giovedì 18 ottobre 2007

l'Unità 18.10.07
Ma la piazza divide la «Cosa Rossa»
20 ottobre, Giordano e Diliberto uniti nella lotta. Senza Mussi e Pecoraro e boicottati dai No tav
di Simone Collini


«IL 9 GIUGNO TUTTI A ROMA per dire a Bush basta guerra!», strillavano da siti web, manifesti e volantini Rifondazione comunista e Pdci. Solo che quel sabato andarono veramente in pochi a piazza del Popolo per contestare il presidente Usa, che in quei giorni era in visita in Italia. Fu il secondo campanello d’allarme per i comunisti al governo, dopo il deludente risultato alle amministrative di primavera. Ora ci riprovano: sulla scia dell’appello lanciato da “manifesto”, “Liberazione” e “Carta”, chiamano militanti e simpatizzanti a scendere in piazza dopodomani. Non contro il governo ma a favore del programma. Non contro l’accordo siglato dal sindacato ma a favore di un suo miglioramento. Con un ordine tassativo: questa volta la piazza va riempita. Tanto più dopo la prova di forza di An e i tre milioni e mezzo delle primarie per il Partito democratico. E visto che la piazza in questione è San Giovanni, la macchina organizzativa di Rifondazione e del Pdci viene fatta girare al massimo dei giri.
Sia nel partito di Franco Giordano che in quello di Oliviero Diliberto si mostrano fiduciosi sull’affluenza (parlano di almeno 200mila persone «reali» attese a Roma) tanto è vero che hanno chiesto la diretta Rai della manifestazione. Ma la strada che porta a sabato non è in discesa per loro. Il varo al Consiglio dei ministri di ieri di un testo che recupera la «lettera» e lo «spirito» dell’accordo siglato il 23 luglio da governo e parti sociali, e che quindi annulla quanto deciso alla riunione a Palazzo Chigi della scorsa settimana, mette in difficoltà i due partiti comunisti.
I loro ministri, Paolo Ferrero e Alessandro Bianchi, ieri si sono astenuti proprio come hanno fatto l’altra settimana, nonostante allora si fosse deciso di limitare a 36 mesi complessivi i contratti a tempo determinato mentre ora viene consentita alle azienda la possibilità di una deroga. Quando il testo dell’accordo raggiunto con le parti sociali è stato recapitato al ministero della Solidarietà sociale, Ferrero non ha nascosto che «sulla parte che riguarda la lotta al precariato c’è un passo indietro». E più tardi l’esponente del Prc ha lasciato il Consiglio dei ministri definendo «peggiorata» la parte sui contratti a tempo determinato. Ma nonostante questo non ha votato contro.
Rifondazione e Pdci sanno che si muovono su un crinale rischioso, consapevoli che tanto schiacciarsi sulle posizioni dell’esecutivo quanto dar vita a una manifestazione contro il governo può essere per loro fatale. Ma questa prova di equilibrismo non è indolore. Da un lato, hanno già fatto sapere che non scenderanno in piazza dopodomani i Cobas, i No Tav, le minoranze trotzkiste del Prc e tutte quelle sigle antagoniste che considerano la manifestazione, per dirla con i Comitati di base, «una foglia di fico per coprire le vergogne del governo». Dall’altro, non saranno al corteo Sinistra democratica e Verdi, cioè le due forze che insieme a Prc e Pdci dovrebbero dar vita alla cosiddetta “Cosa rossa” e che al Consiglio dei ministri di ieri, con Fabio Mussi e Alfonso Pecoraro Scanio, hanno detto «sì con riserva» al protocollo sul welfare. Queste defezioni non impediranno ai partiti di Giordano e Diliberto di riempire comunque la piazza (si sta studiando attentamente come sistemare nel modo più opportuno il palco sul quale si esibiranno i vari gruppi musicali previsti) ma costituiscono una falsa partenza nel processo di unificazione delle forze a sinistra del Pd. E rendono necessario un lavoro aggiuntivo per poter fare in Parlamento una battaglia unitaria sul protocollo. Senza contare il fatto che la mobilitazione di dopodomani non è affatto vista di buon occhio dal sindacato. E la dice lunga il nervosismo mostrato ieri dalla capogruppo del Pdci al Senato Manuela Palermi: «La Cgil è arrivata a vietare con una circolare l’uso del logo nelle bandiere in vista della manifestazione di sabato sul welfare. Altro che centralismo democratico, qui è qualcosa di peggio». Un’uscita che, sia per il metodo che per quello che è il merito della nota diramata lunedì dal dipartimento organizzativo di Corso d’Italia, non è piaciuta affatto a Mussi e agli altri di Sinistra democratica.

l'Unità 18.10.07
Eutanasia, il Vaticano attacca la Cassazione
Dopo la sentenza che apre all’interruzione delle terapie
l’«Osservatore» accusa: inaccettabile pluralismo dei valori
di Roberto Monteforte


RELATIVISMO INTOLLERABILE in Cassazione. È questa la critica che l’Osservatore Romano lancia contro la sentenza della corte suprema sul caso di Eluana Englaro con la quale gli ermellini hanno stabilito un nuovo processo sul distacco del sondino naso gastrico alla ragazza che è in stato vegetativo dal 1992 a seguito di un incidente stradale. Non solo la spina non va staccata, ma sono da rigettare le motivazioni della sentenza, giudicate un pericoloso disco verde all’eutanasia che potrebbe influenzare il Parlamento. «È inaccettabile il relativismo dei valori, soprattutto se questi riguardano la conservazione o meno della vita» scrive il giornale vaticano. «Accettare, pure nel vuoto legislativo, una tale posizione - si sottolinea - significa orientare fatalmente il legislatore verso l’eutanasia». Quello che preoccupa è una possibile deriva «relativistica». «Introdurre il concetto di pluralismo dei valori - scrive - significa aprire una zona vuota dai confini non più tracciabili. Significherebbe attribuire appunto ad ognuno una potestà indeterminata sulla propria esistenza dalle conseguenze facilmente immaginabili, anche solo ragionando dal punto di vista etico». Due in particolare i punti della sentenza sotto accusa. Il primo è il riconoscimento al paziente del suo diritto all’autodeterminazione terapeutica. Un diritto che per la suprema Corte non incontrerebbe alcun limite, anche nel caso in cui ne consegua il sacrificio del bene della vita. Questo perché «lo Stato italiano riconosce il pluralismo dei valori». E la ragazza, si ricorda, da sana aveva già dichiarato la sua contrarietà a «vivere una vita artificiale». L’altro argomento ripreso dalla Cassazione è che, «secondo standard scientifici internazionalmente riconosciuti», vi sia uno stato di irreversibilità della sua condizione. Sono argomenti che il giornale vaticano cerca di confutare. «Nessun esperto potrebbe, allo stato attuale dichiarare - rileva - l’irreversibilità della condizione di stato vegetativo, se non in base ad una scelta puramente soggettiva». Poi, sulla volontà di Eluana - aggiunge - «l’arbitrarietà appare palese. La dichiarazione di un momento non può evidentemente essere presa a parametro per presumere la volontà di una persona riguardo a scelte come quelle che riguardano la contrarietà o meno ad un trattamento che fra l’altro si pone al limite fra terapia e nutrizione». «La vita va sempre difesa» conclude l’Osservatore, riprendendo le recenti dichiarazioni del segretario generale della Cei, monsignor Giuseppe Betori. Giudizi non nuovi. L’Osservatore si era già scagliato contro la sentenza del tribunale di Cagliari che - interpretando la legge sulla fecondazione - autorizzava l’esame dell’embrione prima del suo impianto in una donna affetta da talassamia.
Una presa di posizione che ha suscitato reazioni. «La sentenza della Cassazione sul caso Englaro legittimamente può essere sottoposta a critiche ma sarà il Parlamento a fare le valutazioni che ritiene, senza lasciarsi condizionare da nessuno, nemmeno dalla Cassazione» è il commento di Alessandro Criscuolo, il presidente titolare della Prima sezione civile, dalla quale è uscito il verdetto. «Ognuno è libero di criticare - afferma - anche se mi pare che la sentenza abbia motivato diffusamente le ragioni della decisione». Non vuole polemiche l’alto magistrato, «gli altri hanno piena libertà di esprimere le loro opinioni, ma toccherà al Parlamento italiano fare le valutazioni che ritiene, senza lasciarsi condizionare da nessuno». Chi, invece, reagisce è l’europarlamentare radicale e segretario dell’associazione “Coscioni” Cappato che parla di «festival delle guardie svizzere che presidiano il corpo di Eluana, che da 15 anni viene trattata come un oggetto». Mentre per il capogruppo alla Camera della Rosa nel Pugno Villetti «l’Osservatore confonde l’eutanasia con l’interruzione del mantenimento artificiale in vita di una persona in come da oltre un decennio». Quello che però Villetti considera più grave «è che questa battaglia sia motivata da una esplicita negazione del pluralismo dei valori». Le Camere, conclude, «già da tempo avrebbero dovuto approvare una legge sul testamento biologico e se non lo hanno fatto è perché proprio per le pressioni vaticane, non solo il centrodestra ma anche una parte delle forze del centrosinistra, lo hanno costantemente impedito».

l'Unità 18.10.07
Gramsci: «Cara Julca l’avversario va salvato»
Le lettere inedite alla moglie Giulia Schucht
di Antonio Gramsci Jr.


INEDITI Dagli archivi familiari dell’autore dei «Quaderni» emergono nuove lettere alla moglie Giulia Schucht. Le ha trovate il nipote, figlio di Giuliano Gramsci, che sta scrivendo un libro sulla famiglia Schucht e qui ce ne «anticipa» qualcuna

Devo confessare che prima del crollo dell’Unione Sovietica non nutrivo un interesse particolare per mio nonno. Nell’Urss si prestava poca attenzione alla figura di Antonio Gramsci. Tutti conoscevano Palmiro Togliatti che impersonava la leadership storica del movimento comunista italiano. Nei libri scolastici a Gramsci erano dedicate solo poche righe dove lui veniva presentato piu’ come martire del regime fascista e molto meno come pensatore e dirigente politico. In Russia sono state pubblicate solo poche opere di Antonio Gramsci, soprattutto i suoi scritti politici del periodo precarcerario. Io, tipico ragazzo sovietico, essendo già allergico all’abbondante propaganda ufficiale non potevo interessarmi ad argomenti del genere. In quell’epoca non conoscevo l’italiano e non potevo leggere le sue lettere che mi avrebbero permesso di sentirlo come un membro della nostra famiglia.
Tutto cambiò dopo il ’91, l’anno cruciale per la mia vita perche coincise con due grandi eventi - il centesimo anniversario della nascita di Antonio Gramsci e la disgregazione dell’Unione Sovietica. Il mio viaggio in Italia del ’91, durato quattro mesi, organizzato dalla Fondazione Gramsci, lo si puo confrontare con il primo viaggio della stessa durata che effettuò mio padre Giuliano nel ’48 quando lui aveva piu o meno la mia stessa età. Anch’io come mio padre in questo periodo pieno di eventi di ogni genere mi sono fatto permeare dalla cultura italiana e mi sono reso conto dell’importanza del nonno.
Poi negli anni successivi il mio interesse per il suo pensiero crebbe sempre piu anche perche attraverso le sue opere ho cercato di capire che cosa fosse successo nel il mio Paese. Non sono diventato studioso di Gramsci occupandomi in primo luogo di musica, pero la mia base mentale e’ sensibilmente cambiata.
Per quanto riguarda invece la famiglia Schucht cioè la famiglia di mia nonna Giulia, preziosa compagna di Antonio, ho avuto un’altro percorso per conoscerla meglio.
Tre anni fa è cominciata la mia collaborazione con la Fondazione Gramsci che mi ha chiesto di cercare nuovi documenti che riguardassero la storia del Pci negli anni venti e il carteggio di Tatiana Schucht degli anni trenta. Scavando nel nostro archivio famigliare e imbattendomi in documenti interessantissimi ho riscoperto la mia famiglia. I miei antenati erano molto puntigliosi nel conservare tutte le carte e così man mano che le mie ricerche andavano avanti, al mio sguardo si apriva una saga epica i cui limiti temporali si proiettavano oltre il settecento e di cui anch’io ho sentito di essere uno dei protagonisti. Un materiale così affascinante non poteva che suscitare una forte ispirazione e così ho cominciato a scrivere la storia famigliare. La prima versione è stata pubblicata nel secondo numero di quest’anno della rivista Italiani Europei. Non voglio parlare ora di questo mio scritto che potrete leggere. Vorrei solo sottolineare un aspetto originale del mio saggio: ho fatto uscire dall’ombra la figura di mia nonna perche in tutte le biografie di Gramsci il personaggio di Giulia rimane sempre sfocato a causa di una carente conoscenza della sua vita e una interpretazione non veritiera, a mio parere, di alcuni tratti della sua personalità.
Poco tempo fa ho trovato una raccolta di brutte coppie delle lettere che Giulia ha mandato ad Antonio, la maggior parte delle quali è sconosciuta. Queste lettere anche se non sono tante come nel caso del carteggio di Tatiana, sono particolarmente importanti perche sembra che a tutte quante mio nonno abbia risposto. Così le lettere di Antonio Gramsci a Giulia alcune delle quali sono molto famose acquistano una nuova risonanza e permettono di capire meglio la sua personalità e il suo pensiero.
È molto curiosa una delle prime lettere, forse addirittura la prima, dove lei lo chiama «professore». Giulia è ancora molto indecisa, vuole essere brava nella scrittura e spiritosa. Stende ben tre brutte copie prima di scrivere la lettera che purtroppo non si è conservata.
«Professore, ho “trovato il sole” oggi. Da quando sono ritornata ad Ivanovo fa un tempo brutto, grigio... Dieci giorni!... Mi sono anche trovata alla conferenza provinciale della gioventù comunista (nel paese delle mummie vivono dei giovani).
Che cosa ho fatto altro? Niente. Lei avrà lavorato oggi... Al Comintern, su un articolo, o a Serebjanyi Bor ad una ruota? Sarei contenta di vedere come, per costante eroismo del coltello e del compagno Gramsci, scricchiolano due ruote coi raggi... uniche al mondo, da quando e’ mondo e crollano stati borghesi...». Un altro documento testimonia la prima lezione politica che ha ricevuto Giulia, la giovane bolscevica dal dirigente comunista italiano. «Lui» (Antonio Gramsci) dice: «Nella società convivono contemporaneamente elementi giovani, maturi e vecchi e conformemente a questa convivenza noi vediamo in essa partiti radicali, liberali, conservatori e assolutisti. Con ciò predominano quelli i quali s’avvicinano di più al carattere e al temperamento del popolo. L’esistenza di tutti questi partiti è inevitabile; la vita dello stato deve seguire la risultante delle forze da essi sviluppate ed il politico ragionevole anche lottando contro di essi non deve mai cercare di annientare assolutamente qualcuno di essi perche una tale meta è inaccessibile e la sua realizzazione non può che ricacciare la malattia nell’interno dell’organismo... La scienza borghese non dà una giusta definizione della parola “partito”». Poi ci sono bellissime lettere degli anni 23-25, il periodo piu felice per la coppia e quelle struggenti e malinconiche del periodo carcerario dove Giulia descriveva minuziosamente le vicende della famiglia e i progressi dei bambini. Ne cito alcune.
11.04.24
«Oggi sento che il mio amore non è più quello di una bambina la quale ha bisogno di una mano che le accarezzi gli occhi per nasconderle il mondo grande e terribile e farle dimenticare le sue angosce, perche questa mano mi dà coraggio e coscienza per vincerle».
10.02.25
«Ho saputo che i giorni sono nuovamente diventati delle settimane... perdo il senso della realtà, so che avrò delle forze sufficienti per aspettare, per vivere, per lavorare, ma ho bisogno di gioia...».
15.03.34
«Giuliano dice che quando sarà grande, diventa giardiniere ed io sarò sempre sua mamma e vivrò insieme con lui, coi suoi fiori e le sue mele... Qualche giorno fa abbiamo comprato con lui un giacinto e lui lo portava, tutto contento, a casa...
Antonio, quali fiori hai tu vicino, o forse anche nella camera? Scrivimi, ti abbraccio stretta, Giulia».
14.08.35
«Delio poco prima di mezzanotte si è svegliato... mammina, che ora é?...sono quasi le cinque...dunque, ho undici anni! Giuliano, svegliati, tieni! E le mele, i confetti volavano».
27.09.35
«So che sono cambiata, meno bambina... Lo sento quando ascolto la musica... Delio una sera ha messo una fotografia sotto il cuscino: “Forse lo vedrò nel sogno”. Cerca di trovare un contatto con te e tu gli dici sempre che fa male, va male... È molto sconfortato... Tu gli sembri un’autorità».
14.01.37
«Giuliano era contento di avere una lettera, voleva mandarti un regalo, scrivere... Ma quando gli hanno detto che tu vuoi sapere che cosa egli sa fare, ha sospirato e disse: “Non mi piace fare cose serie”...».
L’altro ritrovamento interessante, anche se di minore portata, sono le lettere di mio padre Giuliano a mio nonno Antonio, che pure hanno avute risposte.
Tutte queste lettere ed anche altri documenti importanti tra cui le bellissime memorie di Eugenia Schucht sui rapporti della famiglia con Lenin faranno parte dell’appendice del libro che avrà il titolo La Russia di Gramsci. L’album famigliare degli Schucht. Lo sto scrivendo insieme al direttore della Fondazione Gramsci professore Silvio Pons e spero sarà pubblicato all’inizio del prossimo anno.

