lunedì 22 ottobre 2007

Repubblica 22.10.07
Ingrao: "La politica deve far sognare ma sarebbe stupido far cadere Prodi"
intervista di Antonello Caporale


Non sento i miei ex compagni, Veltroni, D'Alema. Sono molto presi. Ma di cinema ne capisco più di Walter
Sono un emotivo, non un freddo. Le mani che stringevano, che facevano una carezza, è stato commovente
In quella piazza ho visto un ultimo avviso al governo. Non a caso ho usato la frase: la lotta continua

ROMA - «La politica deve far sognare, io voglio sognare. Perciò insisto a dire che voglio la luna. E la luna deve pure sbrigarsi: tra qualche mese compirò 93 anni, dunque...». Pietro Ingrao abita nella stessa casa da più di quarant´anni. Gliela lasciò il padre. Gli stessi mobili, la identica luce, e i rumori della vicina tangenziale che taglia Roma ad est. «Prima abbiamo abitato in un appartamento della famiglia di mia moglie, i Lombardo Radice. Sopra di noi c´era quella di Indro Montanelli».
Vecchio, è il grande vecchio della sinistra italiana. E´ la figura più riverita, la più applaudita, e come è capitato sabato a Santa Maria Maggiore, baciata, perfino osannata da una folla veramente adorante, la bandiera rossa in una mano e l´altra a cercarlo, a toccarlo.
Presidente Ingrao.
«Ingrao, preferirei usasse solo il cognome. Mi sembra appropriato quando la confidenza è poca. Chi mi frequenta mi chiama col mio nome: Pietro».
La politica è fare, non sognare.
«Certo che lo so: la politica è anche fare, cambiare o solo confermare la realtà delle cose. Ma non mi basta. E non mi deve bastare. Insisto perciò: la politica deve al fondo saper sognare. E io voglio sognare».
Il manifesto di Rifondazione comunista che definiva il senso della marcia di sabato scorso recitava: "Un altro mondo è possibile. Non la luna".
«Insisto, voglio altro. Anzi aggiungo: sono lieto di aver detto che è giusto chiedere la luna, dare una spinta in quella direzione. Per raggiungerla naturalmente ricorro a tutte le strade e a tutti i compromessi possibili e legittimi».
E stare al governo con Prodi le appare un compromesso accettabile, soddisfacente?
«Prodi, Veltroni e gli altri sono dei moderati con cui la sinistra realizza degli accordi definiti, costruisce un rapporto. Io non ho avversato la decisione del mio partito, Rifondazione comunista, di governare insieme. E adesso non farei la stupidaggine di far cadere il governo».
C´è Berlusconi dietro l´angolo.
«E´ un reazionario. Anzi, un pessimo reazionario».
Dunque non desidera le urne.
«Però quella grande piazza che ho visto era composta di gente che protestava contro. Lottava per conquistare due grandi obiettivi: l´emancipazione dal lavoro e il raggiungimento della pace. Il tono complessivo della manifestazione mi è sembrato per la verità un po´ più di un ultimo avviso a Prodi. Io stesso ho usato una frase: la lotta continua. Continua».
È sempre piuttosto difficile per un comunista vedere cambiate le cose. Il corteo avanzava rassegnato, quasi perduto nella sua triste condizione.
«Non mi è proprio parso rassegnato. Anzi fiero, convinto nella lotta. Quanta gente, così tanta da stringerti fino a farti arrestare il passo. E le mani che ti cingevano, quella che ti sfiorava la fronte, l´altra che ti faceva una carezza, chi ti rivelava il suo nome: "Io sono..." Un modo di comunicare, di sentirsi vicini».
Commovente.
«Sono un emotivo non un freddo. E commovente assai è stato l´incontro».
Adesso si cerca un leader per guidare la Cosa rossa.
«Non tocca a me rispondere alla sua domanda; non spetta a me fare un nome. Ma non mi sembra la cosa più urgente a dire il vero».
Dopo la costituzione del Partito democratico, che lei inquadra nel fronte dei moderati...
«E´ così, sono dichiaratamente moderati».
D'Alema, Veltroni e gli altri diessini sono stati suoi compagni. Li ha visti crescere. La chiamano, si fanno ancora vivi?
«Sono presi dal loro lavoro, vanno a frugare il mondo nei luoghi più remoti. E io sono qui, seduto. Con alcuni si è creata una distanza di pensiero e di progetto. Se mi chiamassero risponderei volentieri, è sempre utile l´ascolto anche dai diversi da me».
I diversi. Per un non credente il diverso è un cattolico.
«Ho avuto diverse relazioni con alcuni esponenti di questo mondo. Relazioni umane e anche politiche. La più recente è quella con Alex Zanotelli. Ma anche con don Nasi, con Padre Balducci. Ricordo quando mi fu chiesto di parlare in una chiesa fiorentina. Io salii e dall´altare... Con Giorgio La Pira il dialogo fu vivo, intenso. A volte succedeva che La Pira telefonasse a casa e non mi trovasse. Mia moglie Laura chiedeva chi fosse. La Pira rispondeva: "Quello della città sul monte". Aveva paura di essere intercettato dalla polizia, e per prudenza (ero pur sempre un comunista e un non credente) dava la sua identità cifrata".
Questo Papa la incuriosisce?
«Non mi fa simpatia».
C'è la televisione qui in salotto. Buon per lei: la politica si è oramai trasferita nei talk show.
«Sì, guardo. Accendo la tv. Alcune volte però la spengo. Altre volte ancora, e capita assai spesso, cambio canale».
Cosa guarda?
«Il programma di Giuliano Ferrara, ma non sempre. Anche Gad Lerner, ma non sempre. Michele Santoro, di meno però. Lui di meno. Gli altri non mi sembrano di grande interesse. E quando cambio cerco un film».
Il suo grande amore.
«Sono convinto di intendermi più di cinema che di politica. Ricordi che ho frequentato per un anno l´istituto sperimentale di cinematografia».
Però Veltroni ne sa più di lei.
«Sbaglia: sono meglio di Veltroni».
Adesso c´è la festa del cinema a Roma, è un´occasione da non perdere.
«Devo ribadirle la mia età?».
Con chi parla di politica?
«Con Rossana Rossanda e Lucio Magri. Di recente gli incontri con Rossana si sono fatti più rari per il fatto che lei vive a Parigi. Ho sempre ascoltato le opinioni di Aldo Tortorella, Giuseppe Chiarante. Questi qua«.
Ma Bertinotti lo sente?
«Sì, chiama».
Lei esce ancora spesso di casa.
«Mi piace passeggiare, vado a piazza Bologna, lungo viale XXI Aprile, arrivo fino a villa Torlonia. Il luogo che mi è caro per via della mia passione cinematografica. Lì ho immaginato di fare il regista...».
L'accompagna l'autista?
«A piedi. Da quando ho smesso di fare il presidente della Camera non ho più avuto un´auto di servizio. Non ce n´è stato mai bisogno».
Irene Pivetti ce l'ha.
«Come?»
Ha goduto poco del privilegio di Stato.
«Rifiutai anche di tornare a fare il presidente della Camera e la cosa non fu affatto presa bene dal partito. Per due motivi. Il primo: non si capiva perché rifiutassi un incarico di tale prestigio. Il secondo: non si accettava che dicessi no al partito. Ugo Pecchioli fu molto aspro con me. Riteneva di censurare questa mancanza di disciplina: "Quando il partito dice, si fa"».
Venne Nilde Iotti dopo di lei.
«Fu la volta di Nilde».
Si ricorda sempre il rapporto sentimentale che la legò a Togliatti. Solo di lei si parla, eppure nel Palazzo avete vissuto in tanti una lunga vita.
«Cosa vuole chiedermi?».
Anche lei ha trascorso anni e anni lì dentro...
«Nel Palazzo, diciamo così, di certo le simpatie non sono mancate. Ma ho vissuto interamente e intensamente il rapporto con mia moglie Laura».
È così.
«E sono rimasto qua».

Repubblica 22.10.07
Diliberto: ora cambiare sul welfare
Le riforme oggi in aula alla Camera. Casini: "Veltroni vuole le elezioni"
Al Senato in arrivo gli emendamenti di Manzione per il dimezzamento dei ministri
di Carmelo Lopapa


ROMA - La riforma costituzionale alla prova del nove alla Camera, da oggi pomeriggio, ma il clima in Parlamento non è dei migliori. Il dialogo non decolla, complice il botta e risposta tra maggioranza e centrodestra sulla sopravvivenza del governo Prodi e la divergenza sulla legge elettorale. Come se non bastasse, all´indomani del successo della «piazza rossa» di sabato a Roma, a turbare i sonni del premier è l´uscita del segretario del Pdci Oliviero Diliberto: «Sono molto contento che Prodi ci abbia sempre ascoltato e continui ad ascoltarci. Ci aspettiamo però che ora il premier passi all´azione per modificare il protocollo sul welfare».
La riforma costituzionale che punta a smantellare il bipolarismo perfetto, ridurre i parlamentari, creare il Senato federale, entra oggi nel vivo dopo il via libera in commissione con l´astensione del centrodestra. Ancora ieri, il ministro delle Riforma Vannino Chiti invitava «quanti nell´opposizione condividano queste scelte, ad assumersi la responsabilità politica, senza seguire per miopi tatticismi una linea di sterile contrapposizione». Il riferimento, neanche a dirlo, è a Berlusconi che scommette sulla crisi a breve. Analogo invito aveva rivolto agli avversari il numero due del Pd, Dario Franceschini, tendendo la mano (in un´intervista al "Sole 24ore") per un sistema elettorale tedesco corretto, con premio di maggioranza e sbarramento. Sarebbe «un mega pasticcio» gli ribatte subito Pier Ferdinando Casini. L´Udc non transige sul modello tedesco puro. Anche Casini scommette sulla crisi, ma a far cadere Prodi secondo lui non saranno le spallate di Berlusconi, bensì Veltroni, «che vuole il voto perché pensa di essere competitivo e poi sa che se arrivasse una sconfitta sarebbe addebitata a Prodi». Quanto alla Cdl, lui si tira fuori anche dalla federazione, come fa sapere a Liberal questa settimana in edicola: lì si deciderebbe a maggioranza e «i partiti minori perderebbero ogni sovranità». Bonaiuti per conto di Berlusconi si limita a rinnovare a Prodi, dopo la manifestazione di sabato, l´invito a «gettare la spugna». Se dovesse accadere, il leghista Maroni non esclude un «un accordo prima di andare al voto che, in due settimane, consenta di fare la legge elettorale».
Ma che si debba andare al voto, in caso di crisi, lo sostengono anche i ministri Damiano e Bindi. Riduzione dei ministeri possibile, secondo il ministro della Famiglia, ma dopo la Finanziaria. E proprio a un dimezzamento dell´esecutivo puntano gli emendamenti alla Finanziaria che Manzione (Unione democratica) annuncia di voler riproporre in aula al Senato, dopo che sono stati giudicati inammissibili in commissione. «Prodi mi ha chiamato sabato sera alle 11 - rivela - ci incontreremo e valuterà le mie proposte che non sono contro di lui». Sarà. Intanto, il milione in piazza di sabato ha dato forza alle istanze dei Comunisti italiani che invocano un ritocco al welfare. Ma adesso anche i Verdi che pure non erano in corteo, col sottosegretario Cento e col capogruppo Bonelli, caldeggiano «modifiche alla riforma».

l'Unità 22.10.07
Gennaro Migliore. Il capogruppo di Rifondazione alla Camera è sicuro: un solo simbolo alle prossime elezioni
«Quel milione in piazza ci dice: unitevi»
di Eduardo Di Blasi


«È stata una manifestazione fondativa perché guardava con grande serenità e determinazione al cambiamento possibile, non contro il governo ma per l’attuazione del programma». Gennaro Migliore, capogruppo del Prc alla Camera, ritiene che la sinistra debba cogliere lo slancio arrivato dalla piazza di sabato. «L’altro motivo per cui questa manifestazione è stata fondativa è sulla domanda e sul rilancio di un soggetto unitario della sinistra che a me pare a questo punto assolutamente maturo».
Quanto unitario? Cioè a quali forze si riferisce?
«Il più unitario possibile. Talmente unitario che non si possa più tornare indietro».
Ma secondo lei la piazza vi ha detto «unitevi con il Pdci» o «scioglietevi in un progetto più ampio»?
«Loro ci dicono solo “unitevi”. La sofisticazione del “come” unirsi riguarda spesso più gli apparati dei partiti che le persone che vorrebbero essere più unitariamente rappresentate».
Diliberto afferma: chi non era in piazza ha sbagliato.
«C’erano tanti, quindi secondo me da questa molteplicità di presenze tutti trarranno la stessa indicazione a procedere nell’unificazione della sinistra. A me questo basta».
Mercoledì potrebbe esserci un primo incontro tra Giordano, Mussi, Diliberto e Pecoraro Scanio...
«È positivo che abbiano deciso di riunirsi subito dopo la manifestazione. Peraltro sarebbe molto sbagliato cercare di capitalizzare sul breve e non sul lungo periodo questo popolo. Credo che dire oggi: “Abbiamo vinto noi, hanno perso gli altri” significa proprio smarrire quella responsabilità che ti hanno consegnato queste centinaia di migliaia di persone».
L’unione a sinistra è un progetto di cui si parla da circa un anno. Secondo lei si è proceduti con una velocità adeguata?
«Il processo che ha portato alla formazione del Pd nasce nel 1996, quindi 11 anni fa. Noi siamo neanche a 11 mesi e credo che entro l’anno finiremo il primo passo che prelude a questa unificazione, la convocazione degli stati generali: decideremo molto probabilmente di presentarci alle elezioni prossime con un solo simbolo. Credo che da ieri si impongano una procedura e una road map di modo da raggiungere l’obiettivo in tempi rapidi».
Una parte di quella piazza segnalava la difficoltà della sinistra, che è nella maggioranza ed è nel governo, a farsi sentire...
«Non abbiamo avuto solo dei “no”. Ma è evidente che dopo quello che è successo ieri ci sarà anche un maggior impatto concreto nell’azione parlamentare, e penso si vedrà già dalla finanziaria».
In che modo?
«Sul protocollo del welfare. Vedremo l’approvazione di punti sollecitati da noi».
La finanziaria sarà per alcuni l’ultimo campo di battaglia per questo governo.
«Alcuni rappresentanti del centro stanno facendo il conto alla rovescia. È che non hanno il coraggio di palesare le loro intenzioni. Chi sta già con un piede nella coalizione di Berlusconi è evidente che non teme che torni Berlusconi. Per uscire da questa situazione dobbiamo recuperare il consenso popolare. Perché è da quando il governo è andato sotto nei sondaggi che ci sono stati maggiori tentazioni».
Come fare per rilanciare la credibilità di questo esecutivo?
«Prima di tutto ricostituendo un rapporto di lealtà e di rispetto delle scelte prese. Sono rimasto sconcertato da episodi di Di Pietro e Mastella. Il primo fustigatore dei costumi che poi scopro essere amministratore unico del proprio partito e quindi gestore unico di milioni di euro. Il secondo troppo disinvolto».
Secondo lei Mastella dovrebbe dimettersi?
«No, non si tratta di rassegnare le dimissioni. Io penso che si dovrebbe astenere dall’intervenire direttamente nelle procedure giudiziarie in corso».

Corriere della Sera 22.10.07
Sinistra, via al pressing dopo il milione «Cambiare su welfare, Biagi e rendite»
Giordano: solo Veltroni ha colto in modo serio l'importanza del corteo. Romano? Sia garante
di Monica Guerzoni


ROMA — Non sarà la luna quel che la sinistra, per dirla con Pietro Ingrao, chiede a Prodi sull'onda della rivoluzione rossa di sabato. Non sarà la luna, ma vista la fragilità della maggioranza ci somiglia molto: tassazione delle rendite, revisione del protocollo sul welfare, modifiche alla legge 30, reddito di cittadinanza per i giovani e magari anche un esecutivo più leggero, sfrondato di qualche ministro (e vicepremier) del Pd. Franco Giordano ha portato in piazza un milione di cuori pulsanti a sinistra e ora sta ben attento a non usare toni rivendicativi. Non minaccia, non lancia ultimatum al capo del governo. Però avverte che «con quella piazza bisogna fare i conti», mostra la chiara intenzione di far pesare i numeri del Prc e tende vistosamente la mano a Walter Veltroni, il primo ad accogliere come «un importante fatto democratico» la manifestazione di Roma.
«Noi la diga del governo Prodi? Non l'ho detto io ma è passata la nostra linea, siamo riusciti a raccogliere la critica molto forte della società italiana sul piano della precarietà e la delusione verso un governo che si lascia permeare da interessi estranei al programma elettorale». E adesso? «Si va avanti, ma sulla spinta di massa e nel rispetto del programma — sfida i riformisti Giordano —. Non voglio infilarmi nell'imbuto della rivendicazione spicciola. È vero che quella piazza non può chiedere la luna, però ai riformisti dico che noi interpretiamo un pezzo di società grande. Altro che conservatori, noi siamo l'innovazione. E ora il governo deve darsi una mossa. Il protocollo va migliorato».
Ma è il plauso a Veltroni il passaggio delle riflessioni del segretario che più potrebbe impensierire Prodi, è l'invito di Giordano ai «più realisti del re» a fare attenzione, «perché Veltroni ha detto che quella piazza merita il massimo del rispetto ». La sinistra c'è e guarda al futuro, s'inorgoglisce il leader del Prc e, magari senza malizia, sottolinea: «La nostra sfida parte da qui e non a caso il solo Veltroni lo ha colto in maniera seria ». E Prodi, allora? «Può e deve svolgere non il ruolo del leader in coabitazione con Veltroni, ma quello del garante». Il pacchetto di richieste che Giordano avanza dunque non è leggero, include emendamenti alla Finanziaria, migliorie al protocollo welfare «non in contrapposizione coi sindacati», interventi «drastici» contro la precarietà «o il governo non ce la fa», l'armonizzazione delle rendite all'Europa e un salario garantito per i giovani. Quanto a dimezzare i ministri del Pd, il segretario non chiude: «Una semplificazione sarebbe positiva. D'altronde il Prc ha un ministro solo...».
L'unico ministro di Rifondazione, Paolo Ferrero — che per inciso non è affatto convinto di un pacchetto sicurezza «troppo puntato sull'ordine pubblico» — si mostra piuttosto seccato con Cesare Damiano. Il responsabile del Lavoro ha intimato alla sinistra di «smetterla di utilizzare il programma come un simbolo» e lui, Ferrero, gli ricorda che quel tomo di 281 pagine «è un patto con gli elettori e va onorato». Lo dicono tanti, a sinistra. Giordano per primo rimprovera che «le parole di Damiano sono impenetrabili e fuori tono, il ministro non può tenere quell'atteggiamento».
Il sottosegretario Alfonso Gianni ricorda a Damiano che «il punto programmatico è il superamento della legge 30» e il capogruppo al Senato, Giovanni Russo Spena, include nell'attacco pure Mastella: «Mi fanno impazzire quelli che dicono "non si cambi una virgola al protocollo o votiamo contro". Lo staff leasing va abolito e il contratto a termine non può durare oltre i 36 mesi». Prodi non ignori la piazza né il monito del Papa, è il messaggio, si guardi bene dal «siglare un accordo con Dini» e non scarti a priori un rimpasto di governo, mossa che il capogruppo nella giungla di Palazzo Madama suggerisce per recuperare Bordon, Manzione e gli altri dissidenti dell'Ulivo: «Bastano 15 ministri e 50 sottosegretari».
Che i leader della «rivelazione d'ottobre», per dirla con il titolo del Manifesto, non puntino solo a cambiare le norme sul welfare lo ammette anche il segretario della Fiom, Gianni Rinaldini: «Migliorare il protocollo non basta a risolvere il problema, la manifestazione ha chiesto una svolta sociale a partire dalla precarietà». E ben più aspri sono i toni di Giorgio Cremaschi. Il «duro» della Fiom non ha visto in corteo neppure l'ombra di un sostegno a Prodi, non ha visto quelle «primarie» della «cosa rossa» festeggiate da Giordano e incalza: invece di fissare alla fine dell'anno costituente e stati generali della sinistra unita, il segretario del Prc dica cosa farà su welfare e legge 30. «Non parlarne è cattiva politica. E portare un milione di persone in piazza per puntellare il governo è una corbelleria ».

