martedì 16 ottobre 2007

Corriere della Sera 16.10.07
L'appuntamento della sinistra radicale
E Fausto ora spinge sulla «Cosa Rossa»
di L.Sal.


ROMA — «Mi auguro un'alta partecipazione anche perché può essere il punto di partenza per la riorganizzazione della sinistra dopo la nascita del Partito democratico». Nel suo studio alla Camera, Fausto Bertinotti riceve i promotori della manifestazione del 20 ottobre, organizzata dalle varie anime della sinistra radicale. E davanti a Piero Sansonetti, direttore di Liberazione, e Gabriele Polo, direttore del manifesto, lascia capire che il corteo di sabato può essere una prova generale per la cosiddetta Cosa rossa, la nuova aggregazione che dovrebbe unire le forze a sinistra del Pd. Ma il presidente fa un cenno anche ai venti dell'antipolitica: «Ci sono state le primarie del Partito democratico — spiega —, c'è stata la manifestazione di Alleanza nazionale, adesso il vostro corteo. È la dimostrazione di una ripresa della voglia di partecipazione politica. Una cosa importante per tutti perché la politica istituzionale da sola non basta e proprio della partecipazione diretta ha bisogno».

Corriere della Sera 16.10.07
Welfare, Prodi tenta di ricucire. Stop di Bertinotti
Il presidente della Camera: in piazza il 20 nell'interesse del Paese.


ROMA — Entro 48 ore il governo consegnerà alle parti sociali un nuovo testo che corrisponda — «in modo integrale » — al protocollo sul welfare firmato il 23 luglio e approvato dal referendum dei lavoratori. Questo l'impegno preso dal premier Romano Prodi, come segno di pace col sindacato, al termine di una colazione a Palazzo Chigi con i tre leader Guglielmo Epifani (Cgil), Raffaele Bonanni (Cisl) e Luigi Angeletti (Uil). Il Professore, in un rapido intervento su
Radio 1, ha sfoggiato ottimismo: «Vi posso assicurare che i punti di chiarimento sono rimasti pochi e derivano dalla traduzione meccanica di un accordo in legge, avendo fatto 999 ora facciamo mille».
Ma la giornata è proseguita con nuove nubi all'orizzonte. Il direttore generale del Fondo monetario internazionale Rodrigo De Rato è intervenuto a gamba tesa da Washington definendo tutto il protocollo un «passo indietro» rispetto alle riforme precedenti e avanzando dubbi sulla tenuta dei conti.
Da «sinistra» il presidente della Camera Fausto Bertinotti ha spronato i lavoratori a partecipare alla manifestazione di sabato prossimo, indetta con parole d'ordine critiche nei confronti della politica economica dell'esecutivo. «E' interesse del Paese — ha affermato dopo aver ricevuto i promotori della protesta — che il 20 ottobre ci sia una partecipazione rilevante». In questa morsa di interessi contrapposti, mentre sulla vicenda è intervenuto pure il neo leader del Pd Walter Veltroni — «vorrei che le correzioni fossero concordate con le forze che lo hanno sottoscritto» — il governo ha cercato di tenere la barra al centro. «Nessuna marcia indietro, il governo non ha cambiato opinione», ha ripetuto più volte il ministro del Lavoro Cesare Damiano nel tentativo di parare i colpi del sindacato, che lo ritengono responsabile di non aver curato le incursioni del Tesoro nella stesura del testo incriminato, e le osservazioni del Fmi sulla sostenibilità economica della riforma previdenziale per superare lo scalone.
Entro domani sera dunque i tecnici di Palazzo Chigi, che già ieri si sono messi a lavorare con quelli del sindacato, dovranno elaborare una versione del protocollo che non presti il fianco a nuove interpretazioni ambigue. Il termine di 48 ore è stato chiesto dal sindacato che giovedì mattina riunirà i direttivi per decidere se manifestare a metà novembre per ottenere tagli fiscali per i salari dei lavoratori dipendenti. La tregua col sindacato Prodi l'ha ottenuta ma i toni restano tesi. «Le modifiche non rappresentano solo una assenza di coerenza verso di noi — ha spiegato con durezza Epifani — ma anche rispetto ai lavoratori che hanno appoggiato il protocollo con il voto».
La Confindustria si è incontrata col governo in mattinata ottenendo la promessa di stralciare i lavoratori stagionali dai nuovi limiti dei contratti a termine. Il pacchetto di richieste dei sindacati è più corposo e molto più costoso. Si tratta di condizionare l'aumento dei contributi di un altro 0,09% (però a partire dal 2011) solo dopo aver verificato i risparmi derivanti dalla riorganizzazione di Inps, Inail e Inpdap; di ottenere la «garanzia » che le future pensioni dei giovani non scendano al di sotto del 60% dello stipendio; di non rinviare i decreti sul numero delle finestre per ottenere la pensione. In queste condizioni bisogna vedere come il collegato riuscirà a passare l'iter parlamentare.

Corriere della Sera 16.10.07
Giordano: «Il Pd dimentica i lavoratori. Vigileremo»
di Sergio Rizzo


ROMA — «Spropositata». È la parola che Franco Giordano usa per definire la reazione della Confindustria ai ritocchi del protocollo Damiano. Spropositata perché, secondo il segretario di Rifondazione, «rischiamo di essere un Paese dove si può restare precari a vita». Spropositata perché, dice ancora Giordano, «prima d'ora la Confindustria non ha mai avuto tanti soldi da un governo». E spropositata, aggiunge, «perché anche la stessa Commissione europea è orientata ad ammettere per i contratti a termine una durata massima di 36 mesi».
La Confindustria sostiene che fallirebbero tutte le imprese che vivono col lavoro stagionale. Per esempio quelle del turismo.
«Bene. Allora ripristiniamo le causali».
Traduca.
«Per me sono praticabili due ipotesi. O affermiamo che i contratti a termine possono durare al massimo 36 mesi, come dice l'Europa, oppure, in alternativa, ripristiniamo le causali: cioè affermiamo che i contratti a term ine si possono usare solo, ed e-sclu-si-va-men-te, per i lavori stagionali».
Ma senza limiti temporali. Ho capito bene?
«Fermo restando, naturalmente, un incentivo alla stabilità del lavoro anche in questo caso, diciamo che per lavori dichiaratamente accertati come stagionali il contratto a termine è accettabile. Ma voglio proprio vedere se la Confindustria accoglie la sfida».
Magari la prendono in parola.
«Sono sicuro che il loro obiettivo non sono soltanto gli stagionali».
E il suo, di obiettivo?
«Condivido le richieste del sindacato. Mentre la resistenza della Confindustria la dice lunga. Io interpreto le sofferenze di chi ha votato no al referendum, ma anche quelle di chi ha votato sì».
Quali sarebbero?
«I salari bassi. Come ha denunciato anche il Corriere, le famiglie italiane sono sempre più indebitate. Visto che i sindacati chiedono interventi di sostegno al reddito, mi chiedo per quale ragione non si possa determinare una tassazione delle rendite finanziarie per recuperare il fiscal drag» .
Forse perché la parte più moderata della coalizione è contraria?
«Facciamo così, e sono sicuro che questa proposta possa essere accettata anche dalla Confindustria: detassiamo pure gli aumenti contrattuali».
Ma se siete contrari anche a detassare gli straordinari... Non è così?
«Perché quella misura disincentiva le nuove assunzioni. E vorrei capire dove sono quelli che dicono di voler tutelare i giovani... Ciò che va detassato non è lo straordinario, ma l'aumento contrattuale del primo livello, quello del contratto nazionale di lavoro».
E di quanto taglierebbe le imposte?
«Si può studiare. Ma simbolicamente sarebbe giusto ridurre le imposte sugli aumenti contrattuali allo stesso livello del 20% che dovrebbe essere applicato alle rendite».
C'è chi sostiene che con la nascita del Partito democratico nella maggioranza si approfondiranno le contraddizioni: anche e soprattutto sul welfare. Che ne dice?
«Penso anch'io che possa nascere un problema, anche se non contingente».
Di che natura, allora?
«Il Partito democratico non tende a rappresentare il mondo del lavoro. È stato definito come equidistante fra imprese e lavoro: ma il suo riferimento non è il lavoratore, bensì un indistinto cittadino consumatore. Il fatto che sia stata cancellata la parola sinistra vuol dire che non si sentono più rappresentanti del lavoro».
Forse la rappresentanza del lavoro spetta solo alla sinistra?
«Sono loro che parlano di equidistanza. Ma sa cosa mi ha colpito? Che Raffaele Bonanni, della Cisl, rivendichi la rappresentanza in generale del mondo del lavoro».
Non è normale, per un sindacalista?
«Non parlo di rappresentanza sindacale. È come se si volesse negare l'esistenza di un soggetto, la sinistra appunto, che rappresenti politicamente il mondo del lavoro. Vorrei evitare questa spartizione dei compiti fra il Partito democratico e il sindacato».
Teme di essere tagliato fuori?
«Una cosa del genere non potrà mai accadere. Ma proprio questo è il punto sul quale inevitabilmente si aprirà una discussione...».

l’Unità 16.10.07
Giordano rilancia la Cosa Rossa: a dicembre il tesseramento
Mussi propone un’assemblea costituente entro l’anno
di Simone Collini


«LA SINISTRA è a rischio. Non è più tempo di attese». Franco Giordano convoca la Direzione del partito e la relazione con cui apre i lavori è tutta sotto il segno della
necessità di accelerare il processo unitario della cosiddetta “Cosa rossa”. Tanto che il segretario del Prc propone di fronte ai suoi di lanciare entro la fine dell’anno un vero e proprio tesseramento. Prospettiva che appena trapela fuori dalla sala in cui sono riuniti i vertici di Rifondazione, provoca una dura reazione delle minoranze, che parlano di «forzatura» e di «superamento del Prc già messo in conto». Ma non è questo a preoccupare Giordano, che del resto non fa niente per attenuare i malumori, anzi: «Chi ha delle resistenze venga alla luce, perché rischia di mettere in difficoltà lo stesso progetto di mantenere in campo la sinistra». È questo a preoccupare il leader di Rifondazione comunista: «Qui si rischia il declino».
Per Giordano le forze della sinistra rischiano di rimanere «schiacciate» dalle «importanti novità politiche» emerse in questi giorni, cioè il referendum sul protocollo sul welfare che le primarie per il Partito democratico. «Non accetto questa ripartizione di ruoli: la dialettica politica al Pd, la rappresentanza del lavoro al sindacato. Noi dobbiamo avere tutti e due i piedi nel lavoro e portarne le istanze sul piano politico». Da qui la necessità di una «accelerazione» che consenta di «non rimanere indietro». E la proposta di un tesseramento in tempi rapidi che coinvolga forze politiche ma anche movimenti e mondo dell’associazionismo.
Ma la prima prova per la sinistra unitaria sarà la manifestazione di sabato. Ieri la benedizione è arrivata da Fausto Bertinotti, che dopo aver incontrato i promotori dell’iniziativa ha definito «interesse del paese che il 20 ottobre ci sia una partecipazione rilevante». Il presidente della Camera ha anche sottolineato che al di là delle vicende legate al Pd, «la partecipazione democratica interessa tutto il paese»: «Anche a sinistra va colta questa esigenza di democrazia e di partecipazione. C’è una domanda di unità che ha un traino straordinario per la politica e sarebbe colpevolissimo se non venisse colta a sinistra».
La manifestazione del 20 però la “Cosa rossa”, dato che Prc e Pdci scenderanno in piazza mentre Sinistra democratica e Verdi hanno deciso di disertare il corteo. Posizioni note da tempo, ma Giordano punta tutto su questo appuntamento, caricandolo quasi di un carattere costituente: «Dobbiamo rispondere alle primarie del Pd con un altro potente evento democratico. La sfida per l’innovazione per il Pd è aperta e avrà la sua prima verifica il 20 ottobre, quando scenderà in piazza il popolo della sinistra». Quel giorno, dice il leader di Rifondazione di fronte ai suoi, «assume la caratteristica della costruzione della soggettività unitaria».
L’impostazione del ragionamento di Giordano viene però guardato con diffidenza da Verdi e Pdci, e non convince affatto Sinistra democratica, né per la proposta del tesseramento né per il voler caricare la manifestazione di significati che non può avere. «È essenziale che si formi accanto al Pd una sinistra unitaria, pesante, perché questo significa mantenere aperta una prospettiva di centrosinistra», dice Fabio Mussi chiedendo anche lui un’accelerazione, «altrimenti il rischio di arrivare ad una stagione politica molto confusa diventa realtà». Però per il leader di Sd bisogna «procedere per tappe», lavorando al processo unitario, presentandosi alle amministrative del 2008 con una lista comune e puntando non a una semplice federazione ma a «un partito vero e proprio». Obiettivi che si possono raggiungere se si procede senza strappi e creando le condizioni per la riuscita. Da qui la proposta di Mussi di convocare innanzitutto un’assemblea costituente entro la fine dell’anno. Se Prodi ha auspicato un processo unitario anche a sinistra del Pd, Mussi dice che questo è «essenziale per noi», ma anche per lo stesso Pd «se vuol mantenersi ancorato ad una prospettiva di centrosinistra e anche se vuole coltivare la chance di battere, quando sarà, il centrodestra»: «È del tutto evidente che per il Pd, qualunque sarà il livello del suo successo, avrà bisogno di coalizzarsi con noi, che dobbiamo essere in grado di offrire l’ipotesi di sinistra al centrosinistra».

