venerdì 19 ottobre 2007

il Riformista 19.10.07
Il relativismo non c’entra
di Claudia Mancina


C’entra il pluralismo etico La Chiesa, e quindi l’Osservatore romano, hanno sicuramente il diritto di esprimere pareri e formulare giudizi su tutti i fatti e gli eventi della vita pubblica italiana, anche su una sentenza della Corte di Cassazione. Tuttavia potremmo chiedere un po’ più di rispetto per la suprema corte, e insieme un po’ più di rispetto per il pubblico, cioè per noi tutti. Rispetto significa attenersi alla realtà e non fare ad arte confusione tra cose diverse. Nel riaprire il processo sulla sorte di Eluana Englaro, la Cassazione non ha espresso un orientamento all’eutanasia. È assolutamente fuorviante parlare di eutanasia a proposito del rifiuto delle cure: lo scambio, voluto, ha evidentemente lo scopo di proiettare tutta la problematicità dell’eutanasia su una questione molto più semplice e circoscritta, sulla quale il consenso dell’opinione pubblica è tendenzialmente molto più alto, come si è visto nella recente emblematica vicenda di Welby. Non è vero che nella sentenza, e in generale nella spinta attuale al riconoscimento del diritto di rifiutare qualunque trattamento sanitario, comprese l’idratazione e l’alimentazione, si esprima un cedimento all’eutanasia: si tratta solo di prendere atto che oggi la fase terminale della vita solo raramente è un processo naturale, e quindi va riportata nell’ambito della capacità di scelta e della libertà di decidere del paziente, che peraltro è sancita dalla nostra Costituzione. Anche sull’eutanasia volontaria, peraltro, sarebbe possibile e opportuno affrontare un dibattito sereno, come del resto sta avvenendo in molti paesi europei. Tuttavia è chiaro che si tratta di un tema scabroso: lo testimonia la decisione presa dal parlamento spagnolo, compresi i deputati socialisti, di non affrontare oggi una proposta di legge sul tema, presumibilmente per non creare nuove tensioni a poca distanza dalle elezioni politiche del 2008.
La scelta, già sperimentata con Welby, di schiacciare il rifiuto delle cure sull’eutanasia risponde dunque a una logica di battaglia estrema, basata sull’idea che sia in gioco l’umanità stessa e che solo la Chiesa la possa difendere, battendosi contro un supposto relativismo che mortificherebbe la dignità umana. Ma proprio qui si palesa un macroscopico errore di prospettiva. La dignità non è un attributo del corpo biologico, ma sta nella coscienza e nella libertà che costituiscono il destino - spesso tragico - dell’essere umano. Il relativismo non c’entra nulla; c’entra invece il pluralismo etico, che è un fatto e perfino, con buona pace dei cattolici, un fatto positivo. Solo le società teocratiche o totalitarie possono essere omogenee dal punto di vista etico. In regime di libertà è del tutto inevitabile che vi siano diverse etiche, e non una sola. La Chiesa non ha il monopolio dell’etica, e la società moderna non è una società disumanizzata, ma - fortunatamente - una società pluralista: cioè una società in cui si confrontano diverse idee su che cos’è l’umanità e il suo destino. È del tutto normale che la legge e i tribunali riflettano questa realtà.
Il pluralismo in realtà garantisce tutti (compresi i cattolici) senza impedire a nessuno di seguire le proprie convinzioni né di sostenerle pubblicamente criticando e anche combattendo - con le forze della ragione e dell’argomentazione - quelle degli altri. Per questo il pluralismo richiede un solo requisito: il rispetto degli altri, pur nel convinto sostegno delle proprie idee. Quando si fa ricorso a qualunque argomento, pur di avere la meglio, si viene meno a questo rispetto. Confondere il rifiuto delle cure con l’eutanasia, il pluralismo con il relativismo, è un gioco scorretto, che non fa onore a chi lo pratica. E mostra una certa cattiva coscienza: come se si temesse - restando sul terreno del confronto corretto tra diversi modi di pensare - di non avere abbastanza presa sull’opinione pubblica, e forse soprattutto sui suoi rappresentanti politici. È alla politica infatti che si rivolgono queste intemerate. Non ci resta che sperare che la politica sappia rispondere con serenità e con spirito di responsabilità.

Repubblica 19.10.07
"In piazza ma non contro il governo"
Rifondazione rassicura Prodi. Ingrao star del corteo. Mussi: sono preoccupato
di Umberto Rosso


ROMA - Anche Pietro Ingrao, il grande vecchio della sinistra, firmatario dell´appello per la manifestazione di domani contro la precarietà, vuole esserci. Sarà lui la star alla partenza del corteo, in piazza della Repubblica, insieme a Aldo Tortorella, Gianni Rinaldini (il leader della Fiom), Marco Revelli, il professor Paul Ginsburg (mentre Rossana Rossanda è bloccata a Parigi), e naturalmente Giordano e Diliberto, con i tre direttori di Liberazione, Manifesto e Carta. In testa al serpentone il grande striscione, in giallo e nero, "Siamo tutti un programma", sorretto da lavavetri, precari, gay, studenti, migranti e operai.
Il programma, quello dell´Unione, che Rifondazione e Pdci "ricordano" a Prodi scendendo in piazza, a cominciare dall´accordo sul welfare approvato dal governo con l´astensione dei due ministri Ferrero e Bianchi, che però non sfileranno: niente manifestazione per gli uomini di governo per «evitare strumentalizzazioni», sempre che qualche sottosegretario non decida di presentarsi comunque all´appuntamento. Problemi per Prodi? Nessuno, giurano i leader di "mezza" Cosa rossa, visto che l´altra metà - Sinistra democratica e Verdi - non partecipa, pur riconoscendo le buone ragioni dell´iniziativa.
«Una manifestazione che rivendica l´attuazione del programma - garantisce Franco Giordano - non può rappresentare alcuna minaccia per il governo». Fabio Mussi però è preoccupato per un corteo che «si presta troppo alla protesta». Slogan contro il Professore? Di sicuro non nello spezzone ufficiale però, siccome «è difficile controllare un corteo con centinaia di migliaia di partecipanti», sono da mettere nel conto. Però Cobas, Disobbedienti, i centri sociali più duri hanno dato forfait, contestando la linea subalterna al governo. Sorvegliati speciali invece il centro "Action" di Nunzio D´Erme e i gruppi napoletani vicini a Francesco Caruso.
Le polemiche non mancano. Con Epifani e la Cgil, che ha anche vietato l´uso delle proprie bandiere. Fausto Bertinotti ironizza, «non ho mai visto un corteo senza bandiere, ci saranno», prevede una grande e pacifica manifestazione, «per cui rimando al premier tutte le eventuali preoccupazioni». Quelli della Fiom si presenteranno perciò dietro un grande e sarcastico striscione, senza sigla, "Io sono metalmeccanico e tu?", slogan anche "indossato" dagli operai, sulle mille magliette rosse e blu confezionate per l´occasione. Colore lungo il percorso assicurato, fra l´altro, anche da una dozzina di "carri" (cinque con il "sound system", musica a palla, e un carro funebre dedicato a Sviluppo Italia); alcune bande musicali municipali; amministratori locali toscani con attrezzi da lavavetri; sette roulotte cariche di rom.
Più in chiaroscuro però il percorso verso la Cosa rossa, con il 20 ottobre che avrebbe dovuto funzionare da trampolino di lancio. Invece, i Verdi presenti solo con stand informativi sugli ogm, e soltanto 4 senatori di Sd (Mele, Pisa, Di Siena, Paolo Brutti) in pista. Prc e Pdci sperano però sulla presenza della base dell´ex correntone, almeno due coordinatori regionali di Sd (Piemonte e Basilicata) ci saranno. Per i due partiti, come dice lo stesso Oliviero Diliberto, quello di domani sarà «un banco di prova decisivo». Massima mobilitazione, allora, anche per cancellare il flop del giugno scorso, quando a piazza del Popolo contro Bush si ritrovarono in poche migliaia. Piazza San Giovanni, scelta stavolta come location per la chiusura, non è facile da riempire. Previsioni ufficialmente non ne fanno, ma l´asticella è a quota 150 mila, immaginandone però almeno il doppio. E se si va oltre tutti pronti a celebrare il successone.

il manifesto 19.10.07
Intervista a Pietro Ingrao: «Sarò con voi in piazza. A partire dalla lotta contro la guerra infinita»

Una giornata molto pacifica
«C'è stato un impallidimento dell'impegno per la pace, in Italia e altrove. È vivo ancora quell'articolo 11 scritto in Costituzione? Io il 20 ottobre vado a dire che sì, è vivo, anche se lo farò tremando» «Vedo quanto sia pesante la condizione del soggetto lavorativo e con quale difficoltà stia tornando sulla scena il grande tema della liberazione del lavoro. E se spingo più lontano lo sguardo vedo risorgere la guerra: laggiù in Medio Oriente»
di Gabriele Polo


Novantadue anni e tanta voglia di partecipare. Pietro Ingrao non si tira indietro e si prepara a scendere in piazza domani: «Almeno un pezzetto di corteo lo voglio fare. Poi, se non sarò troppo stanco, ci vediamo sul palco per un saluto a tutti». E, oggi, vuole dire la sua. Sul 20 ottobre, ma non solo, perché il futuro della sinistra gli sta troppo a cuore.

Tu sei tra quelli che hanno lanciato l'appello per la manifestazione del 20 ottobre. Perché e quale problema metti al primo posto?
Volgo gli occhi intorno a me. E vedo quanto sia tornato pesante la condizione del soggetto lavorativo. Sono una persona molto anziana. E vedo con quale pesantezza sta tornando sulla scena il grande tema della liberazione del lavoro. E mi torna in mente quella canzone- ricordi?- "il riscatto del lavoro/ dei suoi figli opra sarà..." Come sento di nuovo, attuale, bruciante quel canto... E spingo più lontano lo sguardo vedo risorgere la guerra: laggiù in Medio Oriente.
E capisco e spero che domani tanti accorrano a Roma, scendano in piazza...
Ma noi italiani ci siamo ritirati dalla guerra in Iraq
Si: anche se tardi e male. In quelle terre ancora oggi la guerra continua. Né si sa se e quando l'invasore americano intenda ritirarsi.. e i luoghi in cui ancora oggi la guerra campeggia sono cruciali per l'economia del mondo e anche per il mondo islamico a lungo e rovinosamente oppresso dall'Occidente. Noi occidentali da tempo siamo andati a rapinare in quelle terre. E in un modo o in un altro- gli americani in testa a tutti- l'ingerenza occidentale continua.
Io prego i miei concittadini italiani che sabato vadano in tanti a dire: basta.
Eppure il governo italiano continua a sostenere l'apertura di una nuova base americana a Vicenza. E rimanda ai vincoli militari, ai patti con gli Stati Uniti.
Io conosco una legge che per me e per la mia patria sta al di sopra di qualsiasi patto con altri Stati. Sta scritto in Costituzione (articolo 11!) che per l'Italia è lecita solo la guerra di difesa. Quel vincolo è esattamente l'opposto della guerra preventiva praticata da Bush. È vivo ancora quell'articolo 11 scritto in Costituzione? Io il 20 ottobre vado a dire che sì, è vivo, anche se lo farò tremando.
Perché? Che temi?
Perché c'è stato un impallidimento dell'impegno alla pace: nel mio Paese e anche altrove. E sento il bisogno ardente che torni- fra tanti miei compatrioti, e anche al di là- una sete della pace: e valga ad incidere nella vita reale e nell'idea che abbiamo del mondo...
Il 20 potrebbe essere un tentativo di ripresa a partire da questi problemi. Ma c'è un quadro politico difficile, una sinistra frammentata. Cosa pensi del partito democratico? Lo si può considerare una forza di sinistra?
Chiamiamo le cose col loro nome. Prodi e Veltroni- due uomini politici che io stimo - sono chiaramente dei leader «moderati». E con essi penso si possano stringere utili alleanze, e sviluppare insieme anche progetti di largo respiro.
Ma tutti sappiamo e vediamo che Prodi non ha nulla a che fare col socialismo e col pacifismo. Diamo dunque a ciascuno il suo nome.
E misuriamo, valutiamo le possibili alleanze contro i comuni avversari, i reazionari dichiarati alla Berlusconi.
Ma contemporaneamente lavoriamo a rendere forte e vitale lo schieramento di sinistra, evitando le inutili frantumazioni. Io stimo Di Pietro ma so bene che non ha nulla a che fare con una lettura di classe del mondo in cui vivo.
Dalle banche ai manager dell'industria, al mondo delle professioni... Ma con questo Pd, poi la sinistra che deve fare? Un'alleanza elettorale o no?
Classificarli per quello che sono, senza bugie. So che essi sono contro uno schieramento di destra che in Italia, purtroppo, è forte ed arrogante e tiene forti leve di comando in mano.
Non mi scordo Berlusconi. E non voglio, non posso assolutamente rinunciare a un sistema di alleanze che mi dia forza nel combatterlo, e so che Prodi è un moderato che lotta contro i conservatori reazionari. E io - in questo - voglio stringere alleanza con lui.
Ma la sinistra di classe a cui sono legato è altro. Muove da un'altra lettura del mondo. Un tempo erano dense di vita le sezioni, le case del popolo, dove si costruivano comunanze, letture del presente, ipotesi sul domani.
Oggi le sezioni praticamente non esistono più o sono semivuote...
Non credo che sia così, ma non ne so abbastanza. E con le mie deboli forze, ostinatamente voglio lavorare alla resurrezione di quei luoghi di formazione politica e di scatto della lotta. E avendo questo non penso solo al calcolo materiale dei voti possibili. Il 20 ottobre noi andiamo a cercare una convenienza più profonda: resto ad affermare come forza, ma anche a costruire una convenzione, una lettura comune della società controversa in cui vivo: compreso il dubbio, l'interrogarsi dubitando: la comunanza nella ricerca.
Oggi invece tutto questo non c'è, ci sono le primarie... Cosa ne pensi?
Ne comprendo poco. So però che per costruire una identità di popolo bisognava fissare regole, se vuoi contare voti, apprendere segni. E comprendo, tutelo anche queste regole.
Ma la partecipazione politica è altro e di più. Io ho vissuto un'esperienza in cui la politica si dipanava nella sezione, nella Camera del lavoro, spesso per strada, dove il sindaco camminava, incontrava, rispondeva; e il capo del sindacato semmai litigava col compagno operaio. Pezzi di società, od anche storia di singoli che evolvevano insieme. Il 20 di ottobre scendiamo in piazza anche e molto per comunicare: per conoscerci. Vogliamo, speriamo di parlare anche a chi è lontano e non sa, o dubita.
Magari non è attivo ma potrebbe essere riattivato...
Tu dirigi un giornale di battaglia, come il Manifesto, e ne sai più di me: stai dentro l'urto quotidiano.
Però è di grande importanza che in queste brevi ore mancanti all'appuntamento di sabato si discuta sulle strategie, sulle vie su cui intendiamo comminare. E questo come domanda pubblica che la sinistra pone a se stessa e ai suoi alleati.
È tardi? Non lo so. Ma si può. E bisogna accelerare il cammino.
E tu quale compito metti al primo posto?
Ti rispondo con due parole: la lotta alla guerra.
Ma da quando le truppe italiane si sono ritirate dall'Iraq, anche per l'opinione pubblica italiana la guerra è «scomparsa», l'Iraq è rimosso, l'Afghanistan sembra questione di addetti ai lavori...
Sì, ce ne siamo andati e basta. E invece non si chiede solo questo a noi. Io credo che noi dobbiamo lavorare non solo per spegnere questa guerra infame che continua in Irak. Dobbiamo respingere l'agire armato di massa. E rilanciare le forme civili di confronto , i possibili compromessi, i riconoscimenti reciproci. Anche dubitando.
Lo confesso: credo al valore del dubbio, e al confronto con l'altro.
Sì, che rimanda a una pratica dell'umano...
Abbassando un po' la voce potremmo dire: è una lettura del mondo.

