martedì 23 ottobre 2007

l’Unità 23.10.07
Sinistra
Rc vuole gli stati generali della Cosa rossa
I Verdi rilanciano la federazione Arcobaleno


ROMA Accelerare per il nuovo soggetto unitario della sinistra, a partire dagli stati generali entro dicembre. La segreteria nazionale del Prc, riunita ieri a Roma, ha esaminato la nuova fase politica che si è aperta a sinistra dopo la manifestazione di sabato 20 ottobre.
«La grandissima partecipazione di sabato e lo spirito unitario della manifestazione - informa una nota - chiamano inoltre le forze politiche, sociali e associative di sinistra a un’improrogabile impegno in direzione della costruzione di una soggettività unitaria e plurale. Il prossimo passo è la convocazione degli Stati generali della sinistra entro la fine dell’anno. Il Prc è aperto al dialogo e impegnato a procedere nei tempi più rapidi possibili verso la costituzione della nuova soggettività, di una forza che risponda alla domanda di unità espressa in modo inequivocabile sabato scorso dal popolo della sinistra, capace di giocare una sfida di egemonia rispetto al Pd e che si fondi su un modello partecipativo e sull’allargamento delle basi della democrazia».
Dal punto di vista dell’azione volta a migliorare l’attività di governo, il Prc nota: «È evidente quanto il tema della precarietà sia una questione centrale per il governo del paese, la cui azione può solo trarre giovamento dalla capacità di rimettersi in sintonia con le istanze del popolo della sinistra e dell’Unione attraverso l’attuazione del programma elettorale. Le forze della sinistra sosterranno unitariamente in Parlamento le istanze manifestate sabato da centinaia di migliaia di elettori dell’Unione».
Tutti si vogliono unire, in qualche modo. «I Verdi sono pronti a costruire la grande federazione Arcobaleno, per creare una grande e moderna sinistra di governo in grado di rappresentare efficacemente le istanze provenienti dalla societa», afferma in una nota il capogruppo dei Verdi alla Camera Angelo Bonelli.
«In questa aggregazione - aggiunge Bonelli - tutti possono mantenere la propria identità ed il simbolo deve essere anche uno strumento per superare la tradizionale simbologia della sinistra se si vuole intercettare la voglia di unità e di rinnovamento a sinistra».

Repubblica 23.10.07
Il ministro: "Federazione tra Rifondazione, Pdci, Verdi e Sd con un suo simbolo. Ma i partiti non si sciolgono"
Ferrero: una "Sinistra" senza falce e martello
di Umberto Rosso


ROMA - Ministro Ferrero, la Cosa rossa accelera?
«La manifestazione di Roma con un milione di persone chiede un processo unitario. Perciò, direi proprio di sì: c´è una accelerazione».
Non è stata una prova di forza "identitaria", con il resto della sinistra assente?
«No, chi lo dice sbaglia completamente. Anche se unità non vuol dire scioglimento dei partiti. La contrapposizione tra identità e processo unitario per me è una sciocchezza».
Che vuol dire?
«Penso ad una federazione che consenta alle singole forze di continuare ad esistere, e allo stesso tempo permetta di partecipare a chi non è iscritto a nessun partito».
Niente scioglimento allora per il Prc, come per Pdci, Verdi e Sd?
«Se qualcuno ci tiene e lo vuol fare, liberissimo ovviamente. Ma io sono comunista, Mussi socialista, Pecoraro ambientalista: dovremmo per caso abiurare? Per forza di cose, dovrà essere un soggetto plurale. Non vedo un nuovo partito, con i suoi riti, iscritti, strutture, decisioni a maggioranza. Dobbiamo tenere insieme le diversità, l´opposto di quel che ha sempre fatto la sinistra: le scissioni dell´atomo».
Nel nuovo simbolo, la falce e martello andrà in soffitta?
«Questo lo vedremo. La federazione dovrebbe avere un minimo comune denominatore. La chiamerei "La Sinistra". Punto. Senza bisogno di simbolismi particolari. Poi ogni organizzazione rimane quello che è, ha il suo marchio».
Come nuovo leader si parla di Nichi Vendola. Ma gira anche il nome di Paolo Ferrero. Lei è in pista?
«Non abbiamo mica il problema di trovare il capo di una cosa che non c´è, come ha fatto il Pd con le sue primarie plebiscitarie. Abbiamo il problema opposto: aggregare dal basso. Magari sulla base della proposta lanciata da Mussi, sul modello del social forum: gli stati generali della sinistra politica, culturale, sociale».
Si scontrano due modelli, quello "movimentista" di Vendola e l´altro più "partitista" di Ferrero?
«Leggo che viene dipinta così. Ma è un´invenzione giornalistica, non buona, perché sposta il riflettore dal confronto ad una sorta di polemica di pollaio. Le mie posizioni sull´unità a sinistra sono sempre state queste qui, mi piace - per capirci - il modello Flm che negli anni Settanta ha messo insieme sindacati e grande partecipazione. E non ho mai avuto con Vendola alcun contrasto specifico sul punto».
All´interno di Rifondazione però c´è chi vuole bruciare i tempi, sciogliere il partito nella Cosa rossa, via falce e martello, subito liste unitarie.
«Negli organismi di partito non l´ho mai sentito. Anch´io sono per procedere rapidissimamente, ma non chiedo a nessuno di abiurare. Siamo 150 mila iscritti. In piazza c´era un milione di persone. Coinvolgiamo loro, tutti i giorni, non basta soltanto una volta. E con i compagni degli altri partiti evitiamo di celebrare matrimoni, dove dopo qualche anno le coppie scoppiano. Fidanziamoci, è meglio. Resta sempre vivo il desiderio».

l’Unità 23.10.07
Antonioni e Rohtko, registi del colore
Tra i due vi era un istintivo capirsi, nato ancor prima che i due si incontrassero
di Katy Spurrell


L’INTERVISTA Furio Colombo racconta l’incontro nello studio di New York tra il cineasta italiano e il pittore americano: due sensibilità molto affini, due maestri chiave di un cambiamento artistico

Pubblichiamo qui di seguito ampi stralci dell’intervista di Katy Spurrell a Furio Colombo, tratta dal catalogo della mostra su Mark Rohtko (Skira). In particolare vi si parla dell’incontro, organizzato da Furio Colombo, tra il regista Michelangelo Antonioni e il grande pittore. Katy Spurrell è co-curatrice con Oliver Wick della mostra in corso a Roma al Palazzo delle Esposizioni, fino al 6 gennaio 2008.

«Fu lui, nel corso del nostro primo incontro, a menzionare Antonioni. Aveva visto La notte e ne era rimasto molto colpito. Diceva che a New York non si facevano film di questo genere e che quella pellicola in bianco e nero in realtà era un film a colori. A suo parere quei neri, quei neri più chiari, quei grigi, quei grigi chiari e quei bianchi erano la storia di un film a colori (...). Dopo la mia prima visita allo studio, scrissi ad Antonioni (per parlargli di Rothko)... Ne seguì la lettera di Antonioni e la presentazione del film a New York.
Sta parlando dell’Eclisse?
«Sì, e in quella occasione accompagnai Antonioni e Monica Vitti a far visita a Rothko».
C’erano solo Antonioni e Monica Vitti con lei ?
«Sì, noi tre soli. Abbiamo continuato a parlare di questa visita per anni. Monica ne parlò anche con Monicelli, Francesco Rosi e altri esponenti del cinema di quel periodo».
Rothko vi fece vedere i suoi lavori più recenti? In quell’occasione parlò con Antonioni di pittura? E di luce?
«Parlarono di colore e luce. Antonioni era capace di stare anche due ore davanti a un quadro e questo certamente non costituiva un problema per Rothko. Non tanto perché si trattava di un suo quadro, ma perché gli piaceva immensamente parlare di colore. A parlare fu soprattutto Antonioni. Non che fosse logorroico, anzi. Antonioni era una persona schiva e relativamente di poche parole, molto meno espressiva di quanto non si fosse dimostrato in quella lettera. Nel corso della conversazione disse la metà della metà di quello che aveva scritto. La visita fu lunga e relativamente silenziosa, salvo che per le esclamazioni appassionate di Monica Vitti, sorpresa da quello che vedeva. Monica era una donna colta, una vera appassionata d’arte».
Infatti, Antonioni andò alla mostra di Rothko alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma con Monica Vitti.
«La mostra di Roma fu la prima immersione della Vitti e di Antonioni nell’arte di Rothko, seguita dalla visita allo studio a New York (...)».
Nella sua lettera, Antonioni parla delle possibilità di avere un’opera di Rothko. Fu un suggerimento di Rothko?
«Sì, mi disse che sarebbe stato felice se uno come Antonioni avesse avuto un suo lavoro e che poteva sceglierne uno».
Nella lettera, Antonioni disse di aver scelto “No. 7” del 1960, che aveva visto durante la visita alla mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, ma sembra che la cosa non abbia avuto alcun seguito.
«L’incontro di New York fu semplicemente una visita allo studio, la visita di un grande maestro del cinema (Rothko lo considerava tale) ad un grande maestro dell’arte. La cosa interessante è che si trattava di un riconoscimento reciproco. Il senso della visita fu proprio questo, quello di un rapporto tra artisti, Rothko e Antonioni».
Nella lettera Antonioni parla anche della serie di dipinti murali per il ristorante Four Seasons nel Seagram Building, dicendo che “sono tele che vanno collocate assieme”. Antonioni sapeva che dovevano essere collocate insieme per ragioni di impatto emotivo?
«Sì, assolutamente».
Perché era questo che Rothko voleva per tutte le sue opere, che fossero viste/collocate insieme.
«Per Antonioni si trattava di una decisione da regista e un regista è un organizzatore di immagini. La sua era un’intuizione tipicamente da regista. Quando mi venne a trovare al Seagram Building, dove avevo il mio ufficio perché in quel periodo lavoravo per Olivetti, mi disse “ io le metterei insieme, in quanto le filmerei soltanto insieme”».
Rothko, infatti, ha sempre indicato precisamente come dovevano essere collocate le sue opere e in che modo, come un regista. Alla Tate di Londra, a Harvard, a Houston...
«Vi era, tra i due, un istintivo capirsi, nato ancor prima che si incontrassero. Era come se Antonioni conoscesse le intenzioni di Rothko e sapesse a quale direzione mirava la sua pittura; e come se Rothko conoscesse le scelte che avrebbe fatto Antonioni in materia di colore. Si trattava di una grande affinità tra due persone, che in quel momento apparivano entrambe maestri chiave di un cambiamento artistico».
Un’affinità evidente tra arte e cinema...
«Direi fra l’arte e il cinema italiano. È curioso come esistesse allora, sin dagli anni del dopoguerra, un rapporto di intesa artistica del tutto particolare fra gli Stati Uniti e l’Italia (non fra gli Stati Uniti e l’Europa). Il mito che è stato Antonioni negli Stati Uniti, infatti, si deve alla comprensione di Antonioni da parte del mondo dell’arte; comprensione che non si è verificata nello stesso modo in Europa. Anche il rapporto degli Italiani colti ed intelligenti con l’arte americana è unico».
È un rapporto di amore-odio?
«No, l’odio conta poco. È un rapporto di accettazione-sdegno, che si sviluppa sempre sul territorio di un immenso interesse. Per gli italiani è implicito che ciò che è americano conta di più; per gli americani, curiosamente, l’Italia ha una qualità speciale di esistenza che la Francia e la Germania non hanno. Fa eccezione l’Inghilterra, ma l’Inghilterra è una vecchia parente. Per esempio, mentre Willem de Kooning veniva a Roma e Rothko c’era appena stato, tutta la legione di artisti che darà vita alla Pop Art italiana negli anni ’60 va in America. Tano Festa stava in America, Chia c’è sempre stato, Cucchi era in contatto con Warhol e Basquiat...».
Parliamo dell’influenza di Antonioni, regista italiano, su Rothko, artista americano. Antonioni ha avuto un’influenza enorme sugli artisti americani in generale, su Dan Flavin, per fare un esempio.
«Occorre guardare alla dimensione dell’artista al di fuori dell’appartenenza nazionale, alla sua capacità di trasmissione attraverso l’opera. È una questione di dimensioni. Quando l’artista esce dalla dimensione, anche molto alta, della cultura del suo paese, diventa esclusivamente se stesso, diventa puro, credo, È il sé che conta e che lascia il segno e credo che sia questo ciò che è accaduto ad Antonioni, che veniva accolto festosamente in quanto regista italiano, ma soppratutto in quanto Antonioni».
Il fatto che fosse italiano, quindi, non contava?
«Quando si è un artista di quel livello, la nazionalità non conta. In ogni caso, quello tra Rothko e Antonioni è un incontro tra cinema e pittura in cui Antonioni ha ricevuto una sorta di incoronazione, perché ha avuto un riconoscimento da uno dei più grandi pittori del secolo. Allo stesso tempo, Rothko ha dimostrato che dietro il suo dipingere così straordinario c’era una sensibilità finissima, impersonata da un uomo che rischiava di sembrare un meccanico. Aveva proprio l’aria di un uomo che lavorava con le mani, che contava sulla propria forza fisica, di un uomo fiducioso nella propria robustezza, nella propria capacità di imporre e di fare, tipica più dell’artigiano che dell’artista. Non lasciava trasparire nulla della fragilità dell’artista. Quello che mostrava era la forza possente di un uomo di origini popolane o contadine».
Ovviamente la fragilità c’era.
«In quel momento, però, se qualcuno avesse usato l’immagine di Rothko e la sua forza possente per raccontare una storia, avrebbe immaginato un uomo che a novant’anni è ancora guardiano del faro, domina l’isola e tiene testa alla vita. I suoi gesti, il suo modo di muoversi e quella risolutezza un po’ rude che era tipica della sua conversazione, non facevano trapelare alcuna fragilità. Gli mancava totalmente quel modo di parlare tipico dell’upper class americana, senza nessun gergo popolare. Non apparteneva a nessuno, aveva una rudezza espressiva, frontale, che non aveva niente in comune con la gentilezza mondana tipica della gente del cinema o del mondo dell’arte. Mentre Motherwell e Barnett Newman si facevano vedere spesso nelle case di Park Avenue, lui non le frequentò mai».