l’Unità 16.10.07
Pc cinese, Hu Jintao corregge ma non cambia
di Gabriel Bertinetto


Il segretario del partito al congresso ammette errori nella corsa alla crescita economica e invoca lo sviluppo sostenibile. Al centro resta il partito unico, silenzio su democrazia e riforme politiche

LA CORREZIONE DI ROTTA di cui molti dirigenti cinesi parlano da un paio d’anni, per limitare gli scompensi di uno sviluppo economico troppo impetuoso, viene ufficializzata al 17° congresso del partito comunista, iniziato ieri a Pechino. Nel discorso di apertura il segretario del partito e capo di Stato Hu Jintao ammette che «la nostra crescita economica viene realizzata con eccessivi costi in termini di risorse e di ambiente». Non solo, «lo sviluppo -aggiunge Hu- rimane disuguale fra zone urbane e rurali, fra diverse regioni e fra i vari settori economici e sociali».
Come concretamente si possa rimediare ai nocivi effetti collaterali di un aumento produttivo, che da anni si replica a ritmi che sfiorano il dieci per cento, non viene dettagliatamente indicato nella relazione introduttiva. Vengono citate però, e inserite nei documenti ufficiali, due formule usate sovente negli ultimi tempi da leader politici e studiosi, quelle di «società armoniosa» e di «supervisione scientifica dello sviluppo».
La prima allude alla ricerca di strategie per ricucire un tessuto sociale lacerato dagli alti costi dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria, dalla scarsa protezione sindacale, dalla vulnerabilità all’arbitrio del potere burocratico. La seconda pone l’assoluta urgenza di una maggiore razionalità nello sfruttamento delle ricchezze naturali, nell’utilizzo delle fonti d’energia e nella costruzione di infrastrutture industriali. Non a caso in questi giorni sono riaffiorati, e non più liquidati come irrilevanti, i dubbi sui danni che all’ambiente ed all’economia potrebbe causare la grande diga delle tre gole che ha deviato il corso del Fiume Azzurro.
Il potenziamento dell’economia nazionale è indicato come obiettivo prioritario, ma Hu afferma esplicitamente che «il nostro obiettivo di quadruplicare nel 2020 il prodotto interno lordo per abitante in rapporto al 2000» sarà raggiunto proprio ad una serie di strumenti fra i quali «la riduzione del consumo dell’energia e delle risorse, e la protezione dell’ambiente».
Se i cambiamenti nella politica economica sembrano una scelta convinta e consapevole, una nuvola di indeterminatezza continua ad avvolgere le auspicate riforme politiche. Si insiste sulla «partecipazione dei cittadini», ma si sottolinea che essa dovrà avvenire «in maniera ordinata», il ché sembra sottintendere che il principio del monopartitismo rimane intangibile.
Le espressioni usate da Hu nel parlare di riforme democratiche sono sostanzialmente le stesse che risuonarono nella grande sala del Palazzo del popolo cinque anni fa, al precedente Congresso. Solo che allora a pronunciarle era Jiang Zemin, e la sua sostituzione con Hu era stata accolta anche con la speranza di un allentamento del rigido controllo di partito sulla vita politica del Paese.
Già nel 2002 Jiang parlava di «allargare la partecipazione ordinata dei cittadini alla politica», di «garantire al popolo l’esercizio dei diritti democratici previsti dalla elegge elettorale», di «migliorare l’autogestione dei villaggi». Hu riprende più o meno le stesse espressioni. Così come sottolinea l’importanza della lotta alla corruzione, un male che minaccia «la sopravvivenza del partito». Rispetto a cinque anni fa, Hu Jintao è solo un po’ più preciso nel suggerire l’opportunità di riunioni pubbliche per far conoscere nuove leggi e proposte, nel prospettare un piano per la riduzione degli apparati burocratici, nell’ipotizzare misure per rendere trasparente l’attività dei maggiori leader ed esporli alla critica degli altri responsabili.
Il congresso si concluderà domenica prossima con l’elezione degli organismi dirigenti. Vi partecipano 2213 delegati in rappresentanza di 73 milioni di iscritti.

Repubblica 16.10.07
La curiosità. Quella molla che ci spinge
di Stefano Bartezzaghi


Ma diventa insidiosa e difficile da tenere a bada quando è eccessiva o morbosa
Né vizio, né virtù, è più un istinto che una qualità. Che ci porta a progredire
le idee Perché andiamo alla ricerca di ciò che alla prima occhiata non si vede
Dagli appuntamenti con la polizia scientifica per ricostruire la scena del crimine agli spettacoli teatrali e musicali:oltre 500 eventi tra mostre e laboratori
Si apre a Genova dal 25 ottobre al 6 novembre la quinta edizione del Festival della Scienza. Che quest´anno ruota intorno al tema della curiosità

In un passaggio della Cognizione del dolore di terribile humour noir, Carlo Emilio Gadda racconta di uno studente di ingegneria che avendo imparato la legge fisica per cui i gatti cadono sempre sulle zampe la sperimenta ripetutamente sul suo gatto. La povera bestia in effetti resta indenne dopo ogni caduta; purtroppo morirà ben presto dal dispiacere, per l´offesa subìta: «perché ogni oltraggio è morte», conclude lapidario l´ingegnere laureato Gadda.
Così quando gli inglesi dicono che «la curiosità ha ucciso il gatto» intenderanno proprio la curiosità del gatto? O forse la curiosità per il gatto, che si spinge fino alla morbosità del maltrattatore o alla cinica determinazione del vivisezionista? "Curiosità" oscilla sempre fra un senso attivo e un senso passivo.
Né vizio né virtù, in sé: la curiosità è prima di tutto un propellente. Più un istinto che una qualità: mentre l´istinto di conservazione ci tiene al riparo dai pericoli, l´istinto di curiosità ci spinge a progredire, a non accontentarsi di ciò che si vede stando fermi ma a muovere lo sguardo, andare alla ricerca di ciò che alla prima occhiata non si vede. La curiosità è insomma il carrello su cui è montata la nostra cinepresa mentale. «Se non si va non si vede!» era il bel tormentone di Paolo Hendel, in un remoto film di butteri di Daniele Luchetti.
Proprio come succede alla sua più mitica sorella, la creatività, la curiosità sembra stare simpatica a tutti, anche se poi all´atto pratico il rifugio nell´abitudine e l´istinto di conservazione è più forte: perché i risultati delle elezioni sono sempre più a sinistra dei sondaggi?
La curiosità viene deprecata solo quando è "eccessiva", perché in realtà rivolta contro di noi. Lì se ne capisce il minaccioso potenziale: basta uno sfacciato che chiede «scusa, esattamente quanto guadagni?» per bene intendere quanto la curiosità possa essere difficile da tenere a bada, e insidiosa. E a pensarci alcune delle recenti grosse questioni nazionali - intercettazioni, gossip, declino della tv, ispezioni - sono legati alla curiosità legittima e a quella illegittima, alla curiosità passiva del pubblico suscitata da quella attiva delle agenzie di informazione. Sullo sfondo, lo spettro orwelliano del Grande Fratello, che corrisponde alla curiosità assolutamente soddisfatta, un potere che si basa sulla capacità di acquisire tutte le informazioni, come un buco nero che non lascia sfuggire neppure un raggio di luce alla sua capacità gravitazionale.
Toccherà dunque distinguere una curiosità buona da una cattiva?
I bambini chiedono, chiedono, chiedono: perché il cielo è blu? a cosa servono le sopracciglia? perché quando ero ancora in cielo non ho incontrato il nonno che ci era già tornato? Poi a un certo punto smettono di chiedere, e anzi rovesciano il loro atteggiamento: desiderano non avere spiegazioni, o forse desiderano non paragonare le spiegazioni che si danno da soli con quelle che possono venire da un genitore, un docente, un dottore, un prete, un adulto in genere. Non che la curiosità sia cessata ma è diventata un motivo di imbarazzo per il soggetto, che desidera non essere visto nell´atto di vedere non sapendo bene se essere curiosi sia lecito o no, deprecabile o no. Meglio non mostrarsi, non sembrare.
Il problema, alla fine, è molto semplice: la curiosità non sa dove andrà a parare. Curiosità è Colombo che vuole "prendere l´Oriente per l´Occidente", e finisce per prendere l´America per Oriente. È il poliziotto che chiede i documenti a una persona a caso e scopre un brigatista, o l´ingenuo frequentatore di chat che accetta un appuntamento al buio. Come si distingueranno la curiosità morbosa e quella "sterile"dalla curiosità dello scienziato? Il valore conoscitivo di ciò che sta alla fine del processo non lo si può predeterminare. Quel che si sa fin da subito è, appunto, che se non si va non si vede.
L´ultima pagina della Dialettica dell´illuminismo di Horkheimer e Adorno è dedicata alla "genesi della stupidità". Si parla di una chiocciola, che sta chiusa nel suo guscio e fa spuntare le sue antenne. Se qualcosa dell´ambiente risulta ostile, le ritira; rifarà un tentativo più tardi, ma con il perdurare dell´ostilità passerà sempre più tempo fra un tentativo e l´altro, finché non uscirà più. La stupidità è questo guscio in cui si ritrae la curiosità frustrata, concludevano i due filosofi. Possiamo ora ipotizzare una piccola aggiunta: cosa stava fuori dal guscio della chiocciola? Probabilmente ci stava un etologo in vena di osservazione, che voleva determinare le leggi del comportamento della chiocciola. Oltre all´illuminismo, anche la curiosità ha dunque una sua dialettica: conosce qualcosa solo invadendolo e modificandolo, non sa mai cosa troverà, ma se decide di cessare non può mai impedirne l´altrui esercizio. Come sono curiose, le chiocciole che non sono curiose...

Corriere della Sera 16.10.07
Togliatti e la conquista delle organizzazioni fasciste
risponde Sergio Romano


Dopo la lettura del suo editoriale sulla partecipazione di Beppe Grillo alla Festa dell'Unità ho fatto qualche ricerca sull'affermazione secondo cui Palmiro Togliatti avrebbe indirizzato, dopo la guerra d'Etiopia, un messaggio ai «fratelli in camicia nera». Riconosco, comunque con stupore, che nel gruppo dirigente del Pci vi fu una discussione sull'idea di aprire alle masse fasciste (più che al regime) in vista di una improbabile riconciliazione in chiave anticapitalistica.
Naturalmente la cosa fu presto accantonata: grandissima parte del partito comunista italiano era profondamente antifascista e scoppiava in quei mesi la guerra di Spagna. Infine, l'apporto o l'appoggio di Togliatti nei confronti di questa idea è abbastanza controverso (almeno secondo Paolo Spriano) e dopo pochi mesi, da Mosca, il compagno Ercoli si oppose duramente all'idea che alcuni dirigenti ancora si ostinavano a portare avanti.
David Marceddu
david.marceddu@ tiscali.it


