sabato 20 ottobre 2007

l’Unità 20.10.07
Mezza Cosa rossa in piazza, senza ministri
Alla manifestazione Rifondazione e Pdci. E Liberazione dice: ci giochiamo tutto
di Simone Collini


AVANTI POP, per dirla col titolo dell’esibizione che faranno i Têtes de Bois. Centinaia di pullman, una decina di treni speciali e una nave dalla Sardegna, accolta all’alba a Civitavecchia da Franco Giordano. Rifondazione comunista e Pdci sono convinti che oggi piazza San Giovanni sarà riempita. «Ci giochiamo tutto», si leggeva ieri sulla prima pagina di “Liberazione”, che insieme a “manifesto” e “Carta” ha lanciato la proposta della manifestazione. E i comunisti al governo un fallimento non se lo possono permettere, soprattutto all’apertura di un autunno che si preannuncia decisamente caldo. Benché arrivi alla prova della piazza dimezzata (Sinistra democratica e Verdi non parteciperanno al corteo) la sinistra radicale vuol far sentire tutto il suo peso all’interno dell’Unione (e però l’esito di questa giornata non sarà irrilevante nella partita, tutta interna alla “Cosa rossa”, con Fabio Mussi e Alfonso Pecoraro Scanio). «La manifestazione ha lo scopo di produrre un’accelerazione sul programma di governo», spiega il capogruppo del Prc alla Camera Gennaro Migliore. «Più saremo e più faremo valere le nostre richieste, che il governo non potrà ignorare», è il messaggio lanciato dal presidente dei deputati Pdci Pino Sgobio.
Gli organizzatori ribadiscono che non si tratta di un appuntamento contro l’esecutivo, ma il rischio che dal corteo si alzino slogan non proprio teneri nei confronti di Prodi è alto. Anche perché il giorno della vigilia c’è chi lo annuncia apertamente, come fa Francesco Caruso, che annuncia un pezzo di corteo con «uno striscione d’apertura molto chiaro: “Contro il governo della precarietà, casa e reddito per tutti”». Ma non è solo l’indipendente Prc a lanciare un messaggio all’esecutivo. Se Prodi incontrando i promotori della manifestazione aveva detto che c’è un complotto in corso e che quindi bisogna stare attenti a come ci si muove, il responsabile lavoro di Rifondazione Maurizio Zipponi fa capire che la minaccia della crisi da sola non basta per impedire alla sinistra dell’Unione per dare battaglia su welfare e Finanziaria: «Con questa manifestazione parte una nuova fase, una piattaforma sociale che vale sia al governo, sia all’opposizione».
Fausto Bertinotti osserva la situazione dall’osservatorio di presidente della Camera e richiama alla prudenza su un unico punto, giudicando inopportuna la presenza dei ministri in piazza, perché «sarebbe una sgrammaticatura» e perché ognuno deve fare «il suo mestiere». Però si dice convinto che il governo «dovrebbe essere interessato ad avere un interlocutore critico che si proponga di scuotere un contesto sociale dominato dai poteri forti», perché in questo modo «può intercettare i consensi che derivano da un’azione del genere».
Ministri in piazza comunque non ci saranno. Il comitato promotore lo ha chiesto esplicitamente: «Per mettere al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica il merito dei problemi che noi solleviamo e non gli instabili equilibri politici, chiediamo ai ministri di non partecipare per lasciare visibilità e protagonismo alle migliaia di persone che riempiranno le strade di Roma». Ma all’unico ministro che avrebbe potuto partecipare al corteo, Paolo Ferrero, già non sfuggiva che una sua presenza sarebbe stata controproducente. Non a caso il ministro della Solidarietà sociale ha fatto sapere anzitempo che non sarà nel corteo: «Non voglio contribuire a oscurare l’evento con la mia presenza». Ci saranno invece Pietro Ingrao e Nichi Vendola, dato in pole position come futuro leader della sinistra unificata, per il quale la manifestazione sarà «il vero antidoto all’antipolitica, alla crescita della sfiducia e alla separatezza feroce tra il palazzo e la cosiddetta gente».
Ma c’è un altro rischio, per una manifestazione che è «contro tutte le precarietà», è cioè che spuntino slogan contro l’accordo sul welfare siglato a luglio da governo e sindacati. Guglielmo Epifani, che nei giorni scorsi aveva espresso perplessità su un’iniziativa come questa all’indomani del referendum tra lavoratori e pensionati, ieri ha incontrato alcuni esponenti del comitato promotore. Il segretario della Cgil, al quale è stato assicurato che il corteo non sarà contro il sindacato, ha augurato una buona riuscita della manifestazione ma è anche tornato a spiegare che bandiere della Cgil non possono essere esposte a iniziative a cui si è deciso di non aderire e ha inoltre difeso il protocollo sul welfare perché, ha spiegato, introduce elementi innovativi e migliorativi sia sul sistema pensionistico che sul mercato del lavoro.

Repubblica 20.10.07
Welfare, la sinistra in piazza "E i ministri oggi stiano a casa"
I promotori: corteo di "invisibili" per incalzare Prodi
Giordano all'alba accoglie i manifestanti in arrivo con le navi dalla Sardegna
di Alberto Custodero


ROMA - Nessun ministro, oggi, alla manifestazione contro la precarietà e per i diritti civili: Paolo Ferrero, Prc, e Alessandro Bianchi, Pdci, hanno confermato che non ci saranno accogliendo un appello degli stessi organizzatori («stiano a casa, lascino spazio a chi protesta»). La loro assenza è anche per evitare polemiche con il governo. I segretari di Rifondazione e dei Comunisti italiani invece ci saranno, ma non avranno la parola, neppure per un breve saluto dal palco di piazza San Giovanni. I promotori vogliono dare voce agli «invisibili». E cioè quelli «per conto dei quali tutti parlano, ma che mai hanno occasione di farsi sentire, come precari, rom, migranti, sfrattati, gay e studenti». Franco Giordano (e forse anche Oliviero Diliberto), sarà presente, stamattina alle 7, a Civitavecchia, all´arrivo di una nave carica di manifestanti dalla Sardegna. Ad accogliere questi ultimi anche i comitati No Coke che si battono contro il progetto di conversione a carbone della centrale Torre Valdaliga. Oltre alla nave dalla Sardegna, confluiranno a Roma 11 treni speciali, e 600 pullman: da 150 a 300 mila i partecipanti previsti, appuntamento, alle 15, a piazza della Repubblica. Ad aprire il corteo seguito dalle dirette di Rainews, SkyTg24 e La7 - dietro lo striscione-titolo della manifestazione «siamo tutti un programma» - ci sarà l´ex leader del Pci Pietro Ingrao, 92 anni, ora militante di Rifondazione comunista, che è tra i 15 promotori. In ordine non proprio rigoroso seguiranno gli operai delle fabbriche in crisi, migranti, rom, Glbtq - il movimento gay e lesbiche - con un piccolo "Pride" dei diritti civili. Poi il mondo del lavoro con «metalmeccanici contro la precarietà» e spezzoni sindacali, da Lavoro&Società della Cgil, al sindacato di base Sdl, dalla Fiom (senza bandiere e simboli), alle Rsu. Ci saranno alcuni europarlamentari: Claudio Fava e Roberto Musacchio con uno striscione unico, «in Europa a sinistra per la pace, l´ambiente, il lavoro, i diritti». Sarà presente anche la comunità musulmana di Aversa. Con una partenza a parte in polemica con «i programmi della sinistra che non ci considerano», le femministe che si daranno appuntamento in piazza Esquilino con pentole, strumenti musicali e lo striscione «siamo le fuori programma». Fra le provocazioni, quella degli studenti in lotta con lo scuolabus per portare in giro per le scuole italiane governo e ministri. Ci saranno anche gli antiproibizionisti della million marjuana march, movimenti della casa, network dei diritti globali, action, con i disoccupati organizzati di Napoli che fanno riferimento al deputato no-global Francesco Caruso. Alle 17,30, arrivo in piazza San Giovanni. E inizio di uno spettacolo. Dopo l´appello dei promotori, le testimonianze alternate a spettacoli. Parleranno una studentessa e Aurelio Mancuso, presidente di Arcigay, poi la musica di Enzo Avitabile e dei Bottari, di Tete de Bois. Quindi Ascanio Celestini introdurrà la testimonianza di un precario Vodafone, e Ulderico Pesce (il cantore della lotta di Scanzano Jonico contro le scorie nucleari) presenterà Antonio Ferrentino, leader dei No-Tav della Val di Susa, l´artista del «teatrocanzone» Andrea Rivera darà la parola alla giornalista Giuiana Sgrena. Chiuderà la manifestazione la band Bisca Zulu, alla quale seguirà l´intervento di un operaio del Nuorese.

Repubblica 20.10.07
Appuntamento alle 14.30 in piazza della Repubblica
Corteo sul precariato bus deviati e varchi aperti
Stop ai tornelli metro ma obbligo di biglietto Dalle 18.30 fermata San Giovanni chiusa
di Gabriele Isman


Oggi pomeriggio dalle 14 la manifestazione nazionale contro la precarietà nel mondo del lavoro indetta da "Il Manifesto" e da "Liberazione", e appoggiata dai Pdci e Rifondazione Comunista contro l´accordo raggiunto tra governo e parti sociali sul welfare.
L´appuntamento è alle 14.30 a piazza della Repubblica; i manifestanti sfileranno poi per viale Luigi Einaudi, via Cavour, piazza dell´Esquilino, via Liberiana, piazza Santa Maria Maggiore, via Merulana, viale Manzoni, via Emanuele Filiberto fino a piazza di Porta San Giovanni dove si concluderà il corteo con comizi dal palco.
L´Atac ha predisposto un piano per mobilità: deviate, quindi, le linee di bus C3, 3, 5, 14, H, 16, 36, 40 e 60 Express, 64, 70, 71,75, 81, 84, 85, 87, 105, 170, 175, 218, 360, 571, 590, 649, 650, 665, 673, 714, 810, 910, e le turistiche 110 Open e Archeobus. Inoltre, la Prefettura ha disposto che già dalle 11.30 di domani mattina i varchi elettronici delle stazioni della metropolitana di Anagnina, Termini, Tiburtina e Piramide restino aperti, ma chi viaggerà dovrà comunque avere con sé un biglietto timbrato e valido per poter salire sui treni e non rischiare la multa. In occasione del deflusso, invece, dalle 18.30, la stazione San Giovanni del metrò A resterà chiusa, mentre resteranno aperti i varchi elettronici nelle stazioni di Manzoni e Re di Roma, e anche in questo caso, obbligo di biglietto timbrato e valido per ogni viaggiatore.
"Come sempre in queste occasioni - spiega Carlo Buttarelli, comandante del I gruppo dei vigili urbani - attueremo chiusure al traffico veicolare nel passaggio del corteo, poi, passati i manifestanti, riapriremo le strade. Saranno 130 gli agenti di polizia municipale impegnati per la manifestazione che si concluderà a piazza di Porta San Giovanni intorno alle 22".

Repubblica 20.10.07
L'esperimento di un imprenditore: un mese con il salario dei suoi dipendenti. "Mille euro? Impossibile"
"Con la paga di un operaio non si vive"


FANO - Un «padrone» decide di vivere almeno un mese con lo stipendio da operaio ma dopo 20 giorni si arrende. «Non è possibile. Ho fatto sacrifici ma dopo nemmeno 3 settimane mi sono trovato senza un soldo in tasca. E mi ero dato anche la mancia: i miei 20 operai in media guadagnano 970 euro al mese, io me ne sono dati 1.000. Non c´è stato nulla da fare, ho dovuto arrendermi. Il momento più duro? Quando le mie due figlie, 15 e 16 anni, mi hanno chiesto i soldi per una pizza. Ho detto no e ho pensato agli operai che debbono dire no ai loro figli non perché fanno un esperimento ma perché, con meno di 1000 euro, in Italia non è possibile vivere con dignità. E allora ho aumentato gli stipendi di 200 euro al mese».
Enzo Rossi, 42 anni, è un pastaio. Produce i maccheroncini Campofilone, «sottilissimi fili di pasta all´uovo». «Mi sono sempre chiesto come si potesse vivere con la busta paga da operaio. Ho parlato con moglie e figlie, ho detto che per un mese le cose sarebbero cambiate. Dopo pochi giorni mi sono sentito male, come quando fai un´immersione in mare e capisci che sta finendo l´ossigeno delle bombole. Senza soldi, vai in paranoia. Stai attento a tutto, al caffè al bar, al costo dell´insalata. Devo dire che c´è stato anche qualche aspetto positivo. Ho smesso di fumare, perché 8 euro al giorno, per 40 sigarette, non li avevo più. E anche le figlie hanno capito come vivono le loro amiche. Hanno accettato una paghetta più bassa ed hanno eliminato qualche vizio. I venti giorni mi hanno fatto capire che non è giusto lavorare per un´azienda come la mia, piccola ma redditizia, e portare a casa così pochi soldi». Sembrano lontani i tempi in cui «i pastai» venivano presi in giro in una canzone perché offrivano una cena agli operai e poi facevano la trattenuta in busta. «Le cene con gli operai le faccio, almeno 4 all´anno. E faccio anche un regalo a Natale, con un prosciutto, una lonza… Ma questo non risolve nulla, se non si aumentano i salari. Il tesoretto del governo deve essere speso lì, mettendo in detrazione fiscale i soldi investiti negli aumenti salariali. Ho visto anche dei manifesti, in giro. "Prendi ai ricchi per dare ai poveri". Giustissimo. Ma si faccia davvero, dando agli operai la possibilità di vivere meglio. Mio padre diceva sempre: un imprenditore innamorato solo dei soldi non è un grande imprenditore. Ma so bene che il problema dei salari non può essere risolto in una piccola azienda come la mia. In tutta Italia gli operai prendono meno degli operai tedeschi, francesi, inglesi. E 12 mesi all´anno provano l´umiliazione di non avere i soldi per la pizza dei figli».
(j.m.)