Repubblica 18.10.07
Scontro sulle parole di Jim Watson, lo scopritore del Dna
"Neri meno intelligenti" Provocazione-choc di un Nobel
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza


È sempre triste scoprire che un uomo con un curriculum splendido ha delle pecche anche gravi. Jim Watson ha dato alcuni contributi di estrema importanza alla scienza del secolo scorso. Il più straordinario è stato la scoperta della struttura del Dna, cui è giunto lavorando in tandem con un collega fisico, Francis Crick, che aveva le conoscenze di matematica e fisica che a Jim mancavano.
Ma anche Jim ha portato idee essenziali: non gli mancano certo né l´intelligenza né l´inventiva, e lo ha dimostrato lanciandosi con grande coraggio, giovanissimo, in questa impresa così ambiziosa, cui allora credettero in pochi. Gli è andata bene, e fra l´altro è ben raro nella storia della scienza che la prima ipotesi proposta per risolvere un problema così difficile abbia un successo così rapido e completo.
È giusto considerare la scoperta della struttura del DNA come la più importante compiuta finora dalla biologia, perché spiega che cosa è la vita e ha posto le basi per capire tutto il resto. Era stata però preceduta da un esperimento fondamentale compiuto dieci anni prima, che mostrava che è il DNA, e non le proteine come molti pensavano, la base chimica dell´eredità biologica.
Può sembrare strano, ma ben poco dell´altro lavoro scientifico di Jim è di valore anche solo lontanamente paragonabile. Il più anziano di noi ne ha esperienza diretta, perché due anni prima del famoso lavoro con Francis Crick, Jim venne a trovarlo e passò a Milano tre giorni per farsi raccontare del lavoro che Luca stava compiendo sulla genetica del Bacterium coli, che restò a lungo il batterio più studiato dai genetisti. Jim visitò anche un altro ricercatore, Bill Hayes, che pure se ne occupava, e dopo essersi fatto raccontare tutte le ricerche in corso scrisse un lavoro che avrebbe dovuto essere firmato da lui, Hayes e Cavalli-Sforza, in cui si affermava che questo batterio doveva avere tre cromosomi. L´ipotesi era chiaramente sbagliata, ma Watson non fu convinto dalle obiezioni di Luca e pubblicò l´articolo con il solo Hayes. Tre anni dopo altri ricercatori francesi dimostrarono, con un metodo molto originale, che il coli ha un solo cromosoma, di forma circolare, un´affermazione che non è più stata messa in dubbio in cinquant´anni.
Non c´è dubbio che la collaborazione di Crick abbia avuto una parte notevole nella scoperta della doppia elica. Lo dimostra anche lo straordinario contributo che Crick diede in seguito alla scoperta del codice genetico. Ma tutto il progetto partì da Watson, e la posizione del suo nome in ordine anti-alfabetico, quando si parla del lavoro di Watson e Crick, riflette il contributo relativo (benché abbia generato l´acronimo WC, su cui però non sono mai stati fatti scherzi poco lusinghieri).
È giusto dire che Watson ha dato molti altri contributi importanti alla scienza. Ha scritto un magnifico libro di testo della nuova biologia, intitolato Biologia Molecolare del Gene. Ha portato ad un livello altissimo un laboratorio di ricerca biologica vicino a New York, dimostrandosi un eccellente amministratore. Ha avviato il progetto di scansione del genoma, alla cui direzione ha poi rinunciato per differenze di vedute con la direttrice della Sanità americana: ma forse il progetto avrebbe camminato più speditamente se avesse continuato lui a dirigerlo. In Italia, ove almeno da Croce in poi conta più la letteratura che la scienza, molti ricorderanno il suo La doppia elica, che ha un notevole valore letterario, oltre che storico. Il libro gli costò il titolo di "Honest Jim", perché espose senza ipocrisie una certa sua aggressività nell´impadronirsi di informazioni sul lavoro dei colleghi, importanti per la sua ricerca.
È anche giusto dire che in molte sue affermazioni pubbliche è un po´ "pazzerello". Un collega americano, persona particolarmente mite e gentile, che lo conosce bene, lo ha definito, con una classica espressione inglese, un "loose cannon": un cannone che si è sciolto dalle funi che lo fissano alla tolda di un veliero in tempesta e va a sbattere da tutte le parti.
In più occasioni Jim si è espresso in modi quanto mai provocatori. Ora che si è convinto che presto sapremo tutto sull´intelligenza in base al DNA di un individuo, e che è deciso a render pubblico il suo genoma, forse potremo scoprire da dove vengono queste sue debolezze. Ma secondo voci nell´ambiente preferirà tenere segreta una parte della sua personalità, che potrebbe avere una base genetica, perché stavolta il suo gusto per la provocazione lo ha portato a compiere un atto di grave insensibilità sociale, appoggiando un pregiudizio che è stato dimostrato erroneo ma che purtroppo è ancora abbastanza diffuso. Usando la sua influenza per diffondere un´idea sbagliata potrebbe danneggiare centinaia di milioni di persone.
Jim avrebbe dovuto rendersi conto che non ha le conoscenze scientifiche per fare affermazioni di questo genere. Non bisogna pensare che gli scienziati abbiano sempre ragione, semplicemente perché la scienza è ricerca della verità. Al contrario, nello sforzo che porta alla verità scientifica si commettono parecchi errori. Purtroppo vi sono anche esempi classici di scienziati gretti ed egoisti, come Newton. Non è certo il caso di una persona gentile come Jim, ma forse, preso dal gusto della provocazione, non si è reso conto dell´impatto che possono avere le sue parole.

Repubblica 18.10.07
"Una brutta strada"
Il sindacato agli organizzatori: niente simboli.
Cremaschi e il Pdci: limiti inaccettabili al dissenso

"Al corteo niente bandiere della Cgil" scontro tra sinistra radicale e Epifani
Una circolare a pochi giorni dalla manifestazione del 20 contro la precarietà
di Francesco Mimmo


ROMA - E´ guerra di loghi e bandiere dentro la Cgil. E in vista della manifestazione contro il protocollo welfare sale la tensione dentro il primo sindacato italiano. A scatenare la polemica tra i vertici e l´ala sinistra dell´organizzazione è stata una circolare diffusa il 15 ottobre che sostanzialmente, appellandosi al regolamento, vieta l´uso del logo Cgil durante il corteo organizzato dalla sinistra radicale per sabato prossimo. Una manifestazione che il segretario Cgil Guglielmo Epifani ha definito più volte incomprensibile chiedendone anche l´annullamento dopo il referendum dei lavoratori.
Ma se la Cgil non partecipa, alla manifestazione ci saranno invece "Rete 28 aprile" e "Lavoro e Società" - due aree programmatiche della Cgil - e molti esponenti della Fiom a titolo personale (come il segretario delle tute blu Gianni Rinaldini). E proprio sul ruolo delle aree programmatiche che si è scatenata la bufera. «Negli ultimi tempi - si legge nella circolare - ci sono stati segnalati casi di un uso non corretto dei simboli della nostra organizzazione. Nelle delibere regolamentari si afferma che l´uso dei loghi e dei simboli delle strutture è consentito esclusivamente alle segreterie delle strutture stesse e che non è consentito l´utilizzo di simboli di riconoscimento delle aree programmatiche. Pertanto non è consentito utilizzare a qualsiasi titolo simboli di aree programmatiche dentro e fuori della nostra organizzazione. Non è consentito l´utilizzo del logo della nostra organizzazione con l´aggiunta del nome dell´area programmatica per qualsiasi uso. In particolare non si possono usare loghi di area programmatica nelle comunicazioni utilizzando carta intestata, o striscioni, bandiere, pettorine, ecc.». Un messaggio chiaro agli organizzatori della manifestazione: niente bandiere o loghi Cgil (nulla vieta naturalmente al singolo manifestante di portare una bandiera Cgil), ma neanche delle aree programmatiche perché a rigore non sono "strutture" del sindacato. Questo dice la circolare che diffusa a soli cinque giorni dalla manifestazione ha fatto infuriare i rappresentanti delle aree programmatiche. «Sono limiti inaccettabili - secondo Giorgio Cremaschi di Rete 28 Aprile e membro della segreteria Fiom - ci siamo sempre comportati nel pieno rispetto dello statuto che garantisce libertà e pubblicità di dissenso». E si fa sentire anche Lavoro e Società: «Un fatto grave e in contrasto con la storia Cgil che si è strutturata per aree programmatiche dopo la fine delle componenti di partito».
Dure reazioni anche dagli esponenti della sinistra radicale. «Non ho parole - afferma Manuela Palermi capogruppo del Pdci al Senato - sono stata 20 anni in Cgil e non ho mai visto nulla di simile. Alla manifestazione di sabato ci saranno molte bandiere Cgil e sarà un atto del tutto legittimo perché quel simbolo appartiene ai lavoratori. La Cgil abbandoni atteggiamenti che rischiano di rivoltarsi contro gli stessi lavoratori, come in passato hanno saputo fare grandi dirigenti come Novella, Lama e Trentin».

il manifesto 18.10.07
Un partito di democristiana memoria
di Nicola Tranfaglia


Poco importa che ci siano state alcune irregolarità o lacune nell'organizzazione e nei conteggi del voto di domenica per l'elezione del candidato-segretario del Partito democratico. I risultati delle primarie hanno confermato comunque la grande popolarità di Veltroni come leader e hanno mostrato una grande voglia di partecipazione da parte degli italiani che si riconoscono nel centro-sinistra. Peccato che quello nato dalle consultazioni delle masse sia soltanto un partito di centro. Lo dimostrano, in primo luogo, le dichiarazioni del neo-segretario che ha chiarito, assai prima di domenica, le sue intenzioni e la sua visione del mondo. Ha detto più volte che le forze di sinistra, attualmente collocate nel governo Prodi,non sono alleati ma forze negative da isolare e escludere nei prossimi scontri elettorali. Ha, inoltre, cercato di cooptare nel prossimo gruppo dirigente personaggi che hanno collaborato in posizioni di rilievo nel centro-destra come il sottosegretario alla presidenza Gianni Letta e addirittura Veronica Lario, attuale consorte del Cavaliere. Più significativa ancora, negli ultimi anni, è stata la sua opera di sindaco della capitale. Una forsennata privatizzazione delle aziende municipali e un'alleanza di fatto con i «poteri forti» e con gli uomini che li rappresentano. E una modernità fatta di apparenza e di buonismo a ogni costo, all'insegna della propria carriera personale, fino a prospettare la fuga in Africa dopo la fine dell'incarico di sindaco della capitale. C'è, persino, da immaginare che Veltroni avesse, con il suo innegabile intuito, prefigurato la sua designazione a futuro primo ministro da un partito che aveva già consumato, con assai scarso successo Piero Fassino e Massimo D'Alema. Vero è che l'approdo del partito democratico e cristiano rappresenta l'approdo finale, per certi aspetti inevitabile, di un gruppo dirigente che, dopo la svolta dell'89, è andato alla ricerca, per troppi anni e infruttuosamente, di qualcosa che sostituisse il trionfale superamento del Pci e il rifiuto crescente di un nuovo socialismo, italiano e europeo. Quel gruppo dirigente, rimasto in gran parte immutato nella compagine dei Ds, ha delegato per un decennio abbondante la propria rappresentanza a un ex democristiano, Romano Prodi, ma poi, assaporando il potere di governare nel quinquennio 1996-2001, ha cercato a ogni costo di diventare il nuovo partito centrista di governo. E quale miglior strumento poteva esserci di quello di unirsi agli ex democristiani rimasti all'interno del centro-sinistra accettando, nello stesso tempo, di retrocedere sul valore della laicità, pur di essere accettati dall'establishment moderato, a cominciare dalla Chiesa cattolica e dalla grande finanza? Questo è avvenuto, come dimostrano i grandi giornali e la televisione pubblica, che da settimane inneggiano a Veltroni e al partito democristiano

Corriere della Sera 18.10.07
Nel nuovo libro, «Oltrepassare», il filosofo lancia l'ultima provocazione: la morte non esiste
Il Paradiso non c'è, ma siamo destinati alla felicità
Emanuele Severino disegna uno scenario ultraterreno alternativo a ogni fede
di Armando Torno


Che cosa angoscia l'uomo da sempre? La risposta è semplice: la morte. Lo sapevano già egizi, babilonesi ed ebrei, lo compresero magnificamente i greci, a Roma Lucrezio spiegò le conseguenze mondane e religiose di questa paura. Ma forse tali caratteristiche le ebbe (le ha) quella morte che non lascia una possibilità di salvezza. Il nulla che ci avvolge, per dirla in parole semplici. Giacché siamo fatti della stessa sostanza di cui sono composti i sogni, e la nostra breve vita è circondata dal sonno: così, almeno, scrisse ne La Tempesta il sommo Shakespeare.
Emanuele Severino ha mostrato in Gloria (Adelphi, 2001) come la salvezza da questo concreto nulla non sia una semplice possibilità ma una vera e propria necessità, perché «l'uomo è atteso dalla terra che salva». In altri termini, anche se non lo sa o non se ne accorge o non ci crede, ognuno di noi è in cammino verso un immenso che non immagina. E ora il discorso, che si dipana attraverso scenari a dir poco sconvolgenti, è affrontato da Severino in un'altra opera, che esce in questi giorni e alla quale ha lavorato negli ultimi anni: Oltrepassare
(Adelphi). In essa un messaggio forte e sintetico colpisce il lettore: noi siamo destinati alla felicità, per necessità e non come premio. E la vita eterna non è quella di cui parlano le religioni.
Per talune tematiche il libro è, rispetto a Gloria, «rischiaramento e sviluppo», il medesimo autore lo considera come la seconda parte e la naturale conclusione (p. 30); tuttavia in questa nuova opera si mostra come «la terra che salva» sia «infinitamente più ampia, cioè più salvatrice». Non soltanto: in Oltrepassare il senso autentico del divenire rivela una «complessità che in Gloria non viene ancora indicata». Insomma, pagine ricchissime di spunti, da meditare, che portano alle estreme conclusioni quel discorso che il maestro italiano avviò nel 1958 con La struttura originaria.
Severino ha filosofato partendo dalle istanze iniziali del pensiero occidentale e ha sempre tenuto presente il principio di non contraddizione insegnato da Aristotele. Anzi, egli ha via via indicato i punti deboli di molti edifici abitati dal nostro sapere. In un colloquio ci ha fatto notare che all'alba della sapienza greca si è cercato un linguaggio che non potesse essere smentito né dagli uomini né dagli dei, meno che mai da variazioni epocali o catastrofi o da qualsiasi innovazione dell'anima. Eraclito di Efeso, sei secoli prima della nostra era, raccomandava di non ascoltare lui ma il Logos, vale a dire qualcosa da cercarsi oltre le opinioni. Severino ha sempre percorso tale via sino a giungere a Oltrepassare: con questa opera apre scenari che parlano di «attesa e gloria della gioia», invitando il lettore in quella costellazione dove «l'essenza dell'uomo, che ora è contesa dal destino e dalla terra morta, è destinata alla più ampia arcata d'immenso». La domanda che ha accompagnato la sua instancabile ricerca — che cosa si apre al di là della contraddizione? — ora trova requie in una risposta che si confonde con il nostro sorriso.
Detto in soldoni, a noi sembra che il messaggio di Oltrepassare sia la conferma per il pensiero di Severino che «l'estrema delle follie», vale a dire la persuasione che le cose e l'uomo «sporgano provvisoriamente dal nulla», rappresenti il più terribile degli equivoci. Ci confida: «La gran ventura è rendersi conto che c'è un sapere non smentibile, più radicale di quello scientifico, che afferma l'eternità di ogni cosa, situazione, stato del mondo». Tale sapere è il «destino». Qualcuno ha trovato una corrispondenza tra codesti temi e la teoria della relatività, per la quale tutte le cose— le passate e le future, non meno delle presenti— sono fotogrammi che esistono già, eterni, prima dello loro proiezione. Ma questa metafora deve essere abbandonata, giacché ci può aiutare ma non ci consente di entrare nell'ultima fase rappresentata in Oltrepassare.
Si può essere d'accordo o no con Severino, comunque gli va riconosciuta una coerenza estrema nel linguaggio e nel metodo. Gli abbiamo chiesto di sintetizzare il suo percorso, in modo da offrirlo senza equivoci al lettore. Ha risposto: «Ne La Gloria si mostra che l'ombra della Notte, cioè della follia, da cui "il destino" è nascosto, è qualcosa che tramonterà ed è necessariamente "oltrepassata": con essa finiranno anche le opere, le civiltà e le epoche ad essa appartenenti. Si fa innanzi il Giorno che salva dalla Notte. In Oltrepassare si mostra che il Giorno è lo stesso apparire in noi della totalità infinita e concreta dell'essere ».
Parlare con Severino è una continua sorpresa. Mentre risponde, alcune sue frasi si ficcano come spilli nella memoria. Inoltre Oltrepassare conduce in scenari a dir poco affascinanti, per i quali vale la seguente regola: «Il linguaggio che testimonia il destino della verità indica qualcosa che sta al di là di ogni sapienza dei mortali». Attraverso queste pagine si comprende come «il cambiamento — il divenire — non può essere la creazione e l'annientamento delle cose, che sono eterne »; anzi ogni mutare si dovrebbe intendere come «il sopraggiungere mai compiuto degli eterni nell'eterna luce dell'uomo». Di più, ribadisce nel nostro colloquio, sillabando: «Nel sopraggiungere gli eterni sono oltrepassati e insieme totalmente conservati. Tutta questa nostra vita è destinata a essere oltrepassata e conservata in ognuno di noi».
Chi scrive, più semplicemente, rivede in Oltrepassare un foglietto volante inserito nella dispensa dell'Università Cattolica di Ritornare a Parmenide.
In esso le ultime righe — che poi non saranno riprese ne L'essenza del nichilismo — recitavano: «Tutte le vite che vivo, le vivo eternamente; tutto ciò che ho deciso o decido, l'ho già eternamente deciso...». Ora ci accorgiamo che quelle parole erano l'inizio di un'odissea alla ricerca di quanto si svela in questo ultimo libro, nel quale, tra l'altro, Severino affronta il tema dello «smembramento del Dio», atto essenziale perché «se ne mangino le carni e se ne beva il sangue». Ma qui il discorso si fa ampio: occorre evocare il mito, comprendere la violenza e l'isolamento delle cose, il loro divenire altro.
Accanto a questi e a ulteriori scenari, troverete alcune commoventi riflessioni sulla nostra fine. Con una conclusione che in molti giudicheranno paradossale: la morte, così come la intendiamo, non esiste. Ma non si tratta di un'affermazione assurda, se vista nella luce che si apre dopo il tramonto della follia attuale dell'uomo.