Corriere della Sera 22.10.07
Diliberto e la Cosa rossa «Non sciolgo il Pdci e falce e martello restano»
di Gianna Fregonara


ROMA — Soddisfatto per la manifestazione «magnificamente riuscita». Rivendicativo con il governo: «Abbiamo reso Prodi più forte, ma adesso deve correggere le norme sulla precarietà contenute nell'accordo sul welfare». Critico con chi non c'era, cioè Fabio Mussi e la sua Sinistra democratica: «È stato un errore, se vogliamo costruire l'unità della sinistra si deve iniziare dalle iniziative di lotta. Ma se qualcuno si sfila alla prima occasione...». Deciso ad andare oltre: «Da oggi dobbiamo essere testardi nel cercare di ricostituire le ragioni dell'unità. Se l'avessimo fatto prima, magari evitando di lasciarmi solo quando chiedo il ritiro delle truppe dall'Afghanistan, saremmo già a buon punto».
Oliviero Diliberto, all'indomani del corteo anti-precarietà, ha riunito il comitato centrale del Pdci per discutere della Cosa rossa che verrà e del partito dei comunisti che non si scioglierà. «Ci mancherebbe. I partiti non si sciolgono, di certo non il partito dei Comunisti italiani. Se ci sarà, la Cosa rossa sarà una confederazione alla quale aderiranno i partiti esistenti e tutti coloro che non sono organizzati anche se condividono i nostri stessi valori». E se sarà, pensa Diliberto, sarà molto rossa: «Io sono rimasto comunista dopo l'89 non sono disponibile a fare la Bolognina con quindici anni di ritardo. Senza contare che per noi alle ultime elezioni abbiamo avuto 900 mila persone, non sono tantissime ma neanche poche». E infatti il Pdci, cioè Diliberto, sta comprando una nuova sede e a giorni farà partire il quotidiano online del partito diretto da Nicola Tranfaglia.
Insomma sta intanto pensando a consolidarsi e non di fondersi. E di certo Diliberto non è disponibile a cedere le insegne, cioè la Falce-e-martello: «La Confederazione sarà di sinistra, senza altri aggettivi che sono escludenti, sono saracinesche. Ma io non rinuncio ai simboli del lavoro. E anche la confederazione dovrebbe averli nel suo simbolo». Addirittura falce-e-martello? «Si vedrà, di sicuro i simboli del lavoro: so che circolano alcune ipotesi in questi giorni che sono inaccettabili». Simboli storici e niente pasticci neppure sulla forma del nuovo soggetto politico: «Se si andasse al voto in primavera, cosa che non auspico, la sinistra dovrà essere comunque unita. Se i tempi saranno più lunghi potremo fare una cosa diversa dal cartello elettorale». Certo la Cosa rossa immaginata dal segretario del Pdci rischia di non piacere ai Verdi e anche a quel mondo che non ama il Pd ma trova nostalgico il comunismo: «Ma perché? Ne discuteremo, del resto eravamo in piazza tutti insieme sabato». Ma ognuno con le proprie bandiere. A questo proposito Diliberto già sente l'ingombro di Rifondazione: «Quando leggo che il mio amico Franco Giordano dice che Rifondazione promuoverà la costituente della sinistra, non è un buon modo di iniziare. Ma è un vecchio vizio della sinistra. Le cose si fanno insieme». Per non parlare dei ballon d'essai sul nome di Nichi Vendola come possibile leader della Cosa: «Non entro nel merito della persona, ma trovo surreale la discussione sulla leadership quando non c'è il partito. Il Pd ha fatto così, ma noi vogliamo fare l'opposto». Un'ultima puntura di spillo agli «amici» di Rifondazione: «Non ci sarà un tesseramento alla Cosa rossa, ogni partito porterà i suoi tesserati. Più chi ci vorrà stare».

l'Unità 22.10.07
«È vero, la precarietà è un problema»
Prodi: «I giovani devono poter programmarsi il futuro». Per il governo la piazza rossa non è un intralcio


«È VERO che la precarietà è un grande problema. È inutile che noi giriamo intorno al fatto che è essenziale che un giovane ha bisogno di sapere che in un certo momento della sua vita può programmare il futuro. E la precarietà lo rende molto difficile». A par-
lare è il Presidente del Consiglio Romano Prodi, che vorrebbe riferirsi alle parole pronunciate dal Papa pochi giorni fa, alla settimana sociale della Cei (tanto che a chi gli chiede della giornata appena trascorsa risponde: «Oggi non parliamo della manifestazione di ieri, parliamo di oggi»). Eppure, il giorno dopo la manifestazione della sinistra che ha portato in piazza le istanze di precari, pacifisti, immigrati, elettori dell’Unione, suonano bene anche alle orecchie dei partiti che quella manifestazione hanno appoggiato. Il segretario del Pdci Oliviero Diliberto rilancia: «Sono molto contento che Prodi ci abbia sempre ascoltati. Ora bisogna modificare il protocollo sul welfare per dire “no” alla precarietà».
È opinione quasi comune, nella maggioranza e nel governo, che la piazza di sabato non sia stata un impaccio per l’esecutivo. Lo dice anche il ministro del Lavoro Cesare Damiano, che mette in fila gli eventi degli ultimi, intensi, dieci giorni, constatando come il governo non ne sia uscito indebolito: «Il referendum sindacale che ha approvato il protocollo sul welfare con l’80% dei consensi; la partecipazione al voto per il segretario del Pd che ha visto un’altissima affluenza di cittadini e la giornata di sabato che ha voluto sostenere le ragioni del governo». E anche Rosy Bindi, nell’indicare le diverse difficoltà che certamente permangono, annota: «Sono tante le possibili micce di una crisi di governo. Tra queste c’è lo scontro sull’inchiesta di Catanzaro, ma non la manifestazione della sinistra sul welfare». Chi è scettico è il deputato dell’Ulivo Giuseppe Caldarola: «La piazza rossa è un bel pezzo importante dell’Italia, ma la somma di Prodi più la piazza rossa fa sconfitta sicura. Il tema non è cambiato: come togliere voti a Berlusconi? Né piazze, né magistrati». Si fa sentire anche il segretario dello Sdi Enrico Boselli che propone: «Prodi deve fermare il gioco al massacro e verificare la possibilità di continuare con un nuovo programma e un nuovo governo o in caso contrario è meglio andare alle elezioni anticipate».
Quest’ultima idea viene riproposta, a destra come a sinistra, forse anche per tagliare i ponti ad eventuali imboscate di singoli.
Sempre Bindi indica: «Certo che ci sono rischi per l’esecutivo, ma se cade il governo si va a votare con questa legge. Nessuno si illuda che ci siano le condizioni per fare altro». E Mastella: «Laddove non si possa tenere in piedi la maggioranza, io non sono per governi tecnici di larghe o strette intese: si vada al voto». Dello stesso avviso il leghista Maroni: «Se il governo cade e non ha più una maggioranza si deve andare al voto per forza» ma se «c’è un accordo in questo senso in due settimane si può fare la legge elettorale, purché questo non sia un pretesto per non andare al voto e mantenere in piedi un governo già morto». E mentre Dario Franceschini prova a stanare Forza Italia sul tema delle riforme, il ministro per i Rapporti con il Parlamento Vannino Chiti annota su Berlusconi: «La sua strategia, se di strategia si può parlare, da 16 mesi, cioè dall’inizio della legislatura, è quella di sognare spallate e cadute del governo, regolarmente smentito dai fatti».

Corriere della Sera 22.10.07
Alleanze trasversali e legge elettorale
Veltroni e Fini: la strana coppia
di Angelo Panebianco


Sta forse per formarsi un'altra delle «strane coppie » che la politica italiana di tanto in tanto conosce. Nei prossimi mesi, probabilmente, assisteremo a continui giochi di sponda e convergenze fra il neosegretario del Pd Walter Veltroni e il leader di An Gianfranco Fini. Il punto di incontro sarà la legge elettorale. Veltroni e Fini hanno un interesse in comune. Entrambi necessitano di una buona riforma elettorale che premi le grandi aggregazioni (i grandi partiti), e dovranno faticare per imporla ai rispettivi partner. In mancanza di ciò, a tutti e due conviene il referendum e il sistema elettorale che ne scaturirebbe.
Sia Fini che Veltroni avrebbero tutto da perdere se passasse la riforma che, al momento, incontra i favori di tanti (Udc, Udeur, Rifondazione e molti altri): la proporzionale con lo sbarramento del cinque per cento, il sistema pseudo-tedesco. E' lecito chiamarlo pseudo-tedesco perché, a differenza di quanto accade in Germania, lo sbarramento del cinque per cento non garantirebbe la fine della frammentazione partitica. I nostri regolamenti parlamentari, infatti, rendono facili le manovre di aggiramento: una piccola formazione può entrare in un cartello elettorale e, superata la soglia, dare vita a un gruppo parlamentare autonomo. In più, lo pseudo-tedesco avrebbe l'effetto di disincentivare le grandi aggregazioni. Né Fini né Veltroni possono permetterselo.
Nel caso di Fini la ragione è semplice: egli ha da tempo compreso che An, da sola, non può più condurlo da nessuna parte. Ha una vitale necessità di fondere An con Forza Italia, di dare vita a un grande partito del centrodestra nel quale partecipare, a tempo debito, alla gara per la successione a Berlusconi. Lo pseudo-tedesco non serve allo scopo. Come la maggior parte dei sistemi proporzionali esso disincentiva, anziché favorire, le grandi aggregazioni.
Ma anche Veltroni ha interesse ad impedire il passaggio dello pseudo-tedesco. Veltroni deve oggi lavorare al consolidamento di un partito nato dalla aggregazione fra Ds e Margherita. Ha bisogno di un sistema elettorale adeguato. Con lo pseudo-tedesco il consolidamento del Partito democratico sarebbe a rischio. In primo luogo, la giusta ambizione di dare vita a un partito a vocazione maggioritaria (in grado cioè di vincere le elezioni e governare da solo) verrebbe frustrata. Non si potrebbe mai uscire dal gioco delle coalizioni fra partiti.
In secondo luogo, lo pseudo-tedesco favorirebbe la nascita di una aggregazione centrista (l'attuale Udc più altri gruppi), con pochi voti ma con una rendita di posizione, in grado di diventare perno di qualunque combinazione di governo. Se una simile aggregazione centrista si formasse, la pressione sul neonato Pd diventerebbe fortissima. L'aggregazione centrista, alla lunga, eserciterebbe un effetto-calamita su settori del Pd (su una parte almeno degli ex popolari).
Veltroni e Fini hanno un diverso (e comune) interesse. A favore di una riforma elettorale che premi le grandi aggregazioni. Senza entrare in dettagli tecnici notiamo che esistono vari sistemi elettorali, non solo maggioritari, che possono favorire quel risultato: uno di essi è il sistema spagnolo (proporzionale ma con piccoli collegi) di cui Veltroni ha già cominciato a parlare. Quel sistema avrebbe anche il vantaggio di non dispiacere alla Lega: perché favorisce i grandi partiti nazionali ma anche i piccoli partiti a forte concentrazione regionale. Poiché l'affermazione di partiti a vocazione maggioritaria ha numerosi e agguerriti nemici in Parlamento, coloro che la vogliono non potranno far altro, nei prossimi mesi, che lavorare spalla a spalla.

l'Unità 22.10.07
L’intelligenza non si può misurare. Perché non esiste
di Pietro Greco


IL NOBEL James Watson ha dichiarato che i neri sono meno intelligenti. Un’affermazione scientificamente falsa. Le capacità della nostra mente sono variabili e dinamiche e, soprattutto, non sono determinate dai geni

James Watson l’ha fatta grossa. Il premio Nobel per la medicina 1962, l’uomo che con James Crick ha scoperto la struttura a doppia elica del Dna ponendo così una delle pietre miliari nella storia della biologia, ha dichiarato la scorsa settimana al Sunday Times che i neri di origine africana hanno per costituzione genetica un’intelligenza inferiore a quella degli altri uomini.
L’affermazione è semplicemente e puramente falsa. Come, non senza imbarazzo, lo stesso James Watson ha poi riconosciuto. Per tre motivi diversi. Tutti corredati di solidissime prove scientifiche.
Il primo motivo è che non esiste qualcosa che possiamo definire «intelligenza»; e, men che meno, questo qualcosa può essere misurato con precisione assoluta. Già all’inizio degli anni ‘80 dello scorso secolo Howard Gardner, cognitivista, faceva notare che l’intelligenza ha più dimensioni e che nell’uomo se ne possono individuare almeno sette forme diverse: l’intelligenza logico-matematica, linguistica, musicale, spaziale, cinestetico o procedurale, intrapersonale e interpersonale.
Ma l’elenco potrebbe essere largamente incompleto. Ciascun uomo le ha tutte queste dimensioni dell’intelligenza, anche se con gradazioni diverse. C’è chi ha una spiccata intelligenza musicale e che si muove nello spazio con spiccata abilità, c’è chi ha una intelligenza matematica geniale e, però, ha una scarsa intelligenza interpersonale. La variabilità dell’intelligenza umana è enorme. Ed è dinamica. Varia nel tempo e nei contesti. In altri termini io posso esprimere, per esempio, una notevole intelligenza musicale in certi contesti e poi mostrare una scarsa intelligenza musicale in altri contesti o nel medesimo contesto, in altro tempo. Insomma, come sostiene il filosofo Paul M. Churchland, non esiste l’intelligenza, ma piuttosto un vettore intelligenza, una traiettoria che si muove nello spazio delle forme d’intelligenza, nello spazio geometrico e nel tempo.
Il secondo motivo è che questa traiettoria nelle diverse dimensioni e forme dell’intelligenza non è e non può essere determinata geneticamente, ma è largamente influenzata dall’ambiente. La genetica, naturalmente, può limitare le traiettorie, ma non può certo determinarle. La genetica può predisporre allo sviluppo di una marcata intelligenza musicale o di una brillante intelligenza interpersonale. Ma se non ho maestri che mi insegnano a suonare e non ho strumenti per suonare la mia intelligenza musicale potenziale non potrà mai esprimersi. È ovvio, dunque, che il vettore intelligenza è un processo storico che segue traiettorie storicamente e non geneticamente determinate. D’altra parte, se il Dna determinasse rigidamente il comportamento del fenotipo umano, sarebbe davvero poco intelligente, perché gli negherebbe quella flessibilità che è il vero segreto per adattarsi e vivere in un ambiente che si modifica in continuazione e in maniera non prevedibile.
Il terzo motivo per cui James Watson ha torto è che proprio la genetica ha dimostrato che per la specie umana non è possibile parlare di razze. Non esistono i neri africani (né i bianchi teutonici): non in termini genetici, almeno. In primo luogo perché, come sottolineava Charles Darwin già nel 1871, tra gli uomini i vari gruppi sono completamente interfertili, c’è uno scambio continuo di geni e così ciascun gruppo «confluisce gradualmente nell’altro» impedendo che si formino razze: ovvero gruppi con un preciso e ben determinato profilo genetico. D’altra parte proprio gli studi genetici - tra cui spiccano quelli di Luigi Luca Cavalli Sforza - hanno dimostrato che la variabilità genetica interna a ogni singolo gruppo umano (per esempio tra le persone con la pelle nera che vivono in Africa) è maggiore delle variazioni medie tra ogni gruppo individuato. Due persone con la pelle nera dell’Africa sub-sahariana hanno molta più probabilità di differire geneticamente tra di loro di quanto non differiscano un «nero medio» e uno «scandinavo medio». In pratica questo significa che possiamo trovare tanto tra gli abitanti dell’Africa sub-sahariana quanto tra gli abitanti della Scandinavia persone dotate di grande intelligenza computazionale e persone che hanno difficoltà a far di conto; persone dotate di grande orecchio musicale e persone stonate. Persone che hanno un’elevata possibilità di vincere un Nobel e persone che non ne hanno. Se dunque la maggior parte dei premi Nobel viene dall’Europa o dall’America del Nord è perché negli ultimi cento anni le persone intelligenti hanno trovato in Europa e in Nord America l’ambiente culturalmente ed economicamente più adatto per portare avanti le ricerche premiate a Stoccolma.
D’altra parte un Nobel, anche quando è meritatissimo, non è una garanzia contro le sciocchezze. Come dimostrano proprio le frasi infelici e infondate di James Watson.

...e le razze umane sono un’invenzione
La genetica ha consentito di chiarire tre punti rispetto alla variabilità tra gli individui e all'esistenza delle razze umane:
1. Se si considerano i singoli geni, essi sono sempre presenti in quasi tutte le popolazioni umane, anche se con frequenza diversa. In pratica, per la frequenza dei singoli geni, tutte le popolazioni umane si sovrappongono. E nessun gene può essere utilizzato per distinguere una popolazione umana dall'altra. Le popolazioni umane sono geneticamente molto simili le une alle altre.
2. C'è invece una grande variabilità genetica tra gli individui, tra gli uomini. Nessuno di noi porta i medesimi geni di un altro uomo. Tuttavia la gran parte di questa variabilità è anteriore alla formazione delle diverse popolazioni ed è probabilmente persino anteriore alla formazione della specie sapiens.
3. La variabilità genetica all'interno delle singole popolazioni, per esempio tra gli europei o gli italiani, è elevatissima. Mentre le differenze genetiche tra i tipi mediani delle diverse popolazioni, tra gli italiani e gli etiopi, per esempio, sono modeste e pressocché irrilevanti rispetto alla variabilità interna alle singole popolazioni.
Studiando la variabilità genetica tra 16 diverse popolazioni dei cinque continenti si è constatato che: l'85% è già presente nelle singole popolazioni, il 5% tra popolazioni del medesimo continente e il 10% si verifica tra popolazioni di diversi continenti.

l'Unità 22.10.07
Da Jung alla scrittura, dialogo tra i due Trevi
di Paolo di Paolo


MARIO & EMANUELE a colloquio in Invasioni controllate. Il figlio, critico, intervista il genitore, psicoanalista e filosofo. Che racconta di Ernst Bernhard e dell’impresa vera: diventare se stessi dimenticando i padri

Deve avere una strana forma, la confidenza, per consentire a un figlio di intervistare il proprio padre. O bisogna a un certo punto dimenticarsela, tentando di instaurare - almeno per il tempo della conversazione - una fratellanza, una cuginanza. Così, leggendo Invasioni controllate ci si domanda non solo come abbia fatto Emanuele Trevi a convincere il padre Mario, di per sé già timido, a stare al gioco delle domande, ma soprattutto come sia riuscito a disinnescare il suo imbarazzo di figlio. Pagina dopo pagina, il lettore sente che, di là dal racconto biografico - la storia di un uomo nato nel 1924, diventato allievo di Ernst Bernhard e quindi psicoanalista tra i più noti in Italia - c’è una volontà di rintracciare nel proprio destino di figli qualcosa che ci riconduce per necessità a quello dei padri. «Qualcosa» di oscuro, colloso, cui opportunamente ci si rivolta, e a cui però infine si torna. Invasioni controllate è anche questo tornare. Trevi padre e figlio discutono il problema tenendolo a distanza, analizzandone ragioni e contorni, un po’ come due cugini avventurosi in un laboratorio scientifico. «Mi sembra che la cosa su cui Bernhard insisteva di più…», introduce il tema il più piccolo. E il più grande spiega: «C’è qualcosa di cui bisogna liberarsi, lo possiamo chiamare un inconscio familiare, il sedimento dell’ereditarietà, ciò che impedisce lo sviluppo pieno dell’individuo dotato della sua libertà. Si può dire che la radice più profonda della sofferenza è questa difficoltà ad affermare un destino personale». Finché si è cugini, si può dire tutto, si può dire bene: sulla sofferenza, sulle paure, perfino sull’amore. Ma quando si torna padri e figli, le cose si fanno più complicate. Anche così, in questo libro, le pagine si riscaldano: quando al largo della conversazione più limpida e fluida si incrocia qualche grumo d’ombra (e «ombra» è una parola essenziale nella ricerca di Mario Trevi), quando insomma la strada si fa più «insicura». Quando si ha l’impressione che entrambi gli interlocutori stiano facendo i conti, quasi impercettibilmente, ciascuno con il proprio senso di inadeguatezza.
Trevi padre e figlio osservano e si osservano. «Osservare» è una parola che piaceva a Derrida: se somiglia «all’attenzione di uno sguardo che sa anche trattenere, al raccoglimento della memoria che conserva o non si sbilancia». Qui accade tutto questo, in un percorso fatto di approssimazioni, che è anche un atto di fiducia nelle possibilità del dialogo. Una conversazione ben condotta, con fiducia e disponibilità, che ci fa percepire - a tratti, forse, più e meglio di un romanzo - come ogni essere umano sia una riserva, un deposito di senso e realtà, se lo si sa interrogare, se egli si dispone a essere interrogato. Un po’ di maieutica all’inverso, un po’ di abbandono (alla casualità); un po’ di ostinazione, un po’ di azzardo: è così che, dall’ombra, vengono a galla pezzi di vita, sentimenti tradotti in idee, e viceversa. La casa dei nonni, per Mario, «un luogo in qualche modo magico, e pieno di senso», Peter Pan «Tra-il-Qua-e-il-Là», dottor Jekyll e l’avambraccio peloso di Hyde, una coperta ruvida e caldissima degli anni della guerra. E poi certo, gli amici, i libri, Roma, l’incontro con il dottor Bernhard: «Era un uomo che vestiva molto semplicemente, non lo ricordo mai in cravatta, parlava bene italiano... Metteva molto a proprio agio. Lavorava in una grande stanza, rivestita di librerie. Più tardi scoprii che lì ci dormiva anche». E ancora: i sogni, l’ombra e l’infelicità, il mistero della relazione tra analista e paziente, il mistero di ogni relazione in genere.
Invasioni controllate è un piccolo libro singolare e affascinante: quasi il racconto di una prova da superare, la cronaca in diretta di come la si supera, mentre la si supera: la prova di un incontro difficile tra un padre e un figlio - e di qualunque incontro umano, che facile non è mai.