Repubblica 23.10.07
Un rapporto malato
di Gustavo Zagrebelsky


Non colgo, in queste parole di Rocco Buttiglione, il motivo del contrasto. Nello scritto al quale egli si riferisce è detto che "le fedi religiose non sono affatto un problema per la democrazia liberale, anzi ne possono essere forza costitutiva nella misura nella quale i credenti si impegnino, sulla base delle loro credenze, nella sfera della società civile". Su che base Buttiglione può dire che "si cerca di escluderli [i credenti] in via preliminare dalla partecipazione al dibattito nel quale si forma la decisione pubblica?". Citavo poi adesivamente l´affermazione di Böckenförde secondo la quale a partire dalla società civile "la religione può, a seconda dei vigenti processi di formazione della volontà politica, giungere a influenzare lo Stato nel senso di un´organizzazione vincolante dell´umana convivenza, a seconda della forza di cui gode tra i credenti, nella loro qualità di cittadini". Dove sta il cattivo proposito "laicista" di escludere i credenti dal dibattito pubblico, di cui parla Buttiglione? Egli mi faccia dire cose che non ho detto, avendo invece detto, qui e altrove, proprio il contrario. Tutto questo, mi pare così ovvio, per chi si ispiri all´uguale rispetto dei diritti della libera coscienza di tutti, da non richiedere altre parole. D´altra parte, volgendosi dai principi alla realtà dei fatti, si può davvero seriamente credere che i credenti, cattolici o non cattolici, per il fatto di essere tali, si trovano oggi discriminati e abbiano difficoltà a far sentire la loro parola?
La questione che ho sollevato, sottolineandola più e più volte, riguarda non i cittadini cristiani nei loro rapporti con i cittadini non cristiani nella sfera della società civile e in quella politica, ma i rapporti tra Stato e Chiesa, cioè tra i soggetti istituzionali che, in certo senso, rappresentano, uno, i cittadini tutti quanti e, l´altro, i cittadini cattolici.
Nello scritto di Böckenförde sono contenute affermazioni ambigue a questo riguardo. Su tali affermazioni ci si appoggia, da parte cattolica qui da noi, per sostenere che, data la "impronta" cristiano-cattolica del nostro Stato ch´esso deve salvaguardare come una delle sue "premesse" (le Voraussetzungen, nella lingua di riferimento), è giustificata la sua tacita alleanza con la Chiesa. Se l´alleanza è tacita, le conseguenze sono esplicite: potere di veto nella legislazione e nella giurisdizione ("dico", eutanasia, trattamenti sanitari, rapporti familiari, sperimentazione scientifica, ecc.) e trattamenti privilegiati di diversa natura (finanziamenti, agevolazioni fiscali, insegnamento confessionale nelle scuole pubbliche, simboli, presenza nelle istituzioni e nelle cerimonie pubbliche, ecc.) che si vogliono giustificare proprio per quella "impronta" (parola significativa) che la Chiesa garantisce. Questa linea di pensiero comporta precisamente la contraddizione con l´esigenza liberale primordiale: che le "premesse" del vivere comune nascano dalla e nella libertà. Böckenförde è ambiguo, anzi contraddittorio, quando parla di "legami unificanti che precedono la libertà". Se precedono, non sono liberi: sono per l´appunto la "impronta" che viene dall´accordo tra autorità, lo Stato e la Chiesa. Ma questo è clericalismo, cioè uno scambio a doppia degenerazione, della religione a instrumentum regni, dello Stato a braccio secolare della religione: una rinnovata commistione di trono e altare che contraddice le pretese affermazioni di tanti che si autodefiniscono laici (chi oggi si proclama clericale?), ma tali non sono alla prova evidente dei loro atti.
Questa era la questione. Ripeto: non la libertà di manifestare le proprie opinioni e di concorrere paritariamente alla formazione delle leggi in parlamento tramite i "compromessi pratici", normali nella democrazia pluralista. Questa libertà è di tutti, senza bisogno di concessioni o rivendicazioni. Il problema aperto è invece il rapporto malato Stato-Chiesa e le sue conseguenze circa la "confessionalizzazione" dello Stato e la "secolarizzazione" della Chiesa: un duplice motivo di malessere che dovrebbe preoccupare non solo i non-credenti ma anche, almeno in ugual misura, i credenti. Mi dispiace che il punto, anche in questo caso, non sia stato colto.

Repubblica 23.10.07
Il racconto
La musica di Mahler sotto l'occhio del boia
di Milan Kundera


Uno o due anni dopo la guerra, adolescente, incontrai una giovane coppia di ebrei che avevano all´incirca cinque anni più di me; avevano trascorso la giovinezza a Terezin, e poi in un altro campo. Mi sentivo intimidito davanti al loro destino. Il mio disagio li irritò: «Finiscila una buona volta!» e, con insistenza, mi fecero capire che la vita laggiù aveva conservato tutto il suo ventaglio di possibilità: dalle lacrime agli scherzi, dall´orrore alla tenerezza. Grazie all´amore nei confronti della loro stessa vita, essi si difendevano dall’essere trasformati in una leggenda, in statue di dolore o in documenti del libro nero del nazismo. Da allora li ho persi completamente di vista, ma non ho dimenticato quello che avevano cercato di farmi capire.
Terezin in ceco, Theresienstadt in tedesco. Una città trasformata in ghetto che i nazisti utilizzarono come paravento, come alibi, dove lasciarono vivere i prigionieri in modo relativamente civile per poter esporli ai curiosi della Croce rossa internazionale. Qui sono stati ammassati gli Ebrei dell´Europa Centrale, soprattutto coloro della parte austro-ceca; fra di loro molti intellettuali, compositori, scrittori, tutta una grande generazione che aveva vissuto alla luce di Freud, di Mahler, di Wittgenstein, di Schönberg, di Janácek, dello Strutturalismo praghese.
I prigionieri di Terezin seppero approfittare meravigliosamente della piccolissima particella di libertà concessa loro dai carcerieri; la loro attività intellettuale e artistica ci lascia stupefatti; non penso solo alle opere che riuscirono a creare (soprattutto i compositori), ma forse ancor di più a quella sete di vita culturale che s´impadronì di tutta la comunità di Terezin, che, in condizioni spaventose, frequentava teatri, concerti, mostre.
Che cosa rappresentava per loro l´arte? La maniera di mantenere completamente dispiegato il ventaglio dei sentimenti e delle idee affinché la vita non si riducesse alla sola dimensione dell´orrore. E per gli artisti detenuti laggiù? Costoro vedevano il loro destino personale confondersi con quello dell´arte moderna, l´arte cosiddetta «degenerata», l´arte perseguitata, irrisa, condannata a morte. Guardo la locandina di un concerto tenutosi nella Terezin di allora: in programma Mahler, Zemlinskij, Schönberg, Haba. Sotto gli occhi dei boia i condannati suonavano una musica condannata.
Penso agli ultimi anni del secolo passato, un secolo maledetto che, giunto alla fine, è stato preso dal desiderio di vomitarsi addosso il disgusto per se stesso. La memoria, il dovere della memoria, il lavoro della memoria, queste erano le parole d´ordine di quegli anni. Era ritenuto un atto onorevole perseguire i crimini politici del passato, dare la caccia perfino alle sue ombre, alle sue ultime sudice macchie.
Tuttavia, tale memoria del tutto particolare, «incriminatrice», serva premurosa del castigo, non aveva niente in comune con quella a cui avevano tenuto così tanto gli ebrei di Terezin, i quali se ne erano infischiati altamente dell´immortalità dei loro carcerieri e avevano fatto di tutto per conservare il ricordo di Mahler e Schönberg.
Un giorno, discutendo di questo argomento, chiesi a un amico:
«... conosci Un sopravvissuto di Varsavia? - Un sopravvissuto? Chi?» Non sapeva di che cosa stessi parlando. Eppure Un sopravvissuto di Varsavia (Ein berlebender aus Warschau), oratorio di Arnold Schönberg, è il più grande monumento che la musica abbia mai dedicato all´Olocausto. Tutta l´essenza esistenziale del dramma degli Ebrei del XX secolo è in quest´opera viva e presente. In tutta la sua atroce grandezza. In tutta la sua bellezza atroce. Ci si batte perché degli assassini non vengano dimenticati. E Schönberg, lo abbiamo dimenticato.

© Milan Kundera (traduzione di Massimo Rizzante)

Repubblica 23.10.07
Ottobre
di Hannah Arendt


La rivoluzione d´ottobre ottenne la vittoria con stupefacente facilità in un paese dove una burocrazia dispotica e accentrata governava una massa amorfa, che né i residui del feudalesimo rurale né il debole, nascente capitalismo urbano avevano saputo organizzare. Quando Lenin affermava che in nessun altro paese del mondo sarebbe stato così facile conquistare il potere e così difficile conservarlo, si rendeva conto non solo della debolezza della classe operaia russa, ma altresì delle anarchiche condizioni sociali che favorivano i cambiamenti improvvisi. Privo com´era degli istinti del capo della massa, Lenin puntò subito su tutte le possibili differenziazioni, sociali, nazionali, professionali, capaci di introdurre delle strutture nella popolazione, nella palese convinzione che tale processo stratificatore avrebbe costituito la salvezza del potere rivoluzionario.