Corriere della Sera 18.10.07
La vita? Un'odissea tra violenza e amore
di Emanuele Severino


Solo lo smembramento del Dio consente che se ne mangino le carni e se ne beva il sangue. In questo modo, il mito afferma, con il proprio linguaggio, il tratto essenziale della volontà di avere potenza, cioè la fede nell'isolamento, nella separazione di ciò su cui si vuole esercitare la potenza. Agli occhi del mortale del mito, la potenza (divina) che genera e rigenera il mondo, e che per farlo ha bisogno di una materia essa stessa capace di servire alla potenza produttrice, cioè essa stessa potente, o «divina», può agire su tale materia solo se, tale materia, non si mantiene compatta, inflessibile e inalterabile, ma, all'opposto, si lascia alterare, flettere e separare da sé. E il mito intende appunto come smembramento del divino questa disponibilità della materia all'opera che la domina. Mangiando la potenza divina e sapendo di farlo, il mortale del mito — che nel proprio operare e soprattutto nel «sacrificio» ripete la generazione e la rigenerazione del mondo — crede che la potenza su cui opera la propria potenza, entrambe divine, debba daccapo rendersi disponibile e prestarsi alla volontà di potenza, crede cioè che per impadronirsene debba mangiarla e quindi smembrarla e squartarla.
Smembramento e squartamento sono le immagini in cui si presenta il reciproco isolamento delle cose del mondo, in quanto condizione essenziale dell'agire. Ma sono immagini che mostrano direttamente la violenza e il dolore che ogni agire porta con sé, in quanto ogni agire è un divenir altro.
La specializzazione scientifica — cioè la separazione metodica di un campo particolare di indagine dalle altre dimensioni del mondo — è solo l'ultima forma, nella storia dell'Occidente, della violenza e dell'isolamento delle cose, essenzialmente richiesto dal loro divenir altro. Ma anche al più puro atto d'amore compete questa violenza isolante (che nella specializzazione scientifica e nel «frammento» in cui consiste l'opera d'arte nel tempo presente tende a rendersi esplicita, mentre nell'amore tende a nascondersi). Più volte, nei miei scritti, si richiama la coappartenenza che il linguaggio esprime con la similarità etimologica tra il decidere ( de-caedere,
«decidere») e l'uccidere ( ob-caedere), dove il caedere è appunto il colpire staccando ciò che era unito, ma che era anche disposto (ossia lo si creda disposto) a lasciarsi separare, e smembrare. Volontà di vivere, volontà di potenza, volontà di divenir altro, fede nell'isolamento delle cose sono essenzialmente connessi.

Liberazione 18.10.07
Intervista al segretario di Rifondazione comunista alla vigilia della manifestazione di Roma
Giordano: «Il 20 ottobre giorno decisivo per una sinistra che non si accontenta»
di Piero Sansonetti


Franco Giordano sta pensando al futuro della sinistra, alla necessità di unità, a come la situazione politica è stata modificata dal referendum sindacale e poi dalle primarie del Pd

Franco Giordano sta pensando al futuro della sinistra, alla necessità di unità, a come la situazione politica è stata modificata dal referendum sindacale e poi dalle primarie del Pd. Ha molte idee a riguardo, e anche molte preoccupazioni. Ma oggi, per essere sinceri, pensa a una cosa sola: al 20 ottobre. Cioè alla manifestazione organizzata dalla sinistra - indetta in agosto da Liberazione , dal manifesto , da Carta e da una quindicina di intellettuali, e alla quale Rifondazione ha aderito immediatamente - per dare una scossa al governo Prodi, cioè per chiedergli di fare qualcosa di sinistra, come diceva, tanti anni fa - abbastanza inutilmente - Nanni Moretti.
«Sì - dice Giordano - la manifestazione di sabato prossimo è un passaggio importante e decisivo. In questi ultimi giorni dobbiamo fare un grande sforzo di mobilitazione. Perché dopo la prova democratica del referendum, dopo il pieno di partecipazione alle primarie del Pd, c'è bisogno di mettere in campo la forza, la visibilità del popolo di sinistra. La manifestazione del 20 ottobre ha l'obiettivo di scuotere il governo Prodi, ma io credo che ripronga il problema di una soggettività di sinistra. Che nasca su grandi questioni sociali, economiche e civili. C'è un popolo di sinistra, esiste, e oggi chiede cambiamenti reali, forti nella politica del governo, ed è rimasto fortemente deluso da questo primo anno di governo di centrosinistra».

Guglielmo Epifani ha detto che sarà una manifestazione sostanzialmente inutile e semplicemente identitaria. Cioè che servirà soltanto a ribadire una vecchia identità della sinistra.
Noi aderiamo al 20 con spirito unitario. Non è una manifestazione identitaria, come ha detto Epifani. Ho trovato fuori luogo, francamente, le parole di Epifani che oltretutto ha chiesto agli organizzatori del 20 ottobre di fare un passo indietro. Però quelle parole segnalano un problema

Quale?
Il Partito democratico tende a voler esaurire la dialettica politica in se stesso. Cioè su un terreno separato della politica. Vuole essere tutto. Vuole essere un contenitore che assorbe l'intera politica e annulla o emargina tutto quello che sta fuori da sé. E sceglie per sé una forma di politica per definizione disancorata dai riferimenti sociali, per esempio del lavoro dipendente...

Una politica equidistante tra impresa e lavoro?
Non è esattamente così. Il Pd, secondo me, ha culturalmente introiettato la filosofia dell'impresa. Mette al centro del processo democratico e popolare la figura generica del cittadino consumatore, non del lavoratore. E questa è una centralità che sta perfettamente dentro la diarchia produzione-consumo. Dentro quella diarchia non puoi essere equidistante, perché tra produzione e consumo - e quindi tra impresa e cittadino - c'è necessariamente una relazione di dipendenza, di superiorità della produzione. E allora non c'è più equidistanza, ma l'impresa, e le sue ragioni, e le necessità della competitività, vengono prima di tutto.

Che c'entra Epifani?
Te lo spiego. Questo disancoraggio sociale della politica, questa rottura della vecchia rappresentatività, come viene colmata? Viene colmata da una forma di rappresentanza sociale del lavoro, in chiave moderata ed istituzionalizzata, dal movimento sindacale. E il movimento sindacale entra a far parte di questo sistema, di questa modalità di riorganizzazione totale della politica e del potere. Si creano nuovi equilibri politici e sociali che tendono a pretendere per sé la rappresentanza del tutto. Capisci? Cioè loro dicono: bastiamo noi. Rappresentiamo la maggioranza del mondo del lavoro, rappresentiamo i consumatori, l'impresa, il potere, la politica… E allora a che serve una soggettività di sinistra autonoma? A niente, è solo fastidiosa. Una sinistra che rappresenti non solo socialmente ma anche politicamente il lavoro, viene considerata un ostacolo a quel modello. Che è un modello americano che punta a creare passività e usare la passività come fonte del consenso.

E noi che dobbiamo fare per evitare che ci stritolino?
Noi dobbiamo affrontare la crisi della politica. Cioè l'inefficacia della politica. Impotente di fronte alle grandi scelte economiche e sociali, che sono state delegate al capitale globalizzato. Ripristinare una centralità della politica significa porre al centro della politica la questione del modello, di quale società, di come si riforma la società e non di come si rende più funzionale alle esigenze di crescita del capitale. Vedi, io sono convinto che oggi la crisi della politica tende a coincidere con la crisi della sinistra. E' un affare nostro. E se noi con ci troviamo un varco, non realizziamo l'aggregazione di una massa critica e se non riusciamo a porre il problema della trasformazione di questo stato di cose - oggi, concretamente, qui: non in una prospettiva lontana e incomprensibile… - allora non c'è via d‘uscita: declina la sinistra, e allora declina la politica, si rinsecchisce e rischia di perdersi la democrazia.

Assegni grandi responsabilità sul 20 ottobre?
Si, il 20 ottobre è decisivo. E' una porta attraverso la quale bisogna passare. Apre una prospettiva. Quale? Quella di rendere possibile la trasformazione in Italia e in Europa. Lanciare una sfida strategica. Ricostruire una cultura anticapitalistica che però esiste solo se lascia un segno, se ha una sua dimensione di massa. Sennò è travolta.
Il 20 ottobre è una tappa. Serve anche ad esprimere una soggettività, mettere insieme le vertenze, le anime, rompere le solitudini e - come spesso dice Marco Revelli - determina un elemento di riconoscimento collettivo di un popolo, e chiede una alternativa di politica economica.

E dopo il 20 ottobre?
Immediatamente dopo questa manifestazione, e sulla spinta di questa manifestazione, io immagino un progetto accelerato del soggetto unitario della sinistra. Ho avanzato una proposta che è quella di realizzare una Costituente della sinistra sul modello del forum sociale. Quel tipo di modalità è l'unico elemento davvero innovativo, alternativa al modello americano. Entro l'anno deve partire questo processo costituente della sinistra. Io propongo di mobilitare non solo i soggetti politici organizzati, ma tutti quelli che si sentono orfani di una sinistra antiliberista, pacifista, femminista e laica. Penso alla marcia Perugia-Assisi e alle lotte comunitarie (No Tav, Vicenza, Scanzano, Melfi…).

Come immagini questa sinistra?
Deve garantire la ricostruzione di un punto di vista autonomo della trasformazione della società. Non può essere una aggregazione di varie forze comuniste. Per carità. deve comprendere tutte le anime: le femministe, i pacifisti, gli ecologisti il movimento degli omosessuali. Ma non semplicemente per allargare, per essere di più: perché non può esistere una forza di trasformazione senza questi punti di vista, questi pensieri. Non ci può essere nessuna nostalgia per l'unità comunista. Però c'è un secondo rischio da evitare: il nuovo soggetto non può essere nemmeno la proiezione politica della rappresentanza sociale del sindacato. L'autonomia deve essere piena. L'autonomia sindacale va rispettata, ma non delego al sindacato la rappresentanza politica del mondo del lavoro. Vedi, dal referendum emerge un malessere molto forte da alcuni settori. Per esempio dal lavoro operaio. Ho trovato davvero sgradevoli le logiche da tifo che hanno prevalso in una parte dei vertici sindacali. E' una follia non guardare al disagio operaio: che nasce dall'organizzazione del lavoro, dai ritmi più intensi, dagli orari, dalle retribuzioni bassissime, dalle forme sempre più ristrette di libertà e di democrazia in fabbrica. Quando sono stato davanti ai cancelli di Mirafiori, questo mi dicevano tutti: «c'è un modello autoritario dentro quella fabbrica, e la nostra dignità è calpestata. Lì dentro siamo annullati...»
Come fa un soggetto di sinistra a non cogliere questi elementi di disagio e a non intervenire? Può contentarsi della prevalenza aritmetica dei sì? Può non andare a guardare cosa c'è in quei sì, quanto rappresentano una concretezza di chi dice: «Dopo tutte le sconfitte degli anni scorsi, meglio contentarsi…»
Mi hanno impressionato le logiche trionfalistiche di alcuni settori sindacali

Cosa mi dici sul famoso protocollo pensioni-welfare, che ieri sera è stato di nuovo in parte modificato dal Consiglio dei Ministri?
Ho ancora notizie un po' vaghe. Credo di avere capito che è stata accolta una nostra richiesta, quella di rendere effettiva e certa la misura che garantisce a tutti, anche ai giovani precari, una pensione non inferiore al 60 per cento dell'uiltimo stipendio. Mi sembra invece che sia stato ancora peggiorato, su pressione della Confindustria, la parte del provvedimento che riguarda i contratti a termine. Noi ora faremo la nostra battaglia in Parlamento, per migliorare il testo della legge. Così come faremo la battaglia sulla questione, grandissima, dei salari. Non c'è dubbio che in Italia ci sia una gigantesca questione salariale. Dopo che Confindustria ha ottenuto la più grande quantità di risorse mai avuta dal dopoguerra in un periodo così breve di tempo, ora bisogna aumentare i salari. Come? O con la restituzione del fiscal-drag o con la detassazione degli aumenti salariali. Dove si trovano i soldi? Tassando le rendite al 20 per cento, cioè ancora al di sotto della media europea. Questi sarebbe segnali di giustizia. E servirebbero anche a ribadire la centralità del contratto collettivo di lavoro. Per noi sono due cose importantissime. Noi vogliamo che sia interrotta la tendenza a svalorizzare il lavoro. Nel secolo scorso il lavoro era al centro di tutti gli interessi politici. Persino nella cultura liberale aveva acquistato un ruolo privilegiato. Ora la corsa è inversa: si sta realizzando una situazione nella quale ormai nessun diritto è più al sicuro. Sono tutti variabili dipendenti del profitto e delle esigenze della competizione. E questa idea non è più contrastata. Il conflitto capitale-lavoro è cancellato, il lavoro diventa una parte del capitale. Tu capisci che una vera sinistra non esiste dentro questo recinto.

La nascita del partito democratico non segna la fine del riformismo? Oggi la parola riformismo viene usata come sinonimo della parola "moderato". C'è una specie di rovesciamento linguistico. La parola riforma - che nell'Ottocento e nel Novecento era quasi un sinonimo di rivoluzione soft - ora è diventata un sinonimo di restaurazione soft…. Non è così?
Come no. Oggi un operaio se sente la "parola" riforma gli viene un brivido nella schiena. Si chiede: e io cosa ci perderò?...

E la nascita del Partito democratico non dà una spinta in questa direzione?
Diamanti, commentando le primarie del Pd, ha parlato di partecipazione rivendicativa. Cioè lui dice che alle primarie si è depositata non una attesa ma un elemento di criticità. Credo che abbia ragione. Noi che dobbiamo fare? Io non penso che sia una questione linguistica il fatto che il Partito democratico cancelli la parola sinistra dal suo vocabolario. Questo è anche l'effetto del fatto che la politica viene schiacciata in una prospettiva governativa. Una volta che tu hai deciso che la politica non può intervenire nei grandi processi economici e sociali, che quelli spettano all'impresa e al mercato globale, e che la politica è schiacciata a garantire questo meccanismo blindato, allora il riformismo sparisce. Noi dobbiamo farci carico di questo probelma. Dobbiamo creare un soggetto unitario che dia sponda alle aree politiche riformiste che si trovano senza rappresentanza e senza interlocutore. Sfidando su questo campo il Pd. E spiegando che se loro sono dentro l'imperativo categorico governista, noi non ci siamo. Noi pensiamo che il governo sia una variabile della politica ma non l'obiettivo. L'obiettivo della politica è riprendersi quelle competenze che il mercato le ha espropriato.

Liberazione 18.10.07
Rai, diretta e "finestre" per il corteo di sabato
di Alessandro Curzi


Senza nemmeno entrare nel merito politico, fondamentale, della manifestazione del 20 ottobre (welfare e precariato) e senza interferire ovviamente con l'autonomia dei direttori e della redazione, mi aspetto che la Rai riserva all'evento, sulle diverse piattaforme, dirette e "finestre" informative.
La politica italiana è certamente ad un punto di svolta e l'informazione, tutta l'informazione, fa bene a seguirla con dovizia di particolari e inchieste. Ma, in questo quadro, un ruolo specifico spetta al servizio pubblico, la cui informazione deve finalmente passare dalla stagione dei "panini" e della quotidiana, indecifrabile raffica di brevi dichiarazioni a quella di un'adeguata capacità di documentazione e di approfondimento.
La Rai non può mancare di dare il suo fondamentale apporto a questo importante momento di chiarimento e di ripartenza nel rapporto fra istituzioni e società. Perciò ritengo che farebbe bene a seguire con professionalità e la necessaria ampiezza manifestazioni come quella del 20 ottobre, così come ha fatto per eventi come la marcia Perugia-Assisi e per le cosiddette "primarie" del Pd e come avrebbe forse dovuto fare con la recente manifestazione di piazza organizzata da An.
In aggiunta agli appuntamenti tradizionali dell'informazione generalista, necessariamente stringata, gli spettatori/cittadini dovrebbero poter trovare nei palinsesti e sulle diverse piattaforme a disposizione del servizio pubblico spazi e dirette, per eventi che coinvolgano centinaia di migliaia quando non milioni di persone. Questo, peraltro, senza costi aggiuntivi, ma anzi evitando le attuali sovrapposizioni e sprechi, e utilizzando al massimo le capacità di sinergie fra le diverse piattaforme.

mercoledì 17 ottobre 2007

l’Unità 17.10.07
Prodi tra due fuochi, mediazione difficile
di Simone Collini


DA UNA PARTE LA SINISTRA radicale, che intima di non fare marcia indietro sulle modifiche approvate al Consiglio dei ministri della scorsa settimana. Dall’altra sindacati e Confindustria, che accusano il governo di aver cambiato in modo unilaterale l’ac-
cordo siglato il 23 luglio. E Romano Prodi nel mezzo, stretto tra due fuochi e per buona parte della giornata indeciso se convocare o meno un altro Consiglio dei ministri dedicato al protocollo sul welfare. Solo in serata prevale l’ipotesi di non fissare in agenda una riunione straordinaria: «Continuano gli approfondimenti tecnici», fanno sapere da Palazzo Chigi aggiungendo che «al momento» non sono previste riunioni di governo prima di martedì della prossima settimana.
Il premier domani parte per Lisbona e le proteste che si sono accese su fronti opposti sconsigliano di aprire un confronto sul welfare oggi, cioè tre giorni prima della manifestazione di sabato. La marcia indietro intimata da Confindustria e sindacati rispetto alle modifiche apportate al protocollo venerdì scorso ha fatto scattare in assetto da combattimento Rifondazione comunista, Pdci, Verdi e Sinistra democratica. Sono stati i «miglioramenti» approvati all’ultimo Consiglio dei ministri, rivendicano nella sinistra radicale, a far astenere invece che votare contro Paolo Ferrero e Alessandro Bianchi e a far dire «sì con riserva» ad Alfonso Pecoraro Scanio e Fabio Mussi. Che ora lancia un monito agli alleati: «Niente passi indietro sui miglioramenti introdotti sul lavoro a tempo determinato». Per questo Prodi ha messo a lavorare il personale tecnico del governo per trovare la quadratura del cerchio e contemporaneamente ha portato personalmente avanti i lavori di mediazione tra le parti. Ma a meno che non sia riuscito nella notte a blindare un accordo accettabile da ambo i lati, verrà confermato l’«al momento» di ieri sera e oggi non ci sarà nessun Consiglio dei ministri straordinario.
Tanto è vero che Palazzo Chigi ha chiesto un parere legale sulla possibilità di ritoccare il testo varato l’altra settimana senza un nuovo passaggio formale in Consiglio, per poi trasmetterlo al Quirinale e infine inviarlo alle Camere. Dove la sinistra radicale darà battaglia: «Noi abbiamo molto rispetto per le trattative in corso però il Parlamento è sovrano», manda a dire il capogruppo del Prc a Montecitorio Gennaro Migliore. Prodi registra e si guarda bene dall’accelerare i tempi. Sa che riunire oggi attorno al tavolo i ministri per discutere del protocollo sul welfare può essere rischioso, dato che siamo alla vigilia della manifestazione di sabato. Più conveniente per il premier, in mancanza di un accordo blindato, sarebbe invece aspettare di vedere che tipo di risposta ci sarà all’appello lanciato da Prc e Pdci.
Mussi e Pecoraro Scanio non parteciperanno al corteo, ma di fronte a una cancellazione dei «passi avanti» compiuti nel Consiglio dei ministri della scorsa settimana sarebbero messi in difficoltà di fronte al loro elettorato di riferimento. Così come Rifondazione e Comunisti italiani, che finora non hanno fatto altro che sottolineare il carattere non anti-governo della manifestazione, difficilmente potrebbero mantenersi su questa posizione di fronte a un esecutivo che cede a delle pressioni esterne. Rifondazione, consapevole che si sta mettendo nella pericolosa posizione di antagonista anche del sindacato oltre che di Confindustria, si è messa a sottolineare che la sua battaglia non è contrapposta a quella di Cgil, Cisl e Uil. «Il protocollo sul welfare deve essere migliorato e può essere migliorato con la disponibilità del movimento sindacale a guardare i punti di difficoltà», dice Giordano. Ma Paolo Nerozzi, segretario confederale della Cgil e sostenitore di Sd avverte circa l’appuntamento di sabato: «Speriamo che sia una manifestazione ordinata, importante, che vi siano centinaia di migliaia di persone e anche che non ci siano attacchi all’accordo e al sindacato».