Repubblica 20.10.07
Terroristi. Se qualcuno li guarda con simpatia
Intervista con Domenico Starnone


Intervista/ Domenico Starnone ha scritto un romanzo per indagare un fenomeno trascurato Non furono pochi, prima del caso Moro, coloro che solidarizzarono con i brigatisti
"Il sentimento di vicinanza alle ragioni degli attentatori pur nell´orrore è rimasto vivo fino al caso Moro, che ci mostrò l´insensatezza della violenza"
"Se temo le accuse di giustificazionismo? Sì, ma mi pareva necessario scriverne. Non a caso ho scelto una struttura aperta"

ROMA. Solo la letteratura può attraversare terreni così vischiosi senza perdersi. Forse anche per questo Domenico Starnone affida al suo nuovo romanzo (Prima esecuzione, Feltrinelli, pagg. 142, euro 12), alla sua forma incompiuta e volutamente "disordinata", un tema tra i più complicati della recente storia italiana, un argomento tabù, seppellito in questo trentennio da una rimozione diffusa e quasi blindata. È quella zona opaca e poco confessata di contiguità con le ragioni dei terroristi, un gorgo fangoso che inghiottì negli anni Settanta parte della generazione di Starnone. Un grumo di sentimenti contraddittori che fa dire al personaggio ultrasessantenne di Domenico Stasi, il professore-alter ego dell´autore incaricato da un´ex allieva terrorista d´una esecuzione omicida: «Ma io mi ero già ritratto nei primi anni Settanta. Mi repellevano la gambizzazione, il rapimento, l´assassinio politico: un obbrobrio stupido. Immaginavo le schegge delle ossa, gli organi vitali lacerati e provavo come una vertigine che mi scagliava lo stomaco in gola. Tuttavia una parte segreta di me non riusciva a non sentire affinità con gli uccisori piuttosto che con la vittima, con i sequestratori piuttosto che con i sequestrati. Cancellavo parole di condanna dal mio vocabolario, evitavo etichette correnti. Stavo attento, anche tra me e me, a non dire mai assassini, criminali, aguzzini, terroristi, sentivo che non erano riducibili a quei vocaboli». Repulsione e condivisione. Disgusto e attrazione. Orrore per il sangue e l´efferatezza, e tuttavia quasi un moto di "gratitudine" per i brigatisti "chirurghi metafisici in lotta con il tumore". Emozioni inconfessabili, cuore di tenebra di quella generazione, che forse in Starnone hanno trovato uno dei pochi narratori italiani disponibili a dargli corpo.
Ma non teme lo scrittore l´accusa d´aver scritto un romanzo giustificazionista? Un libro non dalla parte dei terroristi, ma comprensivo delle loro ragioni? «Certo che lo temo, ma mi pareva necessario scriverne. Il romanzo tende a misurarsi con momenti del passato e del presente in cui la violenza è apparsa ad alcuni urgente e necessaria. In sostanza, ho tentato di fare i conti con l´azione armata che si scatena dalle buone ragioni. E se qualcuno mi darà del fiancheggiatore, vorrà dire che non ha capito niente». Nel silenzio della sua casa interrotto solo dal frusciare dei morbidi gatti, Starnone soppesa le parole. Il terreno è scivoloso, e se i congegni del romanzo tendono a calibrare, la conversazione è a rischio di sbavature. Non è certo un caso che la stessa struttura narrativa di Prima esecuzione sia incompiuta, il lettore messo dinanzi a esiti differenti: il professor Stasi che spara contro il nemico, il professor Stasi che rabbonito si rimette la pistola in tasca. Un meccanismo complesso, che mescola il piano del racconto con le riflessioni dell´autore su quel che sta scrivendo, letteratura e metaletteratura, come se al centro della narrazione ci fosse l´abbozzo ancora informe della prima stesura d´un romanzo. «Ci sono temi che per essere sviscerati non possono essere piegati alla narrazione tradizionale. La forma aperta di questo romanzo, recuperata anche in polemica con chi ha messo il Novecento letterario in soffitta, mi permette di raccontare cose che altrimenti non sarei riuscito a dire».
Domenico Stasi, il protagonista del racconto, è un po´ come Starnone, uomo mite, di buone letture, sensibile come insegnante e come persona, costantemente indignato ma non privo di saccente benevolenza verso il prossimo. Lo racchiude la frase che introduce la sua storia: «Ero invecchiato facendo non quel che mi andava di fare ma quello che mi sembrava coerente con il sentimento che avevo di me». Conosce ogni dettaglio sulle condizioni di vita in America Latina, in Africa e in Asia. Studia la storia del pianeta per nutrirsi di ribellione. Con la sua abitudine mentale alle letture estreme - tutto e subito - è destinato a fare i conti nella fase declinante della vita. A un certo punto viene messo dinanzi alla possibilità di dare uno sbocco efferato a questa sua inclinazione. Stasi è tentato dal crimine, se ne sente invaso. Da sempre aspirante alla santità, scopre improvviso dentro di sé il guizzo del rettile. «Sì, il professore sa che il mondo in cui viviamo è profondamente ingiusto. Per questo si sente più vicino alle ragioni di chi uccide, pur provandone disgusto, che alle ragioni delle vittime. Avrei potuto scegliere come protagonista un terrorista, invece ho scelto un uomo innocente, che si sente spinto a fare i conti con un sentimento che ha attraversato trent´anni fa la mia generazione, e che ancora oggi potrebbe contagiare i ribelli. Un sentimento di vicinanza nei confronti di chi allora si macchiava di crimini orrendi, ma muovendo da ragioni che sentivamo nostre». Siamo ancora ai "compagni che sbagliano"? «No, è una riflessione su quei momenti pericolosissimi nei quali gli schemi interpretativi di cui facciamo uso ci pare portino - nostro malgrado - a scelte di violenza. Quanto più la politica è insufficiente, e incapace di mediazione, tanto più alto è il rischio di ribellione armata. Il senso del mio romanzo forse è proprio qui: non certo fiancheggiamento al terrorismo, ma appello a una politica che non sia gestione dell´ordinario ma capacità di incidere radicalmente sulle ingiustizie, sulle diseguaglianze, sulla corruzione, sulla illegalità. Solo lo sradicamento di ciò che fa marcire il paese può mettere fine a tentazioni di azione violenta».
Viene da chiedere a Starnone-Stasi come il «sentimento di vicinanza con le ragioni dei terroristi» - comune negli anni Settanta a parte della generazione che oggi ha tra i cinquanta e i sessant´anni - abbia potuto sciaguratamente resistere dinanzi ai corpi di persone inermi, elette in modo dissennato a simbolo d´un sistema sbagliato, quando essi stessi ne erano vittime o si adoperavano per modificarlo. «Sì, fu una condivisione distorta e sciagurata, che però ha segnato molti dei miei coetanei. Ebbe una durata precisa. Tutto si spezza con l´uccisione di Moro, che mette di fronte alla insensatezza della violenza, in termini umani e politici. Il vero atto eversivo sarebbe stato lasciar libero Moro, così come l´ha immaginato Piergiorgio Bellocchio nel suo film».
Sentimenti controversi, quelli dichiarati da Starnone, che per diversi decenni sono rimasti sotterranei. «È prevalsa la rimozione o la liquidazione attraverso una lettura semplicistica e demonizzante anche da parte di quegli stessi che pure per un certo periodo fiancheggiarono la violenza. E intanto il mondo è rimasto così com´era». Altro personaggio-chiave è quello di Luciano, vecchio amico di Stasi, compagno di lotta e avventure sentimentali, che però si ravvede per tempo, rientra nei ranghi, si mette a lavorare con i socialisti, ottiene incarichi di eccellenza, è un ammiratore del ministro Tremonti e per un certo periodo ha fatto parte del suo staff. In realtà, riflette Stasi, Luciano non è mai stato un combattente per la redenzione dell´umanità. «Quale redenzione. Aveva senza merito una sua aura: strappava via ai meno dotati le poche cose che avevano». Uno dei tanti cinici dal pensar brillante che poi sono andati a occupare le stanze del potere. È un Luciano lustro, imbolsito, naturalmente arricchito a dare lezioni a Stasi di sano pragmatismo: basta con i sogni giovanili, siamo stati solo dei casinari, la realtà è quella che è, bisogna essere ragionevoli. «La ragionevolezza», commenta Starnone, «è il far finta di non vedere l´orrore che c´è nel mondo. Ci sono i ricchi e i poveri? Ma certo, lo sappiamo, che scoperta è? Sappiamo benissimo che le cose vanno in questo modo, ma bisogna essere ragionevoli. Sono convinto che nella "ragionevolezza" - ossia nel non vedere - sia nascosta la radice di tutti i mali».
È un romanzo al fondo disperato, Prima esecuzione. «Chi ha fatto sufficiente esperienza del mondo», dice l´autore, «s´accorge che le cose mutano così lentamente che non basta una vita a percepirle. Il mondo, alla fine dell´esistenza, appare più terribile di prima». Il paese evocato in queste pagine è una comunità che non ha niente in comune, solo competizione diseguale, mercato, divergenza, frattura, odio e voglia di sangue sotto la glassa delle buone maniere. Starnone non ignora i rischi di fraintendimento cui l´espone il suo romanzo. «Ci sarà qualcuno che tirerà fuori la frasetta ad effetto, omettendo la calibratura nella pagina successiva. Ma contro le letture strumentali poco posso farci». Stasi non è stato un cattivo maestro. Da lui discendono la terrorista, ma anche il poliziotto. È l´ex allievo commissario che lo mette dinanzi alla sua infiammata radicalità: «Se le cose le sa, perché continua a volere il paradiso in terra?». «Non lo voglio io, è una necessità». «Ma una soluzione intermedia no, professore? Un mondo equilibrato, con un´insalata mista di paradiso e inferno, lei si accontenterebbe?». Stasi sembra quasi arrendersi, ma la storia poi va da un´altra parte.

Repubblica 20.10.07
Solo da pochi anni la neuroscienza studia gli effetti terapeutici derivanti dal suono
Quando la musica aiuta a guarire
di Umberto Veronesi


Nelle popolazioni primitive i canti, legati alla danza, erano strumenti di ipnosi collettiva
La musicoterapia è oggi un capitolo a sé nella scienza biomedica e vanta buoni risultati

Esiste un rapporto profondo e ancora misterioso che lega la musica alla spiritualità e al pensiero umano. Perché la musica ci può inquietare o al contrario darci pace, ci può istigare all´aggressività o predisporci all´amore? E in che modo la musica può avere effetti terapeutici e affiancarsi con successo alle terapie psichiatriche? Solo da pochi anni la scienza, in particolare la neuroscienza, si è dedicata alla comprensione dei fenomeni correlati al fare ed ascoltare musica, e proprio alle più recenti scoperte e alle ultime intuizioni è dedicato il convegno di musicisti e scienziati "Musica, scienza, pensiero", organizzato dall´Associazione Musicale Lucchese e dalla Fondazione a Lucca nell´Auditorium di San Romano, per oggi.
Il punto di partenza dell´incontro è la scoperta che «la musica rende più intelligenti». Quella che era fino a ieri un´illazione (e la speranza segreta di molti artisti e compositori) sta trovando crescenti conferme da parte di vari studi scientifici, che dimostrano che l´insegnamento della musica nell´infanzia contribuisce significativamente allo sviluppo di alcune aree cerebrali e accresce le abilità cognitive-intellettuali, come la capacità di concentrazione e la velocità di elaborazione Non possiamo affermare che studiare musica è come studiare matematica; ma certamente i due meccanismi mentali, apparentemente così distanti se non opposti, hanno delle forti affinità.
Il legame musica-pensiero razionale non risulta inoltre solo nei bambini. E´ provato che se la musica non è intrusiva, ma è consapevolmente scelta e dunque risulta piacevole per l´ascoltatore adulto, può avere un effetto sulla vigilanza, l´umore e la motivazione a svolgere attività lavorative che richiedono grande attenzione. Del resto se esploriamo nella natura e nell´etnologia il rapporto musica-pensiero scopriamo relazioni antiche e profonde. Nel mondo animale la musica (se così definiamo l´ampia gamma di suoni che vanno dai semplici miagolii del gatto al sofisticato canto dell´usignolo) può avere funzioni comunicative precise: grido d´allarme, segnalazione di pericolo, canto di vittoria o richiamo sessuale. Nelle popolazioni primitive i canti, spesso uniti alle danze, erano strumenti quasi di ipnosi collettiva, che creavano una suggestione, tale da istigare alla violenza della caccia o del combattimento Non bisogna del resto tornare troppo indietro nel tempo e nella civiltà per trovare come le marce militari aiutassero i soldati a gettarsi con più coraggio nella battaglia.
Guardando alla storia, tuttavia, non c´è dubbio che il legame più forte fra musica e pensiero viene dalle religioni, la cui spinta mistica ha dato un impulso straordinario alla composizione musicale. Per l´uomo religioso, infatti, (anche se non per tutte le fedi) la musica facilita il rapporto con Dio, ed è il linguaggio privilegiato della preghiera collettiva. La musica di Bach, per esempio, è indissolubilmente legata a questa tensione dell´animo umano verso la trascendenza. Dall´anima alla psiche il passo è breve e ci introduce nel rapporto, nato molto più di recente, fra musica e psichiatria e musica e medicina.
La Musicoterapia è oggi un capitolo a sé nella scienza biomedica, e si caratterizza per le linee di ricerca, le pubblicazioni, le attese e risultati. Io non amo usare il termine di medicina «alternativa» che le viene comunemente attribuito. Non vedo infatti la musicoterapia come opzione alternativa alla medicina cosiddetta «tradizionale»; ma piuttosto come nuovo complemento, per arrivare, nella persona malata, là dove il farmaco o la tecnologia non ha strumenti adeguati per farlo. E´ indubbio, ad esempio, che la musica può avere un effetto benefico sul dolore psicologico che accompagna indissolubilmente quello fisico, e su quel senso di solitudine e incapacità di comunicare, che spesso affligge le persone malate gravemente, rendendo ancora più penosa la situazione che clinicamente deriva dalla loro malattia.
La musica offre al malato una possibilità diversa di percepire se stesso e di trasmettere le proprie sensazioni utilizzando un linguaggio diverso da quello usato «dal mondo dei sani». Per questo la Musicoterapia trova le sue prime applicazioni nelle malattie psicologiche, come l´autismo o la depressione. Anche l´autorevole British Medical Journal ha pubblicato un lavoro sulla musicoterapia come opzione per la riduzione dell´uso (e soprattutto dell´abuso) di psicofarmaci in particolare nei giovani. E´ noto inoltre il progetto europeo, a cui partecipa il nostro Paese, sulla applicazione della musicoterapia sui malati anziani e in particolare quelli colpiti da Alzheimer. La musica sta anche dimostrando di avere un ruolo di supporto alle terapie standard: alcuni studi hanno provato come l´ascolto di un brano musicale prima degli interventi chirurgici possa contribuire, ad esempio, a ridurre il fabbisogno di anestetici.
In conclusione tutto ci fa pensare che siamo vicini a quella che possiamo definire una «neurobiologia della musica», come dirà al convegno Luisa Lopez, dell´Unità di Neuropsichiatria Infantile dell´Università di Roma Tor Vergata. E´ lei a citare Carl E. Seashore dell´Università dello Iowa, che scrisse negli anni ´20 «tutto nella natura della musica che il musicista trasmette all´ascoltatore può essere misurato, registrato, ripetuto e controllato per scopi sperimentali. Esistono dunque approcci straordinariamente promettenti per lo studio scientifico dell´espressione musicale». Seashore si riferiva ai fonografi, che registravano frequenze e armoniche del suono per poi metterle in relazione con ciò che si sapeva dell´attività dei neuroni.
Grazie alla rivoluzione tecnologica di questi ultimi cinquant´anni, oggi lo studio della musica si può avvalere di metodi ben più sofisticati: l´analisi dei segnali bioelettrici, la neuropsicologia, la psicoacustica. Abbiamo dunque oggi degli strumenti sempre più potenti per esplorare un campo affascinante, ancora quasi inviolato. Per questo la mia Fondazione, nell´ambito del suo impegno per il progresso culturale delle scienze, ha deciso di creare un gruppo di lavoro dedicato a "Scienze e Musica" con l´obiettivo di creare per questo tema uno spazio ben definito nell´ambito della ricerca scientifica, e con la priorità di studiare i meccanismi neuroscientifici che creano nella nostra mente reazioni differenti in rapporto ai diversi stimoli musicali. Il convegno di Lucca è un primo passo in questa direzione.