Caro Marceddu, per comprendere la strategia di Togliatti nel 1936, occorre cominciare dalle lezioni sul fascismo che il leader comunista fece ai quadri italiani della Scuola Lenin a Mosca fra il gennaio e l'aprile dell'anno precedente. In quelle lezioni Togliatti continuò a sostenere, come in passato, che il fascismo era la forma politica preferita dalla borghesia per meglio esercitare il suo potere. Ma dimostrò al tempo stesso di essere particolarmente interessato alle organizzazioni che il regime aveva creato per inquadrare le masse e inserirle nel suo sistema politico. Come osserva Aldo Agosti nella sua biografia («Togliatti. Un uomo di frontiera») apparsa presso la Utet nel 2003, la sua attenzione si fermò soprattutto sui sindacati e sul dopolavoro. Notò che ai sindacati erano state riconosciute alcune prerogative, che le cariche erano elettive, che il partito fascista cercava di dare in tal modo una legittimità democratica al suo progetto per la creazione di una economia corporativa. E osservò che l'Opera Nazionale Dopolavoro era il primo tentativo di organizzare dall'alto il tempo libero dei lavoratori. Il senso delle lezioni era evidente. Esistevano organizzazioni in cui i militanti del Pc avrebbero potuto inserirsi per sfruttarne le finalità e gli statuti. «E' un errore, disse Togliatti, pensare che il totalitarismo chiuda alle masse la via della lotta per delle conquiste democratiche (…). Il totalitarismo non chiude al partito la via della lotta ma apre vie nuove». La guerra d'Etiopia ebbe l'effetto di rafforzare questa strategia. Agli inizi del conflitto molti esuli comunisti in Europa occidentale dettero per scontato che l'impresa militare sarebbe fallita e che il fascismo sarebbe stato scosso da una grave crisi. Ma la guerra fu vinta e il regime, dopo la conquista di Addis Abeba e la proclamazione dell'impero, toccò lo zenith della sua popolarità. Occorreva quindi cambiare strategia. Come ricorda Agosti, nel maggio 1936 il gruppo dirigente del Pci a Parigi decise di iniziare «una larga azione di fraternizzazione » verso le masse del regime. Seguì in agosto un appello pubblicato da Stato Operaio e intitolato «Per la salvezza dell'Italia riconciliazione del popolo italiano!», dove la parola «riconciliazione » preannunciava il messaggio «ai fratelli in camicia nera». Il manifesto era firmato dai maggiori esponenti del Pc in esilio e si spingeva sino a sottoscrivere il programma fortemente sociale di Piazza San Sepolcro con cui i Fasci erano apparsi nella politica italiana il 23 marzo 1919. Il documento suscitò molte perplessità e Togliatti ne prese prudentemente le distanze. Ma in realtà, come osserva Agosti, «l'orientamento che il manifesto esprime, magari in forma ingenua, è proprio quello della saldatura tra opposizione antifascista e opposizione fascista sul quale Togliatti ha tanto insistito nei mesi precedenti». Che quelle fossero le idee di Togliatti fu confermato del resto dalle sue dichiarazioni a un gruppo di comunisti italiani nel gennaio del 1937, citate da Renzo De Felice in «Mussolini il duce. Lo Stato totalitario 1936-1940». Disse che il problema dell'ora era quello di «unire tutto ciò che il fascismo ha diviso; unire la classe operaia, economicamente e politicamente, unire gli operai ai contadini, unire il proletariato alle classi medie, unire il nord al sud, unire le vecchie alle nuove generazioni». In queste parole vi sono le basi di una strategia che fu definita «entrismo». Anziché combattere le organizzazioni del regime il Pc avrebbe incoraggiato i giovani a farne parte e avrebbe cercato di conquistarle dall'interno. E' una strategia, sia detto per inciso, che riconosceva implicitamente l'esistenza di un

Corriere della Sera 16.10.07
Moravia '44, il comunismo come salvezza
Da Cristo al Pci: la «speranza di libertà» è la molla letteraria
di Luciano Canfora


Il 20 maggio del 1944 una piccola tipografia romana, per conto del «Libraio Editore Documento», finiva di stampare uno straordinario saggio di Alberto Moravia intitolato La speranza, ossia Cristianesimo e Comunismo. L'opuscolo, di 52 pagine, era il numero 1 della nuova collezione di saggi, diretta dallo stesso Moravia, intitolata, con felice scelta, «Il moto perpetuo».
La trama ragionativa del breve saggio è lineare e si impernia tutta sul concetto di speranza come fattore decisivo e peculiarità assoluta degli esseri umani. Ma la speranza è tale solo in forza della «apparente impossibilità delle cose sperate»: «una speranza di cui è sicuro che potrà avverarsi non è una speranza perché può cessare ogni momento di esserlo» (p. 13). Il cristianesimo, affermatosi — scrive Moravia — «appena in tempo» nel disfacimento del mondo antico, «apparve dapprima piuttosto che come speranza come la conclusione necessaria e giusta della disperazione » (p. 26), donde l'idea di Apocalisse. La speranza cristiana rispondeva innanzi tutto ad una istanza di libertà: «all'esigenza di libertà spirituale erano subordinate tutte le altre». Ma la speranza cristiana, «dopo aver ispirato per secoli la civiltà intera, si è dileguata lentamente lasciando l'uomo nella disperazione dei tempi peggiori» (p. 30). «Il mondo è di nuovo disperato », ma «non ricorrerà più al cristianesimo »; la nuova servitù percepita ormai come intollerabile è quella economica (p. 33). Di qui la spinta verso il comunismo ed il suo prestigio: esso si presenta come scienza, perché quello della scienza è il linguaggio presente, ma in esso «conta di più l'idea dell'avvento del regno della libertà », ben più che «le lunghe e assai complicate spiegazioni di Marx sulle leggi interne del capitalismo» (p. 38). È «l'idea di libertà che muove la macchina scientifica marxista e non il contrario» (p. 39). Materialistici sono dunque i molteplici socialismi riformistici mentre la radicalità della speranza comunista è nel dispiegamento totale della libertà: «è la speranza ultima a cui hanno fissi gli occhi i comunisti di tutto il mondo» (p. 45) ed è questa «speranza di libertà» che rende loro tollerabili «disciplina di partito, dogmi, scomuniche, teologia, ortodossia, concilii e tutte le infinite limitazioni alla contingente e immediata libertà» (p. 46). Per i liberali odierni, strettamente alleati dell'odierno cristianesimo, «l'importante non è la salvezza dell'uomo ma della società quale essa è oggi costituita » (p. 47). E contro il comunismo invano si schierano «i meccanismi parlamentari di cui aristocrazie meno minacciate e più intelligenti intendono servirsi per imbrigliarlo e trasformarlo » (p. 49).
E nondimeno — questa è la conclusione — il comunismo potrà vincere solo quando «il meglio del mondo liberale sia passato nel comunismo» esattamente come l'antico paganesimo entrò nel cristianesimo (p. 50). Vincerà quando «comunismo e umanità saranno una cosa sola», ma «non è affatto detto che la perfetta città terrena, speranza massima del comunismo, si realizzi. Forse non si realizzerà affatto. Ma l'importante non è tanto che questo avvenga, quanto che esista la speranza dell'avvento »; «solo a questo patto l'uomo cesserà di disperare» (p. 52). È in certo senso, siffatto epilogo, l'analogo dell'apologo raccontato da Gaetano Mosca secondo cui la democrazia in realtà non esiste, ma consiste nel continuamente cercarla (recensione a Michels, 1912).
Il Moravia che in questi modi si esprime nel maggio '43 parla come il protagonista (Sergio) del suo romanzo inedito del 1952, presentato nei giorni scorsi in queste pagine da Paolo Di Stefano e Pierluigi Battista. Dice Sergio (cioè Moravia): «mi dicevo che in un secolo come il nostro, così legato al progresso scientifico, la teoria comunista, a fondo religioso né più né meno del cristianesimo, aveva però su quest'ultimo la superiorità di esprimersi con il linguaggio del tempo (...). Essa insomma ripresentava al mondo il vecchio sogno di una palingenesi totale ma possibile questa volta: se era vero, come a me pareva che fosse vero, che la scienza era il mezzo etc.». Qui il Moravia del '52 rilegge con distacco critico il Moravia del '43 (anno in cui opera il protagonista del romanzo). Non si trattò dunque di semplice adozione di nuove mode intellettuali: siamo di fronte ad una riflessione e maturazione di lunga durata. Una maturazione che ha avuto fasi ed esiti differenti in temperamenti assai diversi, segnati da esperienze le più varie. Basti pensare al pessimismo che sta alla base de «Il comunista» di Morselli o ancor più al pianto solitario, e non consolabile, di Maurizio Ferrara nel notevolissimo capitolo di apertura de Il fratello comunista di Giovanni Ferrara.

il Riformista 16.10.07
I comunisti lavano i panni da Vespa
di Luigi Manconi


Caro direttore, a me, certe cose mi fanno impazzire. Accusato spesso di «novismo» fino alla spregiudicatezza e di indifferenza per le radici e le tradizioni, devo dire che ce ne sono alcune - di tradizioni - che rispetto profondamente e la cui violazione mi fa perdere la trebisonda. Mi spiego. Fino a ieri, i comunisti (sia quelli che si dicevano comunisti fino a qualche tempo fa, sia quelli che addirittura continuano a dirsi tali tuttora) stavano bene attenti a «lavare i panni sporchi in famiglia». Oggi, molti di quelli che si dichiaravano comunisti e la gran parte di quelli che continuano a dichiararlo, i panni sporchi li lavano solo ed esclusivamente a Porta a Porta, sul Giornale, su Libero e - quando sono proprio di ottimo umore - sul Corriere della Sera.
Sia chiaro: quella antica consuetudine comunista alla discrezione ha portato danni incalcolabili ed è bene che sia stata faticosamente e drammaticamente superata, ma: oh come sarebbe delizioso che ne rimanesse almeno una traccia, un atteggiamento, uno stile! Pensavo questo mentre osservavo la trattenuta soddisfazione e la compiaciuta malizia che tradivano Fabrizio Cicchitto e Roberto Castelli nell’ascoltare la fiera, fierissima, che più fiera non si può «denuncia» - a opera di un alto dirigente del Pdci - dei brogli che sarebbero avvenuti nel corso del referendum sul protocollo del welfare.
Attenzione: non che il sindacato non abbia grandi problemi di democrazia interna e di trasparenza dei meccanismi decisionali; e non dico nemmeno che non si deve andare a Porta a Porta (tutti ci andiamo; è come dire: «In Italia siamo tutti cattolici» o «Tutti abbiamo preso la varicella da piccoli»). E so bene che quei sinistrissimi che, da anni, rilasciano interviste terribilissime contro la sinistra, dalle colonne del Giornale o di Libero (parlo io che, su quelle colonne, ci ho addirittura scritto), replicheranno che sono solo quei quotidiani ed è solo Bruno Vespa a offrire loro spazio.
Ma, come diceva la mia maestra, alla scuola elementare San Giuseppe di Sassari, «c’è modo e modo». Ovvero c’è una questione non trascurabile di interlocutori, argomenti e linguaggi.
E, infatti, quell’esponente del Pdci, a Porta a Porta, con la sua cartelletta da direttore della Mondialpol, o da burocrate degli apparati di sorveglianza di un qualunque regime, con le sue foto un po’ sfocate da indagini su scialbe avventure extraconiugali, col suo schedario stropicciato, con le sue frasette ellittiche, evocava davvero uno stile scellerato e, insieme, mediocre: e atmosfere, suggestioni, climi, propri de Le vite degli altri (il bellissimo film sull’attività della Stasi) e di simili vicende, altrettanto cupe. Sempre - e qui, mi raccomando, irrobustire il tono della voce - «in nome degli interessi della classe operaia».
Ecco, puntuale la conferma: il Giornale di ieri «denuncia i brogli» delle primarie con il medesimo linguaggio politico e morale di quell’alto dirigente del Pdci. Un comunista di altri tempi avrebbe detto: sono «oggettivamente» complici. No, no, no, per carità! Sono stilisticamente collusi.

il manifesto 16.10.07
Sinistra preoccupata La «cosa» come?
Giordano accelera sulla federazione: «Entro l’anno serve un tesseramento comune». Ma i Verdi frenano. E il Pdci non gradisce
di M. Ba.


Roma. Il trionfo del «W-day» democratico è accolto come l’ennesimo campanello d’allarme dalla sinistra parlamentare. La cosiddetta «cosa rossa» si trova ora costretta a forzare le tappe della propria unità. Da Romano Prodi a Fausto Bertinotti, in tanti sollecitano Prc, Pdci, Verdi e Sd a fare non uno ma due passi in avanti. Non è detto che sia un male, anzi. Anche se il primo effetto visibile è di accrescere i sospetti di annessione «neocomunista» soprattutto nei Verdi e Sinistra democratica.
A primarie chiuse, Rifondazione accelera al massimo e anche il Pdci, seppure con più prudenza, si muove di conserva. Franco Giordano si espone in pubblico come mai prima d’ora: «Bisogna avviare entro l'anno il tesseramento del nuovo soggetto politico, aprire subito gli stati generali per la costituente, garantire la partecipazione più ampia possibile con i forum sociali», dice alla direzione del partito e ripete dal palco all’assemblea dei 150 parlamentari della sinistra. «Rischiamo di essere schiacciati nella tenaglia Pd-sindacati, serve un cambio di fase».
Lo sollecita anche Romano Prodi: «Giova a tutti avere una minore frammentazione della coalizione. Mi auguro, ma proprio mi auguro di cuore, che lo stesso processo avvenga anche a sinistra del Pd», dice il premier. E lo stesso Fausto Bertinotti giudica a microfoni spianati «un’esigenza stramatura» l’unità a sinistra: «Sarebbe colpevolissimo - dice il presidente della camera - se questa esigenza non venisse colta».
La proposta rifondarola non manca di rimarcare le posizioni nella sinistra «unitaria e plurale». Viene caldeggiata con prudenza dal segretario dei comunisti italiani Oliviero Diliberto («Noi siamo pronti da ieri») e sollecitata da Fabio Mussi: «E' essenziale - dice il coordinatore di Sinistra democratica - che si formi accanto al Pd una sinistra unitaria pesante perché questo significa mantenere aperta una prospettiva di centrosinistra. Altrimenti il rischio di arrivare a una stagione politica molto confusa diventa realtà».
L’agenda di Giordano non dispiace alla maggioranza di Sd vicina a Mussi e Salvi: costituente a dicembre, simbolo comune alle elezioni di primavera. Certo, nel corpaccione di Sd, la federazione viene giudicata insufficiente, una buona tappa intermedia. «Abbiamo pochi mesi per realizzare le attese della gente su un soggetto unitario e partecipato», avverte Carlo Leoni. «La federazione a sinistra - spiega - può essere un primo passo ma serve altro, una casa comune che superi la frammentazione attuale». L'obiettivo è noto: «Un partito della sinistra senza aggettivi, una forza innovatrice alleata del Pd». Tesi che trova concorde Pietro Folena (Prc - Uniti a sinistra): «Tentennare ancora sarebbe suicida. Serve un'assemblea costituente aperta che si assuma il compito di indire le primarie sul programma e sui gruppi dirigenti del nuovo soggetto».
Tuttavia, «se ci sono resistenze, è ora che vengano fuori», avverte Giordano. E puntualmente accade. La tesi del segretario è bollata come «liquidazionista» da Fosco Giannini. La minoranza dell’Ernesto (Prc) promette battaglia al congresso di marzo.
Ma soprattutto l’accelerazione sulle tessere e la costituente non piace affatto al Sole che ride. Per un Paolo Cento del tutto favorevole c’è Angelo Bonelli, capogruppo dei Verdi alla camera assai vicino a Pecoraro Scanio, che non nasconde i suoi distinguo. «La cosa rossa non esiste, parlare di tesseramento ora rischia di essere un’operazione verticistica che cancella i contenuti e impedisce un ruolo attivo dei cittadini. Prima di parlare delle modalità di unificazione sarebbe opportuno un vertice dei segretari». Il Sole che ride vuole tenersi le mani libere. Suggerisce tempi più lunghi, primarie di programma da fare a primavera, una consultazione «sulle cinque cose che la sinistra propone» e, eventualmente, «anche sugli statuti e le regole che questa federazione si vuole dare». La porta non è chiusa, ovviamente, su un’unità a sinistra più stretta ma un’accelerazione non concordata rischia di avere effetti controproducenti. Tesi sottolineata anche da Manuela Palermi, capogruppo Pdci-Verdi in senato: «Non dico di no a niente ma ora pensiamo a fare la finanziaria». Avanti piano, è la «road map» rossoverde. Ma il 20 ottobre, con tutto quello che seguirà, è già dietro l’angolo.