Aprile on line 20.10.07
La sinistra che cammina
di Emiliano Sbaraglia


Gli organizzatori parlano di un milione di persone, altri diranno sicuramente meno. Di certo, se si attendeva una risposta del popolo dei lavoratori e dei precari italiani, questa c'è stata. Forte e consapevole. Ora le risposte si attendono dalla politica

La guerra delle cifre come al solito non risparmierà neanche questa manifestazione. Il dato certo, però, è che quando alle 16 e 30 la testa del corteo arriva a piazza S.Giovanni, senza leader né capopopolo, e dove musicisti e tecnici del suono sono ancora intenti a calibrare i volumi del concerto che seguirà, in piazza della Repubblica c'è chi ancora deve partire.
Sono i giovani del Movimento, l'Arci Gay, e molti altri ancora, che con il loro sound-system sparato al massimo sanno bene come ingannare l'attesa.

Percorrendo per intero il lungo serpentone che si snoda per le strade della capitale, quello che più colpisce è la presenza di un silenzio surreale quanto assordante, indice di una consapevolezza collettiva, della delicatezza del momento politico e sociale che contraddistingue la sinistra italiana.

Un ragazzino porta sulla spalla la bandiera con il simbolo di Rifondazione comunista.
"Quanti anni hai?" - "Tredici", ci risponde. - "E come ti chiami?" - "Benito...". - "Benito? E tuo padre dov'è?" - "Eccolo". Impossibile non chiedere delucidazioni.
Giuseppe, 52 anni, ci spiega che "Benito era il nome di mio padre, e io l'ho voluto dare a mio figlio... Non si preoccupi, in tanti mi chiedono spiegazioni al circolo..." - "Quale circolo?" - "Quello di Rifondazione a Benevento". - "Che ne pensa, Giuseppe, di questa manifestazione?" - "Che è andata fin troppo bene..." - " In che senso?" - "Nel senso che c'è più gente di quanto ci si potesse aspettare, e che molta di questa gente mi pare sin troppo silenziosa, per certi aspetti quasi rassegnata...". Benito ascolta in silenzio. Gli chiediamo: "Tu lo sai perché sei venuto qui, e perché c'è tutta questa gente?" - "Perché c'è poco lavoro... Io poi queste cose non le so, è la prima volta che seguo mio padre, e vado ancora a scuola... ...So soltanto che il lavoro nero non mi piace". Come battesimo politico, un inizio niente male.

In questo clima non poco atipico per una uscita pubblica della cosiddetta "sinistra antagonista", come spesso la si ama definire specialmente quando scende in piazza, il sussulto arriva nel bel mezzo del corteo, che magicamente si apre per far passare un uomo, sommerso da saluti e applausi.
Quell'uomo è Pietro Ingrao, che la folla cerca di toccare e baciare come fosse la materializzazione di una speranza e di una fiducia difficili da ritrovare.

"Grazie per l'esempio che ci hai sempre dato", gli grida un ragazzo. "Grazie per non averci lasciati soli neanche oggi", gli dice un altro. Ingrao ha gli occhi lucidi, come molti di coloro che gli sono attorno. Alcuni lo sorreggono, lui avanza con fatica: eppure, dopo un secolo di battaglie e di conquiste, sembra avere ancora tanta voglia di camminare. Un po' come la sinistra di questo venti ottobre, che aveva vissuto la vigilia di questo appuntamento tra paure e contraddizioni, e che per l'ennesima volta deve ora fare i conti con la risposta e le aspettative del suo popolo. Una risposta matura e consapevole, da parte di cittadini comuni che forse passeranno la domenica a casa per riflettere del futuro proprio e altrui, pronti a ricominciare da lunedì la solita routine. Forse.

Tra gli altri, a piazza S. Giovanni campeggia uno striscione scritto a mano, sorretto da alcune persone con tanto di adesivo sul petto "Io Cgil". Lo striscione recita semplicemente: "Rispetto del programma".
Si potrebbe ripartire da qui.

Aprile on line 20.10.07
La società radicale
di Giuliano Garavini


Corteo 20 ottobre La società radicale si è presentata con migliaia di persone con l'adesivo rosso quadrato "io Cgil". Si è presentata con le pettorine di "Lavoro e società", con le bandiere della Fiom, con quelle di Rifondazione, dei Comunisti italiani, con le organizzazioni degli immigrati, con rappresentanti della lotta contro "dal Molin", con le femministe, con le varie associazioni di sinistra come "Uniti a sinistra".

La sinistra politica radicale, seppure divisa, ha onorato l'appuntamento del 20 ottobre.
Una marea umana, sulla consistenza della quale è inutile tentare il gioco delle cifre, si è presentata pacifica, composta, e bella, a piazza San Giovanni: è la società radicale.
La società radicale si era già fatta sentire il 4 novembre dell'anno scorso nella manifestazione dei 150 mila contro il precariato, osteggiata dalla Cgil e dalla sinistra moderata. Poi era ritornata a Vicenza, in occasione della lotta contro l'allargamento base dal Molin. Anche qui la Cgil si era schermita, mentre 200 mila giovani e cittadini, sindacalisti della Fiom, centri sociali, avevano protestato con tro l'allargamento delle basi della Nato e contro l'incremento degli investimenti militari. In queste due occasioni il popolo della sinistra aveva ricevuto un sonoro schiaffo in faccia. L'accordo del 23 luglio sanciva il precariato, mentre già il giorno dopo la manifestazione di Vicenza Prodi aveva detto che la base si sarebbe fatta, poche chiacchiere.

Poi c'è stato il referendum sindacale in cui l'80 per cento dei votanti, tra pensionati e iscritti ai sindacati confederali, hanno approvato l'accordo di luglio: in tutto circa 4 milioni di lavoratori. Qualcuno ha sperato che la vicenda si sarebbe così conclusa ma la società radicale si è nuovamente mobilitata per chiedere il rispetto del programma su cui le forze politiche unitariamente avevano chiesto il consenso, che impone un superamento della legge 30, e per dare espressioni a tutti i precari (5 milioni) che al referendum sindacato non hanno votato. Sono partite allora scomuniche dal sapore anticamente centralista, tipiche più di un atteggiamento vetero comunista che della Cgil, che imponeva alle sue componenti di non partecipare. La Cisl ha dichiarato che la legge 30 ha migliorato le condizioni di lavoro dei giovani e lo ha ribadito per bocca del segretario lo stesso 20 ottobre in un convegno organizzato dalla destra politica.

Questa volta però la partecipazione della società di sinistra ha superato ogni previsione e il distacco con la sinistra politica in Parlamento e nel Governo è sembrato evidente.

La società radicale si è presentata con migliaia di persone con l'adesivo rosso quadrato "io Cgil". Si è presentata con le pettorine di "Lavoro e società", con le bandiere della Fiom, con quelle di Rifondazione, dei Comunisti italiani, con le organizzazioni degli immigrati, con rappresentanti della lotta contro "dal Molin", con le femministe, con le varie associazioni di sinistra come "Uniti a sinistra".

Gloria Baldoni, pettorina di "Lavoro e società" Marche, ci ha detto "noi stiamo rispettando le direttive della Cgil che indicavano un superamento della legge 30", e ricorda che "il simbolo della Cgil è glorioso, ha un passato, e non è proprietà personale di Epifani". Se prosegue così, continua, "anche i lavori stabili diventeranno precari" (vedi Vodaphone). Monica Ceccanti, sempre di "Lavoro e società" Siena, dice che "Epifani poteva ascoltarci prima di firmare il protocollo e non dopo averlo blindato". Ermanno Savorelli, viene circondato dai suoi compagni di "Lavoro e società" che dicono "siamo disposti a prendere morsi ovunque e su tante questioni ma sulla precarietà no". C'è anche il NIdiL di Cosenza (il sindacato degli atipici della Cgil che nella maggioranza ha votato in favore del protocollo) che conta 1200 iscritti su un totale di 30 mila e che si è schierato contro protocollo. Saranno tempi duri per questo sindacato che non è ancora riuscito ad attrarre lavoratori precari a ragione dei suo moderatismo. Giovanni Limone dell'associazione "Uniti a Sinistra", vicina a Folena, dice che bisogna rispettare il programma, cioè superare la legge 30. Gli facciamo presente che il protocollo con tutta probabilità passerà immutato in Parlamento con il voto di fiducia, e gli chiediamo cosa si aspetterebbe in questo caso dai politici della sinistra radicale. Risponde sibillino: "sarà il popolo della sinistra ad un certo punto ad imporre una scelta". Matilde Provera sta dietro uno striscione della "Rete 28 Aprile", ma è una parlamentare di Rifondazione. Anche a lei chiediamo cosa farà se il protocollo dovesse passare senza modiche in Parlamento. Ci risponde: "vedremo, personalmente sono orientata a votare no". Giorgio Cremaschi ribadisce che il protocollo sul precariato "lascia tutto così com'è ed è una sconfitta per la sinistra". Ci dice che quest'attenzione al Governo è del tutto impropria, "magari il governo cadrà perché il ministro della Giustizia viene indagato" e bisogna invece ripartire organizzando il movimento, facendo lotte sui luoghi di lavoro, e "noi partiremo con i metalmeccanici".

Il governo fa male alla sinistra? Il dubbio non può non sorgere visto la marea montante dello scontento contro l'azione del governo Prodi. Qui basta ricordare che la principale piattaforma della sinistra sul tema del precariato si chiamava "Precariare stanca" ed era frutto di un grande lavoro programmatico. Tra le altre misure prevedeva di modificare la legislazione sul lavoro in modo da ridurre a due le forme contrattuali: lavoro dipendente e lavoro precario con alcune eccezioni previste per tipi specifici di impiego come gli stagionali. Prevedeva che dopo 18 mesi di prestazioni lavorative nello stesso luogo di lavoro, anche discontinue nell'arco di 5 anni, il lavoro sarebbe automaticamente divenuto a tempo indeterminato. Prevedeva che i salari de i lavoratori a termine avrebbero dovuto essere per le stesse mansioni uguali, se non più alti, di quello dei lavoratori a tempo indeterminato . Bel programma no? Vi presento i nomi di alcuni dei primi firmatari di "Precariare stanca": Stefano Rodotà, Paolo Beni, Giovanni Berlinguer, Rita Borsellino, Gloria Buffo, Tea Calandruccio, Don Luigi Ciotti, Carla Fracci, Luciano Gallino, Alessandro Genovesi, Betty Leone, Valentina Menegatti, Fabio Mussi, Paolo Nerozzi, Enrico Panini, Morena Piccinini, Carlo Podda, Tullio De Mauro, Paul Ginzsborg, Paolo Leon, Gianni Rinaldini,Claudio Treves. Cosa è rimasto di quei progetti mentre oggi ci si accinge a votare una normativa che consente la precarietà a vita? E' credibile una sinistra politica unita che si presenti alle prossime elezioni dopo aver ceduto su tutta la linea su questioni fondamentali? Tra gli altri nomi spuntano quelli di alcuni segretari confederali della Cgil che forse ci dovrebbero spiegare, visto che non siedono in Parlamento e non si dovrebbero occupare di maggioranza di governo ma di condizioni materiali di vita dei precari, qual è il giorno in cui hanno cambiato idea rispetto a questa piattaforma?

Lasciamo aperti questi interrogativi, con il dubbio che questa ennesima manifestazione della società radicale non riuscirà ad influire in Parlamento, e con una curiosità finale. Anche militanti di Sinistra democratica erano presenti a titolo personale alla manifestazione. E' il caso di Vincenzo Smaldore giovane segretario della sezione Testaccio (Roma) che è venuto con molti della sezione e ci tiene a ricordare il rispetto che porta verso la Cgil (e in questo ci sentiamo con lui), la necessità di unità, ma anche la necessità di battersi contro il precariato. La prossima volta speriamo che questi compagni possano presentarsi in tanti con un orgoglioso striscione: capito Mussi?

Aprile on line 21.10.07
Comitato di Bioetica: lo scontro continua
di Carlo Patrignani


Etica e politica Due laiche battagliere ed intelligenti, la Cattaneo e la Caporale ed un cattolico ‘anomalo' ed 'indipendente', non aderente cioè a 'Scienza e Vita', Marini, sono stati, senza provvedimento o decreto di revoca, allontanati 'di fatto' dalla vice-presidenza: perché?

"Posso dirle, con tutta franchezza, che mi sembra un sistema, quello di sostituire i tre vice-presidenti, un po' brutale? Non sarebbe stato meglio aprire un dibattito tra tutti e cercare di approfondire i motivi del disagio? Siamo o non siamo un Comitato di Bioetica, cioè anche di Etica? Circa, poi, i profili di rappresentatività, cui Lei fa riferimento nella lettera di nomina dei nuovi tre vice-presidenti: che senso ha un 'manuale Cencelli' tra fedi religiose in un Comitato di Bioetica?"
E' quanto scrive, in una lettera, al Presidente del Comitato Nazionale di Bioetica, Francesco Paolo Casavola, il genetista Alberto Piazza, membro del Comitato, dopo la destituzione ‘d'imperio', senza alcun provvedimento o decreto di revoca, dei tre vice-presidenti, Elena Cattaneo, Cinzia Caporale e Luigi Marini e la nomina dei nuovi tre: Lorenzo D'Avack, Laura Palazzani, Riccardo Di Segni.
"Sono rimasto perplesso dai criteri di nomina - scrive Piazza - che Lei chiama profili di rappresentatività: pensiero laico, etica religiosa diversa da quella cattolica, etica religiosa cattolica: molti di noi... ritengono che tutti esprimano posizioni comunque laiche... Altrimenti perché non rappresentare anche profili di altre religioni magari non monoteistiche? Che senso ha un manuale Cencelli tra fedi religiose in un Comitato di Bioetica?".

Non passano neanche 24 ore e, a stretto giro di e-mail, con "le perplessità ed i giudizi espressi" da Piazza, sono d'accordo tre componenti del Cnb che si sono anch'essi rivolti a Casavola: Grazia Zuffa, Claudia Mancina e Demetrio Neri.
"Ritengo che la sostituzione dei tre vice presidenti, incomprensibile nelle motivazioni e particolarmente spiacevole per le modalità, non contribuisca - dice la Zuffa - a migliorare il clima di tensione e disagio che ha caratterizzato questi primi mesi di lavoro del Comitato".

Nonostante la difesa d'ufficio della Presidenza del Consiglio, di cui il Cnb è organo di consulenza per tutte le materie eticamente sensibili, in Commissione Affari Sociali della Camera, è stato accuratamente evitato il question time, con il sottosegretario Gianpaolo D'Andrea, la serenità interna al Cnb è tutt'altro che ripristinata. Anzi, "il governo si è dato la zappa sui piedi: giustificare la sostituzione - si fa notare - dei vice-presidenti con l'accusa di 'turbare il regolare svolgimento delle votazioni' (come ha detto il sottosegretario D'Andrea) di certo vale per uno dei neo vice-presidenti, Lorenzo D'Avack", il quale il 25 maggio 2007 non partecipò al voto, allontanandosi dall'aula, sulla mozione relativa alla compravendita degli ovociti umani che è il 'casus belli' interno al Cnb: mozione che vede tra i proponenti proprio Laura Palazzoni, neo vice-presidente. Dunque, non trova "giustificazione alcuna l'impianto accusatorio del governo che ha portato alla sostituzione dei tre vice-presidenti".

E la Mancina fa sapere, "anch'io ho provato un forte disagio per la sostituzione dei tre vice-presidenti apparentemente - dice nella missiva a Casavola - immotivata e certo brutale nonché per la richiesta dei nuovi vice-presidenti di guardare avanti e girar pagina". Eh, sì, perché per D'Avack, Di Segni e Palazzani è come se nulla fosse accaduto... ". Sebbene non sia nei nostri poteri esprimerci sulla nomina dei tre vice-presidenti, credo che un elementare dovere di correttezza richieda - aggiunge la Mancina - un po' più di condivisione dei motivi e degli obiettivi di un atto così grave". La lettera della Mancina così finisce: "mi associo alla richiesta di Piazza di prevedere un momento di discussione sull'argomento nella prossima plenaria".

Orbene, due laiche battagliere ed intelligenti, la Cattaneo e la Caporale ed un cattolico ‘anomalo' ed 'indipendente', non aderente cioè a 'Scienza e Vita', Marini, sono stati, senza provvedimento o decreto di revoca, allontanati 'di fatto' dalla vice-presidenza: perché? "E' evidente la strategia seguita dall'ala dura dei cattolici, quella per intenderci di D'Agostino", è la tesi ricorrente in seno al Cnb. Come dire, Casavola si è mosso seguendo le indicazioni di D'Agostino: "e non può che esser così, lui non sapeva neanche chi fosse la Palazzani", dicono al Comitato... Ora avrà nell'Ufficio di Presidenza (solo due volte in dieci mesi si è riunito nella sede naturale, tutte le altre volte alla Treccani di cui Casavola è Presidente) un "laico malleabile', così è descritto D'Avack, una cattolica ‘ortodossa ed affidabile" ed un ‘confidente' come Di Segni..
"Non posso che associarmi alle tue valutazioni ed alla tua richiesta di un momento di riflessione all'interno del Cnb", scrive Neri a Piazza ed aggiunge: "era appunto questa l'unica finalità della lettera che ho firmato con Flamigni e Corbellini e avendo letto il verbale dell'ultima seduta nel quale non trovo traccia del fatto che dopo la nostra uscita la lettera sia stata discussa e stigmatizzata, come altri ha dichiarato alla stampa, resto fermo a quel punto".