l’Unità 17.10.07
Perché la Costituente della sinistra
di Gianfranco Pagliarulo


Le considerazioni di Gianni Zagato su l’Unità del 13 ottobre meritano qualche riflessione. La situazione italiana è quella da lui descritta: nel ristagno dell’economia prospera quella criminale o illegale o sommersa. Dentro di essa si scorgono crescenti povertà e diritti negati. Arrivando al nocciolo: c’è un enorme incremento delle diseguaglianze. Esso è il frutto devastante dell’impatto della globalizzazione su di una struttura produttiva come quella italiana, con una speciale, intrinseca storia di arretratezza.
Il risultato sono le vecchie (e nuove) povertà che affiancano le vecchie (e nuove) ricchezze, in un range di reddito incredibilmente allargato rispetto al passato, nello scenario di una cultura dominante ove deborda la propaganda del "ciascuno è imprenditore di se stesso" persino fra i più sfortunati, come alcuni lavoratori a tempo determinato dei call center. Attenzione: questa cultura è passata in parti più o meno consistenti del mondo dei lavoratori e dei giovani. Chi lo nega inganna se stesso. Ai ballottaggi delle amministrative parziali del 2007 in Lombardia su 23 comuni il centrosinistra ha vinto in due comuni. Prima erano 12. In Veneto ha vinto in tre su 14. Prima erano 7.
In questo scenario si sta estinguendo quella che è stata chiamata Seconda Repubblica e si sta avviando la fase successiva. La cosiddetta crisi della politica, cioè l’abissale distacco fra rappresentanti e rappresentati, è la testimonianza di tale estinzione, seppure la crisi va ben oltre la politica, e si può adattare a questa situazione la definizione di Gramsci di "crisi organica", quando il vecchio non c’è più e il nuovo non c’è ancora.
La primarie hanno visto protagonista un numero straordinario di cittadini. Perché destinarle all’elezione del segretario di un partito? Meglio sarebbe stato promuoverle su di un progetto, su di una idea. Ma tant’è. Più di tre milioni di persone hanno partecipato. Le primarie sono di poco state successive ad un altro evento: il referendum promosso da Cgil Cisl Uil.
Cosa sta succedendo? Alcuni sostengono che questo fenomeno di partecipazione popolare sia una reazione alla critica alla politica attuale rappresentata in particolare da Grillo e dai suoi seguaci. A me non pare: c’è una straordinaria domanda di partecipazione e di democrazia da parte dei cittadini. La politica nega una risposta a questa domanda, e perciò nega se stessa. Quando la consente, come nei casi in oggetto, si chiude virtuosamente il cerchio. Dunque organizzare partecipazione contribuisce a trovare vie di uscita dalla crisi della politica.
Sta nascendo qualcosa di nuovo, con due prodromi: le primarie per Prodi e il referendum a difesa della Costituzione del 1948. In entrambi i casi, straordinaria partecipazione popolare e, nel secondo, grande voglia di rilanciare la democrazia costituzionale. Il messaggio politico della nuova fase è più o meno questo: chi non cambia, non unisce, esclude, è destinato a non sopravvivere.
A sinistra qualcosa si muove. Ma c’è un freno: le "identità parziali". Penso alla "costituente socialista". Penso alle resistenze di appartenenza in una parte dell’area che si definisce comunista. Identità, com’è ovvio, che entrano in conflitto fra loro.
Che fare? Ciò che non serve è la somma frammentata dell’esistente. Una risposta insignificante rispetto alla dimensione della crisi italiana ed alla domanda che viene non dal "popolo di sinistra" (bisognerebbe ragionare sul significato di questa frase) ma dal popolo tout court, nella sua nomenclatura di ceti e classi, che è in sé il riferimento della sinistra. Occorre una sinistra che vuole governare per cambiare.
La sinistra italiana deve cancellare il sortilegio che, quando essa è all’opposizione, la condanna alla marginalità e, quando è al governo, ne evidenzia il respiro corto. Ciò che occorre costruire è un progetto, alto e realistico assieme, di governo della trasformazione. Non un’esercitazione di stile, limitata a un pugno di eletti o di specialisti, ma un processo incardinato sulla ricostruzione di un rapporto profondo col popolo del nostro Paese. Ma una sinistra unita e rinnovata, per governare, non può che allearsi col Partito democratico, contrastandone le derive, ma non dimenticando mai che è, appunto, un alleato imprescindibile.
Insomma, è bene tendere a costruire il "Paese nel Paese", secondo la metafora pasoliniana, ma a condizione che esso non diventi mai né il ghetto, né il ridotto degli ultimi giapponesi, né il paese di Fantàsia. Viceversa, la metafora può indicare la necessità di buone pratiche, di esempi di governo, di amministrazione e di partecipazione, di programmi e di progetti. Un laboratorio della costruzione del consenso.
Tutto ciò presuppone rompere, anzi, picconare, le incrostazioni propagandistiche che si sono sedimentate negli ultimi vent’anni. Cioè presuppone una grande battaglia culturale e politica per il rinnovamento. Ecco perché giustamente Zagato afferma che "il ricomporre passa prima dallo scomporre".
Oggi occorre una radicale discontinuità. Radicale, perché in caso contrario rimarrà una splendida sinistra, ma testimoniale. C’è una parola che indica azzeramento e rinascita politica o istituzionale e, assieme, istituisce una nuova sovranità. Si chiama Costituente. La Costituente è il luogo ove reinventarsi anche per comunicare con realtà sociali ed economiche nuove, ripartendo dalla grande maggioranza dei lavoratori e contrastando modernamente la diseguaglianza. Un luogo dove non ci si rassegna a cose rosse o socialiste, ma si apre a tutta la sinistra che ci sta (o che ci potrà stare), e dove su di un progetto e su di un radicamento popolare si costruisce una appartenenza nuova e comune. Proviamo?
Coordinatore nazionale associazione Sinistrarossoverde
del Comitato promotore nazionale di Sinistra Democratica


l’Unità 17.10.07
Dai vescovi apprezzamento per le primarie


La Chiesa, anche se non arriva a strizzare l’occhio al Partito democratico, non chiude le porte. Vede possibili spazi per l’ascolto dei valori di cui è portatrice. Intanto vi è quel «bene comune» del paese da ricercare. Sarà l’oggetto della 45a Settimana sociale dei cattolici italiani, che si apre domani a Pistoia e proseguirà a Pisa sino a domenica. «Valori condivisi nel pluralismo della presenza dei cattolici» ha sottolineato monsignor Arrigo Miglio, il vescovo di Ivrea, che ieri ha presentato l’iniziativa insieme all’economista Stefano Zamagni e al presidente emerito della Corte Costituzionale, Cesare Mirabelli. Il pluralismo politico e partitico dei cattolici è un dato acquisto, «un’opportunità». Quello che preoccupa il vescovo è un possibile «un pluralismo etico» che allontanerebbe ad «una visione della vita che non è più quella del Vangelo». I vescovi rispettano l’«amplissima» autonomia di scelta dei credenti in politica e nel sociale. E il Partito democratico? Intanto vi è il riconoscimento di monsignor Rino Fisichella per quei tre milioni e mezzo di votanti alle primarie: «Una risposta importante all’antipolitica». È però di crisi della democrazia rappresentativa che bisogna parlare, ha precisato Zamagni, visto che non lo è affatto quella «deliberativa», quella che chiama il cittadino a decidere: si tratti di un referendum o di una giuria civica». Così come è stato con le primarie. Miglio ha osservato come nel Partito democratico possono trovare spazio anche i valori e i principi dei cattolici, visto che vi sono esponenti cattolici che potrebbero avere un ruolo in questo senso. «Mi auguro - è il suo auspicio - che ciò avvenga, ma è una cosa che potrà essere verificata più avanti». «Sui principi non possiamo fare compromessi, poi certo bisogna trovare delle mediazioni per le soluzioni concrete del Paese».

l’Unità 17.10.07
Psicoanalisi. Lacan, il maestro che teneva insieme passione e logica
di Marco Dolcetta


«Io sono il divulgatore del pensiero dello psicologo Jacques Lacan, morto a Parigi nell’estate del 1980».
Chi parla con tanta sicurezza è Jacques-Alain Miller, fondatore dell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi, che quello di promuovere la pratica e lo studio della disciplina attraverso una modalità compatibile con l’insegnamento di Jacques Lacan.Miller è da tempo considerato l’erede del grande pensatore francese, unico a ribellarsi nel 1963 alle imposizioni della ultrapotente Ipa, la società degli analisti della famiglia freudiana, e che da allora in poi ha rivestito un importante ruolo di innovatore nel mondo della analisi.
«Ho conosciuto Lacan il 15 gennaio 1964, ero studente del filosofo Louis Althusser che lo invitò all’École Normale Superieure per tenere una conferenza sui quattro concetti fondamentali della psicoanalisi. Lacan era stato appena scomunicato dall’Ipa e cercava appoggi e consensi intellettuali a Parigi. Fu con l’appoggio di Laplanche e di Foucault che approdò alla mia scuola. Venni letteralmente affascinato da lui e diventai il suo delfino svolgendo delle relazioni sul suo pensiero anche dopo il secondo e terzo seminario, che si svolgeva annualmente, presso la mia Scuola. Lui commentò le mie relazioni amabilmente, soprattutto quelle sull’ontologia, il che mi diede un grande prestigio presso tutti gli intellettuali parigini, dato che lui era già un personaggio stimato ed alla moda. Fino ad allora avevo interessi per Sartre, Levi-Strauss, la linguistica, e la fenomenologia. Ricordo con piacere quei tempi. Poi c’è stato il ’68, il periodo della “furia francese”. Avevo risentito anch’io dell’esaltazione gauchista e le successive delusioni. Mi ero sposato con la figlia di Lacan e di Sylvie Bataille, la figlia dello scrittore. Mia moglie Edith era come me, studentessa di filosofia. Quando chiesi a Lacan, dopo il ’68, di poter andare in analisi da lui perché stavo male, non commise l’eresia di accettare, ma mi invitò a rivolgermi a un suo allievo. Lacan era contento che potessi dargli dei nipotini anziché entrare nella lotta armata. Ricordo che un giorno mi disse in privato: “Guarda che la rivolta attuale è come la Resistenza negli anni ’40, gira sempre intorno a se stessa, e si ritorna sempre all’inizio. Rivoluzione nel suo significato primario vuol dire proprio girare intorno”».
Lei afferma di essere stato folgorato da Lacan. Lui non lo ha mai deluso?
«No, non mi ha mai deluso. Può sembrare strano che io parli così. Per il suo principio logico lui aveva sempre ragione. Anche nel ’68 integrò il messaggio rivoluzionario molto meglio dell’estremismo di Sartre o dell’orgoglio di Aron, di cui lui comunque aveva una grande stima…»
Lei è un fan sfegatato di Lacan, così come il maestro lo aveva per Martin Heidegger?
«In effetti, ho imparato da lui a non scindere la logica dalla passione emotiva. Ho sempre avuto un atteggiamento positivo verso Lacan e non sono mai stato deluso».
Qual è la situazione attuale della controversa questione dell’eredità lacaniana?
«Nel 1980 la situazione era tragica. I discepoli di Lacan erano più di mille, un quarto di loro mi appoggiò umanamente e intellettualmente nei momenti difficili della malattia e della morte di Lacan. Tre quarti di loro, invece, si erano allontanati da tutto ciò. Sono stato per anni il segretario della Scuola, oggi mi occupo dell’edizioni corrette dei testi inediti di Lacan fra cui molti seminari. Il segretario della Scuola oggi è Eric Laurent, resterà in carica 4 anni. La nostra Società ha 1000 iscritti nel mondo intero, soprattutto nei paesi latini. In Italia il responsabile è Antonio Di Ciaccia. La ragione per cui i popoli latini sono più ricettivi al nostro messaggio è dovuto al fatto che il mercato del lavoro dell’analisi nei paesi anglosassoni è più sistematizzato con una rete di controllo professionale più stretta e, quindi, subisce anche una clientela più rigida nei rapporti istituzionali con l’analista. Non credo che l’origine cattolica del pensiero di Lacan influisca più di tanto nell’attuale diffusione del suo pensiero nel mondo intero».

l’Unità 17.10.07
Cassazione: «Rifiutare le cure non è eutanasia»
di Anna Tarquini


ELUANA forse ce la farà a morire. Ci sarà un nuovo processo e il giudice, questa volta, potrà dare l’ok a staccare la spina senza il timore della galera, senza che nessuno la chiami eutanasia. Quindici anni di tormento e soprattutto di delusioni. Ma ieri la Corte di Cassazione ha dato la spallata che tutti si aspettavano. Ha detto che no, il rifiuto delle terapie non può essere scambiato per eutanasia (che è poi il punto forte di chi si oppone strenuamente alla legge). E ha ordinato ai giudici di Milano di tornare in giudizio perché i due no alle richieste del tutore di Eluana Englaro a staccare la spina, cioè a suo padre, non erano congrui visto che i togati avevano omesso di ricostruire la reale volontà di Eluana. E dice di più, dice: «Il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente non incontra alcun “limite” anche nel caso in cui ne consegua il sacrificio del bene della vita e uno Stato come il nostro organizzato, per fondamentali scelte vergate nella Carta costituzionale, sul pluralismo dei valori non può che rispettare anche quest’ultima scelta».
La sentenza è la numero 21748 e il collegio che ha redatto il nuovo orientamento segnando una tappa storica era presieduto da un giudice donna, Gabriella Luccioli, il primo magistrato donna ad entrare in Cassazione. Sessanta pagine dove la parola eutanasia viene usata una volta sola, e non a caso, per chiarire appunto che il rifiuto delle terapie non può essere scambiato per eutanasia, ma la scelta (libera scelta) del malato a che la malattia prosegua il suo corso. Dicono i giudici che il magistrato può autorizzare il distacco della spina di un apparecchio che tiene in vita un paziente solo in due casi: quando «tale istanza sia realmente espressiva, in base a elementi di prova chiari, concordanti e convincenti, della voce del rappresentato, tratta dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona», e quando «la condizione di stato vegetativo sia, in base a un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno a una percezione del mondo esterno». Solo in questi due casi, ma in questi due casi deve, dice la Cassazione, pure in assenza di leggi, rispettare una volontà che è un diritto espressione stessa del nostro Stato e della nostra Costituzione.
Sarà ora una diversa sezione della Corte di Appello di Milano a riaprire l’istruttoria che potrebbe portare al rispetto dei desideri di Eluana. I giudici di merito - ha spiegato l’avvocato Vittorio Angiolini, legale degli Englaro - potrebbero sia disporre che un pool di medici certifichi le condizioni di irreversibilità dello stato della ragazza, sia riascoltare le testimonianze delle amiche di Eluana sulla sua volontà. Il medico che ha curato Eluana, Carlo Alberto Defanti, si dice pronto a intervenire se e quando gli sarà chiesto. Ma contro la Cassazione già muove la sua protesta la Chiesa: «Noi vescovi ribadiamo la difesa della vita sempre - ha detto il segretario della Cei monsignor Giuseppe Betori - fino alla sua naturale conclusione e il riconoscimento dell’idratazione indotta come diritto della persona alla vita e non come accanimento terapeutico».