Repubblica 20.10.07
James Watson ha perso anche un posto da rettore a New York
Il Nobel razzista ora chiede scusa


"Sono mortificato per quanto è accaduto, capisco le reazioni della gente, non so come ho potuto dire certe frasi che non hanno alcuna base scientifica"

LONDRA. Si può dire, col senno di poi, che non è stata un´uscita molto intelligente. Le dichiarazioni del 79enne genetista americano James Watson, scopritore del Dna e premio Nobel per la medicina, secondo cui i neri africani sono intellettualmente inferiori ai bianchi, hanno scatenato una serie di tali proteste da sconvolgere i piani e forse anche la vita dello scienziato. Il prestigioso centro studi di New York da lui diretto lo ha sospeso dal rettorato. Il suo tour di conferenze in Gran Bretagna è stato cancellato. Appena sbarcato nel Regno Unito, Watson è rimontato su un aereo ed è ripartito per gli Usa. A nulla sono valse le scuse che ha offerto alla comunità scientifica e all´opinione pubblica mondiale, in un articolo pubblicato ieri mattina dal quotidiano britannico Indipendent. Da ieri, il professor James Watson è un premio Nobel messo all´indice. E non è detto che le conseguenze dell´incidente siano finite: un paese africano, il Senegal, propone che gli venga consegnato un «Nobel per il razzismo».
In un´intervista rilasciata al Sunday Times in coincidenza con il suo arrivo a Londra, dove doveva presentare la sua autobiografia, Evitate le persone noiose - Lezioni da una vita nella scienza, il genetista aveva affermato: «Tutte le nostre politiche sociali sono basate sul fatto che l´intelligenza degli africani sia uguale alla nostra, mentre tutti i test svolti indicano il contrario». E aveva aggiunto che, se esiste l´istintivo desiderio di considerare uguali tutti gli esseri umani, «chi deve trattare con dipendenti neri sa che ciò non è vero». Nell´articolo apparso ieri sull´Independent, lo scienziato si dice «mortificato» dall´effetto causato dalle sue parole. «Sono mortificato per ciò che è accaduto», afferma. «E ancora più grave è che non riesco a capire come ho potuto dire cose simili. Posso certamente comprendere perché la gente, leggendo quelle dichiarazioni, ha reagito come ha fatto. A chi ha capito dalle mie parole che l´Africa, come continente, è geneticamente inferiore, non posso che presentare le mie scuse senza riserve. Non è quello che volevo dire. E soprattutto non vi sono alcune basi scientifiche per sostenere tale tesi».
Cosa voleva dire, allora? Watson lo spiega nel resto dell´articolo, suggerendo che la selezione naturale darwiniana ha condotto a differenze nelle capacità di comportamento dell´uomo in differenti regioni geografiche del mondo. «Noi non comprendiamo ancora adeguatamente il modo in cui nel corso del tempo diverse zone ambientali della terra hanno selezionato dei geni che determinano le nostre capacità di fare cose differenti», scrive lo studioso. «Questa non è una discussione su superiorità o inferiorità, ma sul capire differenze, sul perché alcuni di noi sono grandi musicisti e altri grandi ingegneri. Il nostro desiderio è che vi sia un uguale potenziale intellettivo in tutta l´umanità. Può darsi che sia così. Ma non basta desiderarlo per dimostrarlo. Questa non è scienza. E interrogarsi nel merito non è razzismo». Lo scienziato conclude ipotizzando che non solo l´intelligenza, ma anche i comportamenti criminali, possono essere in qualche modo legati alla genetica: «Il pensiero che alcune persone siano innatamente maligne mi disturba. Ma il compito della scienza non è quello di farci sentire bene». Chiede scusa, insomma, ma non smentisce completamente.
Nell´articolo il professor Watson ammette di essere uno che non si tira indietro dalle controversie, e di essersi cacciato più volte nei guai a causa del suo carattere. In passato, ad esempio, sostenne che le donne dovrebbero abortire se sanno di avere in grembo un figlio omosessuale o che la bellezza potrebbe essere geneticamente prodotta in modo che «tutte le ragazze siano carine». Ma quelle affermazioni gli erano valse al massimo l´appellativo di «picchiatello». Stavolta gli è andata molto peggio. L´articolo di (parziale) ritrattazione non è servito a calmare la tempesta. Il Museo della Scienza di Londra, dove Watson doveva tenere la prima conferenza, è stato il primo ad annullarla.
A ruota tutti gli altri hanno preso la stessa decisione: Bristol, Cambridge, dove studenti neri ed ebrei si preparavano a bloccargli l´accesso al campus, Oxford, Newcastle, Edimburgo, dove doveva apparire a fianco del dottor Ian Wilmut, il «padre» di Dolly, la prima pecora clonata. Nessuno lo ha più voluto. L´editore inglese della sua autobiografia ha dovuto cancellare con imbarazzo tutti gli eventi in programma. Quindi è arrivata la sospensione dall´incarico di rettore del Cold Spring Harbor Laboratory, il centro di studi genetici di Long Island, vicino a New York, presso il quale Watson lavorava da trentacinque anni. «Il nostro centro non è coinvolto in alcun tipo di ricerche che possano formare la base per dichiarazioni come quelle rese dal professor Watson in Inghilterra», ha reso noto con sdegno Bruce Stillman, presidente del prestigioso istituto. Condanne analoghe sono giunte da parte di numerosi centri scientifici e scienziati, in America e in tutto il mondo. E così il decifratore del Dna si ritrova a essere un paria della propria comunità. Doveva aspettarselo: se è esecrabile per chiunque affermare che i neri sono una razza inferiore, per un premio Nobel lo è ancora di più. Elementare, Watson.

Corriere della Sera 20.10.07
Franco Giordano: «Giusto scendere in piazza, altrimenti la sinistra scompare»
intervista di Maria Teresa Meli


ROMA Dica la verità, Giordano, oggi li fate sfogare in piazza per poi votare la fiducia al governo sul Welfare.
«Macché: questo lo può pensare chi ragiona in termini politichesi.
Diciamo la verità: questo è il governo che in pochi mesi ha dato il massimo alle imprese, ora basta, bisogna riprendere a parlare di tassazione di rendite finanziarie e bisogna cambiare il protocollo sul Welfare».
Non temete un flop come la manifestazione anti Bush?
«No: perché questa manifestazione rappresenta un fatto politico chiaro. La sinistra chiede un salto di qualità a questo governo. E non solo sul Welfare anche sui diritti civili, sul tema della laicità che il Pd ha abbandonato. Vedrà che sarà una manifestazione piena di quei giovani che sono un po' mancati sia alle primarie che al referendum dei sindacati».
Intanto i verdi e la sinistra democratica non aderiscono alla manifestazione. La Cosa Rossa è già in frantumi?
«Non enfatizzerei questa vicenda. Subito dopo riprenderemo il cammino insieme».
Mussi però ha detto che questa manifestazione presta il fianco alla protesta contro il governo.
«Vorrei dire a Mussi che la sinistra o mobilita le masse o non esiste».
Lei prima ha parlato della laicità: il papa che tanto contestate su questo argomento ha parlato di precariato ed ecco che voi di sinistra vi siete subito accodati.
«Con questo papa ci sono tantissime differenze, ma ci può essere un terreno unitario perché la sua è una critica al capitalismo».
Giordano, si rende conto che Rifondazione con questa sua insistenza rischia di diventare l'alibi per far cadere il governo?
«Io non mi occupo degli intrighi di palazzo ma del malessere sociale che c'è nel paese. So che ci sono forze moderate della coalizione che ci vorrebbero fuori ma non per questo non possiamo affrontare questi temi altrimenti che sinistra saremmo?».
Magari una sinistra un po' più moderna...
«Guardi che in Italia la situazione è questa: c'è il Pd che non si occupa del mondo del lavoro, ci sono i sindacati che rappresentano i lavoratori in modo istituzionale e moderato, quindi ci vuole una sinistra come la nostra».
A proposito di precari, questo è un governo precario?
«Questo è un governo che dovrebbe rimanere in piedi ma dovrebbe farlo attuando il programma su cui invece è molto in ritardo».
Ma è vero che eleggerete anche un leader della Cosa rossa? Si è fatto per esempio il nome di Nichi Vendola.
«Noi rispettiamo l'esperienza delle primarie fatte da Veltroni, ma il nostro modello è un altro noi non decideremo sui leader, sulle persone ma sui programmi. Avvieremo un processo costituente a cui parteciperanno non solo le donne e gli uomini dei partiti della sinistra ma anche chi non è iscritto».

Liberazione 20.10.07
Il popolo di sinistra in piazza Esedra alle 15. Abbiamo deciso che l'aria deve cambiare...
Vènti d'ottobre
di Rina Gagliardi


La politica con la P maiuscola contro "questa" politica. La voglia di partecipare, con qualsiasi mezzo disponibile, per ritrovare un senso alla stessa democrazia. Forse è questo il messaggio che si può leggere nei fatti di queste ultime settimane - nelle fiumane di votanti al referendum sul Welfare, negli studenti che scendono in piazza, nei milioni alle primarie del Pd, perfino nella mobilitazione del "popolo di destra". Forse, senza certo pensare che la crisi della politica si sia dissolta come d'incanto, né che l'ondata antipolitica abbia esaurito i suoi effetti, si può dire che una parte ampia (e non omogenea) della società italiana sta esprimendo la voglia - la pratica - di un'inversione di tendenza. Ecco, questo 20 ottobre, finalmente arrivato, si colloca dentro uno scenario relativamente nuovo. Contraddittorio, certo, ma nient'affatto "statico". Sospeso, secondo la legge non scritta di questa fase storica, tra rischi tremendi e possibilità straordinarie. Ma dotato, ancora, di una chance vera. Insomma, ancora possiamo provarci, e non solo perché questa è la nostra vocazione, la nostra storia, la nostra autentica "second life".
Possiamo provarci per una ragione di fondo, che è poi quella che sta alla base dell'iniziativa di oggi e del meritorio, lungo lavoro di preparazione di questi mesi: il nostro Paese, l'Italia, non può fare a meno di una sinistra politica degna di questo nome. Sembra semplice, perfino troppo semplice a dirsi (un po' come il classico brechtiano sul comunismo), ma questa è l'elementare - e cruda - verità. Sullo sfondo di un mondo sempre più inquietante (con un Bush che parla di "terza guerra mondiale" e un Putin che esibisce con glaciale tranquillità i suoi colossali programmi di riarmo atomico), la sfida torna ad essere quella dell'esistenza della sinistra - non solo della legittimità "di principio", ma dell'esistenza, appunto, politica della sinistra, cioè capace di orientare grandi masse e di incidere nei processi decisionali, compresi quelli di un governo di coalizione. Questa è precisamente la ragione di fondo per la quale la manifestazione di oggi è stata così attaccata, messa in discussione, a tratti perfino oltraggiata (per ultimo, ci si è messo Cofferati che ha parlato, chissà perché, di un corteo "autolesionista"): non (soltanto) perché corre il rischio di "disturbare il manovratore", non (soltanto) perché dà comunque fastidio ogni pratica conflittuale, ancorché matura e pacifica, non (soltanto) perché sta tornando prepotentemente in auge la vetustissima idea di centralismo democratico (che ormai si applica o si pretende di applicare dalla Cgil all'Unione), ma perché vi si coglie, legittimamente, il segno possibile di un nuovo inizio.
Quello di una sinistra che non solo non si scioglie, ma tenta al contrario di "riannodarsi" - e avvia comunque, ora che la sinistra moderata non c'è più, un percorso di reidentificazione, di risposta concreta alla crisi che la attraversa e rischia di ridurla nell'angolo.
La partita che si gioca quest'oggi, dunque, è del massimo impegno. Non solo, e forse non tanto, per i risultati immediati, sulla Finanziaria o sul Welfare, che si possono ottenere - anche se è evidente che tanto più la mobilitazione sarà grande, intensa, ricca di idee e di popolo, tanto più la battaglia politica e istituzionale della sinistra ne guadagnerà in forza e in credibilità. Ma per la soggettività - e la volontà - che sarà in grado di opporre al disegno dell'establishment italiano ed europeo. Il quale ha deciso - non ci stanchiamo di ripeterlo - di distruggere, marginalizzare, sbattere "fuori" non, come si dice a parole, la sinistra massimalista, radicale, antagonista, ma la sinistra tout court, in tutte le sue versioni e sfumature. Si guardi a quel curioso "neonaturalismo" che avanza nel linguaggio e nella pratica: tutti i terreni più rilevanti della politica, quelli che dettano scelte e strategie, vengono declinati nella forma di nuove "leggi naturali", oggettive, non modificabili dall'intervento umano. La sicurezza, la crescita dell'economia, la centralità della famiglia, il lavoro, la stessa collocazione internazionale "non sono né di destra né di sinistra" - così viene ribadito ad ogni piè sospinto. Semplicemente, sono. Ovvero, sono variabili dipendenti della logica dell'impresa e del mercato e delle esigenze della competizione globale: alla politica, tutta, spetta ormai un compito meramente adattativi e gestionale - una teche amministrativa che varia, al massimo, a seconda dei cicli. In una prospettiva come questa, che punta a smantellare quel che resta del modello di civiltà europea e ad americanizzare compiutamente l'intera vita pubblica, non ci può essere spazio per nessuna sinistra, né radicale né riformista - infatti, negli Usa non c'è, e non per caso il sistema politico è stato costruito per impedire alla sinistra ogni chance di rappresentanza nelle assemblee elettive, non solo nei governi. In realtà, dentro e dietro le difficoltà del governo Prodi, stanno maturando precisamente intenti e intenzioni di questa portata. Se è vero che la "stella polare" dell'esecutivo, adesso, è tutto fuorché "il ricatto della sinistra", è vero anche che esso rimane un campo di battaglia possibile - una contraddizione non chiusa, oltre che un presidio (quasi) necessario di democrazia (pur minimale e pur via via degenerata). In questo senso, esso non è certo il governo di riferimento né dei grandi potentati economici né (va da sé) dei nuovi poteri politici, compreso il neonato Partito Democratico, che non può attendere il 2911, quasi altri quattro anni, nel frigorifero delle sue potenzialità. E in questo senso, i rischi di una prossima caduta sono alti, frenati soltanto dalla oscurità dei passaggi successivi e di una transizione che si annuncia ad ogni buon conto "al buio": perché vengono, appunto, da destra, da chi pesa e conta. Dall'Europa come da Bankitalia, da Confindustria come dal "Corriere della Sera"- la debolezza dei numeri parlamentari, che c'è e può operare in ogni momento, è davvero una variabile dipendente, ancorché non meccanica, di queste volontà ormai decise a finirla con l'anomalia di un governo che, per quanto deludente sia, per quanti sforzi faccia (tanti) di beneficare padronato e mercati finanziari, ha il torto di continuare a consentire alla sinistra una patente di legittimità politica.
Queste riflessioni non ci possono distrarre dalla questione principale: la sinistra che vogliamo (ri)costruire e che oggi potrebbe conoscere il suo battesimo vitale. La nostra risposta non può che essere quella di rimettere al centro la trasformazione : la dignità e i diritti del lavoro, la pace, la lotta alle disuguaglianze e alle discriminazioni, l'autonomia della soggettività femminile e femminista. Tutti noi viviamo queste ore con trepidazione e speranza - ma sarà certo una grande giornata. Come diceva Elizabeth Barrett Browning, a proposito delle rose, "una manifestazione è una manifestazione, una manifestazione, una manifestazione". Nulla di più. Ma dopo il 20 d'ottobre, c'è il 21…