Rosso di Sera 20.10.07
Un milione, una ventata di aria fresca e pulita
di Alessandro Cardulli


Pietro Ingrao: “ E’una grande giornata di speranza”. Una manifestazione di popolo, forte, serena, unitaria e di lotta contro la precarietà e per il rispetto del programma dell’Unione. Tanti giovani e tante donne da ogni parte d’Italia.“ Io sono Cgil”: l’adesivo più gettonato. Una ventata di aria fresca e pulita che spazza, di prepotenza, con la forza del popolo, la situazione melmosa in cui si sta cacciando la politica italiana.“ Questa folla, questa piazza, questo corteo - dice Gennaro Migliore, capogruppo di Rifondazione alla Camera - è la migliore risposta a chi vuole intorbidire le acque, a chi punta alla crisi, alle elezioni anticipate. Indica che bisogna fare ed operare ed indica la necessità che il governo dia risposte forti contro la precarietà, perchè le misure previste sono ancora insufficienti”.
Non sono ancora le quattordici di questo sabato venti ottobre, una giornata di vento gelido che agita le mille e mille bandiere che già colorano piazza Esedra e poi invadono tutta la zona della stazione per arrivare a riempire anche via Cavour. E’ difficile far partire il corteo, rispettare l’ordine che era stato previsto. Il grande striscione con la scritta “Siamo tutti un programma” fatica a posizionarsi alla testa del serpentone. La banda napoletana, “Contrabbanda”, non riesce neppure a tirar fuori gli strumenti. I direttori di Liberazione, de Il Manifesto, di Carta, Sansonetti, Polo e Sullo che hanno promosso la manifestazione si erano posti una domanda: se la sinistra esiste ancora, se ha una forza all’altezza della situazione, batta un colpo. La risposta era attesa proprio da questa piazza ed è arrivata al di sopra di ogni aspettativa, fino dalle ore 14.
Giovanni Russo Spena , capogruppo al Senato del Prc, parla di mezzo milione di persone. Arriva una conferma dai numeri che filtrano dalla questura. Ma non è che l’inizio. Si parte poco prima delle 15, ma già alle 16,30 piazza San Giovanni è gremita. Dal corteo sciamano a migliaia per “prendere posto”, ma solo poco prima delle 17 entra in piazza la testa del corteo, la banda, il grande striscione che riassume l’obiettivo della manifestazione, la lotta contro il precariato.
Cartelli, striscioni, slogan, canti, concerti improvvisati: c’è un’esplosione di forza e di serenità, di gioia, anche perché finalmente la sinistra, come dicono in molti, ha avuto il coraggio e la forza di scendere in piazza. Rifondazione e il Pdci hanno aderito ufficialmente. Nel corteo ci sono tutti i dirigenti. Con loro donne e uomini di tante associazioni. Il forum della Sinistra ( Uniti a sinistra, Rosso Verdi, Associazione per il rinnovamento della sinistra) transita su un camion ed indica la strada dell’unità come più volte, proprio in questi ultimi giorni, hanno sollecitato Pietro Folena, Rocco Giacomino e Aldo Tortorella.
Tante associazioni, tanti movimenti, tante bandiere. Ma in corteo ci sono anche esponenti politici i cui partiti non hanno aderito ufficialmente, da Piero Di Siena a Giulia Rodano (Sinistra democratica), a Bonelli ( Verdi). Fabio Mussi, leader di sinistra democratica, commenta a caldo:“ E’ una manifestazione bella, forte, partecipata, che chiede al governo che si impegni contro la precarietà. La sinistra deve unirsi subito”.
Dal corteo, attorniati dai giornalisti, rispondono positivamente Franco Giordano, Oliviero Di liberto e Nichi Vendola. Dice Giordano:“ Entro l’anno la Costituente per dar vita ad un nuovo soggetto, unitario e plurale, della sinistra.” Unità a sinistra: uno slogan che rimbalza nel corteo, l’obiettivo che si collega, anzi, dà linfa alla lotta contro ogni precarietà, per il cambiamento. Ed eccoli i precari. Il corteo ribolle di giovani, di ragazzi e ragazze, di studenti, di disoccupati. Questi si mischiano ad anziani militanti, ai pensionati, agli operai che vengono dalle fabbriche di tutta Italia, ai metalmeccanici con il segretario generale della Fiom,Gianni Rinaldini,tantissimi,quelli che a maggioranza hanno detto no al protocollo sul welfare.
Dal palco gli organizzatori danno una valutazione sui partecipanti, oltre un milione. Al punto di partenza, alle 18, c’è ancora una grande folla. La piazza comincia a svuotarsi. Si torna ai pullman, si riparte. Si lascia spazio a chi arriva. Il corteo sembra non finire mai. La piazza è zeppa. E’ come se si riempisse due volte. Sale sul palco Pietro Ingrao il quale ascolta interventi e testimonianze e poi prende la parola: “ Questa manifestazione - dice- non è contro Prodi o contro Veltroni. Questa massa di popolo vuole un cambiamento profondo. Quanto più si rafforzerà questo movimento, tanto più Prodi potrà fare qualcosa di buono”. “ E’ una grande giornata di speranza- aggiunge fra gli applausi che si levano fortissimi- per la lotta dei lavoratori. Vi saluto con lo slogan antico: la lotta continua!”. Ecco, questo il senso di una giornata bella. Non contro il governo, non contro il sindacato, ma per qualcosa che deve essere fatto perché era scritto nel programma con cui il centrosinistra ha vinto le elezioni. Una risposta, responsabile e composta, ai segretari di Cisl e Uil, Bonanni e Angeletti, che in mattinata avevano partecipato ad un convegno insieme a esponenti del centrodestra ed anche del centrosinistra ( o meglio del centro) per tessere le lodi della legge 30 e dichiarare che non capivano il motivo della manifestazione. Se si fossero affacciati a piazza san Giovanni avrebbero potuto vedere gli effetti della legge 30 descritti bene dai lavoratori di Vodafone messi in vendita. Avrebbero capito perché un milione di persone erano scese in piazza. Lo avrebbe capito anche il ministro del lavoro, Cesare Damiano, che ha perso un’occasione per tacere. Lui la manifestazione l’ha “ sbagliata”.
Infine, fortunatamente, migliaia e migliaia di lavoratori portavano sul petto un adesivo con su scritto: “ Io sono Cgil”. E c’erano tante bandiere dei regionali della Cgil e di tante categorie, dalla funzione pubblica, alla scuola, alla Filcea, ai Trasporti, ai pensionati. Tutti “ ribelli” come li ha chiamati l’Unità .Che il nome del più grande sindacato italiano non comparisse, in qualche modo, in una straordinaria manifestazione di lavoratori, un fatto di grande significato democratico, come ha sottolineato Bertinotti, assente come i ministri che fanno capo alla sinistra di alternativa per “dovere istituzionale”. C’era Lella, la moglie del presidente della Camera, insieme a tante donne che hanno segnato con la loro presenza la manifestazione.“Io- ha detto- rappresento me stessa”. Ognuno rappresentava sè stesso. Insieme, una grande forza serena, unitaria.

Rosso di Sera 20.10.07
Una domanda di rinnovamento
di Giuseppe Chiarante


E’ stato giustamente sottolineato in questi ultimi giorni che l’eccezionale partecipazione di oltre tre milione di elettori alle primarie per la designazione della segreteria del Partito democratico rappresenta l’altra faccia di quelle manifestazioni di disamore e di rifiuto della politica di cui tanto si era parlato a proposito del “fenomeno Grillo”. E’ chiaro, in effetti, che una così ampia partecipazione al voto per le primarie, seguita di pochi giorni alla larghissima mobilitazione per il referendum sindacale, sta a dimostrare che la critica così diffusa ai troppi casi di malgoverno, di clientelismo, di malcostume che in queste settimane erano venuti alla luce, sommandosi alla denuncia sui costi della politica, non si traduce necessariamente nel rifiuto del sistema dei partiti e nel disgusto per l’impegno pubblico; ma può anche esprimersi (ed è per fortuna ciò che in Italia oggi largamente accade) in una domanda largamente partecipata di rinnovamento del sistema dei partiti e dei modi di far politica e nella disponibilità di un numero esteso di cittadini ad impegnarsi o comunque a contribuire perché questo rinnovamento si verifichi.
Ma è sufficiente il manifestarsi di questa domanda per controbattere con successo i pericoli di una crisi della politica che anche nel nostro paese rischia di provocare una vera e propria crisi della democrazia?
Certo va dato atto ai promotori del Pd di avere colto la presenza nell’elettorato di questo movimento di opinione e di aver saputo corrispondervi, candidando per la segreteria una personalità di sperimentata capacità e ben vista dall’opinione pubblica qual è appunto il sindaco di Roma.
Ma l’obiettivo cui è concretamente rivolto il nuovo partito induce a dubitare a questo riguardo.
Infatti l’indirizzo politico e la piattaforma programmatica con cui nasce il Pd non assicurano affatto una prospettiva come quella indicata. Al contrario, dal dibattito sin qui sviluppatosi in vista della formazione del nuovo partito e dall’accentuata impronta leaderistica data alla gara delle primarie, emerge piuttosto un orientamento che sembra rivolto a fare del nuovo partito una sorta di polo di centro, moderato e interclassista, intorno al quale far ruotare la vita politica italiana: un polo di centro fortemente condizionato dalla diffusa ideologia liberista e orientato più verso il modello della democrazia anglosassone (da Blair a Clinton) che verso i partiti socialisti e socialdemocratici del centro e del nord Europa.
Pare a me che un simile indirizzo esprima più una linea di continuità, in chiave trasformistica, con l’esperienza di questi ultimi quindici anni, che una scelta di reale cambiamento. Ne risulterebbe accentuato quel vuoto di rappresentanza politica a sinistra (in particolare del mondo del lavoro, dei suoi interessi, dei suoi diritti) che è venuto crescendo già negli ultimi tempi. E’ invece proprio di una più forte partecipazione della realtà sociale e politica della sinistra che ha bisogno la democrazia italiana per sconfiggere la destra di Berlusconi e di Fini che in questo momento – non va sottovaluto – sta cercando di riorganizzare le proprie forze.
Per questo è necessario, a me pare, che il nuovo partito democratico guardi con più attenzione – sul piano politico e su quello programmatico – verso il mondo del lavoro e il complesso della realtà della sinistra.
Ma a questo riguardo è doveroso aggiungere che alla base del vuoto politico che oggi si manifesta a sinistra vi è indubbiamente anche una responsabilità dei piccoli partiti, dei gruppi, delle associazioni che si collocano in questa area. Infatti l’impegno, più volte ripetuto, di ridare unità a una forza rappresentativa della sinistra italiana, sulla base del necessario rinnovamento politico, cultura, programmatico, si è troppo a lungo arenato, per le posizioni ideologiche ormai irrigidite che prevalgono in gran parte di queste forze. Ciò ha determinato delusione e scoramento anche fra coloro che pure erano disponibili per questo rinnovato impegno. C’è dunque una sollecitazione che dalle primarie e in generale dalle manifestazioni di massa degli ultimi tempi si rivolge anche all’area che si colloca più a sinistra. Ed è che senza una più robusta iniziativa, senza un più sollecito impegno per l’unità a sinistra, senza rimettere in discussione a questo fine i fin troppi interessi di parte che talora prevalgono è impossibile raccogliere effettivamente la domanda di rinnovamento che pure con tanta evidenza è presente nel Paese.
Ci auguriamo che l’annunciata convocazione degli stati generali della sinistra possa essere un passo reale e determinante in questa direzione.

domenica 21 ottobre 2007

l'Unità 21.10.07
«Siamo tutti un programma» In piazza sinistra senza ministri
Gli organizzatori: «Siamo un milione»
di Rachele Gonnelli
Un milione in piazza: pochi slogan, bandiere rosse e piazza San Giovanni piena fino all'orlo. Ha sfilato a Roma il popolo che resta comunista. Senza ministri, con defezioni dei Verdi e della Sinistra democratica. Giordano ammonisce: «Prodi ascolti questo popolo». Il premier ribatte: «L'ho sempre ascoltato». E la sinistra dell'Unione esulta: «Una grande prova per la Cosa Rossa».
qui

l'Unità 21.10.07
Una grande piazza, non contro Prodi


A Roma corteo della sinistra radicale: «La vera emergenza è il precariato»
Il premier: ascolto quel popolo, non getto la spugna. Veltroni: massima attenzione
Un grande corteo ha attraversato ieri le strade di Roma. Formalmente era indetto dalla sinistra radicale (Prc, Pdci, Fiom) contro il Protocollo sul welfare, siglato dal governo e dalle parti sociali e approvato a stragrande maggioranza dai lavoratori. Ma sia gli organizzatori, sia gli stessi slogan del corteo, hanno evitato di contrapporsi nettamente al governo. «Non è una manifestazione contro il governo, Prodi vada avanti», ha detto il segretario di Rifondazione, Franco Giordano. E Pietro Ingrao, tra i firmatari del manifesto del corteo ha ribadito: «Non è contro Prodi, ma serve un cambiamento». Alla fine, sul palco gli organizzatori hanno annunciato: «Siamo un milione».
Romano Prodi ha spiegato di aver «ascoltato sempre quel popolo». E replicando a Berlusconi e ai suoi annunci di «crisi imminente», ha aggiunto: «Il governo non traballa, certe analisi non hanno alcun rapporto con la realtà. Io non getto la spugna».

l'Unità 21.10.07
Una giornata particolare
di Furio Colombo


Sembra impossibile ma ciascuno purtroppo - anche senza volerlo - sta facendo la sua parte così come gli era stata assegnata dal capo-comico Berlusconi. Prima di offrire una mia lista di personaggi e interpreti della commedia triste mi preme una precisazione: non sto dando giudizi, non ne ho alcun diritto. Non mi riferisco in alcun modo alle intenzioni personali. A volte nobili, a volte meno (se non altro perché non chiare) dei vari protagonisti. Non giudico le persone, mi limito a contestare la coincidenza quasi perfetta di una serie di iniziative politiche. Osservando la scena si nota (per parte mia con stupore o dolore o allarme) che alcuni pezzi del centrosinistra, che è stato annunciato dai quattro milioni di votanti volontari nelle primarie per Prodi, sostenuto da diciannove milioni di elettori nelle ultime elezioni politiche, da cinque milioni di lavoratori nel referendum su impiego, pensioni, previdenza, dai tre milioni e mezzo che hanno partecipato alle primarie del Partito Democratico, alcuni pezzi del centrosinistra vanno a collocarsi - indipendentemente da ciò che pensano di fare - esattamente dove il copione di Berlusconi li aspettava, fuori dal loro schieramento in posizione vistosa e simbolica di protesta. Si possono avere le intenzioni più miti quando si riunisce una folla per marciare come forma di ammonimento a un governo. Ma il simbolo chiave resta il dissenso. Naturale che Berlusconi osservi le mosse e dica: siamo quasi pronti.
La mattina del frizzante sabato 20 ottobre si apre con una netta dichiarazione di Giorgio Cremaschi, il Segretario Fiom, dunque sinistra pura. Dice «questo governo non è meglio di Berlusconi, nessuna differenza. Anzi, è peggio».
Caratteristica della frase è una clamorosa ambivalenza. Sembra incoraggiare la diffusa opposizione a sinistra nei confronti della legge Biagi, che era solo un tassello del progetto Berlusconi di accodarsi alla destra del mondo per liquidare l’intralcio del lavoro e le pretese dei lavoratori. Invece porta un clamoroso tributo a Berlusconi. Dichiararlo uguale o migliore di Prodi vuol dire sdoganarlo in pubblico, vuol dire liquidare illegalità e conflitto di interessi, ricchezza immensa, oscura e manovre anche più oscure - perché su scala internazionale - di quella ricchezza. Vuol dire proclamare, mentre è alla testa del gruppo di operai più agguerrito, che è Prodi che si deve combattere, non Berlusconi. Poteva l’uomo di Arcore aspettarsi di più? Cinque anni di contrasto appassionato e civile contro il berlusconismo - contrasto che era già stato tante volte disapprovato, come ricorderete, dalla sinistra moderata, ora è svilito e ridicolizzato dalla sinistra più militante.
Intanto Piero Sansonetti, direttore di Liberazione, che quando era in questo giornale (dopo essere stato un bravo e innovatore condirettore) diceva spesso a Padellaro e a me di non esagerare nei titoli contro Berlusconi (ricordate il famoso incubo della “demonizzazione” e la ricorrente domanda: «ma cosa farete dopo, senza Berlusconi?» problema, che - come vedete - non si pone) finalmente ha trovato un nemico. Si chiama Prodi, e lui allegramente lo sfotte in una spensierata conversazione su Il Riformista (20 ottobre). Dice di averlo trovato «cupo, triste» e di avergli dato appuntamento per la manifestazione anti-legge Biagi «alle tre, davanti a Feltrinelli, vedessi mai». Dunque apprendiamo che finalmente «Prodi è cupo e triste» dunque sulla porta e si può cominciare a scherzare pubblicamente su di lui. Un punto segnato, ma da chi? Di nuovo siamo in perfetta coincidenza con il copione Berlusconi e non c’è bisogno di fare il processo alle intenzioni (che sono certo le migliori del mondo del lavoro) per notare che, di nuovo, l’uomo di Arcore, l’uomo dello stalliere mafioso Mangano, degli associati Previti e Dell’Utri, del clamoroso licenziamento in tronco di giornalisti e comici, l’uomo del controllo assoluto dei media non poteva desiderare di più. Lui ha scritto le parti in commedia di gente che spinge troppo a sinistra e finisce per rompere. Qui invece, gli compaiono Cremaschi con rabbia e Sansonetti ringiovanito e festoso per dire: «ok, Prodi, basta così. Adesso ci pensiamo noi». Non è esattamente il copione ma dubito che Berlusconi sarà deluso di questa variazione.
Infatti, ci pensano come? Osserviamo bene la scena. Ma, prima cosa, devo spiegare ai lettori perché ho scritto, poche righe più sopra “legge Biagi”. So benissimo che non si chiama così, che è la legge 30 sul precariato. So che a chiamarla “legge Biagi” era stato lo scherzo macabro di Maroni (l’autore della legge) e di Berlusconi, del suo sottosegretario Sacconi e di Berlusconi che con quella legge speravano di mettersi in coda alle destre del mondo che ne avevano abbastanza del costo del lavoro, qualunque costo che non siano la delocalizzazione in Romania o gli acquisti del già fatto in Cina al prezzo di centesimi invece che di euro o di dollari. Ricordiamo tutti che la strada è stata aperta, nel mondo industriale avanzato, da Ronald Reagan quando, pochi giorni dopo il suo insediamento, ha risolto una vertenza licenziando senza liquidazione tutti i controllori di volo d’America, e assumendo, subito e da solo, una nuova generazione di bravi e sottomessi lavoratori senza diritti. Questo, come tanti esperti ci dicono, a cominciare dal moderatissimo ex ministro del Lavoro Tiziano Treu, non era il disegno di Biagi. Marco Biagi (che intanto era minacciato, aveva chiesto più volte la scorta, era stato giudicato un rompiballe dal ministro dell’Interno Scajola, che avrebbe dovuto proteggerlo) aveva disegnato solo la prima arcata di un ponte. Ma il suo ponte, la sua visione, erano ben più vasti. C’era bisogno di garanzie, contrappesi, sostegni per non fare entrare l’Italia nell’era di Reagan descritta così accuratamente da Michael Moore con la frase: «Diritti? Nessuno».
Dunque Marco Biagi, che non aveva alcuna protezione, ucciso come D’Antona, mentre il suo lavoro era tutt’altro che finito, perché i criminali, oltre che criminali, sono anche stupidi e ciechi.
Berlusconi e Maroni hanno colto la palla al balzo. Invece di commettere l’errore pesante e volgare commesso contro Olga D’Antona («si tratta di un regolamento di conti interno alle sinistre») si sono impossessati di un disegno non finito, non rivisto, carte e appunti di un lungo e complesso lavoro in corso, lo hanno trasformato in legge per la parte che gli interessava e gli hanno dato il nome del giurista assassinato.
Berlusconi, come in ogni altra circostanza aveva il solito scopo: spaccare l’Italia come prerequisito della sua concezione di governo.
E allora, ecco qua, ancora una volta ci è riuscito in pieno. Una parte della coalizione di sinistra se ne va per le piazze. Nel più mite dei casi dicono: ci si può fidare di questo governo? E anche chi non lo dichiara suggerisce il motto di Cremaschi « né con Berlusconi, né con Prodi ». Poiché Berlusconi, con tutta la sua ricchezza, la sua televisione e la sua generosa campagna acquisti è una presenza immanente, è il protagonista autofinanziato della vita italiana (e, a giudicare dalle frequenti e misteriose vacanze con Putin, non solo italiane) la frase vuol dire «con Berlusconi», non perché questa sia l’intenzione ma perché, se gli sgombrate il campo, questo ricco signore avrà la vita ancora più facile.
Quanto alla spaccatura - progetto chiave di Berlusconi - eccola, la manifestazione in piazza (invece che il lavoro dentro il governo e in Parlamento) ha suggerito di raccogliere la palla al balzo sul versante della presunta offesa al professore ucciso senza scorta.
E così, persone in perenne trasferta e ansiose di fare la cosa giusta nella politica, un assortimento di tipi che costituiscono la scorta fissa di Berlusconi e persino protagonisti insospettabili della politica pulita, come Pannella, si riuniscono per dire bene di quella colonna spezzata a cui viene attribuito ancora e ancora il nome di Marco Biagi, come se non fossero esistiti da un lato Milton Friedman, che ha aperto la strada al regime del lavoro selvaggio (basta verificare le condizioni, le garanzie, i sostegni del lavoro retribuito in America, ormai stabilmente privo di pensioni e assicurazioni mediche) e dall’altro Joseph Stiglitz, Amartya Sen, Paul Krugman, grandi dell’economia che si contrappongono a Friedman per descrivere il danno che il capitalismo fa a se stesso quando svilisce o sottomette il lavoro. L’idea di fondo è di intimidire ciò che resta del centrosinistra, minacciando di accostare alle Brigate Rosse chi difende il lavoro. O di farlo apparire, nel più mite dei casi, un ottuso conservatore, nemico della libertà. Che è, guarda caso, libertà di licenziare.
Tanta vitalità berlusconiana, e tanta e precisa coincidenza con i ruoli auspicati dallo stratega di Forza Italia (che altrimenti porterebbe a casa ben poco, con la Brambilla) dà una scossa alla impaziente flottiglia ancorata sulla destra del porto del centrosinistra (bombardato da Grillo, da Cremaschi, eletto a rappresentante esclusivo della Casta, mentre i cassieri della Casa delle Libertà si divertono a gridare Casta allo schieramento di Prodi quando non stanno insultando i senatori a vita). E ormai non puoi dire quale bandiera isseranno, e quando, i nuovi corsari del gruppo Dini. O dove imprimeranno il loro segno i due Zorro Mansione e Bordon, e a quali vedove e orfani e contadini oppressi stanno per portare soccorso.
A quanto pare l’importante è disarcionare al più presto l’unico vero male d’Italia, il Don Chisciotte Prodi e il suo Sancho Panza Padoa-Schioppa.
Dopo essere scampato alla “demonizzazione”, che in tanti ci hanno così vivamente sconsigliato, come se fosse non solo impolitico ma anche immorale dire tutto il conflitto di interessi di Berlusconi e la vera natura dei suoi interessi e legami e alleati, ora Berlusconi evita anche l’altro pericolo di cui ci hanno parlato tanto: il berlusconismo senza Berlusconi. Niente paura, Berlusconi è vivo e lotta insieme a molti, un po’ di qua e un po’ di là. Non è un lieto fine. Ma è tutto vero oppure ho fatto un brutto sogno?
colombo_f@posta.senato.it

