Bertinotti pensa al governo istituzionale
Nervosismo a Palazzo Chigi: se cade Prodi si va al voto. Esecutivo stretto dai ricatti
di Marcella Ciarnelli
USA UN DETTO popolare il presidente della Camera per commentare il voto appena avvenuto a Palazzo Madama sul decreto collegato alla Finanziaria, un altro ostacolo superato d’un soffio dal governo. «Si potrebbe dire che il malato ha preso un brodo» dice
Fausto Bertinotti al Tg1. «Certo un po’malaticcio questo governo è, ma ci sono persone malate, con il volto emaciato e con un po’ di febbre, che stanno sempre un po’ male ma che durano a lungo». Il brodo però potrebbe non bastare. Bertinotti, all’evenienza, non mostra dubbi: «Se il governo dovesse cadere la parola tocca al presidente della Repubblica». Ma, pur nel rispetto delle prerogative del capo dello Stato, lui dice come la pensa. Ed allora, poichè «la legge elettorale è molto cattiva immagino che si tenterebbe l’esperienza di un governo tecnico che faccia la riforma elettorale e quel tanto di riforma costituzionale necessarie per sbloccare il sistema». Tutto questo potrebbe avvenire solo nel caso venga verificata l’esistenza di una maggioranza parlamentare. A Palazzo Chigi l’analisi non è stata gradita. È stata accolta con un silenzio pesante dal premier che poi ha ribadito ai suoi che lui «è stato legittimato dalle primarie e poi dal voto» e che, se il governo dovesse cadere, non può esserci «che il voto».
La tensione resta alta. «Mi sembra Asterix che guarda il cielo. Ora cade, ora cade... Non oggi ma domani». La versione a fumetti delle inquietudini del governo Prodi la fornisce in ascensore quel gentiluomo di Valerio Zanone che lascia il Senato dopo un altro giorno sull’orlo del baratro. È evidentemente perplesso il vecchio liberale che si è candidato a Torino con la lista per Veltroni e che, nei giorni scorsi, ha risposto seccato «non se ne parla proprio» al Cavaliere che, in piena campagna acquisti, gli aveva offerto di cambiare casacca.
Si sono appena concluse le due votazioni sulle pregiudiziali. L’aula è incandescente oltre il rosso delle tappezzerie. La maggioranza tira un sospiro di sollievo. Anche questa volta è andata. Per due voti e poi solo per uno. «Il governo regge» sottolinea Anna Finocchiaro. «Arriverà un giorno in cui i senatori a vita non saranno più sufficienti» sbotta Renato Schifani. Giulio Andreotti ha votato a favore perchè «sono contrario al bloccaggio, specie sui temi essenziali ed in scadenza».
Per questa volta i senatori “a rischio” si sono allineati. Nè si sono visti all’opera quelli che Silvio Berlusconi dice di essersi comprati. Che, se continua così, l’ex premier rischia di fare una gran figuraccia e di “bucare” la scadenza dell’escutivo che lui, con grande enfasi, ha fissato alla metà di novembre con grandi festeggiamenti in piazza organizzati per il giorno 17.
Occhi puntati sui dinaniani che peraltro con molta tranquillità vanno ripetendo che se si aumenta solo di un euro la spesa per il protocollo sul welfare o sulla Finanziaria loro non ci stanno. Willer Bordon ribadisce, anche a nome del collega Manzione, al termine delle votazioni, «la maggioranza siamo noi. Se fossero mancati i nostri due voti il governo se ne sarebbe andato a casa». E poi continua a tener ferma l’intenzione di non ritirare l’emendamento sulla riduzione del numero dei parlamentari. «Se non è ammissibile nel decreto fiscale lo presenteremo in Finanziaria. Possiamo discutere quando ma il taglio dovrà esserci in questa legislatura». L’Svp conferma di non avere intenzione di staccare la spina. Domenico Fisichella ha votato a favore. Il dissidente Fernando Rossi nega di essere il colpevole del mancato voto. «È impossibile. Ho spinto assolutamente il rosso». Si sarebbe trattato solo di un errore tecnico. Il senatore Pallaro ieri non c’era. Gli affari lo hanno trattenuto all’estero. Francesco D’Onofrio, occhio attento dell’opposizione, sintetizza: «Il governo cadrà quando uscirà allo scoperto chi ha vinto la partita del dopo».
l’Unità 24.10.07
Luciano Canfora: «La casta? Nell’antica Roma nacque con il maggioritario»
di Roberto Cotroneo
Filologo greco, normalista, autore di molti libri che hanno sempre suscitato accese discussioni. Con una passione per la politica nel senso più puro del termine, Luciano Canfora è uno di quegli uomini che ti stupiscono sempre e ti spiazzano. La sua bibliografia è sterminata, e va da saggi su Marx e Togliatti, a saggi sul fascismo, sulla democrazia, su Tucidide o Giulio Cesare. Rapsodico, meticoloso, ma soprattutto rigoroso, è un osservatore attentissimo della realtà politica italiana. Siamo andati a trovarlo per chiedergli di giudicare e commentare a modo suo quello che sta accadendo in Italia in questi mesi. Dalla politica all’antipolitica, dal partito democratico all’idea di democrazia, dal sistema elettorale a quello che lui chiama il grande imbroglio del bipolarismo.
Luciano Canfora, partiamo da quella che viene chiamata: la casta: Esiste secondo lei?
«Mi sembra un problema astratto da un lato, e dall’altro ozioso».
Perché?
«Perché intanto la casta esiste. Vede, qualche settimana fa ho tenuto una conferenza sul senato romano. Il senato romano era un ordine, quindi di per sé una casta di cooptazione la cui elezione era molto indiretta, perché si era scelti tra i migliori magistrati migliori, e i magistrati a loro volta erano eletti, ma erano eletti con leggi elettorali molto manipolatrici, come tutte quelle che sono diverse dal proporzionale».
I romani hanno inventato il maggioritario?
«Certo, sono stati bravissimi. Dunque, il senato romano era una casta. Era anche di una notevole qualità. I politici di oggi non hanno qualità particolari, ma hanno sommato una serie di privilegi, talvolta sfacciati, che ne fanno una casta a tutti gli effetti. A cominciare dal fatto che sono eterni. E quando un ceto è eterno, vuol dire che è una casta».
Lei si è occupato attivamente di politica?
«Sì, ma ho sempre fatto il portatore d’acqua, quando sono stato candidato in qualche formazione politica. Una volta era il Pdup, una volta era il Partito di Rifondazione Comunista, una volta era i Comunisti italiani. E l’ho fatto con piacere. Ma in fondo anche nelle formazioni piccole c’è un meccanismo castale».
Come mai?
«Il reclutamento del personale politico è generalmente una selezione a rovescio. Chi non sa fare un altro mestiere, si riversa toto corpore in questa funzione, che qualcuno deve pur svolgere. D’altronde nella storia d’Italia sono stati rari i momento in cui personale politico e qualità coincidevano. Solo nel dopoguerra».
E poi?
«Poi il mestiere di politico viene scartato dalle forze intellettualmente migliori. Questo è un grosso problema che riguarda tutti i sistemi rappresentativi, non solo quello italiano».
Lei si è occupato in vari saggi del concetto di democrazia. Sia da filologo che da intellettuale. C’è una crisi dell’idea di democrazia?
«Il martellamento consistente nell’identificare democrazia e parlamentarismo, che in realtà sono due cose che non si identificano, ha danneggiato la democrazia. Ma l’abrogazione del sistema elettorale proporzionale, che è l’unico che dia voce ai cittadini, e la trasformazione degli eletti in privilegiati, ha portato al discredito del sistema rappresentativo travolgendo il concetto di democrazia. Che è un’altra cosa».
Ovvero?
«Democrazia vuol dire potere popolare. I sistemi rappresentativi quando sono veramente tali sono uno strumento democratico, ma non l’unico».
Un dubbio. Dopo le piazze di Grillo si è parlato di antipolitica, dopo le primarie del Partito Democratico, di risposta all’antipolitica, e di grande prova di partecipa-
zione. Lei che ne pensa?
«Temevo questa domanda. Il pensiero del signor Grillo non mi interessa, è un signore qualunque».
E il partito democratico? Con i tre milioni e 500mila votanti?