Liberazione 20.10.07
Sinistra ora o sinistra addio
di Ritanna Armeni


Ora che c'è il partito democratico. Ora che è stato eletto il leader e che - sia pure non espressi né definiti da un congresso - sono evidenti impegni programmatici e cultura politica. Ora che - come ha scritto Piero Sansonetti - è evidente l'ambizione di "raggruppare intorno ad un'ipotesi centrista un'alleanza molto ampia di forze sociali, di gruppi di potere, di ceti intellettuali e politici che si pone l'obiettivo unico di governare l'Italia per molti anni garantendo il ruolo centrale dell'impresa e assicurando la centralità del mercato". Ora che tutto questo è chiaro, cosa si aspetta a costruire la sinistra? Che cosa si aspetta a costruire una forza politica nuova che metta al centro gli interessi dei lavoratori e delle classi subalterne, che si batta contro l'emarginazione prodotta dal mercato, contro il nuovo e più ambiguo potere dell'impresa? Una forza che non faccia del governo il suo obiettivo principale, ma abbia le capacità di rappresentare fuori e dentro il governo anche gli ultimi?
Anche i politologi più ostili alla sinistra dicono che oggi questo spazio c'è, che è ampio. Qualcuno lo teme. Qualcuno lo vede comunque come un fatto positivo per chiarire il quadro politico. E proprio per questo chi vuole rimanere a sinistra convinto che di questa ci sia ancora bisogno, non può non rimanere stupìto di fronte alla lentezza, i timori, i dubbi che oggi impediscono che la costruzione di una nuova forza di sinistra vada avanti con la convinzione e la speditezza necessari. E anche con quell'impegno che diventa anima, convinzione profonda, e che - se la parola non risultasse troppo grossa - definirei impegno etico.
Perché è certamente una responsabilità non da poco non far crescere la sinistra in Italia, non darle un volto e una identità riconoscibili.
Due giorni fa, sulla Stampa, Luca Ricolfi, opinionista riformista, ha scritto un articolo sulla nascita del partito democratico che vale la pena di riportare. Ricolfi ha detto che il nascente partito democratico ha operato in questi mesi una "rivoluzione di nascosto". Una rivoluzione perché "ha importato una incredibile quantità di parole d'ordine della destra" mettendo "in sordina una altrettanto incredibile quantità di parole d'ordine della sinistra". Ha importato - dice sempre l'opinionista - merito, severità, ordine e poi aumento dell'età pensionabile, meno tasse, privatizzazioni, dismissioni del patrimonio pubblico , tolleranza zero anche verso i presunti ultimi". E ha abbandonato i capisaldi della sinistra riformista tradizionale: laicità, fecondazione assistita, coppie di fatto, rafforzamento dello stato sociale, integrazione degli immigrati, questione salariale, allenaza coi sindacati. Tutto questo è stato fatto quasi di nascosto, su questioni parziali, senza dirlo esplicitamente, semplicemente cambiando di volta in volta idea.
Ecco, credo che ora, nel breve volgere di qualche mese, la "rivoluzione" non potrà più rimanere nascosta. Sarà chiara. L'identità centrista, il superamento della distinzione fra destra e sinistra, che è l'aspirazione culturale vera del partito democratico, sarà evidente nelle scelte politiche, nel rapporto con il governo, nella ricerca delle alleanze. La nuova cultura politica emergerà senza ambiguità nella preparazione del congresso costituente. E allora? Allora chi raccoglierà e darà nuova speranza e anche la possibilità concreta di cambiare le cose che non vanno, chi rappresenterà quelli che con quella cultura e con quelle scelte non sono d'accordo? Si potrà continuare a rimanere in un governo continuamente ricattato e oggi rafforzato nelle sue scelte moderate senza contare su una coesione ideale, su un'unità di intenti di "sinistra"? O non si corre il rischio, purtroppo molto concreto, di fare battaglie giuste, ma alla fine insignificanti di fronte alla montante marea centrista che chiede ordine, moderazione, mercato? Che ha intrapreso con decisione un cammino che prevede il superamento e la sconfitta della sinistra?
So bene che le forze della sinistra oggi nel governo e nella maggioranza si battono con coraggio per evitare che sullo stato sociale, sul salario, sulle pensioni, sulla precarietà passino le peggiori politiche liberalizzatrici. So bene che questa è una battaglia difficile nella quale si rischia l'isolamento, e qualche volta persino la stupida ironia e saccenteria di chi non vuole disturbi per il manovratore. So bene, inoltre, che riunificare forze, modificare identità, rinunciare ad alcune sicurezze è difficile. Ma ho anche l'impressione che ci troviamo in un momento della storia politica della sinistra in cui o si fa tutto questo o semplicemente ci si rassegna ad un ruolo residuale e si scompare.

Liberazione 20.10.07
Benvenuti tutti a Roma
di Franco Giordano


Benvenute e benvenuti a Roma.
Provo sinceramente un po' di emozione a rivolgermi per un benvenuto a tutti quanti voi che avete accolto l'appello del manifesto , Liberazione e Carta a manifestarsi oggi in piazza. Come noi di Rifondazione comunista. Oppure diversamente da noi. Ma tutti insieme, ciascuno per quel che è. Credo sia l'emozione di varcare una soglia che incammina in uno spazio aperto e vivido. E che può rafforzare un'efficacia della politica come progetto di cambiamento.Non dimentico, infatti, il motivo per cui siamo qui. Siamo qui perché abbiamo risposto a un appello che chiede un salto di qualità nell'azione della maggioranza e nel governo dell'Unione. Siamo qui perché crediamo che sia giusto e necessario. Siamo anche stati rimproverati tutti per questo. Come se non sia compito e fondamento stesso della politica dare rappresentanza, capacità di progetto e di intervento ai soggetti che si definiscono attraverso di essa. Come se la partecipazione al governo debba chiudere le porte scorrevoli del rapporto con la società.
Per questo sono felice di dare oggi il benvenuto al mondo del lavoro, che l'ordine neoliberista vuole spogliato di soggettività politica, ridotto a variabile dipendente del profitto, espulso da una rappresentanza generale. E benvenuto alle istanze di consolidamento e rinnovamento dei diritti e della sicurezza, di incremento dei salari e delle pensioni. Alla lotta contro la pandemia della precarietà, rispetto alla quale proprio in queste ore si è levato l'allarme del pontefice Josef Ratzinger e ci auguriamo che anche la dottrina sociale della chiesa possa aiutare a combattere. Al mondo della scuola e della cultura. Al corpo docente, che costituisce una risorsa straordinaria per la formazione cui va riconosciuto apprezzamento professionale e economico. Alle giovani generazioni, al loro bisogno di espressione e alla loro domanda di futuro, al desiderio e al diritto di poter intraprendere liberamente percorsi di studio e progetti di vita, affrancati dal giogo dell'oppressione familiare e dalle catene della riproduzione dei saperi che ancora incombono a predeterminare la loro vita. Ai migranti, giunti da lontano, in fuga dagli orrori della guerra e della fame, con quegli stessi desideri di libertà, che troppo spesso però rimangono costretti alla clandestinità, se non in catene. Ai gay, alle lesbiche, ai trans: al diritto ai diritti che le gerarchie di caste rigorosamente maschili assise dentro e fuori le istituzioni di questo paese continuano a interdire. Alle vertenze territoriali, alle associazioni, i movimenti, i gruppi, i comitati impegnati per la tutela ambientale, per la pace e il disarmo, per l'assistenza e la solidarietà.
Benvenuto a tutte e a tutti, dunque. A chi è solo e a chi è in compagnia. A chi è organizzato e a chi no. Perché oggi è una giornata speciale, che dischiude i battenti verso una prospettiva: quella di dare anima e corpo a una soggettività politica della sinistra in cui tutti, ciascuno per quello che è e insieme agli altri, siano benvenuti. Arrivederci a presto insieme, quindi. A chi c'è e anche a chi non c'è.

il manifesto 20.10.07
La lezione di Freud a confronto con la traduzione
Oggi, all'Aula Magna dell'Università di Reggio Emilia, un convegno dedicato alla lingua della psicoanalisi


Nata come talking cure la psicoanalisi si è posta problemi di traduzione fin dai suoi presupposti: l'interpretazione stessa dei sogni, il passaggio dalle immagini oniriche alla loro verbalizzazione e ancora la decifrazione dei lapsus, la risalita a quel che sta dietro un motto di spirito, e insomma tutto quanto pertiene al passaggio dall'universo simbolico a quello dei segni comporta quei problemi di traduzione che, oggi, saranno oggetto di una giornata di studio all'Aula Magna dell'Università di Reggio Emilia. Tra i paradossi che riguardano la storia della psicoanalisi c'è anche quello per cui mentre ancora non esiste un'edizione «critica» delle opere di Freud in lingua tedesca, ce ne sono di quasi integrali in francese, inglese, spagnolo, giapponese, italiano, ma nessuna delle edizioni disponibili è stata esente da critiche. Avrà di certo qualcosa di interessante da dire, al proposito, Michele Ranchetti, che a più riprese si è confrontato con il compito di restituire la lezione di Freud in una sua versione adeguata. Tra gli altri partecipanti, lo psicoanalista junghiano e filosofo Paulo Barone, la germanista Valentina Di Rosa, e lo psicoanalista Alberto Luchetti, grande traduttore delle opere di Laplanche e di diversi altri seguaci di Freud. A Reggio Emilia Luchetti ripercorrerà un po' di storia della traduzione, ricordando anche che esiste una corrente secondo la quale essa è «una modalità di scrittura specifica e irriducibile, il modo di esistenza attraverso il quale un'opera straniera arriva fino a noi»; mantenendo la sua «stranierità» - come dice Laplanche - mentre ci viene resa accessibile.
In questa prospettiva, la traduzione non si limita a trasmettere il senso dell'opera, ma concorre a alla costruzione dell'originale. Tra gli interventi previsti anche quello di Ferruccio Giacanelli e Stefano Mistura.

venerdì 19 ottobre 2007

il Riformista 19.10.07
Il relativismo non c’entra
di Claudia Mancina


C’entra il pluralismo etico La Chiesa, e quindi l’Osservatore romano, hanno sicuramente il diritto di esprimere pareri e formulare giudizi su tutti i fatti e gli eventi della vita pubblica italiana, anche su una sentenza della Corte di Cassazione. Tuttavia potremmo chiedere un po’ più di rispetto per la suprema corte, e insieme un po’ più di rispetto per il pubblico, cioè per noi tutti. Rispetto significa attenersi alla realtà e non fare ad arte confusione tra cose diverse. Nel riaprire il processo sulla sorte di Eluana Englaro, la Cassazione non ha espresso un orientamento all’eutanasia. È assolutamente fuorviante parlare di eutanasia a proposito del rifiuto delle cure: lo scambio, voluto, ha evidentemente lo scopo di proiettare tutta la problematicità dell’eutanasia su una questione molto più semplice e circoscritta, sulla quale il consenso dell’opinione pubblica è tendenzialmente molto più alto, come si è visto nella recente emblematica vicenda di Welby. Non è vero che nella sentenza, e in generale nella spinta attuale al riconoscimento del diritto di rifiutare qualunque trattamento sanitario, comprese l’idratazione e l’alimentazione, si esprima un cedimento all’eutanasia: si tratta solo di prendere atto che oggi la fase terminale della vita solo raramente è un processo naturale, e quindi va riportata nell’ambito della capacità di scelta e della libertà di decidere del paziente, che peraltro è sancita dalla nostra Costituzione. Anche sull’eutanasia volontaria, peraltro, sarebbe possibile e opportuno affrontare un dibattito sereno, come del resto sta avvenendo in molti paesi europei. Tuttavia è chiaro che si tratta di un tema scabroso: lo testimonia la decisione presa dal parlamento spagnolo, compresi i deputati socialisti, di non affrontare oggi una proposta di legge sul tema, presumibilmente per non creare nuove tensioni a poca distanza dalle elezioni politiche del 2008.
La scelta, già sperimentata con Welby, di schiacciare il rifiuto delle cure sull’eutanasia risponde dunque a una logica di battaglia estrema, basata sull’idea che sia in gioco l’umanità stessa e che solo la Chiesa la possa difendere, battendosi contro un supposto relativismo che mortificherebbe la dignità umana. Ma proprio qui si palesa un macroscopico errore di prospettiva. La dignità non è un attributo del corpo biologico, ma sta nella coscienza e nella libertà che costituiscono il destino - spesso tragico - dell’essere umano. Il relativismo non c’entra nulla; c’entra invece il pluralismo etico, che è un fatto e perfino, con buona pace dei cattolici, un fatto positivo. Solo le società teocratiche o totalitarie possono essere omogenee dal punto di vista etico. In regime di libertà è del tutto inevitabile che vi siano diverse etiche, e non una sola. La Chiesa non ha il monopolio dell’etica, e la società moderna non è una società disumanizzata, ma - fortunatamente - una società pluralista: cioè una società in cui si confrontano diverse idee su che cos’è l’umanità e il suo destino. È del tutto normale che la legge e i tribunali riflettano questa realtà.
Il pluralismo in realtà garantisce tutti (compresi i cattolici) senza impedire a nessuno di seguire le proprie convinzioni né di sostenerle pubblicamente criticando e anche combattendo - con le forze della ragione e dell’argomentazione - quelle degli altri. Per questo il pluralismo richiede un solo requisito: il rispetto degli altri, pur nel convinto sostegno delle proprie idee. Quando si fa ricorso a qualunque argomento, pur di avere la meglio, si viene meno a questo rispetto. Confondere il rifiuto delle cure con l’eutanasia, il pluralismo con il relativismo, è un gioco scorretto, che non fa onore a chi lo pratica. E mostra una certa cattiva coscienza: come se si temesse - restando sul terreno del confronto corretto tra diversi modi di pensare - di non avere abbastanza presa sull’opinione pubblica, e forse soprattutto sui suoi rappresentanti politici. È alla politica infatti che si rivolgono queste intemerate. Non ci resta che sperare che la politica sappia rispondere con serenità e con spirito di responsabilità.