Repubblica 17.10.07
L'Osservatore romano: "Nel vuoto legislativo, una tale posizione
significa orientare fatalmente il legislatore verso l'eutanasia"

Il Vaticano sul caso Eluana
"Inaccettabile relativismo nella sentenza"
qui

l’Unità 17.10.07
«In Palestina vita più dura che con l’apartheid»
di Umberto De Giovannangeli


UNA RICHIESTA che scatenerà polemiche: l’Onu si ritiri dal Quartetto per il Medio Oriente (Usa, Russia, Ue, Onu) nel caso in cui non vengano presi in maggiore considerazione i diritti umani dei palestinesi. Una richiesta tanto più significativa, e allarmante, perché ad avanzarla è John Dugard, inviato speciale delle Nazioni Unite per la tutela dei diritti umani nei Territori palestinesi. Avvocato sudafricano, docente di Diritto internazionale, paladino della lotta all’apartheid, Dugard visita la Cisgiordania e Gaza da sette anni e redige i suoi dettagliati rapporti sulla situazione. «Dalla mia ultima visita - afferma - ho ricavato una impressione drammatica: nel popolo palestinese è diffuso un sentimento di disperazione causato dalla violazione dei diritti umani. Ogni volta che vado la situazione sembra essere ulteriormente peggiorata». Un peggioramento che investe sia la Cisgiordania che Gaza: «Gaza - sottolinea Dugard - è una prigione isolata dal mondo e Israele sembra averne buttato via le chiavi».
Professor Dugard, alla fine del mese lei presenterà il suo rapporto alle Nazioni Unite sullo stato dei diritti umani nei Territori. Qual è la situazione?
«Gravissima, direi disperata. Una percezione netta che ho maturato da una visione diretta della situazione. Ciò che più mi ha colpito è l’assenza di speranza del popolo palestinese. Tutti noi dovremmo interrogarci sulle ragioni di questo degrado».
Qual è la sua risposta?
«Non vi è dubbio che questa situazione di sofferenza e disperazione è frutto della violazione dei diritti umani e in particolare delle restrizioni israeliane alla libertà di movimento dei palestinesi».
Le autorità israeliane ribatterebbero che questa situazione è dovuta alla necessità di contrastare gli attacchi terroristici. I kamikaze palestinesi non sono certo un’invenzione israeliana.
«Non metto in discussione il diritto di Israele di difendere la sua sicurezza, ma ritengo che il governo israeliano continui a gestire la sua sicurezza con un uso sproporzionato della forza».
A cosa si riferisce in particolare?
«Penso ai centinaia di check-point che spezzano in mille frammenti territoriali la Cisgiordania, penso a Gaza, prigione a cielo aperto dove sopravvivono a stento un 1milione e 400 mila palestinesi. Sì, Gaza è una prigione della quale Israele sembra aver buttato via le chiavi».
Gaza, soprattutto dopo il colpo di mano militare di Hamas, molto si è detto e scritto. Meno della Cisgiordania. Lei l’ha visitata recentemente. Qual è la realtà che ha registrato sul campo?
«La Cisgiordania è oggi frammentata in quattro settori: il Nord (Jenin, Nablus e Tulkarem), il Centro (Ramallah), il Sud (Hebron) e Gerusalemme est che assomigliano sempre di più ai Bantustan del Sudafrica. Le restrizioni alla circolazione imposte da un rigido sistema di autorizzazioni, rinforzato da circa 520 check point e blocchi stradali, assomigliano al sistema del "lascia-passare" (in vigore nel Sudafrica dell’apartheid) applicato con una severità che va molto al di là…».
La sua è un’accusa molto grave, alla quale più volte in passato Israele ha ribattuto con durezza accusandola di forzature inaccettabili viziate da un evidente pregiudizio.
«Vede, io non ho alcun pregiudizio anti-israeliano e rigetto con sdegno le accuse strumentali di antisemitismo. I miei rapporti non hanno nulla di ideologico, essi sono basati su fatti circostanziati, su una documentazione ineccepibile. Israele rivendica la sua democrazia ma i principi su cui si fonda non valgono per la popolazione palestinese dei Territori. Con grande amarezza, mi creda, devo affermare che molti aspetti dell’occupazione israeliana superano quelli del regime di apartheid. Si pensi alla distruzione in larga scala da parte israeliana di case palestinesi, lo spianamento di terreni fertili, le incursioni e gli omicidi mirati dei palestinesi, per non parlare del muro eretto per l’80% in territorio palestinese. Il Muro è, attualmente, costruito in Cisgiordania e Gerusalemme est in maniera da inglobare la maggior parte delle colonie nella sua cinta. Inoltre, i tre grandi blocchi di insediamenti di Gush Etzion, Ma’aleh Adumim e Ariel dividono il territorio palestinese in enclave, distruggendo così l’integrità territoriale della Palestina. Tutto ciò, lo ribadisco, produce sofferenze, umiliazioni e, ed è quello che più mi ha colpito nella mia recente visita nei Territori, la perdita di speranza da parte del popolo palestinese. A tutto ciò va aggiunto che, di fatto, il popolo palestinese è sottoposto a sanzioni economiche, e ciò è il primo esempio di un simile trattamento applicato a un popolo occupato. Verso i palestinesi dei Territori, Israele non si comporta come una democrazia ma come una potenza colonizzatrice».
Dalla Cisgiordania a Gaza e allo scontro interno al campo palestinese. Uno scontro che aggiunge sofferenza a sofferenza. Qual è in proposito la sua valutazione?
«Se vuole sapere il mio modesto punto di vista, le dirò che a mio avviso la Comunità internazionale sta commettendo un errore gravissimo, che renderà ancor più ostica la ricerca di un accordo di pace con Israele».
Quale sarebbe questo errore?
«Aver deciso di appoggiare solo una fazione palestinese, quella del Fatah. Questo ruolo non compete all’Onu».
A fine mese lei illustrerà il suo rapporto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. A quale conclusione è giunto?
«Al segretario generale Ban Ki-moon chiederò di ritirare le Nazioni Unite dal quartetto, se il Quartetto dovesse fallire nel tentativo di avere la massima attenzione per la situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi».
Lei appare alquanto pessimista sulla possibilità di una svolta nella tutela dei diritti umani in Palestina. Perché?
«Perché sull’inazione del Quartetto in questo campo pesa l’influenza politica degli Stati Uniti. Una influenza negativa».

l’Unità 17.10.07
Allarme Fao, nel mondo. 850 milioni di mal nutriti


ROMA Nel mondo si produce cibo a sufficienza per tutta la popolazione, ma il diritto all’alimentazione non è ancora riconosciuto come inalienabile; e un diritto non può definirsi tale se non può essere rivendicato. Al riconoscimento, in primo luogo giuridico e poi effettivo, del diritto all’alimentazione è stata dedicata quest’anno la Giornata Mondiale dell’Alimentazione, organizzata dalla Fao. «Ancora oggi 854 milioni di persone ogni giorno vanno a dormire a stomaco vuoto - ha detto Jaques Diouf, direttore generale della Fao - e per molti Paesi il diritto all’alimentazione resta una vera e propria sfida, un’azione possibile solo a lungo termine, anche se questo diritto è stato formalmente riconosciuto nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dalle Nazioni Unite nel 1948».
In un messaggio letto nel corso della cerimonia, Papa Benedetto XVI ha affermato che l’alimentazione «è un diritto universale dell’umanità», senza distinzione o discriminazione. Il Papa ha fatto poi appello «a tutti i membri della società affinché venga garantito il diritto all’alimentazione, il cui inadempimento rappresenta una violazione alla dignità umana». Alla cerimonia hanno preso parte anche i Presidenti della Repubblica di Germania, Horst Kohler, e della Tanzania, Jakaya Mrisho Kikwete. «La povertà ha due principali cause: una partecipazione insufficiente alla globalizzazione e ai mercati e la mancanza di un buon governo - ha affermato Kohler - ma la fame non è un destino ineluttabile, può essere eliminata con politiche sagge; malgrado il successo della rivoluzione verde degli anni Sessanta, la produttività agricola, specialmente in Africa, è ancora al di sotto delle possibilità». Sulla necessità di intraprendere una nuova Rivoluzione verde in Africa si è soffermato il presidente della Tanzania, secondo il quale se si riuscirà a ristrutturare l’agricoltura africana, «non ci sarà più fame».

Repubblica 17.10.07
Quando la Chiesa detta legge allo Stato
di Gustavo Zagrebelsky


Solo una forza religiosa, dice il costituzionalista, può tenere unito il mondo
Le stesse affermazioni si trovano in molta letteratura anti-liberale
Ma in una struttura fondata sulla libertà tutte le credenze hanno cittadinanza
Ma è vero che le democrazie hanno bisogno della fede per sopravvivere? I pericoli delle tesi di Böckenförde

«LO Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà»: così il celebre dictum del costituzionalista E.W. Böckenförde, assurto a manifesto ideologico di quanti sostengono l´incapacità delle democrazie liberali di sopravvivere a se stesse e la necessità della religione come loro presupposto. Attira la nostra attenzione l´uso del verbo "potere": "presupposti che non può garantire". Sono possibili due comprensioni: non può perché non ci riesce de facto, o perché non gli è lecito de iure. Nel primo senso, la proposizione è descrittiva; nel secondo, normativa. La differenza è notevole, anche rispetto alle conseguenze.
L´accento cade innanzitutto sull´impossibilità de facto e da cui deriva un fosco vaticinio. Il focus sta negli aggettivi liberale e secolarizzato. Lì si troverebbe la ragione del deficit delle forze che "tengono unito il mondo" e "creano vincolo" sociale, senza le quali lo Stato si troverebbe come appoggiato sul niente. Ecco un crescendo di interrogativi retorici: «Di che cosa vive lo Stato e dove trova la forza che lo regge e gli garantisce omogeneità, dopo che la forza vincolante proveniente dalle religione non è e non può più essere essenziale per lui? È possibile fondare e conservare l´eticità in maniera tutta terrena, secolare? Fondare lo Stato su una "morale naturale"? E se ciò non fosse possibile, lo Stato potrebbe vivere sulla sola base della soddisfazione delle aspettative eudemonistiche dei suoi cittadini?».
L´accenno alle "aspettative eudemonistiche", cioè alle aspettative di "bella vita", getta una luce particolare sul significato catastrofistico di queste domande.
Uno Stato basato sulla libertà, che non possa confidare in forze vincolanti interiori dei suoi membri, sarà indotto, per garantire la propria legittimità, ad accrescere illusoriamente le promesse di benessere, con ciò avvolgendosi da sé in una spirale mortale di aspettative d´ogni genere che, oltre un certo limite, non potrà più mantenere.
Non sono affermazioni originali. In una forma o in un´altra, le troviamo nella letteratura anti-liberale, anti-individualista e anti-ugualitaria, dall´Ottocento a oggi. Ora, però, l´impotenza dello Stato basato sulla libertà, come impotenza de facto, è ricondotta anche all´impossibilità de iure. Questo Stato non può cercare di rinsaldare l´ethos di cui ha bisogno percorrendo la strada a ritroso verso la res publica christiana. Non può farlo perché così rinnegherebbe se stesso, la libertà, la laicità, la tolleranza, l´uguaglianza, il pluralismo: tutti principi dati per acquisiti. Dunque, l´impotenza di cui parliamo comprende entrambi i significati del "non può", l´esistenziale e il normativo. Le premesse di cui abbiamo bisogno devono prendere corpo non a opera dello Stato ma in seno alla società. Sono i cittadini, e tra questi ovviamente anche i cittadini cristiani in nome della loro fede, a dover assumere l´habitus etico necessario alla sopravvivenza dello Stato basato sulla libertà. Sono i cittadini a potere e dovere garantire gli impulsi e le forze di unificazione interiori di cui lo Stato ha bisogno; non può (in entrambi i sensi) essere lo Stato poiché, nelle sue mani, la religione diventerebbe instrumentum regni.
La ricezione di queste posizioni, attraverso una lettura semplificante del dictum sopra ricordato, non è stata però, prevalentemente, questa. Parlerei perfino di strumentalizzazione, se in quelle non ci fosse un certo margine di ambiguità. La ricezione è avvenuta nel senso che lo Stato basato sulla libertà – in quanto Stato, non in quanto società - non può di fatto, con le sue sole forze, darsi i propri presupposti, ma che può, sempre in quanto Stato, legittimamente cercarli altrove, nel cristianesimo. Questa diversa interpretazione del "non può" è rappresentata in modo efficace dalle parole, scritte dal cardinale Joseph Ratzinger in un saggio del 1984: dalla tesi che l´attuale Stato liberale e secolarizzato non è più societas perfecta e perciò vive di presupposti «che esso stesso non può garantire» deriverebbe che esso ha bisogno di forze dall´esterno che lo sostengano. Le uniche forze disponibili sarebbero quelle del cristianesimo e con queste lo Stato potrebbe e dovrebbe stringere alleanza, un´alleanza, per sovrappiù, che assume il colore di una certa sottomissione: chi accetta che un altro getti le basi che garantiscono la sue esistenza non deve accettare anche la dipendenza da questo altro? La Chiesa pone la sua candidatura, in quanto afferma la propria "rilevanza pubblica assoluta" e rifiuta di farsi confinare nella dimensione privata dalle coscienza. Lo stesso Ratzinger, però, mette in luce la difficoltà: «ci troviamo di fronte a un´aporia: se la Chiesa rinuncia a questa pretesa, non è più per lo Stato quella di cui lo Stato ha bisogno, se però lo Stato l´accetta, smette di essere pluralistico e così sia lo Stato che la Chiesa perdono sé stessi». Poiché tuttavia "nell´attuale situazione generale della cultura il pericolo teocratico è scarso" – così prosegue Ratzinger – "la pretesa di riconoscimento pubblico della fede [cattolica] non può compromettere il pluralismo e la tolleranza religiosa dello Stato. Da qui (dal pluralismo e dalla tolleranza) non si potrebbe dedurre la piena neutralità dello Stato di fronte ai valori. Esso deve riconoscere che un patrimonio fondamentale di valori, fondati sulla tradizione cristiana, è il presupposto della sua consistenza. Deve in questo senso semplicemente, per così dire, riconoscere il proprio luogo storico". Onde, conseguentemente, la richiesta di uno status differenziato, a favore della religione cristiano-cattolica e della Chiesa, richiesta che inizia riguardando la questione dei simboli, ma si estende facilmente al sostegno delle scuole cattoliche, all´insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, al finanziamento agevolato delle sue attività, per finire a una sorta di diritto d´ultima parola nelle questioni legislative che hanno rilievo per l´identità cristiana dello Stato.
Böckenförde dice di prendere le distanze. A me, sinceramente, non pare. L´ordine pubblico di una situazione costituzionale pluralista – dice - non può appiattirsi sull´ethos di una sola religione: tutte le religioni e confessioni devono essere incluse nel diritto di avere e proclamare, in pubblico e in privato, la propria fede. Ma, aggiunge, questo non deve comportare la pretesa di un livellamento dell´impronta religiosa che assicura l´identità dello Stato. "Livellamento" è una parola che suona male e, soprattutto, può significare una cosa che nessuno richiede: un´azione di forza che mai, in una società libera, sarebbe ammissibile. Se però sostituiamo livellamento con uguaglianza, ci si accorge che questo è per l´appunto ciò di cui abbiamo bisogno affinché l´ordine pubblico si apra al pluralismo. Nello Stato secolare fondato sulla libertà, tutte le fedi, tutte le religioni, tutte le credenze anche non religiose o antireligiose hanno lo stesso diritto di cittadinanza ed è questo che costituisce "l´impronta" di questo tipo di Stato. Rispetto a questa impronta, è contraddittoria e pericolosa l´affermazione di Böckenförde, che ha fatto su di me molta e negativa impressione, che «le minoranze religiose debbano vivere nella diaspora». Dire così significa negare l´esistenza di un comune e unico vincolo di cittadinanza e consentire status sociali, giuridici e politici differenziati, a favore dei membri della religione di maggioranza, secondo esperienze del passato di infelice memoria. Come si possa sostenere questo genere di posizioni e, al tempo stesso, non contraddire l´esigenza di "assoluta neutralità" dello Stato, esigenza che costituisce certamente il contenuto minimo necessario di qualsiasi concezione della laicità, e come in tal modo non si neghino i fondamenti dello Stato secolare basato sulla libertà è per me – lo confesso – un mistero.
Anche una seconda proposizione merita di essere indagata: «Fino a che punto i popoli uniti in stati possono vivere sulla base della sola garanzia della libertà, senza avere un legame unificante che preceda tale libertà?»
Qui, l´attenzione cade su quel "precedere". Se la garanzia precede la libertà, non può che essere un legame che viene da fuori, non dall´autonomia dei singoli: un legame in qualche modo indotto, se non imposto, per via di autorità. La Chiesa, ammesso ch´essa possegga la riserva delle risorse etiche, potrebbe allora legittimamente chiedere che le si assicurino i mezzi per farle valere vincolativamente. Questo ci dice quel "precedere". A me pare di vedere in questa offerta di collaborazione qualcosa di oltraggioso nei confronti della religione di Gesù di Nazareth, perché mi sovviene di Giovanni Botero, il teorico secentesco della ragion di Stato, dello Stato della Controriforma: «Tra tutte le leggi non ve n´è più favorevole a Principi, che la Christiana; perché questa sottomette loro, non solamente i corpi, e le facoltà de´ sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora, e le conscienze; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora, e i pensieri». «Questa è la ragion di Stato, fratel mio, obedir alla Chiesa cattolica», scriveva un discepolo di Botero, Giulio Cesare Capaccio, nel 1634.
Non risulta facilmente comprensibile come questa "precedenza" del legame unificante si accordi con l´altra affermazione di Böckenförde, questa sì pienamente conforme all´idea dello Stato secolare basato sulla libertà, che «la religione si dispiega […] nella società civile e nel suo ordinamento» e che da lì, dalla società, potrebbe influenzare lo Stato, quale «organizzazione vincolante dell´umana convivenza». Se così fosse, non ci sarebbe infatti nessun bisogno di postulare un legame unificante che "preceda la libertà": esso si formerebbe infatti, precisamente, nella libertà.
È in questa "precedenza" che si annida la questione. Le fedi religiose non sono affatto un problema per la democrazia liberale – l´odierno Stato secolare basato sulla libertà -, anzi ne possono essere forza costitutiva nella misura nella quale i credenti si impegnino, sulla base delle loro credenze, nella sfera della società civile. Il problema non sono i credenti ma è la Chiesa, quando chiede e ottiene alleanza con lo Stato, per offrirgli "garanzie"; simmetricamente, il problema è anche lo Stato, quando offre alla Chiesa questa alleanza interessata. Noi, in Italia, conosciamo bene questo rapporto di reciproco sostegno e lo conosciamo nella forma più esplicita, quella del Cattolicesimo "religione di Stato", esistente fino a subito prima della Costituzione repubblicana, dallo Statuto Albertino fino al fascismo.
L´idea di un legame sostanziale unificante precedente la libertà corrisponde a un´idea di democrazia protetta, a sovranità limitata. E infatti, nelle discussioni odierne su problemi pubblici di pregnante contenuto etico, sui quali la Chiesa come tale chiede la parola, la loro dimensione costituzionale è totalmente trascurata o oltrepassata. Sulla disciplina delle relazioni familiari e dei legami interpersonali, tra persone di sessi diversi o anche del medesimo sesso; sui limiti della ricerca e della sperimentazione scientifica, in rapporto alla dignità dell´essere umano; sull´autodeterminazione delle persone sottoposte a trattamenti medici forzati, ecc., la Costituzione e la giurisprudenza della Corte costituzionale contengono indicazioni certo non trascurabili, per chi pensa che i fondamenti etici della convivenza siano da ricercare nella libertà; invece, essi sono ignorati da parte di chi ragiona "precedendo" l´esercizio della libertà che ha portato alla formulazione dei principi della Costituzione. Così come, più in generale, sono ignorati sia il principio di laicità sia i suoi contenuti, quali determinati dalla giurisprudenza costituzionale. Le divagazione su "nuove", "sane" ecc. laicità che provengono numerose da ambienti ecclesiastici e si riversano nelle audizioni parlamentari, tutte le volte in cui si discute di politica ecclesiastica, sembrano non conoscere o, almeno, non tenere in conto i vincoli costituzionali, come il principio di equidistanza e il divieto, per lo Stato, di ricorrere a obbligazioni religiose per rafforzare le obbligazioni civili e, al contrario, il divieto, per la Chiesa, di ricorrere a mezzi statali per rafforzare i vincoli religiosi. La proposta del cristianesimo come legame unificante precedente contraddice precisamente questa separazione.
Lo Stato secolare basato sulla libertà deve dunque, per così dire, reggersi e camminare con le energie spirituali che la società deve avere in sé, senza delegarle ad altri. E questo, naturalmente, è un problema che non può essere trascurato. Ma è un problema sociale, non politico o statale. Si dirà: il legame tra la religione e la politica e quindi lo Stato è un legame profondo, tutt´altro che accidentale. Lo si vede all´opera dalla preistoria fino quasi ai nostri giorni. E anche oggi, può apparire che lo Stato secolarizzato dell´Europa occidentale, rispetto al resto del mondo, sia soltanto una deviazione, un Sonderweg, secondo l´espressione di Jürgen Habermas, destinato in breve a rientrare. E perfino il più radicale movimento politico fondato sull´immanenza, la Rivoluzione francese, ha sentito l´esigenza di divinizzare il suo regime. Invece, le società secolari odierne basate sulla libertà pensano di farne a meno, per fondare i propri Stati. Ma la rinuncia a usare un Dio per i propri fini politici non è forse, precisamente, la grande sfida ch´esse hanno accettato "per amore della libertà"?