«L’unificazione dei due pezzi della tradizione cattolica e di quella comunista può portare a un partito nato morto, questo lo penso e mi duole moltissimo. Perché è una fusione di vertici».
Non sembrerebbe visto il risultato delle primarie.
«Radunare 3 milioni e mezzo di persone con un battage mediatico e coinvolgendo anche i ragazzi di sedici anni mi sembra un risultato modesto. Se lei ad esempio lo paragona al milione di persone arrivate a Roma, a manifestare con la sinistra. Un milione di persone che sono arrivate tutte in una sola città».
Vuole dire che lei considera un maggior successo la manifestazione di sabato rispetto alla partecipazione delle primarie?
«Non voglio invertire i rapporti di forza, ma la cosiddetta "sinistra radicale" ha portato in piazza circa un terzo di quelli che sono andati a votare per le primarie. Tenendo conto che per le primarie ognuno votava a casa sua. E non doveva certo spostarsi. E pensare che dicevano che la sinistra era spacciata. Per me questo è stato un risultato straordinario».
Non ha nessuna simpatia per il Pd, mi sembra di capire.
«Un paese come il nostro, che ha avuto grandi culture politiche e grandi personalità, oltre che una tradizione di sinistra rigogliosa e originalissima, ripiega su un modello frigido, generico, che si nasconde dietro una parola logora, partito democratico. Come se dall’altra parte avessimo a che fare con un partito aristocratico».
E invece?
«Dall’altra parte vedi caso c’è un movimento che si chiama della libertà. E allora succede una cosa curiosa. Bobbio, e tanti altri prima e dopo di lui, hanno detto che libertà e democrazia pensati in modo pieno e assoluto diventato antitetiche».
Sicuro?
«Come si legge già nell’epitaffio pericleo di Tucidide, nel V avanti Cristo, l’esplicazione totale e piena della libertà individuale entra in conflitto con il principio di uguaglianza. E il principio di uguaglianza applicato in un modo esasperato, meccanico, totale, lede il principio di libertà. E dunque il grande problema è lì».
Pensa che gli intellettuali abbiano lentamente perso un ruolo, nell’essere la coscienza critica della politica?
«Gli intellettuali non so perché sono sempre gli umanisti, mai che uno pensi che un professore di economia politica sia un intellettuale. Quindi quando gli umanisti sono stanchi si dice che gli intellettuali sono stanchi».
Invece?
«Invece i leader delle grandi banche, gli economisti, gli statistici sono intellettuali quanto i professori di storia. Gente che decide sull’euro, che ha cambiato la vita della gente, in peggio, almeno quanto le ideologie».
Lei mi sembra molto sfiduciato.
«Questo non me lo posso permettere. È inutile. Dobbiamo rimboccarci le maniche facendo ciascuno il suo dovere. Tentando di dire la verità».
E quale la sua verità, Canfora?
«È fatta di due o tre pensierini totalmente impopolari».
Li dica.
«Sono convinto che nonostante tutta la retorica bolsa sul bipolarismo, il bipolarismo è una truffa colossale, oltre che uno strumento per far tacere un sacco di gente che non ha più rappresentanza. Mentre invece un proporzionale purissimo, senza soglie, o cose del genere, impone le convergenze politiche tra culture e istanze diverse. È faticoso. Bisogna trovare trovare compromessi. Il bipolarismo è come le corse dei cavalli, chi arriva prima prende tutto. Ma la politica non è una corsa sportiva».
La seconda cosa impopolare?
«La revocabilità dei mandati. Questa cosa non la vuole nessuno, mai. Perché è una specie di pistola puntata contro il politico che si vuole traformare in casta. La revocabilità ti tiene sotto il controllo dei tuoi elettori».
La prima regola porterebbe a una instabilità politica quasi irrisolvibile.
«Ma questo mi fa ridere. Il boom economico, di cui tutti siamo cantori, decollò con un proporzionale puro e con governi che non duravano più di un anno. Non vedo il problema francamente».
E la seconda obiezione è che la revocabilità del mandato esporrebbe l’eletto al più bieco populismo. Una sorta di ostaggio permanente.
«Se gli elettori sono dei degni soggetti nel momento in cui votano, mi chiedono come cessino di esserlo nel momento in cui dichiarano sfiducia alla persona che hanno eletto».
Un’ultima domanda. Tornerà a occuparsi di politica nel futuro, o continuerà a fare l’intellettuale e a scrivere i suoi libri?
«Ma io continuo a occuparmi di politica sempre. Sono togliattianamente convinto che tutto ciò che noi facciamo è politica. Se ne siamo coscienti...».
roberto@robertocotroneo.it
l’Unità 24.10.07
La Cosa Rossa comincia (timidamente) dai gruppi parlamentari
A Mussi non basta la Federazione proposta da Prc, Pdci e Verdi. A dicembre Stati generali e alle prossime elezioni simbolo unitario
di Simone Collini
COME DAR VITA a “La Sinistra”. E in tempi rapidi. Perché il nuovo soggetto politico «unitario e plurale» dovrà essere presentato al prossimo appuntamento elettorale. Che se tutto va bene sarà un voto di tipo amministrativo. Anche se l’eventualità di altri scenari è comunque tenuta in considerazione.
Ne discuteranno questa mattina Franco Giordano, Oliviero Diliberto, Fabio Mussi e Alfonso Pecoraro Scanio. L’incontro doveva restare riservato, anche perché si tratta di un primo giro d’orizzonte sul processo unitario da realizzare e i problemi sul piatto sono tanti. Ma sull’onda dell’entusiasmo provocato dalla manifestazione di sabato la notizia è trapelata. I leader di Rifondazione comunista, Pdci, Sinistra democratica e Verdi si confronteranno soprattutto sulla forma organizzativa del nuovo soggetto. Perché se sulla necessità di accelerare i tempi sono tutti d’accordo, sull’approdo finale dell’operazione le differenze sono di non poco conto. E allora oggi i quattro si alzeranno dal tavolo concordando sulla necessità di rafforzare il coordinamento tra i gruppi parlamentari e rilanciando tutti insieme la proposta di tenere nel mese di dicembre gli stati generali della sinistra, aperti alle quattro forze politiche che guidano ma anche ad associazioni, movimenti e personalità interessate da dar vita a quella che viene chiamata (scontentando un po’ tutti i protagonisti dell’operazione) “Cosa rossa”. Ma sull’approdo finale le posizioni divergono.
Pdci e Verdi non vanno oltre l’ipotesi di dar vita a una federazione che può anche presentarsi con simbolo unitario alle elezioni ma nella quale continuano a vivere autonomamente le singole forze politiche. Il partito unico è «una strada vecchia superata dalla storia» per la capogruppo dei Verdi-Pdci al Senato Manuela Palermi. E anche Rifondazione comunista punta a quella che il segretario Franco Giordano definisce «una federazione forte tra partiti, singoli e associazioni», in cui può insomma partecipare anche chi non è iscritto a nessun soggetto fondatore.
Sinistra democratica non è contraria a «sperimentazioni e innovazioni», però ritiene che l’obiettivo finale dell’operazione non possa che essere il partito unico. Spiega la capogruppo di Sd alla camera Titti Di Salvo: «C’è un vuoto a sinistra del Partito democratico che va colmato. La risposta alla domanda che è venuta anche dalla manifestazione di sabato non è nei singoli pezzi di sinistra oggi presenti in Italia. Capisco che vista la confusa situazione attuale, con un clima che può essere di tipo preelettorale, chi ha un partito strutturato non voglia rinunciarvi. Ma la federazione non può che essere un passaggio intermedio, non l’approdo definitivo».
Le resistenze al momento appaiono però difficili da superare. Anche perché nel processo entra in gioco inevitabilmente la discussione sui simboli. Diliberto non intende rinunciare alla falce e martello, che garantisce a prescindere un pacchetto di voti, e anche Giordano sa che nel Prc ci sono le minoranze pronte alla scissione e a impossessarsene, nel caso in cui il partito decida di abbandonare il simbolo. La federazione consentirebbe di far mantenere a ognuno il proprio simbolo, ma al tempo stesso di presentarsi di fronte agli elettori con un simbolo unitario e nuovo.