Repubblica 19.10.07
"In piazza ma non contro il governo"
Rifondazione rassicura Prodi. Ingrao star del corteo. Mussi: sono preoccupato
di Umberto Rosso


ROMA - Anche Pietro Ingrao, il grande vecchio della sinistra, firmatario dell´appello per la manifestazione di domani contro la precarietà, vuole esserci. Sarà lui la star alla partenza del corteo, in piazza della Repubblica, insieme a Aldo Tortorella, Gianni Rinaldini (il leader della Fiom), Marco Revelli, il professor Paul Ginsburg (mentre Rossana Rossanda è bloccata a Parigi), e naturalmente Giordano e Diliberto, con i tre direttori di Liberazione, Manifesto e Carta. In testa al serpentone il grande striscione, in giallo e nero, "Siamo tutti un programma", sorretto da lavavetri, precari, gay, studenti, migranti e operai.
Il programma, quello dell´Unione, che Rifondazione e Pdci "ricordano" a Prodi scendendo in piazza, a cominciare dall´accordo sul welfare approvato dal governo con l´astensione dei due ministri Ferrero e Bianchi, che però non sfileranno: niente manifestazione per gli uomini di governo per «evitare strumentalizzazioni», sempre che qualche sottosegretario non decida di presentarsi comunque all´appuntamento. Problemi per Prodi? Nessuno, giurano i leader di "mezza" Cosa rossa, visto che l´altra metà - Sinistra democratica e Verdi - non partecipa, pur riconoscendo le buone ragioni dell´iniziativa.
«Una manifestazione che rivendica l´attuazione del programma - garantisce Franco Giordano - non può rappresentare alcuna minaccia per il governo». Fabio Mussi però è preoccupato per un corteo che «si presta troppo alla protesta». Slogan contro il Professore? Di sicuro non nello spezzone ufficiale però, siccome «è difficile controllare un corteo con centinaia di migliaia di partecipanti», sono da mettere nel conto. Però Cobas, Disobbedienti, i centri sociali più duri hanno dato forfait, contestando la linea subalterna al governo. Sorvegliati speciali invece il centro "Action" di Nunzio D´Erme e i gruppi napoletani vicini a Francesco Caruso.
Le polemiche non mancano. Con Epifani e la Cgil, che ha anche vietato l´uso delle proprie bandiere. Fausto Bertinotti ironizza, «non ho mai visto un corteo senza bandiere, ci saranno», prevede una grande e pacifica manifestazione, «per cui rimando al premier tutte le eventuali preoccupazioni». Quelli della Fiom si presenteranno perciò dietro un grande e sarcastico striscione, senza sigla, "Io sono metalmeccanico e tu?", slogan anche "indossato" dagli operai, sulle mille magliette rosse e blu confezionate per l´occasione. Colore lungo il percorso assicurato, fra l´altro, anche da una dozzina di "carri" (cinque con il "sound system", musica a palla, e un carro funebre dedicato a Sviluppo Italia); alcune bande musicali municipali; amministratori locali toscani con attrezzi da lavavetri; sette roulotte cariche di rom.
Più in chiaroscuro però il percorso verso la Cosa rossa, con il 20 ottobre che avrebbe dovuto funzionare da trampolino di lancio. Invece, i Verdi presenti solo con stand informativi sugli ogm, e soltanto 4 senatori di Sd (Mele, Pisa, Di Siena, Paolo Brutti) in pista. Prc e Pdci sperano però sulla presenza della base dell´ex correntone, almeno due coordinatori regionali di Sd (Piemonte e Basilicata) ci saranno. Per i due partiti, come dice lo stesso Oliviero Diliberto, quello di domani sarà «un banco di prova decisivo». Massima mobilitazione, allora, anche per cancellare il flop del giugno scorso, quando a piazza del Popolo contro Bush si ritrovarono in poche migliaia. Piazza San Giovanni, scelta stavolta come location per la chiusura, non è facile da riempire. Previsioni ufficialmente non ne fanno, ma l´asticella è a quota 150 mila, immaginandone però almeno il doppio. E se si va oltre tutti pronti a celebrare il successone.

il manifesto 19.10.07
Intervista a Pietro Ingrao: «Sarò con voi in piazza. A partire dalla lotta contro la guerra infinita»

Una giornata molto pacifica
«C'è stato un impallidimento dell'impegno per la pace, in Italia e altrove. È vivo ancora quell'articolo 11 scritto in Costituzione? Io il 20 ottobre vado a dire che sì, è vivo, anche se lo farò tremando» «Vedo quanto sia pesante la condizione del soggetto lavorativo e con quale difficoltà stia tornando sulla scena il grande tema della liberazione del lavoro. E se spingo più lontano lo sguardo vedo risorgere la guerra: laggiù in Medio Oriente»
di Gabriele Polo


Novantadue anni e tanta voglia di partecipare. Pietro Ingrao non si tira indietro e si prepara a scendere in piazza domani: «Almeno un pezzetto di corteo lo voglio fare. Poi, se non sarò troppo stanco, ci vediamo sul palco per un saluto a tutti». E, oggi, vuole dire la sua. Sul 20 ottobre, ma non solo, perché il futuro della sinistra gli sta troppo a cuore.

Tu sei tra quelli che hanno lanciato l'appello per la manifestazione del 20 ottobre. Perché e quale problema metti al primo posto?
Volgo gli occhi intorno a me. E vedo quanto sia tornato pesante la condizione del soggetto lavorativo. Sono una persona molto anziana. E vedo con quale pesantezza sta tornando sulla scena il grande tema della liberazione del lavoro. E mi torna in mente quella canzone- ricordi?- "il riscatto del lavoro/ dei suoi figli opra sarà..." Come sento di nuovo, attuale, bruciante quel canto... E spingo più lontano lo sguardo vedo risorgere la guerra: laggiù in Medio Oriente.
E capisco e spero che domani tanti accorrano a Roma, scendano in piazza...
Ma noi italiani ci siamo ritirati dalla guerra in Iraq
Si: anche se tardi e male. In quelle terre ancora oggi la guerra continua. Né si sa se e quando l'invasore americano intenda ritirarsi.. e i luoghi in cui ancora oggi la guerra campeggia sono cruciali per l'economia del mondo e anche per il mondo islamico a lungo e rovinosamente oppresso dall'Occidente. Noi occidentali da tempo siamo andati a rapinare in quelle terre. E in un modo o in un altro- gli americani in testa a tutti- l'ingerenza occidentale continua.
Io prego i miei concittadini italiani che sabato vadano in tanti a dire: basta.
Eppure il governo italiano continua a sostenere l'apertura di una nuova base americana a Vicenza. E rimanda ai vincoli militari, ai patti con gli Stati Uniti.
Io conosco una legge che per me e per la mia patria sta al di sopra di qualsiasi patto con altri Stati. Sta scritto in Costituzione (articolo 11!) che per l'Italia è lecita solo la guerra di difesa. Quel vincolo è esattamente l'opposto della guerra preventiva praticata da Bush. È vivo ancora quell'articolo 11 scritto in Costituzione? Io il 20 ottobre vado a dire che sì, è vivo, anche se lo farò tremando.
Perché? Che temi?
Perché c'è stato un impallidimento dell'impegno alla pace: nel mio Paese e anche altrove. E sento il bisogno ardente che torni- fra tanti miei compatrioti, e anche al di là- una sete della pace: e valga ad incidere nella vita reale e nell'idea che abbiamo del mondo...
Il 20 potrebbe essere un tentativo di ripresa a partire da questi problemi. Ma c'è un quadro politico difficile, una sinistra frammentata. Cosa pensi del partito democratico? Lo si può considerare una forza di sinistra?
Chiamiamo le cose col loro nome. Prodi e Veltroni- due uomini politici che io stimo - sono chiaramente dei leader «moderati». E con essi penso si possano stringere utili alleanze, e sviluppare insieme anche progetti di largo respiro.
Ma tutti sappiamo e vediamo che Prodi non ha nulla a che fare col socialismo e col pacifismo. Diamo dunque a ciascuno il suo nome.
E misuriamo, valutiamo le possibili alleanze contro i comuni avversari, i reazionari dichiarati alla Berlusconi.
Ma contemporaneamente lavoriamo a rendere forte e vitale lo schieramento di sinistra, evitando le inutili frantumazioni. Io stimo Di Pietro ma so bene che non ha nulla a che fare con una lettura di classe del mondo in cui vivo.
Dalle banche ai manager dell'industria, al mondo delle professioni... Ma con questo Pd, poi la sinistra che deve fare? Un'alleanza elettorale o no?
Classificarli per quello che sono, senza bugie. So che essi sono contro uno schieramento di destra che in Italia, purtroppo, è forte ed arrogante e tiene forti leve di comando in mano.
Non mi scordo Berlusconi. E non voglio, non posso assolutamente rinunciare a un sistema di alleanze che mi dia forza nel combatterlo, e so che Prodi è un moderato che lotta contro i conservatori reazionari. E io - in questo - voglio stringere alleanza con lui.
Ma la sinistra di classe a cui sono legato è altro. Muove da un'altra lettura del mondo. Un tempo erano dense di vita le sezioni, le case del popolo, dove si costruivano comunanze, letture del presente, ipotesi sul domani.
Oggi le sezioni praticamente non esistono più o sono semivuote...
Non credo che sia così, ma non ne so abbastanza. E con le mie deboli forze, ostinatamente voglio lavorare alla resurrezione di quei luoghi di formazione politica e di scatto della lotta. E avendo questo non penso solo al calcolo materiale dei voti possibili. Il 20 ottobre noi andiamo a cercare una convenienza più profonda: resto ad affermare come forza, ma anche a costruire una convenzione, una lettura comune della società controversa in cui vivo: compreso il dubbio, l'interrogarsi dubitando: la comunanza nella ricerca.
Oggi invece tutto questo non c'è, ci sono le primarie... Cosa ne pensi?
Ne comprendo poco. So però che per costruire una identità di popolo bisognava fissare regole, se vuoi contare voti, apprendere segni. E comprendo, tutelo anche queste regole.
Ma la partecipazione politica è altro e di più. Io ho vissuto un'esperienza in cui la politica si dipanava nella sezione, nella Camera del lavoro, spesso per strada, dove il sindaco camminava, incontrava, rispondeva; e il capo del sindacato semmai litigava col compagno operaio. Pezzi di società, od anche storia di singoli che evolvevano insieme. Il 20 di ottobre scendiamo in piazza anche e molto per comunicare: per conoscerci. Vogliamo, speriamo di parlare anche a chi è lontano e non sa, o dubita.
Magari non è attivo ma potrebbe essere riattivato...
Tu dirigi un giornale di battaglia, come il Manifesto, e ne sai più di me: stai dentro l'urto quotidiano.
Però è di grande importanza che in queste brevi ore mancanti all'appuntamento di sabato si discuta sulle strategie, sulle vie su cui intendiamo comminare. E questo come domanda pubblica che la sinistra pone a se stessa e ai suoi alleati.
È tardi? Non lo so. Ma si può. E bisogna accelerare il cammino.
E tu quale compito metti al primo posto?
Ti rispondo con due parole: la lotta alla guerra.
Ma da quando le truppe italiane si sono ritirate dall'Iraq, anche per l'opinione pubblica italiana la guerra è «scomparsa», l'Iraq è rimosso, l'Afghanistan sembra questione di addetti ai lavori...
Sì, ce ne siamo andati e basta. E invece non si chiede solo questo a noi. Io credo che noi dobbiamo lavorare non solo per spegnere questa guerra infame che continua in Irak. Dobbiamo respingere l'agire armato di massa. E rilanciare le forme civili di confronto , i possibili compromessi, i riconoscimenti reciproci. Anche dubitando.
Lo confesso: credo al valore del dubbio, e al confronto con l'altro.
Sì, che rimanda a una pratica dell'umano...
Abbassando un po' la voce potremmo dire: è una lettura del mondo.

il manifesto 19.10.07
Legge 40, la riforma dovuta
Fecondazione assistita: diminuiscono le gravidanze, aumentano parti plurimi e turismo procreativo. Urge cancellare l'articolo 14, il divieto di donazione di gameti e di diagnosi pre-impianto
di Grazia Zuffa


Nel clima di nuovi costituendi partiti (Pd), di rimescolamento di culture, di lancio di nuovi soggetti politici (la sinistra che s'ha da fare), i temi «etici» sono al centro, a volte sbandierati come la panacea per la rinascita della politica. Cominciamo a mettere alcuni punti fermi. Le prime mosse della partita si giocano intorno alla distinzione fra etica, o meglio fra etiche, e legge, oggi più travagliata che mai; e intorno a ciò che è definito come eticamente rilevante nel discorso pubblico. Per me la tutela della salute della donna e quella del nascituro hanno rilievo etico, per non dire che sono anche beni costituzionalmente protetti, che la legge ordinaria dovrebbe rafforzare, non contrastare. Eppure, dai dati sull'applicazione della legge 40, presentati il 17 ottobre alla camera dalla ministra Turco, emerge un quadro da vero far west della fecondazione assistita, secondo il vecchio adagio del «si stava meglio quando (a detta di alcuni) si stava peggio».
Rispetto alla situazione precedente alla legge, si registrano un minor numero di gravidanze e di bambini nati, mentre aumenta la percentuale di trattamenti che non giungono a buon esito. Avvengono più parti plurimi (dal 22,7% del 2003 al 24,3% del 2005), laddove negli altri paesi c'è una costante diminuzione di questo tipo di gravidanze più rischiose. Non c'è dunque da stupirsi del «fenomeno della migrazione delle coppie verso i centri esteri, non solo per avere trattamenti vietati dalla legge 40 (donazione di gameti o diagnosi genetica preimpianto), ma anche per ottenere l'applicazione delle tecniche con la più alta percentuale di successo possibile»: così recita la relazione del ministero.
Veniamo al nodo che la legge riconosce come l'unico davvero «eticamente sensibile»(a fronte di una evidente insensibilità verso gli aspetti succitati): la tutela della «dignità dell'embrione» da cui discende la produzione di non più di tre embrioni «da trasferire in un unico e contemporaneo impianto» e il divieto di congelamento degli stessi. Una prima conseguenza: c'è un tasso altissimo di ovociti scartati (51,1%), che non sono fecondati per non superare il numero di embrioni consentito. Ovociti che non possono essere ceduti ad altre donne, stante il divieto di donazione.
Un inciso: due mesi fa il Comitato di Bioetica ha votato a maggioranza una mozione di «condanna della compravendita di ovociti», mirante, dietro questo titolo, a stigmatizzare i rimborsi spese per le donne donatrici, vigenti in altri paesi (e praticati correntemente per ogni genere di donazione). Il problema dell'invasività del prelievo esiste, ma sarebbe almeno in parte risolto incentivando la cessione di ovociti da parte di donne che si sottopongono alla pratica per avere un figlio proprio, come accadeva prima della legge 40. Le presentatrici della mozione si sono guardate bene dall'accettare il confronto su questo punto (come su altri sollevati). Distrutti gli ovociti «gratuiti», esposte ai rischi della clandestinità le donne più «deboli» che decidono di donare, ma salvo il divieto: scherzi dell'etica.
Più in generale, le norme «a tutela della dignità dell'embrione» sono alla base della caduta di efficacia delle pratiche, della loro maggiore invasività, delle gravidanze più difficili, delle nascite più rischiose.
Si noti che in realtà il divieto di congelamento degli embrioni è stato già modificato dalle linee guida, che prevedono la crioconservazione non solo per causa di forza maggiore dovuta alla salute della donna (come dice la legge), ma anche quando «comunque un trasferimento non risulti attuato». Si stabilisce in pratica che l'impianto dei tre embrioni sia da ritenersi obbligatorio, ma non coercibile contro la volontà della donna (un certo numero di questi embrioni esiste, tanto che se ne sta occupando il Comitato di bioetica). Tutto ciò rende ancora più odioso l'articolo di legge, se mai fosse possibile. Da un lato, perché ne accentua il carattere di norma manifesto, a sancire il «diritto a nascere» anche a costo di degradare la donna a corpo-macchina (altro scherzo dell'etica); dall'altro, perché il contrasto fra la legge e le indicazioni applicative rende più arbitrarie le scelte del medico e più indifese le donne.
Da questi dati, una indicazione per modificare la legge emerge: eliminazione dell'art.14 (limiti all'applicazione delle tecniche sugli embrioni), del divieto di donazione di gameti, della proibizione della diagnosi pre-impianto: su questo la sentenza del tribunale di Cagliari, che ha consentito la pratica a una coppia di genitori, ha già aperto la strada.
Siamo ben al di qua di quella profonda modifica dell'impalcatura della legge che molte e molti di noi vorrebbero. Sarebbe però un primo atto di riforma, buono per riconquistare fiducia in questo governo e in questa maggioranza.