Repubblica Bologna 16.10.07
Dostoevskij ci racconta la creatività
di Grazia Verasani


Per capire qualcosa di più di Dostoevskij è utile leggere Lettere sulla creatività (Economica Feltrinelli). Nella bella prefazione di Pacini si approfondisce il pensiero del grande scrittore russo e la sua dedizione a indagare sul grande mistero «uomo», bandendo nichilismo e scetticismo, e puntando ai valori della responsabilità e della moralità. L´epistolario è intenso, rivolto a più interlocutori, soprattutto al fratello Michail, ed è qui che si avverte maggiormente il suo approccio febbrile alla scrittura, i tempi stretti di consegna, senza revisioni o editing, come si direbbe oggi. Dostoevskij scriveva di getto come uno dei grandi fiumi in piena della sua Russia. Un getto fertile e potente, che non aveva certo bisogno di correzioni; eppure se ne duole, sostenendo che la fretta è nemica. Lettere dal carcere in Siberia; lettere sul suo vizio del gioco, dove racconta di avere concepito un sistema, che purtroppo però non lo fa sempre vincere: e saranno questi debiti di gioco a velocizzare la sua scrittura come già è successo per altri grandi scrittori come Balzac inseguito da creditori implacabili. Poi ci sono passi dove dichiara il suo forte interesse per i casi di cronaca, per delitti che lo inquietavano e ispiravano, come i true crime di oggi sensibilizzano i nostri giallisti. «Sono giunto alla conclusione - scrive - che lo scrittore-artista, oltre a possedere il dono poetico, deve conoscere la realtà fin nelle minime pieghe». Non risparmia critiche ai colleghi, pieni di amor proprio e troppo irritabili. Detesta l´ateo Turgenev e ama Tolstoij; si appassiona al Don Chisciotte e lo definisce il personaggio più completo e perfetto della letteratura. Si burla degli intelligentoni ma scrive ai critici per sfogarsi, difendersi e lodarsi da sé («Anche se non sono certo Puskin!» esclama) e anche per ammettere che chi scrive spera sempre nella benedizione del successo.

Il Giornale 16.10.07
Francois Villon. Quel furfante padre dei poeti «maledetti»
di Idolina Landolfi


«Io sono François, il che mi pesa,/ nato a Parigi, presso Pontesa,/ e dalla corda lunga una tesa/ saprà il mio collo quanto il culo pesa», è una famosa quartina di autopresentazione di François Villon, il «povero piccolo scolaro» dell’Epitaffio del Testamento, il «Villon per fama assai noto,/ che dattero non mangia né fico,/ secco e nero come spazzatoio», che è un altro autoritratto, quello in chiusura del Lascito, di qualche anno precedente, del 1456.
A dire il vero, poco è sicuro, nella vicenda biografica di Villon, anche - o forse soprattutto - quanto dichiara, episodi e figure che sotto la sua penna miracolosa appaiono sempre diversi, deformati, metamorfici, personaggi di una lunga «odissea naturalmente senza eroe», come ha scritto Luzi «con un caso al posto di un esempio. Ma è un caso che tocca da vicino ciascun uomo». Personaggio tra i personaggi è egli stesso, mille volte rifratto nei propri versi, ladro e ribaldo ma anche «rampollo di fata», peccatore pentito che invoca la misericordia divina, di cui non dubita («Io son peccatore, lo so bene;/ ma Dio non vuole la mia morte»), scolaro che accusa la giovinezza quale stagione di inevitabili sregolatezze («che sempre scusare cuor giovine/ si deve al tempo di giovinezza»), nostalgico lodatore del tempo passato, che invita alla fraterna pietà («ché, se pietà di noi miseri avete,/ Dio vi darà più largo il suo favore»: Ballade des pendus), o corteggia una morte riparatrice di ogni errore.
Eppure è proprio sulla biografia che per molto tempo ci si è accaniti - a partire dalla piena riscoperta dell’autore dopo l’oscurità in secoli che rifiutarono il Medioevo in toto, il Cinquecento, il Seicento. Nell’Ottocento e via via verso di noi, poeti come Verlaine, Rimbaud e tanti altri di quella generazione, ne fanno il loro capostipite, il primo dei «maledetti». Con il reperimento, dal 1873 in poi, da parte di Marcel Schwob e Auguste Longnon (a cui si deve tra l’altro la prima edizione critica delle Œuvres complètes de François Villon , del 1892), di alcuni documenti giudiziari relativi ai fattacci della sua vita - trasgressioni più o meno gravi insieme a gruppi di studenti che spesso capeggiava, con il carisma della sua parola di poeta; furti anche piuttosto redditizi, come quello di cinquecento scudi d’oro al Collegio di Navarra; fino all’omicidio di un prete, pare per legittima difesa - l’iperbiografismo si scatena.
Ovvio che esistenze come questa sono una continua sfida all’indagine, pungolando quel basso sentimento voyeuristico che invita a «pescare nel torbido» - di tanti e tali torbidi, anche, essa si compone. Ma così si tende a dimenticare la profondità e la portata dell’opera - la sola cosa in realtà a contare, ciò che lo ha condotto fino a noi. Perché Villon, lo sappiamo, sa mutare ogni esperienza in materia poetica, in uno stile «fondante» nella sua ricchezza ed evocatività - fatto di trame sotterranee, di echi che si rincorrono, di un incessante riverberare e slittare della parola di significato in significato, di detto in contraddetto, con vertiginose ascese ed altrettanto vertiginosi inabissamenti in una sostanza magmatica, oscura e quasi preverbale.
Nelle sue ballate si rinnova, variamente stravolta, attraversata da un’ironia che è la sua grande arma contro i disastri della vita, ogni esperienza propria e altrui, di quel mondo in delirio nel quale si è trovato a vivere, la Parigi uscita stremata dalla guerra dei Cent’anni, una città brutale e senza Dio, e che pure in nome di Dio compie le peggiori infamie. Umanità assoluta, quella di Villon, «non del tutto folle né del tutto saggio», «rido nel pianto e sto senza sperare;/ mi dà conforto il triste disperare;/ gioisco eppur non ho piacere alcuno;/ sono potente e nulla posso fare,/ bene accolto, respinto da ciascuno»: è la Ballata del concorso di Blois, scritta su un tema proposto a vari poeti da Charles d’Orléans (fissato il primo verso: «Muoio di sete accanto alla fontana»), che in lui si colora di accenti straordinariamente personali.
Alla partenza di Villon da Blois, appunto, alla cui corte fu ospite per un periodo (il suo soggiorno si suole collocare tra la fine del 1457 e il 1460) si riferisce il brano che citiamo, tratto dal romanzo di Jean Teulé, Je, François Villon , pubblicato lo scorso anno da Julliard e in uscita in italiano a giorni (Io, François Villon, Neri Pozza, pagg. 319, euro 18, traduzione di Giuliano Corà). Teulé vi mette in scena ogni caso noto della vita di Villon, dà voce a ogni suo personaggio, attingendo ai documenti che lo riguardano e all’opera tutta con notevole scrupolo; e con una particolare insistenza su bestialità ed efferatezze di quell’epoca atroce. Ecco allora la facilità con cui si veniva accusati e giustiziati, non prima di subire torture, qui descritte in dettaglio; e uccisi secondo i metodi più fantasiosi, compresa la bollitura sulla pubblica piazza in capaci calderoni.
Nel quartiere degli studenti, attorno alla Sorbona, la rue Saint-Jacques, la Montagne Sainte-Geneviève, si svolgono molte azioni: lì dove gli scolari, e poi maîtres (Villon divenne maître dès arts) compivano le loro scorribande, forti del privilegio di dipendere - essi stessi e i professori - soltanto dal potere ecclesiastico, l’unico che potesse giudicarli in caso di reato. Gli episodi sono storici: le rivolte, le sospensioni dei corsi, l’uccisione di uno studente e il ferimento di molti durante gli scontri con la polizia il 9 maggio 1453, e gli ulteriori disordini. Teulé racconta, per bocca di Villon, le goliardate, come quella abituale di togliere tutte le insegne delle taverne e di ridistribuirle a capriccio; o l’affaire del cippo liminare detto Peto del Diavolo, spostato in altro luogo e reso oggetto di bizzarro culto.
Ci si propone per lo più un Villon che ama rivoltolarsi nel fango morale, associato alle bande di coquillards, razza di imperversanti farabutti, ai quali non sappiamo quanto il poeta fosse legato, e di cui comunque conosceva perfettamente il linguaggio segreto, il jargon-jobelin delle Ballate argotiche. Alcuni episodi vengono dilatati, secondo il gusto dell’orrido di cui abbiamo detto: così il periodo di detenzione nella paurosa prigione di Meung-sur-Loire (siamo nell’estate del 1461), alla mercé di Thibaud d’Aussigny, il «crudele e duro» vescovo d’Orléans e sua bestia nera, la cui trista figura apre il Testamento («da lui non ho che terra deserta») e la cui ombra lo attraversa tutto. Le torture che a Meung subì divengono nel romanzo scene protratte e minuziose, fino al grottesco di un Villon che compone versi appeso a testa in giù. Ma soprattutto parla della sua sofferenza e di quanto essa gli fu maestra: «Sofferenza il mio intendimento/ incerto, come palla acuto,/ più che d’Averroè il commento/ su Aristotele m’ha dischiuso»: «travail », una delle parole-chiave per la comprensione di quest’uomo tormentatissimo e dei suoi versi.

tellusfolio.it 15.10.07
Intervista a Bodei su Baruch Spinoza
di Ennio Galzenati


DOMANDA N. 1 - Spinoza, considerato un filosofo maledetto, è stato perseguitato ed emarginato in vita e combattuto dopo la sua morte come figura sospetta e pericolosa. Quali sono le ragioni che motivano questo atteggiamento nei confronti dell'autore e delle sue opere?

Ci sono molte ragioni che accomunano Spinoza ad altri filosofi maledetti, come Machiavelli o come Giordano Bruno. Tali ragioni sono di natura diversa: tuttavia ciò che accomuna questi pensatori è il fatto di aver svuotato dalle fondamenta alcune delle convinzioni che hanno guidato la tradizione dell'Occidente - e non solo dell'Occidente - per millenni. Il primo motivo di scandalo a proposito di Spinoza è stata la sua identificazione di Dio con la natura. Ciò significava non soltanto negare l'esistenza di una divinità personale, affermata nella tradizione ebraica cui Spinoza apparteneva, o nella tradizione cristiana; ma voleva dire negare contemporaneamente la provvidenza divina: se Dio è natura noi ne siamo parte, ma soltanto parte. In questo senso la filosofia di Spinoza si distingue dalle impostazioni, a lui quasi contemporanee, come quella di Bacone, che voleva che l'uomo, viceré dell'Altissimo, diventasse padrone della natura. In Spinoza c'è invece un rapporto molto più rispettoso, necessariamente rispettoso, nei confronti della natura: la parte non può dominare il tutto, e noi non siamo neppure, come credeva l'uomo del Rinascimento, un microcosmo; in noi, cioè, non si riproduce miniaturizzata l'immagine di tutta la natura. In quanto passivi, noi subiamo gli effetti di tutte le forze naturali, e sarebbe assurdo e ridicolo che noi pensassimo di poter superare questa passività. Al massimo la possiamo attenuare, e questo è il compito, sostanzialmente, delle opere di Spinoza, e in particolare dell'Etica.