l'Unità 21.10.07
L’equilibrio vestito di Rosso
di Vincenzo Vasile


Le avete ascoltate le interviste tv durante il corteo di ieri? Non si erano mai contati tanti simpatizzanti e sponsor di destra per la sinistra radicale. Piazza San Giovanni, presentata come l’epicentro del terremoto che potrebbe abbattere Prodi, ha profondamente deluso, invece, le aspettative di chi scommette sulle fibrillazioni del governo. Tranne la ineffabile «precaria» che ha issato lo slogan masochista «ridateci Berlusconi», il senso politico della manifestazione è stato minuziosamente recintato da gran parte dei dirigenti delle forze che hanno promosso l’evento: non una manifestazione contro il governo, né tanto meno una spallata.
Piuttosto, la rappresentazione di temi obiettivi e valori che provengono dalla piattaforma programmatica della coalizione di centrosinistra. Una spinta potente certo, ma non per fare cadere il governo: Prodi vada avanti.
Si potrà discutere all’infinito se abbia pesato su questo esito realistico lo sfogo giornalistico dello stesso presidente del Consiglio sui pericoli immanenti di rendersi strumento del “complottone”; o su quanto abbia inciso la levata di ingegno di un padre nobile della caratura di Pietro Ingrao, che alla vigilia della manifestazione ha evocato - invece delle modifiche del protocollo del Welfare, che porrebbero questa sinistra in rotta di collisione con il sindacato e con la maggioranza di coloro che hanno risposto alla consultazione - temi alti e questioni grandi come «la fine della guerra in Iraq e le rivendicazioni di libertà e di riscatto dei lavoratori».
In ogni caso si è trattato certamente di una profonda e meritoria correzione in extremis dei toni e delle velleità che stavano dietro alle prime intenzioni dei promotori, angustiati da un’irrimediabile vocazione minoritaria, e ancora caoticamente coinvolti nelle traversie della futuribile Cosa Rossa; e si è trattato di una tardiva presa d’atto del risultato del referendum nei posti di lavoro, e fors’anche di un effetto indotto dal successo delle primarie del Partito democratico.
Naturalmente una gestazione così confusa e contraddittoria ha avuto i suoi effetti negativi: per genericità e spirito ultra-identitario sembrava, per la verità, la manifestazione di una forza di opposizione; e invece almeno quattro ministri hanno legami più o meno profondi con questa piazza; e non è un caso che essi abbiano avuto qualche difficoltà a motivare la loro assenza e insieme la loro solidarietà. Romano Prodi tira, dunque, un sospiro di sollievo, promette di “ascoltare”, anzi di continuare ad ascoltare, “quel popolo”. Ma non è affatto detto che il premier possa superare con uno sforzo soggettivo, con uno scatto di reni volontaristico i vincoli finanziari e politici che finora hanno impedito risposte più soddisfacenti. E per paradosso tanta gente in corteo forse diventa parallelamente anche un problema - da interpretare, da rappresentare, da dirigere - per chi finora può essersi illuso di svolgere il proprio ruolo di ala sinistra della coalizione, limitandosi ad attizzare ai margini del campo di gioco il fuoco sotto il crogiolo dei delusi e degli insoddisfatti.

l'Unità 21.10.07
Non è stato un corteo contro. I precari con i loro genitori, ma anche quelli della Val Di Susa e di Vicenza
Un lungo fiume di richieste concrete
di Marcella Ciarnelli


Non è stato un corteo contro. Tutt’altro. Centinaia di migliaia di persone, un milione per chi ci stava dentro, hanno invaso pacificamente le strade di Roma come un lungo fiume tranquillo ed hanno trasformato Piazza San Giovanni in un lago rosso di bandiere tese dal vento forte di tramontana.
Chi sperava nel conflitto, chi non aspettava altro per poter dire che dalle rivendicazioni di lavoratori, pensionati, ma, soprattutto, precari di ogni età e provenienza era arrivata la spallata al governo Prodi, si è trovato davanti a gente responsabile. Che ha molto da chiedere ad un esecutivo che fin qui non è riuscito a dare risposte complessive alle esigenze di chi un lavoro ce l’ha (e vorrebbe tenerselo) ed a quelle di chi un lavoro lo vorrebbe (ma non riesce a trovarne uno che duri più di qualche mese). Ma che ha anche capito che non è certo mandando a casa in modo traumatico questo governo che si trova la soluzione. «Rispetto del programma» chiedeva uno degli striscioni più evidenti mescolato, certo, a quelli frutto di un’arguzia e un’ironia che neanche le difficoltà e la precarietà riescono a soffocare. «Il governo ha fatto bene la sua parte nel mettere in ordine i conti pubblici. Ma questa era soltanto la metà del programma elettorale, l’altra metà parlava di risarcimento sociale e stop all’insicurezza, a cominciare dal mondo del lavoro» ricorda Nichi Vendola, il governatore della Puglia che si è fatto tutto il corteo, un po’ defilato, come tutti gli altri politici, per non prestare il fianco alla strumentalizzazione del messaggio di una coalizione che manifesta contro se stessa. Ed è stato salutato con grande affetto dai partecipanti. Molti ci credono che toccherà a lui guidare la “Cosa rossa”.
Il popolo della sinistra è sceso in piazza. Ha preso navi speciali, treni, pullman. Ha fatto lunghi tragitti. Nella maggior parte dei casi si è pagato il viaggio di tasca propria, magari chiedendo ospitalità ad un parente, o è arrivato da tutti i quartieri di Roma a rinforzare in modo del tutto imprevedibile le più rosee previsioni della vigilia sulla partecipazione.
Il popolo della sinistra ha risposto all’appello. C’erano i precari ma anche i loro genitori che, per aiutare i figli, si ritrovano anch’essi a dover vivere una imprevedibile precarietà. C’erano i lavoratori di grandi aziende che davanti a sé hanno la fine di un contratto e quelli ormai prossimi alla pensione. C’erano le donne che lottano per non essere discriminate ma anche contro la violenza. I bambini nelle carrozzine con il tettuccio alzato a proteggerli dal freddo improvviso. Cani al guinzaglio, anche loro con un look di lotta. Gli striscioni della Val di Susa contro la Tav e quelli di Vicenza contro l’ampliamento della base militare. C’era anche il cartello estremo e solitario di una precaria che inneggiava al ritorno di Berlusconi «così la sinistra ricomincia a pensare». Anziani in un lento incedere. Pronti al ballo ed al coro i più giovani. Hanno sfilato per ore gli operai. Al fianco dei rappresentanti di quella piccola borghesia che solo fino a poco tempo fa credeva di essere indenne dai problemi della quotidianità. Ed ora si trova a fare i conti con la difficoltà di scavallare la quarta settimana del mese coniugando le troppe rinunce e le legittime curiosità. I nuovi poveri.
Un popolo colorato. Un po’ arrabbiato. Molto disponibile al dibattito. Un popolo che ci ha tenuto a mostrare la sua faccia vera. Fatta di storie che, sarebbe bello, potessero tutte a lieto fine. Settecentomila. Un milione. Di più, di meno. Non importa. Non è una questione di numeri. C’è piuttosto da interrogarsi sul perché in questa Italia in cui l’antipolitica la farebbe da padrona, secondo la lettura di parte di alcuni, arrivi sempre una risposta confortante ogni volta che c’è un invito ad esprimersi. E se fosse stato possibile sarebbe stato bello fare un censimento della costanza nella partecipazione di tanti che ieri hanno riempito le vie di Roma. Si sarebbe potuto scoprire così che qualcuno aveva partecipato anche alle primarie del Partito democratico. E non per confusione mentale. Ma per confermare che la voglia di esserci, di contare nelle scelte c’è tutta. Fa parte del Dna di una coalizione, al di là delle differenze che, se puntate ad un obiettivo comune, non sono motivo di contrapposizione ma una ricchezza. Gli italiani che sono scesi in piazza questo hanno dimostrato di averlo ben chiaro.

l'Unità 21.10.07
Piazza rossa contro il precariato
Giordano: «Il corteo non è contro il governo, ma Prodi ci ascolti». Mussi: ora la sinistra si unisca
di Simone Collini


LA PIAZZA ROSSA c’è, si fa vedere e si fa sentire. Chiede rispetto per il programma con cui l’Unione ha vinto le elezioni. E quindi soprattutto lotta al precariato. Ma anche leggi sull’immigrazione più umane, niente militari italiani a combattere in giro per il mondo,
tutela dei salari e delle pensioni, difesa della scuola pubblica, un progresso rispettoso dell’ambiente.
«Siamo un milione», esultano gli organizzatori della manifestazione dal palco affogato in una piazza San Giovanni piena di bandiere di Rifondazione comunista e del Pdci mischiate insieme, di bandiere della Cgil e della Fiom che non dovevano esserci e che ci sono, di slogan e cartelli che non nascondono l’insoddisfazione per quanto fatto finora da questo governo. «Queste sono le nostre primarie», dice raggiante il segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano, quasi incredulo di fronte a una partecipazione che, al di là della cifra data dai promotori, è sicuramente molto ampia e superiore alle più rosee previsioni: «Questo è il nostro popolo che si mette in moto, che chiede al governo di raccogliere richieste che sono le stesse del programma con cui abbiamo vinto le elezioni. Se Prodi si mette in sintonia con questo popolo può cancellare tutti i meschini giochi di palazzo». Il primo messaggio che parte dai manifestanti, dice il segretario dei Comunisti italiani Oliviero Diliberto, è indirizzato al governo: «Tenga conto di questa straordinaria piazza per migliorare le condizioni su welfare, precariato e sulle pensioni». Il secondo messaggio è rivolto al Partito democratico: «Non possono pensare di fare tutto da soli perché di sinistra siamo tanti».
Il leader del Prc e quello del Pdci, unici nell’Unione che hanno aderito all’appello lanciato questa estate da “Liberazione”, “manifesto” e “Carta”, arrivano al corteo insieme a Pietro Ingrao, accolto con un’ovazione quando sale sul palco di San Giovanni (dopo di lui prendono la parola soltanto gli “invisibili”, precari e studenti) per pronunciare poche evocative parole: «È una grande giornata di speranza per la lotta dei lavoratori e vi saluto con uno slogan antico: la lotta continua».
E la lotta dovrà continuare perché intenzione della sinistra radicale è dare battaglia in Parlamento sulla Finanziaria e sul protocollo sul welfare. È proprio contro l’accordo siglato a luglio da governo e sindacati che si vedono lungo il corteo che attraversa il centro di Roma i cartelli e gli striscioni più duri. «No a un protocollo che avalla precariato, instabilità, incertezze». «Vogliamo un progetto di vita, non una vita a progetto». «Su pensioni e precari siamo sempre più incazzati». «Sinistra o destra precari si resta». Giordano e Diliberto insistono nel dire che la manifestazione di questo scontento è di «stimolo» a Prodi, non contro di lui e per una crisi. Per non creare fibrillazioni si è deciso di non far partecipare i ministri. Si vedono dei sottosegretari, ma a nessuno nell’Unione viene in mente di polemizzare per questo. Mischiata tra la folla c’è anche Lella Bertinotti, venuta «non in rappresentanza del presidente della Camera: chi lo dice - risponde a chi la avvicina - non mi conosce».
Fausto Bertinotti segue il corteo guardando le immagini in tv, ed è una «grande soddisfazione» quella che esprime a fine giornata. Anche Walter Veltroni segue a distanza, e parla di «importante fatto democratico» che merita «la massima attenzione». In piazza si vedono anche alcuni esponenti di Sinistra democratica, che così come i Verdi non ha aderito. Una scelta che Diliberto definisce «un errore». Fabio Mussi non replica, ma è con parole di apprezzamento che parla della manifestazione, «grande, bella, forte politicamente»: «Chiede che si alzi la battaglia contro il lavoro precario, che il governo si muova con più rispetto per il suo programma, che la sinistra si unisca. Ora». È la stessa cosa che dicono Diliberto e Giordano. Nichi Vendola, dato in pole position per la leadership, dice che questa manifestazione è «un bellissimo mattino» per la “Cosa rossa”.
Il lavoro da fare sarà tanto. Per non perdere tempo, a dicembre verranno convocati gli stati generali della sinistra allargati, oltre che a Rifondazione, Pdci, Verdi e Sd, a tutte le associazioni e i movimenti che ieri erano in piazza.

l'Unità 21.10.07
«La Cgil c’è, questa è la gente del sindacato...»
I «disobbedienti» hanno sfidato il diktat sulle bandiere. Da Cremaschi le parole più dure contro il governo
di Felicia Masocco


QUADRATO ROSSO Il logo della Cgil avrebbe dovuto disertare la piazza e invece si è visto. Come si sono viste le bandiere di molti pezzi di Cgil, edili, funzione pubblica, comunicazioni, trasporti, atipici, scuola, pensionati, commercio. Ma soprattutto della Fiom, i metalmeccanici, e delle due aree di sinistra del sindacato, «Lavoro e società» e «Rete 28 aprile». La presenza ha il sapore della sfida al divieto di dirigenti di Corso d’Italia di sfilare con le insegne Cgil, rivolto tuttavia alle sole strutture come impone lo statuto quando la confederazione non aderisce. Ma a sentire i «disobbedienti» il messaggio è un altro: «La Cgil c’è ed è plurale» «e meno male che c’è perché queste sono le sue battaglie e questa è la sua gente». Anche questa.
Confusi nella folla i leader del dissenso sindacale (Cremaschi a parte) cercano di far passare un messaggio positivo. In sintonia con i leader della sinistra politica che ripetono che il corteo non è contro il governo. Nonostante qualche striscione e qualche slogan che prende di mira il protocollo del 23 luglio firmato tanto dal governo che dalla Cgil, il sindacato di Guglielmo Epifani che un cartello vorrebbe «in vendita» causa nascita del Partito democratico. Poca cosa, comunque, rispetto alla stragrande maggioranza che «in positivo» chiede a Prodi non di andare a casa, ma di spostarsi «un po’ più a sinistra». A reclamarlo sono - senza sigle di appartenenza - i vigili del fuoco di Roma, i precari del Campidoglio e quelli del comune di Milano, i ricercatori di Reggio Emilia, gli esternalizzati Vodafone, i licenziati Barilla e, striscione dopo striscione, decine di altre realtà tutte precarie.
«La manifestazione ha accolto il disagio che c’è attorno al problema della precarietà», è il commento di Gianni Rinaldini. Il segretario della Fiom non è convinto che la presenza, visibile, di tanti militanti Cgil preconizzi una rottura all’interno della confederazione. «Non succederà nulla - risponde - sarei preoccupato del contrario, il dissenso ci deve essere perché fa parte della democrazia e se non fosse così allora mi preoccuperei». «Credo che quella circolare sia stata un infortunio», conclude. A onor del vero i dirigenti dei metalmeccanici qualche sforzo per stare nelle regole lo hanno fatto: molte tute blu hanno lasciato a casa le bandiere e hanno indossato una maglietta con la scritta «Io metalmeccanico e tu...», una frase che riprende lo slogan della manifestazione del 23 marzo 2002 (i tre milioni al Circo Massimo) ma allude anche alla specificità della categoria, l’unica in cui il No al protocollo sul welfare ha prevalso sul Si.
In tanti hanno invece indossato la pettorina gialla di «Lavoro e società, cambiare rotta», l’area programmatica che all’ultimo congresso Cgil è confluita nella maggioranza, salvo distinguersi in alcune occasioni, compresa questa. «No al lavoro precario», «No al lavoro nero», hanno scritto. «I simboli non hanno il copyright», taglia corto il coordinatore Nicola Nicolosi. Le bandiere, aggiunge, «sono state portate individualmente dai lavoratori e dagli iscritti». Si è visto anche un adesivo «Io Cgil», e si torna al Circo Massimo.
Se ne discuterà domani e martedì al direttivo della confederazione. E quantunque tutti escludano una resa dei conti, non c’è dubbio che Epifani debba ricomporre i «pezzi» e occuparsi della variabile indipendente Giorgio Cremaschi. Da lui e dalla sua componente, «Rete 28 aprile», sono arrivate le parole più dure. «No al protocollo, no al precariato, no a Confindustria», hanno scritto sugli striscioni e giù slogan contro scalini e scaloni. «In questa manifestazione ci sono pezzi importanti di Cgil, se ne deve tenere conto - afferma Cremaschi -. È una manifestazione di popolo, della sinistra e della Cgil che dice basta alla politica economica del governo Prodi, inadeguata, insufficiente e sbagliata. Questo governo ha fatto tanto per Confindustria e nulla per i lavoratori». Quanto ai vessilli «sono per dire che la Cgil è anche nostra, le bandiere sono del popolo e non delle segreterie».
Sulle bandiere in Corso d’Italia minimizzano. La responsabile dell’Organizzazione Carla Cantone ricorda che si tratta di regole vecchie di dieci anni, «il logo non può essere usato come fosse un circo Barnum. È comunque una discussione sopravvalutata. Verificheremo come abbiamo sempre fatto», afferma, «come quando c’è qualcuno che se ne frega dei regolamenti». Del resto in Cgil la dialettica non è una novità. «In cima ai nostri pensieri non ci sono certo gli stendardi - conclude Cantone -. C’è l’accordo e la preoccupazione che in Parlamento la destra lo possa peggiorare».