Una soluzione che però per Sd può essere accettabile solo come tappa provvisoria, perché «non risponde all’esigenza di unità e semplificazione», dice Titti Di Salvo giudicando necessario un processo di «scomposizione e ricomposizione». E non è escluso che superato il congresso di primavera, che si preannuncia infuocato con le minoranze trotzkiste pronte a dar battaglia contro il processo unitario, il Prc possa lavorare per soluzioni più avanzate rispetto a quelle prospettate oggi.
Non si dovrebbe invece parlare all’incontro di oggi della proposta di aprire un tesseramento entro dicembre della “Sinistra”. Giordano l’aveva lanciata nei giorni scorsi, ma non è piaciuta a nessuno dei partner dell’operazione. «Ogni partito porterà i suoi tesserati», ha mandato a dire Diliberto. Così come non sembra raccogliere consensi la proposta lanciata ieri da Pietro Folena di dar vita a gruppi parlamentari unitari già entro Natale. «Sarebbe un bel segno, un gesto che farebbe capire che sull’unità a sinistra non si scherza», dice l’indipendente Prc. Ma al momento, dicono in ognuno dei quattro partiti interessati, oltre il coordinamento dei gruppi non si può andare.
l’Unità 24.10.07
Neonato «omosex» contro le discriminazioni
È la campagna di sensibilizzazione della Toscana. Destra all’assalto
di Vladimiro Frulletti
IN CANADA quel volto sfocato di neonato con al polso un braccialetto di riconoscimento in cui non c’è scritto Mario o Anna, ma «homosexual», era servito, la scorsa primavera, per la giornata mondiale contro l’omofobia. L’immagine l’aveva scelta la fondazione Emergence e aveva avuto il sostegno del governo del Quebec, della città di Montreal e dell’agenzia di salute canadese. La Regione Toscana, con l’assessore Agostino Fragai e il suo collaboratore Alessio De Giorgi (già presidente dell’Arcigay toscana, e che nel 2002 si unì in un Pacs all’ambasciata francese assieme al suo compagno italo-francese), ha deciso di utilizzarla per promuovere un convegno della Ready (la rete degli enti locali contro le discriminazioni) che si svolgerà venerdì e sabato a Firenze nell’ambito del festival della creatività e per una campagna (manifesti, opuscoli, pubblicità su giornali, radio e tv) contro ogni forma di discriminazione sessuale assieme al ministero delle pari opportunità (la ministra Barbara Pollastrini chiuderà la due giorni sabato pomeriggio). E infatti proprio a fianco del minuscolo polso del neonato c’è scritto che “ l’orientamento sessuale non è una scelta”. Troppo per il capogruppo dell’Udc alla Camera Luca Volonté che dando prova di un estremismo verbale poco centrista ha definito il manifesto «raccapricciante». Sollecitando così non solo il leghista Polledri che paragona la Toscana al regime fascista che faceva mettere il fez ai bambini, ma anche dell’immancabile forzista Isabella Bertolini che addirittura vede in Toscana la volontà di «affermare un modello alternativo di società, nel quale domina l’indeterminatezza sessuale».
«Nel nostro Statuto - ricorda Fragai - sono enunciati principi antidiscriminatori. Li stiamo mettendo in pratica, come nel caso della legge contro le discriminazioni sessuali». E sia il deputato Fausto Grillini che il presidente dell’Arcigay Aurelio Mancuso chiedono al resto d’Italia di prendere esempio dalla Toscana.
l’Unità 24.10.07
Ottobre, 90 anni e li dimostra tutti
di Bruno Gravagnuolo
Nostalghija Più che «canaglia», nostalgia «anticaglia», quella che Dilberto e il Pdci mostrano per l’anniversario del 7 novembre 1917, con viaggio e convivio a Mosca e Leningrado e discorso comune con Zyuganov, «accanto» e non proprio sulla Piazza rossa. Infatti non è vero come suona lo slogan Pdci che «la Rivoluzione d’Ottobre ha 90 anni e non li dimostra». Li dimostra tutti eccome! Intanto perché se quel mondo s’è sbriciolato così, qualche problemino doveva pur esserci sin dall’inizio. E poi perché sin dall’inizio quel modello militare e totalitario di Rivoluzione ha comportato costi immensi. Con la follia del comunismo di guerra e la guera civile (non solo colpa dei «bianchi»). La subordinazione integrale del movimento operaio alla Chiesa moscovita. I contraccolpi fascisti al settarismo cominternista. Il partito giacobino base del partito staliniano. La collettivizzazione e i crimini di massa. Certo l’Ottobre fu anche liberazione, spinta propulsiva anticoloniale. Peraltro reso «inevitabile» dall’impotenza e dall’insipienza borghese, menscevica e quant’altro. E anche dalla carneficina imperialista europea. E tuttavia, oggi, come si può ancora farne un pilastro ideologico, un «modello» positivo, benché poi Diliberto protesterà che lui non ha modelli di sorta? Suvvia compagni del Pdci, un po’ di revisione, farebbe bene al vostro «comunismo». Almeno un po’! Sennò finite in formalina... e senza gli onori alla mummia di Lenin.
Disinformatia Ma c’è anche un revisionismo cattivo. Fatuo e disinformato. Come quello di cui dà prova Piero Craveri sul Il Sole24Ore. Che nel recensire trionfalisticamente l’ultimo pamphlettone di Pansa si compiace di arcinote e trite banalità. Tipo, il Pci coltivava scenari di rivoluzione violenta: «c’è oggi una documentazione inconfutabile»(sic). Oppure: Secchia bloccò tutti i tentativi di bloccare gli illegalismi nel «triangolo rosso». O ancora: l’antifascismo ha ormai perso la battaglia egemonica e storiografica. Pure frottole, specie l’ultima. Non solo infatti non è passato il tentativo di spezzare il nesso antifascismo-Costituzione. Ma c’è tutta una nuova storiografia antifascista che tiene il campo a meraviglia. E finché gli assalti sono quelli di Pansa e Craveri...
l’Unità 24.10.07
Templari: la Chiesa ora dice «Il Papa non li condannò»
di Roberto Monteforte
I MONACI-GUERRIERI sono stati sterminati per ragioni politiche e non perché eretici o blasfemi. È questa la verità che affiora, dopo oltre 700 anni, dagli atti del processo e, in particolare, da un documento inedito: il «manoscritto di Chinon»
I Templari, i monaci-guerrieri, gli asceti con la spada che fondati dal nobile francese Hugues de Payns agli inizi dell’anno 1100 hanno difeso i luoghi di Terrasanta, proteggendo armi in pugno i pellegrini cristiani dai guerrieri della mezza luna, sono stati vittime di un processo farsa.
La confraternita dei «Poveri cavalieri di Cristo», votati a Dio e al martirio, nati con la prima Crociata a difesa del regno di Gerusalemme e sempre in prima linea con il loro stendardo bianconero, il mantello bianco e la croce rossa sulla spalla sinistra, che devono il loro nome per avere avuto a Gerusalemme nei pressi della spianata del Tempio di Salomone, la loro sede, sono stati sterminati per ragioni politiche. O meglio, economiche e non perché eretici o blasfemi. E soprattutto senza l’avallo del pontefice di allora, Papa Clemente V.
Il pontefice francese che viveva con la sua corte ad Avignone, non li considerò affatto eretici. Cercò sino alla fine di salvarli dalle mani dell’Inquisizione francese. Perché è stato il sovrano di Francia, Filippo IV il Bello che mirava ad impossessarsi delle loro ricchezze, a volerne lo scioglimento, la messa al bando, ad ordinarne la persecuzione senza prove. Anche contro il Papa che, se ne ordinò lo scioglimento d’autorità, lo fece per evitare che arrivasse la «condanna» ufficiale del sovrano. Così i Templari, che riconoscevano soltanto l’autorità del Papa e di nessuna altra autorità ecclesiastica, si trovaroro senza protezione. Il pontefice, però, non li assolve pubblicamente. Non può compromettere i rapporti tra la Santa Sede e la Francia. Prevale la ragion di Stato.