il manifesto 19.10.07
Legge 40, la riforma dovuta
Fecondazione assistita: diminuiscono le gravidanze, aumentano parti plurimi e turismo procreativo. Urge cancellare l'articolo 14, il divieto di donazione di gameti e di diagnosi pre-impianto
di Grazia Zuffa


Nel clima di nuovi costituendi partiti (Pd), di rimescolamento di culture, di lancio di nuovi soggetti politici (la sinistra che s'ha da fare), i temi «etici» sono al centro, a volte sbandierati come la panacea per la rinascita della politica. Cominciamo a mettere alcuni punti fermi. Le prime mosse della partita si giocano intorno alla distinzione fra etica, o meglio fra etiche, e legge, oggi più travagliata che mai; e intorno a ciò che è definito come eticamente rilevante nel discorso pubblico. Per me la tutela della salute della donna e quella del nascituro hanno rilievo etico, per non dire che sono anche beni costituzionalmente protetti, che la legge ordinaria dovrebbe rafforzare, non contrastare. Eppure, dai dati sull'applicazione della legge 40, presentati il 17 ottobre alla camera dalla ministra Turco, emerge un quadro da vero far west della fecondazione assistita, secondo il vecchio adagio del «si stava meglio quando (a detta di alcuni) si stava peggio».
Rispetto alla situazione precedente alla legge, si registrano un minor numero di gravidanze e di bambini nati, mentre aumenta la percentuale di trattamenti che non giungono a buon esito. Avvengono più parti plurimi (dal 22,7% del 2003 al 24,3% del 2005), laddove negli altri paesi c'è una costante diminuzione di questo tipo di gravidanze più rischiose. Non c'è dunque da stupirsi del «fenomeno della migrazione delle coppie verso i centri esteri, non solo per avere trattamenti vietati dalla legge 40 (donazione di gameti o diagnosi genetica preimpianto), ma anche per ottenere l'applicazione delle tecniche con la più alta percentuale di successo possibile»: così recita la relazione del ministero.
Veniamo al nodo che la legge riconosce come l'unico davvero «eticamente sensibile»(a fronte di una evidente insensibilità verso gli aspetti succitati): la tutela della «dignità dell'embrione» da cui discende la produzione di non più di tre embrioni «da trasferire in un unico e contemporaneo impianto» e il divieto di congelamento degli stessi. Una prima conseguenza: c'è un tasso altissimo di ovociti scartati (51,1%), che non sono fecondati per non superare il numero di embrioni consentito. Ovociti che non possono essere ceduti ad altre donne, stante il divieto di donazione.
Un inciso: due mesi fa il Comitato di Bioetica ha votato a maggioranza una mozione di «condanna della compravendita di ovociti», mirante, dietro questo titolo, a stigmatizzare i rimborsi spese per le donne donatrici, vigenti in altri paesi (e praticati correntemente per ogni genere di donazione). Il problema dell'invasività del prelievo esiste, ma sarebbe almeno in parte risolto incentivando la cessione di ovociti da parte di donne che si sottopongono alla pratica per avere un figlio proprio, come accadeva prima della legge 40. Le presentatrici della mozione si sono guardate bene dall'accettare il confronto su questo punto (come su altri sollevati). Distrutti gli ovociti «gratuiti», esposte ai rischi della clandestinità le donne più «deboli» che decidono di donare, ma salvo il divieto: scherzi dell'etica.
Più in generale, le norme «a tutela della dignità dell'embrione» sono alla base della caduta di efficacia delle pratiche, della loro maggiore invasività, delle gravidanze più difficili, delle nascite più rischiose.
Si noti che in realtà il divieto di congelamento degli embrioni è stato già modificato dalle linee guida, che prevedono la crioconservazione non solo per causa di forza maggiore dovuta alla salute della donna (come dice la legge), ma anche quando «comunque un trasferimento non risulti attuato». Si stabilisce in pratica che l'impianto dei tre embrioni sia da ritenersi obbligatorio, ma non coercibile contro la volontà della donna (un certo numero di questi embrioni esiste, tanto che se ne sta occupando il Comitato di bioetica). Tutto ciò rende ancora più odioso l'articolo di legge, se mai fosse possibile. Da un lato, perché ne accentua il carattere di norma manifesto, a sancire il «diritto a nascere» anche a costo di degradare la donna a corpo-macchina (altro scherzo dell'etica); dall'altro, perché il contrasto fra la legge e le indicazioni applicative rende più arbitrarie le scelte del medico e più indifese le donne.
Da questi dati, una indicazione per modificare la legge emerge: eliminazione dell'art.14 (limiti all'applicazione delle tecniche sugli embrioni), del divieto di donazione di gameti, della proibizione della diagnosi pre-impianto: su questo la sentenza del tribunale di Cagliari, che ha consentito la pratica a una coppia di genitori, ha già aperto la strada.
Siamo ben al di qua di quella profonda modifica dell'impalcatura della legge che molte e molti di noi vorrebbero. Sarebbe però un primo atto di riforma, buono per riconquistare fiducia in questo governo e in questa maggioranza.

il manifesto 19.10.07
Attualità del mito
Tra musica e inconscio un legame profondo
Cinquant'anni prima che Freud scrivesse l'«Interpretazione dei sogni» Wagner scendeva, con la sua Valchiria, nei meandri dell'esperienza emotiva dominata dal non-detto
di Pietro Bria


«Come, dunque, si volge via il dio da te, così bacia via dai tuoi occhi la divinità»: sono le parole piene di commozione con cui il dio Wotan - nel finale della Valchiria - si congeda dalla figlia Brunilde, che è costretto ad allontanare da sé e a privare del suo essere divino. Ma è anche la frase che per Giuseppe Sinopoli traduce quello splendido ossimoro con cui Wagner tenta di descrivere e di mettere in musica la ferita degli affetti che si è aperta nell'animo del dio: Wotan, infatti, è spinto a recuperare l'unione perduta con la figlia e, al tempo stesso, a separarsene, a prendere commiato da lei. Proprio in questo momento drammaturgico di così forte impatto emotivo può riassumersi il senso più profondo della vocazione psicoanalitica di Sinopoli, che lega la musica all'inconscio delle passioni umane.
La logica degli affetti
Mettere l'inconscio in musica implica, comunque, un assunto di base che va condiviso: quello secondo cui la musica non è un puro gioco di forme sonore sprovvisto di una semantica propria; perché nasce, invece, come fatto o evento espressivo che trova la sua materia prima nelle profondità degli affetti umani a contatto con sensazioni ancora oscure e nebulose: quelle sensazioni che, come voleva Gustav Mahler, «aprono la strada all'altro mondo, in cui le cose non hanno tempo e spazio» e attendono di essere messe in forma di pensiero.
È stato Matte Blanco, il grande psicoanalista cileno da alcuni anni scomparso, a dotare, sulla scia di Freud, questo «altro mondo» - il mondo dell'inconscio - di una logica propria, che è logica degli affetti e logica dell'infinito. Ebbene, Sinopoli ha raccolto questa lezione e l'ha realizzata in musica attraverso un altro incontro straordinario, che lo ha impegnato come compositore, come interprete e come uomo: la musica con cui Wagner - cinquant'anni prima che Freud scrivesse l'Interpretazione dei Sogni - si era avventurato, prefigurando le scoperte della psicoanalisi, nei labirinti dell'inconscio, laddove la coscienza umana si stratificava e si scopriva determinata dai livelli del «non-detto» (il rimosso freudiano) o, più fondamentalmente, dall' «in-dicibile» che è proprio dei livelli dell'esperienza emotiva.
Ho vissuto con Sinopoli questa grande avventura che l'ha portato a intuire come la «discesa» nell'inconscio avvenga in Wagner tramite quello straordinario dispositivo - che è tecnica compositiva ma anche procedura conoscitiva - costituito dal Leitmotiv o tema conduttore, vero motore della drammaturgia wagneriana. Il Leitmotiv ha la funzione non solo di rimandare o richiamare l'attenzione su un personaggio o su una specifica situazione psicodinamica (come è il caso della perdita o dell'amore o della redenzione) ma anche quella più fondamentale di attrarre o trascinare a sé motivi e tempi musicali, stabilendo associazioni o contrasti con altri temi o altri motivi, oppure subendo trasformazioni più o meno profonde della propria struttura che lo rendano irriconoscibile.
Ciò dà luogo a una rete o ibrido musicale che determina una perpetua instabilità armonica e timbrica e permette di accedere - come una sonda psicoanalitica - a diversi livelli di coscienza dei personaggi e delle situazioni: «percorsi labirintici, viaggi prospettici nella mente e nelle emozioni dove ai leitmotive più evidenti si intrecciano altri nascosti, sfuggenti, pronti a segnalare aspetti inconsci».
Il risultato straordinario di questa procedura continuamente «compromissoria» è che lo spazio lineare e discreto della narrazione, così come lo spazio della coscienza in Freud, viene - attraverso la musica dei Leitmotive - continuamente immerso in un altro spazio, multidimensionale, che è spazio dell'inconscio e matrice di emozioni su cui il racconto appare sospeso. In questa matrice albergano non solo violenti conflitti pulsionali - di cui la Tetralogia wagneriana è tutta intessuta - ma anche massicce proiezioni di desideri e dissoluzioni più o meno ampie dell'identità, che nessuna realizzazione scenica tridimensionale avrebbe potuto portare in piena luce; compresa la raffigurazione onirica sebbene, per Freud, essa fosse la «via regia verso l'inconscio». Questa impossibilità strutturale aveva convinto Wagner a auspicare per il suo dramma musicale, dopo l'orchestra invisibile, una scena invisibile finalmente liberata dal sensibile per raggiungere una «comprensione più esaltante, più visionaria del tutto».
Pierre Boulez, introducendo la sua ormai storica esecuzione di Bayreuth, disse al riguardo - e in sintonia con Sinopoli - che il concatenarsi dei motivi nel tessuto strumentale «viene a creare un mondo la cui indipendenza nei confronti della scena si manifesta in modo crescente», fino al punto in cui è possibile osservare «quasi una dualità fra l'universo drammatico e quello musicale, poiché quest'ultimo diviene infinitamente più ricco dell'altro e tende, con la sua stessa proliferazione, ad accaparrare tutta la nostra attenzione».
La musica sopprime il tempo
Nella Valchiria - afferma Sinopoli - questo sviluppo del Leitmotiv trova il suo acme espressivo «grazie a una tecnica meravigliosa di variazione aperta, continua, cellulare, tipica del Wagner maturo, che consente alla memoria di interagire con il presente: un «procedere multiforme di passato e presente» che ha portato un grande studioso di Wagner come Ernst Bloch a parlare di «psicoanalisi del Leitmotiv onnisciente». Tecnica, questa, che si realizza in modo assai significativo nel finale dell'opera, quando la musica sublime che Wagner costruisce intrecciando i motivi dell'addio di Wotan con quelli del sonno e del suo incantesimo permette di dare espressione a quell'indicibile antinomia di affetti che agita l'animo del dio-padre nel momento in cui, in obbedienza alla legge istituita, egli deve separarsi dalla figlia Brunilde: la figlia che incarna (e incarnerà) il suo più profondo desiderio di amore.
E così la musica, arte del tempo, ritrova la sua funzione originaria che è, come afferma Levi-Strauss, quella di sopprimere il tempo. Un legame con l'in-divisibile e con l'infinito che è anche all'origine della sua capacità di influenzare gli animi, così come le riconosceva Platone, e che si attualizza nel momento dell'ascolto.

il manifesto 19.10.07
Se la psicoanalisi volta le spalle a Edipo
Non è certo un caso se la distruttività che impedisce lo sviluppo del pensiero e dei processi simbolici finisce oggi per preoccupare più delle vicissitudini conflittuali legate all'oggetto del desiderio
di Fausto Petrella