il manifesto 19.10.07
Attualità del mito
Tra musica e inconscio un legame profondo
Cinquant'anni prima che Freud scrivesse l'«Interpretazione dei sogni» Wagner scendeva, con la sua Valchiria, nei meandri dell'esperienza emotiva dominata dal non-detto
di Pietro Bria


«Come, dunque, si volge via il dio da te, così bacia via dai tuoi occhi la divinità»: sono le parole piene di commozione con cui il dio Wotan - nel finale della Valchiria - si congeda dalla figlia Brunilde, che è costretto ad allontanare da sé e a privare del suo essere divino. Ma è anche la frase che per Giuseppe Sinopoli traduce quello splendido ossimoro con cui Wagner tenta di descrivere e di mettere in musica la ferita degli affetti che si è aperta nell'animo del dio: Wotan, infatti, è spinto a recuperare l'unione perduta con la figlia e, al tempo stesso, a separarsene, a prendere commiato da lei. Proprio in questo momento drammaturgico di così forte impatto emotivo può riassumersi il senso più profondo della vocazione psicoanalitica di Sinopoli, che lega la musica all'inconscio delle passioni umane.
La logica degli affetti
Mettere l'inconscio in musica implica, comunque, un assunto di base che va condiviso: quello secondo cui la musica non è un puro gioco di forme sonore sprovvisto di una semantica propria; perché nasce, invece, come fatto o evento espressivo che trova la sua materia prima nelle profondità degli affetti umani a contatto con sensazioni ancora oscure e nebulose: quelle sensazioni che, come voleva Gustav Mahler, «aprono la strada all'altro mondo, in cui le cose non hanno tempo e spazio» e attendono di essere messe in forma di pensiero.
È stato Matte Blanco, il grande psicoanalista cileno da alcuni anni scomparso, a dotare, sulla scia di Freud, questo «altro mondo» - il mondo dell'inconscio - di una logica propria, che è logica degli affetti e logica dell'infinito. Ebbene, Sinopoli ha raccolto questa lezione e l'ha realizzata in musica attraverso un altro incontro straordinario, che lo ha impegnato come compositore, come interprete e come uomo: la musica con cui Wagner - cinquant'anni prima che Freud scrivesse l'Interpretazione dei Sogni - si era avventurato, prefigurando le scoperte della psicoanalisi, nei labirinti dell'inconscio, laddove la coscienza umana si stratificava e si scopriva determinata dai livelli del «non-detto» (il rimosso freudiano) o, più fondamentalmente, dall' «in-dicibile» che è proprio dei livelli dell'esperienza emotiva.
Ho vissuto con Sinopoli questa grande avventura che l'ha portato a intuire come la «discesa» nell'inconscio avvenga in Wagner tramite quello straordinario dispositivo - che è tecnica compositiva ma anche procedura conoscitiva - costituito dal Leitmotiv o tema conduttore, vero motore della drammaturgia wagneriana. Il Leitmotiv ha la funzione non solo di rimandare o richiamare l'attenzione su un personaggio o su una specifica situazione psicodinamica (come è il caso della perdita o dell'amore o della redenzione) ma anche quella più fondamentale di attrarre o trascinare a sé motivi e tempi musicali, stabilendo associazioni o contrasti con altri temi o altri motivi, oppure subendo trasformazioni più o meno profonde della propria struttura che lo rendano irriconoscibile.
Ciò dà luogo a una rete o ibrido musicale che determina una perpetua instabilità armonica e timbrica e permette di accedere - come una sonda psicoanalitica - a diversi livelli di coscienza dei personaggi e delle situazioni: «percorsi labirintici, viaggi prospettici nella mente e nelle emozioni dove ai leitmotive più evidenti si intrecciano altri nascosti, sfuggenti, pronti a segnalare aspetti inconsci».
Il risultato straordinario di questa procedura continuamente «compromissoria» è che lo spazio lineare e discreto della narrazione, così come lo spazio della coscienza in Freud, viene - attraverso la musica dei Leitmotive - continuamente immerso in un altro spazio, multidimensionale, che è spazio dell'inconscio e matrice di emozioni su cui il racconto appare sospeso. In questa matrice albergano non solo violenti conflitti pulsionali - di cui la Tetralogia wagneriana è tutta intessuta - ma anche massicce proiezioni di desideri e dissoluzioni più o meno ampie dell'identità, che nessuna realizzazione scenica tridimensionale avrebbe potuto portare in piena luce; compresa la raffigurazione onirica sebbene, per Freud, essa fosse la «via regia verso l'inconscio». Questa impossibilità strutturale aveva convinto Wagner a auspicare per il suo dramma musicale, dopo l'orchestra invisibile, una scena invisibile finalmente liberata dal sensibile per raggiungere una «comprensione più esaltante, più visionaria del tutto».
Pierre Boulez, introducendo la sua ormai storica esecuzione di Bayreuth, disse al riguardo - e in sintonia con Sinopoli - che il concatenarsi dei motivi nel tessuto strumentale «viene a creare un mondo la cui indipendenza nei confronti della scena si manifesta in modo crescente», fino al punto in cui è possibile osservare «quasi una dualità fra l'universo drammatico e quello musicale, poiché quest'ultimo diviene infinitamente più ricco dell'altro e tende, con la sua stessa proliferazione, ad accaparrare tutta la nostra attenzione».
La musica sopprime il tempo
Nella Valchiria - afferma Sinopoli - questo sviluppo del Leitmotiv trova il suo acme espressivo «grazie a una tecnica meravigliosa di variazione aperta, continua, cellulare, tipica del Wagner maturo, che consente alla memoria di interagire con il presente: un «procedere multiforme di passato e presente» che ha portato un grande studioso di Wagner come Ernst Bloch a parlare di «psicoanalisi del Leitmotiv onnisciente». Tecnica, questa, che si realizza in modo assai significativo nel finale dell'opera, quando la musica sublime che Wagner costruisce intrecciando i motivi dell'addio di Wotan con quelli del sonno e del suo incantesimo permette di dare espressione a quell'indicibile antinomia di affetti che agita l'animo del dio-padre nel momento in cui, in obbedienza alla legge istituita, egli deve separarsi dalla figlia Brunilde: la figlia che incarna (e incarnerà) il suo più profondo desiderio di amore.
E così la musica, arte del tempo, ritrova la sua funzione originaria che è, come afferma Levi-Strauss, quella di sopprimere il tempo. Un legame con l'in-divisibile e con l'infinito che è anche all'origine della sua capacità di influenzare gli animi, così come le riconosceva Platone, e che si attualizza nel momento dell'ascolto.

il manifesto 19.10.07
Se la psicoanalisi volta le spalle a Edipo
Non è certo un caso se la distruttività che impedisce lo sviluppo del pensiero e dei processi simbolici finisce oggi per preoccupare più delle vicissitudini conflittuali legate all'oggetto del desiderio
di Fausto Petrella


Il grande mitografo Karol Kerényi mostra, in due importanti saggi del 1966 e del 1968, la persistente presenza del mito di Edipo nella cultura occidentale, a partire dalla più illustre tra le sue espressioni che l'antichità ci ha rimandato, la tragedia di Sofocle, Edipo re. A subire il fascino di un mito le cui origini si perdono nell'oscurità del passato più remoto, e a garantirne la continuità, sono stati moltissimi scrittori e poeti ai quali Kerényi fa riferimento: da Seneca a Hölderlin, sino a Hofmansthal, Cocteau e Gide nel '900. Ma furono profondamente attratti da Edipo anche Thomas Mann, Borges, Dürrenmatt, ognuno introducendo nuove varianti, adattando il mito al proprio tempo e al proprio sentire. Naturalmente, nel lungo tragitto percorso dal mito edipico nei secoli, lo spartiacque fondamentale resta l'incontro di Sigmund Freud con la tragedia di Sofocle: era questo il «classico» che studiò nel suo ultimo anno di liceo e dal quale avrebbe sviluppato, dopo una gestazione straordinariamente laboriosa, la nozione di «complesso edipico», formulata nella sua versione completa a ben dieci anni di distanza dall'Interpretazione dei sogni.
Slittamento di attenzione
La mossa freudiana fondamentale fu quella di vedere nel mito edipico l'esteriorizzazione e la messa in scena narrativa di quelle vicissitudini emotive che rispecchiano i desideri infantili, sia amorosi che ostili, presenti nei rapporti inconsci che governano la famiglia e le generazioni. La psicoanalisi ha insomma psicologizzato il mito, facendolo diventare l'espressione di processi e affetti presenti, in gran parte inconsciamente, in ogni bambino, e quindi in ogni genitore.
Nella seconda metà del '900, tuttavia, la grande narrazione edipica, con il suo potenziale emancipante, ha lasciato il posto a micronarrazioni locali, a oggetti parziali frammentari e all'iconografia relativa, evidenziando la tendenza a dimenticarsi dell'Edipo o a attribuirgli un valore scontato. Le ragioni di questo progressivo oblio sono molteplici, a partire dall'evidenza per cui la crisi del modello familiare non impedisce che i genitori - queste «due sfingi presenti alle soglie della vita», come scriveva Peter Weiss nella sua autobiografia - continuino a svolgere le loro funzioni strutturanti nella crescita del bambino, ma in un registro svalutato e incerto, spesso distorto e meno appariscente di quanto non lo fosse in passato.
Del resto, fa parte del mito di Edipo, e del suo crudele antefatto, anche il nostro destino di «navi lasciate all'abbandono» in acque gelide, come cantava Metastasio, nell'aria di un suo libretto d'opera. Resta vero, comunque, che gli psicoanalisti farebbero bene a non allontanare Edipo dalla loro cittadella teorica e clinica, perché anche se rischiamo di non vederlo, accecati come lui, il complesso che ne porta il nome è ancora presente fra noi.
E se è evidente che il superamento della fase edipica comporta ancora oggi il suo attraversamento, la sua messa in scena nei sogni e il suo rendersi attivo nelle dinamiche della vita, altrettanto chiaro è il fatto che la sua mancata o abortita costituzione caratterizzano molte personalità patologiche gravi e, tipicamente, le perversioni. D'altra parte, il deperimento odierno dell'Edipo nella teoria e nella clinica psicoanalitica impedisce di vedervi il complesso nucleare delle nevrosi.
Da vari decenni, come è noto, ci si concentra più volentieri sulle fasi pre-edipiche e pregenitali, nonché sul funzionamento della coppia madre-bambino - sulla diade, dunque, e non sul triangolo tipico del complesso edipico - quando si analizza la costruzione del sé del bambino e la formazione del suo senso di realtà. Ma questa unità rappresentata dalla coppia madre-bambino è continuamente esposta a una cesura obbligata, entro la quale fa la sua comparsa il fantasma del terzo, che sia o meno il vero padre.
Più che uno spostamento di accento, i modelli psicoanalitici hanno dunque subito uno spostamento del loro fulcro: dalla considerazione primaria attribuita all'eros e al soddisfacimento pulsionale sono passati alla valorizzazione dei processi relazionali che mirano a mitigare la distruttività emergente, sacrificando la vita amorosa e la relazione con l'altro.
Un compito ineludibile
Non è certo un caso se la distruttività che impedisce lo sviluppo del pensiero e dei processi simbolici finisce oggi per preoccupare più delle vicissitudini conflittuali legate all'oggetto del desiderio. Infatti, sembra sia tramontata quella valorizzazione del piacere che corrispondeva a una concezione dello sviluppo umano nata nella sicurezza del contenimento familiare e nella costanza dell'«ambiente» morale; questo processo era ritenuto essenziale per potere procedere alla identificazione di sé con esempi positivi, per fondare la calma interiore, per ritrovare la quiete dopo le tempeste. E mentre, nel corso del secolo passato, simili sicurezze sono andate perdute, nella teoria e nella pratica della psicoanalisi si è fatta strada l'idea che piacere e sicurezza (due funzioni garantite, per il bambino piccolo, dalle figure dei genitori) non trovino più una chiara integrazione, anzi divorzino. La psicoanalisi odierna ha una vocazione spiccata per tutto ciò che è elementare, per i momenti più infantili dello sviluppo, mentre rischia di far mancare il suo impegno nell'analisi e nello smontaggio dei dispositivi del carattere, che si concretano dopo l'età della latenza e nella ripresa adolescenziale del conflitto edipico.
Patologie identitarie
Salutiamo con gioia i momenti in cui nell'analisi si fa strada un'idea di sé più libera, una superiore visione dell'amore, capace di opporsi al super-Io sociale e al senso di colpa: è qualcosa che si può sviluppare tanto nell'analisi individuale quanto in quella di gruppo, è un bene difficile da conquistare nella realtà, ma che è anche facile perdere per via.
Però, la necessità di pensare sempre più profondamente l'ingranaggio psicologico e sociale che ci circonda impone alla psicoanalisi il compito, non più eludibile, di ripensare l'Edipo, perché la sua latitanza non significa che sia scomparso, bensì che viene evitato, sia dal paziente che dal terapeuta. Ne deriva, se ci guardiamo intorno, il proliferare di disturbi dell'identità e di grandi fenomeni di patologia collettiva.
Forse questo cuore pulsante della vita emotiva non batte più, o più probabilmente nessuno lo prende in considerazione e lo ascolta.

il manifesto 19.10.07
Lo specchio sufi dell'Islam, poesie d'amore contro l'oscurantismo
di c.sa.