Repubblica 17.10.07
Quella lingua oscura che infetta il mondo
di Doris Lessing


In risposta al critico letterario Harold Bloom, che ha dichiarato che il Nobel è solo correttezza politica Doris Lessing ha pubblicato questo articolo, nuova versione di un testo del 1992

Anche se abbiamo assistito alla morte apparente del Comunismo, ancor oggi modi di pensare nati sotto il Comunismo o consolidati dal Comunismo governano le nostre vite. Non tutti sono un lascito del Comunismo più evidente e più immediato della correttezza politica.
Punto primo: il linguaggio. Non è una novità che il Comunismo abbia fatto degenerare il linguaggio e, con esso, il pensiero. Esiste un gergo comunista riconoscibile già da un´unica frase. Ben poche persone in Europa a suo tempo non si trastullarono con i "passi tangibili", le "contraddizioni", la "compenetrazione degli opposti" e così via.
La prima volta che mi sono resa conto che gli slogan in grado di anestetizzare la mente avevano la capacità di spiccare il volo e prendere le distanze dalla loro origine è stato negli anni Cinquanta, quando leggendo un articolo del Times di Londra mi sono imbattuta in questa frase: «La manifestazione di sabato scorso è stata la prova irrefutabile che la situazione tangibile...». Parole confinate a sinistra, come animali rinchiusi in un recinto, erano migrate nell´uso comune e insieme a esse altrettanto era stato delle idee.

Si leggevano articoli interi, sia sulla stampa conservatrice sia su quella liberale, che erano in tutto e per tutto marxisti, ma chi li aveva scritti lo ignorava. Esiste, a ogni buon conto, un aspetto di questo retaggio molto più difficile da individuare.
Ancora cinque-sei anni fa, l´Izvestia, la Pravda e migliaia di altri giornali comunisti erano scritti con un linguaggio che pareva concepito appositamente per occupare quanto più spazio possibile sulla carta, senza di fatto dire pressoché nulla. Questo perché, chiaramente, era azzardato prendere posizioni che in seguito avrebbero potuto dover essere difese. Adesso tutti questi giornali hanno riscoperto l´uso del linguaggio, ma il retaggio di quella lingua morta e vuota di questi tempi si può ritrovare in ambiente accademico, specialmente in alcune aree della sociologia e della psicologia.
Un mio giovane amico originario dello nord dello Yemen ha risparmiato tutto quello che è riuscito a racimolare per recarsi in Gran Bretagna a studiare quella branca della sociologia che insegna come trasmettere il sapere occidentale agli aborigeni sottosviluppati. Gli ho chiesto di mostrarmi il testo che deve studiare e mi ha dato un tomo molto grande, scritto talmente male e con un linguaggio così ostico e vuoto che seguire il testo era molto difficile. Il tomo constava di svariate centinaia di pagine, ma le idee che conteneva avrebbero potuto facilmente essere esposte in una decina di pagine.
Sì, so che l´offuscamento dell´ambiente universitario non è iniziato con il Comunismo - come Swift, per ricordarne uno, ci dice - ma le pedanterie e la verbosità del Comunismo affondavano le loro radici nell´ambiente universitario tedesco. E adesso quell´offuscamento è diventato una sorta di muffa che infesta il mondo intero. Che le idee in grado di trasformare le nostre società, ricche di intuizioni sul comportamento e il pensiero dell´animale uomo, siano spesso presentate in un linguaggio illeggibile è uno dei paradossi della nostra epoca.
Il secondo punto è connesso al primo: le idee in grado di influire efficacemente sul nostro comportamento possono essere lampanti soltanto se formulate in frasi concise, persino di poche parole, o anche frasi fatte. Nelle interviste agli scrittori chiedono sempre: «Pensa che uno scrittore dovrebbe…?», «Dovrebbero gli scrittori…?». La domanda ha sempre a che vedere con una posizione politica. Si noti inoltre che così formulate queste domande danno per scontato che gli scrittori debbano fare tutti la stessa cosa, di qualsiasi cosa si tratti. La domanda «Dovrebbe uno scrittore…?», «Dovrebbero gli scrittori…?» ha una lunga storia, che a quanto pare è sconosciuta alle persone che la formulano in modo così incidentale. Un´altra parola è "impegno", molto in voga fino a non molto tempo fa. «Quel tizio è uno scrittore impegnato?».
Surrogato di "impegno" è "presa di coscienza". Si tratta di un termine a doppio taglio. Le persone la cui coscienza è "presa" possono ricevere le informazioni di cui non sono a conoscenza e di cui possono avere disperatamente bisogno, possono anche ricevere il supporto di cui sono privi, ma quasi sempre con tale formula si indica che l´allievo ottiene soltanto la propaganda che l´istitutore approva. "Presa di coscienza", come "impegno", come "correttezza politica" sono un proseguimento di quella prepotenza di vecchia data che è la linea di partito.

Un modo di pensare molto comune nella critica letteraria non è considerato una conseguenza del Comunismo, ma in effetti lo è. Ogni scrittore ha vissuto l´esperienza di sentirsi dire che un suo romanzo, un suo racconto è "su" una cosa o l´altra. Nel mio caso, quando ho scritto Il quinto figlio, il mio romanzo è stata immediatamente catalogata come un racconto sul problema palestinese, la ricerca genetica, il femminismo, l´antisemitismo e via dicendo. Ricordo una giornalista francese che un giorno, ancor prima di accomodarsi nel mio salotto, chiosò: «Evidentemente Il quinto figlio è sull´Aids». Bel modo di interrompere sul nascere la conversazione, ve lo posso assicurare. Ma ciò che è interessante è l´abitudine mentale di analizzare un´opera letteraria in questo modo. Se rispondi: «Nell´eventualità che avessi voluto scrivere qualcosa sull´Aids o sul problema palestinese avrei scritto un pamphlet» ottieni sguardi sconcertati. Che un´opera frutto di immaginazione debba "davvero" essere "su" qualche problema è anche in questo caso un retaggio del Realismo Socialista. Scrivere un racconto per il gusto di narrare una storia è frivolo, per non dire reazionario.
La pretesa che i racconti debbano essere "su qualcosa" risale al pensiero comunista e, ancora più indietro nel tempo, al pensiero religioso, con il suo desiderio di libri per il miglioramento interiore tanto ingenui quanto i messaggi sulle scatole dei cioccolatini assortiti.
L´espressione "correttezza politica" nacque mentre il Comunismo stava crollando. Non credo si tratti di una casualità. Con ciò non intendo suggerire che la fiaccola del Comunismo sia stata passata ai "correttori politici", ma che le abitudini mentali sono state assorbite, anche senza esserne consapevoli.
Ovviamente, c´è qualcosa di molto allettante nel dire agli altri che cosa fare: dico ciò con un tono idoneo a un asilo d´infanzia, senza adoperare un linguaggio più ricercato e intellettuale, perché lo considero un comportamento da asilo d´infanzia. L´arte – le arti in genere – è sempre imprevedibile, nonconformista e ha per di più la tendenza a essere, nella migliore delle ipotesi, anche scomoda. La letteratura, in particolare, ha sempre attirato le commissioni della Camera, gli Zdanov, gli attacchi moralizzanti, ma – nei casi peggiori – anche la persecuzione. Mi inquieta che la correttezza politica non paia sapere quali sono i suoi modelli e i suoi predecessori, ma mi preoccupa maggiormente che possa sapere e non curarsene.
La correttezza politica ha un aspetto positivo? Si, ce l´ha, ci fa riprendere in esame gli atteggiamenti e ciò è sempre utile. Il problema è che, come con tutti i movimenti popolari, la frangia lunatica smette di essere frangia. Il mondo gira alla rovescia. Per ogni donna o uomo che tranquillamente e ragionevolmente si avvalgono dell´idea di esaminare le nostre opinioni, ci sono venti incitatori rabbiosi motivati dal desiderio di avere potere sugli altri, non meno rabbiosi e non meno incitatori perché si considerano antirazzisti o femministi o chissà che.
Un mio amico professore mi ha raccontato di aver invitato nel suo ufficio gli studenti che continuavano a disertare i corsi di genetica o si astenevano dal presenziare alle conferenze di quei docenti il cui punto di vista non coincidesse con la loro ideologia, per discutere del problema e per mostrar loro un filmato in tema con la loro situazione. Circa sei-sette giovani, con la loro uniforme di jeans e magliette, sono entrati nel suo ufficio, si sono seduti, sono rimasti in silenzio mentre egli parlava con loro, hanno tenuto lo sguardo fisso vero il basso mentre egli trasmetteva il filmato e poi, all´unisono, si sono alzati e se ne sono andati. Una dimostrazione – potrebbero benissimo essere rimasti scioccati, se lo fossero venuti a sapere – che rispecchia un comportamento comunista, un´esternazione, una rappresentazione visiva della mentalità col paraocchi dei giovani attivisti comunisti.

Sempre più spesso in Gran Bretagna vediamo che i consigli municipali, o i consulenti scolastici, o le direttrici scolastiche, o i presidi, o gli insegnanti sono perseguitati da gruppi e cabale di cacciatori di streghe, che usano le tattiche più sporche e spesso le più crudeli. Sostengono che le loro vittime sono razziste o per qualche aspetto reazionarie. Sempre più spesso, appellarsi alle autorità è servito a dimostrare che la loro campagna era ingiustificata.
Sono sicura che milioni di persone, sfilatesi da sotto i piedi il tappetino del Comunismo, stiano affannosamente cercando - forse senza esserne nemmeno consapevoli - un altro dogma.
Copyright New York Times-La Repubblica, Traduzione di Anna Bissanti

Repubblica 17.10.07
La supplenza dei giudici
di Umberto Veronesi


Con la sentenza che riapre il caso Englaro si ripete nel nostro Paese una situazione capovolta, in cui sono i giudici a sopperire alla politica. Non è la prima volta che la nostra magistratura dimostra una fedeltà ai principi della Costituzione e un´apertura ai nuovi valori e bisogni dei cittadini, che purtroppo non sa esprimere la classe politica.
Politica che appare invece arenata in una fase di incapacità di decidere sui grandi temi che stanno a cuore della popolazione. Sta così ai giudici supremi della Cassazione ricordare al Paese che «la salute dell´individuo non può essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva» e che «il diritto all´autodeterminazione del paziente non incontra un limite nel sacrificio del bene della vita», non facendo altro che ribadire l´articolo 32 della Costituzione, che sancisce il diritto alla salute e impone di non somministrare alcun trattamento ad un malato contro la sua volontà, e l´articolo 13, che tratta della libertà personale di tutti i cittadini.
Su queste basi, dice la sentenza, si può quindi riconsiderare la possibilità di staccare il sondino che tiene in una vita artificiale Eluana Englaro da 15 anni, a patto che coesistano due presupposti: che lo stato di coma vegetativo permanente sia irreversibile e non vi sia fondamento medico per l´ipotesi di un recupero della coscienza, e che sia dimostrato il rifiuto di tale stato da parte di Eluana, perché non corrisponde alle sue convinzioni personali, alla sua personalità e al suo modo di concepire l´idea di dignità della persona.
Quindi possiamo, credo, essere fiduciosi che verrà finalmente accolta l´istanza di Beppe Englaro, che chiede da anni di interrompere l´alimentazione forzata di Eluana, proprio per rispettare amorevolmente il desiderio della ragazza, espresso ai suoi cari quando era giovane felice e in piena salute, di non dover mai subire la sorte, per lei indegna, di un´esistenza artificiale sospesa in eterno. Ma quante Eluane ci sono nel nostro Paese? Decine? Centinaia? Non lo sappiamo, con certezza. Quante persone hanno espresso, per caso o per volontà, il proprio pensiero circa una possibile vita artificiale? Quanti padri decidono di uscire allo scoperto e dedicare quasi interamente la propria vita a una battaglia che è d´amore, ma anche di principio? Che faremo con tutti loro, se i presupposti di questa sentenza diventano, come speriamo, criteri per le altre?
Sicuramente non ci sono problemi sull´applicazione del primo presupposto, perché la scienza con procedimenti rigorosi è in grado di stabilire l´irreversibilità del coma e la perdita definitiva della coscienza di sé. Ma il dibattito si accende sul secondo presupposto: come conoscere il pensiero del paziente, nel caso in cui non possa più esprimerla personalmente, come avviene appunto nei casi di coma vegetativo permanente.
È ovvio che per rispettare – o non rispettare perché mancano altri presupposti – l´espressione di volontà indipendente del paziente dobbiamo avere uno strumento obiettivo per acquisirla. Questo strumento esiste ed è il Testamento Biologico: la semplice dichiarazione scritta, rilasciata in stato di salute e lucidità mentale, circa la propria volontà di essere mantenuti artificialmente in vita. Se la giovanissima Eluana avesse messo per iscritto la sua determinazione assoluta a non vivere una vita artificiale, invece che confidarlo al padre e agli amici, oggi Beppe Englaro non sarebbe nella drammatica situazione di dover peregrinare da una Corte all´altra per esaudire il desiderio della figlia circa la sua stessa vita. Il Testamento Biologico potrebbe in realtà essere considerato valido nel nostro Paese, in base alla Convenzione di Oviedo e come logica estensione del Consenso Informato alle Cure; ma certo una legge che stabilizzi le volontà del cittadino e le renda vincolanti, sarebbe auspicabile.
La sorte di questo documento, per il quale, attraverso la mia Fondazione mi sono impegnato in una campagna di sensibilizzazione nel nostro Paese, è ormai nota: migliaia di richieste e adesioni spontanee di cittadini, decine di proposte di legge, comunità medica divisa nella paura di perdere la propria capacità discrezionale, scontri ideologici e partitici e fondamentalmente nulla di fatto. Sappia però il Parlamento che, anche in assenza di una legge, il movimento della società civile a favore del Testamento Biologico non si fermerà e i cittadini potranno comportarsi come se la legge esistesse, sapendo di essere giuridicamente protetti dalla Costituzione e da una Magistratura che dimostra di avere la forza di difenderla.

Repubblica 17.10.07
Diliberto contro i confederali "Incomprensibili sui precari"
di Silvio Buzzanca


Secondo l'Onu con il pretesto della flessibilità ha creato una situazione preoccupante
Vuole rappresentare uno stimolo per il governo affinché tenga conto di un disagio sociale che esiste

ROMA - Onorevole Diliberto, sul Welfare la confusione regna sovrana. Adesso dicono no alle modifiche anche i sindacati...
«Non capisco la posizione dei sindacati. Se c´è qualcosa da aggiustare rispetto all´accordo, per esempio la questione del 60 per cento di pensione rispetto all´ultimo salario, ovviamente sono d´accordo. Ma se ci fossero dei passi indietro sul tema del precariato, mentre noi chiediamo un ulteriore restringimento del lavoro precario, sarebbe francamente incomprensibile che fossero i sindacati a chiederlo. Mi auguro che non sia così e vedremo che cosa deciderà di fare il governo. Mi permetto di segnalare però una cosa che è stata totalmente ignorata dai media italiani, clamorosa, una notizia...».
Se la prende anche lei con i giornalisti?
«No, ma lamento il fatto che nessuno si è accorto che l´Ilo, un´agenzia delle Nazioni unite, ha chiesto al ministro Damiano un´audizione speciale a Ginevra per spiegare al governo italiano che la legge 30 vìola lo Statuto del lavoro dell´Onu. Scrivono che "con il pretesto della flessibilità la legge 30 ha creato una situazione di precarietà preoccupante". Lo dicono le Nazioni unite. In Italia queste cose, che diciamo noi comunisti insieme ad altri della sinistra, sembrano un reato di lesa maestà. E ricordo che la Commissione europea ha stabilito che il lavoro precario può durare al massimo due anni. Noi siamo a tre più la deroga. È una cosa intollerabile e in Parlamento cercheremo di migliorare questo accordo togliendo almeno la deroga. E trattandosi di una legge il Parlamento è sovrano».
Ma i sindacati potrebbero avere di più e si accontentano di meno?
«Non so cosa il sindacato abbia chiesto a Prodi nel merito. Se giocassero al ribasso sarebbe un´assurdità e non voglio crederci. In ogni caso ognuno fa il suo mestiere. E noi siamo quelli eletti in Parlamento per legiferare e l´accordo sul Welfare deve diventare una legge. Vorrei che fosse chiaro che migliorare il protocollo aiuta il governo. Se si tolgono iniquità non lo si mette in difficoltà».
La vicenda del protocollo sul Welfare finirà per dare un "taglio" più antigovernativo alla manifestazione del 20 ottobre?
«La manifestazione del 20 vuole rappresentare uno stimolo per il governo affinché tenga conto di un disagio sociale che esiste. Un disagio che nascondere sotto il tappeto come la polvere è sbagliato».
Sul protocollo e sulla manifestazione la Cosa rossa si è divisa. Il progetto finisce qui?
«Credo che il 21 ottobre dobbiamo incontrarci per insistere invece sul progetto unitario. Dobbiamo trovare una piattaforma comune sui contenuti Adesso si sta discutendo la Finanziaria, ma vorrei capire come farà il governo da gennaio per i futuri 12 mesi. Mi sono stancato di giocare solo di rimessa, con i moderati fanno una proposta e noi cerchiamo di migliorarla. Credo che la sinistra debba chiedere al governo, anche perché siamo parte rilevante della maggioranza, di mettere in agenda alcuni punti caratterizzanti per dare risposte alle domande che arrivano dal nostro elettorato. Nostro, del centrosinistra, non della sinistra. Bisogna mettere la questione della quantità del salario e delle pensioni al centro dell´iniziativa del governo».