È questa la verità emersa dalla pubblicazione dei documenti conservati nell’Archivio segreto del Vaticano, quegli atti «Processus contra templarus», e in particolare il «manoscritto di Chinon», inedito, scoperto nel settembre 2001 dalla studiosa dell’Archivio vaticano, Barbara Frale: una pergamena che ripropone l’assoluzione concessa per autorità del Papa a Jacques de Molay, il Gran Maestro dell’Ordine e ai maggiori dignitari del Tempio fatti rinchiudere dal re di Francia nelle prigioni del castello di Chinon. In quella prigione si recarono alcuni messi di Clemente V per interrogare i Templari. Era il 20 agosto 1308. L’accusa di eresia venne derubricata a quella di apostasia. Un’assoluzione che non salvò loro la vita. Filippo il Bello dopo poco li condannerà al rogo.
Sono documenti preziosi che verrano presentati domani presso l’Aula vecchia del Sinodo dal cardinale Raffaele Farina, archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa, dal prefetto dell’Archivio segreto, monsignor Sergio Pagano, e dalla ricercatrice Barbara Frale, il suo collega Marco Maiorino, dal medievalista Franco Cardini, l’archeologo Valerio Massimo Manfredi e Ferdinando Santoro, presidente di Scrinium che pubblica l’opera.
Così dopo sette secoli dalla loro persecuzione vengono alla luce gli atti della causa che portò allo scioglimento dei Templari, l’ordine cavalleresco la cui regola era stata dettata da san Bernardo di Chiaravalle, fondatore dei cistercensi, dei «frati votati a uccidere», dei valorosi guerrieri di élite che obbedivano solo al Papa dopo aver fatto voto di povertà, castità e obbedienza. L’ordine che sino al 1312 è stato il più forte, temuto e ricco della cristianità per la tante donazioni, proprio per questo venne fatto oggetto di menzogne, intrighi e stragi. Subì un processo farsa. Le accuse di essere stati cultori di esoteriche pratiche iniziatiche, di «essere sedotti dall’Islam» o di subire «l’eresia catara» sarebbero stati pretesti. Non furono colpiti per questo.
Furono oggetto di invidie, appetiti e gelosie. La svalutazione pesava sul regno di Francia che era vicino alla bancarotta per le spese sostenute nella guerra con l’Inghilterra. Vi furono sommosse popolari a Parigi. Il re Filippo IV trovò rifugio presso la fortezza dell’Ordine al Marais. Ebbe così modo di vedere le loro grandi ricchezze. Partì l’offensiva verso i Templari del sovrano. Con l’obiettivo di appropriarsi di quel tesoro e al tempo stesso limitare il potere della Chiesa, degli ordini religiosi e del papato già iniziata con la sua guerra a Bonifacio VIII. Il re riuscì a far eleggere al soglio di Pietro il francese Clemente V che trasferì la sua corte ad Avignone. Il sovrano avrebbe voluto dominare il pontefice, ma sui Templari l’azione non riuscì. Benchè iniziò veemente la campagna diffamatoria contro di loro orchestrata dagli inquisori fedeli al re. Le accuse erano quella di eresia, di vergognosa condotta morale, di promiscuità, sodomia e corruzione.
Si è molto fantasticato su questo ordine. Storie di intrighi e misteri. I Templari sono stati dipinti come i detentori del «Santo Graal», come gli adoratori del Baphomet (immagine dell’androgino con testa di caprone sormontato da un pentacolo, la stella a cinque punte), come dententori di segreti esoterici, come una setta iniziatica direttamente collegata alla moderna massoneria.
Tutte leggende ottocentesche secondo autorevoli esperti come il professor Cardini. Quello che è certo è che i Templari non obbedivano a nessuna altra autorità ecclesiastica. Che i giovani aristocratici di tutta l’Europa cristiana aspiravano a farvi parte. Che furono una vera potenza. Che avevano l’ambizione di raggruppare gli altri ordini cavallereschi per organizzare una nuova Crociata.
Cinque anni dal 1308 al 1313 durò il processo che subirono sotto l’Inquisizione francese. Il Gran Maestro, Jacques de Molay che era in Palestina a organizzare la Crociata tornò in Francia per difendersi da tali accuse. Fu arrestato come altre centinaia di Templari. Tutti vennero imprigionati, interrogati e sottoposti a tortura affinchè confessassero le loro colpe. Il Papa si rifiutò di avvallare quelle confessioni estorte e di ratificare quel verdetto. Era l’anno 1313. Prima, questa la sua condizione, avrebbe dovuto lui stesso interrogare il Grande maestro. La cosa avvenne attraverso tre suoi delegati. Si arrivò al proscioglimento dei Templari.
È questa la grande novità emersa dal lavoro di ricerca della storica Barbara Frale effettuata sugli Archivi segreti custoditi in Vaticano. Sono state ritrovate le pergamene che riproducono i verbali degli interrogatori e la loro trascrizione per sommi capi che alla fine condussero al loro proscioglimento dall’accusa di eresia, ma non da quella di sconveniente condotta morale. L’accusa più grave riguardava il rito iniziatico per i giovani postulanti. Dovevano «rinnegare Cristo» e oltraggiare la Croce sputandoci sopra dietro l’altare. Ma vi sarebbe anche una spiegazione per questi rituali: il neofita veniva sottoposto alle possibili angherie che avrebbe subito se fosse finito prigioniero degli infedeli. Alla fine arrivò il perdono del Papa per le «pratiche immorali», ma non certo quello di Filippo il Bello che mirava a mantenere le loro ricchezze. Con l’inganno fece arrestare il Gran Maestro e gli altri dignitari dell’Ordine che condotti sull’isoletta della Senna furono condannati e bruciati sul rogo. Ragioni politiche, la minaccia di uno scisma della chiesa di Francia portarono Clemente V a tacere e a sciogliere l’Ordine. A negare loro protezione. Ma oggi le carte venute alla luce ridanno onore ai cavalieri del Tempio di Salomone.
Repubblica 24.10.07
Religione, il dogma in aula un'ora che vale un miliardo
di Curzio Maltese
L´insegnamento in classe è la seconda voce di finanziamento dello Stato
Sono infinite le diatribe legali intorno al "regalo" del posto fisso ai docenti
La Spagna studia la revisione degli accordi con la Chiesa, in Italia non se ne parla
L´ultimo dato ufficiale (2001) parla di 650 milioni di stipendi agli insegnanti ma nel frattempo sono diventati più di 25000, dei quali 14mila di ruolo
L´ultima ondata di bullismo nelle scuole ha convinto il governo a istituire dal prossimo anno due ore di educazione civica obbligatoria, chiamata Cittadinanza e Diritti Umani, in ogni ordine d´insegnamento, dalle materne ai licei. Durissima la protesta dei vescovi, che hanno parlato di «catechismo socialista» e invitato le associazioni di insegnanti e genitori cattolici a scendere in piazza e avvalersi dell´obiezione di coscienza.
Il presidente del consiglio ha risposto in televisione che, nel rispetto totale della maggioranza cattolica del paese, la laicità dello Stato resta un valore fondante della democrazia e l´educazione civica non è né può essere in competizione con l´ora facoltativa di religioni (cattolica come ebraica, islamica o luterana) già prevista nei programmi. Il premier ha aggiunto di voler confermare i tagli ai finanziamenti delle scuole private cattoliche e non, definiti «un ritorno alla legalità costituzionale» rispetto alla politica del precedente governo di destra.
A questo punto forse il lettore si sarà domandato: ma dov´ero quando è successo tutto questo? In Italia. Mentre la vicenda naturalmente si è svolta altrove, nella Spagna del governo Zapatero, otto mesi fa. Il braccio di ferro fra stato laico e vescovi è andato avanti e oggi il governo spagnolo studia addirittura una revisione del Concordato del 1979. Una realtà lontana da noi. Nelle scuole italiane, più devastate dal bullismo di quelle spagnole, l´ora di educazione civica è abolita nelle primarie e quasi inesistente nelle superiori. Lo Stato in compenso si preoccupa di tutelare il più possibile l´ora di religione, al singolare: cattolica. Quanto ai finanziamenti alle scuole private cattoliche, in teoria vietati dall´articolo 33 della Costituzione («Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato»), l´attuale governo di centrosinistra, con il ministro Fioroni all´Istruzione, è impegnato al momento a battere i record di generosità stabiliti ai tempi di Berlusconi e Letizia Moratti.