Il grande mitografo Karol Kerényi mostra, in due importanti saggi del 1966 e del 1968, la persistente presenza del mito di Edipo nella cultura occidentale, a partire dalla più illustre tra le sue espressioni che l'antichità ci ha rimandato, la tragedia di Sofocle, Edipo re. A subire il fascino di un mito le cui origini si perdono nell'oscurità del passato più remoto, e a garantirne la continuità, sono stati moltissimi scrittori e poeti ai quali Kerényi fa riferimento: da Seneca a Hölderlin, sino a Hofmansthal, Cocteau e Gide nel '900. Ma furono profondamente attratti da Edipo anche Thomas Mann, Borges, Dürrenmatt, ognuno introducendo nuove varianti, adattando il mito al proprio tempo e al proprio sentire. Naturalmente, nel lungo tragitto percorso dal mito edipico nei secoli, lo spartiacque fondamentale resta l'incontro di Sigmund Freud con la tragedia di Sofocle: era questo il «classico» che studiò nel suo ultimo anno di liceo e dal quale avrebbe sviluppato, dopo una gestazione straordinariamente laboriosa, la nozione di «complesso edipico», formulata nella sua versione completa a ben dieci anni di distanza dall'Interpretazione dei sogni.
Slittamento di attenzione
La mossa freudiana fondamentale fu quella di vedere nel mito edipico l'esteriorizzazione e la messa in scena narrativa di quelle vicissitudini emotive che rispecchiano i desideri infantili, sia amorosi che ostili, presenti nei rapporti inconsci che governano la famiglia e le generazioni. La psicoanalisi ha insomma psicologizzato il mito, facendolo diventare l'espressione di processi e affetti presenti, in gran parte inconsciamente, in ogni bambino, e quindi in ogni genitore.
Nella seconda metà del '900, tuttavia, la grande narrazione edipica, con il suo potenziale emancipante, ha lasciato il posto a micronarrazioni locali, a oggetti parziali frammentari e all'iconografia relativa, evidenziando la tendenza a dimenticarsi dell'Edipo o a attribuirgli un valore scontato. Le ragioni di questo progressivo oblio sono molteplici, a partire dall'evidenza per cui la crisi del modello familiare non impedisce che i genitori - queste «due sfingi presenti alle soglie della vita», come scriveva Peter Weiss nella sua autobiografia - continuino a svolgere le loro funzioni strutturanti nella crescita del bambino, ma in un registro svalutato e incerto, spesso distorto e meno appariscente di quanto non lo fosse in passato.
Del resto, fa parte del mito di Edipo, e del suo crudele antefatto, anche il nostro destino di «navi lasciate all'abbandono» in acque gelide, come cantava Metastasio, nell'aria di un suo libretto d'opera. Resta vero, comunque, che gli psicoanalisti farebbero bene a non allontanare Edipo dalla loro cittadella teorica e clinica, perché anche se rischiamo di non vederlo, accecati come lui, il complesso che ne porta il nome è ancora presente fra noi.
E se è evidente che il superamento della fase edipica comporta ancora oggi il suo attraversamento, la sua messa in scena nei sogni e il suo rendersi attivo nelle dinamiche della vita, altrettanto chiaro è il fatto che la sua mancata o abortita costituzione caratterizzano molte personalità patologiche gravi e, tipicamente, le perversioni. D'altra parte, il deperimento odierno dell'Edipo nella teoria e nella clinica psicoanalitica impedisce di vedervi il complesso nucleare delle nevrosi.
Da vari decenni, come è noto, ci si concentra più volentieri sulle fasi pre-edipiche e pregenitali, nonché sul funzionamento della coppia madre-bambino - sulla diade, dunque, e non sul triangolo tipico del complesso edipico - quando si analizza la costruzione del sé del bambino e la formazione del suo senso di realtà. Ma questa unità rappresentata dalla coppia madre-bambino è continuamente esposta a una cesura obbligata, entro la quale fa la sua comparsa il fantasma del terzo, che sia o meno il vero padre.
Più che uno spostamento di accento, i modelli psicoanalitici hanno dunque subito uno spostamento del loro fulcro: dalla considerazione primaria attribuita all'eros e al soddisfacimento pulsionale sono passati alla valorizzazione dei processi relazionali che mirano a mitigare la distruttività emergente, sacrificando la vita amorosa e la relazione con l'altro.
Un compito ineludibile
Non è certo un caso se la distruttività che impedisce lo sviluppo del pensiero e dei processi simbolici finisce oggi per preoccupare più delle vicissitudini conflittuali legate all'oggetto del desiderio. Infatti, sembra sia tramontata quella valorizzazione del piacere che corrispondeva a una concezione dello sviluppo umano nata nella sicurezza del contenimento familiare e nella costanza dell'«ambiente» morale; questo processo era ritenuto essenziale per potere procedere alla identificazione di sé con esempi positivi, per fondare la calma interiore, per ritrovare la quiete dopo le tempeste. E mentre, nel corso del secolo passato, simili sicurezze sono andate perdute, nella teoria e nella pratica della psicoanalisi si è fatta strada l'idea che piacere e sicurezza (due funzioni garantite, per il bambino piccolo, dalle figure dei genitori) non trovino più una chiara integrazione, anzi divorzino. La psicoanalisi odierna ha una vocazione spiccata per tutto ciò che è elementare, per i momenti più infantili dello sviluppo, mentre rischia di far mancare il suo impegno nell'analisi e nello smontaggio dei dispositivi del carattere, che si concretano dopo l'età della latenza e nella ripresa adolescenziale del conflitto edipico.
Patologie identitarie
Salutiamo con gioia i momenti in cui nell'analisi si fa strada un'idea di sé più libera, una superiore visione dell'amore, capace di opporsi al super-Io sociale e al senso di colpa: è qualcosa che si può sviluppare tanto nell'analisi individuale quanto in quella di gruppo, è un bene difficile da conquistare nella realtà, ma che è anche facile perdere per via.
Però, la necessità di pensare sempre più profondamente l'ingranaggio psicologico e sociale che ci circonda impone alla psicoanalisi il compito, non più eludibile, di ripensare l'Edipo, perché la sua latitanza non significa che sia scomparso, bensì che viene evitato, sia dal paziente che dal terapeuta. Ne deriva, se ci guardiamo intorno, il proliferare di disturbi dell'identità e di grandi fenomeni di patologia collettiva.
Forse questo cuore pulsante della vita emotiva non batte più, o più probabilmente nessuno lo prende in considerazione e lo ascolta.

il manifesto 19.10.07
Lo specchio sufi dell'Islam, poesie d'amore contro l'oscurantismo
di c.sa.


Hafez è molto bello, occhi chiari tormentati, intelligenza divorante, lo chiamano così perché è un «Hafez», studia coi sufi detestati dall'islam oscurantista. Parlano infatti come lui di poesia e di amore, raccontano con la musica l'anima e poi il ragazzo che comunque il mufti più ortodosso ha voluto tutore della figlia ha osato sporgersi dal divisorio per guardarla. Si sono innamorati delle loro voci, lei di lui che le insegna a recitare il Corano e insieme spalanca il mondo sui versi del desiderio... Lui della sua curiosità, della sua voglia di conoscenza ... Hafez è il film di Jalili in gara alla festa di Roma, il regista fa parte di quel gruppo (folto) di cineasti iraniani che si è visto opporre spesso un veto pesante di censura - era accaduto con Dance of Dust, molto premiato nel mondo ma proibito in Iran per sette anni. Lavora con Makhmalbaf e Nasser Taghvai nella regia di Tales of Kish, il successivo Delbaran ha come protagonisti rifugiati afghani.
Hafez non è un film «semplice» né per l'Iran di Ahmadinejad né per l'occidente di uguale fondamentalismo. Infatti ci dice di un Islam molteplice, le cui componenti sono preghiera, poesia, amore, canto, l'Islam più ricco dei sufi che per questo è detestato e perseguitato dal waabitismo e da tutte le sue interpretazioni più fondamentaliste. L'Islam sgradito anche a chi da noi costruisce proprio sul fondamentalismo le guerre di religione o di civiltà, come motivarle se di fronte c'è una cultura che spiazza questa immagine?
Hafez che si chiama Mohammed conosce un altro giovane discepolo del mufti, più «ortodosso» che si chiama anche lui Mohammed. Anzi hanno proprio lo stesso nome per intero, sarà a lui che il mufti da in sposa la figlia che però ama Hafez...
«Come mi vedi» chiede alla ragazzina Hafez. «Doppio» dice lei. É un problema di vista, lui le compera degli occhiali, ma non si tratta solo di quello. I due ragazzi infatti diventano pian piano nell'opposizione lo stesso, Hafez che deve fare la prova dello specchio per non parlare più d'amore e l'altro che l'amore lo ha scoperto. Eccoci insomma in un universo di storie, fiabe, interpretazioni religiose di un Islam che si ricompone nei suoi frammenti, non si deve guardare la popria figura per intero ma nei pezzetti di uno specchio che ne rimandano ognuno un po' dice il maestro sufi di Hafez.
Non una monocultura dunque quale si è affermata ma l'intensità (anche in conflitto) di una ricerca, dove c'è spazio anche per l'immagine femminile invece nascosta dalla avvilente interpretazione fondamentalista. Forse a volte ci si lascia prendere dai colori, dai tappeti, da un paesaggio pieno di orizzonte e di fuochi industriali. Ma il film è comunque una bella scommessa, tutta da vincere.

l’Unità 19.10.07
Welby, «suo diritto rifiutare le cure»
Depositate le motivazioni del Gup: «Non fu Eutanasia». La Cei: «Invece sì»


LA SERA del 20 dicembre dello scorso anno Piergiorgio Welby visse serenamente le sue ultime ore. Prima di farsi staccare il ventilatore che da dieci anni pompa-
va aria nei suoi polmoni, Welby trascorse quei minuti guardando un gioco a premi in tv. «L’esperienza della morte vissuta con modalità di assoluta quotidianità e semplicità, come un momento apparentemente uguale a tanti altri». Una considerazione che non è di un commentatore, magari partigiano, ma di un giudice. La serenità della morte consapevole, unita alla volontà, suffragata dal dettato costituzionale, di interrompere una terapia salvavita, sono i principali passaggi della sentenza del gup del Tribunale di Roma, Zaira Secchi, sul caso Welby. Nelle 60 pagine di motivazioni il giudice spiega che era un diritto per Welby rifiutare la terapia, e un adempimento del dovere, secondo l’articolo 51 del codice penale, quello dell’anestesista Mario Riccio, prosciolto dall’accusa di omicidio del consenziente, di staccare la spina. «Il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari - si legge ancora nella sentenza - fa parte dei diritti inviolabili della persona di cui all’articolo 2 della Costituzione e si collega strettamente al principio di libertà e di autodeterminazione riconosciuto all’individuo dall’articolo 13 del dettato costituzionale». Il giudice sottolinea «il riconoscimento dell’esistenza di un diritto alla persona di rifiutare o interrompere le terapie mediche discendente dal secondo comma dell’articolo 32 della Costituzione secondo il quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge».
Ma il giudice è molto chiaro, nelle sue motivazioni, anche nel mettere i paletti alla vicenda: «Il rifiuto di una terapia salvavita - scrive il gup - può essere revocato in qualsiasi momento e quindi deve persistere nel momento in cui il medico si accinge ad attuare la volontà del malato». Ma Monsignor Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, ieri è tornato ad accusare: «La vita, la famiglia fondata sul matrimonio e la libertà sono valori non negoziabili. La vita è un bene indisponibile che secondo la Chiesa va sempre custodita e difesa dall’eutanasia e da altri attacchi porti in modo surrettizio». «Ogni forma di eutanasia - ha poi precisato - , falsa o camuffata, è inaccettabile per i cattolici sia come credenti che come cittadini».

Liberazione 19.10.07
Tutto è pronto per la manifestazione a Roma (partenza verso le 15 da Piazza della Repubblica, arrivo a piazza San Giovanni)
Vi aspettiamo tutti e tutte per impedire un'Italia trasformata in una specie di caserma, senza dissenso e senza sinistra
Domani venite tutti in piazza
per la sinistra è il giorno della prova
di Piero Sansonetti


Ieri noi del comitato 20 ottobre abbiamo incontrato Prodi. Abbiamo avuto una bella discussione. Tesa, seria. Tra noi e lui abbiamo registrato molto disaccordo, su punti decisivi, e soprattutto sulla valutazione di quello che ha fatto il governo in questi mesi. Gli abbiamo rinfacciato la sconfitta sui "Dico" e questo accordo sul welfare che a noi sembra pessimo. Lui ha incassato il colpo sui "Dico", si è difeso sul welfare, anzi ha rivendicato l'accordo, ha detto che più di così non si poteva fare, e ci ha contrattaccato, sostenendo che la manifestazione di domani è sbagliata e che lo danneggerà. Insomma, abbiamo trovato parecchie materie su cui litigare. Sicuramente però tra noi e lui non c'è stata antipatia. A noi Prodi è sembrato un uomo politico in grande difficoltà, che vorrebbe stare dalla parte giusta ma non ci riesce, è prigioniero delle cose, non ce la fa ad uscire da una logica di realpolitik , subalterna alla debolezza della maggioranza parlamentare e alla forza delle grandi lobby, quelle esterne al governo e al parlamento. Confindustria, prima di tutto, e alcuni circoli del Partito democratico.
Quando ci siamo salutati, noi abbiamo invitato Prodi a mandare al diavolo tutte le prudenze e i tatticismi e a venire con noi domani al corteo. Gli abbiamo dato appuntamento alle 14 e 15 davanti a Feltrinelli... Lui ha riso. Non ci sarà. Però noi sappiamo che domani, poco dopo le 14 e 15, già saremo in grado di capire se la sinistra, in Italia, ha ancora in mano le carte per giocarsi la sua partita, per fare fallire il disegno - vastissimo - di forze assai larghe della destra e del centrosinistra che vorrebbero cancellarla o almeno sospenderne l'esistenza per una decina d'anni in modo da potere, senza conflitti, portare in porto una trasformazione profondamente conservatrice e organicamente liberista e "mercatista" di questo paese. Se domani dalle 14 e 15 piazza Esedra si riempirà, vuol dire che la sinistra c'è ancora, è in piedi, e può combattere le sue battaglie. Noi siamo sicuri che sarà così. E sappiamo - lo sapete anche voi - che domani ci si gioca tutto.
Se volete capire quanto è grande la posta che sta sul tavolo, fatevi prestare una copia di Repubblica di ieri e leggetevi l'articolo di fondo scritto in prima pagina da Carlo De Benedetti (col suo solito pseudonimo di Massimo Giannini). De Benedetti - che oltre ad essere il proprietario di Repubblica è anche uno dei capi della corrente maggioritaria di Confindustria della quale Luca Montezemolo è una bandiera, e che ormai ha assunto, quasi fisicamente, anche la guida del Partito democratico - esalta due gesti politici, molto significativi, compiuti nella giornata di mercoledì da Prodi e da Epifani. La lode a Prodi è per aver deciso di licenziare il provvedimento sul welfare senza stare ad ascoltare le critiche della sinistra (che però De Benedetti non chiama mai sinistra e basta: chiama sinistra massimalista, antagonista, estremista, bi-comunista, radicalista e altro). La lode ad Epifani è per aver proibito agli iscritti della Cgil di sfilare in modo aperto e con le proprie bandiere al corteo di domani. De Benedetti osserva che questo gesto di Epifani - assolutamente inedito nella storia democratica del sindacato - non sarebbe mai venuto in mente a Di Vittorio o a Lama, e proprio per questo dice che è un gesto importantissimo e che finalmente rompe con una insopportabile tradizione sindacale votata all'unanimismo e alla tolleranza. Ora, chi ha qualche anno oltre i cinquanta, come me (e credo che De Benedetti sia più vecchio di me) sa bene che Luciano Lama è stato sempre e da tutti considerato l'anima più riformista e certamente meno radicale della Cgil. Nel Pci era giudicato un "destro" - si diceva così - un amendoliano, un filosocialista, e spesso, anche apertamente litigava con Berlinguer (non parliamo nemmeno dell'idiosincrasia tra Lama e la sinistra del Pci...). Ma a De Benedetti non basta certo un sindacato equilibrato e "lamiano". L'idea che ha lui è che oggi come oggi un rilancio serio del capitalismo italiano è possibile solo senza sindacati, o tutt'al più con un sindacato che si allinea dietro le posizioni della Cisl di Bonanni rinunciando ad ogni funzione di lotta, di conflitto, di dissenso o anche soltanto di fastidio.
I toni dell'articolo di De Benedetti colpiscono per la rudezza. Noi conoscevamo l'ingegnere come un imprenditore illuminato, aperto. Abbiamo letto molti suoi articoli (scritti e firmati col nome suo, senza pseudonimi) ma non avevamo mai trovato tanta asprezza, che davvero sta sul filo del confine tra democrazia e concezione autoritaria dello Stato e della politica.
Cari lettori di Liberazione , domani in piazza - ve lo ripeto in modo accorato - ci giochiamo tutto. Se non fermiamo questa baldanzosa avanzata del potere padronale - lasciatemela scrivere questa vecchia parola, un po' consumata, che oggi torna ad assumere un senso chiarissimo: " padronale " - se non la fermiamo, allora nei prossimi anni vivremo in un'Italia trasformata in una specie di caserma. Senza lavavetri, senza rom, senza sindacati, senza sinistra. Una volta questo era il sogno impossibile della destra. Noi dobbiamo fare in modo che resti un sogno impossibile.