Repubblica on line 21.10.07
Esultano gli organizzatori della manifestazione contro il welfare e il precariato
Giordano: "Prodi ascolti questo popolo". Ingrao dà la linea: "Non siamo qui contro il governo"
Bandiere rosse e unità a sinistra, un milione in piazza per i diritti
Immigrati, precari, donne, studenti, il film del corteo. Ferrero: "Giornata splendida, il premier più forte"
Diliberto: "Non è più rinviabile il partito unico a sinistra". Vendola: "Io leader? L'ultima delle questioni"
di Claudia Fusani
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Le foto qui

Repubblica 21.10.07
Welfare, successo della manifestazione organizzata dalla sinistra. Blitz dei precari al convegno sulla legge Biagi
"Un milione, non contro Prodi"
di Umberto Rosso


ROMA - Quando Pietro Ingrao, dal palco di San Giovanni, al canto di Bandiera Rossa incita emozionato il popolo dei precari, «è una grande giornata di speranza e la lotta continua», la coda del corteo ha appena lasciato piazza della Repubblica trascinata a tempo di rap. Siamo un milione, annunciano gli organizzatori. Più, molto di più di quanto avessero osato sperare i direttori di Liberazione, Manifesto e Carta, ma soprattutto Giordano e Diliberto che sulla manifestazione si giocavano tutto. Tantissimi, giovani e pensionati, metalmeccanici e migranti, lavavetri e gay, donne in nero e uomini-casalinghi, mille e mille storie di lavoro spezzato e part time, e quindi un corteo anche duro e arrabbiato, ma alla fine gli slogan contro Prodi e il suo governo arrivano solo da piccole frange (quelli del Carc o di Action). Cobas assenti. No-Tav e No Dal Molin pochi. Il messaggio perciò che il segretario di Rifondazione spedisce al premier è tutto qui: «Vai avanti, non sfiliamo contro di te. Ma ascolta questo popolo». La riposta del professore arriva a strettissimo giro, sul palcoscenico di San Giovanni stanno ancora suonando i Tete de Bois e la gente balla, il premier garantisce «il popolo l´ho sempre ascoltato, ringrazio Giordano per la raccomandazione ma non ce n´era bisogno».
Niente ministri, si vedono alcuni sottosegretari, fra gli altri la Sentinelli (viceministro agli Esteri), Gianni (Attività produttive), la Rinaldi (Lavoro). Così, mentre il centrodestra attacca e intravede nel corteo la spallata finale, per la sinistra radicale invece «il governo esce stimolato, si appoggi su di noi, porti fino in fondo il programma - dice il segretario del Pdci - perché siamo tanti, e molto di più dei centristi». C´è qualche eccezione. Giorgio Cremaschi, leader Fiom, «questa gente è venuta qui contro il governo, pure se gli organizzatori provano a dimostrare il contrario». Tanti simboli del sindacato dei metalmeccanici, con il segretario Rinaldini in prima fila che regge lo striscione «Siamo tutti un programma», e tante bandiere della Cgil a sfidare la scomunica, «forse Epifani ha sbagliato i suoi conti», sorride Giovanni Russo Spena, capogruppo dei senatori del Prc. Sindacato bersaglio di un mega -striscione, «Cgil vendesi, Cento anni di storia svenduti al Pd».
«Noi non abbiamo governo amici, basta con i sacrifici» gridano i lavoratori delle Poste di Milano. Sotto tiro anche l´ex segretario della Cgil Sergio Cofferati, in questo caso come sindaco: «Bologna libera», invocano i militanti del Prc che vivono sotto le due Torri. Ma dopo il «left pride», la giornata dell´orgoglio della sinistra, si riapre anche un canale di comunicazione con il Pd - rapporti gelidi finora - con Walter Veltroni che saluta la manifestazione come un «grande fatto democratico» e si dice sicuro che «le differenze, che ci sono, non impediranno di rafforzare la collaborazione».
«Queste sono le nostre primarie per il soggetto unitario», annuncia Giordano. Anche chi ha scelto di non sfilare, Sd e Verdi, ora accelerano. «Manifestazione bella, grande e forte», commenta Mussi, e molti dei suoi (compresi cinque senatori) erano a San Giovanni. Anche Pecoraro applaude, pure se lui la Cosa la vuole arcobaleno. E il prossimo passo, con la costituente della Sinistra, sarà l´addio alla falce e martello.

Repubblica 21.10.07
Dalle note di Rossini alla luna di Ingrao
di Antonello Caporale


Quattro ore in marcia, come al solito. Con i fischietti, i berretti, le bandiere rosse. Come al solito. Di più, sicuramente di nuovo, le decine di migliaia di braccia conserte, le bocche cucite, il passo lento e fiero di facce mai viste prima, gli ultimi ingressi nella Cosa che si chiama per adesso rossa.

Al corteo di Roma molta rabbia repressa di precari e operai. Ovazione per l´anziano leader
La marcia del popolo di sinistra e Ingrao disse: "Sì, vogliamo la luna"
Tra rassegnazione e bocche cucite: "Questo premier è meglio di niente"

Nessun comizio: il palco è per Ascanio Celestini, narratore di sogni
Il popolo è unito, i capi no. Giordano è un chilometro distante dai passi di Diliberto

Il partito della sinistra che verrà. Facce silenziose, composte. Prudenti, anche un pizzico rassegnate. «Io sono qui», dice Marcello. Sono qui, manifesto ma non urlo contro Prodi, «che è meglio di niente».
Il milione o forse meno che ha riempito il solito sabato romano, oggi gelato dalla tramontana, marcia con la paura di scaraventare in strada anche il governo, far chiudere baracca e dichiarare fallita la ditta. Non se lo possono permettere, e lo sanno. «Vogliamo un altro mondo, non la luna». Come le promesse di quei bimbi discoli: «Mamma, ci divertiremo senza rompere nulla».
Poco chiasso e buona musica. Poco e niente Bella ciao, c´è la Gazzaladra di Rossini. Poco apparato ma molto sindacato. Migliaia gli iscritti alla Cgil, malgrado Epifani avesse vietato le bandiere, e tutti col gagliardetto del disubbidiente: «Io Cgil». Nessun ministro, qualche sottosegretario sì però. Alfonso Gianni, vice di Bersani al ministero dello Sviluppo economico: «Noi difendiamo il governo, forse siamo gli unici, senza rinunciare ad esprimere il nostro spirito critico. Se vogliono mandarci all´opposizione possono farlo. Decidono i centristi, non noi. Vorrà dire che eserciteremo da lì la nostra critica».
Solo all´icona della sinistra, Pietro Ingrao, limpida voce nonostante l´età e la stanchezza delle gambe, è permesso di chiedere l´impossibile: «Sì, vogliamo la luna. Saluto tutti con un antico slogan: la lotta continua». L´abbracciano, lo circondano, lo baciano. Siamo a Santa Maria Maggiore e sono appena le tre. Le foto, le mani, i pugni chiusi. E´ una ressa intorno al grande vecchio («un tipo che non ha mai lavorato in vita sua!», commenterà da uno studio televisivo Renato Brunetta, di Forza Italia). Ingrao è accompagnato dalla sorella Giulia, accudito da Franco Giordano, il segretario di Rifondazione comunista. Come al solito il popolo è unito, i capi no. Giordano è un chilometro e forse più distante dai passi di Oliviero Diliberto. Dovrebbero filare d´amore e d´accordo. E´ da queste parti, si è qui, anche Lella Bertinotti, la moglie di Fausto: «Chi pensa che sia venuta in rappresentanza del presidente della Camera non mi conosce».
C´è gente nuova in marcia, e si vede. Prudente e l´abbiamo detto, anche rosa dal dubbio: meglio questo governo o l´opposizione? Si sta andando in piazza San Giovanni a far festa o si corre dritti alle urne? Marciano in otto, in quattro tengono issato lo striscione: «E´ un governo di merda, ma è il nostro». L´unico che abbiano, purtroppo per loro. Buono per i fotografi. Ma è tutta così la manifestazione?
No che non è sempre così. Il tronco del serpentone è di un rosso vivo e antico, il mugugno sale, una donna sandwich provoca: «Era meglio il governo Berlusconi». Foto, foto. I precari, quanti precari, «non ne possiamo più». Giulia, il solito call center: «Non ce la faccio e non lo capiscono quelli là». I dipendenti del comune di Roma tenuti a stecchetto da contratti a tempo determinato, e poi gli edili di Cagliari, e le operaie cottimiste di Prato, i tessili, i disoccupati organizzati di Napoli. «Ho tre figli da mantenere con ottocento euro». Ottocento, ottocento, ottocento. Tutti con gli stessi soldi in tasca, la stessa paura, la casa che non c´è o il mutuo che non si riesce a pagare i figli che non si fanno. «Ragazzo bamboccione cerca ragazza», ha scritto Dario su un foglio bianco. Le centraliniste esibiscono il cartello vendesi, quello per gli appartamenti mandati sul mercato della libera contrattazione. Ridono, fanno simpatia, cantano le hit parade degli anni ottanta. Altrove ci sono molte bandiere, ma anche molto silenzio. Più del solito. Come al solito ci sono i comunisti rivoluzionari: duri ma composti. Educati: un euro, lo prende il giornale? Spuntano gli interisti leninisti, e sono una simpatica new entry. La raffigurazione pittorica della sinistra radicale si ferma al barboncino con la bandana del Che. Viva il compagno cane.
Le barbe sembrano meno di un tempo, i giovani più di un tempo. Meno incazzati ma più depressi. Fanno baccano quelli del circolo Mario Mieli, l´universo transgender romano, con i palloncini colorati e i fianchi che si muovono al ritmo di un motivetto di Heather Parisi: televisione di vent´anni fa.
La luce del giorno si fa fioca, siamo quasi giunti a piazza San Giovanni. In coda al corteo c´è Nichi Vendola. E´ Nichi, ciao Nichi. Una foto, due tre, «papà premi il bottone sennò non esce niente». Bertinotti lo vorrebbe leader, lui forse ci starebbe pure ma è ancora presto per parlarne, e parlarne così tanto tempo prima non porta affatto bene. Fatti fotografare e sorridi, gli dice Mario, pompiere in tenuta di protesta. «Guadagniamo pochissimo». Gli immigrati senza diritti («Anche Maradona è stato immigrato»), i precari senza tempo: «noi flessibili, i politici inflessibili», e Prodi non ci sente: «Romano, Vaffanculo!».
Il palco è qui. Nessun politico sale, nessun comizio è previsto. Il palco è per Ascanio Celestini, narratore di sogni. Bravissimo. Chi vuole ascolta, chi no riparte. I bus aspettano «dove l´altra volta Michè».

Repubblica 21.10.07
Il presidente della Camera davanti alla tv: grande soddisfazione
Lella Bertinotti in corteo "Rappresento me stessa"
"Io il Pci l'ho lasciato nel 1987, avevo capito dove si stava andando a parare"
di g.c.


ROMA - Lui, il presidente della Camera, il corteo l´ha seguito attraverso le dirette tv. Lei, la "compagna" Lella gliel´ha raccontato parte in diretta telefonandogli, e nei particolari poi, una volta giunta a casa. Fausto Bertinotti ha commentato con una nota breve mentre ancora sfila il "popolo rosso" e Pietro Ingrao ha appena parlato, esprimendo «grande soddisfazione» per la riuscita. E si è complimentato con il segretario di Rifondazione, Franco Giordano che l´aveva del resto chiamato subito per comunicargli: «Fausto, la manifestazione è riuscita al di là di ogni previsione». Lella Bertinotti si è immersa nel corteo - tailleur, collana rossa e due amiche - però è stata parca di dichiarazioni: «Ho salutato centinaia di compagni».
Soddisfatta? Certo, annuisce sorridendo. Contenta? Contentissima. Manco a farlo apposta mentre arriva, quasi in contemporanea con Ingrao, la "Contrabanda" napoletana di Luciano Russo intona "Bella ciao" . L´euforia lievita e coinvolge la first lady della sinistra: «Se pensate che sono qui per conto di Fausto, non mi conoscete. Sono una persona libera e sono qui a rappresentare unicamente me stessa». Con i suoi si era confidata: questo governo deve fare politiche di sinistra. È una militante di lungo corso Gabriella Fagno, la moglie del lider maximo. Ha camminato sempre «insieme» al marito, non «un passo indietro». Talvolta, ha ricordato anche di recente, l´ha preceduto nelle scelte politiche. Fausto era socialista, lei del Psiup e finirono entrambi nel Pci, ma Lella prima di lui. Alla vigilia del congresso del partito nel 2005, quello che la segnato la svolta del Prc, aveva ricordato: «Io il Pci l´ho lasciato nel 1987, avevo capito dove si stava andando a parare».
Accompagnando il marito a Lisbona aveva confermato la scelta annunciata: «In piazza io ci vado, l´ho deciso ma non mi metto sotto i riflettori». Ai quali del resto è abituata, ad esempio venerdì sera a quelli della serata mondana della Festa del cinema. Quando Bertinotti era segretario del Prc, di manifestazioni non ne ha mancata una. E adesso che a causa della carica istituzionale, il consorte non partecipa alle kermesse della sinistra, lei certo non rinuncia.

Repubblica 21.10.07
In molti non seguono l'indicazione di Epifani sulla partecipazione al corteo. Il vertice del sindacato: ci sarà un chiarimento nel direttivo
Tante bandiere Cgil. E la Cosa Rossa resta in salita
di Giovanna Casadio


ROMA - Sventolano le bandiere della Cgil Campania, Calabria, Lombardia. C´è lo striscione Cgil-Piacenza. Ce ne sono decine e decine di bandiere rosse del sindacato, nonostante la diffida di Epifani ad usarle. Sfilano i militanti del sindacato portando in bellavista l´adesivo "Io Cgil". Spezzoni di disobbedienti? «L´area di sinistra ha sfidato le regole, non è un problema di merito ma di correttezza», fa sapere a pochi minuti dall´avvio del corteo Carla Cantone, segretario confederale. La cosa non finisce qui, insomma. «Anche di questo», delle bandiere in piazza nonostante il divieto - avverte in una nota - si parlerà nel direttivo di domani e di martedì. Giornate che si annunciano roventi di polemiche, benché sia Giorgio Cremaschi che Gianni Rinaldini, i leader della Fiom in testa al corteo, mostrino di non darvi importanza.
Liquidatorio Cremaschi. «Lo so che le bandiere della Cgil sono tante ma è normale perché le bandiere sono del popolo non della segreteria». Rassicurante Rinaldini: non per questo ci sarà una spaccatura nel sindacato, «non succederà nulla, sarei preoccupato del contrario, il dissenso ci deve essere perché fa parte della democrazia e se non fosse così allora mi preoccuperei». E comunque per Rinaldini due cose sono chiare dopo la mobilitazione del "popolo rosso", che cioè la circolare sul divieto delle bandiere è stata «un infortunio» per la Cgil e che c´è più che mai bisogno di un soggetto unitario della sinistra. La "Cosa rossa" appunto, il cui percorso tuttavia resta in salita.
La Sinistra democratica di Mussi e i Verdi di Pecoraro Scanio al corteo non hanno aderito. Ma questa manifestazione - afferma Franco Giordano il segretario di Rifondazione che nell´euforia balla sulle note di "Bella ciao" e non è disposto a «piccole polemiche» - sono «le primarie della sinistra unita». Il percorso unitario va quindi accelerato, come ammette lo stesso Fabio Mussi. «La manifestazione è grande, bella, forte politicamente, chiede che si alzi la battaglia contro il lavoro precario, che il governo si muova con più rispetto per il suo programma, che la sinistra si unisca - riconosce il ministro, "transfuga" ds - Ora sentiamo la responsabilità di raccogliere questa voce». Non accenna a pentimenti per avere rifiutato l´adesione ufficiale, benché molti dei "suoi" in piazza ci fossero lo stesso. Non gliele manda a dire invece Oliviero Diliberto, il segretario del Pdci: «Vedendo questa manifestazione Sd e Verdi avranno capito di avere commesso un errore perché ci sono qui molti dei loro militanti». Nei prossimi giorni, la sinistra radicale si riunisce per fare il punto. Giordano garantisce che entro l´anno «Rifondazione darà vita alla Costituente per un soggetto unitario, ci sarà una Sinistra in questo paese». È forte di un successo insperato: un corteo di massa e non contro il governo. Sul tavolo dell´unità a sinistra tanto lui che Diliberto potranno trattare da posizioni di forza su tutto, dal simbolo della "Cosa rossa" alla leadership. Pecoraro dal canto suo, fa i complimenti agli organizzatori. «Mi emozionano tante bandiere rosse di Prc, Pdci e Cgil», indica il colpo d´occhio il leader dei comunisti italiani insistendo su quelle del sindacato. Gli fa eco Manuela Palermi, capogruppo Pdci al Senato: «Spero che Epifani abbia un soprassalto e si renda conto del disastro combinato».

Repubblica Roma 21.10.07
Mercoledì in Regione Prc, Sd, Pdci e Verdi si riuniscono in una federazione
"Cosa rossa", dal corteo al gruppo unico


L´affollatissimo corteo che ha sfilato ieri in centro storico gli ha dato una bella spinta, certo, ma la decisione era presa da tempo e la data già fissata alla vigilia della manifestazione sul welfare: nascerà mercoledì prossimo alla Pisana il primo gruppo federato della Cosa rossa. Ad annunciarlo, mentre la marcia procede spedita verso piazza San Giovanni, l´assessore regionale al Bilancio di Rifondazione, Luigi Nieri, e la collega alla Cultura di Sd, Giulia Rodano. «Ci riuniremo e daremo vita all´unione della sinistra insieme a Verdi e Pdci», spiegano i due esponenti dell´ala radicale. In risposta, anche, al gruppo unico del Pd ormai costituito, potrà contare su 11 consiglieri e 5 assessori del Lazio: oltre a Nieri e Rodano, Mario Michelangeli (Pdci), Alessandra Tibaldi (Prc), Filiberto Zaratti (Verdi). Ma senza coltivare voglie di rivincita, né di contrapposizione col Pd, anzi: «Saremo un soggetto alleato e dialogante: l´unità della sinistra serve a rafforzare, a dare maggiore credibilità, a tutta l´Unione», precisa Rodano. «Nessuno», taglia corto Nieri, «ha mai pensato che si possa andare divisi al voto di primavera».
(giovanna vitale)

Corriere on line 21.10.07
Welfare, la sinistra fa il pieno
«Un milione in piazza a Roma»
Grande adesione alla manifestazione contro il precariato. Giordano (Prc): «Prodi vada avanti». Sfila anche lady Bertinotti. Ovazione per Ingrao
qui

Corriere della Sera 21.10.07
A Roma la manifestazione di Prc e Pdci contro il precariato.
Sinistra radicale, un milione di no


ROMA — Un milione di persone in piazza a Roma per il corteo indetto dalla sinistra radicale contro il precariato. C'era anche Ingrao. Prodi: non lascio. Napolitano: Bankitalia ha ragione. Sinistra in corteo: un milione, avanti Prodi
Prc e Pdci a Roma: il premier ci ascolti e sarà più forte. Bandiere Cgil nonostante il no di Epifani

Un mare di bandiere rosse, un colpo d'occhio stile anni Settanta. Un corteo diverso da quelli multicolori dei movimenti di questi ultimi anni. Tantissimi, «siamo un milione», dirà alla fine il segretario di Rifondazione Franco Giordano. E il senso della manifestazione contro il lavoro precario lo riassumerà alla fine Piero Ingrao, 93 anni, leader storico della sinistra: «Non è una manifestazione contro Prodi e nemmeno Veltroni — ha detto —, però i due sono moderati, e tale massa di popolo vuole un cambiamento profondo. Quindi credo che quanto più si rafforzerà questo movimento, tanto più Prodi potrà fare qualcosa di buono».
Tante le bandiere di Rifondazione e dei Comunisti italiani, ieri al corteo sul Welfare. Ma anche bandiere della Cgil, quelle che Guglielmo Epifani non voleva in piazza, forte di un referendum che a larghissima maggioranza ha approvato l'accordo sul welfare sottoscritto dai sindacati. Molti, a partire dal segretario generale della Fiom Gianni Rinaldini, avevano anche un adesivo al petto con su scritto «Io Cgil».
Il rosso domina.
Un corteo quasi totalmente monocromo.
Ma la cosiddetta sinistra radicale ha tante anime, e ieri erano presenti tutte: movimenti, associazioni, pacifisti, no tav, no Mose, no War, no Dal Molin, immigrati, precari di decine di aziende — da Alitalia a Vodafone —, singoli cittadini, movimenti gay, gruppi ambientalisti. Ed è il no al lavoro precario, tema del corteo, il principale collante che tiene uniti i manifestanti. Due i cartelli, tra i tanti, che possono riassumere anime comunque significative dei variegati umori della piazza: uno è quello di Eliana, 38 anni, di Venezia: «Voglio che torni Berlusconi, così il popolo di sinistra ricomincia a pensare». «È una provocazione — dirà poi —, ma ho votato Rifondazione e vorrei mi dicessero che cosa ci stanno a fare al governo». L'altro è di Carla, precaria di Cava dei Tirreni: «Questo è un governo di merda, ma è il nostro governo».
Un milione di partecipanti è una cifra forse esagerata, ma è vero che dopo le 18, quando piazza San Giovanni era già strapiena, carri e militanti partiti alle 14.30 da piazza della Repubblica stavano ancora sfilando lungo il tracciato. «Le nostre primarie », commenta un entusiasta Franco Giordano, segretario del Prc. «Prodi vada avanti — aggiunge — raccogliendo le richieste di questa piazza perché sono le promesse che abbiamo fatto durante le elezioni». «Prodi — gli fa eco Oliviero Diliberto — dovrebbe essere molto contento di una piazza così affollata che lo sostiene. Io sono comunista ma non sono mica scemo, non sono contro il mio governo ».
Non tutta la piazza però sostiene il governo. Malpancismi, critiche e slogan si fanno sentire, dal grado minimo dell'«ora applichiamo il programma » al grado massimo di quelle sillabe scandite più volte: «Governo Prodi, governo di imbroglioni. Stesso programma di Ber-lu-sco-ni».
Da più parti si invoca un nuovo soggetto unitario della sinistra, che però non interessa ai Carc. C'erano anche loro: esponenti del Partito dei comitati di appoggio alla resistenza per il comunismo, l'ala più estrema in marcia: «Ammazzano le donne, molestano i bambini. Governo Prodi governo di assassini» è uno degli urlati. Ma ce n'è per tutti, anche contro Bertinotti e per la «libertà del compagno Giuseppe Maj», loro fondatore e arrestato per terrorismo. E ce n'è anche per Umberto Bossi, che in alcuni slogan gridati da extracomunitari viene definito «assassino». Il Senatùr replica: «Io assassino? La mia legge era una cosa seria».