L´ora facoltativa di religione costa ai contribuenti italiani circa un miliardo di euro all´anno. E´ la seconda voce di finanziamento diretto dello Stato alla confessione cattolica, di pochi milioni inferiore all´otto per mille. Ma rischia di diventare in breve la prima. L´ultimo dato ufficiale del ministero parla di 650 milioni di spesa per gli stipendi agli insegnanti di religione, ma risale al 2001 quando erano 22 mila e tutti precari. Ora sono diventati 25.679, dei quali 14.670 passati di ruolo, grazie a una rapida e un po´ farsesca serie di concorsi di massa inaugurati dal governo Berlusconi nel 2004 e proseguita dall´attuale.
Il regalo del posto fisso agli insegnanti di religione è al centro d´infinite diatribe legali. Per almeno due ordini di ragioni. La prima obiezione è di principio. L´ora di religione è un insegnamento facoltativo e come tale non dovrebbe prevedere docenti di ruolo. Per giunta, gli insegnanti di religione sono scelti dai vescovi e non dallo Stato. Ma se la diocesi ritira l´idoneità, come può accadere per mille motivi (per esempio, una separazione), lo Stato deve comunque accollarsi l´ex insegnante di religione fino alla pensione.
L´altra fonte di polemiche è la disparità di trattamento economico fra insegnanti «normali» e di religione. A parità di prestazioni, gli insegnanti di religione guadagnano infatti più dei colleghi delle materie obbligatorie. Erano già i precari della scuola più pagati d´Italia. Nel 1996 e nel 2000, con due circolari, i governi ulivisti avevano infatti deciso di applicare soltanto agli insegnanti di religione gli scatti biennali di stipendio (2,5 per cento) e di anzianità previsti per tutti i precari della scuola da due leggi, una del 1961 e l´altra del 1980. Il vantaggio è stato confermato e anzi consolidato con il passaggio di ruolo, a differenza ancora una volta di tutti gli altri colleghi. L´inspiegabile privilegio ha spinto prima decine di precari e ora centinaia di insegnanti di ruolo di altre materie a promuovere cause legali di risarcimento. Nel caso, per nulla remoto, in cui le richieste fossero accolte dai tribunali del lavoro, lo Stato dovrebbe sborsare una cifra valutabile fra i due miliardi e mezzo e i tre miliardi di euro.
A parte le questioni economiche e legali, chiunque ricordi che cos´era l´ora di religione ai suoi tempi e oggi chiunque trascorra una mattinata nella scuola dei figli non può evitare di porsi una domanda. Vale la pena di spendere un miliardo di euro all´anno, in tempi di tagli feroci all´istruzione, per mantenere questa ora di religione? Uno strano ibrido di animazione sociale e vaghi concetti etici destinati a rimanere nella testa degli studenti forse lo spazio d´un mattino. Pochi cenni sulla Bibbia, quasi mai letta, brevi e reticenti riassunti di storia della religione.
In Europa il tema dell´insegnamento religioso nelle scuole pubbliche è al centro di un vivace e colto dibattito, ben al di sopra delle vecchie risse fra clericali e anticlericali. Nello stato più laico del mondo, la Francia, il regista Regis Debray, amico del Che Guevara e consigliere di Mitterrand, a suo tempo ha rotto il monolitico fronte laicista sostenendo l´utilità d´inserire nei programmi scolastici lo studio della storia delle religioni. In Gran Bretagna la teoria del celebre biologo Roger Dawkins ( «L´illusione di Dio»), ripresa dallo scienziato Nicholas Humprey, secondo il quale «l´insegnamento scolastico di fatti non oggettivi e non provabili, come per esempio che Dio ha creato il mondo in sei giorni, rappresenta una violazione dei diritti dell´infanzia, un vero abuso», ha suscitato un ricco dibattito pedagogico. Ma è un fatto, sostiene Dawkins, che «noi non esitiamo a definire un bambino cristiano o musulmano, quando è troppo piccolo per comprendere questi argomenti, mentre non diremmo mai di un bambino che è marxista o keynesiano, Con la religione si fa un´eccezione». In Germania, Spagna, perfino nella cattolicissima Polonia di Karol Woytjla, il dibattito non si è limitato alle pagine dei giornali ma ha prodotto cambiamenti nelle leggi e nei programmi scolastici, come l´inserimento di altre religioni (Islam e ebraismo, per esempio) fra le scelte possibili o la trasformazione dell´ora di religione in storia delle religioni comparate, tendenze ormai generali nei sistemi continentali.
In Italia ogni timido tentativo di discussione è stroncato sul nascere da una ferrea censura. L´ora di religione cattolica è un dogma. La sola ipotesi di affiancare all´ora di cattolicesimo altre religioni, come avviene in tutta Europa con le sole eccezioni di Irlanda e dell´ortodossa Cipro, procura un immediata patente di estremismo, anticlericalismo viscerale, lobbismo ebraico o addirittura simpatie per Al Quaeda. Quanto ad abolirla, come in Francia, è un´ipotesi che non sfiora neppure le menti laiche. Gli unici ad avere il coraggio di proporlo sono stati, come spesso accade, alcuni intellettuali cattolici. Lo scrittore Vittorio Messori, per esempio: «Fosse per me cancellerei un vecchio relitto concordatario come l´attuale ora di religione. In una prospettiva cattolica la formazione religiosa può essere solo una catechesi e nelle scuole statali, che sono pagate da tutti, non si può e non si deve insegnare il catechismo. Lo facciano le parrocchie a spese dei fedeli… Perciò ritiriamo i professori di religione dalle scuole pubbliche e assumiamoli nelle parrocchie tassandoci noi credenti». Messori non manca di liquidare anche gli aiuti di Stato alle scuole cattoliche, negati per mezzo secolo dalla Democrazia Cristiana, inaugurati con la legge 62 del 10 marzo 2000 dal governo D´Alema con Berlinguer all´Istruzione, dilagati nel periodo Berlusconi-Moratti (con il trucco dei «bonus» agli studenti per aggirare la Costituzione) e mantenuti dall´attuale ministro Fioroni, con giuramento solenne davanti alla platea ciellina del meeting di Rimini. «Lo Stato si limiti a riconoscere che ogni scuola non statale in più consente risparmio di danaro pubblico e di conseguenza conceda sgravi fiscali. Niente di più».
Il cardinale Carlo Maria Martini, da arcivescovo di Milano, aveva dichiarato che l´ora di religione delle scuole italiane doveva ritenersi inutile o anche «offensiva», raccomandando di raddoppiarla e farne una materia seria di studio oppure lasciar perdere.
La Cei ha sempre risposto che l´ora di religione è un successo, raccoglie il 92 per cento di adesioni, a riprova delle profonde radici del cattolicesimo in Italia. Ma se la Cei ha tanta fiducia nei fedeli non si capisce perché chieda (e ottenga dallo Stato) che l´ora di religione sia sempre inserita a metà mattinata e mai all´inizio o alla fine delle lezioni, come sarebbe ovvio per un insegnamento facoltativo. Perché chieda (e sempre ottenga) il non svolgimento nei fatti dell´ora alternativa. In molte materne ed elementari romane ai genitori è stato comunicato che i bambini di 5 o 6 anni non iscritti all´ora di religione «potevano rimanere nei corridoi». Prospettiva terrorizzante per qualsiasi madre o padre. D´altra parte la sicurezza ostentata dai vescovi si scontra con l´allarme lanciato nella relazione della Cei dell´aprile scorso sul progressivo abbandono dell´ora di religione, con un tasso di rinuncia che parte dal 5,4 delle elementari e arriva al 15,4 per cento delle superiori (con punte del 50 non solo nelle regioni «rosse» come la Toscana o l´Emilia-Romagna ma anche in Lombardia e nelle grandi città), man mano che gli studenti crescono e possono decidere da soli.
Alla fine nessun argomento ufficiale cancella il dubbio. L´ora di religione, così com´è, costituisce davvero un insegnamento del catechismo («che in ogni caso ciascuno si può portare a casa con poche lire» ricordava don Milani) o non piuttosto un altro miliardo di obolo di Stato a san Pietro?
(Hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)
Repubblica 24.10.07
La bocciatura del giurista: "Il Concordato è incostituzionale"
Il governo socialista di Josè Luis Zapatero, dopo aver eliminato molti privilegi fiscali alla Chiesa e i finanziamenti alle scuole cattoliche, studia una revisione del concordato del 1979, nell´ipotesi che si tratti di un accordo incostituzionale. E in Italia? «Sarebbe l´ora di discutere anche da noi l´incostituzionalità del concordato». E´ l´opinione di uno dei massimi esperti di diritto ecclesiastico, il professor Sergio Lariccia.
La costituzione italiana, a differenza della francese, non cita espressamente la laicità come valore supremo.
«E´ vero. Ciò non toglie che la laicità dello Stato sia un requisito fondamentale della democrazia, come ha stabilito una sentenza della Consulta nel 1989. Un ordinamento o è laico o non è democratico. Io non penso sia attuabile in Italia un regime separatista come in Francia, ma pretendo che si rispetti la libertà religiosa, pilastro della democrazia».
In Italia non c´è libertà religiosa?
«No. Non è garantito il principio di laicità delle istituzioni. Non è garantita l´eguale libertà delle confessioni davanti alla legge perché la cattolica è più eguale delle altre. Uno stato di privilegio che viola non soltanto la nostra Costituzione ma perfino il Concilio Vaticano II e la costituzione conciliare Gaudium et Spes. Con la revisione dell´84 che ha accolto in gran parte il Concordato fascista del ‘29 non sono garantite le libertà di religione e verso la religione di moltissimi italiani, credenti e non…».
Tutto deriva dal Concordato?
«Noi continuamo a parlare di rapporto fra stato e chiesa e non "chiese", ora di religione e non "di religioni". Siamo l´ultimo stato confessionale fra le democrazie».
(c.m.)
il manifesto 24.10.07
Mussi: «Sul 20 ottobre ho sbagliato»
Fabio Mussi: dalla manifestazione una richiesta di unità che mette in mora noi dirigenti. Iniziamo subito con gruppi parlamentari unici, poi modello social forum. La leadership verrà dopo
intervista di Matteo Bartocci e Gabriele Polo
«Può succedere di tutto. Chi riesce a far cadere ora il governo farebbe strike». Fabio Mussi, coordinatore di Sinistra democratica, è appena tornato da Bolzano e quando lo incontriamo lo attende un difficilissimo consiglio dei ministri. E' ben concreta la possibilità che lo scontro tra Mastella e Di Pietro sul «caso De Magistris» porti alla crisi. «Stiamo come d'autunno sugli alberi le foglie», cita Ungaretti.
Chi può avere interesse a far cadere ora il governo?
Le ragioni possono essere le più diverse. Nel merito, c'è la finanziaria e il protocollo sul welfare. C'è un quadro internazionale dove si sta riacutizzando la crisi in Iran e Medio Oriente e dove l'Italia è in prima linea. E infine c'è un centrosinistra in cui non sono riusciti a consolidarsi né il Pd né la sinistra.
Per fortuna, forse, c'è stata la manifestazione di sabato.
Devo essere onesto. Alla vigilia ho espresso timori che poi la manifestazione ha del tutto fugato. Temevo che il corteo potesse «sfuggire di mano», con un'aggressività verso il governo e verso la Cgil che poteva mettere in difficoltà la sinistra invece di aiutarla. Non ho mai dubitato delle intenzioni dei promotori, del resto tra noi c'è stato un vero dialogo, ma i miei timori si sono rivelati infondati. La manifestazione è stata bella, ampia e soprattutto politicamente forte. Mi hanno impressionato soprattutto le parole prese al volo tra i manifestanti. C'era davvero un'intelligenza politica di massa, senza nessuna dichiarazione stonata. Di fatto quel corteo ha detto tre cose: che la precarietà è la questione delle questioni, che il governo - ammesso che duri - deve ripartire dal suo programma, che c'è una forte domanda politica di unità a sinistra. Su questo, soprattutto, c'è stato «un di più», un'eccedenza, sia rispetto ai partiti che ai promotori.
Non è proprio su questo «di più» che siamo tutti inadeguati?
Assolutamente sì. Bisogna tornare alla realtà. Si dice riformismo ma poi si fa il contrario. Si rappresenta la flessibilità come una grande opportunità sapendo che significa esattamente il contrario. Nel linguaggio e nelle ideologie che corrono c'è il marchio di un'egemonia che subiamo.
Si ma come traduci questo discorso politicamente? Tu stesso hai votato, con riserva, il protocollo sul welfare.
Ho dato un giudizio articolato. Sulla parte previdenziale era un buon compromesso. Mentre è del tutto insoddisfacente, al di là di qualche miglioramento, la parte sul lavoro. E' evidente che la distanza siderale tra la dimensione drammatica della precarietà e le soluzioni proposte ha allargato il fiume della delusione.
Tu stesso hai definito quella di sabato una bella manifestazione. Nella Cgil si è aperta una riflessione su chi, della Fiom, ha partecipato. Che ne pensi?
Rispetto la dialettica interna al sindacato. Una sinistra che nasce non può prescindere dal rapporto con il sindacato. Io stesso vengo da una famiglia operaia. A casa mia erano tutti della Fiom. Mi auguro che questa discussione anche aspra non porti a una rottura. Spero che si trovi la strada per difendere l'assetto confederale del sindacato. La confederalità è il contrario del comando, ma guarda all'unità ed è un valore, non è che ognuno fa quello che vuole.
Pensi che il protocollo possa essere migliorato?
Faremo il possibile per migliorarlo, certo. Il sindacato è fondamentale per la democrazia. Ma discutere di politica economica e del lavoro non si esaurisce in una vertenza contrattuale. Si parla di un'idea di società, in cui la politica non può essere considerata un'indebita ingerenza. In questo caso la rappresentanza del lavoro non si esaurisce nel sindacato, ha bisogno di politica. Per la Costituzione il parlamento è sovrano. Tutto quello che si può fare a favore dei lavoratori deve essere guardato con simpatia e rispetto. Il sistema delle autonomie tra politica e sindacato, insomma, deve funzionare nei due versi.
E se ci fosse la fiducia?
Comunque vadano le cose il governo non deve cadere da sinistra. Va evitato come la peste.
Ma questa sinistra come può essere più credibile?
Il corteo ha detto ai quattro partiti della sinistra: fateci partecipare e datevi una mossa. Di unire le forze il Pd parla da 12 anni. Noi per farlo abbiamo non dico 12 mesi ma molto molto meno. Perciò dobbiamo essere coraggiosi e innovativi. Capisco che un passaggio «federale» possa essere considerato insufficiente ma naturalmente dobbiamo fare ciò che è possibile. Penso però che un gruppo parlamentare unico alla camera e al senato sarebbe un segnale positivo, molto visibile e molto incisivo. Del resto, sulla finanziaria abbiamo fatto un lavoro comune eccellente, abbiamo fatto sfigurare il Pd, che ha presentato il triplo di emendamenti.
Ma vanno sciolti i partiti che ci sono oppure no?
Noi non abbiamo voluto fare un nuovo partito. Alla sola idea di passare la vita a contendere a Pdci, Prc e Verdi lo 0,2% mi butto dalla finestra. La nostra funzione è dare una mano: solve et coagula, diceva Alex Langer nel suo ultimo libro. Sciogliere e riaggregare. Però sono un gradualista, faremo quello che è possibile fare sapendo che tutto dipende da noi. La manifestazione del 20 è stata chiarissima, ci ha aiutato. Ho visto che perfino il Pd ha timore di essere un «partito liquido» e senza iscritti. La nuova sinistra, se vuole avere una prospettiva di governo, deve essere qualcosa di solido, di radicato nella società, di pesante.
Qual è la prima mossa?
Domani (oggi per chi legge, ndr) ci vediamo con Giordano, Diliberto e Pecoraro. L'idea è convocare a metà dicembre gli stati generali della sinistra. Qualcosa di simile a un «social forum», dove si incontrino non solo le quattro forze politiche ma un campo di forze vastissimo, che va al di là della forza pur non irrilevante, intorno al 12-13%, dei pariti che ci sono. Una sinistra divisa non rappresenta più la società. Unificarla corrisponde alla vocazione di centinaia di migliaia di persone, che ritengono inimmaginabile che la sinistra scompaia dal lessico politico italiano. Serve però una sinistra più avanzata, che risponda ai problemi del XXI secolo. Ricombinare gli schemi del passato non funziona. La memoria è nostra ma i problemi sono nuovi.