Liberazione 19.10.07
Sarà musica e politica a Piazza San Giovanni
La manifestazione si conclude nella grande piazza romana con cinque compagni di strada: Enzo Avitabile, Tete de Bois, Ulderico Pesce, Andrea Rivera, Ascanio Celestini e Bisca/Zulù
di Angelo Lombardo


Quanti gufi! A leggere giornali e commenti, a chiedere delucidazioni all'ufficio stampa della porta accanto (sta qua a Liberazione) sembrano davvero tanti quelli che gufano contro il nostro 20 ottobre. Neonati comitati pro Legge 30 (che loro chiamano Biagi, anche se è di Maroni), sindacalisti della triplice, piddì, sinistre antagoniste che più di loro non c'è nessuno. Strano clima. Con ad esempio tante associazioni, di quelle che abbiamo visto nelle piazze nella stagione dei movimenti, alla finestra come sigle e presenti in piazza a titolo personale. Questa manifestazione non piace perché è troppo di sinistra, troppo poco di sinistra, troppo molle, troppo radicale, troppo identitaria e troppo plurale... Insomma, siamo troppo. E lo saremo. Perché i treni sono stracolmi, i pullmann sfiorano i 500, Roma sta cominciando a muoversi. E a furia di gufare...
La novità del giorno - incontri istituzionali a parte con Romano Prodi e Franco Marini di cui potete leggere qui accanto - è il palco di Piazza San Giovanni. Perché è bene ricordare che la piazza d'arrivo sarà proprio quella storica e grande della sinistra (e sarà bene riempirla in ogni ordine e grado). Una volta partito il corteo (orario presunto, solo presunto, le 15.30) si camminerà con una banda in testa per qualche chilometro. Giù per via Cavour, dove ci attendono le donne auto-convocate e auto-nominatesi "le fuori programma", con una certa verve polemica anche nei confronti del corteo. Poi svolta in Piazza Santa Maria Maggiore e via per Merulana, Manzoni ed Emanuele Filiberto, fino a San Giovanni, dove dalle 17-17.30 comincerà il secondo momento della giornata: il palco.
Le indiscrezioni parlano di un poli-intervento dei promotori di saluto e di rilancio delle ragioni della piazza, per provare a non finire con un classico "arrivederci alla prossima volta". Qualcosa di spendibile sui territori e nei propri luoghi di vita e di lavoro per continuare a incalzare governo, sinistre, piddì... Ci saranno anche alcune testimonianze dirette sui temi del corteo (che ricordiamo a tutti sono diversi: diritti, pace, beni comuni, laicità, libertà e precariato) che saranno presentati e incastrati nel programma di concerti e spettacoli. Un lavoro corale, perché gli artisti che si sono prestati al gioco canteranno, racconteranno, suoneranno e metteranno in scena molte delle cose che la manifestazione rappresenta.
Enzo Avitabile e i Bottari ovvero la fatica di donne e uomini che vivono in esilio nella propria terra, stranieri anche a se stessi: "Braccianti di Terra di lavoro, profughi palestinesi, bambini soldato, ragazzine costrette a vendere il proprio corpo e contadini che implorano dal cielo il miracolo di una goccia d'acqua".
Tetes de Bois , premio Tenco 2007 con "Avanti Pop" il primo documento di un viaggio ancora in corso, sulle tracce delle fabbriche, dei call center, dei campi di pomodori, un progetto di indagine e testimonianza nel mondo di chi lavora (dalla Fiat di Melfi, ai campi di Borgo Libertà, all'Atesia di Roma, alle fabbriche di armi di Colleferro, quelle che saltano in aria...).
Ulderico Pesce , attore lucano che con "Storie di Scorie" ha portato in scena la realtà della lotta di Scanzano Jonico.
Andrea Rivera , artista di strada, menestrello, cantautore dei fatti che diventano trafiletti sui media, intervistatore dei citofoni su Rai3, si è visto riconoscere premi e onorificenze torna nella piazza dove ha fatto arrabbiare la Chiesa (e i sindacati) sfottendo il bigottismo e l'ipoteca vaticana sulle libertà civili.
Ascanio Celestini ci regalerà una parte di "Parole sante", nato dall'ispirazione di "Appunti per un film sulla lotta di classe", uno studio-spettacolo sui call-center musicato e interpretato, allargatosi ai temi della memoria, della fatica e della giustizia sociale. Il tutto è diventato un documentario e un disco che sarà presentato in anteprima in piazza.
Bisca/Zulù ovvero Sergio Serio Maglietta, Elio 100gr. Manzo, Luca O Zulù Persico (ex front-man dei 99 Posse), forse il più popolare ed efficace esempio di musica politica in Italia che torna con un disco "Tre terroni" sulla corsia preferenziale dell'underground e della protesta (anche qui un'anteprima assoluta)
Le novità sono molte altre, come la presenza dei trattori degli agricoltori espopriati dalle banche delle loro terre in Sardegna, di uno "Scuolabus" degli studenti, dell'adesione con tanto di tir antiproibizionista della "Million Marijuana March" (sezione italiana). E siccome lo spazio non basterebbe per dire tutto, per brevi cenni vi diciamo che le adesioni dell'ultima ora sono venute da: Il sindaco Orfeo Goracci e tutta la giunta di sinistra Gubbio (e speriamo col gonfalone), insegnanti e personale Ata di Napoli, Amministratori e amministratrici di sinistra del Piemonte, lavoratori, donne, militanti, cittadine di Trieste, Reggio Emilia, Monza, della Sicilia, della Lombardia e ancora le stiamo spulciando. Perchè ci scuserà chi ci scrive ancora appelli, inviti, adesioni, ma non riusciamo più a starci dietro. Per fortuna sono troppi. E noi non siamo mai abbastanza.

Liberazione 19.10.07
Intervista all'europarlamentare di Sinistra democratica: «I gruppi parlamentari di Bruxelles in piazza dietro un unico striscione, abbiamo già avviato la costituente»
Claudio Fava: «Manifesto per unire la sinistra»
di Frida Nacinovich


L 'europarlamentare Claudio Fava domani sarà in piazza a Roma.
Ci sarò per più motivi. L'idea che si può manifestare dall'opposizione e invece bisogna tacere quando si è al governo è una lettura un po' bizzarra e limitativa delle responsabilità politiche. Voglio manifestare per qualificare l'azione del governo Prodi, per dare indicazioni concrete su punti del programma dell'Unione che vanno rimessi al centro dell'attenzione della maggioranza. Sarò in piazza per il recupero di una questione morale, che diventa dirimente per ogni scelta politica dal welfare ai diritti civili, passando per la pace e l'ambiente.
La tua Sinistra democratica non ha aderito alla manifestazione, almeno ufficialmente...
Come parlamentari europei della sinistra vogliamo anche dare un contributo di originalità. Mi spiego: a Bruxelles abbiamo dato vita ad un vero e proprio laboratorio della sinistra, ci siamo trovati d'accordo su una piattaforma avanzata, lavoriamo insieme. Dal no alla seconda base di Vicenza alla difesa dei diritti civili, sociali, dell'ambiente. Abbiamo già avviato la costituente della sinistra, vorremmo portarne testimonianza il 20.
La sinistra si ritrova comunque in piazza domani, un buon segno?
La sfida che abbiamo davanti è importantissima, bisogna fare uno sforzo di umiltà per superare i localismi e le autorferenzialità che hanno spesso limitato l'azione della sinistra. Ci vuole orgoglio e passione politica. L'obiettivo è una sinistra senza aggettivi, una sfida culturale che può segnare in positivo un'epoca, un'assoluta necessità accanto al riformismo moderato del Partito democratico. L'Italia ha bisogno di una cultura di sinistra, che sia come si diceva un tempo di lotta e di governo.
Chi ci sarà domani a Roma?
Il 20 mi sentirò deputato, militante, dirigente della sinistra. Sarà una manifestazione che andrà oltre le case di appartenenza, socialista, comunista. Tutti i parlamenterai europei della sinistra staranno dietro uno unico striscione, per testimoniare un'unità che si fonda sulla pratica politica.
Come andranno avanti dal 21 ottobre le forze della sinistra italiana?
Penso ai diciotto punti della piattaforma fatta dai quattro soggetti politici che richiamavano Prodi a un maggior impegno sul welfare. La sinistra può produrre politica insieme, a differenza del piddì che è una fusione a freddo. Il 20 la presenza di alcuni di noi sarà un valore aggiunto, per qualificare l'azione del governo Prodi e per ritrovarci già il 21 ottobre in un percorso definito e condiviso che non ha più ragioni, pretesti, alibi per fermarsi. Questo è il tempo delle responsabilità.
Anche dell'unità?
Certo. Ma parlare di modelli non mi entusiasma, penso a un soggetto comune, a un linguaggio comune, a una capacità di coinvolgimento che non si fermi a Sd, Prc, Verdi e Pdci ma sappia parlare anche al disagio, agli esclusi dalla politica, ai giovani. Unire la sinistra è l'urgenza, le forme le troveremo per strada.

Liberazione 19.10.07
Intervista all'esponente della Sd: «La federazione e le altre formule utilizzate sui giornali mi sembrano tutte inadeguate» «Il 20 ottobre? Sarà una manifestazione grande e partecipata»
Giovanni Berlinguer: «E' ora di pensare ad un solo partito»
di Stefano Bocconetti