Il secondo motivo di scandalo è dato invece dall'identificazione della necessità con la libertà: Spinoza arriva a dire che se una pietra lanciata per aria potesse pensare, crederebbe che il suo movimento sia stato causato da se stessa, sarebbe cioè convinta di essere libera di muoversi. Noi, per Spinoza, non siamo affatto liberi, nel senso che le cause delle nostre azioni dipendano soltanto da noi. Avere coscienza di qualcosa non significa avere coscienza delle cause. Tutto nel mondo è risultato di cause e di effetti. Il problema di Spinoza è quello di essere liberi non nel senso di sfuggire alle leggi di natura, ma di utilizzare le leggi di natura come si utilizza, che so io, il vento, che certo non soffia per far piacere a noi, per gonfiare, poniamo, le vele di una barca. Quindi noi non andiamo contro le leggi naturali per esseri liberi in un senso più lato, noi le pieghiamo ai nostri scopi e alla nostra utilità.

Il terzo motivo di scandalo è il rifiuto dell'etica del sacrificio, dell'idea della morte e della vanità di tutte le cose. Spinoza afferma con decisione che noi dobbiamo rivendicare il diritto di ogni individuo al perseguimento di quello che egli chiama la sua utilitas.

In Spinoza infatti - quarto e ultimo motivo di scandalo -, il potere e il diritto coincidono: il pesce grosso mangia il pesce piccolo. Quindi finché io non avrò raggiunto un grado di potere adeguato non potrò nemmeno lamentarmi della mia sorte.

Allora, anche dal punto di vista politico, il problema di Spinoza è quello di costruire delle istituzioni politiche, quali ad esempio la democrazia, in cui gli uomini siano dotati di pari poteri e di pari diritti per evitare che qualcuno opprima l'altro. Siamo qui alla radice di una tradizione completamente diversa rispetto a quella, poniamo, di Rousseau e dei moderni, o a quella del diritto naturale: secondo tale impostazione, infatti, io sono libero se rinuncio a parte della mia libertà, se alieno parte della libertà allo Stato per ricevere in cambio protezione. Per Spinoza - e questo è veramente un elemento tipico e anomalo - non c'è nessun patto sociale: io non devo rinunciare a niente. C'è dunque coincidenza per Spinoza tra l'essere liberi e l'essere necessitati, così come tra il potere e il diritto. In effetti Spinoza dice: ciò è bene per il lupo è male per l'agnello. Nell'universo però il bene e il male si elidono. Questa posizione di Spinoza è stata tacciata di immoralismo. Occorre tuttavia tener presente che, considerando l'uomo come l'unico essere che partecipa dei due modi della sostanza divina, cioè dei due modi di manifestarsi della natura, ovvero l'estensione, la corporeità da un lato e il pensiero dall'altro - l'uomo è l'unico animale capace di pensare se stesso oltre che di avere un corpo - non si tratta tanto di cadere nel relativismo, quanto di capire che l'uomo non può che avere una morale tipicamente umana.

DOMANDA N. 2 - La filosofia, per Spinoza, non si esaurisce nel momento puramente conoscitivo, ma rappresenta una via verso la saggezza. Di conseguenza, la metafisica risulta finalizzata all'etica, intesa come ars vivendi. In che termini essa ridefinisce, rispetto all'antropologia tradizionale, l'immagine dell'uomo?

L'uomo è sostanzialmente caratterizzato, secondo Spinoza, dalla cupiditas, dal desiderio. Il filosofo distingue tre livelli della conoscenza e tre livelli dell'essere uomini, che sono tre stadi del desiderio. Il primo stadio è quello della passività delle passioni - se ne contano oltre quaranta. Esse non sono per Spinoza puro disordine, non sono solo spiacevoli, esse sono anche intellegibili. Anche le cose che ci fanno soffrire hanno una loro spiegazione. Il primo passo da fare è dunque accettare le passioni, dal momento che esse sono il segno ineludibile della nostra passività nei confronti delle forze dominanti dell'universo: il nostro corpo e la nostra mente sono spersi nell'immensità della materia e delle altre menti degli uomini, e quindi non possiamo pretendere orgogliosamente di comandare all'intera natura. D'altra parte ciò non significa che questa passività non si possa in parte superare. Spinoza fa a questo riguardo un esempio molto chiaro: un bambino è certamente più dipendente dalle cause esterne, meno autonomo, per il complesso dei suoi bisogni, rispetto a un adulto. Però crescendo aumenta la capacità di autogovernarsi: vengono abbandonate le fantasie tipiche dell'infanzia, si diventa più razionali. Le passioni dunque per Spinoza non si possono abbandonare, ma si possono trasformare, in modo tale che esse non siano più cieco desiderio, ma conoscenza.

Il secondo livello del nostro modo di esistere e di conoscere, del nostro sforzo, del nostro conatus è infatti, per Spinoza, la ragione. La ragione è il campo dell'ordine, dell'esplicito, delle conoscenze universali. Tuttavia essa non costituisce l'ultimo stadio dell'essere uomini. Lo stadio supremo, a cui pochi tuttavia giungono - quelli che Spinoza chiama i saggi o i savi -, è l'amore intellettuale. Di esso sono state date interpretazioni di tipo mistico: tuttavia l'amore intellettuale, per Spinoza, non è una negazione della ragione, ma è semplicemente quella conoscenza delle cose particolari che presuppone i due stadi precedenti, e in particolare la conoscenza delle leggi universali. Così come nell'apprendimento di una lingua, secondo i vecchi metodi pedagogici, si passa dallo studio delle regole generali alla loro applicazione a casi particolari, così, nel caso dell'amore intellettuale, presupponendo conoscenze universali, io posso creare delle leggi individuali, per quanto il termine possa sembrare paradossale. In Spinoza non c'è una concezione statica della natura umana, così come della natura in generale o di Dio: tutte le cose sono sottoposte a cambiamenti. In questo senso il problema spinoziano non è solo l'autoconservazione, come era per esempio in Hobbes, ma è quello dell'autoespansione: l'uomo, pur nell'ambito della necessità, può crescere diventando più padrone di se stesso, sia in termini individuali, sia in termini sociali. Io posso compiere una transizione verso il meglio, ed essa mi rende non soltanto più saggio, più razionale, ma anche, nello stesso tempo, più felice. Passare dal livello delle passioni o dell'immaginazione al livello della ragione mi tranquillizza, ma passare dal livello della ragione al livello dell'amore intellettuale, cioè dal livello delle conoscenze generali al livello delle conoscenze specifiche, mi fa sentire più a mio agio nel mondo e nella società. La saggezza coincide dunque per Spinoza con il sentirsi in sintonia con la realtà di cui si accettano le regole del gioco. È proprio la grande rinuncia quella che permette le grandi realizzazioni: soltanto se mi autolimito - dirà Goethe - posso riuscire a fare qualcosa di grande.

DOMANDA N. 3 - Il libero arbitrio di cui hanno favoleggiato i filosofi è per Spinoza solo un'illusione. Ogni tentativo di sottrarsi al determinismo naturale, infrangendo l'ordine necessario del tutto, risulta impossibile. Tuttavia Spinoza non esclude che l'uomo possa essere libero, né che possa agire in vista del proprio perfezionamento.

La libertà in Spinoza non significa certamente uscire fuori dalle leggi della natura o, come egli dice, essere un impero in un impero. Noi non siamo extraterritoriali al mondo. Noi possiamo essere liberi - e a questo l'Etica ci conduce: l'ultimo libro si intitola appunto Della libertà umana - tutte le volte che abbandoniamo la pretesa di essere autonomi per natura o per grazia divina.

Spinoza ha avuto una formazione non filosofica. Dopo aver fatto il mercante si dedicò alla pulitura delle lenti e in questa sua attività si accorse di un fatto molto importante: è impossibile, anche con la lente più perfetta, eliminare la rifrazione cromatica, eliminare certe perturbazioni prodotte dalla curvatura della lente. Allo stesso modo, secondo Spinoza, non è possibile avere una conoscenza del mondo e di noi stessi perfetta, senza deformazioni, perché noi non siamo onnipotenti, perché non siamo Dio. D'altra parte Dio non è nessuno perché è tutti, non è una persona. E allora essere liberi vuol dire conoscere quali sono i limiti - espandibili - della nostra libertà, sapere che noi possiamo sì ampliare la sfera del nostro intervento, ma solo se siamo consapevoli delle condizioni date. Raggiungere i gradi della razionalità o i gradi dell'amore intellettuale per Spinoza significa allora abbandonare la filosofia della coscienza quale è nata in epoca moderna con Cartesio, cioè l'idea che io capisco le cose perché queste cose sono evidenti a un Je, a un Io che ne accetta il valore.

Dal punto di vista di Spinoza il soggetto non è più l'Io ma il Noi, cioè il genere umano più in generale, o quel tipo di comunità di uomini capaci di intelligenza, i quali si rendono conto che il loro spazio di movimento dipende dalla capacità di intervenire sul mondo, utilizzando le situazioni per modificarle. In apertura al Trattato teologico-politico Spinoza afferma per esempio che è inutile fare prediche agli uomini dicendo “siate più razionali”. Se essi sono sottoposti alla ruota della fortuna, dipendono dal caso, dalla miseria, dalle passioni generate dall'odio, non saranno mai razionali, saranno, piuttosto, superstiziosi e quindi vivranno nel mondo dell'immaginazione e delle passioni. È la loro vita insicura a renderli refrattari alla razionalità. Se si vuole portare gli uomini a essere più autonomi, capaci di guidare la propria esistenza - dice Spinoza -, bisogna agire diversamente: non si tratta di convincersi in maniera volontaristica, ma bisogna cambiare le condizioni, rendere la vita più sicura. Soltanto in questo modo l'uomo sarà capace di essere più razionale.

Il saggio non è allora colui che disprezza il volgo; il saggio è piuttosto colui che partecipa dei problemi di tutti, delle situazioni più generali, che si sforza di capire le condizioni specifiche in cui ci si trova ad agire. L'etica ha appunto lo scopo di mostrarci i passaggi attraverso i quali essere in grado di controllare il nostro destino, intervenendo sulle cause che ci fanno soffrire e in parte eliminandole.

DOMANDA N. 4 - L'etica di Spinoza è caratterizzata dal rifiuto di una considerazione moralistica delle passioni. Vivere secondo ragione significa per il filosofo conoscere la natura umana, di cui le passioni fanno parte, ed esaltare ciò che aumenta la potenza e la felicità dell'uomo, ivi compresi gli affetti. In che modo si esercita dunque la funzione catartica e moderatrice dell'intelletto nei confronti delle passioni?

È vero che la passione, in quanto passività, è ineliminabile, ma è anche vero che Spinoza propone una trasformazione dall'interno delle passioni stesse, in quelle che lui chiama affetti. Che cosa sono gli affetti? Sono delle forze attive che, invece di contrastare con la razionalità o con l'amore intellettuale, ci permettono di espandere la nostra forza di esistere. Questo è un punto centrale in Spinoza; per Spinoza il nostro potere e la nostra libertà, intesa come autonomia, cresce quanto più cresce la nostra vis exsistendi o vis agendi: la nostra forza di esistere e la nostra forza di agire. Questo è un punto estremamente problematico della filosofia di Spinoza, ed è stato anche motivo di scandalo. Per Spinoza infatti noi non desideriamo una cosa perché è buona, ma piuttosto essa è buona perché noi la desideriamo. Quindi sono i nostri desideri, i desideri di questo uomo come animale desiderante che stabiliscono ciò che è bene.

Ora, perché le passioni sono malvagie? Non per un motivo di carattere moralistico: esse non coincidono più, come nella tradizione cristiana, con il peccato. Ci sono passioni che ci trascinano verso il basso, verso l'infelicità, che ci costringono a permanere in una condizione di minorità psichica e fisica, cioè a essere dipendenti da forze esterne, e ci sono invece delle passioni che son capaci di rigenerarsi e trasformarsi in forze attive, favorendo la ragione. Queste passioni sono, ad esempio, la laetitia - o gioia, come normalmente si traduce - e soprattutto l'amore; esse si contrappongono alla cosiddetta tristitia. Però nelle passioni che si trasformano in affetti non scompare mai l'elemento immaginativo: le passioni che diventano affetti non sono, di per se stesse, separate dalle cause esterne che le producono. Siccome l'immaginazione dipende dal nostro raffigurarci le cause esterne, si può dire che anche gli affetti mantengano, in fondo, un elemento di passività sublimata. Soltanto nell'amore intellettuale, in cui si congiungono i due elementi - quello caldo dell'amore, della spinta affettiva, e quello freddo dell'intelletto - la passione arriva a perdere la sua passività, l'amore non è più affetto da cause esterne, e l'intelletto perde quel suo carattere di generalità, di universalità che non rispetta il particolare. In questo senso l'amore intellettuale torna a essere un grande tema per i Romantici, in quanto amore intellettuale di Dio, cioè di tutte le singole esistenze nella natura. Si tratta, in questo caso, di un amore non ricambiato, di un amore intransitivo, per così dire. La natura, non essendo una persona, non ci può riamare. L'amore intellettuale è appunto il tentativo di superare la passività propria del primo livello delle passioni e dell'immaginazione, così come l'attività - come dire - di conquista, di colonizzazione di una ragione astratta che vuole semplicemente asservire le passioni, per inserirsi in un contesto in cui io riconosco a tutti gli esseri pari dignità.