Repubblica 23.10.07
Il mito infranto della rivoluzione
A novant'anni da quell'evento che sconvolse il mondo
di Sandro Viola


Un immenso e arretrato paese si risvegliò dal sonno e dalla oppressione zarista
La grande illusione fu di credere che quel mutamento epocale avrebbe creato l´uomo nuovo

Novant´anni dopo, della rivoluzione russa resta quasi soltanto il colore. Il pittoresco. Le immagini forti, gli eventi spettacolari di quei giorni dell´ottobre ´17 nelle strade, nei palazzi dell´aristocrazia, nelle caserme, nei covi bolscevichi di San Pietroburgo. Queste sì, restano: immortalate da fotografi anonimi eppure geniali, da qualche spezzone di ripresa cinematografica, e dalle cronache in presa diretta di tanti testimoni. Le folle che si riversano per le strade al grido di "Pane, pane", la cavalleria cosacca che le fronteggia a sciabolate, il primo sangue sulla neve precoce di quell´autunno che sarebbe risultato il più freddo da mezzo secolo. Le redingote e i colletti duri dei membri del governo provvisorio, il febbrile andirivieni dello stato maggiore bolscevico nelle stanze sin allora linde e silenziose dello Smolnij, il collegio per le ragazze della nobiltà svuotato qualche giorno prima dalle Guardia rossa con i moschetti spianati.
Nel 1917 le rivoluzioni non vengono più ritratte col bulino degli incisori o il pennello dei pittori. A partire da cinque o sei anni prima, dalla rivoluzione messicana di Villa e Zapata, sono i fotografi che s´incaricano di consegnarle alla storia. E la fotografia è capace d´un realismo senza pari, un´incisività, una forza suggestiva che neppure Jacques-Louis David, dipingendo sullo sfondo di un´altra rivoluzione la morte di Marat al bagno, poteva avere.
Ecco quindi indimenticabili – perfetti come un materiale di scena per registi molto esigenti – gli stivaloni di Trotskij, il "pince-nez" di Kamenev, l´Isotta-Fraschini di Kerenskij in fuga. Le bandiere rosse, i morti sull´asfalto con le mogli piangenti, i colbacchi e le mantelle color tortora dei "Chevaliers gardes", il reggimento della Zarina. Stalin che fuma una piccola pipa in un corridoio dello Smolnij, le maglie a strisce orizzontali dei marinai del Baltico, le ragazze del Battaglione femminile alla difesa del Palazzo d´inverno, la torpediniera "Aurora" alla fonda nelle acque della Neva, la Guardia Rossa in posa dinanzi alle officine Vulkan.
Quanto alle cronache, esse forniscono sì dettagli avvincenti, ma versioni di parte: e pertanto vanno lette con cautela. I partigiani della rivoluzione (per primo il John Reed dei Dieci giorni che sconvolsero il mondo) ricamano infatti sull´eroismo delle folle disarmate di fronte alle sciabole cosacche, mentre i testimoni di parte zarista si soffermano sulle torme d´operai bene armati che, scesi in strada, per prima cosa svuotano le gioiellerie e i negozi di liquori. Così, di tutte le cronache sulle settimane precedenti il colpo di stato bolscevico, la rivolta e la presa del Palazzo d´inverno, quelle che sento più veritiere sono i diari e le testimonianze in cui sono descritte le giornate nell´albergo Astoria. Le angosce, gli sbalzi psicologici, l´usura nervosa d´una piccola fetta del mondo che in quell´ottobre fatale sta ormai per scomparire.
Perché una cosa è certa. Dalla rivoluzione bolscevica non sorgerà, com´era stato promesso, né una società giusta né un «uomo nuovo», salvo che per uomo nuovo non s´intenda l´homo sovieticus: vale a dire l´uomo bianco più povero e oppresso del XX secolo. Ma certo la rivoluzione di Lenin dissolve il mondo di prima. Tra guerra mondiale e rivoluzione russa, infatti, l´ancien régime sprofonda. Sparisce. E la sua agonia la possiamo osservare in scene marginali ma estremamente eloquenti, nella hall, al ristorante, nelle camere dell´albergo Astoria.
Mentre la rivoluzione si prepara e poi inizia la sua marcia travolgente, nell´albergo più lussuoso di San Pietroburgo, sulla piazza Sant´Isacco, davanti al monumento equestre di Nicola I, s´è infatti radunata una singolare e febbricitante comunità.
Diplomatici stranieri che hanno lasciato per sicurezza i loro appartamenti, ufficiali di collegamento degli eserciti alleati, e molti russi. Principi del sangue, altri aristocratici, banchieri, avventurieri, avventuriere.
L´albergo è ancora confortevole di termosifoni bollenti, vini francesi, cocaina venduta a cartocci da camerieri e barman. Al bar si mescolano le avventuriere, le contesse, gli ufficiali feriti appena tornati dal fronte. La principessa Orlov saluta gli amici prima di partire per la sua proprietà nel Caucaso, il giovane principe Sumarokov Elston – di cui le donne dicono che è più bello di Nijinskij – entra sventagliando il mantello foderato di zibellino. Ma di quando in quando, la pelliccia spruzzata di neve, giunge nella hall qualcuno che porta notizie di quel che avviene in città. E sono tutte notizie, per gli ospiti dell´Astoria, ferali. Nuove rivolte, altri saccheggi, e ogni giorno reparti di soldati, marinai o cavalleggeri che s´uniscono ai cortei degli operai.
Più ferali sono le notizie, e più la vita nell´albergo Astoria si fa agitata, delirante. All´ultimo piano, un finanziere ricchissimo e omosessuale fa danzare nudo, al collo una collana di perle, il giovane guardiamarina Lazarev, mentre al piano una nobile decaduta, la baronessa Keller, suona Stravinskij. Una mattina che dalle finestre dell´albergo si vedono avanzare i dimostranti, un ufficiale delle Gardes si spara un colpo di rivoltella in bocca e la baronessa Keller rotola ubriaca dalle scale. Gli spari di fucile si fanno sempre più vicini, ma Maria Kirilovna, la moglie del direttore del teatro Marinskij, conduce come ogni sera la sua caccia agli ufficiali più giovani.
Questo resta, dell´ottobre ´17: lo sfondo pittoresco, teatrale. La materia d´un film stupendo che Ejzenstejn avrebbe forse potuto fare, ma non fece. Per il resto, l´eredità non potrebbe essere più grama. Il mito della rivolta degli oppressi, del potere agli operai e ai contadini, della società senza classi e senza sfruttamento dell´uomo sull´uomo, tutto è già svanito nel 1920 quando termina la guerra civile. Subito infuria il Terrore rosso, e una nuova autocrazia si sostituisce a quella zarista. La povertà è ancora più tremenda di prima, e quando verso il ´24 comincia ad attenuarsi e la gente non muore più di fame nelle strade, la "patria del socialismo" entra in un periodo di penurie e privazioni che durerà per più di sessant´anni. Quanto alle libertà, meglio non parlarne. A ripensarla negli anni Trenta, tra fucilazioni di massa e milioni di deportati nell´arcipelago Gulag, la polizia politica degli zar – l´Ochrana – apparirà infatti come una società di beneficenza.
Così che oggi siamo ancora a ruminare lo stesso interrogativo: com´è stato possibile che la tragedia del popolo russo, un´esperienza catastrofica come quella del comunismo, la serie ininterrotta dei fallimenti economici e sociali durata da Lenin a Gorbaciov, il precipitoso declino delle arti e della cultura russa in tutti i sette decenni dell´Urss, siano stati visti da milioni e milioni di uomini in tutto il mondo come il paradiso in terra, la più consolante delle speranze, la meta a cui dedicare – e se necessario sacrificare – le proprie vite?
Questa è la vera, la sola cosa che resta da discutere sull´ottobre ´17. Il suo incomprensibile potere di seduzione. Il mistero del fascino che ha esercitato per tanto tempo su tanta gente. Lo «charme universel d´octobre», come lo ha chiamato François Furet nel suo libro Il passato di un´illusione. Già nei primi Venti, infatti, la rivoluzione bolscevica era sfuggita all´analisi politica, alla critica, per diventare oggetto d´amore e devozione. Anche d´avversione, beninteso. Ma se il rigetto da parte del mondo borghese e capitalista era comprensibile, aveva una logica, l´incantamento dei suoi fedeli risulterà più oscuro e indecifrabile ad ogni decennio che passa. Una magia, dice ancora Furet.
Altro non c´è da aggiungere. Salvo forse ricordare i calcoli fatti dagli economisti all´inizio degli anni Novanta, subito dopo che il comunismo sovietico era finito nella pattumiera della Storia. Non ci fosse stata la rivoluzione d´ottobre, la Russia dell´ultimo scorcio del XX secolo avrebbe avuto un reddito pro-capite da tre a quattro volte superiore di quello che aveva quando Boris Eltsin mise fuori legge il partito comunista dell´Unione Sovietica.

Repubblica 23.10.07
1917, la data cancellata dalla memoria dei russi
di Boris Kolonickij


La rivoluzione russa del 1917 non suscita più le passioni che ha suscitato nel XX secolo. Le sue parole d´ordine e i suoi simboli sono stati, dopo il naufragio dell´Urss, inghiottiti dal passato. Ora, una volta conclusa l´esperienza nata dalla rottura del 1917, gli storici possono cominciare a dipanare l´intricata matassa del passato e, grattando via incrostazioni interpretative e luoghi comuni stratificatisi nel del fratello, il granduca Michele. Quando anche questi rinunciò al trono, la monarchia cessò di esistere. Formalmente, l´ordinamento statale sarebbe stato deciso dall´Assemblea Costituente, ma la monarchia era ormai di fatto impossibile. Sospettavano, molti manifestanti, di aver abbattuto la monarchia?
Non si può immaginare la rivoluzione russa senza le dicerie che correvano di bocca in bocca. Erano, i personaggi principali di queste dicerie, Rasputin e l´imperatrice. Nessuno storico ha dimostrato finora che Rasputin fosse al soldo dei tedeschi, ma l´opinione pubblica allora lo credeva. Così come credeva, senza alcun fondamento, che la zarina fosse fautrice di una pace separata con la Germania. Non c´erano forse persone assai ben informate che sostenevano persino che l´imperatrice mandasse quasi ogni giorno missive segrete a Berlino? Le maldicenze non risparmiavano nemmeno lo zar. A volte appariva come un depravato che aveva venduto la patria al nemico. Più spesso però le malelingue dipingevano Nicola II come un personaggio passivo, dolente: un ubriacone privo di volontà, succube della sua imperiosa consorte, che tradiva quel buono a nulla dello "zar scemo" con Rasputin. Poco importa che queste dicerie avessero poco a vedere con la realtà: quel che conta è che milioni di persone vi credessero. Tanto che molti sostenevano che gli oppositori della monarchia avessero messo in piedi una vera e propria "fabbrica di dicerie" per minare l´autorità dell´autocrazia.
Una rivoluzione borghese?
Storici dei più diversi orientamenti hanno sostenuto che a marzo in Russia era iniziata una rivoluzione "borghese": si erano create le condizioni per lo sviluppo capitalistico. Pensavano così anche alcuni contemporanei. Ma la lingua del 1917 era la lingua di una rivoluzione borghese?
I contemporanei chiamavano orgogliosamente la Russia "il paese più libero del mondo". C´era in questo, si capisce, una certa esagerazione, ma rispetto agli altri paesi in guerra, in cui le libertà erano sospese, le trasformazioni rivoluzionarie apparivano impressionanti. Tutti i partiti, tranne gli estremisti monarchici, godevano di piena libertà politica.
Tuttavia, se si osservava la sfera dei simboli politici - una sfera che assume un´importanza del tutto particolare durante una rivoluzione, quando l´autorità del potere va rinegoziata ogni giorno -, le cose stavano altrimenti. Questa sfera era monopolizzata dai simboli della clandestinità rivoluzionaria. Fin dai primi giorni della rivoluzione la bandiera rossa era diventata di fatto la bandiera nazionale. Veniva issata sul palazzo divenuto residenza del capo del Governo provvisorio. Dominavano le canzoni della clandestinità rivoluzionaria, e la "Marsigliese russa" – un canto in cui, rispetto all´originale francese, l´accento era spostato sulla lotta di classe - era diventata di fatto l´inno nazionale. Persino il celeberrimo emblema con la falce e il martello non era un´invenzione bolscevica: si poteva vedere già il 1° maggio del 1917 sulla residenza del Governo provvisorio! Come molti altri simboli rivoluzionari, venne poi "bolscevizzato" dal partito che aveva preso il potere.
Il fatto che i simboli rivoluzionari fossero dominanti ebbe grande importanza. Proprio i simboli avevano un´influenza del tutto particolare sulle masse che si iniziavano per la prima volta alla politica. La complessa realtà politica era descritta e classificata con l´aiuto dei simboli rivoluzionari. Questo creava non pochi problemi ai socialisti moderati, fautori di una coalizione con i partiti "borghesi". I simboli rivoluzionari erano un cattivo strumento per consolidare la pace sociale e poter proseguire la guerra. Per i bolscevichi e per gli altri socialisti radicali, invece, questa situazione di monopolio dei simboli rivoluzionari offriva non poche possibilità.
E che dire della figura del nemico? Sia i simboli che la propaganda politica dei socialisti delle diverse tendenze puntavano il dito contro il nemico principale della rivoluzione: la "borghesia". Anche i sottili distinguo dei socialisti moderati erano recepiti dalla coscienza di massa in modo estremamente radicale. Il paese rivoluzionario considerava colpevole di tutte le sventure "il borghese". Tutti lo denunciavano; nessuno desiderava identificarsi con la "borghesia". "Borghesia" era un concetto vago. Le opinioni politiche, la posizione etica e perfino l´appartenenza etnica potevano esser sufficienti per finire nella "borghesia". La retorica antiborghese era onnipresente.
Una rivoluzione democratica?
Dopo l´abbattimento della monarchia giunsero al potere uomini di orientamento democratico. Nel paese vennero introdotte le libertà democratiche; vennero eletti gli organi di autogoverno locale. La parola democrazia era straordinariamente popolare: era intesa come un magico scongiuro, come un mezzo universale per risolvere tutti i problemi politici e sociali. Democratizzarono la scuola, democratizzarono il teatro, democratizzarono la Chiesa ortodossa russa, democratizzarono l´esercito e la marina militare. Persone delle più diverse opinioni politiche si davano l´attestato di "democratici". Tuttavia la parola democrazia, che sembra così chiara, richiede, quando si leggono i testi del 1917, una traduzione particolare. Non sempre democrazia era intesa come un sistema politico: nella lingua forgiata dalla cultura politica socialista "democrazia" era intesa anche come un particolare soggetto del processo politico. A volte stava a indicare gli operai, a volte i partiti socialisti, a volte ancora i nuovi organismi nati dalla rivoluzione (soviet, comitati). Per di più la "democrazia" non era opposta alla monarchia o alla dittatura, ma alla "borghesia". Questa opposizione fra "borghesia" e "democrazia" non era usata soltanto dai socialisti, ma anche dalle pubblicazioni commerciali di massa e perfino dagli ambasciatori stranieri. Poiché tale era l´accezione del termine "democrazia", molti sostenitori dei bolscevichi si consideravano con sincerità i "democratici" più coerenti: proprio loro infatti esigevano di schiacciare risolutamente la "borghesia".
Se per certi versi Ottobre del 1917 fu la negazione di Febbraio, per molti altri ne fu la continuazione. Il dominio dei simboli rivoluzionari, la diffusione del linguaggio socialista, che veniva "tradotto" in modo particolarmente radicale dalle masse in via di politicizzazione, favorirono la formazione di varie forme di coscienza antiborghese. Questo rese più difficile la possibilità di raggiungere la pace civile e, inversamente, aumentò il pericolo di scivolare verso la guerra civile.
(Traduzione di Maria Ferretti)