Ha la scrivania piena di ritagli di giornali. Incollati su fogli di carta, accompagnati da tanti appunti. Per esempio, l'intervista a Franco Giordano, pubblicata ieri sul nostro giornale, è sottolineata in tante parti. Ma è accompagnata anche da un punto interrogativo. Disegnato a mano, verso la fine. E con l'intervista a Giordano ci sono decine di altri ritagli. Così, quando comincia questa chiacchierata, Giovanni Berlinguer - 83 anni, un professore, uno dei più autorevoli professori di medicina sociale "prestato" alla politica, oggi eurodeputato, eletto con l'Ulivo e ora nel gruppo della Sinistra democratica - sembra avere tutto sotto mano. Se qualcosa gli sfugge, se la va a controllare fra gli appunti. Una cosa però non è scritta da nessuna parte. La sua aspirazione, il suo progetto che vorrebbe veder realizzato: un partito della sinistra. Lui lo chiama così. Certo, se insisti e gli domandi se pensa ad un partito unico, ti risponde che la parola gli fa paura. «Sa di Urss, di Breznev». Però ad un partito pensa. Le formule che si usano in questi giorni sui quotidiani - federazione, un "patto" e via così - gli sembrano tutte inadeguate. Ma sono soprattutto i tempi che gli mettono timore: «Sì, perché o si fa adesso o sono guai. E davvero la prossima generazione non ce la perdonerà». Al partito della sinistra Giovanni Berlinguer ci arriva con un lungo ragionamento. Che parte proprio da quel che è avvenuto domenica, con quei tre milioni e mezzo di persone che hanno partecipato alle primarie.
Allora, che idea ti sei fatta? Perché una partecipazione così vasta?
Le primarie, il coinvolgimento di tante persone, anche di molti giovani, per dar vita ad un partito nuovo è un fatto straordinario. Ma non è isolato.
In che senso?
Se andiamo indietro nel tempo ci accorgiamo che prima - e sto parlando di due anni - ci sono state le primarie dell'Unione, poi la battaglia, vinta, sul referendum istituzionale voluto dalla destra. Poi tante altre cose fino alle ultime vicende, il pronunciamento dei lavoratori sul protocollo e il voto per designare il segretario del piddì. Ma penso anche alle manifestazioni di Vicenza, alla straordinaria marcia per la pace di Assisi.
Tutto questo cosa ti fa dire?
Che a determinare questa spinta alla partecipazione la sinistra - tutta - ha contribuito molto. In maniera decisiva. Eppure la sinistra non ha ancora l'unità, i collegamenti, la capacità di ascolto, non ha ancora la forza per esercitare una capacità di attrazione verso nuovi soggetti. Non ha ancora il "passo" giusto, insomma, per bilanciare il partito democratico.
Breve inciso. Che aggettivo useresti per definire il partito di Veltroni?
Permettimi, ma anche nei fenomeni biologici non si può mai parlare delle prospettive di una specie nuova analizzando le uova. O le prime forme che assumono se si tratta di esseri viventi.
Giudizio sospeso, allora?
Nel piddì, lo sappiamo, ci sono moltissime idee che dobbiamo evitare di catalogare a priori. Ci sono influenze di integralismo, ci sono pezzi di liberismo sfrenato. Ma c'è voglia anche di modernità democratica. Tutte cose ancora informi. Vedremo. Certo quel percorso non mi appartiene. Ma penso che sia stato giusto, come fece la minoranza dei diesse all'ultimo congresso, augurare a chi voleva dar vita ad un nuovo partito: "buon viaggio". Io, insomma, davvero spero ancora di arrivare ad un successo parallelo. Il loro, quando magari formuleranno meglio le loro proposte, e il nostro, che puntiamo a riaggregare e rimodernare la sinistra. La sinistra unita. Sapendo che comunque bisognerà collaborare. A meno che qualcuno non pensi che il piddì possa essere autosufficiente. Sarebbe assurdo semplicemente perché non è nell'ordine delle cose esistenti.
Parliamo di sinistra, allora. Come te la immagini?
Più ampia di quella attuale.
Qualche altra definizione?
Azzardo: ricca di tradizioni ma anche priva di vincoli che attanagliano le energie.
Che intendi per "vincoli"?
Provo a spiegarmi meglio: penso che tutti i partiti della sinistra abbiano oggi il dovere di andare oltre quello che hanno acquisito nel corso di questi anni. Nell'intervista che ha dato a Sansonetti, il segretario di Rifondazione fa capire di non avere alcuna nostalgia per l'identità comunista. Del resto è quello che ha sempre sostenuto anche Bertinotti. Ecco, questo significa sottrarsi ai vincoli.
Significa non accalorarsi sulle questioni dell'identità, ho capito bene?
Come sai io provengo dalla storia comunista. Una storia che credo abbia dato un grande contributo alla politica internazionale. Penso naturalmente alla lotta contro il nazi-fascismo, all'impulso offerto alle battaglie anticoloniali. Ma penso anche che abbia avuto una grande rilevanza il fatto che le conquiste sociali in Urss - vere o false che fossero - si sono poi tradotte in un incoraggiamento all'emancipazione del lavoro. Tutto questo lo so, come vedo perfettamente i risultati globali del comunismo dove ha assunto la forma del potere. Quali catastrofi ha provocato, quali sventure.
E allora?
In sintesi. Credo che tutto questo debba essere acquisito una volta per tutte. Dopodiché occorre tornare ad indagare la realtà, quella di oggi. Che ci racconta come, nonostante tutto, ci sia una fortissima domanda di beni comuni. C'è insomma la possibilità di riprendere un'idea, un progetto per il quale le sorti di questo pianeta, le condizioni di come ci si vive, le sue risorse, a cominciare da quelle idriche e ambientali, la sua convivenza pacifica può tornare a costituire un tessuto collettivo. Che tutto questo può tornare a diventare un'idea forte che appartiene a tutti.
Prima parlavi della necessità di liberarsi dai "vincoli". Ma anche il socialismo europeo può essere considerato tale, non trovi?
Beh, facendo un paragone chiunque capisce che la storia del socialismo europeo è stata meno dirigista, il suo dibattito interno più libero. Ma non mi sottraggo e ti dico che anche qui, ci sono grandi ombre. Che riguardano il passato, ma anche l'oggi. Riguardano soprattutto la sua insufficiente capacità innovativa. Sì, una nuova sinistra deve guardare oltre. Ti ripeto: oltre tutto ciò che è stato acquisito.
E che forma dovrà avere questa nuova sinistra italiana?
So che deve essere coraggiosa, generosa. Deve essere più aperta. Le forme? Possiamo anche imparare dall'esperienza delle primarie. Non per copiarla, certo, ma per imparare qualcosa. In ogni caso dobbiamo accettare il fatto che la voglia di contare, nella sinistra, si estende molto al di là di ciò che oggi organizzano i partiti. E' una voglia di contare che sta ricomparendo, dopo un anno e mezzo di delusioni, di frustrazioni generate da questo governo. Sta ricomparendo a dispetto di quei fenomeni tanto enfatizzati dai media...
Ti riferisci a Grillo?
Io so solo che l'antipolitica è dovuta soprattutto al comportamento della politica. Sicuramente ai suoi costi, sul quale è sacrosanto intervenire. Ma non solo su quello.
Da cosa dipende allora?
Ma ti rendi conto che sono 15 anni che si discute di come cambiare le regole, che poi significa quasi solo quale legge elettorale adottare? Tema importante, certo ma che ha fatto ininfluente tutto il resto.
Che c'è in questo "resto"?
C'è il tema del lavoro, della sua rappresentanza sociale ma anche della sua rappresentanza politica. In disparte sono finiti i temi del sapere, del'informazione, dell'ambiente.
Di questo si deve occupare la sinistra?
Ovvio. Mettendoci anche un tema sul quale c'è bisogno di ricominciare una discussione approfondita.
Quale?
Il tema del governo.
Che vuoi dire?
Ancora l'intervista di Giordano. Lui dice che il governo è una variabile, non l'obiettivo della politica. Non la penso così. L'azione dei partiti è sempre stata tesa a diventare "governo". Altrimenti si hanno risultati effimeri. Certo, la storia del Pci e di tutta la sinistra racconta che si può cambiare la società anche stando all'opposizione, ma l'obiettivo deve essere quello di trasformare il paese. Utilizzando anche, e non solo, il governo.
Dimmi la verità Berlinguer: pensi che i ritardi nella costruzione della "cosa rossa" dipendano anche da differenze di impostazione, come quella che hai appena descritto?
Diversità ci sono. Nulla però che non possa essere risolto in un confronto ampio, serio. Purtroppo i ritardi credo che dipendano anche da altro. Da inerzie, da sedimentazioni. Di chi si attarda a difendere la propria identità.
Ancora: tu avresti in mente il nome di un leader per questo partito della sinistra?
Domanda strana. Ma ti rispondo: Bertinotti sarebbe la persona più appropriata. Ma sono altrettanto convinto che lui stesso pensi ad un gruppo dirigente rinnovato. Anche dal punto di vista anagrafico.
L'ultima cosa: tu hai aderito al 20 ottobre, poi a sinistra c'è stata polemica su quella manifestazione. Che ne pensi?
Dico solo che mi auguro che la manifestazione di sabato sarà grande e partecipata. Anzi, sono convinto che sarà così.

giovedì 18 ottobre 2007

l'Unità 18.10.07
Ma la piazza divide la «Cosa Rossa»
20 ottobre, Giordano e Diliberto uniti nella lotta. Senza Mussi e Pecoraro e boicottati dai No tav
di Simone Collini


«IL 9 GIUGNO TUTTI A ROMA per dire a Bush basta guerra!», strillavano da siti web, manifesti e volantini Rifondazione comunista e Pdci. Solo che quel sabato andarono veramente in pochi a piazza del Popolo per contestare il presidente Usa, che in quei giorni era in visita in Italia. Fu il secondo campanello d’allarme per i comunisti al governo, dopo il deludente risultato alle amministrative di primavera. Ora ci riprovano: sulla scia dell’appello lanciato da “manifesto”, “Liberazione” e “Carta”, chiamano militanti e simpatizzanti a scendere in piazza dopodomani. Non contro il governo ma a favore del programma. Non contro l’accordo siglato dal sindacato ma a favore di un suo miglioramento. Con un ordine tassativo: questa volta la piazza va riempita. Tanto più dopo la prova di forza di An e i tre milioni e mezzo delle primarie per il Partito democratico. E visto che la piazza in questione è San Giovanni, la macchina organizzativa di Rifondazione e del Pdci viene fatta girare al massimo dei giri.
Sia nel partito di Franco Giordano che in quello di Oliviero Diliberto si mostrano fiduciosi sull’affluenza (parlano di almeno 200mila persone «reali» attese a Roma) tanto è vero che hanno chiesto la diretta Rai della manifestazione. Ma la strada che porta a sabato non è in discesa per loro. Il varo al Consiglio dei ministri di ieri di un testo che recupera la «lettera» e lo «spirito» dell’accordo siglato il 23 luglio da governo e parti sociali, e che quindi annulla quanto deciso alla riunione a Palazzo Chigi della scorsa settimana, mette in difficoltà i due partiti comunisti.
I loro ministri, Paolo Ferrero e Alessandro Bianchi, ieri si sono astenuti proprio come hanno fatto l’altra settimana, nonostante allora si fosse deciso di limitare a 36 mesi complessivi i contratti a tempo determinato mentre ora viene consentita alle azienda la possibilità di una deroga. Quando il testo dell’accordo raggiunto con le parti sociali è stato recapitato al ministero della Solidarietà sociale, Ferrero non ha nascosto che «sulla parte che riguarda la lotta al precariato c’è un passo indietro». E più tardi l’esponente del Prc ha lasciato il Consiglio dei ministri definendo «peggiorata» la parte sui contratti a tempo determinato. Ma nonostante questo non ha votato contro.
Rifondazione e Pdci sanno che si muovono su un crinale rischioso, consapevoli che tanto schiacciarsi sulle posizioni dell’esecutivo quanto dar vita a una manifestazione contro il governo può essere per loro fatale. Ma questa prova di equilibrismo non è indolore. Da un lato, hanno già fatto sapere che non scenderanno in piazza dopodomani i Cobas, i No Tav, le minoranze trotzkiste del Prc e tutte quelle sigle antagoniste che considerano la manifestazione, per dirla con i Comitati di base, «una foglia di fico per coprire le vergogne del governo». Dall’altro, non saranno al corteo Sinistra democratica e Verdi, cioè le due forze che insieme a Prc e Pdci dovrebbero dar vita alla cosiddetta “Cosa rossa” e che al Consiglio dei ministri di ieri, con Fabio Mussi e Alfonso Pecoraro Scanio, hanno detto «sì con riserva» al protocollo sul welfare. Queste defezioni non impediranno ai partiti di Giordano e Diliberto di riempire comunque la piazza (si sta studiando attentamente come sistemare nel modo più opportuno il palco sul quale si esibiranno i vari gruppi musicali previsti) ma costituiscono una falsa partenza nel processo di unificazione delle forze a sinistra del Pd. E rendono necessario un lavoro aggiuntivo per poter fare in Parlamento una battaglia unitaria sul protocollo. Senza contare il fatto che la mobilitazione di dopodomani non è affatto vista di buon occhio dal sindacato. E la dice lunga il nervosismo mostrato ieri dalla capogruppo del Pdci al Senato Manuela Palermi: «La Cgil è arrivata a vietare con una circolare l’uso del logo nelle bandiere in vista della manifestazione di sabato sul welfare. Altro che centralismo democratico, qui è qualcosa di peggio». Un’uscita che, sia per il metodo che per quello che è il merito della nota diramata lunedì dal dipartimento organizzativo di Corso d’Italia, non è piaciuta affatto a Mussi e agli altri di Sinistra democratica.

l'Unità 18.10.07
Eutanasia, il Vaticano attacca la Cassazione
Dopo la sentenza che apre all’interruzione delle terapie
l’«Osservatore» accusa: inaccettabile pluralismo dei valori
di Roberto Monteforte


RELATIVISMO INTOLLERABILE in Cassazione. È questa la critica che l’Osservatore Romano lancia contro la sentenza della corte suprema sul caso di Eluana Englaro con la quale gli ermellini hanno stabilito un nuovo processo sul distacco del sondino naso gastrico alla ragazza che è in stato vegetativo dal 1992 a seguito di un incidente stradale. Non solo la spina non va staccata, ma sono da rigettare le motivazioni della sentenza, giudicate un pericoloso disco verde all’eutanasia che potrebbe influenzare il Parlamento. «È inaccettabile il relativismo dei valori, soprattutto se questi riguardano la conservazione o meno della vita» scrive il giornale vaticano. «Accettare, pure nel vuoto legislativo, una tale posizione - si sottolinea - significa orientare fatalmente il legislatore verso l’eutanasia». Quello che preoccupa è una possibile deriva «relativistica». «Introdurre il concetto di pluralismo dei valori - scrive - significa aprire una zona vuota dai confini non più tracciabili. Significherebbe attribuire appunto ad ognuno una potestà indeterminata sulla propria esistenza dalle conseguenze facilmente immaginabili, anche solo ragionando dal punto di vista etico». Due in particolare i punti della sentenza sotto accusa. Il primo è il riconoscimento al paziente del suo diritto all’autodeterminazione terapeutica. Un diritto che per la suprema Corte non incontrerebbe alcun limite, anche nel caso in cui ne consegua il sacrificio del bene della vita. Questo perché «lo Stato italiano riconosce il pluralismo dei valori». E la ragazza, si ricorda, da sana aveva già dichiarato la sua contrarietà a «vivere una vita artificiale». L’altro argomento ripreso dalla Cassazione è che, «secondo standard scientifici internazionalmente riconosciuti», vi sia uno stato di irreversibilità della sua condizione. Sono argomenti che il giornale vaticano cerca di confutare. «Nessun esperto potrebbe, allo stato attuale dichiarare - rileva - l’irreversibilità della condizione di stato vegetativo, se non in base ad una scelta puramente soggettiva». Poi, sulla volontà di Eluana - aggiunge - «l’arbitrarietà appare palese. La dichiarazione di un momento non può evidentemente essere presa a parametro per presumere la volontà di una persona riguardo a scelte come quelle che riguardano la contrarietà o meno ad un trattamento che fra l’altro si pone al limite fra terapia e nutrizione». «La vita va sempre difesa» conclude l’Osservatore, riprendendo le recenti dichiarazioni del segretario generale della Cei, monsignor Giuseppe Betori. Giudizi non nuovi. L’Osservatore si era già scagliato contro la sentenza del tribunale di Cagliari che - interpretando la legge sulla fecondazione - autorizzava l’esame dell’embrione prima del suo impianto in una donna affetta da talassamia.
Una presa di posizione che ha suscitato reazioni. «La sentenza della Cassazione sul caso Englaro legittimamente può essere sottoposta a critiche ma sarà il Parlamento a fare le valutazioni che ritiene, senza lasciarsi condizionare da nessuno, nemmeno dalla Cassazione» è il commento di Alessandro Criscuolo, il presidente titolare della Prima sezione civile, dalla quale è uscito il verdetto. «Ognuno è libero di criticare - afferma - anche se mi pare che la sentenza abbia motivato diffusamente le ragioni della decisione». Non vuole polemiche l’alto magistrato, «gli altri hanno piena libertà di esprimere le loro opinioni, ma toccherà al Parlamento italiano fare le valutazioni che ritiene, senza lasciarsi condizionare da nessuno». Chi, invece, reagisce è l’europarlamentare radicale e segretario dell’associazione “Coscioni” Cappato che parla di «festival delle guardie svizzere che presidiano il corpo di Eluana, che da 15 anni viene trattata come un oggetto». Mentre per il capogruppo alla Camera della Rosa nel Pugno Villetti «l’Osservatore confonde l’eutanasia con l’interruzione del mantenimento artificiale in vita di una persona in come da oltre un decennio». Quello che però Villetti considera più grave «è che questa battaglia sia motivata da una esplicita negazione del pluralismo dei valori». Le Camere, conclude, «già da tempo avrebbero dovuto approvare una legge sul testamento biologico e se non lo hanno fatto è perché proprio per le pressioni vaticane, non solo il centrodestra ma anche una parte delle forze del centrosinistra, lo hanno costantemente impedito».

l'Unità 18.10.07
Gramsci: «Cara Julca l’avversario va salvato»
Le lettere inedite alla moglie Giulia Schucht
di Antonio Gramsci Jr.