È interessante notare come attualmente una grande quantità di studi cerchi di mostrare come la cura psicanalitica di Freud rappresenti, in linguaggio spinoziano, la traduzione delle passioni in affetti, cioè la trasformazione di ciò che ci fa soffrire e che noi semplicemente subiamo, in qualcosa che, alla fine, riusciamo ad accettare e a comprendere. Quindi io sono guarito - cosa che, a quanto pare, capita raramente -, non soltanto se riesco a ricongiungere dei pezzi staccati o ignorati della mia vita passata al mio presente, ma nello stesso tempo se riesco a dare un senso a quelle sofferenze, a quella passività di cui prima ero preda, e a trasformare e utilizzare tali energie psichiche bloccate.

DOMANDA N. 5 - La visione di Spinoza resta comunque improntata a una concezione estremamente drammatica dell'esistenza, visto che l'ascesa all'amore intellettuale rimane una via aperta a pochi individui.

Certamente secondo Spinoza la maggior parte degli uomini resta infelice, soprattutto se in preda della miseria, dell'oppressione politica, vittima di catastrofi, di cataclismi. La superstizione è inestirpabile se gli uomini non vivono una vita tranquilla. Il motto di Spinoza è che non bisogna né ridere né piangere degli uomini, ma piuttosto intelligere, capire gli uomini. Non c'è in lui alcun tentativo di commiserazione né di esaltazione dei difetti degli uomini. In questo Spinoza si distingue - anche in termini politici - dai suoi contemporanei. Il fatto che gli uomini siano come sono ora - cioè il risultato dell'oppressione politica, della miseria - non è un dato eterno. Non bisogna allora essere troppo realisti, come i teorici della ragione di Stato, come Hobbes, i quali dicono: “gli uomini sono così, son malvagi, quindi noi possiamo opprimerli tranquillamente”. Per l'altro verso non bisogna essere nemmeno come gli utopisti, che vorrebbero che gli uomini fossero diversi da quelli che sono e immaginano delle società perfette, mai esistite, in cui si presuppone una libertà assoluta, priva di qualsiasi condizionamento. La maggior parte degli uomini sono, per Spinoza, infelici; solo che di questa infelicità molte volte devono dare la colpa anche a se stessi.

Il grande problema di Spinoza, infatti, è come uscire dalla passività e dall'obbedienza, o da quella che un grande scrittore francese del Cinquecento, amico di Montaigne, Etienne de La Boétie, ha chiamato “la servitù volontaria”. È il mistero doloroso della politica e della religione: perché gli uomini ubbidiscono? Il Trattato teologico-politico si scaglia contro l'aquila bicipite della religione e della politica le quali, agendo insieme, opprimono gli uomini invece di emanciparli, costringendoli a servire le ambizioni di uno solo. Dunque, la maggior parte degli uomini sono infelici perché la loro vita è insicura; ma anche se fosse sicura, non per questo tutti potrebbero diventare saggi, perché non tutti ne hanno tempo, ne hanno voglia, nonostante che la saggezza non sia solitudine, non sia pensare a se stessi e perfezionare la propria anima. Non dimentichiamo l'importanza che ha avuto Machiavelli per Spinoza; uomo acutissimo, Machiavelli aveva detto che se si dovesse scegliere tra la salvezza della propria anima e la salvezza della repubblica bisognerebbe scegliere quest'ultima. Spinoza non crede alla salvezza dell'anima nel senso di un'anima separata. Inoltre, affermare che il saggio è felice, non significa credere che egli sia totalmente privo di condizionamenti. Anche per il saggio esistono per esempio le malattie: basta un grumo di sangue, una bollicina d'aria nel circolo sanguigno o un germe qualsiasi per ammazzare il più grande saggio. Non c'è in Spinoza l'idea di un prometeismo dell'uomo. Questo punto è interessante anche per l'attuale scoperta della dimensione ecologica. L'uomo non è padrone della natura; l'uomo fa parte della natura e ha certamente il diritto di uccidere gli animali e di mangiarli, ma non può pretendere di trasformarsi in una sorta di tiranno che opprime la natura stessa, perché altrimenti le cose finiranno male.

C'è poi il problema della morte. Contro una lunghissima tradizione, la quale afferma, da Platone a Heidegger, che la filosofia non altro che meditazione sulla morte, la filosofia è per Spinoza meditazione sulla vita. Possiamo aggiungere, per inciso, che l'Inno alla gioia di Schiller non è intelligibile, e ciò vale anche per la musica di Beethoven, se si prescinde dall'atmosfera di rinascita dello spinozismo che pervade la Germania del Settecento. Fra l'altro è interessante notare che il giovane Marx, che per quanto non più di moda resta sempre un pensatore importante e grande, aveva letto e postillato il Trattato teologico-politico di Spinoza proprio nel periodo in cui scriveva la sua tesi su Epicuro. Cosa può aver imparato Marx da Spinoza? Probabilmente l'idea secondo la quale, se non si modificano le condizioni in cui gli uomini vivono, e si fa appello, come facevano secondo Marx gli idealisti, soltanto alla forza della coscienza, gli uomini resteranno infelici. Quindi modificare il mondo per modificare la coscienza e non, come Marx afferma nella famosa Undicesima tesi su Feuerbach, semplicemente interpretare il mondo. Forse Spinoza era su questo punto più avanti dello stesso Marx nel senso che non poneva in contrasto l'interpretazione con il cambiamento del mondo, ritenendo che entrambi fossero necessari. Ciò è vero anche per Marx, ma è certo che tutto l'accento e il pathos della sua posizione cade sul cambiamento del mondo piuttosto che sulla sua interpretazione.

DOMANDA N. 6 - Per Spinoza la superstizione sarà inestirpabile fino a che gli uomini vivranno nell'ignoranza e nell'incertezza. Trasformare gli uomini significa innanzitutto trasformare le condizioni in cui essi vivono. In che senso dunque l'antropologia spinoziana ridefinisce i termini della politica?

Secondo Spinoza, vissuto in un'epoca disseminata di assolutismi in campo politico, gli uomini devono sfuggire alle passioni negative non soltanto dal punto di vista individuale, ma anche da quello collettivo. Quali sono le passioni più pericolose, le passioni teologico-politiche per eccellenza? Sono la paura e la speranza. Noi siamo abituati a considerare la paura in termini negativi e la speranza come una cosa buona, una virtù teologale o un principio che aiuta la ragione a sopravvivere. Per Spinoza invece, come Goethe, diceva che il filisteo - quello che noi chiameremmo piccolo borghese - non è che intestino vuoto pieno di paura e di speranza, paura e speranza non sono altro che il rovescio e il diritto della medesima medaglia, sono cioè passioni di attesa caratterizzate dall'incertezza. La speranza è una gioia incostante che attende un bene futuro; la paura è una tristezza incostante di attesa di un male. Dal punto di vista politico la paura è il fondamento non soltanto dell'assolutismo, ma di quasi tutti i regimi che gli uomini hanno conosciuto: non si può governare senza incutere timore. Ma è soprattutto contro un suo contemporaneo che Spinoza si scaglia, ovvero contro Hobbes.

Hobbes sosteneva che si esce dall'anarchia dello stato di natura, in cui anche il più debole può nuocere al più forte ed ucciderlo, unicamente grazie alla paura, che sola può costringere gli uomini a obbedire a delle leggi. In Hobbes c'è addirittura una genealogia della ragione dalla paura: la ragione non è altro che una passione d'ordine che nasce da un calcolo di convenienza. Di fronte a una continua violenza in cui nessuno è sicuro, gli uomini comprendono che è meglio vivere secondo regole. La paura tuttavia non scompare neppure quando si passa allo stato civile, dove la pace sociale è mantenuta dal monarca attraverso il terrore e la paura. Spinoza è completamente contrario a questa ipotesi: egli sa che la paura deprime le energie umane, e che dunque usare la paura per governare significa favorire il potere di qualcuno tenendo in soggezione la forza di vivere degli altri. Spinoza contrappone al motto hobbesiano - homo homini lupus - la frase secondo la quale, invece, l'uomo è Dio per l'uomo: non c'è niente di meglio, per arricchire la socialità, che considerare gli uomini come qualche cosa che rappresenta la maggiore possibilità di sviluppo: soltanto vivendo in società gli uomini cambiano. Per questo, tra l'altro, Spinoza è contrario ai malinconici, a coloro che si rinchiudono in se stessi vivendo una esistenza solitaria, a quelli che ritengono, cioè, che non valga la pena sforzarsi di vivere in comunità, ai misantropi. L'idea di Spinoza è che né la paura né la misantropia aiutino, ma neppure la speranza e l'idea che gli uomini possano cambiare radicalmente. Quello che Spinoza vuole dimostrare è che una buona politica, una buona convivenza esiste soltanto quando gli individui son capaci di agire collegialmente, in modo tale che possano modificare le loro posizioni di volta in volta e crescere nella loro influenza reciproca.

DOMANDA N. 7 - L'Olanda del tempo di Spinoza è caratterizzata da una prorompente vitalità, testimoniata fra l'altro dalla grande produzione pittorica dell'epoca. È possibile ravvisare un riflesso di questa situazione nell'opera di Spinoza?

L'Olanda del tempo di Spinoza è una nazione ricca, il che pone un problema. Il modello spinoziano, diversamente dai modelli precedenti, ispirati ad esempio a Sparta e che ancora avranno effetto durante la Rivoluzione francese, non ha nulla di austero. Spinoza non difende certo la dissipazione, ma è tuttavia per i piaceri onesti, per quei piaceri che rendono la vita più felice. In questo appartiene al suo tempo: nel Trattato teologico-politico fa l'elogio di Amsterdam, città ricca, bene amministrata, in cui tutti possono esprimere le loro idee in piena tolleranza. Nessuno - egli dice - ci viene a chiedere davanti a un tribunale “di che religione sei”. L'Olanda di questo periodo è una grande potenza commerciale che minaccia addirittura gli interessi inglesi. A proposito dell'arte e dell'attacco da parte di Spinoza ai melanconici e ai solitari in favore della vitalità e del piacere della gioia, la riflessione sui quadri olandesi ci dà l'occasione per un gioco di parole. Quelle che noi chiamiamo nature morte in italiano, vengono indicate in olandese con un termine che significa “la vita giunta al suo culmine”: la frutta nel suo splendore prima che si decomponga, le ostriche, che sono un simbolo afrodisiaco e di piacere, la cacciagione. Insomma la promessa del piacere contenuta in tutte queste cose, che però racchiudono anche l'elemento malinconico: esse imputridiranno, il piacere che esse offrono è passeggero. In questo senso si può affermare che alla natura morta Spinoza contrappone la natura viva; tutto il mondo è, cioè, cambiamento. Ciò implica, a livello politico, che la vita sociale non può essere, come in Hobbes, dominata dalla paura, o dalla speranza come attesa di qualcosa che non verrà mai, come quell'attesa, tipica delle democrazie moderne dopo la Rivoluzione francese, in cui bisogna sacrificarsi nel presente per avere un futuro migliore. In Spinoza è piuttosto operante l'immagine di una nuova democrazia in cui i diritti non vengono erogati dall'alto, nella quale, cioè, non si dice agli uomini “siate felici” per decreto, o “siate uguali”, “siate liberi”.

Non vale, cioè, il modello di Rousseau. Questo è il punto importante in termini di storia della cultura, in termini di filosofia politica generale: mentre in Rousseau c'è il trionfo del modello del diritto naturale, secondo il quale io, alienando totalmente la mia libertà alla volontà generale, allo Stato, la ricevo indietro per intero e resto libero come prima -, in Spinoza non si aliena nulla. Spinoza non parte dalla rinuncia della libertà perché sa che nessuno Stato, se io non ho potere in quanto singolo, mi restituirà la mia libertà intera. Lo Stato non nasce, per Spinoza, da una piccola minoranza, così come avverrà a partire dai Giacobini - Roberspierre diceva tre uomini possono trasformare la repubblica - fino al Partito Bolscevico, almeno dopo il 1918, quando i Soviet vengono aboliti. Non nasce istituzionalizzando la paura e la speranza: la paura, che con i Giacobini diventa terrore, ed è un'arma che favorisce la ragione, mentre invece per Spinoza le passioni legate alla tristitia la deprimono; e la speranza, che, in tutti i movimenti, non soltanto di sinistra, diventa culto rivoluzionario, o attesa e promessa che il futuro sarà migliore del presente.