Corriere della Sera 17.10.07
Giordano (Prc): entro un mese Costituente e tesseramento
Il Pd agita la Cosa rossa. I leader pensano alle primarie
L'obiettivo: unire l'ala radicale e allargare la «base»
di Maria Teresa Meli


ROMA — «Intorpiditi», così, con una punta di ironia, il sottosegretario rifondarolo Alfonso Gianni ha descritto i big della Cosa rossa dopo le primarie del Partito democratico. Il colpo, indubbiamente, c'è stato. Non ci si aspettava un afflusso così intenso di votanti. E ora, a fatica, la cosiddetta sinistra radicale tenta la controffensiva.
Ieri, nel Transatlantico di Montecitorio, il capogruppo verde alla Camera Angelo Bonelli mostrava a qualche compagno di partito il nuovo simbolo: «la Sinistra». Un simbolo da cui scompare la falce e il martello. L'imperativo è fare presto: accelerare, onde evitare che il Pd diventi un polo d'attrazione anche nei confronti della sinistra. Fausto Bertinotti è determinato. E il segretario del Prc Franco Giordano annuncia: «Dobbiamo avviare entro un mese la costituente e il tesseramento del nuovo soggetto politico».
Ma per contrastare l'offensiva mediatica del Partito democratico tutto ciò non basta. Ci vuole un'idea in più. Ed è per questo che si sta facendo strada dentro la Cosa rossa l'idea di andare alle primarie per eleggere il leader del nuovo soggetto politico della sinistra radicale. Sarebbe un'innovazione per un'area politica come questa, dove le parole «leadership» e «plebiscitarismo» hanno il suono di una parolaccia. Però sarebbe anche l'unico modo per coinvolgere più persone — pure quelle che non hanno in tasca la tessera dei partiti della Cosa rossa — in questo progetto politico. L'altra strada è quella di una sinistra divisa in tanti cespugli all'ombra del Partito democratico. «Non ci scioglieremo — ha spiegato ai compagni di partito il segretario di Rifondazione — però sia chiaro che andremo alle elezioni tutti insieme con un nome e una sigla nuova. Perciò tutte le forze politiche terranno i loro simboli... ma a casa propria».
Primarie, allora, anche se l'ultima parola non è detta perché a sinistra i timori di intraprendere una strada così innovativa sono tanti. Ma un confronto tra leader diversi, un confronto dall'esito non scontato come quello delle primarie del Pd, una consultazione che coinvolga gli attuali segretari come altri personaggi come il governatore della Puglia Nichi Vendola, tenta la parte più accorta della Cosa rossa. Certo, le resistenze rimangono. L'eurodeputato del Pdci Marco Rizzo spiega papale papale che «per Diliberto sarà difficile rinunciare alla falce e martello e al nome comunista». Eppure è proprio questo quel che Bertinotti vorrebbe fare. Ma se anche Diliberto e i comunisti italiani, alla fine, dovessero tirarsi indietro Rifondazione tirerà dritto.
I vertici del Prc hanno definito le tappe da intraprendere — «liste unitarie già alle prossime provinciali del 2008», con la Sinistra democratica e si si sono accertati che Fabio Mussi e compagni non vengano attirati dalle sirene veltroniane. Parte della base potrebbe esserlo ma i dirigenti della Sd hanno assicurato che non intendono affatto fare marcia indietro. Si aspettano delle risposte definitive anche da Alfonso Pecoraro Scanio, che sembra restìo all'operazione, ma il sottosegretario all'economia Paolo Cento, che è l'uomo che ha in mano i Verdi, continua i suoi incontri con gli esponenti di Rifondazione comunista...

il manifesto 17.10.07
L'unità a sinistra è una via democratica
di Cesare Salvi


Cari compagni del comitato promotore della manifestazione del 20 ottobre, Sinistra democratica ha deciso di non aderire per le ragioni che sono state rese note. Personalmente, vista la funzione di dirigente di primo piano alla quale sono stato chiamato, ritengo di dover accettare questa decisione. So anche che molti nostri compagni e compagne parteciperanno, e auguro il miglior successo all'iniziativa. Ma il motivo per cui vi scrivo è che penso al giorno dopo, al 21 ottobre e ai giorni e alle settimane che seguiranno.
La costruzione dell'unità politica della sinistra italiana è sempre più necessaria e urgente. Vedo troppi ritardi e incertezze. Non vorrei che si riproducesse quel male antico della sinistra, per la quale è sempre stato più facile dividersi che unirsi, con il rischio a volte di considerare «nemico» proprio chi è più vicino.
La recente assemblea del comitato promotore di Sd ha proposto un percorso per la costruzione del partito della sinistra italiana. Abbiamo detto che il passaggio intermedio di un soggetto federativo può essere la strada da seguire, anche perché questa è la proposta finora avanzata dagli altri partiti della sinistra.
Ma in fondo è forse anche la strada più giusta. Vivono infatti nel paese, tra i cittadini e i lavoratori, identità politiche diverse: socialista, come la nostra e non solo la nostra; comunista; ambientalista; senza dimenticare che ci sono milioni di persone che si considerano «di sinistra», punto e basta. Per questo non mi convince chi getta il cuore oltre l'ostacolo e dice: o partito unico subito, o niente.
Ma l'unità della sinistra, per nascere vitale e vivere positivamente nelle speranze e nella volontà di cambiamento di milioni di persone, deve sciogliere al più presto tre nodi. Il primo è quello della partecipazione popolare: non condivido il percorso che si è dato il Pd, altre sono le forme di partecipazione alle quali dobbiamo lavorare, ma il nodo è ineludibile.
La seconda esigenza è che il soggetto unitario, ancorché di tipo federativo, sia in grado di agire nel paese e di prendere le decisioni politiche in modo, appunto, unitario. Nel territorio, con la formazione di comitati unitari; nelle sedi della rappresentanza, con un'unica delegazione nei governi ai vari livelli, e con gruppi parlamentari e consiliari unici.
Per fare tutto questo i gruppi dirigenti della sinistra devono assumersi le proprie responsabilità, devono essere davvero disposti a mettersi in discussione, dando a quanti vorranno concorrere a questo grande progetto, individualmente o attraverso i partiti politici di cui fanno parte o altre forme associative e di movimento, il potere di decidere davvero: sui gruppi dirigenti, ma anche e soprattutto sulle idee fondative, sul programma, sulle scelte politiche.
Infine, ma non certo da ultimo, serve un grande confronto ideale sulla democrazia e sulla società italiane. Cito due esempi non certo secondari. Il primo è l'insostenibile leggerezza con la quale, proprio in questi giorni, nella Commissione affari costituzionali della Camera dei Deputati la sinistra italiana sta concorrendo, ancora una volta, all'ennesima «riforma» della nostra Carta fondamentale: in un modo, a mio avviso, subalterno a (vecchie e sbagliate) idee altrui. E in ogni caso senza la seria e approfondita discussione, anzitutto tra i cittadini, che sarebbe necessaria: come se la Costituzione fosse nella disponibilità di ristretti ceti politici, e come se il referendum vinto lo scorso anno contro la «riforma» del centro-destra non ci fosse mai stato. Il secondo esempio è il sostanziale disinteresse dimostrato da noi dirigenti politici rispetto all'analisi e alle proposte degli studiosi di Rive Gauche al recente convegno del manifesto. Ma senza grandi e innovative idee-forza, che vadano oltre quanto possibile qui e ora, nessun grande partito della sinistra potrà nascere vitale e con ambizioni di egemonia.
Vi ringrazio per l'ospitalità e auguro a tutti noi il miglior successo nel compito impegnativo, difficile ma decisivo per l'avvenire del paese, che ci siamo dati: costruire insieme il grande partito della sinistra italiana. Oggi, e non domani.

il manifesto 17.10.07
Intervista all'ex garante della privacy Stefano Rodotà: «Bene i giudici della Cassazione, sentenza importante»
«Al centro la persona e la sua idea di dignità»
I giudici aprono al riconoscimento del testamento biologico senza però escludere altre forme per accertare la volontà del paziente
di Eleonora Martini


«Una sentenza di grande rilievo di cui il legislatore non potrà non tenere conto». L'ex garante della privacy Stefano Rodotà vuole leggere «con grande attenzione ogni parola delle 60 pagine» scritte dalla corte di Cassazione. Intanto però considera alcuni punti molto importanti, anche oltre la pur emblematica vicenda di Eluana Englaro sul cui caso i «giudici hanno ritenuto non conforme ai principi di diritto il ragionamento fatto dalla Corte d'Appello di Milano». La Suprema Corte «rimette al centro la volontà del paziente anche quando non è espressa in modo testamentario ma viene ricostruita attraverso la sua personalità, il suo stile di vita, la sua personale idea di dignità». E i giudici hanno anche detto in modo «limpido» che l'alimentazione e l'idratazione artificiali con sondino nasograstrico sono da considerarsi «indubbiamente» trattamenti sanitari. Al punto che la Cassazione riconosce la possibilità di autorizzare la rimozione anche con l'ausilio della sedazione.

Ecco, questi sono punti sui quali si dibatte da mesi e che hanno di fatto bloccato in senato l'iter della legge sul testamento biologico. La Chiesa insiste molto sul fatto che il sondino vada invece considerato un semplice sostegno vitale, quindi non può essere rifiutabile.
È una posizione non sostenibile e smentita dalla comunità scientifica internazionale e anche da una commissione ministeriale nominata da Veronesi quando era ministro. Ora la Cassazione aggiunge correttamente che in sé l'uso del sondino nasogastrico non implica accanimento terapeutico, perché non è detto che ciò sia vero sempre.

Infatti i giudici riconoscono la centralità della personalità del paziente, del suo stile di vita, dei suoi convincimenti personali, in sostanza della sua personale idea di dignità. Questa è una novità?
È una novità che però non fa altro che recepire correttamente l'indicazione costituzionale dell'articolo 32 che è come diceva Calamandrei una norma presbite, con la capacità cioè di guardare lontano. Quell'articolo stabilisce che in nessun caso la legge può imporre trattamenti che siano in contrasto con il rispetto della persona umana. Neppure all'unanimità il legislatore potrebbe prevalere sulla volontà del paziente. Qualcosa che si riassume nell'autonomia della persona e nel rispetto della sua dignità.

Allora quali scenari apre la sentenza?
Apre al riconoscimento pieno del testamento biologico. Perché la Cassazione ci dice che già oggi, anche senza un atto formalizzato come le dichiarazioni anticipate di fine vita, è sempre possibile ricostruire attraverso gli stili di vita e la personalità del paziente che si trova in uno stato vegetativo permanente, la sua volontà di non accettare questo tipo di trattamento. A maggior ragione quindi deve essere accettata una linea legislativa che leghi questa scelta a un atto testamentario volontario.

La corte insomma va oltre, riconoscendo la volontà pregressa del paziente anche quando non è espressa in modo esplicito.
Sì, e la legge sul testamento biologico rispetto a questo corretto ragionamento potrebbe assumere un valore restrittivo e ammettere che si possa interrompere il trattamento soltanto se l'interessato ha esplicitamente manifestato questa volontà in un documento. Insomma questa lettura della Cassazione dà ragione a quanti come me hanno sempre pensato che - sia pur ritenendo necessaria una legge ad hoc per evitare eventuali controversie - essa però non può essere intesa e strutturata in modo da ritenere limitata la volontà della persona. Una legge non deve precludere cioè la possibilità di accertare che la persona manifesti la sua volontà in forme diverse. E questa è un'altra indicazione di cui il senato, che sta discutendo la legge, deve tener conto.

La sentenza fa anche chiarezza su cosa è l'eutanasia quando afferma che «il rifiuto delle terapie, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un'ipotesi di eutanasia».
Questo è un altro passaggio molto significativo: il rifiuto di cure non è eutanasia, ma legittimo diritto di autodeterminazione riconosciuto dalla Costituzione e fondato sul principio del consenso informato. Che, vorrei ricordare, nasce con la Carta di Norimberga del '46 durante il processo ai medici nazisti. Quindi il consenso informato non è affatto il risultato di un'attitudine permissiva, ma viene invece dall'affermazione della libertà della persona come unico presidio della sua dignità e del rifiuto di tutto ciò che con essa è ritenuto incompatibile.

La responsabilità del medico, per la Cassazione, cessa davanti alla volontà espressa dal paziente...
Prima dell'introduzione del consenso informato il paziente era puro oggetto della volontà del medico. Nel momento il cui si introduce quel principio nasce un nuovo soggetto morale, il paziente, che ritorna al centro della relazione col medico.

Un tutore nominato dal giudice e non scelto dalla persona può avere titolo per intervenire in scelte così intime e private? In generale, è giusto che lo stato si addentri in una sfera così privata della persona?
Lo so, questo è un problema, è il punto che mi aveva convinto ad accettare l'idea del fiduciario indicato dallo stesso interessato. Il curatore speciale ha senso quando la persona è sola oppure ci siano dei dubbi che i familiari possano intervenire per tutelare i propri interessi anziché quelli della persona che in quel momento si trova in stato vegetativo permanente. Ma questa sentenza va oltre perché non ha indicato chi deve decidere in un caso come quello di Englaro ma indica le condizioni che si devono verificare affinché si possa decidere di interrompere il trattamento.

il manifesto 17.10.07
I sogni di Adorno
Non di solo inconscio né di solo Io
di Stefano Catucci


Walter Benjamin disse una volta che Adorno osava seguire i suoi passi «sin dentro i sogni», quasi volesse espropriarglieli. Forse perché così esperto nelle tecniche del pedinamento, raccontandoci i propri sogni Adorno ha voluto generare una cortina fumogena che impedisce di trasformare il cacciatore in preda, ovvero di analizzarli in modo da poterne estrarre un ritratto psicologico. Accumulati nel corso degli anni, battuti a macchina dalla moglie Gretel a partire da un'annotazione già messa in forma, i materiali onirici di Adorno sono rivestiti di elementi che invitano a una lettura diversa da quella psicoanalitica. Vengono esplicitati i riferimenti, i rinvii all'iconografia aiutano a spersonalizzare l'immagine restituendola come un contenuto condiviso.
Il raccordo con la dimensione della veglia, che su quel materiale esercita un controllo particolarmente accurato, fa in modo che da essi non traspaia colui che li ha sognati, il fantasma dell'Adorno intimo o privato; emerge, invece, la condizione dell'intellettuale in esilio, del suo rapporto con gli Stati Uniti e con la Germania, del forzato sradicamento di cui sono simbolo eloquente anche i sogni erotici, quelli che in apparenza dovrebbero condurci verso le stanze più segrete del loro autore, infine del ritorno in una patria segnata per sempre dall'impronta della tragedia. Una linea sottilissima divide I miei sogni dalle Meditazioni della vita offesa, sottotitolo di Minima moralia, proprio perché l'offesa è protagonista fin dal primo dei sogni annotati.
Hitler è al potere da un anno, è il 1934, nel sogno un autobus sbanda, resta semisospeso nel vuoto e uno dei passeggeri esclama: «so come andrà a finire, questo andrà avanti ancora per un po', poi l'autobus cadrà e nessuno ne uscirà vivo». La Germania, nel corso degli anni, prende sempre più spesso, per Adorno, le sembianze oniriche di Wagner e del wagnerismo, rivelando una volta di più quanto egli abbia messo in gioco nel suo durissimo confronto con il musicista che aveva voluto rinverdire la stagione del mito, finendo per offrirlo come terreno fecondo alle aberrazioni dell'identità tedesca. Wagner visita spesso i sogni di Adorno insieme a tanta altra musica che gli fa da contrappeso, per esempio il Pierrot Lunaire di Schönberg, e a immagini che facilitano l'evocazione pittorica, per esempio La zattera della Medusa di Delacroix. Ma già l'unità dei motivi che attraversano i singoli sogni, la coerenza narrativa delle trascrizioni, come pure l'idea di farne un libro, per il quale Adorno abbozzò anche una sorta di prefazione, mostrano come l'importanza da lui attribuita a quei materiali non si riduca a quella della documentazione biografica, individuale.
«I nostri sogni», scrisse una volta, «non sono collegati fra loro solo come "nostri", ma formano anche un continuum, fanno parte di un mondo unitario». Non vogliono, perciò avere molto a che spartire con la visione di quella psicoanalisi che Adorno definì arcaica, basata cioè sull'illusione antidialettica che i sogni siano soltanto un prodotto dell'inconscio. «Chi è il soggetto del sogno?», chiese una volta in una lettera proprio a Benjamin. E la risposta, dialettica, era per lui che il soggetto fosse soprattutto il mondo, che fosse cioè la storia a produrre una coscienza di cui il sogno registra una immagine, una intuizione, a volte una profezia.
I miei sogni sembrano perciò rifarsi a una tradizione in realtà antichissima, che interpreta i sogni proiettandoli sul presente, vedendo in essi un tassello della sua comprensione. Quelli di Adorno testimoniano il modo in cui la vita vissuta fa irruzione negli strati più intimi della coscienza e viene da questa restituita come una sorta di anticipazione sul futuro, come se ogni sogno contenesse per sua natura una premonizione su «come andrà a finire».

il manifesto 17.10.07
Theodor W. Adorno. Minima oniralia

Una anticipazione da «I miei sogni» di Theodor W. Adorno, in uscita domani per Bollati Boringhieri a cura di Michele Ranchetti. Pubblicati in Germania oltre trent'anni dopo la morte del filosofo, venivano da lui appuntati al risveglio, senza azzardare alcuna interpretazione

Londra 1937
durante il lavoro al Wagner
Il sogno aveva un titolo: L'ultima avventura di Sigfrido o L'ultima morte di Sigfrido. Si svolgeva su un palcoscenico straordinariamente grande, che non solo rappresentava un paesaggio, ma ancor più lo era: piccole rocce e molta vegetazione quasi come sotto gli alpeggi in alta montagna. Attraverso questo paesaggio scenico Sigfrido incedeva verso il fondo, accompagnato da qualcuno che non riesco più a ricordare. Il suo vestito era per metà mitico, per metà moderno, forse come a una prova. Finalmente trovò uno scopo nel suo antagonista, una figura in costume da cavaliere: abito di lino verdegrigio, pantaloni da cavallerizzo e gambali marroni. Iniziava con lui uno scontro che aveva chiaramente il carattere di un gioco e consisteva nel rivoltare l'avversario come nella lotta, cosa che quello, già disteso per terra, sembrava lasciarsi fare volentieri.
Presto Sigfrido riusciva a metterlo con entrambe le spalle a terra, in modo che fosse dichiarato o si dichiarasse sconfitto. Inaspettatamente però Sigfrido estraeva dalla tasca della giacca un piccolo pugnale, che portava come una penna stilografica con un piccolo fermaglio. Gettava il pugnale da brevissima distanza, come in gioco, nel petto all'avversario. Questo gemeva forte e risultava chiaro che era una donna. Lei correva via e dichiarava che ora sarebbe morta sola nella sua piccola casetta, questa era la cosa più difficile. Spariva in un edificio simile a quelli della colonia degli artisti di Darmstadt. Sigfrido la faceva inseguire dal suo accompagnatore ordinandogli di impadronirsi dei suoi tesori. A questo punto appariva Brunilde sullo sfondo, nella forma della Statua della Libertà di New York. Lei gridava col tono di una moglie sbraitante: «Vorrei avere un anello, vorrei avere un bell'anello, non dimenticare di prenderle l'anello». Così conquistava Sigfrido l'Anello dei Nibelunghi.