Corriere della Sera 21.10.07
Bertinotti e il corteo: questo governo ha ancora una diga
Bertinotti e il governo: c'è ancora una diga Ma se cade, Rifondazione vuole il voto
di Maria Teresa Meli


ROMA — Franco Giordano la spiega così: «Prodi dovrebbe ascoltarci e fidarsi di noi perché siamo i più leali con lui nella coalizione. Siamo noi, è questa gente, questi giovani in piazza che lo salveranno dai giochetti di palazzo di chi vuole farlo cadere».
Dunque, ancora una volta Rifondazione propone un patto al premier in bilico. Il ministro del Welfare Paolo Ferrero è esplicito: «Ci sono forze centriste che potrebbero stare a destra o a sinistra senza troppi patemi d'animo, mentre questa gente che è in piazza no, perciò stimola il governo, per farlo andare avanti rispettando il programma».
E infatti quella di ieri non era una manifestazione contro Prodi. Anzi si sentivano più slogan contro il Partito democratico e il suo leader: «Veltroni, Veltroni sei come Berlusconi ». Il Pd, che Giordano non ha mai nascosto di ritenere «destabilizzante» per il governo.
Il presidente della Camera Fausto Bertinotti (assente, per ovvi motivi, al corteo, ma pubblicamente plaudente) è convinto che vi sia «ancora una diga» contro il pericolo che Prodi cada. Ma all'ex segretario di Rifondazione non sfugge comunque la difficoltà in cui si muove la maggioranza: «Certo — ripete spesso a collaboratori e compagni di partito — poi nessuno è in grado di dire come finirà. È come quando uno ha un vestito logoro: può lacerarsi all'improvviso ». E nessuno, a dire il vero, ha capito come andrà a finire, anche se tutti temono la settimana della Finanziaria. È chiaro che Rifondazione preferirebbe mantenere l'attuale assetto, ma comunque nemmeno il Prc è disposto a farsi crocifiggere sull'altare del prodismo. Per questa ragione mentre da una parte spera che il governo non cada, dall'altra Rifondazione si prepara comunque all'eventualità di una campagna elettorale, perché di altri governi che non siano di centrosinistra i vertici del partito non vogliono sentir parlare. Niente esecutivi tecnici o istituzionali, al massimo un esecutivo guidato da Piero Fassino e magari allargato all'Udc. Ma siccome queste sono solo ipotesi, il Prc studia le mosse della possibile campagna elettorale. Ed è questo il motivo del moltiplicarsi delle esternazioni di Bertinotti nell'ultimo periodo, come della decisione di accelerare sulla Cosa rossa. Mercoledì Giordano, Mussi, Diliberto e Pecoraro Scanio hanno in programma un incontro riservato per decidere le tappe: a dicembre gli stati generali, poi i gruppi parlamentari unici e la federazione.
In tutti i palazzi della politica, comunque, ci si interroga sul futuro. Il presidente del Senato Franco Marini non nasconde le sue preoccupazioni e spiega ai colleghi dell'Ulivo: «Sappiamo bene che se l'opposizione avesse voluto mandare sotto il governo in questi mesi avrebbe potuto farlo molto più spesso, quasi un giorno sì e uno no. Finora non lo ha fatto, perché Berlusconi non era pronto, ma ora? Perciò la maggioranza stia attenta a quel che fa sulla Finanziaria: il fatto che siano stati presentati tutti quegli emendamenti proprio dal centrosinistra mi è sembrato strano».
Sospetti, paure e interrogativi. Rifondazione punta gli occhi sul Pd. Su Veltroni che anche ieri non ha mancato di rimarcare le «differenze» con la sinistra. Ma poi è lo stesso sindaco di Roma a dire che bisogna «collaborare per non far cadere il Paese in una fase d'instabilità». Eppure gli uomini più vicini a Veltroni, nel chiuso delle riunioni, fanno altri ragionamenti. «Probabilmente a questo punto a Walter converrebbe andare direttamente alle elezioni. E non è detto che non ci si arrivi, visto che sia lui che Berlusconi le vogliono », è il ragionamento di Goffredo Bettini. «Mi sembra veramente complicato che si possa evitare il voto anticipato », è la riflessione del sindaco di Torino Sergio Chiamparino. E il senatore Giorgio Tonini è convinto che che se non si riescono a fare le riforme allora è meglio andare alle urne.
Chi sostiene ancora il premier e spera che possa andare avanti chiede però un cambiamento del governo, perché proseguire in queste condizioni diventa ogni giorno più difficile. Allora meglio un Prodi bis: è l'idea del leader dello Sdi Enrico Boselli.

il manifesto 21.10.07
Il messaggio che non si può cancellare
di Gabriele Polo


C'era bisogno di una scossa. E la scossa c'è stata. C'era bisogno di dire a tutti che le precarietà sono la malattia della nostra epoca, ma che le si possono combattere perché non sono un fenomeno naturale. Ed è stato detto da centinaia di migliaia di persone. C'era bisogno di ricordare al governo che la sua maggioranza è stata eletta per dare un segno di discontinuità rispetto all'era Berlusconi e che di questa discontinuità abbiamo visto poche e flebili tracce. Ed è stato ricordato dalle comuni parole di tante e tanti. C'era soprattutto bisogno di ritrovarsi insieme - anche per quelli che non c'erano - per poter riprendere un discorso comune, oltre le frammentazioni prodotte dalla violenza liberista e assecondato dalle «timidezze» della politica. Anche quella di sinistra. E, c'era bisogno che tre piccoli giornali, tra cui questo, insieme a un minuscolo gruppo di individui che nulla rappresentano se non le proprie idee, indicessero un grande momento di incontro, che altrimenti non ci sarebbe stato. Ennesima dimostrazione, quest'ultima, dello stato della rappresentanza, della necessità di ricostruirla su basi completamente nuove, ridando un senso e una pratica alla parola democrazia, vilipesa quand'è vuotamente inflazionata.
Le tantissime persone scese in piazza ieri a Roma - molte delle quali si sono sobbarcate un faticoso viaggio - non avevano alcun interesse egoisticamente materiale da rivendicare, ma mille concreti bisogni da praticare. Bisogna ringraziarle e rispettarle per questo, perché lanciano una richiesta di partecipazione che l'attuale sinistra non potrà eludere, pena la sua scomparsa. Non è un confuso insieme di proteste o domande corporative, è la rivelazione di condizioni materiali ed esistenziali che si possono precisamente elencare componendo la realtà concreta della parte più bistrattata e rimossa del paese. Non è una generica richiesta di «unità» delegata a ristretti gruppi dirigenti, è la promessa di un impegno diretto che ha bisogno di luoghi e modalità precise di partecipazione.
Se volessimo sintetizzare tutto questo con uno schema oggi in voga, potremmo dire che le nostre primarie le abbiamo iniziate ieri in piazza san Giovanni. Non per innalzare agli altari un leader - cosa che non vorremmo mai veder fare a sinistra - ma per abbattere gli steccati della frammentazione sociale e quelli ancor più ristretti delle appartenenze politiche. Un impegno consapevole - persino un po' preoccupato, per la gravità dei tempi in cui cade - che solo dei gattini ciechi potevano non vedere nella folla di ieri, piena di giovani. Certo, poi c'è il quadro politico, le fragilità di un governo in agonia, l'incubo della destra incombente. Ma - permetteteci di bestemmiare - tutto questo non può immobilizzare, altrimenti la destra tornerà al potere senza che a sinistra ci sia più niente.
Nel quadro grigio di questi mesi, l'unico segnale di ottimismo è venuto ieri da una piazza. Sappiamo che non si può manifestare ogni giorno, ma da ieri sappiamo anche che lo spirito e la pratica del 20 ottobre dovranno essere quelle di ogni nostro futuro giorno.

il manifesto 21.10.07
Un fiume in piena in cerca di sinistra
di Loris Campetti


Un'unità tra diversi. In piazza tutte le precarietà e i primi fragili spezzoni di un programma
da scrivere in fretta. Un milione di persone che non si accontenta di delegare la politica ai leader Mi si nota di più se ci sono
o se non ci sono? Noi non siamo bamboccioni. Abbiamo chiesto un segnale, è arrivato

Roma La sinistra c'è ancora. Ne ha prese tante negli ultimi mesi ma resiste e ieri ha messo le basi per iniziare una nuova storia. La sinistra sociale, innanzitutto, che non ha chiuso bottega dopo esser riuscita a mandare a casa Berlusconi, ha risposto in massa all'appello a battere un colpo lanciato dal manifesto, Liberazione e Carta insieme a un drappello di promotori. Battere un colpo che tutto il paese potesse ascoltare, a partire dalle forze che governano il paese in un modo che proprio non convince. Tutti hanno paura del ritorno di Berlusconi, ma hanno anche paura che Berlusconi non sia mai tornato a casa del tutto.
Battere un colpo contro la precarietà del lavoro, dei diritti, della vita stessa di milioni di persone a cui è stato ipotecato il futuro da una cultura dominante che mette il Pil sopra ogni cosa, sopra gli uomini e le donne. Il mercato che regola tutto non riesce a regolare il cervello di quelle centinaia di migliaia di manifestanti (un milione per gli organizzatori) che ieri hanno invaso Roma. Tutta gente che sul Pantheon non mette le solite figurine (a parte quelle del manifesto che sono andate a ruba) ma contenuti «pesanti». Tanto per intenderci, pensano che la solidarietà sia un valore e invece la competizione selvaggia no. Hanno una pretesa: la nuova sinistra che nascerà non dovrà parlare a nome loro, sono loro gli embrioni, i soggetti portanti di questa nuova sinistra, gente stufa di delegare a qualcuno la soluzione dei suoi problemi. Lo pensano con determinazione e lo dicono con ironia come il gruppo dietro lo striscione dei giovani di Sinistra democratica che s'interroga: «Mi si nota di più se ci sono o se non ci sono?».
A Roma sono arrivati con ogni mezzo: pullman, treni, una nave, tante macchine private. Pochi sono arrivati in aereo, il reddito medio in piazza San Giovanni abbassa il Pil medio nazionale. Essere precari vuol dire avere meno di mille euro al mese, come ripetono le lavoratrici precarie della Vodafone in via di terziarizzazione, ognuna con il cartello al collo «vendesi». Altri hanno scritto sulla maglietta «Io metalmeccanico, e tu?». I tanti tu che poi diventeranno un noi composito, colorato e unito, dicono di sé «vigili del fuoco», «ferrovieri» che trascinano una locomotiva di cartone e uno striscione che recita «No precari sui binari». Sono i contadini di «Altragricoltura», sono i «Mobasta precari» del «Movimento di base assistenti di volo stagionali Alitalia» che ritmano «noi non siamo bamboccioni». Sono «Disoccupati» di Scampia più rumorosi delle bande che accompagnano il corteo. Anzi, i cortei: uno ufficiale al centro, tappezzato da una marea di bandiera rosse di Rifondazione innanzitutto, ma anche del Pdci, della Fiom, della Cgil, del Sindacato dei Lavoratori, persino dei «Radicali di sinistra». Ma anche No-Tav, No Dal Molin, Glbt. Bandiere arcobaleno, non moltissime ma ci sono. E che dire degli occupanti di case o dei senza casa? E dei contadini e pastori sardi che occupano il municipio di Decimoputzu perché gli hanno messo in vendita le aziende, colpevoli di non riuscire a pagare un mutuo decuplicato? Loro scrivono in un cartellone «Banchieri usurai». Tanti i sardi, delle aziende in crisi di Macomer, Ottana, Siniscola. E i siciliani, tantissimi come i calabresi. Il sud impazza e riempie di suoni il corteo disordinato.
Poi ci sono gli altri due cortei che procedono in altrettanti percorsi spontaneamente anarchici al lato, davanti, dietro o nella strada accanto al corteo ufficiale con in testa i promotori e la coda chissà dov'era rimasta. E' il popolo di sinistra, la sinistra sociale senza bandiere regolari e con tanti cartelli irregolari e autoprodotti come usa adesso. Seri come quello che dice «Siamo tutti rom» indossato da una ragazza, a cui un ironico e dispettoso metalmeccanico di Bergamo, tentando un romanesco improbabile, risponde «Ce sarai». La ragazza sta per dargli uno schiaffo, poi capisce lo scherzo e l'abbraccia. Alcuni cartelloni sono meno seri, come quello che alza una giovane precaria: «Buon lavoro Veltrusconi». E gli studenti? Tanti, allegri e «incazzati», i più numerosi sono i fiorentini. Migranti, poi. Gli immarcescibili kurdi fuggiti dalla Turchia per disperazione, africani operai, precari, disoccupati; asiatici, est-europei (un bel cartello alzato da un polacco «Siamo tutti lavavetri»). Migranti che di strada per arrivare qui da noi in cerca di un futuro ne hanno fatta tanta, certo più degli «Interisti leninisti» arrivati da Ravenna.
«Siamo tutti un programma» ma guai a dimenticare le donne «Fuori programma». O le donne in nero che hanno un chiodo fisso: «Fuori la guerra dalla storia». C'è chi scambia figurine dell'Album di famiglia del manifesto persino sul palco, come Giuliano (Giuliani): «Idea geniale, mi ritrovo a settant'anni ad appiccicare, me ne mancano dieci. Ma voi come al solito non siete dotati come commercianti, ho pochissimi doppioni, dovete farvi furbi». C'è chi porta in corteo piantine di marjuana e chi tra tanti no dice anche un «Sì alle energie rinnovabili», lo stesso pensano quelli con le pettorine «No al carbone». Altri pensano invece ai «diritti animali». Non basterebbe l'intero giornale per citare tutti, non ce ne voglia chi è rimasto fuori, ci terremo in contatto.
I giovani, dicevamo. E i meno giovani, a partire da un grande padre riconosciuto da tutta la piazza come Pietro Ingrao che regala parole di speranza al «popolo di pace», e non demorde: «La lotta continua». I tanti striscioni che chiedono «Sinistra unita» impongono un salto di qualità. Come dice Marco Revelli, «la quantità enorme di persone in piazza dimostra che si è capita la posta in gioco: era in gioco l'esistenza di una sinistra in Italia. Perché una sinistra serve, diversa da quella che c'è stata finora. Che nulla ha a che fare con la logica del marketing politico dei giorni scorsi». E adesso che facciamo? «Noi che abbiamo promosso questa manifestazione, che abbiamo chiesto di battere un colpo e il colpo è stato battuto, abbiamo una responsabilità enorme», ammette Revelli.
Insomma, dopo il 20 ottobre viene il 21, non possiamo defilarci. Teniamoci in contatto.

il manifesto 21.10.07
«La Cgil siamo noi» Sfida al sindacato
Migliaia di bandiere, striscioni e pettorine svuotano il «divieto» proclamato dal dipartimento organizzazione.
di Francesco Piccioni


Si fanno vedere le aree Lavoro Società
e Rete 28 Aprile. In piazza anche tanta Fiom. E la disobbedienza vince