È interessante notare che in Spinoza la democrazia è una conquista non soltanto formale. Non si tratta certo di contrapporre la democrazia sostanziale a una democrazia formale, perché la democrazia nasce, in termini moderni, come procedura. L'unica cosa, infatti, sulla quale gli uomini, divisi da valori contrapposti, dopo aver sperimentato dalle guerre di religione in poi scontri sanguinosi, si sono accordati, è la decisione che è inutile battersi, pensando che tutti abbiano ragione, per le cose ultime. È meglio mettere le nostre convinzioni tra parentesi e accordarci sulle cose penultime, cioè sulle procedure. Ciò ha comportato tuttavia che il problema del potere degli individui è stato, in termini spinoziani, lasciato al secondo livello, quello della ragione politica, e non è mai passato, ed è dubbio che possa passare, al terzo livello, cioè quello dell'amore intellettuale: la politica come conoscenza delle cose particolari, come rispetto del singolo desiderio, della cupiditas di ciascuno di realizzarsi. La prospettiva spinoziana è in questo senso molto differente, per quanto potrebbe essere integrata nella nostra, nell'ipotesi di una democrazia in cui i cittadini sappiano che i loro poteri non vengono garantiti semplicemente da carte costituzionali, per nobili che siano, ma dal fatto che tutti i cittadini hanno potere, che questo potere è relativamente uguale e non è troppo differenziato. Nella quale, dunque, non ci siano coloro che detengono il monopolio del potere, mentre gli altri non contano niente. In Spinoza c'è la piena consapevolezza che finché gli uomini non avranno potere non avranno razionalità, e che finché questo potere non sarà condiviso collegialmente ci sarà sempre qualcuno che opprime e qualcuno che sarà oppresso.

Remo Bodei (scheda curata dall'autore dell'intervista)
15 Ottobre 2007VITA: Remo Bodei è nato a Cagliari il 3 agosto 1938. Dopo la laurea all'università di Pisa e il diploma di perfezionamento, ottiene borse di studio per le università di Tubinga e di Friburgo, dove segue le lezioni di Ernst Bloch e Eugen Fink, e per l'università di Heidelberg, dove segue le lezioni di Karl Löwith e di Dieter Henrich. Dal 1969 insegna Storia della filosofia alla Scuola Normale Superiore e, dal 1971, all'università di Pisa. Dopo aver ottenuto una borsa Humboldt presso la Ruhr-Universität di Bochum (1977-1979), diviene Visiting Professor presso il King's College di Cambridge, U.K (1980) e successivamente presso la Ottawa University (1983).
Insegna, a più riprese, presso la New York University e, recentemente, presso l'università di California a Los Angeles (1992). Attualmente ricopre la cattedra di Storia della filosofia presso l'Università di Pisa e insegna anche presso la Scuola Normale Superiore della stessa città.
OPERE: Oltre a numerosi articoli (oltre 220 : su Pirandello, Gramsci, Weber, Foucault, ecc.), a traduzioni ed edizioni di testi (Hegel, Rosenkranz, Bloch, Rosenzweig, Adorno, Kracauer, Todorov, Blumemberg), Remo Bodei ha pubblicato i seguenti volumi:
Sistema ed epoca in Hegel, Bologna, 1975; Hegel e Weber. Egemonia e legittimazione, Bari, 1977 (con F. Cassano); Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch, Napoli 1979, 1983 (nuova edizione); Scomposizioni. Forme dell'individuo moderno, Torino, 1987; Holderlin: la filosofia y lo tragico, Madrid, 1990; Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, Bologna 1991; Geometria delle passioni. Paura, speranza e felicità: filosofia e uso politico, Milano, 1991.

PENSIERO: Gli interessi filosofici di Remo Bodei sono stati inizialmente focalizzati sulla filosofia classica tedesca, sull'idealismo, sulla cultura e l'estetica del tempo di Goethe e del tardo Ottocento; in seguito si sono spostati sul pensiero utopico dell'Ottocento e del Novecento e sulla filosofia politica contemporanea. In tempi recenti le sue indagini si sono ampliate al mondo greco-romano, ad Agostino e alla storia del concetto di individualità e di passione. Attualmente sta elaborando una ricerca storico-filosofica sul tema del desiderio, cioè sulla natura delle passioni orientate al conseguimento di migliori condizioni di vita.

Secondo Remo Bodei, Spinoza è stato demonizzato in seguito alla sua azione di critica della tradizione: per esempio in seguito alla negazione della visione tradizionale di Dio, identificato invece con la natura; per l'identificazione di libertà e necessità, secondo cui essere liberi significa piegare la necessità ai propri scopi; per il rifiuto dell'etica del sacrificio al fine di rivendicare il diritto di ciascuno di perseguire l'utile; per l'identificazione tra potere e diritto come fondamento di una teoria della democrazia; infine per la sua morale basata sul conatus, spesso accusata di immoralismo e di relativismo, in realtà semplicemente umana. L'uomo è caratterizzato sostanzialmente dal desiderio, considerato innanzitutto secondo la passività delle passioni, da accettare in quanto tali, ma anche da trasformare in affetti; un secondo livello del desiderio è la ragione, seguita dall'amore intellettuale, che è la conoscenza adeguata del molteplice; tipica dell'uomo è la mobilità e la capacità di crescere, la sua saggezza è soprattutto nel sentirsi in sintonia con la realtà.

La libertà non è per Spinoza una forma di extraterritorialità rispetto al mondo, inoltre non è possibile una conoscenza priva di deformazioni, essere liberi significa allora conoscere i limiti della propria libertà per poterla espandere, saper intervenire sul mondo anche al fine di modificarlo; allo stesso modo il saggio non è colui che si isola, ma chi riesce a capire le varie situazioni controllando il proprio destino. Gli affetti sono forze attive che ci permettono di espandere la nostra forza di esistere e di agire, mentre sono i desiderî a stabilire ciò che è bene, le passioni invece ci costringono ad essere dipendenti da forze esterne, mentre solo nell'amore intellettuale si connettono una passione non più passiva, l'amore e l'intelletto; in proposito Bodei ricorda la fortuna che tali riflessioni spinoziane hanno avuto nel romanticismo e le analogie rispetto a talune posizioni freudiane, soprattutto in merito alla distinzione tra passioni e affetti e riguardo all'analisi delle nevrosi. Secondo Spinoza la maggior parte degli uomini resta comunque preda della miseria, dell'oppressione, delle passioni e delle superstizioni, ma ciò non deve giustificare né la rassegnazione né l'utopismo, anche se spesso gli uomini sono vittima di una servitù volontaria che devono imputare solo a se stessi.

Bodei ricorda quindi l'importanza di Machiavelli per la riflessione politica spinoziana e sottolinea come per Spinoza la filosofia non fosse riflessione sulla morte, ma meditazione sulla vita, tratto questo che sarà ripreso nella rinascita dello spinozismo in Germania alla fine del '700. Anche Marx ha fatto tesoro degli insegnamenti spinoziani, in particolare per quanto riguarda la consapevolezza di dover cambiare le condizioni di vita degli uomini. Per Spinoza, vissuto al tempo dell'assolutismo, gli uomini devono fuggire le passioni negative anche collettivamente, per esempio la paura e la speranza, passioni di attesa caratterizzate dall'incertezza; rispetto al tema della paura, Spinoza critica severamente la posizione di Hobbes, che vede in essa l'origine della ragione, proprio in seguito alla necessità di superare la violenza attraverso un calcolo di convenienza; per Spinoza al contrario la paura deprime e blocca le energie umane, che devono piuttosto essere impegnate all'agire insieme, potenziando una buona convivenza. L'Olanda del suo tempo era una nazione ricca. Anche per questo il modello politico spinoziano non ha nulla di austero, anzi il Trattato teologico-politico è una sorta di elogio di Amsterdam e di una natura viva; contrariamente a Rousseau, Spinoza non prende le mosse dalla rinuncia alla libertà, ma propone una teoria della democrazia non solo formale, in cui tutti abbiano un potere reale, condiviso collegialmente anche per porre fine all'oppressione.

