
Evidentemente questi ritmi sono alterati nei depressi, il loro «orologio biologico » è difettoso, hanno ipotizzato i primi scienziati che si accorsero del fenomeno. Fra questi Francesco Benedetti, psichiatra dell'Istituto San Raffaele di Milano che è arrivato a mettere in pratica e con un certo successo osservazioni frutto di un lavoro di dieci anni.
I suoi risultati sono oggi riportati con grande risalto da uno degli ultimi numeri della rivista americana Science che a questa nuova corrente di pensiero, diciamo cronobiologica, o meglio cronoterapica, della depressione, dedica un lungo articolo.
Spiega Benedetti: «In effetti abbiamo riscontrato che la deprivazione di sonno attuata con un certa sistematicità (una notte in bianco alternata ad una di sonno non stop per una settimana) ottiene un beneficio sul tono dell'umore dei malati. Ma questa strategia per avere un effetto duraturo deve essere abbinata alla terapia della luce (si attua con particolari lampade, n.d.r), erogata al mattino e in modo da garantire un risveglio anticipato di un paio d'ore rispetto a quello abituale. I risultati sono buoni: in metà dei casi il beneficio è evidente e regge nel tempo».
Ma che cosa succede nell'organismo di questi pazienti, lo sappiamo? «Direi di no, lo intuiamo piuttosto: la notte in bianco, aiutata dalla terapia della luce, dà una sorta di "shock" ai ritmi circadiani capace di rimettere in sincronia le secrezioni ormonali che tendono ad appiattirsi nei malati di depressione — risponde Franca Carandente, ordinario di medicina interna dell'università di Milano e esperta «storica» di cronobiologia —. Ma per capire davvero come stanno le cose, bisogna fare ricerca e i fondi scarseggiano ». E non solo in Italia. Non c'è da contare — sottolinea la rivista Science — sui finanziamenti dell'industria ancora in cerca dell'elisir del buon umore (il 40 per cento dei depressi non trova giovamento nei farmaci disponibili oggi), ma fin troppo disposta a puntare frettolosamente su un'ipotetica pillola «cronoterapica».
Un esempio? La ditta francese Servier ha brevettato un agonista della melatonina, la agomelatina, e sta già avviando studi su malati di depressione sia in Europa sia negli Stati Uniti.
Scettica la Carandente: «La cura con la melatonina non è una grande idea: come resincronizzatore dei ritmi biologici dell'organismo non è potente mentre ha una certa efficacia sul ritmo sonno-veglia disturbato dal jet-lag».
Ma sul fronte pubblico qualcosa si muove: la Fondazione nazionale delle scienze elvetica ha appena finanziato uno studio sulla terapia della luce rivolta alle donne colpite dall'umor nero in gravidanza.
La deprivazione di sonno, aiutata dalla terapia della luce, dà uno «shock» all'orologio biologico e rimette in sincronia nei depressi le secrezioni ormonali alterate