Roma. Chi non è venuto ha perso un treno. Ma ha tempo (poco) per recuperare. Chi si è messo contro, invece, ha probabilmente perso il polso del paese, di questa gente che lavora ogni giorno o ha lavorato una vita.
Il «divieto» fatto circolare dal Dipartimento organizzazione della Cgil non ha avuto alcun effetto. Centinaia di bandiere del sindacato storico della sinistra spuntavano a ogni angolo del corteo. L'area programmatica Lavoro Società ha scelto di farsi vedere davvero, mettendo in campo un camion, qualche migliaio di pettorine gialle «contro il lavoro nero e precario» e l'orgoglio di una componente rilevante della stessa maggioranza che regge la confederazione. Ma non sembra che l'ala «democratica» della segreteria sia stata resa più ragionevole dalla forza dei numeri. La segretaria confederale Carla Cantone ha parlato poi di «sfida alle regole», minacciando che «anche di questo si discuterà al direttivo che comincia lunedì».
Le persone che fanno vivere il sindacato e che ieri erano in piazza sono decisamente più mature, attente al merito e non sopportano diktat. Abbiamo avvicinato un ragazzo che reggeva la bandiera con la scritta «Cgil Campania», 25 anni, operaio alla Fiat di Pomigliano d'Arco. Alla domanda finto-scherzosa sul «divieto» ha risposto con la serietà di un veterano: «Io mi alzo ogni mattina alle tre per andare a lavorare. Sono io la Cgil. Credo che Epifani abbia preso un abbaglio; e che stiamo, anche con questa manifestazione, salvando la Cgil da una deriva pericolosa».
Pomigliano è una fabbrica «giovane», età media 28 anni. Qui il «no» alla consultazione ha preso il 90%. «Sì, siamo quasi tutti giovani, ma uno su due è precario e si lotta per la sopravvivenza». Che poi vuol dire una cosa semplice: «Chi ha un contratto fisso sa che chi gli sta a fianco probabilmente non ci sarà tra tre mesi; e quindi non gli può chiedere che faccia la tua stessa quantità di lavoro. E quindi noi 'garantiti' lavoriamo di più, ma loro non sanno mai se il contratto a tempo gli sarà rinnovato oppure no».
I ferrovieri hanno molta esperienza e hanno portato una piccola locomotiva finta che manda un fumo infernale, davanti allo striscione «No precari sui binari». Sembra assurdo, ma ci sono «apprendisti» che portano il treno da soli, senza neppure un macchinista esperto al loro fianco. Il guadagno per le Fs è tutto economico: «Un apprendista costa il 30% in meno di salario e il 90% in meno di contributi». Sulla situazione politica hanno le idee chiare: «Tutte le mediazioni politiche su lavoro e welfare erano state fatte con il programma dell'Unione, quello era il punto di equilibrio per tutti; non se ne possono fare altre, cedere ancora».
Un gruppetto di giovani operai della Watsila di Trieste la vedono «male, malissimo. Ormai ci sentiamo anche un po' presi per il culo dalla nostra stessa confederazione». Al centro della critica sta il protocollo sul welfare, venduto come «un passo avanti per i giovani». Ma a loro non risulta proprio. Anzi, vi vedono «un attacco alla contrattazione nazionale, oltre che il solito gioco di tentare di mettere giovani contro vecchi». Sentono di «lavorare per sopravvivere» e pensano che la prima difesa sia «aumentare il potere d'acquisto, i salari».
Due ragazze di Lecce con la pettorina gialla sono invece studentesse a Roma. «Non ci sta bene niente, l'università ha pochi soldi per le borse di studio e noi finiamo dentro il lavoro nero; facciamo le cameriere nei pub e nei ristoranti, dove capita». Qualche striscione anche per la Rete28Aprile, l'area programmatica di Giorgio Cremaschi. Qui stiamo tra quadri sindacali esperti, ancora con lo sguardo sui risultati del «referendum» e sui conti che a loro non tornano. Ma che ricordano «il voto delle grandi fabbriche del nord», che è «la base per costruire una svolta sindacale, ma anche politica a sinistra».
Si galleggia avanti e indietro in un corteo «indisciplinato», con la gente che sorpassa la «testa» aggirandola dai marciapiedi o tagliando direttamente per vie traverse. Gianni Rinaldini, segretario generale della «ribelle» Fiom, sorride e non vuole aggiungere nulla a quello che si vede e sente. «Stai a sentire chi lavora, oggi, mi sembra abbiano molto da dire».
Un ragazzo con la bandiera della Filcams Cgil se ne va in cerca dei suoi. «Siamo venuti da Trento in duecento. Mi pare che ci sia un risveglio di coscienza, che è più importante del motivo per cui ci siamo mossi. Stiamo smettendo di pensare che qualcuno ci regali qualcosa; bisogna smettere di piangersi addosso, perché nessuno ti aiuta. Se hai qualcosa da pretendere, ti devi muovere in prima persona».
La bandiera Cgil Como attira lo sguardo. «Non sopportiamo padroni in ditta, figuriamoci nel sindacato. E poi Epifani non è il padrone della Cgil. Sono 37 anni che faccio il sindacato, l'abbiamo fatto diventare grande noi. E nessuno ci aveva mai chiesto di non portare le nostre bandiere con noi». E insieme agli altri ci tiene a far sapere che sono la rsu dell'Spt (i trasporti pubblici). Poco più indietro sventolano le scritte «funzione pubblica», con quadri che ironizzano sull'«esercizio provvisorio» (se il governo va in crisi) come un modo «di non darci nemmeno quei 101 euro del contratto». Non manca la scuola, e un docente che ci chiede quanti siamo. «Trecentomila, secondo la questura», rispondo. Sorride. «Secondo la regola aurea fissata per lo sbarco dei 1.000 a Marsala - quando la questura di Roma stabilì che erano solo 330 - possiamo anche dire di essere un milione». Ah, la storia... Se non la sai, ti sembra sempre tutto «nuovo».
Un delegato di Melfi sta seduto sotto il palco. Ragiona con pacatezza, senza slogan. Ma «quando fai una riforma sociale così importante (il protocollo, ndr) bisogna tener conto del parere dei lavoratori; e quelli che producono la ricchezza hanno detto chiaramente come la pensano». A Melfi il «no» ha avuto l'80%, anche se la Fiom ha solo il 20. E poi «è riduttivo parlare di 'aumento della vita media'; per chi sta alla catena non è aumentata per niente». E basta accontentare le imprese, che «vogliono sempre più produttività, aumentando i ritmi». A Melfi «su 5.000 lavoratori ancora giovani, sono più di 1.000 quelli che hanno riportato fin qui limitazioni fisiche». Grazie al Tmc2, il sistema messo sotto inchiesta da Guariniello («in quel processo la Fiat è andata al patteggiamento, che è un'ammissione di colpevolezza»).
Ed è lui a tracciare un po' il quadro di come vengono viste le «alte sfere» della politica (sindacato compreso) dai lavoratori ieri in piazza. «La Cgil sta cercando di sostenere il governo fin quasi all'estremo. Ma anche se si arrivasse a fine mandato - Mastella permettendo - i lavoratori non voterebbero più quei partiti; e noi resteremmo anche senza quella forza di avanzamento, il sindacato, che ci ha permesso di fare la storia di questo paese». Dopo il corteo di ieri, però, c'è forse qualche margine di risposta in più.

il manifesto 21.10.07
Giurano: da domani uniti
di Daniela Preziosi


Niente ministri, ma tanti politici in piazza. Giordano: Prodi ascolti il popolo. Il professore: vi ho sempre ascoltato.
Veltroni ammette: siamo diversi, ma dobbiamo collaborare

Roma Alle due e mezza, a via Cavour lo striscione d'apertura «Siamo tutti un programma» straborda gente. Si tira, sta per esplodere. L'organizzazione non riesce a fare il cordone. «Ma che cazz, compagni, ma non si parte?». Stazione Termini, e dietro piazza della Repubblica, e dietro via Nazionale, e dietro ancora, tutto spinge verso la testa del corteo. Ma non si parte, si aspetta. Si aspetta Pietro Ingrao. Il padre nobile della sinistra entra nel corteo a piccoli passi, scortato dai rifondatori Rina Gagliardi, Franco Russo e Ciccio Ferrara. Le telecamere dirottano su di lui, i compagni gli si stringono intorno tendendo le mani. Ma non va bene, troppa ressa, pochi metri più avanti uscirà dal corteo per raggiungere il palco di Piazza San Giovanni, questa volta accompagnato da Gabriele Polo, Gigi Sullo e Piero Sansonetti, i direttori dei tre giornali che hanno promosso la manifestazione. Da lì - ma ormai sono le cinque e mezza, la coda del corteo è appena partita da piazza della Repubblica - l'anziano leader, commosso e commovente, dirà poche parole di saluto: la giornata è «una speranza per i lavoratori italiani». E: «auguri a voi, ai lavoratori e agli uomini di pace. La lotta continua». La piazza esplode in un applauso di gratitudine.
E' Ingrao quello che le telecamere cercano di più. Poi anche Nichi Vendola, il presidente della Puglia che si è lanciato nella riffa delle primarie della «cosa rossa» e che ora fa due passi indietro «Io leader? è l'ultima delle questioni». Tutti gli chiedono, molti lo cercano, gli dicono avanti, ma è gente comune, non sono dirigenti del suo partito, che - parola del segretario Franco Giordano - non hanno ancora discusso di leader.
Nella manifestazione i politici ci sono, ci sono gli stati maggiori - anche quelli minori - di Rifondazione e Pdci. Ci sono i cinque parlamentari della Sinistra democratica che hanno deciso di essere in piazza (Alba Sasso, Massimo Brutti, Giorgio Mele, Piero Di Siena e Silvana Pisa) insieme a tanti delle federazioni locali di Sd. Per richiesta dei promotori non ci sono i ministri della sinistra, però ci sono i sottosegretari e i viceministri del Prc. Ma tutti se ne stanno tranquilli fra gli striscioni, camminano per lo più sciolti, in un corteo in cui non sono loro i protagonisti. Protagonista è il popolo della sinistra che ha avuto uno scatto d'orgoglio e ha invaso le strade di Roma, le bandiere sono tante, ma in realtà è una sola moltitudine poco intruppata che butta là qualche slogan, ma in fondo la pensa come dice il cartello della piccola rifondarola napoletana: «E' un governo di merda, ma è il mio governo».Pietro Folena, ex Ds ora Prc, si fa il corteo in bicicletta. Antonello Falomi, stessa provenienza stesso approdo, se ne va in giro con una telecamerina. Vladimir Luxuria passeggia solitaria, Franca Rame si sistema dietro lo striscione d'apertura. Claudio Fava, Giulietto Chiesa, Roberto Musacchio portano lo striscione degli europarlamentari. Elettra Deiana, dallo spezzone delle donne «fuori programma», spiega che la sinistra deve sperimentare forme nuove della politica. Interrogati e interrogate, tutti dicono una sola cosa: da domani si fa l'unità a sinistra. Aldo Tortorella, altro leader storico della sinistra, uno dei firmatari dell'appello che ha lanciato il corteo, è visibilmente soddisfatto: «Questa deve essere la prima manifestazione di una sinistra rinnovata», dice, «ora bisogna convocare subito gli stati generali e la costituente, per cominciare a unire quello che c'è. Da questa piazza possiamo vedere che sono già molte le cose che ci uniscono. Ma ora dobbiamo lavorare sui principi, le idealità».
Ora tocca ai segretari di partito darsi una mossa. Oliviero Diliberto, segretario del Pdci, lo sa. «Questa manifestazione può essere la premessa per costruire una cosa più grande», dice. Quanto al governo, non ha da temere da questa piazza: «Sono comunista ma non sono scemo, non faccio una manifestazione contro me stesso». Ora la sinistra sarà più forte in parlamento e chiederà al governo di rispettare il programma. «Su un punto in particolare: la lotta alla precarietà».
Ma è Giordano a prendersi la responsabilità di indicare delle scadenze: «Posso garantire che Rifondazione darà vita entro l'anno a una costituente per un soggetto unitario. Queste intanto», scherza, «sono le nostre primarie». Poi il governo: «Chiediamo ora a Prodi di ascoltare le richieste di questo popolo. Questa manifestazione è contro la precarietà, Romano Prodi ascolti questa voce». Prodi gli risponderà da Reggio Emilia. «L'ho sempre ascoltato». E' un sostegno da sinistra, quello che gli offre questa piazza. Prodi lo capisce al punto da avere finalmente la voglia di smentire le frasi catastrofiche che da due giorni gli vengono attribuite circa l'imminente caduta del suo governo. E così anche Walter Veltroni prende finalmente atto che questa manifestazione è «un importante fatto democratico». Con cui fare i conti: «Le distinzioni che esistono, e che è giusto non nascondere, non impediranno di rafforzare la collaborazione tra tutte le forze della maggioranza e la stessa azione di governo anche per evitare di far cadere il paese in una fase di instabilità». Da domani, quindi, c'è un governo più stabile? Di sicuro da domani c'è tutta una sinistra da unire. Presenti e assenti. Perché anche Fabio Mussi e Alfonso Pecoraro Scanio sentono la voce di questa piazza. Anche se non ci sono, e sono rappresentati da qualche rispettivo coraggioso. Ma prendono atto di una manifestazione, dice Mussi, «grande, bella e fortemente partecipata». Ora, conclude, «sentiamo la responsabilità di contribuire a raccogliere questa voce».

il manifesto 21.10.07
Modello Walter
di Alessandro Robecchi


Facciamo un'Italia nuova. Come dice VW. Giusto, ma come? Mi permetto di avanzare qualche modello di riferimento a cui ispirarsi.
Modello Yupik - Con un paio di decreti legge ben assestati, il governo di centro sinistra introduce le regole valide per la pesca alla foca nell'Alaska centrale: ogni pescatore avrà contratti di tre mesi rinnovabili all'infinito finché è in grado di pescare. Il lavoratori non più produttivi vengono triturati e usati come mangime per i salmoni. Secondo gli economisti liberisti di sinistra, il modello è praticabile pur con qualche correzione.
Modello Vaticano - Questa piccola nazione ha risolto brillantemente i suoi problemi di welfare: i dipendenti glieli paga un altro stato e ha fortissimi sconti sulle tasse. Un modello entusiasmante secondo molti osservatori, secondo cui questo modello sociale non è "né di destra né di sinistra", ma maledettamente astuto.
Modello Naniki - Questa piccola popolazione di agricoltori del Borneo ha risolto per sempre il passaggio dal lavoro precario al lavoro stabile. Il lavoratore precario diventa lavoratore a tempo indeterminato con una toccante cerimonia durante la quale gli vengono strappati i due alluci.
Secondo le confederazioni sindacali, il modello Naniki non è così negativo, e propongono di aprire un tavolo per trattare sulla base di un alluce e mezzo.
Modello Danese - Nel giro di cinque anni diventiamo tutti biondi e siamo tutti licenziabili in ogni momento. In cambio, paghiamo tasse altissime e abbiamo un vero welfare che ci protegge. Confindustria e sinistra riformista sono perfettamente d'accordo solo sulla prima parte.
Modello Lanao - Nelle località agricole interne alla provincia di Lanao, nelle Filippine, si sono usati per anni immigrati a basso costo e schiavi per abbassare il potere contrattuale dei lavoratori locali. E' un buon modello, dicono gli economisti liberisti, ma non è nuovo, lo usiamo pure qui da almeno un decennio.

Liberazione 21.10.07
La presenza al corteo del leader storico
Pietro Ingrao: «La lotta continua»
di Rina Gagliardi


Stare insieme a Pietro Ingrao, in una manifestazione epocale come quella che ieri ha invaso Roma, è un'emozione continua. Il leader storico della sinistra - 93 anni il prossimo marzo - ha voluto a tutti i costi - "spasmodicamente", come raccontava sua sorella Giulia - partecipare al corteo. E il corteo lo ha ripagato con una manifestazione di affetto, di calore, di rispetto, di autentica gratitudine, che è davvero difficile da raccontare. Quel grido ritmato dalla folla come uno slogan, «Pie-tro! Pie-tro!», quelle cento mani che si levano per toccarlo o sfiorargli un lembo del giaccone, quelle mille bocche gli gridano «Grazie», e ripetono «Grazie per tutto quello che hai fatto per noi», raccontano di un'epopea popolare capace di riconoscersi, e di esaltarsi, nel suo simbolo vivente più forte. Non è solo l'omaggio ad un grande dirigente del movimento operaio, con quasi settant'anni di storia alle spalle, e nemmeno l'ennesimo tributo al "leaderismo" così imperante. E' un'altra cosa. E' lo scatto di quella famosa "connessione sentimentale" tra un capo e il suo popolo, senza il quale la politica si inaridisce, si rinsecchisce, si disumanizza. E' la "assicurazione", sì, che siamo dalla parte giusta e che ce la possiamo fare.
All'inizio, quando arriva a piazza Santa Maria Maggiore e incomincia a muoversi tra la folla, con passo lento e anche un po' incerto, Ingrao corre quasi il rischio di rimanere soffocato - è un assalto, anche di giornalisti e cronisti. Lui si accorge al primo sguardo che questo è un corteo eccezionale, per dimensioni, entusiasmo, passione - e sorride, con quel suo sorriso speciale da ragazzo. E non si sottrae né ai saluti né ai commenti - «Perché è qui?» «Per la pace, per i diritti di chi lavora, per i giovani. Per le ragioni della sinistra». «Ma non teme che il governo Prodi si indebolisca, dopo una giornata così?» «Ma no, questa non è una manifestazione contro il governo. Prodi e Veltroni io li rispetto, anche se sono diversi da me - sono un po' moderati. Io spero, invece, che il governo ascolti questa piazza, questa grande massa di persone che chiede, in fondo, solo di andare avanti».
Con lucidità e freschezza, il vecchio leader risponde a tutti, Tv, Tg, Agenzie, Radio, giornali - ogni tanto sussurra «quanti siamo?» e abbraccia qualche vecchio militante, qualche amico, che è venuto a trovarlo nella caffetteria di via Cavour in cui ci siamo, temporaneamente, rifugiati. Quando ne usciamo, tra corridoi umani che si aprono e richiudono con molta fatica, è una sequenza interminabile di battimani - intanto, sulla soglia del bar, si è fatto largo un giovane operaio, che ha per mano il figlio piccolo, che piange a dirotto per la commozione, ma "doveva", a tutti i costi, dire a Pietro che lo ringrazia per il senso che ha dato alla sua vita e alle sue speranze. «Vedi, Pietro, quanto ti vogliono bene?» Pietro, gli occhi lucidi ce li ha anche lui, e come. Ma già sta "ruminando" nella sua testa gli effetti di questa incredibile giornata - le lezioni da trarne, le cose da fare.
Arriviamo a piazza San Giovanni in anticipo, per prendere un po' di fiato (e un po' di ristoro) in uno dei tendoni bianchi dietro il palco. Man mano, mentre comincia a soffiare la tramontana e Giulia estrae sciarpa e basco dalla sua borsa, quasi come conigli da un cilindro, arrivano un po' tutti a salutare Pietro - Giuliana Sgrena, Gianni Rinaldini, Gigi Sullo, poi Piero Sansonetti e Gabriele Polo, militanti gloriosi del Prc come Luciano Iacovino, col suo impermeabile bianco, compagni del Manifesto e di Liberazione . E il nostro leggendario Francesco Ferrara, per tutti Ciccio. Dal palco, da grande oratore consumato qual è, Pietro lancia, anzi rilancia una sola e ben nota parola d'ordine: «La lotta continua!». Un altro momento speciale, un altro batticuore collettivo, anzi corale.
Torniamo a casa, Pietro, ora, è un po' stanco. Ma non smette di "ruminare". Gli chiedo che cosa lo ha colpito di più nella manifestazione - «le donne», mi risponde a sorpresa «c'era una straordinaria e diffusa partecipazione delle donne». E poi lo ha reso particolarmente felice la collaborazione che, per tutta la fase preparatoria, si è tenuta tra Liberazione e Manifesto , due giornali a lui molto cari e in genere così poco comunicanti - «non sarebbe l'ora» bofonchia ad una curva «di fare un passo in avanti anche qui, su un terreno così decisivo come l'informazione?». Il tema vero, per Pietro, è in realtà proprio la prospettiva. «E ora?» «Come facciamo ad andare avanti e a non deludere queste centinaia di miglia di persone, di compagni, di lavoratori? Come evitiamo che se ne smarrisca l'effetto magico? Come utilizziamo, a sinistra, questa giornata?». Mentre scende dalla macchina per salire in casa, Pietro parla quasi a se stesso - e nel salutarmi quasi si raccomanda di non perdere di vista questo suo assillo, questo suo "E' ora?". Che ci volete fare. Il vizio del pensiero, del pensiero politico in grande, non lo abbandona in nessun istante. Insieme all'amore - al calore - per l'umanità che ti trasmette, in un'epoca in cui la politica è diventata quasi tutta cinica e cattiva. Non sarà per questo che la gente lo ama?

Liberazione 21.10.07
Le anime della sinistra
di Piero Sansonetti


Il popolo della sinistra c'è, è grande, è molto più intelligente di tutti quelli che lo criticano e lo disprezzano. Ci avevano detto: ma come fate a fare una manifestazione che non è a favore del governo e non è contro il governo? Ci avevano detto: siete dei burocrati visionari, la manifestazione è impossibile. Invece noi eravamo un milione e la manifestazione è stata non solo possibile, ma è stata una delle più grandi manifestazioni di piazza degli ultimi anni. Perché? Perché i nostri critici non avevano capito che esiste un popolo della sinistra, che pensa, che vuole fare politica, che non ci sta a farsi chiudere in una logica da plebiscito, o da sondaggio: sei per Prodi o contro? Vuoi Veltroni o Letta? E' un popolo molto complesso, largo, con sensibilità e idee diverse, operaio, intellettuale e femminista, pacifista e ambientalista, gay e antimafioso e tante altre cose ancora. Cosa lo unifica? La critica al potere, la critica a una società tutta costruita sulle gerarchie: il comando del mercato, dell'impresa, il comando del maschio, il comando del "bianco ariano".
Ieri questa sinistra ha saputo unirsi perché ha capito che se tutte le sue anime restano divise, se non si alleano, se non si mischiano, allora vincono i moderati, allora Berlusconi ha buon gioco, allora tutto si trasforma in un apparato di potere e sparisce la speranza della trasformazione.
La politica italiana non potrà non tenere conto di questa grandiosa giornata di piazza, di massa. Una cosa, da oggi, è chiarissima: la sinistra non è una forza "complementare", che si aggiunge alle forze centriste per svolgere un ruolo di sostegno, subalterno, nella battaglia contro Berlusconi. La sinistra non è un battaglione in più, chiamato a sostenere un pezzo di borghesia che fa la lotta contro la borghesia berlusconiana. La sinistra, invece, è fortemente, chiaramente e assolutamente autonoma. E rappresenta in questo paese il punto di vista di chi crede che la battaglia politica sia da combattere sul terreno della precarietà e dei diritti di tutti.
Adesso il governo Prodi deve scegliere. Vuole preoccuparsi di Dini o di noi? Se sceglie noi può vincere, altrimenti è perduto.
E anche noi dobbiamo scegliere. Questo popolo chiede alla sinistra politica tre cose: radicalità, cioè rigore sulle scelte. Novità, cioè capacità di misurarsi con schemi nuovi, nuove culture, nuovi problemi. E unità, cioè superamento di divisioni vecchie e sciocche. Non deludiamolo questo popolo. Non deludiamo piazza San Giovanni.