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Los Angeles, gennaio 1942
Nell'Untermainkai di Francoforte capitavo nella parata militare di un esercito arabo. Chiedevo al re Ali Feisal di farmi passare, e lui lo concedeva. Entravo in una bella casa. Dopo alcuni eventi poco chiari venivo indirizzato a un altro piano, dal Presidente Roosevelt che là aveva il suo piccolo ufficio privato. Lui mi accoglieva con molta cordialità. Ma come si parla ai bambini, mi diceva che non dovevo stare attento tutto il tempo, e potevo tranquillamente prendere un libro. Aveva visite di ogni tipo, ma quasi non ci facevo caso. Alla fine arrivava un uomo alto bruciato dal sole, che Roosevelt mi presentava. Era Knudsen. Il presidente dichiarava che adesso si trattava di questioni di difesa, e doveva chiedermi di uscire. Ma che dovevo assolutamente tornare a trovarlo. Su un foglietto dove già era scritto qualcosa scribacchiava il suo nome, l'indirizzo e il numero di telefono. L'ascensore non mi portava al piano terra, all'uscita, ma nel sotterraneo. Qui incombeva il più grande pericolo. Se fossi rimasto nel vano, l'ascensore mi avrebbe schiacciato; se mi fossi messo in salvo sul rialzo che lo circondava - ci arrivavo appena - mi sarei impigliato nei cavi e nelle funi.
Qualcuno mi consigliava di cercare un altro rialzo, che si trovava però chissà dove. Dicevo qualcosa dei coccodrilli, ma seguivo il consiglio. E già i coccodrilli arrivavano. Avevano teste di donne straordinariamente graziose. Una mi incoraggiava. Essere mangiati non avrebbe fatto male. Per rendermi la cosa più facile mi prometteva prima ancora le cose più belle.

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Los Angeles, fine maggio 1942
Ho sognato che dovevo essere crocifisso. La crocifissione aveva luogo vicino alla Bockenheim Warte, nei pressi dell'Università. Tutta la vicenda era priva di paura. Bockenheim somigliava a un villaggio domenicale, mortalmente pacifico, come sotto vetro. Io lo guardavo con grandissima attenzione nella passeggiata verso il patibolo. Credevo infatti di poter trarre dall'aspetto delle cose in questo mio ultimo giorno qualcosa di preciso sull'aldilà. Nello stesso tempo però mi dicevo che ci si deve guardare dal trarre conclusioni precipitose.
Non ci si doveva per esempio lasciar indurre, dato che a Bockenheim dominava ancora la semplice produzione di merci, ad attribuire verità oggettiva alla religione che là veniva ancora praticata. Del resto, ero preoccupato non sapendo se la sera della crocifissione mi avrebbero consentito di partecipare a un pranzo straordinariamente elegante a cui ero invitato, ma al riguardo ero fiducioso.

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Los Angeles, 10 gennaio 1943
Andavo in un bordello americano. Si trattava di un grande etablissement, molto pretenzioso. Chi entrava, però, doveva sopportare infinite formalità: to register, riempire questionari, parlare con la tenutaria, con la sua assistente e infine con la responsabile del reparto commerciale. Quando infine si arrivava alla scelta veniva fuori che la casa di piacere era quasi interamente occupata dall'amministrazione, così che alle ragazze restava a disposizione soltanto una piccola stanza in comune disordinata. Ricordava la stanza d'albergo di un virtuoso in viaggio, dove il letto disfatto doveva servire da sedile ai troppi visitatori.
Le ragazze si sentivano abbastanza oppresse. Non erano più di cinque o sei, piuttosto insignificanti, o brutte. Solo una, nuda però innocente sul letto, mi pareva molto bella. Si chiamava Ead. (Motivo: Wildgans, Sonetti a Ead. La sera prima avevo scritto un sonetto per R.). Aveva un solo difetto: era tutta di vetro, o piuttosto di quel materiale elastico e trasparente di cui sono fatte le mie bretelle nuove. Si poteva addirittura guardare attraverso la sua testa. Eppure non era per niente morta: aveva invece una specie di vita anche se non del tutto giusta: sembrava connessa con la flessuosità del materiale. Esitavo sempre a prenderla. Mi sembrava naturale che la signora dell'amministrazione che curava la presentazione delle ragazze fosse piuttosto carina, anche se un po' grassoccia. Con parole cortesi le spiegavo che non doveva offendersi, ma per la sua posizione nel bordello potevo forse supporre una certa assenza di pregiudizi, e dal momento che lei era più attraente delle sue protette mi permettevo di chiederle se non volesse farlo con me. (Motivo: la padrona dello Sphinx di Parigi). Pareva lusingata, ma nel corso delle complicate trattative che seguivano il sogno si è oscurato.

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Los Angeles, 1° agosto 1944
Ancora una volta - come il Pierrot lunaire - dovevo essere giustiziato. Questa volta al modo di un maiale. Buttato nell'acqua bollente. Mi garantivano che era del tutto indolore, si era già morti prima di rendersi conto di alcunché. Io del resto non avevo alcuna paura, mi stupiva un po' un dettaglio tecnico: che subito dopo la scottatura, come in un bagno caldo, doveva essere aggiunta dell'acqua fredda. Mi buttavano dunque nel pentolone.
Con indicibile sorpresa, però, non morivo subito, e non provavo nemmeno dolore. Invece - probabilmente proprio per l'aggiunta dell'acqua - avevo la sensazione di una pressione crescente in modo insopportabile. Lo sapevo: se non fossi riuscito a svegliarmi ora, sarei dovuto veramente morire. Svegliato con grande sforzo (sognato infatti in pessima condizione fisica, forte nevralgia, tra sano e malato dopo la visita di Luise Rainer durata sino a notte fonda).

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17 dicembre 1967
Avevo un'amante di straordinaria bellezza ed eleganza, ricordava A., ma aveva qualcosa della gran dama, ero molto orgoglioso di lei. Mi diceva che dovevo assolutamente procurarmi una macchina lava-pene. Quando obiettavo che facevo il bagno tutti i giorni e mi tenevo estremamente pulito, rispondeva che solo quella macchina garantiva che in quel posto si fosse privi di ogni odore fastidioso; solo se me ne fossi comprato una avrebbe continuato ad amarmi con la bocca. Non ero sicuro che lei non fosse una rappresentante della ditta che produceva la macchina. Svegliato ridendo.
La luna doveva cadere sulla terra. La vedevo di giorno pallidissima stare in cielo così come appare davvero di giorno, ma forse dieci volte più grande. In modo sanguigno, mi consolavo pensando: se davvero è fatta per lo più di polvere o di una sostanza sciolta, l'impatto non sarà così grave.

il Riformista 17.10.07
Bravo Walter, hai coronato il mio sogno»
di Fabrizio d'Esposito


Più di tre lustri dopo, Adornato rilegge Adornato. Nel vero senso della parola. Pagine 197 e 198 di Oltre la sinistra, edizioni Rizzoli, anno 1991. «A dire il vero, l'avevo scritto nel 1989, tre mesi prima del crollo del Muro, ma poi lo pubblicai solo due anni dopo». Nel suo studio della fondazione liberal, a Roma, il deputato forzista pesca il volume da uno scaffale a fianco della scrivania. Le pagine sono ingiallite. Il contenuto un po' meno. Il papà di quella che fu Alleanza democratica rilegge ad alta voce i dieci punti del suo sogno di allora: una società aperta, la libertà come metro di misura della civiltà, riforme istituzionali contro la partitocrazia, nuovo rapporto tra etica e progresso, meno statalismo, una politica non più basata «sulla produzione infinita di Nemici». Erano gli anni novanta e Tangentopoli portò la prima stagione repubblicana dell'antipolitica. Dice Adornato: «Certo, rileggerli adesso fa effetto anche a me. Guardi qui, più avanti scrivo che c'era bisogno di un vero Partito democratico. Ricordo che nell'89 ne discutevo già con Martelli e Ruffolo. Però è anche vero che molti di quei punti sono poi stati al centro del berlusconismo. In realtà, quando fondai Alleanza democratica Berlusconi ancora non c'era. Come si vede il mio percorso è molto più coerente di quanto pensino quelli che mi hanno liquidato come voltagabbana. Anche perché io dal Pci ero uscito nel 1983». Adornato, infatti, dopo la fine di Ad nel '94, tramortita prima dal divorzio da Mariotto Segni poi stecchita dal Pds occhettiano, oggi è diventato un berluscones di rango, primo sostenitore del Partito unico delle libertà che ancora non c'è. Ma questo non vuol dire rinnegare quella stagione in cui lui tentò di andare oltre la sinistra con una grande e variegata aggregazione "democratica". Anzi, il trionfo di Veltroni alle primarie, per Adornato, è un tardivo coronamento di quel progetto. Senza contare, che i due, coetanei, sono amici da decenni. Da quando, cioè, militavano entrambi nella Fgci romana, negli anni settanta.
Spiega il direttore di liberal: «Sono felicissimo per questo traguardo e credo che il primo segretario del Pd non poteva essere che Walter, cui faccio tantissimi auguri. Lo dico anche adesso che sto con convinzione nel centrodestra. Vede, il Pd va trattato con rispetto. Che importa se hanno votato un milione o tre milioni di persone? Per me non cambia nulla perché si tratta del primo, seppur contraddittorio, esperimento di autoriforma del sistema dall'interno. Infatti, la politica italiana negli ultimi 15 anni è stata influenzata solo da fattori esterni: la fine del comunismo, mani pulite e l'avvento di Berlusconi e Prodi, anche loro arrivati da fuori. Il Pd apre una grande stagione, avvia un meccanismo virtuoso perché la competizione tra persone fa bene al cuore della politica, anche se poi io la differenza tra i vari candidati non l'ho capita. E il centrodestra non può permettersi di stare fermo. Rischia grosso. I sondaggi ci danno per vincenti ma se poi dopo la vittoria non offriremo un prodotto di qualità falliremo. Invece di gridare all'altro che è zoppo perché non cominciamo a correre?».
Fermiamoci però al '94, l'ultimo anno di Ad. Che fece Veltroni allora per non far morire quel sogno? Risposta: «Non fece nulla, come gli altri. Ma non glielo posso rimproverare. Paradossalmente se Walter oggi è il primo segretario del Pd è proprio perché allora non si mosse. Certo se il Pd fosse stato fatto 13 anni fa la storia d'Italia sarebbe cambiata, pensi che allora Rifondazione era appena nata, non aveva tutto quel peso che ha oggi. Per quel fallimento, io ho sofferto come un cane. Il mio progetto era mettere insieme Segni e la sinistra non più comunista. Ad nacque nel settembre del '93 e il programma lo scrivemmo io e Giulio Tremonti. Poi, alle elezioni del '94, Segni andò da solo e i miei, all'interno di Ad, mi imposero l'alleanza coi Progressisti. Non a caso subito dopo il voto mi dimisi. Prendemmo l'1,2 per cento. Allora era una roba da vergognarsi, oggi invece avremmo almeno due ministri. Adesso le rivelo un episodio inedito, posso?». Prego: «Sempre dopo il voto, mi telefonò Berlusconi, premier incaricato, che mi chiese di partecipare al giro di consultazioni. Io non lo conoscevo e gli risposi che non ero più il rappresentante di Ad, mi ero dimesso, e che quindi doveva chiamare altri. Ma lui insisteva e a quel punto gli dissi che la sua richiesta mi metteva in difficoltà. Avrebbero pensato tutti che volessi entrare nel governo. Berlusconi mi propose allora un appuntamento segreto, nel seminterrato della Camera. Ci vedemmo e lui veramente mi chiese di entrare nel governo. Sicuramente non era vero, ma io rifiutai perché ero stato eletto in un'altra coalizione. Quando però ci salutammo, non senza averlo ringraziato, gli feci una battuta: "Avrei voluto fare il ministro dell'Interno solo per sciogliere il Pds"».
Detto questo, Adornato ritorna sul Pd del suo amico Walter. Stavolta con critiche che suonano però anche come consigli: «Lasciamo stare questa scemenza del berlusconismo di sinistra secondo cui anche lui sarebbe un uomo solo al comando. Non è vero per Berlusconi, non è vero per Veltroni. Walter è uno che conosce la politica, sa che non è solamente un volto, un nome, un gobbo elettronico. Però il suo partito appena nato è vero che si distingue dalla sinistra ma ancora non la supera. Ecco, fare un capolavoro assoluto, non mediatico, come quello di Berlusconi, che ha riunito con successo politica e antipolitica, con una grande capacità di mediazione, non è affatto semplice. Da questo punto di vista il veltronismo ancora non esiste. Superare la sinistra radicale sarà il suo compito più difficile. E se fallisce saranno guai per tutti, anche per noi. Perché? Perché in questo quadro se il Pd si smarca dai massimalisti non vince le elezioni. Di conseguenza Veltroni rischia un paradosso: che per garantire una certa governabilità possa essere costretto a superare, ahimè, il bipolarismo non la sinistra. Io invece sogno un sistema con due grandi partiti, uno alla Kohl, l'altro alla Blair. Noi abbiamo i valori, il progetto e non il partito. Loro, l'esatto contrario. Hanno il partito ma non tutto il resto. Per quanto riguarda il centrodestra, non vorrei che anche qui ci mettessero 15 anni a capirlo. In ogni caso, a quel punto potrei andare in pensione e raccontare ai miei nipotini di aver contribuito nel mio piccolo alla nascita di un vero bipolarismo». La conversazione con Adornato è finita. Il deputato azzurro sfoglia ancora il suo libro del '91, Oltre la sinistra. Conclude: «La verità è che da quel momento in poi ho maturato la mia conversione religiosa. Legga la dedica: "A mio padre perché aveva ragione". Lui non voleva che stessi a sinistra, era cattolico, aveva paura. Negli anni settanta il clima era quello che era. Ma io lo mandavo sempre a quel paese. Non avevo capito nulla. Ringrazio il Riformista per essersi ricordato di questo libro».


Canova e la Venere Vincitrice
Sotto l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica
dal 18 ottobre 2007 al 3 febbraio 2008 alla Galleria Borghese
CONFERENZA STAMPA
mercoledì 17 ottobre ore 11
L'accesso alla Galleria Borghese sarà consentito
esclusivamente ai giornalisti accreditati.
fax 0668808671
ufficiostampa@mondomostre.it


Dieci grandi mostre: con il contributo di Enel, di Compagnia di San Paolo e dell'Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, cinquanta capolavori sulla divinità della bellezza di colui che ha trasformato il marmo in 'vera carne'

L'arte sublime di Antonio Canova e la 'villa più bella del mondo', come egli stesso amava definire la Galleria Borghese, per una monografica ambientata nel luogo tanto caro allo scultore nel 250° anniversario della sua nascita e nel bicentenario della Paolina Borghese Bonaparte come Venere Vincitrice.
Canova e la Venere Vincitrice, esposizione curata da Anna Coliva e Fernando Mazzocca, e organizzata da Mondomostre, è la seconda rassegna del programma espositivo 'Dieci grandi mostre', messo a punto dal Soprintendente Speciale per il Polo Museale Romano Claudio Strinati e dalla direttrice della Galleria Borghese Anna Coliva.
La mostra intende illustrare da una parte le complesse relazioni tra Canova, il principe Camillo Borghese e la famiglia Bonaparte, per la quale egli elaborò la particolare tipologia del ritratto divinizzato in scultura, di cui ci si propone di presentare altri esempi da confrontare con quello di Paolina come Venere Vincitrice. Dall'altra si vuole ripercorrerne la carriera seguendo, attraverso oltre cinquanta opere provenienti dai più grandi musei del mondo, la continua rielaborazione, dalla fine degli anni Ottanta del Settecento, del tema di Venere: oltre ai grandi marmi, disegni, tempere, monocromi, dipinti, bozzetti in creta e terracotta per un esempio eloquente del metodo di lavoro di Canova. Tra le opere in mostra saranno presenti sedici dei suoi grandi marmi: le Tre Grazie dall'Ermitage di San Pietroburgo, la Naiade dal Metropolitan Museum di New York, la Ninfa dormiente dal Victoria & Albert Museum di Londra, la Venere dal Leeds City Art Gallery, la Venere Italica dalla Galleria Palatina di Firenze, Amore e Psiche stanti dal Louvre di Parigi, il Ritratto di Principessa Leopoldina Esterhazy Liechtenstein dal Castello Esterhazy di Eisenstadt in Austria e la Tersicore dalla Fondazione Magnani Rocca di Parma. Per la prima volta in Italia la serie completa degli Amorini: Amorino Lubomirski (1786-88) dal Castello Lancut in Polonia, Amorino Campbell (1787-89) dall'Anglesey Abbey di Cambridge, Amorino Latouche (1789) dalla National Gallery of Ireland di Dublino e Amorino Yussupov (1793-97), l'unico alato, dall'Ermitage di San Pietroburgo.
Alla Galleria Borghese il visitatore potrà confrontare i lavori del Canova con i pezzi a cui l'artista si è ispirato. La mostra, si propone infatti di ricreare, nel dialogo tra le statue di Canova, i capolavori di Bernini e i marmi antichi, un'atmosfera simile a quella che si doveva respirare nel 1808. Canova non traeva solo spunto dalla scultura antica ma anche dalla pittura. La Paolina, per prima, gareggia in bellezza e in sensualità con le Veneri di Tiziano o con la Danae di Correggio.