INEDITI Dagli archivi familiari dell’autore dei «Quaderni» emergono nuove lettere alla moglie Giulia Schucht. Le ha trovate il nipote, figlio di Giuliano Gramsci, che sta scrivendo un libro sulla famiglia Schucht e qui ce ne «anticipa» qualcuna

Devo confessare che prima del crollo dell’Unione Sovietica non nutrivo un interesse particolare per mio nonno. Nell’Urss si prestava poca attenzione alla figura di Antonio Gramsci. Tutti conoscevano Palmiro Togliatti che impersonava la leadership storica del movimento comunista italiano. Nei libri scolastici a Gramsci erano dedicate solo poche righe dove lui veniva presentato piu’ come martire del regime fascista e molto meno come pensatore e dirigente politico. In Russia sono state pubblicate solo poche opere di Antonio Gramsci, soprattutto i suoi scritti politici del periodo precarcerario. Io, tipico ragazzo sovietico, essendo già allergico all’abbondante propaganda ufficiale non potevo interessarmi ad argomenti del genere. In quell’epoca non conoscevo l’italiano e non potevo leggere le sue lettere che mi avrebbero permesso di sentirlo come un membro della nostra famiglia.
Tutto cambiò dopo il ’91, l’anno cruciale per la mia vita perche coincise con due grandi eventi - il centesimo anniversario della nascita di Antonio Gramsci e la disgregazione dell’Unione Sovietica. Il mio viaggio in Italia del ’91, durato quattro mesi, organizzato dalla Fondazione Gramsci, lo si puo confrontare con il primo viaggio della stessa durata che effettuò mio padre Giuliano nel ’48 quando lui aveva piu o meno la mia stessa età. Anch’io come mio padre in questo periodo pieno di eventi di ogni genere mi sono fatto permeare dalla cultura italiana e mi sono reso conto dell’importanza del nonno.
Poi negli anni successivi il mio interesse per il suo pensiero crebbe sempre piu anche perche attraverso le sue opere ho cercato di capire che cosa fosse successo nel il mio Paese. Non sono diventato studioso di Gramsci occupandomi in primo luogo di musica, pero la mia base mentale e’ sensibilmente cambiata.
Per quanto riguarda invece la famiglia Schucht cioè la famiglia di mia nonna Giulia, preziosa compagna di Antonio, ho avuto un’altro percorso per conoscerla meglio.
Tre anni fa è cominciata la mia collaborazione con la Fondazione Gramsci che mi ha chiesto di cercare nuovi documenti che riguardassero la storia del Pci negli anni venti e il carteggio di Tatiana Schucht degli anni trenta. Scavando nel nostro archivio famigliare e imbattendomi in documenti interessantissimi ho riscoperto la mia famiglia. I miei antenati erano molto puntigliosi nel conservare tutte le carte e così man mano che le mie ricerche andavano avanti, al mio sguardo si apriva una saga epica i cui limiti temporali si proiettavano oltre il settecento e di cui anch’io ho sentito di essere uno dei protagonisti. Un materiale così affascinante non poteva che suscitare una forte ispirazione e così ho cominciato a scrivere la storia famigliare. La prima versione è stata pubblicata nel secondo numero di quest’anno della rivista Italiani Europei. Non voglio parlare ora di questo mio scritto che potrete leggere. Vorrei solo sottolineare un aspetto originale del mio saggio: ho fatto uscire dall’ombra la figura di mia nonna perche in tutte le biografie di Gramsci il personaggio di Giulia rimane sempre sfocato a causa di una carente conoscenza della sua vita e una interpretazione non veritiera, a mio parere, di alcuni tratti della sua personalità.
Poco tempo fa ho trovato una raccolta di brutte coppie delle lettere che Giulia ha mandato ad Antonio, la maggior parte delle quali è sconosciuta. Queste lettere anche se non sono tante come nel caso del carteggio di Tatiana, sono particolarmente importanti perche sembra che a tutte quante mio nonno abbia risposto. Così le lettere di Antonio Gramsci a Giulia alcune delle quali sono molto famose acquistano una nuova risonanza e permettono di capire meglio la sua personalità e il suo pensiero.
È molto curiosa una delle prime lettere, forse addirittura la prima, dove lei lo chiama «professore». Giulia è ancora molto indecisa, vuole essere brava nella scrittura e spiritosa. Stende ben tre brutte copie prima di scrivere la lettera che purtroppo non si è conservata.
«Professore, ho “trovato il sole” oggi. Da quando sono ritornata ad Ivanovo fa un tempo brutto, grigio... Dieci giorni!... Mi sono anche trovata alla conferenza provinciale della gioventù comunista (nel paese delle mummie vivono dei giovani).
Che cosa ho fatto altro? Niente. Lei avrà lavorato oggi... Al Comintern, su un articolo, o a Serebjanyi Bor ad una ruota? Sarei contenta di vedere come, per costante eroismo del coltello e del compagno Gramsci, scricchiolano due ruote coi raggi... uniche al mondo, da quando e’ mondo e crollano stati borghesi...». Un altro documento testimonia la prima lezione politica che ha ricevuto Giulia, la giovane bolscevica dal dirigente comunista italiano. «Lui» (Antonio Gramsci) dice: «Nella società convivono contemporaneamente elementi giovani, maturi e vecchi e conformemente a questa convivenza noi vediamo in essa partiti radicali, liberali, conservatori e assolutisti. Con ciò predominano quelli i quali s’avvicinano di più al carattere e al temperamento del popolo. L’esistenza di tutti questi partiti è inevitabile; la vita dello stato deve seguire la risultante delle forze da essi sviluppate ed il politico ragionevole anche lottando contro di essi non deve mai cercare di annientare assolutamente qualcuno di essi perche una tale meta è inaccessibile e la sua realizzazione non può che ricacciare la malattia nell’interno dell’organismo... La scienza borghese non dà una giusta definizione della parola “partito”». Poi ci sono bellissime lettere degli anni 23-25, il periodo piu felice per la coppia e quelle struggenti e malinconiche del periodo carcerario dove Giulia descriveva minuziosamente le vicende della famiglia e i progressi dei bambini. Ne cito alcune.
11.04.24
«Oggi sento che il mio amore non è più quello di una bambina la quale ha bisogno di una mano che le accarezzi gli occhi per nasconderle il mondo grande e terribile e farle dimenticare le sue angosce, perche questa mano mi dà coraggio e coscienza per vincerle».
10.02.25
«Ho saputo che i giorni sono nuovamente diventati delle settimane... perdo il senso della realtà, so che avrò delle forze sufficienti per aspettare, per vivere, per lavorare, ma ho bisogno di gioia...».
15.03.34
«Giuliano dice che quando sarà grande, diventa giardiniere ed io sarò sempre sua mamma e vivrò insieme con lui, coi suoi fiori e le sue mele... Qualche giorno fa abbiamo comprato con lui un giacinto e lui lo portava, tutto contento, a casa...
Antonio, quali fiori hai tu vicino, o forse anche nella camera? Scrivimi, ti abbraccio stretta, Giulia».
14.08.35
«Delio poco prima di mezzanotte si è svegliato... mammina, che ora é?...sono quasi le cinque...dunque, ho undici anni! Giuliano, svegliati, tieni! E le mele, i confetti volavano».
27.09.35
«So che sono cambiata, meno bambina... Lo sento quando ascolto la musica... Delio una sera ha messo una fotografia sotto il cuscino: “Forse lo vedrò nel sogno”. Cerca di trovare un contatto con te e tu gli dici sempre che fa male, va male... È molto sconfortato... Tu gli sembri un’autorità».
14.01.37
«Giuliano era contento di avere una lettera, voleva mandarti un regalo, scrivere... Ma quando gli hanno detto che tu vuoi sapere che cosa egli sa fare, ha sospirato e disse: “Non mi piace fare cose serie”...».
L’altro ritrovamento interessante, anche se di minore portata, sono le lettere di mio padre Giuliano a mio nonno Antonio, che pure hanno avute risposte.
Tutte queste lettere ed anche altri documenti importanti tra cui le bellissime memorie di Eugenia Schucht sui rapporti della famiglia con Lenin faranno parte dell’appendice del libro che avrà il titolo La Russia di Gramsci. L’album famigliare degli Schucht. Lo sto scrivendo insieme al direttore della Fondazione Gramsci professore Silvio Pons e spero sarà pubblicato all’inizio del prossimo anno.

Repubblica 18.10.07
Scontro sulle parole di Jim Watson, lo scopritore del Dna
"Neri meno intelligenti" Provocazione-choc di un Nobel
di Luca e Francesco Cavalli-Sforza


È sempre triste scoprire che un uomo con un curriculum splendido ha delle pecche anche gravi. Jim Watson ha dato alcuni contributi di estrema importanza alla scienza del secolo scorso. Il più straordinario è stato la scoperta della struttura del Dna, cui è giunto lavorando in tandem con un collega fisico, Francis Crick, che aveva le conoscenze di matematica e fisica che a Jim mancavano.
Ma anche Jim ha portato idee essenziali: non gli mancano certo né l´intelligenza né l´inventiva, e lo ha dimostrato lanciandosi con grande coraggio, giovanissimo, in questa impresa così ambiziosa, cui allora credettero in pochi. Gli è andata bene, e fra l´altro è ben raro nella storia della scienza che la prima ipotesi proposta per risolvere un problema così difficile abbia un successo così rapido e completo.
È giusto considerare la scoperta della struttura del DNA come la più importante compiuta finora dalla biologia, perché spiega che cosa è la vita e ha posto le basi per capire tutto il resto. Era stata però preceduta da un esperimento fondamentale compiuto dieci anni prima, che mostrava che è il DNA, e non le proteine come molti pensavano, la base chimica dell´eredità biologica.
Può sembrare strano, ma ben poco dell´altro lavoro scientifico di Jim è di valore anche solo lontanamente paragonabile. Il più anziano di noi ne ha esperienza diretta, perché due anni prima del famoso lavoro con Francis Crick, Jim venne a trovarlo e passò a Milano tre giorni per farsi raccontare del lavoro che Luca stava compiendo sulla genetica del Bacterium coli, che restò a lungo il batterio più studiato dai genetisti. Jim visitò anche un altro ricercatore, Bill Hayes, che pure se ne occupava, e dopo essersi fatto raccontare tutte le ricerche in corso scrisse un lavoro che avrebbe dovuto essere firmato da lui, Hayes e Cavalli-Sforza, in cui si affermava che questo batterio doveva avere tre cromosomi. L´ipotesi era chiaramente sbagliata, ma Watson non fu convinto dalle obiezioni di Luca e pubblicò l´articolo con il solo Hayes. Tre anni dopo altri ricercatori francesi dimostrarono, con un metodo molto originale, che il coli ha un solo cromosoma, di forma circolare, un´affermazione che non è più stata messa in dubbio in cinquant´anni.
Non c´è dubbio che la collaborazione di Crick abbia avuto una parte notevole nella scoperta della doppia elica. Lo dimostra anche lo straordinario contributo che Crick diede in seguito alla scoperta del codice genetico. Ma tutto il progetto partì da Watson, e la posizione del suo nome in ordine anti-alfabetico, quando si parla del lavoro di Watson e Crick, riflette il contributo relativo (benché abbia generato l´acronimo WC, su cui però non sono mai stati fatti scherzi poco lusinghieri).
È giusto dire che Watson ha dato molti altri contributi importanti alla scienza. Ha scritto un magnifico libro di testo della nuova biologia, intitolato Biologia Molecolare del Gene. Ha portato ad un livello altissimo un laboratorio di ricerca biologica vicino a New York, dimostrandosi un eccellente amministratore. Ha avviato il progetto di scansione del genoma, alla cui direzione ha poi rinunciato per differenze di vedute con la direttrice della Sanità americana: ma forse il progetto avrebbe camminato più speditamente se avesse continuato lui a dirigerlo. In Italia, ove almeno da Croce in poi conta più la letteratura che la scienza, molti ricorderanno il suo La doppia elica, che ha un notevole valore letterario, oltre che storico. Il libro gli costò il titolo di "Honest Jim", perché espose senza ipocrisie una certa sua aggressività nell´impadronirsi di informazioni sul lavoro dei colleghi, importanti per la sua ricerca.
È anche giusto dire che in molte sue affermazioni pubbliche è un po´ "pazzerello". Un collega americano, persona particolarmente mite e gentile, che lo conosce bene, lo ha definito, con una classica espressione inglese, un "loose cannon": un cannone che si è sciolto dalle funi che lo fissano alla tolda di un veliero in tempesta e va a sbattere da tutte le parti.
In più occasioni Jim si è espresso in modi quanto mai provocatori. Ora che si è convinto che presto sapremo tutto sull´intelligenza in base al DNA di un individuo, e che è deciso a render pubblico il suo genoma, forse potremo scoprire da dove vengono queste sue debolezze. Ma secondo voci nell´ambiente preferirà tenere segreta una parte della sua personalità, che potrebbe avere una base genetica, perché stavolta il suo gusto per la provocazione lo ha portato a compiere un atto di grave insensibilità sociale, appoggiando un pregiudizio che è stato dimostrato erroneo ma che purtroppo è ancora abbastanza diffuso. Usando la sua influenza per diffondere un´idea sbagliata potrebbe danneggiare centinaia di milioni di persone.
Jim avrebbe dovuto rendersi conto che non ha le conoscenze scientifiche per fare affermazioni di questo genere. Non bisogna pensare che gli scienziati abbiano sempre ragione, semplicemente perché la scienza è ricerca della verità. Al contrario, nello sforzo che porta alla verità scientifica si commettono parecchi errori. Purtroppo vi sono anche esempi classici di scienziati gretti ed egoisti, come Newton. Non è certo il caso di una persona gentile come Jim, ma forse, preso dal gusto della provocazione, non si è reso conto dell´impatto che possono avere le sue parole.