Questa sinistra non ha anche un problema di leadership?
Non mettiamo il carro davanti ai buoi. C'è bisogno di un processo molto partecipato la cui chiave siano i programmi e le idee. Concordo con Giordano, se ci buttiamo alla contesa sulla leadership come il Pd siamo perduti. Nessuno di noi cerca primati personali, di personalizzazione della politica ce n'è fin troppa.
Prima del 20 ottobre si è vociferato di tue possibili dimissioni da coordinatore di Sd. Resti alla guida del movimento?
E' vero. Abbiamo avuto una discussione molto animata sul protocollo, sulla condotta da tenere in consiglio dei ministri e sulla manifestazione. E' una discussione che prosegue. Sì, sono ancora il coordinatore.
il manifesto 24.10.07
Quando la sicurezza è da paura
di Giuliano Pisapia
Spero che, almeno questa volta, abbia prevalso la saggezza e non motivi che nulla hanno a che vedere con la giustizia! Il pacchetto sicurezza non è stato (ancora) approvato e, forse, vi è la possibilità di un ripensamento e di una maggiore ragionevolezza. Può essere utile, allora - per memoria di chi l'ha persa - ricordare alcuni passi del programma, approvato all'unanimità da tutti i partiti dell'Unione: «la giustiza penale ha urgente bisogno di riforme che riafferimino il princìpi costituzionali di eguaglianza, della funzione rieducativa della pena e del giusto processo; bisogna garantire una giustizia celere, assicurare a tutti (parti offese e imputati) il diritto di difesa, prevedere pene diverse da quelle carcerarie, finalizzate anche al risarcimento dei danni o ad elidere le conseguenze dannose del reato; priorità assoluta deve essere il contrasto alla criminalità organizzata, che mina le basi della nostra Repubblica e ostacola lo sviluppo di large porzioni del territorio». Ognuno di questi obiettivi era accompagnato da precise, e concrete, proposte che, se approvate, avrebbero dato una svolta alla giustizia penale (e civile) del nostro paese e una risposta anche alla compresibili, e condivisibile, richiesta di sicurezza dei cittadini.
Ebbene, nulla (o, meglio, ben poco) di ciò che è stato discusso ieri dal Consiglio dei Ministri ha avuto come punto di riferimento il programma votato dagli elettori. Non si contesta, sia chiaro, la necessità della doverosa lotta al crimine e alla criminalità. Si contesta il fatto che, invece di abolire la Bossi-Fini o la legge contro i tossicodipendenti; invece di difendere con tutte le forze una legge, come la Gozzini, che ha permesso il reinserimento di oltre 700 mila persone (che, altrimenti, avrebbero contiuato a delinquere), si pensa (forse neppure credendoci) di risolvere problemi reali con misure che non potranno che aggravarli. Porre ulteriori paletti alla Simeoni-Saraceni significa mandare in carcere migliaia di persone - oggi libere in quanto giudicate non pericolose - prima che il Tribunale di Sorveglianza decida se siano meritevoli, o meno, di misure alternative alla detenzione (che è cosa ben diversa dalla impunità). Negare, come pure prevede il pacchetto sicurezza, il patrocinio ai non abbienti imputati di determinati reati, significa a negare il diritto di difesa ai più poveri e, e soprattutto, aumentare il già vergognoso numero di errori giudiziari. Rendere di fatto obbligatoria la custodia cautelare per alcuni specifici reati sarebbe un inaccettabile ritorno a un passato (fascista) e porterebbe all'incarcerazione di migliaia di innocenti. E che dire del potere di espulsione dei prefetti per motivi di «pubblica sicurezza»?. Non più l'esilio o la deportazione, ma una discrezionale, e arbitraria, espulsione, senza alcuna garanzia giurisdizionale, anche per chi partecipa a una pacifica manifestazione. E come non ricordare la dura lotta dell'intero centrosinistra contro i nuovi poteri di polizia dei sindaci arrogantemente voluta, nella scorsa legislatura, dal centrodestra? Se, infine, si aumentassero le pene per chi vende merce contraffatta o occupa il suolo pubblico (zingari, lavavetri, non certo esercenti di discariche abusive) l'involuzione democratica finirebbe col risschiare di essere irreversibile. Certo, non possiamo e non vogliamo negarlo. Vi sono state proposte condivisibili: tra queste, le nuove attribuzioni al procuratore azionale antimafia; gli interventi proposti per gli omicidi colposi causati da guidatori ubriachi; i processi immediati, senza limitare le garanzie, per chi si trova in stato di arresto (un vantaggio per gli innocenti e per le parti offese). Bisogna però essere consapevoli che anche norme giuste finiscono per essere neutralizzate da leggi demagogiche, schizofreniche, inefficaci e controproducenti. Ben venga, quindi, il rinvio, purché la riflessione porti ragionevolezza e non solo polemiche strumentali, che nulla hanno a che vedere con la giustizia.
il manifesto 24.10.07
Israele. La comunità immaginata del popolo senza stato
di Enzo Traverso
Un saggio ammirevole per l'onestà intellettuale con cui affronta un tema tanto delicato e controverso «Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia» di Idith Zertal per Einaudi
Esiste una vasta letteratura sull'uso politico che Israele ha fatto, nel corso degli anni, della memoria della Shoah. La storica israeliana Idith Zertal vi dedica ora un importante saggio, ammirevole per la chiarezza, la lucidità e l'onestà intellettuale con cui affronta un tema tanto delicato e controverso (Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia, Einaudi, pp. 253, euro 22). In fondo, sostiene Zertal, Israele e la Shoah sono indissociabili. Non soltanto perché lo Stato ebraico è nato, nel 1948, in virtù di un accordo fra le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale teso a «risarcire» gli ebrei per lo sterminio subito ad opera del nazismo. Non soltanto, quindi, perché la Shoah costituisce la premessa e il retroterra storico di Israele, ma anche e soprattutto perché ne ha accompagnato la vicenda, durante sessant'anni, come sottofondo costante, più o meno esplicitamente riconosciuto, di tutte le scelte dei suoi dirigenti. Israele, spiega Zertal, è l'erede della Shoah, non foss'altro per il fatto di aver offerto un rifugio ad alcune centinaia di migliaia di superstiti del genocidio nazista.
Nel corso degli anni, tuttavia, esso ha ridefinito la sua identità facendosi di volta in volta rappresentante, difensore e, in ultima istanza, redentore delle vittime dell'Olocausto. L'evento tragico che ne ha permesso la nascita è diventato la sua principale giustificazione storica e, una volta inscritto nel disegno provvidenziale del suo messianismo, il pretesto inattaccabile costantemente invocato per legittimarne gli atti sia politici che militari. L'Olocausto, in altre parole, è stato oggetto di una costruzione della memoria che ne ha fatto la matrice di una religione politica: il nazionalismo israeliano.
Il cemento della nazione
La memoria della Shoah è il cemento di una nazione ebraica in costruzione permanente, formata da gruppi diversi, provenienti sia dall'Europa che dall'Africa del Nord e dal Medio Oriente, e circondata da un mondo arabo ostile. Non la memoria incarnata dai superstiti dei campi della morte, fatta di ricordi individuali e singolari, ma una narrativa nazionale, elaborata dai vari governi che si sono succeduti alle redini dello Stato nel corso degli anni, sia quelli laburisti che quelli diretti dal Likud: questa memoria, sostiene Zertal evocando Benedict Anderson, è stata e continua ad essere il fulcro di una «comunità immaginata» la quale riesce in tal modo a trascendere la brevità della propria esistenza e l'eterogeneità della propria composizione.