Repubblica 23.10.07
Dopo l’ottobre rosso la lunga tragedia civile
di Enrico Franceschini


Non molti docenti universitari sanno maneggiare un mitra. Ancora meno sono quelli sopravvissuti all´esilio in Siberia, alla fame, agli assedi, e che poi sono tornati a servire la terra che li ha perseguitati. Teodor Shanin è nato nel 1931 a Vilnius, nell´odierna Lituania, da una famiglia di ebrei polacchi. Suo padre, che aveva combattuto nella rivoluzione d´Ottobre, fu imprigionato in Siberia da Stalin nel 1941, e Teodor lo seguì con la madre. L´esilio gli salvò la vita, perché poche settimane più tardi i nazisti entrarono a Vilnius, sterminando ogni ebreo trovato in città. Alla fine della guerra, dopo una fuga attraverso la Russia, riuscì a mettersi in salvo a Parigi. Ma ci restò poco, andando in Palestina ad arruolarsi nei commandos del nascente stato di Israele. Poi ha studiato storia della Russia alla Birmingham University, in Gran Bretagna. Tornato in Israele ha insegnato all´università di Haifa ed è stato trai fondatori di Peace Now, il movimento per la pace con i palestinesi. Se n´è andato dallo Stato ebraico per protesta quando un lettore arabo della sua università è stato licenziato per motivi di sicurezza. È tornato di nuovo nel Regno Unito, con la moglie, una ricercatrice israeliana. Ha insegnato a Oxford. È diventato rettore alla Manchester University. Dopo la fine dell´Urss ha fondato a Mosca un´università russo-britannica. Ora vive tra Mosca e Cambridge.
Professor Shanin, la rivoluzione d´Ottobre, novant´anni dopo. Come giudicarla?
«Ha segnato l´inizio di una nuova fase per l´umanità. È stata la più significativa tra le rivoluzioni che hanno sviluppato un nuovo tipo di società, come la rivoluzione messicana, cinese, vietnamita. È stata molto diversa dalle rivoluzioni dei secoli precedenti. Ed è stata incompresa dai contemporanei, anche da coloro che la fecero. Ha presente il vecchio detto secondo cui i generali combattono sempre la guerra precedente? Penso che valga anche per i rivoluzionari. Gli artefici della rivoluzione russa usavano il linguaggio e le immagini della rivoluzione francese: cantavano perfino la Marsigliese. Ma nessuna di quelle immagini era appropriata all´Ottobre rosso».
Proviamo a trovarne di appropriate, allora. Fu una tragedia?
«Tutte le rivoluzioni sono tragiche. Portano sangue, distruzione, lotta fratricida fra cittadini della stessa terra».
Veramente la rivoluzione d´Ottobre fece sì e no qualche morto a Pietroburgo e arrivò nel resto della Russia "per telegrafo": come un comunicato a cui obbedire. Sangue e guerra fratricida vennero solo dopo, con la guerra civile.
«Ha ragione, ma ha risposto da solo alla sua obiezione. La rivoluzione non finì con i giorni dell´Ottobre, che fu solo la scintilla. Non si può staccare l´Ottobre dagli anni di guerra civile tra rossi e bianchi. Lì i morti non si contarono. E lì sta la tragedia».
Alludevo non solo a sangue, morti e distruzione. Non fu una tragedia che la Russia dell'inizio del '900, un paese che esportava burro e grano in tutta Europa, con una moneta tra le più solide del mondo, e un predominio mondiale nell'arte, nella letteratura, nella musica, venisse stravolta dalla rivoluzione e dalla dittatura comunista che ne seguì?
«La dittatura comunista fu una tragedia, indubbiamente, ma a partire dal 1929, dopo la morte di Lenin e l´avvento di Stalin, nel periodo che conduce alle purghe, al terrore, alla collettivizzazione forzata. Prima di allora, fu uno sviluppo naturale e per certi versi inevitabile della storia, a cui alcuni possono guardare con favore, se credono nella necessità di un rapido cambiamento sociale».
Quel cambiamento non sarebbe stato possibile per un'altra strada? Attraverso le riforme, la graduale democratizzazione che era in corso in Russia da oltre un decennio?
«Secondo me, no. Se non ci fosse stato l´Ottobre, in Russia sarebbe avvenuta un´esplosione violenta di altro tipo. Troppo forti erano le diseguaglianze di classe. Troppo estese povertà e arretratezza, a dispetto di taluni passi avanti economici. Troppo debole, ignorante e corrotto era il potere dello zar. La rivoluzione produsse l´industrializzazione, un progresso scientifico e culturale di massa, un balzo in avanti della società. Lenin aveva corretto certi eccessi, avviato riforme democratizzatrici in campo economico e politico».
Aleksandr Jakovlev, braccio destro di Gorbaciov e cosiddetto "architetto della perestrojka", mi disse una volta che l'uomo russo aveva finalmente cominciato ad acquisire una coscienza individuale nei circa cinquant'anni trascorsi tra l'abolizione della servitù della gleba e il 1917. Poi venne la rivoluzione bolscevica, e per altri settant'anni l'uomo russo è stato di nuovo privato di una coscienza individuale. Non è stata una tragedia anche quella?
«Io contesto che tra il ´17 e il ´29 si fosse spenta la coscienza dell´individuo. Fu anche quello un decennio di grande vivacità intellettuale, in Russia, sotto molteplici aspetti. Le cose, ripeto, cambiarono completamente dopo il ´29. Lo spirito della rivoluzione russa, con Stalin, diventò tutt´altra cosa».
Una prima ondata di revisionismo storico faceva una distinzione tra Lenin, buono, e Stalin, cattivo. In anni più recenti, anche Lenin è stato dipinto, nel pensiero di gran parte della sinistra, come uno spietato dittatore con le mani lorde di sangue. Chi era Lenin, per lei?
«Lenin vedeva se stesso come un giacobino: si sentiva Robespierre. Questo fu efficace, nel farlo vincere nei giorni dell´Ottobre e poi negli anni assai più difficili della guerra civile. Anche Lenin, certo, si è coperto di sangue. Ma i suoi attacchi generalmente non furono contro i rivoluzionari, bensì contro le forze che si opponevano alla rivoluzione: lo zar, i bianchi, la nobiltà, la borghesia. Stalin invece attaccò anche e soprattutto i propri compagni, i propri fratelli. Per quanto Lenin non sia indenne da critiche e condanne, la differenza tra lui e Stalin è innegabile, profonda».
Andrebbe chiuso, il mausoleo che ospita ancora la salma imbalsamata di Vladimir Ilich, sulla Piazza Rossa?
«Ritengo che tutti gli uomini debbano essere sepolti dignitosamente e non trasformati in culto, in una forma di religione».
Dopo settant'anni, la rivoluzione si è spenta, l'Unione Sovietica è crollata, e con essa il comunismo. Come vede la fine dell'Urss?
«Una buona cosa, per la Russia e per l´Europa. Ha aperto ai russi la possibilità di nuovi sviluppi. Ha aperto la porta a un potenziale di cambiamento e di crescita sicuramente positivo».
Sarà realizzato questo potenziale? Dove andrà la Russia di Putin?
«La Russia è il più grande paese del mondo, con enormi ricchezze naturali. Può fare molto di bene e molto di male. Ma lascio le previsioni sul suo futuro ai profeti. Come storico m´accontento di provare a comprendere il passato. È già abbastanza complicato».

Corriere della Sera 23.10.07
Anniversario. Il leader dirà che «resta un punto di riferimento imprescindibile»
Rivoluzione d'ottobre, Diliberto a Mosca Discorso dal palco 70 anni dopo Togliatti
di Andrea Garibaldi


Insieme con il segretario del Pdci, che parlerà in italiano, un centinaio di militanti del partito: visita anche a San Pietroburgo

Alle cinque del pomeriggio di mercoledì 7 novembre avrà fatto già buio e la temperatura non dovrebbe scendere sotto lo zero. Attorno a quell'ora, Oliviero Diliberto salirà sul palco sotto al monumento del generale Zhukov, eroe dell'assedio di Leningrado. Al suo fianco Ghennadij Ziuganov, segretario da 14 anni del Partito comunista della Federazione russa, ciò che ha preso il posto del Pcus e che ha il 18 per cento dei seggi in Parlamento. Diliberto parlerà alla folla stretta a rievocare, come ogni 7 novembre, la Rivoluzione d'ottobre (era in vigore, allora, il calendario giuliano). Parlerà in italiano, perché è vero che il segretario dei Comunisti italiani studiò a Mosca ai tempi dell'università, ma non ha conservato un russo fluente. Diliberto sarà, a quanto risulta al momento, l'unico leader straniero a celebrare con un discorso l'evento, e quest'anno si tratta del novantesimo anniversario della presa del Palazzo d'Inverno.
Il monumento del generale Zhukov è in piazza del Maneggio, proprio adiacente alla Piazza Rossa, che da là si vede, fra il Museo storico e la Chiesa della Resurrezione. Quindi con un piccolo salto logistico e un grande orgoglio politico, i Comunisti Italiani dicono che il segretario parlerà «sulla soglia della Piazza Rossa». Certo, erano altri tempi quando il 7 novembre veniva glorificato dai segretari del Pcus sulla terrazza del Mausoleo di Lenin, proprio al centro della Piazza, il Cremlino alle spalle. Da quella balaustra s'affacciò anche Togliatti, prima e dopo la Seconda guerra mondiale. Oggi Putin non concede la piazza, se non a se stesso.
Sotto al palco ci saranno anche cento comunisti italiani che hanno aderito al «viaggio politico-turistico» predisposto dall'Associazione Italia- Russia e da Punto Critico, viaggio che come ha scritto Iacopo Venier, responsabile esteri del partito, «ha il preciso scopo politico di ribadire il nesso tra i Comunisti Italiani e l'Ottobre». Dirà Diliberto che quell'Ottobre resta punto di riferimento storico imprescindibile per chi voglia cambiare il mondo dalle fondamenta e non solo gestire le contraddizioni interne al capitalismo e dirà che quell'Ottobre ha aperto la via a numerosi processi di liberazione. «Non andremo a Mosca per nostalgia — spiega Venier —. Non siamo la sinistra che dissolve il proprio passato, quello è il Partito democratico». Altri italiani sotto quel palco? «Una delegazione di Rifondazione comunista, senza leader...». «Siamo gli ultimi che rappresentano i comunisti in questo Paese», disse Diliberto al Comitato centrale 2006. Oggi il segretario presenterà l'edizione italiana di
Granma, organo del Partito comunista cubano, allegato ogni mese a Rinascita, settimanale Pdci, mentre per i 90 anni della Rivoluzione sovietica è pronto lo slogan: "Novant'anni e non li dimostra".
In Russia i cento fortunati che hanno prenotato il viaggio passeranno da San Pietroburgo, visiteranno l'incrociatore Aurora, da cui partirono le salve sul Palazzo d'Inverno, e il Complesso dello Smolny, in via Dittatura del proletariato numero 3. Quindi a Mosca, visita al monumento a Marx e cena conviviale con il Segretario e i compagni della Federazione russa.
Coincidenza clamorosa: nello stesso 7 novembre l'Inter, che è nel cuore di Diliberto, affronterà a San Siro, in Champions League, la squadra dell'Armata rossa.