Hafez è molto bello, occhi chiari tormentati, intelligenza divorante, lo chiamano così perché è un «Hafez», studia coi sufi detestati dall'islam oscurantista. Parlano infatti come lui di poesia e di amore, raccontano con la musica l'anima e poi il ragazzo che comunque il mufti più ortodosso ha voluto tutore della figlia ha osato sporgersi dal divisorio per guardarla. Si sono innamorati delle loro voci, lei di lui che le insegna a recitare il Corano e insieme spalanca il mondo sui versi del desiderio... Lui della sua curiosità, della sua voglia di conoscenza ... Hafez è il film di Jalili in gara alla festa di Roma, il regista fa parte di quel gruppo (folto) di cineasti iraniani che si è visto opporre spesso un veto pesante di censura - era accaduto con Dance of Dust, molto premiato nel mondo ma proibito in Iran per sette anni. Lavora con Makhmalbaf e Nasser Taghvai nella regia di Tales of Kish, il successivo Delbaran ha come protagonisti rifugiati afghani.
Hafez non è un film «semplice» né per l'Iran di Ahmadinejad né per l'occidente di uguale fondamentalismo. Infatti ci dice di un Islam molteplice, le cui componenti sono preghiera, poesia, amore, canto, l'Islam più ricco dei sufi che per questo è detestato e perseguitato dal waabitismo e da tutte le sue interpretazioni più fondamentaliste. L'Islam sgradito anche a chi da noi costruisce proprio sul fondamentalismo le guerre di religione o di civiltà, come motivarle se di fronte c'è una cultura che spiazza questa immagine?
Hafez che si chiama Mohammed conosce un altro giovane discepolo del mufti, più «ortodosso» che si chiama anche lui Mohammed. Anzi hanno proprio lo stesso nome per intero, sarà a lui che il mufti da in sposa la figlia che però ama Hafez...
«Come mi vedi» chiede alla ragazzina Hafez. «Doppio» dice lei. É un problema di vista, lui le compera degli occhiali, ma non si tratta solo di quello. I due ragazzi infatti diventano pian piano nell'opposizione lo stesso, Hafez che deve fare la prova dello specchio per non parlare più d'amore e l'altro che l'amore lo ha scoperto. Eccoci insomma in un universo di storie, fiabe, interpretazioni religiose di un Islam che si ricompone nei suoi frammenti, non si deve guardare la popria figura per intero ma nei pezzetti di uno specchio che ne rimandano ognuno un po' dice il maestro sufi di Hafez.
Non una monocultura dunque quale si è affermata ma l'intensità (anche in conflitto) di una ricerca, dove c'è spazio anche per l'immagine femminile invece nascosta dalla avvilente interpretazione fondamentalista. Forse a volte ci si lascia prendere dai colori, dai tappeti, da un paesaggio pieno di orizzonte e di fuochi industriali. Ma il film è comunque una bella scommessa, tutta da vincere.

l’Unità 19.10.07
Welby, «suo diritto rifiutare le cure»
Depositate le motivazioni del Gup: «Non fu Eutanasia». La Cei: «Invece sì»


LA SERA del 20 dicembre dello scorso anno Piergiorgio Welby visse serenamente le sue ultime ore. Prima di farsi staccare il ventilatore che da dieci anni pompa-
va aria nei suoi polmoni, Welby trascorse quei minuti guardando un gioco a premi in tv. «L’esperienza della morte vissuta con modalità di assoluta quotidianità e semplicità, come un momento apparentemente uguale a tanti altri». Una considerazione che non è di un commentatore, magari partigiano, ma di un giudice. La serenità della morte consapevole, unita alla volontà, suffragata dal dettato costituzionale, di interrompere una terapia salvavita, sono i principali passaggi della sentenza del gup del Tribunale di Roma, Zaira Secchi, sul caso Welby. Nelle 60 pagine di motivazioni il giudice spiega che era un diritto per Welby rifiutare la terapia, e un adempimento del dovere, secondo l’articolo 51 del codice penale, quello dell’anestesista Mario Riccio, prosciolto dall’accusa di omicidio del consenziente, di staccare la spina. «Il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari - si legge ancora nella sentenza - fa parte dei diritti inviolabili della persona di cui all’articolo 2 della Costituzione e si collega strettamente al principio di libertà e di autodeterminazione riconosciuto all’individuo dall’articolo 13 del dettato costituzionale». Il giudice sottolinea «il riconoscimento dell’esistenza di un diritto alla persona di rifiutare o interrompere le terapie mediche discendente dal secondo comma dell’articolo 32 della Costituzione secondo il quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge».
Ma il giudice è molto chiaro, nelle sue motivazioni, anche nel mettere i paletti alla vicenda: «Il rifiuto di una terapia salvavita - scrive il gup - può essere revocato in qualsiasi momento e quindi deve persistere nel momento in cui il medico si accinge ad attuare la volontà del malato». Ma Monsignor Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, ieri è tornato ad accusare: «La vita, la famiglia fondata sul matrimonio e la libertà sono valori non negoziabili. La vita è un bene indisponibile che secondo la Chiesa va sempre custodita e difesa dall’eutanasia e da altri attacchi porti in modo surrettizio». «Ogni forma di eutanasia - ha poi precisato - , falsa o camuffata, è inaccettabile per i cattolici sia come credenti che come cittadini».

Liberazione 19.10.07
Tutto è pronto per la manifestazione a Roma (partenza verso le 15 da Piazza della Repubblica, arrivo a piazza San Giovanni)
Vi aspettiamo tutti e tutte per impedire un'Italia trasformata in una specie di caserma, senza dissenso e senza sinistra
Domani venite tutti in piazza
per la sinistra è il giorno della prova
di Piero Sansonetti


Ieri noi del comitato 20 ottobre abbiamo incontrato Prodi. Abbiamo avuto una bella discussione. Tesa, seria. Tra noi e lui abbiamo registrato molto disaccordo, su punti decisivi, e soprattutto sulla valutazione di quello che ha fatto il governo in questi mesi. Gli abbiamo rinfacciato la sconfitta sui "Dico" e questo accordo sul welfare che a noi sembra pessimo. Lui ha incassato il colpo sui "Dico", si è difeso sul welfare, anzi ha rivendicato l'accordo, ha detto che più di così non si poteva fare, e ci ha contrattaccato, sostenendo che la manifestazione di domani è sbagliata e che lo danneggerà. Insomma, abbiamo trovato parecchie materie su cui litigare. Sicuramente però tra noi e lui non c'è stata antipatia. A noi Prodi è sembrato un uomo politico in grande difficoltà, che vorrebbe stare dalla parte giusta ma non ci riesce, è prigioniero delle cose, non ce la fa ad uscire da una logica di realpolitik , subalterna alla debolezza della maggioranza parlamentare e alla forza delle grandi lobby, quelle esterne al governo e al parlamento. Confindustria, prima di tutto, e alcuni circoli del Partito democratico.
Quando ci siamo salutati, noi abbiamo invitato Prodi a mandare al diavolo tutte le prudenze e i tatticismi e a venire con noi domani al corteo. Gli abbiamo dato appuntamento alle 14 e 15 davanti a Feltrinelli... Lui ha riso. Non ci sarà. Però noi sappiamo che domani, poco dopo le 14 e 15, già saremo in grado di capire se la sinistra, in Italia, ha ancora in mano le carte per giocarsi la sua partita, per fare fallire il disegno - vastissimo - di forze assai larghe della destra e del centrosinistra che vorrebbero cancellarla o almeno sospenderne l'esistenza per una decina d'anni in modo da potere, senza conflitti, portare in porto una trasformazione profondamente conservatrice e organicamente liberista e "mercatista" di questo paese. Se domani dalle 14 e 15 piazza Esedra si riempirà, vuol dire che la sinistra c'è ancora, è in piedi, e può combattere le sue battaglie. Noi siamo sicuri che sarà così. E sappiamo - lo sapete anche voi - che domani ci si gioca tutto.
Se volete capire quanto è grande la posta che sta sul tavolo, fatevi prestare una copia di Repubblica di ieri e leggetevi l'articolo di fondo scritto in prima pagina da Carlo De Benedetti (col suo solito pseudonimo di Massimo Giannini). De Benedetti - che oltre ad essere il proprietario di Repubblica è anche uno dei capi della corrente maggioritaria di Confindustria della quale Luca Montezemolo è una bandiera, e che ormai ha assunto, quasi fisicamente, anche la guida del Partito democratico - esalta due gesti politici, molto significativi, compiuti nella giornata di mercoledì da Prodi e da Epifani. La lode a Prodi è per aver deciso di licenziare il provvedimento sul welfare senza stare ad ascoltare le critiche della sinistra (che però De Benedetti non chiama mai sinistra e basta: chiama sinistra massimalista, antagonista, estremista, bi-comunista, radicalista e altro). La lode ad Epifani è per aver proibito agli iscritti della Cgil di sfilare in modo aperto e con le proprie bandiere al corteo di domani. De Benedetti osserva che questo gesto di Epifani - assolutamente inedito nella storia democratica del sindacato - non sarebbe mai venuto in mente a Di Vittorio o a Lama, e proprio per questo dice che è un gesto importantissimo e che finalmente rompe con una insopportabile tradizione sindacale votata all'unanimismo e alla tolleranza. Ora, chi ha qualche anno oltre i cinquanta, come me (e credo che De Benedetti sia più vecchio di me) sa bene che Luciano Lama è stato sempre e da tutti considerato l'anima più riformista e certamente meno radicale della Cgil. Nel Pci era giudicato un "destro" - si diceva così - un amendoliano, un filosocialista, e spesso, anche apertamente litigava con Berlinguer (non parliamo nemmeno dell'idiosincrasia tra Lama e la sinistra del Pci...). Ma a De Benedetti non basta certo un sindacato equilibrato e "lamiano". L'idea che ha lui è che oggi come oggi un rilancio serio del capitalismo italiano è possibile solo senza sindacati, o tutt'al più con un sindacato che si allinea dietro le posizioni della Cisl di Bonanni rinunciando ad ogni funzione di lotta, di conflitto, di dissenso o anche soltanto di fastidio.
I toni dell'articolo di De Benedetti colpiscono per la rudezza. Noi conoscevamo l'ingegnere come un imprenditore illuminato, aperto. Abbiamo letto molti suoi articoli (scritti e firmati col nome suo, senza pseudonimi) ma non avevamo mai trovato tanta asprezza, che davvero sta sul filo del confine tra democrazia e concezione autoritaria dello Stato e della politica.
Cari lettori di Liberazione , domani in piazza - ve lo ripeto in modo accorato - ci giochiamo tutto. Se non fermiamo questa baldanzosa avanzata del potere padronale - lasciatemela scrivere questa vecchia parola, un po' consumata, che oggi torna ad assumere un senso chiarissimo: " padronale " - se non la fermiamo, allora nei prossimi anni vivremo in un'Italia trasformata in una specie di caserma. Senza lavavetri, senza rom, senza sindacati, senza sinistra. Una volta questo era il sogno impossibile della destra. Noi dobbiamo fare in modo che resti un sogno impossibile.

Liberazione 19.10.07
Sarà musica e politica a Piazza San Giovanni
La manifestazione si conclude nella grande piazza romana con cinque compagni di strada: Enzo Avitabile, Tete de Bois, Ulderico Pesce, Andrea Rivera, Ascanio Celestini e Bisca/Zulù
di Angelo Lombardo


Quanti gufi! A leggere giornali e commenti, a chiedere delucidazioni all'ufficio stampa della porta accanto (sta qua a Liberazione) sembrano davvero tanti quelli che gufano contro il nostro 20 ottobre. Neonati comitati pro Legge 30 (che loro chiamano Biagi, anche se è di Maroni), sindacalisti della triplice, piddì, sinistre antagoniste che più di loro non c'è nessuno. Strano clima. Con ad esempio tante associazioni, di quelle che abbiamo visto nelle piazze nella stagione dei movimenti, alla finestra come sigle e presenti in piazza a titolo personale. Questa manifestazione non piace perché è troppo di sinistra, troppo poco di sinistra, troppo molle, troppo radicale, troppo identitaria e troppo plurale... Insomma, siamo troppo. E lo saremo. Perché i treni sono stracolmi, i pullmann sfiorano i 500, Roma sta cominciando a muoversi. E a furia di gufare...
La novità del giorno - incontri istituzionali a parte con Romano Prodi e Franco Marini di cui potete leggere qui accanto - è il palco di Piazza San Giovanni. Perché è bene ricordare che la piazza d'arrivo sarà proprio quella storica e grande della sinistra (e sarà bene riempirla in ogni ordine e grado). Una volta partito il corteo (orario presunto, solo presunto, le 15.30) si camminerà con una banda in testa per qualche chilometro. Giù per via Cavour, dove ci attendono le donne auto-convocate e auto-nominatesi "le fuori programma", con una certa verve polemica anche nei confronti del corteo. Poi svolta in Piazza Santa Maria Maggiore e via per Merulana, Manzoni ed Emanuele Filiberto, fino a San Giovanni, dove dalle 17-17.30 comincerà il secondo momento della giornata: il palco.
Le indiscrezioni parlano di un poli-intervento dei promotori di saluto e di rilancio delle ragioni della piazza, per provare a non finire con un classico "arrivederci alla prossima volta". Qualcosa di spendibile sui territori e nei propri luoghi di vita e di lavoro per continuare a incalzare governo, sinistre, piddì... Ci saranno anche alcune testimonianze dirette sui temi del corteo (che ricordiamo a tutti sono diversi: diritti, pace, beni comuni, laicità, libertà e precariato) che saranno presentati e incastrati nel programma di concerti e spettacoli. Un lavoro corale, perché gli artisti che si sono prestati al gioco canteranno, racconteranno, suoneranno e metteranno in scena molte delle cose che la manifestazione rappresenta.
Enzo Avitabile e i Bottari ovvero la fatica di donne e uomini che vivono in esilio nella propria terra, stranieri anche a se stessi: "Braccianti di Terra di lavoro, profughi palestinesi, bambini soldato, ragazzine costrette a vendere il proprio corpo e contadini che implorano dal cielo il miracolo di una goccia d'acqua".
Tetes de Bois , premio Tenco 2007 con "Avanti Pop" il primo documento di un viaggio ancora in corso, sulle tracce delle fabbriche, dei call center, dei campi di pomodori, un progetto di indagine e testimonianza nel mondo di chi lavora (dalla Fiat di Melfi, ai campi di Borgo Libertà, all'Atesia di Roma, alle fabbriche di armi di Colleferro, quelle che saltano in aria...).
Ulderico Pesce , attore lucano che con "Storie di Scorie" ha portato in scena la realtà della lotta di Scanzano Jonico.
Andrea Rivera , artista di strada, menestrello, cantautore dei fatti che diventano trafiletti sui media, intervistatore dei citofoni su Rai3, si è visto riconoscere premi e onorificenze torna nella piazza dove ha fatto arrabbiare la Chiesa (e i sindacati) sfottendo il bigottismo e l'ipoteca vaticana sulle libertà civili.
Ascanio Celestini ci regalerà una parte di "Parole sante", nato dall'ispirazione di "Appunti per un film sulla lotta di classe", uno studio-spettacolo sui call-center musicato e interpretato, allargatosi ai temi della memoria, della fatica e della giustizia sociale. Il tutto è diventato un documentario e un disco che sarà presentato in anteprima in piazza.
Bisca/Zulù ovvero Sergio Serio Maglietta, Elio 100gr. Manzo, Luca O Zulù Persico (ex front-man dei 99 Posse), forse il più popolare ed efficace esempio di musica politica in Italia che torna con un disco "Tre terroni" sulla corsia preferenziale dell'underground e della protesta (anche qui un'anteprima assoluta)
Le novità sono molte altre, come la presenza dei trattori degli agricoltori espopriati dalle banche delle loro terre in Sardegna, di uno "Scuolabus" degli studenti, dell'adesione con tanto di tir antiproibizionista della "Million Marijuana March" (sezione italiana). E siccome lo spazio non basterebbe per dire tutto, per brevi cenni vi diciamo che le adesioni dell'ultima ora sono venute da: Il sindaco Orfeo Goracci e tutta la giunta di sinistra Gubbio (e speriamo col gonfalone), insegnanti e personale Ata di Napoli, Amministratori e amministratrici di sinistra del Piemonte, lavoratori, donne, militanti, cittadine di Trieste, Reggio Emilia, Monza, della Sicilia, della Lombardia e ancora le stiamo spulciando. Perchè ci scuserà chi ci scrive ancora appelli, inviti, adesioni, ma non riusciamo più a starci dietro. Per fortuna sono troppi. E noi non siamo mai abbastanza.