Repubblica 18.10.07
"Una brutta strada"
Il sindacato agli organizzatori: niente simboli.
Cremaschi e il Pdci: limiti inaccettabili al dissenso

"Al corteo niente bandiere della Cgil" scontro tra sinistra radicale e Epifani
Una circolare a pochi giorni dalla manifestazione del 20 contro la precarietà
di Francesco Mimmo


ROMA - E´ guerra di loghi e bandiere dentro la Cgil. E in vista della manifestazione contro il protocollo welfare sale la tensione dentro il primo sindacato italiano. A scatenare la polemica tra i vertici e l´ala sinistra dell´organizzazione è stata una circolare diffusa il 15 ottobre che sostanzialmente, appellandosi al regolamento, vieta l´uso del logo Cgil durante il corteo organizzato dalla sinistra radicale per sabato prossimo. Una manifestazione che il segretario Cgil Guglielmo Epifani ha definito più volte incomprensibile chiedendone anche l´annullamento dopo il referendum dei lavoratori.
Ma se la Cgil non partecipa, alla manifestazione ci saranno invece "Rete 28 aprile" e "Lavoro e Società" - due aree programmatiche della Cgil - e molti esponenti della Fiom a titolo personale (come il segretario delle tute blu Gianni Rinaldini). E proprio sul ruolo delle aree programmatiche che si è scatenata la bufera. «Negli ultimi tempi - si legge nella circolare - ci sono stati segnalati casi di un uso non corretto dei simboli della nostra organizzazione. Nelle delibere regolamentari si afferma che l´uso dei loghi e dei simboli delle strutture è consentito esclusivamente alle segreterie delle strutture stesse e che non è consentito l´utilizzo di simboli di riconoscimento delle aree programmatiche. Pertanto non è consentito utilizzare a qualsiasi titolo simboli di aree programmatiche dentro e fuori della nostra organizzazione. Non è consentito l´utilizzo del logo della nostra organizzazione con l´aggiunta del nome dell´area programmatica per qualsiasi uso. In particolare non si possono usare loghi di area programmatica nelle comunicazioni utilizzando carta intestata, o striscioni, bandiere, pettorine, ecc.». Un messaggio chiaro agli organizzatori della manifestazione: niente bandiere o loghi Cgil (nulla vieta naturalmente al singolo manifestante di portare una bandiera Cgil), ma neanche delle aree programmatiche perché a rigore non sono "strutture" del sindacato. Questo dice la circolare che diffusa a soli cinque giorni dalla manifestazione ha fatto infuriare i rappresentanti delle aree programmatiche. «Sono limiti inaccettabili - secondo Giorgio Cremaschi di Rete 28 Aprile e membro della segreteria Fiom - ci siamo sempre comportati nel pieno rispetto dello statuto che garantisce libertà e pubblicità di dissenso». E si fa sentire anche Lavoro e Società: «Un fatto grave e in contrasto con la storia Cgil che si è strutturata per aree programmatiche dopo la fine delle componenti di partito».
Dure reazioni anche dagli esponenti della sinistra radicale. «Non ho parole - afferma Manuela Palermi capogruppo del Pdci al Senato - sono stata 20 anni in Cgil e non ho mai visto nulla di simile. Alla manifestazione di sabato ci saranno molte bandiere Cgil e sarà un atto del tutto legittimo perché quel simbolo appartiene ai lavoratori. La Cgil abbandoni atteggiamenti che rischiano di rivoltarsi contro gli stessi lavoratori, come in passato hanno saputo fare grandi dirigenti come Novella, Lama e Trentin».

il manifesto 18.10.07
Un partito di democristiana memoria
di Nicola Tranfaglia


Poco importa che ci siano state alcune irregolarità o lacune nell'organizzazione e nei conteggi del voto di domenica per l'elezione del candidato-segretario del Partito democratico. I risultati delle primarie hanno confermato comunque la grande popolarità di Veltroni come leader e hanno mostrato una grande voglia di partecipazione da parte degli italiani che si riconoscono nel centro-sinistra. Peccato che quello nato dalle consultazioni delle masse sia soltanto un partito di centro. Lo dimostrano, in primo luogo, le dichiarazioni del neo-segretario che ha chiarito, assai prima di domenica, le sue intenzioni e la sua visione del mondo. Ha detto più volte che le forze di sinistra, attualmente collocate nel governo Prodi,non sono alleati ma forze negative da isolare e escludere nei prossimi scontri elettorali. Ha, inoltre, cercato di cooptare nel prossimo gruppo dirigente personaggi che hanno collaborato in posizioni di rilievo nel centro-destra come il sottosegretario alla presidenza Gianni Letta e addirittura Veronica Lario, attuale consorte del Cavaliere. Più significativa ancora, negli ultimi anni, è stata la sua opera di sindaco della capitale. Una forsennata privatizzazione delle aziende municipali e un'alleanza di fatto con i «poteri forti» e con gli uomini che li rappresentano. E una modernità fatta di apparenza e di buonismo a ogni costo, all'insegna della propria carriera personale, fino a prospettare la fuga in Africa dopo la fine dell'incarico di sindaco della capitale. C'è, persino, da immaginare che Veltroni avesse, con il suo innegabile intuito, prefigurato la sua designazione a futuro primo ministro da un partito che aveva già consumato, con assai scarso successo Piero Fassino e Massimo D'Alema. Vero è che l'approdo del partito democratico e cristiano rappresenta l'approdo finale, per certi aspetti inevitabile, di un gruppo dirigente che, dopo la svolta dell'89, è andato alla ricerca, per troppi anni e infruttuosamente, di qualcosa che sostituisse il trionfale superamento del Pci e il rifiuto crescente di un nuovo socialismo, italiano e europeo. Quel gruppo dirigente, rimasto in gran parte immutato nella compagine dei Ds, ha delegato per un decennio abbondante la propria rappresentanza a un ex democristiano, Romano Prodi, ma poi, assaporando il potere di governare nel quinquennio 1996-2001, ha cercato a ogni costo di diventare il nuovo partito centrista di governo. E quale miglior strumento poteva esserci di quello di unirsi agli ex democristiani rimasti all'interno del centro-sinistra accettando, nello stesso tempo, di retrocedere sul valore della laicità, pur di essere accettati dall'establishment moderato, a cominciare dalla Chiesa cattolica e dalla grande finanza? Questo è avvenuto, come dimostrano i grandi giornali e la televisione pubblica, che da settimane inneggiano a Veltroni e al partito democristiano

Corriere della Sera 18.10.07
Nel nuovo libro, «Oltrepassare», il filosofo lancia l'ultima provocazione: la morte non esiste
Il Paradiso non c'è, ma siamo destinati alla felicità
Emanuele Severino disegna uno scenario ultraterreno alternativo a ogni fede
di Armando Torno


Che cosa angoscia l'uomo da sempre? La risposta è semplice: la morte. Lo sapevano già egizi, babilonesi ed ebrei, lo compresero magnificamente i greci, a Roma Lucrezio spiegò le conseguenze mondane e religiose di questa paura. Ma forse tali caratteristiche le ebbe (le ha) quella morte che non lascia una possibilità di salvezza. Il nulla che ci avvolge, per dirla in parole semplici. Giacché siamo fatti della stessa sostanza di cui sono composti i sogni, e la nostra breve vita è circondata dal sonno: così, almeno, scrisse ne La Tempesta il sommo Shakespeare.
Emanuele Severino ha mostrato in Gloria (Adelphi, 2001) come la salvezza da questo concreto nulla non sia una semplice possibilità ma una vera e propria necessità, perché «l'uomo è atteso dalla terra che salva». In altri termini, anche se non lo sa o non se ne accorge o non ci crede, ognuno di noi è in cammino verso un immenso che non immagina. E ora il discorso, che si dipana attraverso scenari a dir poco sconvolgenti, è affrontato da Severino in un'altra opera, che esce in questi giorni e alla quale ha lavorato negli ultimi anni: Oltrepassare
(Adelphi). In essa un messaggio forte e sintetico colpisce il lettore: noi siamo destinati alla felicità, per necessità e non come premio. E la vita eterna non è quella di cui parlano le religioni.
Per talune tematiche il libro è, rispetto a Gloria, «rischiaramento e sviluppo», il medesimo autore lo considera come la seconda parte e la naturale conclusione (p. 30); tuttavia in questa nuova opera si mostra come «la terra che salva» sia «infinitamente più ampia, cioè più salvatrice». Non soltanto: in Oltrepassare il senso autentico del divenire rivela una «complessità che in Gloria non viene ancora indicata». Insomma, pagine ricchissime di spunti, da meditare, che portano alle estreme conclusioni quel discorso che il maestro italiano avviò nel 1958 con La struttura originaria.
Severino ha filosofato partendo dalle istanze iniziali del pensiero occidentale e ha sempre tenuto presente il principio di non contraddizione insegnato da Aristotele. Anzi, egli ha via via indicato i punti deboli di molti edifici abitati dal nostro sapere. In un colloquio ci ha fatto notare che all'alba della sapienza greca si è cercato un linguaggio che non potesse essere smentito né dagli uomini né dagli dei, meno che mai da variazioni epocali o catastrofi o da qualsiasi innovazione dell'anima. Eraclito di Efeso, sei secoli prima della nostra era, raccomandava di non ascoltare lui ma il Logos, vale a dire qualcosa da cercarsi oltre le opinioni. Severino ha sempre percorso tale via sino a giungere a Oltrepassare: con questa opera apre scenari che parlano di «attesa e gloria della gioia», invitando il lettore in quella costellazione dove «l'essenza dell'uomo, che ora è contesa dal destino e dalla terra morta, è destinata alla più ampia arcata d'immenso». La domanda che ha accompagnato la sua instancabile ricerca — che cosa si apre al di là della contraddizione? — ora trova requie in una risposta che si confonde con il nostro sorriso.
Detto in soldoni, a noi sembra che il messaggio di Oltrepassare sia la conferma per il pensiero di Severino che «l'estrema delle follie», vale a dire la persuasione che le cose e l'uomo «sporgano provvisoriamente dal nulla», rappresenti il più terribile degli equivoci. Ci confida: «La gran ventura è rendersi conto che c'è un sapere non smentibile, più radicale di quello scientifico, che afferma l'eternità di ogni cosa, situazione, stato del mondo». Tale sapere è il «destino». Qualcuno ha trovato una corrispondenza tra codesti temi e la teoria della relatività, per la quale tutte le cose— le passate e le future, non meno delle presenti— sono fotogrammi che esistono già, eterni, prima dello loro proiezione. Ma questa metafora deve essere abbandonata, giacché ci può aiutare ma non ci consente di entrare nell'ultima fase rappresentata in Oltrepassare.
Si può essere d'accordo o no con Severino, comunque gli va riconosciuta una coerenza estrema nel linguaggio e nel metodo. Gli abbiamo chiesto di sintetizzare il suo percorso, in modo da offrirlo senza equivoci al lettore. Ha risposto: «Ne La Gloria si mostra che l'ombra della Notte, cioè della follia, da cui "il destino" è nascosto, è qualcosa che tramonterà ed è necessariamente "oltrepassata": con essa finiranno anche le opere, le civiltà e le epoche ad essa appartenenti. Si fa innanzi il Giorno che salva dalla Notte. In Oltrepassare si mostra che il Giorno è lo stesso apparire in noi della totalità infinita e concreta dell'essere ».
Parlare con Severino è una continua sorpresa. Mentre risponde, alcune sue frasi si ficcano come spilli nella memoria. Inoltre Oltrepassare conduce in scenari a dir poco affascinanti, per i quali vale la seguente regola: «Il linguaggio che testimonia il destino della verità indica qualcosa che sta al di là di ogni sapienza dei mortali». Attraverso queste pagine si comprende come «il cambiamento — il divenire — non può essere la creazione e l'annientamento delle cose, che sono eterne »; anzi ogni mutare si dovrebbe intendere come «il sopraggiungere mai compiuto degli eterni nell'eterna luce dell'uomo». Di più, ribadisce nel nostro colloquio, sillabando: «Nel sopraggiungere gli eterni sono oltrepassati e insieme totalmente conservati. Tutta questa nostra vita è destinata a essere oltrepassata e conservata in ognuno di noi».
Chi scrive, più semplicemente, rivede in Oltrepassare un foglietto volante inserito nella dispensa dell'Università Cattolica di Ritornare a Parmenide.
In esso le ultime righe — che poi non saranno riprese ne L'essenza del nichilismo — recitavano: «Tutte le vite che vivo, le vivo eternamente; tutto ciò che ho deciso o decido, l'ho già eternamente deciso...». Ora ci accorgiamo che quelle parole erano l'inizio di un'odissea alla ricerca di quanto si svela in questo ultimo libro, nel quale, tra l'altro, Severino affronta il tema dello «smembramento del Dio», atto essenziale perché «se ne mangino le carni e se ne beva il sangue». Ma qui il discorso si fa ampio: occorre evocare il mito, comprendere la violenza e l'isolamento delle cose, il loro divenire altro.
Accanto a questi e a ulteriori scenari, troverete alcune commoventi riflessioni sulla nostra fine. Con una conclusione che in molti giudicheranno paradossale: la morte, così come la intendiamo, non esiste. Ma non si tratta di un'affermazione assurda, se vista nella luce che si apre dopo il tramonto della follia attuale dell'uomo.

Corriere della Sera 18.10.07
La vita? Un'odissea tra violenza e amore
di Emanuele Severino


Solo lo smembramento del Dio consente che se ne mangino le carni e se ne beva il sangue. In questo modo, il mito afferma, con il proprio linguaggio, il tratto essenziale della volontà di avere potenza, cioè la fede nell'isolamento, nella separazione di ciò su cui si vuole esercitare la potenza. Agli occhi del mortale del mito, la potenza (divina) che genera e rigenera il mondo, e che per farlo ha bisogno di una materia essa stessa capace di servire alla potenza produttrice, cioè essa stessa potente, o «divina», può agire su tale materia solo se, tale materia, non si mantiene compatta, inflessibile e inalterabile, ma, all'opposto, si lascia alterare, flettere e separare da sé. E il mito intende appunto come smembramento del divino questa disponibilità della materia all'opera che la domina. Mangiando la potenza divina e sapendo di farlo, il mortale del mito — che nel proprio operare e soprattutto nel «sacrificio» ripete la generazione e la rigenerazione del mondo — crede che la potenza su cui opera la propria potenza, entrambe divine, debba daccapo rendersi disponibile e prestarsi alla volontà di potenza, crede cioè che per impadronirsene debba mangiarla e quindi smembrarla e squartarla.
Smembramento e squartamento sono le immagini in cui si presenta il reciproco isolamento delle cose del mondo, in quanto condizione essenziale dell'agire. Ma sono immagini che mostrano direttamente la violenza e il dolore che ogni agire porta con sé, in quanto ogni agire è un divenir altro.
La specializzazione scientifica — cioè la separazione metodica di un campo particolare di indagine dalle altre dimensioni del mondo — è solo l'ultima forma, nella storia dell'Occidente, della violenza e dell'isolamento delle cose, essenzialmente richiesto dal loro divenir altro. Ma anche al più puro atto d'amore compete questa violenza isolante (che nella specializzazione scientifica e nel «frammento» in cui consiste l'opera d'arte nel tempo presente tende a rendersi esplicita, mentre nell'amore tende a nascondersi). Più volte, nei miei scritti, si richiama la coappartenenza che il linguaggio esprime con la similarità etimologica tra il decidere ( de-caedere,
«decidere») e l'uccidere ( ob-caedere), dove il caedere è appunto il colpire staccando ciò che era unito, ma che era anche disposto (ossia lo si creda disposto) a lasciarsi separare, e smembrare. Volontà di vivere, volontà di potenza, volontà di divenir altro, fede nell'isolamento delle cose sono essenzialmente connessi.