Corriere della Sera 23.10.07
Spagna, Concordato da rivedere Zapatero vuole un Paese più laico
Si studia l'abolizione del rito cattolico dai protocolli di Stato L'ala progressista spinge per la svolta. I vertici smentiscono
di Elisabetta Rosaspina


MADRID — Era già improbabile che passasse alla Storia come «José Luis, il Cattolico». Dopo la legittimazione dei matrimoni omosessuali, l'introduzione di un'educazione civica e soprattutto laica a scuola, il ritocco al trattamento fiscale riservato alla Chiesa, il Vaticano ha ricevuto forte e chiaro il messaggio laico della politica di Zapatero. Ma, ora che il Partito socialista medita addirittura di rimettere mano, dopo quasi 30 anni, al Concordato, la Santa Sede rischia di ritrovarsi in mezzo al campo di battaglia elettorale nei prossimi mesi.
I vertici del Psoe smentiscono, ma le indiscrezioni filtrate sul programma in gestazione nelle sue stanze sono piuttosto circostanziate: l'ala progressista del partito sostiene un sospetto di incostituzionalità nel ruolo che la Chiesa ancora ricopre dentro le istituzioni dello Stato. Per esempio, le forze armate.
Perché, si chiedono i revisionisti, i cappellani del Vicariato Castrense possono far carriera, fino a indossare il grado di generale? Perché l'assistenza religiosa ai soldati è soltanto cattolica, quando si sa che sta crescendo, fra gli arruolati (ormai soltanto volontari), il numero dei musulmani? E perché gli atti protocollari dello Stato seguono unicamente il rito cattolico? Tutto ciò è conforme al pluralismo religioso di cui la Spagna del XXI secolo vuole farsi portabandiera? Si rimugina sui funerali di Stato alle vittime del terrorismo, celebrati da vescovi e arcivescovi: «Eppure — qualcuno nota — tra le vittime dell'attentato alla stazione di Atocha, l'11 marzo del 2004, c'erano anche morti di altre confessioni».
Fondata o no, la discussione è scoppiata sicuramente troppo presto tra le mani dei socialisti, perché ad avvantaggiarsene non finiscano per essere i rivali del PP, il partito popolare, già in guardia sulla nuova «offensiva laica» della maggioranza.
Pedro Zerolo, segretario dei Movimenti sociali del Psoe, esclude che, nei progetti del partito, ci siano misure anticlericali o anche solo le più blande intenzioni di mettere in discussione le prerogative ecclesiastiche in terra iberica. Si ammette, però, che i gruppi di lavoro che stanno elaborando i temi della prossima campagna elettorale di Zapatero hanno vari argomenti all'ordine del giorno. E quello del pluralismo religioso è uno dei tanti.
Gli analisti politici, che cominciano a esprimersi sulla stampa sulla questione, considerano poco utile alla causa dei socialisti una vertenza con Santa Romana Chiesa, visto che già nell'ultima legislatura non sono mancati i motivi di tensione. La Conferenza Episcopale, per esempio, aveva incoraggiato quest'estate i genitori degli studenti ad avvalersi dell'obiezione di coscienza, per salvaguardare i figli dall'educazione civica introdotta per legge dal governo e troppo aperta, per esempio, in materia di famiglie omosessuali e coppie di fatto. La nuova materia scolastica, entrata in vigore quest'anno in molte comunità autonome rette dai socialisti, era stata denunciata dal cardinale Antonio Cañizares come una grave inadempienza ai patti tra Stato e Chiesa. E il governo certamente non dimentica il milione e mezzo di cittadini che gli ambienti cattolici riuscirono a mobilitare il 18 giugno di due anni fa in difesa della famiglia tradizionale.
I primi accordi erano stati firmati nel luglio del '76, alla fine della dittatura franchista, ma i trattati concordati nel gennaio del 1979 tra la Spagna e il Vaticano riformavano il Concordato stipulato nel '53, sotto il regime di Franco, ed erano stati ratificati dal parlamento eletto dopo il varo della Costituzione. Ciò basta, secondo i conservatori, a considerarli legittimi e in buona salute.

il manifesto 23.10.07
Intervista a Franco Giordano
«Decidiamo insieme forme e contenuti dell'unità a sinistra»

di Matteo Bartocci e Gabriele Polo


Per Franco Giordano dopo la manifestazione di sabato il governo non può blindare il protocollo. E la sinistra deve avviare subito una costituente aperta a chi è fuori dai partiti. Legge elettorale? Chi non vuole il sistema tedesco difende una logica di nicchia

«La straordinaria manifestazione di sabato cambia tutto. Adesso abbiamo il compito storico di unire la sinistra. Va fatto rapidamente ma è chiaro che non può essere solo un compito dei partiti. Serve un'unità molto più larga, la stessa di piazza San Giovanni».
Quando incontriamo Franco Giordano, la soddisfazione per il successo di sabato è ancora palpabile. Il segretario di Rifondazione è ben attento a non bruciare forme e modalità del confronto a sinistra. Insiste però su un «modello rovesciato» rispetto al Pd: non primarie sul leader ma «una consultazione aperta e partecipata su programmi, contenuti e modalità organizzative». «Se vogliamo presentarci uniti alle amministrative - insiste - dobbiamo accelerare. Va definito subito il processo costituente e elaborata una cultura politica pacifista, laica, antiliberista e che raccolga la differenza di genere. E' una sfida enorme. Rifondazione e la Sinistra europea sono pronti, non si torna più indietro».

Una manifestazione così grande però vi richiama a grandi responsabilità.
Quella piazza enorme e plurale ha un doppio significato: da una parte una rivendicazione chiara nei confronti del governo sulla precarietà, la pace, i diritti civili, l'ambiente. Contemporaneamente ha lanciato una fortissima richiesta di unità della sinistra.

Soprattutto ora che siete al governo.
Il nostro giudizio sul protocollo sul welfare resta critico. Non può essere che un ragazzo inizia a lavorare come precario e non esce mai da questa condizione. Ma la nostra dialettica col governo non si esaurisce qui. Accolgo in pieno la proposta di Gianni Rinaldini (segretario Fiom, ndr) al convegno degli economisti promosso dal manifesto. Dobbiamo ottenere risultati concreti verso quelle aree sociali finora invisibili e sempre più in sofferenza. Spero che sia accolta in finanziaria una proposta unitaria della sinistra che, a partire dall'armonizzazione delle rendite, propone la restituzione del fiscal drag ai lavoratori o la detassazione degli aumenti salariali ottenuti con la contrattazione nazionale.

E se sul protocollo ci fosse la fiducia?
Dopo la manifestazione penso che sia più difficile porre un aut aut. La fiducia chiuderebbe la porta a quella piazza. Una piazza più forte perché si è mossa in sintonia con una sfida europea. La settimana scorsa a Lisbona 200mila persone hanno manifestato contro la flexicurity, in Francia ci sono stati i primi scioperi contro Sarkozy e in Germania quelli dei ferrovieri contro le privatizzazioni.

La manifestazione però è stato anche il segno tangibile di una supplenza dal basso alle debolezze dei partiti.
Abbiamo tutti un dovere verso quella piazza: bisogna aprire entro l'anno il processo costituente di una nuova sinistra unitaria e plurale. Mercoledì ne discuterò con gli altri segretari e quindi non voglio entrare nei dettagli. E' chiaro però che la sinistra non si esaurisce nei partiti che ci sono. Rifondazione ha avanzato una proposta che può tenere insieme tutti: gli stati generali sul modello del «forum sociale». Una tre giorni aperta che può censire tutte le espressioni di sinistra e decidere una fase costituente che, a nostro avviso, deve essere una federazione forte tra partiti, singoli e associazioni.

In piazza un oceano di bandiere rosse. Non è che rifarete un «Pci bonsai»?
Noi non vogliamo una ricomposizione delle forze comuniste. Imprigionerebbe la novità e limiterebbe le sue potenzialità. E' vero: Rifondazione era in piazza ma quella piazza non era di Rifondazione. Il Prc è venuto come partito ma anche come collettore unitario. Il bisogno, la richiesta dell'unità a sinistra dei nostri iscritti ha fatto impressione perfino a me. Sabato è stato detto in modo chiaro che la politica non si esaurisce in un Pd onnicomprensivo. Noi restiamo saldamente ancorati al mondo del lavoro. E non esiste un soggetto unitario della sinistra che sia la semplice proiezione della maggioranza dell'orientamento sindacale. Noi, tutti insieme, abbiamo visto che c'è bisogno di una soggettività politica che vuole esprimersi in prima persona, senza appaltare a altri la propria identità.

Cos'è, una polemica con la Cgil?
Non faccio polemiche con chi non è venuto. In piazza c'era un'idea del processo unitario: o questo soggetto si costruisce con forme partecipate oppure non esiste. Non ha sfilato solo il no al referendum. C'era chi ha votato sì e perfino chi ha votato per il Pd, basti pensare a Moni Ovadia. In tanti sono in bilico e aspettano una proposta credibile da sinistra. Cedere la sovranità, del resto, vuol dire andare avanti anche se non condividi integralmente.

Come andare avanti allora?
Noi non vogliamo scioglierci. In questa fase transitoria i partiti ci sono perché sono una ricchezza di questo paese. Ma da soli non bastano. Bisogna sollecitare forme di costruzione di programmi e su questi chiamare al voto in forme binarie a partire dal basso, dalle realtà territoriali.

I problemi di rapporto con i movimenti restano. Come riallacciare il dialogo?
Bisogna incontrarsi a tutti i livelli. Spero che i promotori, i tre giornali, aprano una discussione. Mantenere aperta la relazione è decisivo per evitare possibili solitudini. Quella manifestazione non chiude nulla, è a disposizione anche di chi non è venuto.

Alla vigilia, una personalità come Nichi Vendola è finita al centro di retroscena e indiscrezioni. Questa nuova sinistra non ha un problema di leadership?
Penso che insieme alla partecipazione dal basso l'altra vera innovazione sarà la collegialità. Le primarie sul leader non appartengono alla nostra cultura, faremo l'esatto contrario di un'elezione plebiscitaria del leader.