Liberazione 19.10.07
Intervista all'europarlamentare di Sinistra democratica: «I gruppi parlamentari di Bruxelles in piazza dietro un unico striscione, abbiamo già avviato la costituente»
Claudio Fava: «Manifesto per unire la sinistra»
di Frida Nacinovich


L 'europarlamentare Claudio Fava domani sarà in piazza a Roma.
Ci sarò per più motivi. L'idea che si può manifestare dall'opposizione e invece bisogna tacere quando si è al governo è una lettura un po' bizzarra e limitativa delle responsabilità politiche. Voglio manifestare per qualificare l'azione del governo Prodi, per dare indicazioni concrete su punti del programma dell'Unione che vanno rimessi al centro dell'attenzione della maggioranza. Sarò in piazza per il recupero di una questione morale, che diventa dirimente per ogni scelta politica dal welfare ai diritti civili, passando per la pace e l'ambiente.
La tua Sinistra democratica non ha aderito alla manifestazione, almeno ufficialmente...
Come parlamentari europei della sinistra vogliamo anche dare un contributo di originalità. Mi spiego: a Bruxelles abbiamo dato vita ad un vero e proprio laboratorio della sinistra, ci siamo trovati d'accordo su una piattaforma avanzata, lavoriamo insieme. Dal no alla seconda base di Vicenza alla difesa dei diritti civili, sociali, dell'ambiente. Abbiamo già avviato la costituente della sinistra, vorremmo portarne testimonianza il 20.
La sinistra si ritrova comunque in piazza domani, un buon segno?
La sfida che abbiamo davanti è importantissima, bisogna fare uno sforzo di umiltà per superare i localismi e le autorferenzialità che hanno spesso limitato l'azione della sinistra. Ci vuole orgoglio e passione politica. L'obiettivo è una sinistra senza aggettivi, una sfida culturale che può segnare in positivo un'epoca, un'assoluta necessità accanto al riformismo moderato del Partito democratico. L'Italia ha bisogno di una cultura di sinistra, che sia come si diceva un tempo di lotta e di governo.
Chi ci sarà domani a Roma?
Il 20 mi sentirò deputato, militante, dirigente della sinistra. Sarà una manifestazione che andrà oltre le case di appartenenza, socialista, comunista. Tutti i parlamenterai europei della sinistra staranno dietro uno unico striscione, per testimoniare un'unità che si fonda sulla pratica politica.
Come andranno avanti dal 21 ottobre le forze della sinistra italiana?
Penso ai diciotto punti della piattaforma fatta dai quattro soggetti politici che richiamavano Prodi a un maggior impegno sul welfare. La sinistra può produrre politica insieme, a differenza del piddì che è una fusione a freddo. Il 20 la presenza di alcuni di noi sarà un valore aggiunto, per qualificare l'azione del governo Prodi e per ritrovarci già il 21 ottobre in un percorso definito e condiviso che non ha più ragioni, pretesti, alibi per fermarsi. Questo è il tempo delle responsabilità.
Anche dell'unità?
Certo. Ma parlare di modelli non mi entusiasma, penso a un soggetto comune, a un linguaggio comune, a una capacità di coinvolgimento che non si fermi a Sd, Prc, Verdi e Pdci ma sappia parlare anche al disagio, agli esclusi dalla politica, ai giovani. Unire la sinistra è l'urgenza, le forme le troveremo per strada.

Liberazione 19.10.07
Intervista all'esponente della Sd: «La federazione e le altre formule utilizzate sui giornali mi sembrano tutte inadeguate» «Il 20 ottobre? Sarà una manifestazione grande e partecipata»
Giovanni Berlinguer: «E' ora di pensare ad un solo partito»
di Stefano Bocconetti


Ha la scrivania piena di ritagli di giornali. Incollati su fogli di carta, accompagnati da tanti appunti. Per esempio, l'intervista a Franco Giordano, pubblicata ieri sul nostro giornale, è sottolineata in tante parti. Ma è accompagnata anche da un punto interrogativo. Disegnato a mano, verso la fine. E con l'intervista a Giordano ci sono decine di altri ritagli. Così, quando comincia questa chiacchierata, Giovanni Berlinguer - 83 anni, un professore, uno dei più autorevoli professori di medicina sociale "prestato" alla politica, oggi eurodeputato, eletto con l'Ulivo e ora nel gruppo della Sinistra democratica - sembra avere tutto sotto mano. Se qualcosa gli sfugge, se la va a controllare fra gli appunti. Una cosa però non è scritta da nessuna parte. La sua aspirazione, il suo progetto che vorrebbe veder realizzato: un partito della sinistra. Lui lo chiama così. Certo, se insisti e gli domandi se pensa ad un partito unico, ti risponde che la parola gli fa paura. «Sa di Urss, di Breznev». Però ad un partito pensa. Le formule che si usano in questi giorni sui quotidiani - federazione, un "patto" e via così - gli sembrano tutte inadeguate. Ma sono soprattutto i tempi che gli mettono timore: «Sì, perché o si fa adesso o sono guai. E davvero la prossima generazione non ce la perdonerà». Al partito della sinistra Giovanni Berlinguer ci arriva con un lungo ragionamento. Che parte proprio da quel che è avvenuto domenica, con quei tre milioni e mezzo di persone che hanno partecipato alle primarie.
Allora, che idea ti sei fatta? Perché una partecipazione così vasta?
Le primarie, il coinvolgimento di tante persone, anche di molti giovani, per dar vita ad un partito nuovo è un fatto straordinario. Ma non è isolato.
In che senso?
Se andiamo indietro nel tempo ci accorgiamo che prima - e sto parlando di due anni - ci sono state le primarie dell'Unione, poi la battaglia, vinta, sul referendum istituzionale voluto dalla destra. Poi tante altre cose fino alle ultime vicende, il pronunciamento dei lavoratori sul protocollo e il voto per designare il segretario del piddì. Ma penso anche alle manifestazioni di Vicenza, alla straordinaria marcia per la pace di Assisi.
Tutto questo cosa ti fa dire?
Che a determinare questa spinta alla partecipazione la sinistra - tutta - ha contribuito molto. In maniera decisiva. Eppure la sinistra non ha ancora l'unità, i collegamenti, la capacità di ascolto, non ha ancora la forza per esercitare una capacità di attrazione verso nuovi soggetti. Non ha ancora il "passo" giusto, insomma, per bilanciare il partito democratico.
Breve inciso. Che aggettivo useresti per definire il partito di Veltroni?
Permettimi, ma anche nei fenomeni biologici non si può mai parlare delle prospettive di una specie nuova analizzando le uova. O le prime forme che assumono se si tratta di esseri viventi.
Giudizio sospeso, allora?
Nel piddì, lo sappiamo, ci sono moltissime idee che dobbiamo evitare di catalogare a priori. Ci sono influenze di integralismo, ci sono pezzi di liberismo sfrenato. Ma c'è voglia anche di modernità democratica. Tutte cose ancora informi. Vedremo. Certo quel percorso non mi appartiene. Ma penso che sia stato giusto, come fece la minoranza dei diesse all'ultimo congresso, augurare a chi voleva dar vita ad un nuovo partito: "buon viaggio". Io, insomma, davvero spero ancora di arrivare ad un successo parallelo. Il loro, quando magari formuleranno meglio le loro proposte, e il nostro, che puntiamo a riaggregare e rimodernare la sinistra. La sinistra unita. Sapendo che comunque bisognerà collaborare. A meno che qualcuno non pensi che il piddì possa essere autosufficiente. Sarebbe assurdo semplicemente perché non è nell'ordine delle cose esistenti.
Parliamo di sinistra, allora. Come te la immagini?
Più ampia di quella attuale.
Qualche altra definizione?
Azzardo: ricca di tradizioni ma anche priva di vincoli che attanagliano le energie.
Che intendi per "vincoli"?
Provo a spiegarmi meglio: penso che tutti i partiti della sinistra abbiano oggi il dovere di andare oltre quello che hanno acquisito nel corso di questi anni. Nell'intervista che ha dato a Sansonetti, il segretario di Rifondazione fa capire di non avere alcuna nostalgia per l'identità comunista. Del resto è quello che ha sempre sostenuto anche Bertinotti. Ecco, questo significa sottrarsi ai vincoli.
Significa non accalorarsi sulle questioni dell'identità, ho capito bene?
Come sai io provengo dalla storia comunista. Una storia che credo abbia dato un grande contributo alla politica internazionale. Penso naturalmente alla lotta contro il nazi-fascismo, all'impulso offerto alle battaglie anticoloniali. Ma penso anche che abbia avuto una grande rilevanza il fatto che le conquiste sociali in Urss - vere o false che fossero - si sono poi tradotte in un incoraggiamento all'emancipazione del lavoro. Tutto questo lo so, come vedo perfettamente i risultati globali del comunismo dove ha assunto la forma del potere. Quali catastrofi ha provocato, quali sventure.
E allora?
In sintesi. Credo che tutto questo debba essere acquisito una volta per tutte. Dopodiché occorre tornare ad indagare la realtà, quella di oggi. Che ci racconta come, nonostante tutto, ci sia una fortissima domanda di beni comuni. C'è insomma la possibilità di riprendere un'idea, un progetto per il quale le sorti di questo pianeta, le condizioni di come ci si vive, le sue risorse, a cominciare da quelle idriche e ambientali, la sua convivenza pacifica può tornare a costituire un tessuto collettivo. Che tutto questo può tornare a diventare un'idea forte che appartiene a tutti.
Prima parlavi della necessità di liberarsi dai "vincoli". Ma anche il socialismo europeo può essere considerato tale, non trovi?
Beh, facendo un paragone chiunque capisce che la storia del socialismo europeo è stata meno dirigista, il suo dibattito interno più libero. Ma non mi sottraggo e ti dico che anche qui, ci sono grandi ombre. Che riguardano il passato, ma anche l'oggi. Riguardano soprattutto la sua insufficiente capacità innovativa. Sì, una nuova sinistra deve guardare oltre. Ti ripeto: oltre tutto ciò che è stato acquisito.
E che forma dovrà avere questa nuova sinistra italiana?
So che deve essere coraggiosa, generosa. Deve essere più aperta. Le forme? Possiamo anche imparare dall'esperienza delle primarie. Non per copiarla, certo, ma per imparare qualcosa. In ogni caso dobbiamo accettare il fatto che la voglia di contare, nella sinistra, si estende molto al di là di ciò che oggi organizzano i partiti. E' una voglia di contare che sta ricomparendo, dopo un anno e mezzo di delusioni, di frustrazioni generate da questo governo. Sta ricomparendo a dispetto di quei fenomeni tanto enfatizzati dai media...
Ti riferisci a Grillo?
Io so solo che l'antipolitica è dovuta soprattutto al comportamento della politica. Sicuramente ai suoi costi, sul quale è sacrosanto intervenire. Ma non solo su quello.
Da cosa dipende allora?
Ma ti rendi conto che sono 15 anni che si discute di come cambiare le regole, che poi significa quasi solo quale legge elettorale adottare? Tema importante, certo ma che ha fatto ininfluente tutto il resto.
Che c'è in questo "resto"?
C'è il tema del lavoro, della sua rappresentanza sociale ma anche della sua rappresentanza politica. In disparte sono finiti i temi del sapere, del'informazione, dell'ambiente.
Di questo si deve occupare la sinistra?
Ovvio. Mettendoci anche un tema sul quale c'è bisogno di ricominciare una discussione approfondita.
Quale?
Il tema del governo.
Che vuoi dire?
Ancora l'intervista di Giordano. Lui dice che il governo è una variabile, non l'obiettivo della politica. Non la penso così. L'azione dei partiti è sempre stata tesa a diventare "governo". Altrimenti si hanno risultati effimeri. Certo, la storia del Pci e di tutta la sinistra racconta che si può cambiare la società anche stando all'opposizione, ma l'obiettivo deve essere quello di trasformare il paese. Utilizzando anche, e non solo, il governo.
Dimmi la verità Berlinguer: pensi che i ritardi nella costruzione della "cosa rossa" dipendano anche da differenze di impostazione, come quella che hai appena descritto?
Diversità ci sono. Nulla però che non possa essere risolto in un confronto ampio, serio. Purtroppo i ritardi credo che dipendano anche da altro. Da inerzie, da sedimentazioni. Di chi si attarda a difendere la propria identità.
Ancora: tu avresti in mente il nome di un leader per questo partito della sinistra?
Domanda strana. Ma ti rispondo: Bertinotti sarebbe la persona più appropriata. Ma sono altrettanto convinto che lui stesso pensi ad un gruppo dirigente rinnovato. Anche dal punto di vista anagrafico.
L'ultima cosa: tu hai aderito al 20 ottobre, poi a sinistra c'è stata polemica su quella manifestazione. Che ne pensi?
Dico solo che mi auguro che la manifestazione di sabato sarà grande e partecipata. Anzi, sono convinto che sarà così.