Liberazione 18.10.07
Intervista al segretario di Rifondazione comunista alla vigilia della manifestazione di Roma
Giordano: «Il 20 ottobre giorno decisivo per una sinistra che non si accontenta»
di Piero Sansonetti


Franco Giordano sta pensando al futuro della sinistra, alla necessità di unità, a come la situazione politica è stata modificata dal referendum sindacale e poi dalle primarie del Pd

Franco Giordano sta pensando al futuro della sinistra, alla necessità di unità, a come la situazione politica è stata modificata dal referendum sindacale e poi dalle primarie del Pd. Ha molte idee a riguardo, e anche molte preoccupazioni. Ma oggi, per essere sinceri, pensa a una cosa sola: al 20 ottobre. Cioè alla manifestazione organizzata dalla sinistra - indetta in agosto da Liberazione , dal manifesto , da Carta e da una quindicina di intellettuali, e alla quale Rifondazione ha aderito immediatamente - per dare una scossa al governo Prodi, cioè per chiedergli di fare qualcosa di sinistra, come diceva, tanti anni fa - abbastanza inutilmente - Nanni Moretti.
«Sì - dice Giordano - la manifestazione di sabato prossimo è un passaggio importante e decisivo. In questi ultimi giorni dobbiamo fare un grande sforzo di mobilitazione. Perché dopo la prova democratica del referendum, dopo il pieno di partecipazione alle primarie del Pd, c'è bisogno di mettere in campo la forza, la visibilità del popolo di sinistra. La manifestazione del 20 ottobre ha l'obiettivo di scuotere il governo Prodi, ma io credo che ripronga il problema di una soggettività di sinistra. Che nasca su grandi questioni sociali, economiche e civili. C'è un popolo di sinistra, esiste, e oggi chiede cambiamenti reali, forti nella politica del governo, ed è rimasto fortemente deluso da questo primo anno di governo di centrosinistra».

Guglielmo Epifani ha detto che sarà una manifestazione sostanzialmente inutile e semplicemente identitaria. Cioè che servirà soltanto a ribadire una vecchia identità della sinistra.
Noi aderiamo al 20 con spirito unitario. Non è una manifestazione identitaria, come ha detto Epifani. Ho trovato fuori luogo, francamente, le parole di Epifani che oltretutto ha chiesto agli organizzatori del 20 ottobre di fare un passo indietro. Però quelle parole segnalano un problema

Quale?
Il Partito democratico tende a voler esaurire la dialettica politica in se stesso. Cioè su un terreno separato della politica. Vuole essere tutto. Vuole essere un contenitore che assorbe l'intera politica e annulla o emargina tutto quello che sta fuori da sé. E sceglie per sé una forma di politica per definizione disancorata dai riferimenti sociali, per esempio del lavoro dipendente...

Una politica equidistante tra impresa e lavoro?
Non è esattamente così. Il Pd, secondo me, ha culturalmente introiettato la filosofia dell'impresa. Mette al centro del processo democratico e popolare la figura generica del cittadino consumatore, non del lavoratore. E questa è una centralità che sta perfettamente dentro la diarchia produzione-consumo. Dentro quella diarchia non puoi essere equidistante, perché tra produzione e consumo - e quindi tra impresa e cittadino - c'è necessariamente una relazione di dipendenza, di superiorità della produzione. E allora non c'è più equidistanza, ma l'impresa, e le sue ragioni, e le necessità della competitività, vengono prima di tutto.

Che c'entra Epifani?
Te lo spiego. Questo disancoraggio sociale della politica, questa rottura della vecchia rappresentatività, come viene colmata? Viene colmata da una forma di rappresentanza sociale del lavoro, in chiave moderata ed istituzionalizzata, dal movimento sindacale. E il movimento sindacale entra a far parte di questo sistema, di questa modalità di riorganizzazione totale della politica e del potere. Si creano nuovi equilibri politici e sociali che tendono a pretendere per sé la rappresentanza del tutto. Capisci? Cioè loro dicono: bastiamo noi. Rappresentiamo la maggioranza del mondo del lavoro, rappresentiamo i consumatori, l'impresa, il potere, la politica… E allora a che serve una soggettività di sinistra autonoma? A niente, è solo fastidiosa. Una sinistra che rappresenti non solo socialmente ma anche politicamente il lavoro, viene considerata un ostacolo a quel modello. Che è un modello americano che punta a creare passività e usare la passività come fonte del consenso.

E noi che dobbiamo fare per evitare che ci stritolino?
Noi dobbiamo affrontare la crisi della politica. Cioè l'inefficacia della politica. Impotente di fronte alle grandi scelte economiche e sociali, che sono state delegate al capitale globalizzato. Ripristinare una centralità della politica significa porre al centro della politica la questione del modello, di quale società, di come si riforma la società e non di come si rende più funzionale alle esigenze di crescita del capitale. Vedi, io sono convinto che oggi la crisi della politica tende a coincidere con la crisi della sinistra. E' un affare nostro. E se noi con ci troviamo un varco, non realizziamo l'aggregazione di una massa critica e se non riusciamo a porre il problema della trasformazione di questo stato di cose - oggi, concretamente, qui: non in una prospettiva lontana e incomprensibile… - allora non c'è via d‘uscita: declina la sinistra, e allora declina la politica, si rinsecchisce e rischia di perdersi la democrazia.

Assegni grandi responsabilità sul 20 ottobre?
Si, il 20 ottobre è decisivo. E' una porta attraverso la quale bisogna passare. Apre una prospettiva. Quale? Quella di rendere possibile la trasformazione in Italia e in Europa. Lanciare una sfida strategica. Ricostruire una cultura anticapitalistica che però esiste solo se lascia un segno, se ha una sua dimensione di massa. Sennò è travolta.
Il 20 ottobre è una tappa. Serve anche ad esprimere una soggettività, mettere insieme le vertenze, le anime, rompere le solitudini e - come spesso dice Marco Revelli - determina un elemento di riconoscimento collettivo di un popolo, e chiede una alternativa di politica economica.

E dopo il 20 ottobre?
Immediatamente dopo questa manifestazione, e sulla spinta di questa manifestazione, io immagino un progetto accelerato del soggetto unitario della sinistra. Ho avanzato una proposta che è quella di realizzare una Costituente della sinistra sul modello del forum sociale. Quel tipo di modalità è l'unico elemento davvero innovativo, alternativa al modello americano. Entro l'anno deve partire questo processo costituente della sinistra. Io propongo di mobilitare non solo i soggetti politici organizzati, ma tutti quelli che si sentono orfani di una sinistra antiliberista, pacifista, femminista e laica. Penso alla marcia Perugia-Assisi e alle lotte comunitarie (No Tav, Vicenza, Scanzano, Melfi…).

Come immagini questa sinistra?
Deve garantire la ricostruzione di un punto di vista autonomo della trasformazione della società. Non può essere una aggregazione di varie forze comuniste. Per carità. deve comprendere tutte le anime: le femministe, i pacifisti, gli ecologisti il movimento degli omosessuali. Ma non semplicemente per allargare, per essere di più: perché non può esistere una forza di trasformazione senza questi punti di vista, questi pensieri. Non ci può essere nessuna nostalgia per l'unità comunista. Però c'è un secondo rischio da evitare: il nuovo soggetto non può essere nemmeno la proiezione politica della rappresentanza sociale del sindacato. L'autonomia deve essere piena. L'autonomia sindacale va rispettata, ma non delego al sindacato la rappresentanza politica del mondo del lavoro. Vedi, dal referendum emerge un malessere molto forte da alcuni settori. Per esempio dal lavoro operaio. Ho trovato davvero sgradevoli le logiche da tifo che hanno prevalso in una parte dei vertici sindacali. E' una follia non guardare al disagio operaio: che nasce dall'organizzazione del lavoro, dai ritmi più intensi, dagli orari, dalle retribuzioni bassissime, dalle forme sempre più ristrette di libertà e di democrazia in fabbrica. Quando sono stato davanti ai cancelli di Mirafiori, questo mi dicevano tutti: «c'è un modello autoritario dentro quella fabbrica, e la nostra dignità è calpestata. Lì dentro siamo annullati...»
Come fa un soggetto di sinistra a non cogliere questi elementi di disagio e a non intervenire? Può contentarsi della prevalenza aritmetica dei sì? Può non andare a guardare cosa c'è in quei sì, quanto rappresentano una concretezza di chi dice: «Dopo tutte le sconfitte degli anni scorsi, meglio contentarsi…»
Mi hanno impressionato le logiche trionfalistiche di alcuni settori sindacali

Cosa mi dici sul famoso protocollo pensioni-welfare, che ieri sera è stato di nuovo in parte modificato dal Consiglio dei Ministri?
Ho ancora notizie un po' vaghe. Credo di avere capito che è stata accolta una nostra richiesta, quella di rendere effettiva e certa la misura che garantisce a tutti, anche ai giovani precari, una pensione non inferiore al 60 per cento dell'uiltimo stipendio. Mi sembra invece che sia stato ancora peggiorato, su pressione della Confindustria, la parte del provvedimento che riguarda i contratti a termine. Noi ora faremo la nostra battaglia in Parlamento, per migliorare il testo della legge. Così come faremo la battaglia sulla questione, grandissima, dei salari. Non c'è dubbio che in Italia ci sia una gigantesca questione salariale. Dopo che Confindustria ha ottenuto la più grande quantità di risorse mai avuta dal dopoguerra in un periodo così breve di tempo, ora bisogna aumentare i salari. Come? O con la restituzione del fiscal-drag o con la detassazione degli aumenti salariali. Dove si trovano i soldi? Tassando le rendite al 20 per cento, cioè ancora al di sotto della media europea. Questi sarebbe segnali di giustizia. E servirebbero anche a ribadire la centralità del contratto collettivo di lavoro. Per noi sono due cose importantissime. Noi vogliamo che sia interrotta la tendenza a svalorizzare il lavoro. Nel secolo scorso il lavoro era al centro di tutti gli interessi politici. Persino nella cultura liberale aveva acquistato un ruolo privilegiato. Ora la corsa è inversa: si sta realizzando una situazione nella quale ormai nessun diritto è più al sicuro. Sono tutti variabili dipendenti del profitto e delle esigenze della competizione. E questa idea non è più contrastata. Il conflitto capitale-lavoro è cancellato, il lavoro diventa una parte del capitale. Tu capisci che una vera sinistra non esiste dentro questo recinto.

La nascita del partito democratico non segna la fine del riformismo? Oggi la parola riformismo viene usata come sinonimo della parola "moderato". C'è una specie di rovesciamento linguistico. La parola riforma - che nell'Ottocento e nel Novecento era quasi un sinonimo di rivoluzione soft - ora è diventata un sinonimo di restaurazione soft…. Non è così?
Come no. Oggi un operaio se sente la "parola" riforma gli viene un brivido nella schiena. Si chiede: e io cosa ci perderò?...

E la nascita del Partito democratico non dà una spinta in questa direzione?
Diamanti, commentando le primarie del Pd, ha parlato di partecipazione rivendicativa. Cioè lui dice che alle primarie si è depositata non una attesa ma un elemento di criticità. Credo che abbia ragione. Noi che dobbiamo fare? Io non penso che sia una questione linguistica il fatto che il Partito democratico cancelli la parola sinistra dal suo vocabolario. Questo è anche l'effetto del fatto che la politica viene schiacciata in una prospettiva governativa. Una volta che tu hai deciso che la politica non può intervenire nei grandi processi economici e sociali, che quelli spettano all'impresa e al mercato globale, e che la politica è schiacciata a garantire questo meccanismo blindato, allora il riformismo sparisce. Noi dobbiamo farci carico di questo probelma. Dobbiamo creare un soggetto unitario che dia sponda alle aree politiche riformiste che si trovano senza rappresentanza e senza interlocutore. Sfidando su questo campo il Pd. E spiegando che se loro sono dentro l'imperativo categorico governista, noi non ci siamo. Noi pensiamo che il governo sia una variabile della politica ma non l'obiettivo. L'obiettivo della politica è riprendersi quelle competenze che il mercato le ha espropriato.

Liberazione 18.10.07
Rai, diretta e "finestre" per il corteo di sabato
di Alessandro Curzi


Senza nemmeno entrare nel merito politico, fondamentale, della manifestazione del 20 ottobre (welfare e precariato) e senza interferire ovviamente con l'autonomia dei direttori e della redazione, mi aspetto che la Rai riserva all'evento, sulle diverse piattaforme, dirette e "finestre" informative.
La politica italiana è certamente ad un punto di svolta e l'informazione, tutta l'informazione, fa bene a seguirla con dovizia di particolari e inchieste. Ma, in questo quadro, un ruolo specifico spetta al servizio pubblico, la cui informazione deve finalmente passare dalla stagione dei "panini" e della quotidiana, indecifrabile raffica di brevi dichiarazioni a quella di un'adeguata capacità di documentazione e di approfondimento.
La Rai non può mancare di dare il suo fondamentale apporto a questo importante momento di chiarimento e di ripartenza nel rapporto fra istituzioni e società. Perciò ritengo che farebbe bene a seguire con professionalità e la necessaria ampiezza manifestazioni come quella del 20 ottobre, così come ha fatto per eventi come la marcia Perugia-Assisi e per le cosiddette "primarie" del Pd e come avrebbe forse dovuto fare con la recente manifestazione di piazza organizzata da An.
In aggiunta agli appuntamenti tradizionali dell'informazione generalista, necessariamente stringata, gli spettatori/cittadini dovrebbero poter trovare nei palinsesti e sulle diverse piattaforme a disposizione del servizio pubblico spazi e dirette, per eventi che coinvolgano centinaia di migliaia quando non milioni di persone. Questo, peraltro, senza costi aggiuntivi, ma anzi evitando le attuali sovrapposizioni e sprechi, e utilizzando al massimo le capacità di sinergie fra le diverse piattaforme.