Sulla riforma elettorale siete divisi. Mercoledì ne discuterete con gli altri segretari?
Noi sosteniamo il modello tedesco. Chi vuole davvero l'unità a sinistra con quel sistema non ha nulla da temere. Tutte le resistenze nascondono una logica di nicchia. Se abbiamo deciso di stare insieme che problema c'è? L'unità non è un ballon d'essai, chi è venuto al corteo non ce lo perdonerebbe mai.

il manifesto 23.10.07
La Cgil apre lo scontro. Nel mirino anche le aree programmatiche
Processo alla Fiom
Epifani difende il protocollo e attacca chi si è opposto. Al centro c'è la salvezza del governo. L'accordo non si può cambiare, e neanche migliorare
di Loris Campetti


«L'esito del referendum è inequivocabile, è un risultato mai raggiunto... I sì esprimono la condivisione sui contenuti dell'accordo, ma anche la fiducia nel sindacato, volontà di dare ad esso forze e autorità, fiducia nelle possibilità di cambiamento, riconoscimento di aver fatto quanto possibile. Ha vinto un'idea alta di responsabilità, autonomia e unità, solidarietà, coraggio di rischiare, un'idea alta di confederalità». Il segretario Cgil Guglielmo Epifani ha rivendicato il sì al protocollo, tanto più che «la trascrizione finale del testo corrisponde e in alcuni casi» ne «chiarisce meglio i contenuti, consentendo anche di superare alcune delle riserve espresse al momento dell'accordo».
Il direttivo della Cgil, aperto dalla relazione del segretario, si concluderà oggi con una risoluzione che, date le premesse, ben difficilmente sarà unitaria. Premesse pesanti per i reprobi del no al protocollo, aria da processo politico. Sotto processo, per ordine: 1) la Fiom, che «ha compiuto una scelta mai fatta prima esprimendosi per il no e con questa formalizzazione il referendum è diventato di fatto anche una contrapposizione fra una categoria e le confederazioni»; 2) Lavoro e società, l'area programmatica che ha compiuto l'errore di partecipare «alla manifestazione del 29 settembre», promossa da decine di Rsu contro il protocollo del 23 luglio, e siccome Lavoro e società «partecipa alla maggioranza congressuale... è una questione di cui dobbiamo discutere senza finzioni e ambiguità»; 3) chi ha lanciato «le accuse di brogli. Innestare questa polemica è stata una scelta studiata e costruita tanto dentro che fuori dalla Cgil», un «tentativo di delegittimare il voto... è una responsabilità grave, che resta tutta a carico di chi, per sostenere interessi di parte, non ha voluto pensare al bene dei lavoratori e dei pensionati». Leggasi Giorgio Cremaschi.
Il gruppo dirigente dei meccanici è nel mirino, mentre per Nicolosi (coordinatore di Lavoro e società) e Cremaschi (Rete 28 aprile) qualcuno parla addirittura di provvedimenti disciplinari. La Fiom - con le sue colpe - sarà oggetto di dibattito politico in tutte le categorie e nei regionali Cgil per due mesi e si concluderà in un nuovo direttivo nazionale. «La particolare sensibilità della Fiom rappresenta una ricchezza per la Cgil - ha detto Epifani - ma guai se si allenta lo spirito della confederalità e se non si affronta subito questo nodo le questioni si aggraveranno». Mentre il segretario Gianni Rinaldini interverrà oggi, Francesca Re David ha già preso la parola dichiarando folle l'idea di far discutere l'organizzazione per due mesi per decidere se la Fiom ha fatto bene o male a votare no, mentre sono in piedi difficili trattative e scioperi per il rinnovo del contratto. Il referendum, ha detto, è uno strumento di democrazia e partecipazione di cui i meccanici hanno una certa pratica: ma per salvarlo bisogna definire le regole. E che regole sono quelle per cui si può votare solo sì?
Un confronto duro, dove sono volate parole grosse: c'è chi che cerca possibili nessi tra il no all'accordo e l'apertura di spazi alle «stelle a cinque punte»; o chi sostiene che nelle aziende meccaniche deve entrare la Cgil che adesso non c'è, come se la Fiom fosse il quarto sindacato. Anche Nicolosi e Cremaschi, che interverranno oggi, denunciano i toni degli attacchi. E la maggioranza congressuale, che comprende Lavoro e società, potrebbe saltare. Alcuni interventi, come quelli dei segretari delle Camere del lavoro di Bologna e Torino, hanno invece evitato trionfalismi nell'analisi del voto, «tanto i sì che i no appartengono alla Cgil».
Epifani riconosce la presenza di un dissenso tra i lavoratori: «Non sfugge il malessere che esprimono alcune grandi aziende metalmeccaniche, in particolare Fiat ma il disagio è dietro anche molti sì. Ma se è necessario interrogarsi sulle ragioni del no, tutti (a cominciare da chi è stato contrario) devono interrogarsi sui tantissimi sì».
Cosa motiva tanta durezza nei confronti del dissenso? La risposta è nelle parole di Epifani: «Ci dobbiamo augurare che il governo non cada, che sia messo in condizioni di proseguire il lavoro, che non prevalgano ipotesi di segno moderato o operazioni di cambi di maggioranza nel segno del trasformismo o addirittura della compravendita dei voti di parlamentari». E ancora, il protocollo non si deve cambiare, neppure migliorare perché «dati i rapporti nella maggioranza, saranno difficili soluzioni ulteriormente migliorative: abbiamo raggiunto le migliori soluzioni possibili». Nel direttivo, ascoltate, queste parole, c'è chi lancia un appello all'autonomia.

Aprile on line 22.10.07
Sinistra, il giorno dopo
di Titti Di Salvo, capogruppo SD Camera dei deputati


Lungo la strada dell'unità, per una sinistra larga e rinnovata, si ripropongono gli stessi problemi. Due in particolare: il rapporto con il sindacato confederale e il rinnovamento della sinistra

Siamo arrivati al 21 ottobre. E una riflessione è d'obbligo, accantonando per un momento una situazione politica confusa ed instabile. Infatti gli appuntamenti che precedevano il 21, pur molto diversi tra loro, avevano in comune l'essere una verifica del grado di rappresentanza sociale e politica, come antidoto o risposta alla crisi di consenso che attraversa il paese. Il successo di quei singoli eventi rende oggi la democrazia italiana più salda.

Naturalmente ciascuno di quegli appuntamenti ha delle conseguenze. Il referendum dei lavoratori e dei pensionati rassicura il sindacato sul gradimento della mediazione raggiunta con il protocollo sul welfare. Il voto di Walter Veltroni rafforza quella leadership dandogli una investitura che può essere solo limitata dall'autocensura.
Anche la manifestazione del 20 ottobre, molto partecipata, rassicura i promotori della esistenza di un seguito importante alle parole d'ordine con le quali la manifestazione era convocata.

Da lì in avanti, dal 21 in avanti, lungo la strada dell'unità a sinistra, una sinistra larga e rinnovata, si ripropongono gli stessi problemi. Due in particolare: quale rapporto tra la sinistra e il sindacato confederale; il rinnovamento della sinistra.
In primo luogo il rapporto con il sindacato confederale. E' perfino pleonastico sottolineare come la sinistra politica che ambisce a rappresentare politicamente il lavoro, non possa prescindere dal definire ambito e qualità del rapporto con il sindacato che il lavoro lo rappresenta socialmente, lasciando al passato collateralismi e cinghie di trasmissione.
Il termine "autonomia" qualifica quel rapporto. Ma appunto autonomia non è estraneità, non è competizione. Per definizione l'autonomia intanto è possibile solo sulla base di idee proprie da mettere in relazione ad altre idee.

Dalla astrazione alla concretezza: nella frizione che si è manifestata tra parte della sinistra e sindacato confederale sul protocollo, il punto a me non chiaro è stato il metro di misura scelto per misurare l'accordo.
Se il metro di misura fosse la distanza tra quel protocollo e il programma di governo dell'Unione, la polemica andrebbe rivolta verso chi si è discostato dal programma.
E' evidente che sta e stava al governo e alla sua maggioranza l'onere del rispetto del programma.
Se a non essere condiviso fosse il metodo della concertazione (propria delle socialdemocrazie europee più avanzate e che impegna governo e sindacati a comportamenti virtuosi sulla base di obiettivi condivisi) allora la polemica sarebbe sul privilegio della relazione: perché se si è scelta la concertazione, allora i firmatari dell'accordo siglato sono impegnati a tener fede a quell'accordo, pena svuotamento della stessa modalità di relazione.
Il referendum promosso dal sindacato sul protocollo, poi, ne ha approvato i contenuti e anche della legittimità del sindacato stesso.
Rimuovere quell'esito, vedendo solo il valore del referendum in quanto prova democratica, non aiuta a costruire un rapporto positivo e quindi autonomo tra sinistra politica e sindacato.

Peraltro sarebbe miope non vedere come nella consultazione si sia espresso, nei sì e nei no, il malessere di una condizione di lavoro valorizzata socialmente. La mia opinione è che il protocollo sia stato un terreno di aspra battaglia all'interno della maggioranza perché sui temi da esso affrontati si confrontano due idee di sviluppo; il sindacato ne è stato il parafulmine. Si è trattato di un aspro confronto che il programma pre-elettorale aveva composto e il risultato elettorale ha poi scomposto in modo molto evidente.
D'altra parte stupisce e comunque a me ha stupito l'isolamento culturale delle ragioni del lavoro a quel tavolo di trattative. Liquidare quell'isolamento con un giudizio sul moderatismo sindacale a mio avviso non solo è falso, ma comunque non spiegherebbe il problema. Tentare di rompere quell'isolamento rimuovendo il risultato del referendum, altrettanto: servono alleanze.
Così come le ragioni del lavoro non hanno chance né possibilità di segnare in prospettiva lo sviluppo del paese senza che la politica assuma quelle ragioni come ragioni fondative.

E questo ci riporta all'unità a sinistra e, soprattutto, ci riporta al tema del rinnovamento della sinistra.
Una sinistra larga, femminista, pacifista, ecologista e di governo.
Una sinistra che deve avere l'ambizione di immaginare una prospettiva nazionale e generale per il paese. Rinnovata, perché conosce i propri limiti interpretativi e di rappresentanza. Limpida, coerente, credibile: che sceglie la politica come ascolto e prende le distanza dalla politica mediatica profondamente berlusconiana, anche quando cambiano i protagonisti.
Ci vorrebbe il coraggio di uscire dalle trincee della propria identità: ci vorrebbe tempo.
Ma di sicuro due cose non ci servono: identità orgogliose contrapposte in una campagna elettorale permanente, tutta giocata all'interno della sinistra; denominazione di origini controllate, "cose rosse" o scelte analoghe brandite come perimetri.

L'unità a sinistra è ciò di cui ha bisogno il paese; non nascondere i problemi che esistono lungo quella strada o rimuovere i nodi fondamentali, lungi dall'essere un ostacolo verso questa prospettiva, è l'unica condizione per garantirle successo.

Aprile on line 22.10.07
Sd e l'occasione perduta
di Giorgio Mele, Senatore Sinistra democratica


L'intervento Il 20 ottobre ha consegnato alla sinistra politica un popolo che cerca riferimenti e risposte. L'occasione giusta potrebbe essere la costituente di un nuovo grande soggetto unitario

Il 20 ottobre è passato e ha lasciato un segno positivo.
Un milione di uomini, donne e sopratutto giovani hanno invaso le strade di Roma facendo riemergere la voce di gran parte del popolo della sinistra, che in questi mesi è stato fin troppo silente e passivo di fronte alla vicenda politica.
Dal corteo di sabato scorso emergono alcuni elementi che mi sembra utile sottolineare. Il primo è quello dei contenuti e dei valori.

Il popolo che guarda a sinistra ha espresso con grande chiarezza che i temi del lavoro e della precarietà devono stare al centro dell'agenda politica altrimenti, come dice il papa, si minano le basi materiali e morali della nostra società, si lacerano i legami della convivenza sociale e civile.
E' un richiamo forte, che viene in primo luogo dai tanti giovani in piazza preoccupati del loro futuro, ma anche del futuro della nostra democrazia, se i diritti sociali non vengono rispettati o accantonati.
E' stato un monito forte e razionale a tutta la coalizione di centrosinistra, che chiede di rimettere al centro della propria iniziativa di governo i temi che tutti abbiamo sottoscritto nel programma, e con cui abbiamo vinto le elezioni.

In secondo luogo la manifestazione, come tutti hanno affermato, non è stata contro il governo. Si sono così allontanate le paure, i fantasmi, gli spauracchi che per mesi hanno animato strumentalmente il dibattito politico. Il governo infatti non deve temere imboscate da questa parte della coalizione: sono altri che proprio in queste ore sono impegnati in mercimoni e manovre che dobbiamo tutti sventare.

Il governo deve solo temere il distacco e la perdita di consenso di tanta gente che ha guardato con speranza al centrosinistra, e che ora potrebbe ritirare la propria fiducia e la propria delega, come in parte sta già avvenendo, se non diamo risposte chiare e inequivoche sui temi del lavoro e del Welfare.

La manifestazione inoltre non è stata nemmeno contro il sindacato, che farebbe bene a comprendere le ragioni del successo del 20 ottobre, piuttosto che evocare esso stesso fantasmi irrazionali.
Da ultimo, quel grande corteo ha fondamentalmente espresso un gran bisogno di sinistra, di una sinistra unita e non di tante sinistre sparse e non comunicanti; e con questo spirito io e altri compagni vi abbiamo convintamene partecipato.

Da oggi possiamo riparlare della unità a sinistra con qualche ragione in più, e spero con qualche polemica in meno. Nei mesi scorsi non pochi hanno vissuto questo appuntamento con fastidio e diffidenza, se non addirittura con ostilità. La risposta di massa ha fatto giustizia di questi atteggiamenti, legittimi ma poco comprensibili.