Liberazione 16.10.07
La voglia di voto e la Cosa rossa
di Stefano Bocconetti


L'hanno chiamata voglia di voto. Che ha coinvolto una parte rilevantissima di quelle persone che ormai tanto tempo fa - tempo politico, ovviamente, perché calendario alla mano si tratta solo di un anno e mezzo fa - hanno permesso alla coalizione di centrosinistra di battere le destre. Voglia di voto, allora, voglia di partecipazione che ha portato tre milioni e mezzo di persone a fare la fila e ad esrimere una preferenza per il nuovo leader del partito democratico. Una voglia di voto che il vincitore, Veltroni - sia domenica sera, sia ieri pomeriggio in una conferenza stampa in cui ha ridetto esattemente le stesse cose di dodici ore prima - ha letto come la vera risposta all'antipolitica. Quella di Grillo, dei suoi blog.
E sono in molti a pensare che sia proprio così. Al punto che anche la destra è costretta ad ammetterlo. Ma forse è qualcosa di meno. I più attenti osservatori hanno spiegato, insomma, che quel "bisogno di voto" è una premessa al rinnovamento della politica. Da sola non basta. Anche perché a ben vedere c'è una sequenza di fatti e parole - che poi in politica contano quasi quanto i fatti - che sembra spingere in un'altra direzione. Ecco la sequenza. Ieri sera Veltroni è stato incoronato e davanti alla selva di microfoni che l'assediavano ha riproposto la solita sequenza dei suoi slogan: il paese vuole ammodernarsi, rinnovarsi, pacificarsi. Il paese vuole riformismo. Nell'accezione che a questa parola assegna anche Montezemolo, quando vuole togliere il diritto alla pensione a milioni di persone. La mattina dopo, ieri, Prodi - che non si fa illusioni e sa benissimo che il successo del sindaco porterà i due in rotta di collisione - ha ripetuto più o meno le stesse parole. Modernità, sviluppo. Riformismo. Un secondo dopo sono arrivati i sindacati, Cisl in testa - ammesso che in qualcosa oggi la seconda confederazione si distingua dalla Cgil - a ripetere: bene modernità e riformismo. Quindi - hanno detto - non toccate l'accordo sul welfare.
E di lì a una mezz'ora il primo ministro che si sente sul collo l'alito del nuovo segretario ha incontrato i segretari delle tre confederazioni. Assicurando loro che gli impercettibili miglioramenti registrati nel consiglio dei ministri saranno annullati. Azzerati, spariti. E così, a conti fatti, il primo risultato del voto di tre milioni e mezzo di persone, un voto tutto politico, si trasforma in un ulteriore colpo alla politica. Ai diritti della politica. Ai diritti della "buona politica", tanto per usare una parola che rimbalza in queste ore da un telegiornale all'altro: quella di chi, per esempio, non pensa che il 22 per cento di "no" all'accordo sul welfare possa essere ignorato.
Un primo atto simbolico. A suo modo inquietante. Ma fermarsi a questo non servirebbe a nessuno. Perché è evidente che quei tre milioni e mezzo di persone, di donne, uomini, ragazzi in fila davanti ai gazebo raccontano di un bisogno. Di una voglia, appunto. Che rivolge domande a tutti.
Parla della voglia di contare. E racconta che davanti all'empasse di un governo che ha ricevuto un mandato e poi sembra essersene dimenticato, le persone usano quel che trovano. Usano gli spazi, le fessure di partecipazione che si riescono ad attivare. Anche quelle che finiscono per incoronanare un sindaco che, davanti a cronisti un po' allibiti, annuncia che da domani «userà parole nuove» per la politica. Tradotto: domani stupirà dicendo una cosa di sinistra, dopodomani tornerà a difendere l'assessore fiorentino Cioni e la sua campagna contro i lavavetri. Candidandosi a prendere tutto. Ma proprio tutto tutto, fino a competere con la destra sui suoi terreni. Ma lo spiraglio per la partecipazione era questo. E questo le persone si sono prese. Si arriva così alla domanda. Alla domanda che comunque l'esperienza delle primarie rivolge anche alla sinistra: perché oltre a quella di Veltroni e Montezemolo, perché oltre alla proposta del partito democratico non c'era in campo un'altra idea? Un altro progetto? E se c'era perché era ancora attardata a definire le forme della possibile convinvenza? Insomma, le primarie oggi sollecitano una risposta anche da questa parte. Dalla parte della sinistra. Una risposta che qualcuno sosterrà avrebbe già potuto e dovuto esserci. Da tempo. Ma anche questo conta poco.
Conta che oggi, dopo quel successo, nessuno può più pensare che basta mettersi sulla riva del fiume e aspettare di raccogliere in una rete tutto ciò che non ce la fa ad entrare nel piddì.Non è stato mai vero. Ma quell'attesa forse aveva un senso all'epoca delle diatribe fra Fassino e Rutelli. Ora quei tre milioni e mezzo di voti hanno sicuramente avuto l'effetto di rendere "presentabile" il piddì. Più presentabile di prima.
L'hanno riverniciato. Ma la partecipazione in una domenica di ottobre di un pezzo del popolo del centrosinistra punta ad altro. E Veltroni non può darglielo. Ecco perché la "cosa rossa" da domenica è diventata più urgente. E quel bisogno di partecipare, quella voglia di unità non ce la fanno ad essere incanalate dentro gli argini di una discussione sulle forme federative, sui meccanismi della rappresentanza e così via. Per dirla tutta: quei bisogni sono più forti di quanto abbia offerto fino ad ora il dibattito sul soggetto unitario della sinistra.
Se così sarà, alla fine Veltroni potrà dire di aver fatto un favore alla sinistra. Ieri in tutti i protagonisti della vicenda c'era la consapevolezza di cosa si sta giocando in questi giorni. Qualcuno più attento, come Franco Giordano ha rischiato una proposta, di arrivare agli "stati generali" con già l'avvio di una forma organizzativa. Altri meno, come il Verde Bonelli che non vuole sentir parlare di "cosa rossa". Come se qualcuno avesse già deciso come chiamarla. Altri ancora, i dirigenti della Sinistra democratica che continuano a difendere il progetto di una casa comune. E non era scontato. Visto che il futuro segretario, fra i suoi fiori all'occhiello, vanta anche quello di aver garantito un 20 per cento di posti nel nuovo consiglio di amministrazione del piddì ad una lista che si chiama "sinistra per Veltroni". Premessa indispensabile per far ripartire le pressioni dirette a far rientrare una parte, una parte almeno, di chi se n'è andato dai diesse. Ottenendo però solo rifiuti. A cominciare da Mussi.
Le condizioni ci sono, allora. Basta volerlo fare. E forse questo conta di più, molto di più di tutto il resto. Il che non vuol dire che la sinistra debba restare a guardare. Indifferente allo scontro che si annuncia fra Prodi e il segretario del suo partito. Scontro annunciato da tutti e in qualche modo confermato ieri dai due. Quando il sindaco neosegretario spiegava che «l'obiettivo del piddì era arrivare alla fine della legislatura». Un obiettivo, non un impegno. E quando Prodi, in una lettera di felicitazioni, gli spiegava molto onestamente che «ci saranno incontri» ma anche momenti di incomprensioni. Affilano le lame, dunque. Com'era prevedibile e come sapevano tutti. Ma alla sinistra è chiesto tutt'altro. E' chiesto di modificare l'accordo sul welfare, è chiesto di dar voce ai metalmeccanici, ma anche ai milioni di lavoratori che hanno votato sì e che pure non vogliono la precarietà per i loro figli. E' chiesto di conquistare qualcosa per evitare che gli scalini diventino orrendi come lo scalone. E' chiesto di fare la sinistra. Di strappare risultati. Che verranno solo se quei pezzi separati avranno il coraggio di mettersi insieme. Fra di loro e insieme alle persone. A quel punto, forse, tutti potremo ringraziare Veltroni.
E' più morbida sul tesseramento Manuela Palermi del Pdci: «Non dico no a niente, ma ora pensiamo alla Finanziaria, incassiamo il risultato della presenza dei Verdi il 20 ottobre (non al corteo ma con la loro raccolta di firme contro gli ogm, ndr.), e dicono sì alla sinistra federata». Il ragionamento di Giordano mette insieme il referendum dei lavoratori sul protocollo sul welfare e la nascita del Pd: altri due fattori che impongono «la costruzione di una forza unitaria a sinistra con un principio di cultura autonoma». Perchè, argomenta il segretario Prc, il rischio è di una «ristrutturazione del sistema politico e sindacale italiano con due facce: da un lato, un Pd che fagociti tutta la dialettica politica; e dall'altro, un sindacato che abbia in totale appannaggio la gestione sociale e delle forze del lavoro». Ed è ancor più importante, «in questa fase delicata, che le resistenze al percorso unitario vengano fuori perchè rischiano di mettere in difficoltà tutto il processo». Quelle interne al Prc non si fanno attendere. Giannini e Pegolo, dell'Ernesto, attaccano l'idea del tesseramento del soggetto unitario, leggendovi il segnale di un futuro «superamento» del Prc (nonostante le modalità indicate da Giordano siano le stesse sperimentate da anni per la Sinistra europea).
Al momento, la sinistra trova convergenza pratica nella battaglia emendativa sulla Finanziaria. Si punta a chiedere di: istituire il reddito d'inserimento; restituire il fiscal drag ai lavoratori dipendenti finanziandolo con l'aumento della tassazione sulle rendite finanziarie; destinare i 170 milioni di euro previsti per il Mose alla riqualificazione ambientale di Venezia e della laguna. Il relatore del dl che accompagna la Finanziaria, Natale Ripamonti (Verdi), assicura che la maggioranza dell'Unione ha già raggiunto un accordo che riduce i tagli al fondo per l'editoria «dal 7 al 2% per i piccoli quotidiani». Le pressioni della sinistra avrebbero inoltre prodotto un'intesa su un «tetto, basato sul reddito, per gli aiuti agli incapienti» e anche per «la soppressione della società Stretto di Messina, ancora esistente nonostante il ponte non si faccia più». Il nodo più grosso resta quello del welfare, sul quale il governo ha agito con «furbizia e dilettantismo», dice Ripamonti. «Urge fare chiarezza - osserva Di Salvo - non si capisce più di quale testo si stia parlando». E il ministro Ferrero lancia l'allarme: il modo «plebiscitario» con cui il Pd ha agito sul protocollo del 23 luglio e la forza mediatica che riesce a esercitare «tende a descrivere la sinistra come rappresentanza politica senza rappresentanza sociale». Insomma, il rischio è che ci si chieda «per chi facciamo le battaglie». Ecco perchè, propone il ministro del Prc, «bisogna individuare quattro-cinque battaglie da portare avanti sia sulla Finanziaria, sia in Parlamento come campagna nel Paese, altrimenti gli unici a fare lavoro di massa saranno le destre e il Pd». La viceministra agli Esteri Sentinelli indica la sua battaglia: quella per i fondi alla cooperazione internazionale. «Per il 2008 la Finanziaria dispone solo allo 0,21% del Pil: il Dpef prevedeva lo 0,33». Non basta, però per il sottosegretario allo Sviluppo Economico Gianni che non capisce «perché non si proceda subito alla unificazione dei gruppi parlamentari». La conclusione è meno catastrofica: «In alto i cuori, non stiamo bene, ma ancora non siamo nel burrone...».

Liberazione 16.10.07
Giordano: ora la sinistra accelleri
serve unità e passi concreti
di Angela Mauro


All'indomani delle primarie del Pd, la sinistra si sveglia più determinata a proseguire sul percorso unitario. La sinistra tutta, anche quella che, come Sd e Verdi, mantiene reticenze sul 20 ottobre e differenze nel confronto con il resto del governo su welfare e pensioni. Franco Giordano fa la sua parte, imprimendo un'accelerazione alla costruzione del soggetto unitario e plurale sin dalla mattina di un lunedì che per il Prc inizia con la riunione della direzione sulle tesi del prossimo congresso della Sinistra Europea (fine novembre a Praga). Il segretario di Rifondazione guarda con orgoglio alla manifestazione di sabato prossimo a Roma. «E' il segnale della ripresa di una soggettività altra che chiede un mutamento della politica economica e sociale nel governo: ormai anche chi non vi ha aderito, la legge così». Ma Giordano va oltre. Pensa agli "stati generali" della sinistra, ribadisce che dovranno essere costruiti secondo un modello di «partecipazione di massa» e che, in questo senso, il migliore esempio di cui si può far tesoro è l'esperienza dei «forum sociali». Non solo. Gli "stati generali" dovranno anche essere l'occasione per avviare «il tesseramento del nuovo soggetto, attraverso i partiti e per adesioni anche singole», per lanciare la nuova creatura unitaria e plurale della sinistra entro la fine del 2007. Parole che Giordano ribadisce nel pomeriggio all'assemblea dei parlamentari della sinistra, convocata tempo fa per discutere della battaglia unitaria per emendare la Finanziaria e aggiornata, nei termini della discussione, con le ultime novità: la vittoria dei sì alla consultazione sindacale sul protocollo sul welfare, la riconvocazione delle parti sociali a Palazzo Chigi, fino alle primarie del Pd. Si comprende che la riunione pomeridiana non è la sede adatta per scendere nei dettagli del percorso unitario, nemmeno sulla questione del tesseramento, ma serve per sgomberare il campo da eventuali dubbi. «Le differenze non ostacolano il percorso unitario a sinistra», assicura Titti Di Salvo, capogruppo alla Camera di Sinistra Democratica. «Ora serve una sinistra unita e pesante», le fa eco a distanza Fabio Mussi. Meglio partire dalla piattaforma comune sulla Finanziaria, è la linea di Sd: «Lì c'è la nostra idea di Italia», sottolinea Di Salvo. Dopo il 20 ottobre, aggiunge, «giorno di una manifestazione sulla quale, si sa, ci sono opinioni diverse, dobbiamo pensare a riempire di contenuti il percorso unitario». «Il tesseramento non l'ha fatto nemmeno il Pd», sostiene Angelo Bonelli, capogruppo dei Verdi a Montecitorio, che chiede un «vertice dei segretari per definire le modalità dell'unificazione» e lancia l'idea di «primarie sul programma della sinistra».
E' più morbida sul tesseramento Manuela Palermi del Pdci: «Non dico no a niente, ma ora pensiamo alla Finanziaria, incassiamo il risultato della presenza dei Verdi il 20 ottobre (non al corteo ma con la loro raccolta di firme contro gli ogm, ndr.), e dicono sì alla sinistra federata». Il ragionamento di Giordano mette insieme il referendum dei lavoratori sul protocollo sul welfare e la nascita del Pd: altri due fattori che impongono «la costruzione di una forza unitaria a sinistra con un principio di cultura autonoma». Perchè, argomenta il segretario Prc, il rischio è di una «ristrutturazione del sistema politico e sindacale italiano con due facce: da un lato, un Pd che fagociti tutta la dialettica politica; e dall'altro, un sindacato che abbia in totale appannaggio la gestione sociale e delle forze del lavoro». Ed è ancor più importante, «in questa fase delicata, che le resistenze al percorso unitario vengano fuori perchè rischiano di mettere in difficoltà tutto il processo». Quelle interne al Prc non si fanno attendere. Giannini e Pegolo, dell'Ernesto, attaccano l'idea del tesseramento del soggetto unitario, leggendovi il segnale di un futuro «superamento» del Prc (nonostante le modalità indicate da Giordano siano le stesse sperimentate da anni per la Sinistra europea).
Al momento, la sinistra trova convergenza pratica nella battaglia emendativa sulla Finanziaria. Si punta a chiedere di: istituire il reddito d'inserimento; restituire il fiscal drag ai lavoratori dipendenti finanziandolo con l'aumento della tassazione sulle rendite finanziarie; destinare i 170 milioni di euro previsti per il Mose alla riqualificazione ambientale di Venezia e della laguna. Il relatore del dl che accompagna la Finanziaria, Natale Ripamonti (Verdi), assicura che la maggioranza dell'Unione ha già raggiunto un accordo che riduce i tagli al fondo per l'editoria «dal 7 al 2% per i piccoli quotidiani». Le pressioni della sinistra avrebbero inoltre prodotto un'intesa su un «tetto, basato sul reddito, per gli aiuti agli incapienti» e anche per «la soppressione della società Stretto di Messina, ancora esistente nonostante il ponte non si faccia più». Il nodo più grosso resta quello del welfare, sul quale il governo ha agito con «furbizia e dilettantismo», dice Ripamonti. «Urge fare chiarezza - osserva Di Salvo - non si capisce più di quale testo si stia parlando». E il ministro Ferrero lancia l'allarme: il modo «plebiscitario» con cui il Pd ha agito sul protocollo del 23 luglio e la forza mediatica che riesce a esercitare «tende a descrivere la sinistra come rappresentanza politica senza rappresentanza sociale». Insomma, il rischio è che ci si chieda «per chi facciamo le battaglie». Ecco perchè, propone il ministro del Prc, «bisogna individuare quattro-cinque battaglie da portare avanti sia sulla Finanziaria, sia in Parlamento come campagna nel Paese, altrimenti gli unici a fare lavoro di massa saranno le destre e il Pd». La viceministra agli Esteri Sentinelli indica la sua battaglia: quella per i fondi alla cooperazione internazionale. «Per il 2008 la Finanziaria dispone solo allo 0,21% del Pil: il Dpef prevedeva lo 0,33». Non basta, però per il sottosegretario allo Sviluppo Economico Gianni che non capisce «perché non si proceda subito alla unificazione dei gruppi parlamentari». La conclusione è meno catastrofica: «In alto i cuori, non stiamo bene, ma ancora non siamo nel burrone...».