Penso con franchezza che la non partecipazione di alcuni settori come quello di Sinistra Democratica sia stata più un'occasione mancata che una presa di posizione lungimirante.

Ora comunque è il momento di superare le diatribe delle settimane scorse e guardare in avanti, stabilendo un percorso certo, che sappia condurci attraverso la partecipazione di tanta gente a superare le poche cose che ci dividono: mettere giù una carta di intenti e avviare entro la fine dell'anno la costituente di un nuovo grande soggetto unitario della sinistra.
Dobbiamo evitare di perdere altro tempo perché potremmo non avere un'altra occasione.

Rosso di Sera 22.10.07
Chi non vuole l’unità della sinistra lo dica


C’è chi vuole rimanere comunista. E sta bene. Ma pretenderebbe che lo diventino anche coloro che non lo sono. Poi c’è chi ha scoperto da poco il socialismo europeo. E sta bene. Ma pretenderebbe di far diventare anche gli altri socialisti europei (poi qualcuno ci dovrà spiegare una volta per tutte che cos’è il socialismo europeo).
Basta leggere i giornali di oggi per capire che l’unità a sinistra sarebbe già cosa fatta se non ci fossero coloro che, sotterraneamente, remano contro. Quelli che non vengono alla manifestazione, gufano per settimane, prevedono quattro gatti e proibiscono le bandiere, e che dopo il milione di piazza San Giovanni si scagliano contro chi c’era e visto che ci sono chiedono pure che il Parlamento (eletto dal popolo, fino a prova contraria) si zittisca.
Quelli che c’erano e pretendono di dettare la linea (“voglio la falce e il martello”) senza capire che se si vuole l’unità la si deve costruire anche con chi non c’era, ma avrebbe voluto esserci.
Tutto questo ambaradan sarebbe facile da districare se ognuno prendesse, per ciò che gli compete, la propria responsabilità, se ognuno dicesse dove vuole andare, magari evitando di mettere i bastoni tra le ruote a chi vuole fare una certa strada.
Siamo onestamente stufi dei giochetti, da qualunque parte arrivino...

Aprile on line 21.10.07
Il Vaticano marcia su Roma


Anniversari Domenica 28 ottobre 2007, anniversario della marcia su Roma, saranno beatificati in San Pietro 498 franchisti perché, secondo i prelati spagnoli, sono "martiri della Repubblica". La gerarchia vaticana con questa azione entra violentemente nel dibattito politico spagnolo

Domenica 28 ottobre 2007, anniversario della marcia su Roma, saranno beatificati in San Pietro 498 franchisti, tra appartenenti al clero e laici, saranno beatificati perché, secondo i prelati spagnoli, sono "martiri della Repubblica". Sarà la più numerosa delle beatificazioni mai realizzate, è prevista una folla di fedeli (filofranchisti) dalla Spagna e il battage pubblicitario delle grandi occasioni sui media italiani.
La gerarchia vaticana con questa azione di massa entra violentemente nel dibattito politico spagnolo: il governo Zapatero sta per varare una legge sulla memoria che condanni il franchismo e la chiesa cattolica spagnola, supportata da Ratzinger, prende posizione in questo modo.

Ma d'altro canto, attraverso questa iniziativa, le gerarchie vaticane continuano a fare politica in supporto al fronte clerico fascista: la scelta della data della marcia su Roma allarga il significato dell'operazione e la colloca nel tentativo sempre più visibile di sdoganamento e legittimazione del fascismo, tentativo operato dall'integralista Ratzinger per affermare un modello di società chiuso e reazionario, patriarcale, omofobico e razzista.

La beatificazione di 498 franchisti presentati come martiri è un esempio vergognoso di revisionismo storico, la strategia vaticana è ancora il vittimismo: si costruisce un'iniziativa per mostrare il clero come vittima di sanguinari comunisti quando la realtà storica racconta che la chiesa fu parte di una reazione fascista che portò in Spagna alla guerra civile e all'instaurazione della dittatura. D'altra parte in Italia conosciamo bene questa tattica vaticana: negli ultimi mesi si cerca di far passare la chiesa cattolica, gli esponenti del clero e persino i politici che dichiaratamente ne supportano le istanze come vittime di una campagna anticlericale, quando, al contrario, la chiesa cattolica condiziona in modo sempre più palese la vita culturale, politica e sociale del nostro paese e conduce una campagna di istigazione all'odio e alla violenza contro donne, lesbiche, gay e trans che produce aggressioni, stupri, omicidi e diffusa intolleranza.

Dall'operazione revisionista che verrà celebrata domenica 28 ottobre esce rafforzata la marcia del dissolvimento della laicità (voluto dal Vaticano e operato dalla politica istituzionale) e la fascistizzazione della società, basata sulla creazione della paura e sulla caccia alle streghe dello scontro di civiltà; ne fanno le spese, ancora una volta, tutte le soggettività non conformi al modello unico dominante, la verità storica, l'antifascismo fondamento del nostro vivere civile.

Coordinamento Facciamo Breccia - NO VAT

Liberazione 23.30.07
Sinistra, impara dal 20 ottobre: cambia e unisciti
Intervista a Marco Revelli: «Quella piazza dimostra che esiste
l'intelligenza di massa. E vuole nuova unità politica e sociale»
di Anubi D'Avossa Lussurgiu


L'intervista: «Era una piazza esigente. Ora sarebbe triviale imitare le primarie»
Revelli: «Dopo il 20 ci vuole molta unità e molta discontinuità»

Marco come va? E a te? Bene, ora. Meglio, adesso. Iniziare a parlare con Marco Revelli, dopo sabato scorso, significa ritrovare e scambiarsi quello stesso tono, quel cambio di stato d'animo, quel "fiato" che si sono respirati nella piazza. Con lui, tra le firme "intellettuali" di quel piccolo cartello significativo che promosse il 3 agosto ciò che poi è stato il 20 ottobre, proviamo a ragionare sul "giorno dopo", anzi sul "tempo dopo". Su ciò che a partire da là dev'essere oggi, per il domani.

Cominciamo da sabato scorso: cosa ha significato, cioè cosa voleva significare, quella folla?
Partirei da un dato: il numero dei protagonisti del 20 ha travolto anche noi. Nei miei più rosei sogni quella dimensione non era prevedibile, li supera anzi di quattro se non cinque volte. Eppure nei due mesi precedenti di gente ne avevo incontrata, in assemblee, dibattiti... Soprattutto con i militanti. Cosa vuol dire allora quest'esplosione di popolo di sinistra, che mi pare la definizione più appropriata?

Ecco, cosa? Come mai, secondo te, questo scarto sorprendente e stavolta non in negativo?
Credo ci sia stata una grande intelligenza politica collettiva, che ha fatto sì che molte centinaia di migliaia di persone cogliessero l'essenza del momento. E il momento è questo: l'ottobre 2007. L'intuizione che stava sottopelle a tutti noi e che la grande piazza del 20 ha reso palpabile era che in questo tempo, in questo passaggio si giocava il destino di una sinistra in Italia. Cioè la possibilità o meno che nei prossimi anni esista una sinistra politica e sociale in Italia. Credo sia questo che, intorno alla spina dorsale del corpo militante, si è condensato con quella galassia di popolo. Ciò che si è capito è che ci si giocava il futuro, non il governo. Che la posta non era Prodi: il problema non era lui ma la sinistra italiana. E la capacità di una sinistra di superare il Capo delle Tempeste di quest'ottobre, nel quale si materializzava la possibilità di non poter parlare più, in Italia, di sinistra.

In effetti, c'era chi aveva descritto la sequenza della consultazione sul protocollo governo-sindacati-Confindustria e delle primarie del Piddì quasi come un "uno-due" fatale, a sinistra...
Già, ma la piazza secondo me non ha pensato, né è stata attratta, a riequilibrare il punteggio in una sorta di match tra "corpi militanti", rispetto a quelli delle confederazioni sindacali o del Partito democratico. Penso invece si sia capito qualcosa di più: che nel quadro sconvolto dagli eventi di questi mesi, nel cambio radicale di scenario che interviene con la nascita del Pd, con la trasformazione del sindacato e con quella della rappresentanza politica e sociale, si determinava chi è dentro e chi è fuori, per il futuro. Cioè, insisto: la possibilità che una sinistra, non questa o quella formazione particolare, ma una sinistra in generale non ci fosse più.

Tu dici che la posta in gioco era ben altra rispetto a quella su governo sì o governo no. Però il tam tam mediatico spingeva tutto su questo: solo miopia? E non erano solo i media...
In parte, è vero, il governo c'entra: ma non perché quella piazza potesse abbatterlo o innalzarlo sugli altari, come pensava chi non ha capito la posta in gioco, chi ha mostrato di non avere l'intelligenza della massa scesa in piazza. Parlo di quanti nel percorso di costruzione del 20 ci hanno detto, simmetricamente: non veniamo perché non volete buttare giù Prodi, anzi lo volete sostenere; e non veniamo perché lo volete buttare giù, anzi così aiutate il ritorno di Berlusconi. Il governo c'entrava e c'entra in modo molto più sostanziale: la sua fragilità, persino imprevedibile per quanto si rivela estrema, è la cartina di tornasole della trasformazione in corso.

Precisamente, dove individui il rapporto tra la crisi strisciante del governo e il "cambio di scenario" generale?
La debolezza di Prodi sta da una parte in una crisi di delegittimazione: cioè nel gran numero di delusi, che non sono solo a sinistra, per le inadempienze programmatiche. Ma dall'altra - e questa è la vera mina che l'ha dissanguato - sta nella costituzione del Pd. La fusione di due forze che rappresentano culture e storie profondamente diverse in un unico soggetto politico, è già di per sé un clamoroso salto mortale: in politica come in economia fusioni così hanno molte possibilità di fallire. Ma questo è addirittura un doppio salto mortale: perché le due grandi forze di centro della coalizione lo fanno mentre il governo è in carica e con una maggioranza parlamentare risicata.

Da questo punto di vista come collochi l'evento del 20 ottobre? Voglio dire: che risposta ha dato?
Mi limito a considerare che se quel terremoto politico fosse avvenuto in assenza d'un segnale corporeo, materiale, della sinistra, sarebbe stata veramente una tragedia. Io ringrazio il cielo che sia stata convocata e si sia svolta questa manifestazione: se il ciclo avesse finito di definirsi con il 14 ottobre, il segno conclusivo sarebbe stato la desertificazione dell'aerea della sinistra. Invece sabato si è come materializzata una resistente condensazione di energie, come intorno ad un magnete.

Tu come le descriveresti quelle energie? E il magnete, ora, che se ne fa? O piuttosto che se ne fanno loro, del magnete?
Sono energie portatrici, intanto, di una enorme generosità; e poi di un forte legame con situazioni reali. Parlo della costellazione del lavoro in quella parte che ha ancora un "luogo" anche se ha perso la sua centralità storica, ma anche del mondo del lavoro ipermoderno, il precariato dei giovani. E, ancora, i territori: quella parte che ha capito - alcuni no, ma adesso capiranno... E il popolo della pace, che attraversa tutte queste componenti, ma anche una bella fetta di opinione: gente che non ci sta a vedere il Paese ridotto alla rappresentanza lobbistica o alla rappresentazione giornalistica.

Aggiungerei tanti "invisibili", al di là della stessa precarietà lavorativa: i soggetti portatori di rivendicazioni di diritti e differenze irriducibili alle compatibilità di potere...
Certo. E si capiva bene dalle voci del palco finale: linguaggi di una composizione ipermoderna, non di un'ossificazione storica. E mostravano che essere ipermoderni non vuol dire essere aconflittuali, anzi al contrario. Ma cosa dicevano quelle voci? Dicevano siamo qui, nessuno di noi dopo oggi è più solo - lo credevamo ma scopriamo che non è vero - . Più un'altra cosa: così come è andata finora non può più andare avanti. Ci vuole una soluzione di continuità, a tutti i livelli, anche quelli delle forme della politica; il che poi, bada bene, non significa negare se stessi, ma "transitare", con tutta la propria memoria.

Noi abbiamo titolato: «Non deludiamoli»...
Diciamo meglio: non deludiamo ci . Perché non è che qualcuno abbia delegato qualcun altro a inventarsi una soluzione. E' stato posto lì e ora, direi, un problema che impone una responsabilizzazione collettiva molto forte. La disponibilità che si è rivelata, infatti, non dura in eterno. A me è parsa una piazza esigente e molto riflessiva, usando la bella espressione di Ginsborg sul "ceto medio" dei girotondi: non per dire che fosse invece questo un "proletariato" riflessivo, ma che era la base sociale riflessiva d'una possibile sinistra.

Come deve fare ora a passare dalla possibilità al prendere corpo, questa sinistra?
Non ci sono scorciatoie mediatiche: sarebbe persino triviale se ci si affidasse davvero all'imitazione delle primarie. O se si derivasse dal 20 lo spirito d'un semplice "embrassons-nous" tra sigle, esteso a Sd e Verdi. Penso così: non c'è dubbio che alla prossima scadenza elettorale o c'è un soggetto unitario a sinistra o davvero si è fuori dal mondo. Allo stesso tempo però la costruzione di una sinistra unitaria e plurale, come si dice con bella espressione, può avvenire solo con il coinvolgimento sociale più ampio possibile di quell'intelligenza di massa delle persone. Ossia ravvicinando il corpo sociale alla rappresentanza politica: il che presuppone il riconoscimento della crisi e dei limiti della rappresentanza stessa, non nella sua dimensione tattica ma nel senso che ha nel tempo della globalizzazione.

E come si fa esplicarla in positivo, questa crisi?
Sapendo che si tratta di ricostruire la rappresentanza democratica: a livello di governo, a livello parlamentare, a livello amministrativo, a livello della rappresentanza sociale, a livello dei territori. E' richiesta molta fantasia. E il saper fare in fretta le cose che possono e debbono concretizzarsi velocemente: ma anche la necessaria e giusta lentezza in quelle che richiedono profondità. Nessuno può farcela da sé o pensare d'essere autosufficiente nel determinare i modi e i tempi del processo, che sia la sinistra sociale o quella politica, tanto meno questo o quel corpo organizzato. Bisogna avviare una divisione del lavoro efficace e condivisa a tutti i livelli. Sabato abbiamo messo un piede in mezzo alla porta: cosa faremo oltre quella porta cui abbiamo impedito di chiudersi, è affidato a molta unità, molta responsabilità e a quella stessa intelligenza dimostrata dalle molte e dai molti che sono venuti.

Liberazione 23.30.07
Quella piazza che pensa
di Antonella Marrone


A due giorni dalla manifestazione, dopo aver parlato, letto, discusso, analizzato, ci sono ancora alcune cose da dire sul 20 ottobre. Sui partiti e sulla capacità di analisi politica dei media e dei manifestanti. Cominciamo da quest'ultima considerazione. Chiunque abbia partecipato al corteo o abbia visto le immagini televisive avrà percepito come il livello di analisi della situazione politica fosse piuttosto approfondito tra i partecipanti, anche nelle veloci e semplici risposte date ai cronisti. Molto più articolate rispetto a quella degli organi di stampa che hanno seguito, dall'inizio, l'idea della manifestazione e da un osservatorio privilegiato. Le risposte date dai manifestanti ai giornalisti aprivano un mondo di possibilità e di provocazioni che i massmedia, nel lungo periodo precedente all'evento, avevano sempre ricondotto alla banale dicotomia "pro o contro" il governo. E da quello stereotipo - come ben sa l'ufficio stampa della manifestazione - non ci si è mai allontanati. Era ed è rimasta una manifestazione esclusivamente contro la Legge 30, ad esempio, senza che nessuno abbia mai voluto mettere insieme le istanze collettive che erano alla base dell'appello sottoscritto ad agosto. Commenti ed editoriali si sono invece lanciati in estenuanti elucubrazioni su Prodi e Berlusconi (e valga per tutti l'editoriale di Furio Colombo di domenica, su l'Unità : una specie di delirio), già vecchie prima ancora di essere scritte.
I giornali hanno dimostrato di essere come i filosofi dell' Uomo senza qualità (romanzo di Robert Musil), diventano aggressivi e si impadroniscono del mondo chiudendolo in un sistema. Ma, a differenza dei filosofi, loro hanno anche a disposizione gli eserciti: imprenditori o nuovi partiti emergenti. Per questo la varietà di risposte e la varietà delle motivazioni colpiscono: perché sono molto al di sopra di chi sostiene di saperli "interpretare". Un esempio per tutti: il più citato e ripreso cartellone della manifestazione (insieme a quello che richiedeva, provocatoriamente, il ritorno di Berlusconi) è stato quello con la scritta: " Questo è un governo di merda, ma è il nostro governo ". Si tratta di un'alta espressione di "patriottismo", come gli americanisti sanno bene, perché traduce in modo colorito e un po' liberamente l'espressione " My country, right or wrong ", ovvero questo è il mio paese, giusto o sbagliato che sia (e io gli sto accanto, lo difendo). E' incazzata quella donna che ha portato quel cartello? Sicuramente sì. Una manifestazione di incazzati? Certo, ma questo non ha impedito - come qualcuno ha anche ammesso - che fosse anche una manifestazione "grande, bella, forte politicamente". Non c'è contraddizione, dunque, si può essere più articolati di un semplice "pro o contro". Che poi è l'assunto sul quale, oggi si muove tutto il pensiero unico e semplificato dell'economia (e della politica che la rincorre): il pensiero digitale, fulmineo, dalle decisioni veloci, per la semplificazione delle regole, dei mandati, della democrazia, meno lacci e lacciuoli per tutti, soprattutto per chi decide, mani libere, bianco o nero, si o no. E' già tanto che siano riusciti a mettere insieme sette candidati per il partito democratico.
A proposito di partiti, ecco la seconda considerazione. Un ragazzo, sempre dallo schermo (internet questa volta) intervistato da Repubblica-tv dice a proposito dell'assenza di Sinistra democratica: «Quello che conta è la militanza. Non è il partito che fa la militanza, ma è la militanza che fa il partito». Affermazione che richiederebbe un po' di attenzione e anche qualche riflessione più approfondita. Soprattutto per chi, come la Sinistra, in questo momento si trova davanti a un ventaglio di possibilità, a un cambio forse epocale della propria consistenza e certamente davanti a una prova di coraggio, di fantasia, di "alterità". Bisognerebbe sviluppare questo concetto di militanza, andare incontro alla "riflessione" che ci ha posto questa piazza d'ottobre. Troveremmo, probabilmente, un'idea interessante di militanza, assai diversa da quella cui siamo stati abituati dalla nostra storica sinistra, radicata in sezioni, vissuta con impegno (ma anche allegria) da milioni di persone capaci e appassionate dal dopoguerra fino ad oggi. Una militanza che forse non chiede più statuti, ma partecipazione, che non pensa alle primarie e che vorrebbe sostenere programmi ed idee per il futuro. Che unisca la passione dei "vecchi" con quella dei nuovi militanti. Perché senza gli uni e gli altri non sarebbe stato possibile il successo del 20 ottobre.

Liberazione 23.30.07
Il milione in piazza chiama
Sinistra al lavoro sull'unità
di Angela Mauro


Domani, vertice dei leader di Prc, Sd, Verdi e Pdci per stabilire le altre tappe del percorso
Rifondazione rilancia su stati generali entro dicembre e simbolo unico alle prossime elezioni


Oltre al milione di persone, presenti mente e corpo in piazza, l'altro dato certo prodotto dal 20 ottobre è che il successo della manifestazione è servito a scoprire un po' di altarini del processo unitario a sinistra. Se da un lato, Rifondazione Comunista, al termine della consueta riunione di segreteria del lunedì, avanza determinata sulla «accelerazione del processo unitario», dall'altro il Pdci rimarca sui propri simboli identitari, i Verdi nicchiano in attesa dell'incontro tra i leader, Sd si esprime con una pluralità di voci non tutte sgombre di nodi. Sia chiaro: nessuno dei quattro partiti interessati si dichiara contrario alla prosecuzione del processo avviato in primavera. Ma è difficile non notare la diversità degli accenti, sopratttutto tra chi in piazza c'era (anche dirigenti e militanti di Sd) e chi invece non ha aderito.
Il Prc rilancia con la convocazione degli stati generali entro dicembre. Il modello, come ripete ormai da tempo colui che l'ha proposto, Franco Giordano, dovrà essere quello dei social forum, esperienza altamente significativa e formativa per la sinistra degli anni scorsi che permette una partecipazione di massa e non legata ai soli militanti e iscritti di partito. Insomma, un modo, il più convincente - viene ribadito - per coinvolgere la piazza di sabato scorso, caratterizzata, si legge nella nota della segreteria del Prc, da uno «spirito unitario» che chiama la sinistra a costruire una «soggettività unitaria e plurale».
Non sfugge la cornice in cui tutto questo dovrà avvenire: il confronto in corso su welfare e Finanziaria in un governo sempre più a rischio crisi. Ma lo scenario non cambia i termini della questione, semmai li rafforza. Per il capogruppo al Senato, Giovanni Russo Spena, l'importante è non imitare le «alchimie politiche e verticistiche che hanno segnato la nascita del Pd», ma puntare alla costruzione di un «soggetto politico dal basso». L'idea è di segnare le prossime elezioni con un «simbolo unico» della sinistra, rilancia Gennaro Migliore, capogruppo del Prc alla Camera. Quale simbolo? «Discutiamone, ma da subito, in modo da essere pronti alle prossime amministrative», osserva Michele De Palma, responsabile Enti Locali della segreteria del Prc. Dato per scontato che nessuna delle dirigenze dei quattro partiti interessati ha intenzione di sciogliersi in un nuovo soggetto, è ovvio che ogni forza conserverà il proprio simbolo, ma è anche ovvio che il contrassegno elettorale della sinistra unita dovrà porsi il problema di rappresentare tutti, anche chi la immagina più "Arcobaleno", come ribadiscono da sempre i Verdi. «Il simbolo deve essere anche uno strumento per superare la tradizionale simbologia della sinistra se si vuole intercettare la voglia di unità e di rinnovamento», spiega Angelo Bonelli del "Sole che ride", rimarcando la scelta della «federazione in cui tutti possano mantenere la propria identità». In questo senso appaiono un po' forzati gli affondi di Oliviero Diliberto sulla necessità di conservare i «simboli del lavoro» ("falce e martello") pure per la confederazione della sinistra. E poi no al tesseramento della nuova forza: «Ogni partito porterà i suoi tesserati, più chi ci vorrà stare», è perentorio il segretario del Pdci. E all'interno di Rifondazione non manca chi, all'indomani del 20 ottobre, fa notare il «politicismo» di certe discussioni su liste uniche e costruzione di un unico partito. «L'indicazione che arriva dalla piazza - dice Claudio Grassi di Essere Comunisti - è di essere più decisi per cambiare la politica economica e sociale del governo. E' di questo che dobbiamo preoccuparci».
Sinistra Democratica sfoggia il ventaglio più variegato di posizioni interne rispetto al processo unitario. C'è chi ha respirato la piazza, perchè ha scelto di esserci aderendo alla mobilitazione a livello individuale: sono i meno timorosi. Carlo Leoni in piazza non c'era, ma non ha dubbi: «Per la sinistra è il momento delle scelte. La federazione tra forze politiche distinte può essere il punto di partenza, non certo quello di arrivo». Per il vicepresidente della Camera, bisogna lavorare ad un «obiettivo più ambizioso: un soggetto politico nuovo e unito, che superi la frammentazione esistente». D'accordo sul «simbolo unico alle prossime amministrative». Viene lasciato a Titti Di Salvo, capogruppo di Sd a Montecitorio, il compito di porre il problema del rapporto con il «sindacato confederale», dopo i termini burrascosi del confronto tra Cgil, Cisl e Uil, da un lato, e Prc e Pdci, dall'altro, a proposito del protocollo sul welfare (che la piazza di sabato ha chiesto a gran voce di cambiare). «Dobbiamo capire quale deve essere il rapporto tra sinistra politica e sindacato confederale», spiega Di Salvo, rilanciando su un altro nodo: «L'unità della sinistra deve passare per il profondo rinnovamento della sinistra stessa: uscire dalle trincee delle proprie singole identità». Il rischio, si ragiona negli ambienti di Sd più convinti dell'asse con Rifondazione, è che si cerchi di «fare il più uno per frenare il processo». In quanto (questo lo riconoscono un po' tutti), partire dall'abbandono hic et nunc delle proprie identità è il modo migliore per arrivare ad un nulla di fatto.
Farà chiarezza il vertice dei segretari, che dovrebbe tenersi domani. Tra le ipotesi anche quella di lanciare una consultazione di popolo (forse già a gennaio) su come costruire l'unità e sull'identità della nuova sinistra.