L'incorporazione di questo passato in seno alla memoria israeliana non è stata, a dire il vero, immediata. Durante gli anni Cinquanta, quando il trauma del genocidio era ancora recente e i sopravvissuti costituivano una parte cospicua della società israeliana, la Shoah era assente dal discorso ufficiale. Un'elaborazione del lutto silenziosa coesisteva con la rimozione pubblica. Riaffermando uno stereotipo dell'ideologia sionista, Ben-Gurion dichiarava allora che la storia ebraica si era interrotta nel 135 d.C., quando i romani avevano sedato la rivolta di Bar Kochba, ed era ripresa soltanto con la fondazione di Israele. Popolo senza Stato, gli ebrei diventavano così, hegelianamente, «popolo senza storia». La palingenesi sionista restituiva agli ebrei la loro dignità nazionale perduta nei secoli. Israele sorgeva in rottura radicale con la diaspora, luogo di umiliazione, persecuzione e svilimento dei caratteri nazionali ebraici; si presentava come alternativa necessaria all'«esilio», il Galut, vera e propria malattia ebraica. L'israeliano, l'«ebreo nuovo», era un colono, un agricoltore e un combattente, non più un perseguitato. Il nuovo Stato non voleva apparire come rappresentante di un popolo di vittime e non si riconosceva nelle figure scheletriche dei sopravvissuti. In sintonia con gli stereotipi nazionalisti del tempo, i suoi figli dovevano essere fieri, sportivi, muscolosi. Occorreva quindi «inventare» una tradizione che, salvando alcuni momenti salienti della storia ebraica, potesse espungerli dalla diaspora per annetterli al panteon di un'epopea nazionale incarnata dal sionismo. Così i profughi dell'Exodus, la nave carica di superstiti dei campi nazisti, sballottata per mesi tra mare e terra prima di raggiungere la Palestina, dopo aver vinto l'opposizione britannica allo sbarco, furono trasformati in combattenti ed eroi che, a prezzo d'innumerevoli sacrifici, avevano mostrato la via di una rinascita nazionale. Così la rivolta del ghetto di Varsavia, nella primavera del 1943, fu rivisitata come eroico atto patriottico e «gesto sionista». Per questo il resoconto dell'insurrezione scritto da Marek Edelman, uno dei suoi dirigenti - allora rappresentante del Bund, un partito socialista ebraico antisionista - che decise dopo la guerra di rimanere in Polonia, fu tradotto in ebraico tardivamente, da un piccolo editore. «Nell'ambito della fiorente industria della commemorazione sviluppatasi in Israele intorno alla rivolta e ai suoi eroi - scrive Zertal -, non c'era posto per Edelman e la sua storia».
La svolta al processo Eichmann
La svolta decisiva, il momento a partire dal quale Israele cessò di considerare la Shoah come espressione di un vergognoso passato diasporico e iniziò a rivendicarne esplicitamente la memoria come fonte legittimante della propria politica, fu il processo Eichmann, che si svolse a Gerusalemme nel 1961. Ben-Gurion voleva farne «un'esperienza sacra», un monito al mondo e un atto pedagogico nei confronti della nazione. Ai suoi occhi, questo processo trascendeva ampiamente le responsabilità individuali di uno degli architetti della Soluzione finale. Ben-Gurion lo definiva allora «il processo del popolo ebraico all'eterno antisemitismo presente in tutte le nazioni e attraverso tutte le generazioni». Una volta comprovata la sua capacità di fare giustizia in nome del popolo ebraico, Israele non aveva più bisogno di nascondere la Shoah. Poteva anzi mobilitarne il ricordo per trasformare la sua politica in atto riparatore. Diventerà così una consuetudine, per ministri e ufficiali israeliani, assimilare il rifiuto arabo alla storia secolare dell'antisemitismo europeo e designare i dirigenti arabi, da Nasser ad Arafat, come reincarnazioni di Hitler.
Molti intellettuali si presteranno a questa campagna di «nazificazione» del nemico. Lo scrittore Eli Wiesel, percepito nel mondo occidentale come una sorta di figura cristica dell'Olocausto, celebrava nel 1967 la vittoria israeliana durante la Guerra dei sei giorni con un pathos nazionalista degno del primo Ernst Jünger. Zertal cita qualche passo eloquente di un suo testo dell'epoca: «Duemila anni di sofferenze, attese e speranze si mobilitarono per la battaglia, al pari di milioni di vittime della Shoah. Come nubi di fuoco giunsero a proteggere i loro eredi. E nessun nemico potrà mai sconfiggerli». La vittoria fu così sacralizzata e l'occupazione dei territori palestinesi ratificata come protezione necessaria contro la minaccia rappresentata dall'insormontabile ostilità del mondo dei gentili. L'occupazione diventò e rimane ancora oggi legittima difesa. Le vittime della Shoah saranno evocate come testimoni silenziosi dell'innocenza israeliana.
Questa politica della memoria tesa ad alimentare il nazionalismo più ottuso e intransigente, sembra concludere Zertal, ha contribuito ad armare l'assassino di Yitzhak Rabin, vittima, come Jean Jaurès e Walther Rathenau prima di lui, in altra epoca e altri contesti, di una campagna di odio nazionalista.
Un capitolo di questo libro è dedicato al carteggio tra Hannah Arendt e Gershom Scholem, poche ma profondissime lettere scambiate in occasione del processo Eichmann e delle feroci polemiche suscitate dal saggio dell'esule ebrea sulla «banalità del male». Dopo averne riassunto i termini generali, Zertal si schiera chiaramente dalla parte della Arendt, facendo proprio il postulato dell'autonomia di pensiero, il Selbstdenken di matrice illuminista ch'essa rivendicava, contro le ortodossie, i vincoli intellettuali e spesso i pregiudizi in cui rimpane inevitabilmente invischiato chi vuole anteporre un'appartenenza nazionale alla libertà della critica. Zertal ha probabilmente ragione di spiegare il tono ben poco conciliante delle risposte arendtiane con il suo rifiuto del sottile paternalismo di Scholem. E anche di sottolineare la discrepanza di fondo che separa la Arendt, cosciente di appartenere alla tradizione dell'ebraismo paria, dal sionismo di Scholem, finalmente ricaduto, forse in virtù di un'identificazione mimetica con l'oggetto delle sue ricerche, in una visione della storia ebraica come una sorta di «entità mistica» i cui tratti «trascendono la nostra comprensione».
Zertal si limita tuttavia a un'attenta lettura di questo appassionante carteggio. Una più approfondita contestualizzazione le avrebbe probabilmente permesso di spiegare i toni accesi della polemica alla luce di un'altra netta divaricazione: il Selbstdenken della Arendt entrava in collisione, in quel preciso momento storico, con la percezione ebraica della Shoah, di cui Scholem si faceva allora portavoce. Arendt aveva preso la misura dell'evento - aveva avuto la sensazione che il pavimento le stesse crollando sotto i piedi, dirà in una famosa intervista - fin dagli anni della guerra. Il mondo prendeva invece coscienza di cosa fu il genocidio degli ebrei soltanto dopo il processo Eichmann. Fu durante quel processo che, per la prima volta, i superstiti dei campi nazisti poterono esprimersi di fronte al mondo intero avendo la sensazione di essere ascoltati. Il saggio arendtiano approfondiva una riflessione iniziata almeno vent'anni prima, ma non aveva riguardi per un'opinione pubblica internazionale che iniziava appena a rendersi conto di cosa fosse stato l'Olocausto, per una diaspora ebraica che l'aveva largamente rimosso e per uno Stato israeliano che si trovava ora messo di fronte al trauma da cui era nato. I tempi dell'elaborazione di un pensiero critico e i tempi della costruzione di una memoria collettiva in seno allo spazio pubblico non sempre coincidono. Non stupisce quindi che Scholem le rimproverasse la sua mancanza di «sensibilità del cuore» (Herzenstakt).
La profezia di Hannah Arendt
Collaboratrice della casa editrice Shocken, creata negli anni Trenta da ebrei tedeschi esuli a New York, Arendt aveva contribuito alla pubblicazione in America dell'opera di Scholem. Fino al 1946, entrambi avevano condiviso la prospettiva di una Palestina binazionale, nella quale ebrei ed arabi avrebbero potuto convivere entro frontiere comuni. Ma Scholem aveva accettato la fondazione di uno Stato ebraico e adattato il suo sionismo culturale ai vincoli fatali del sionismo politico. Arendt non lo seguì su questa strada. La loro rottura risale al 1947.
In quegli anni, l'esule ebrea pubblicava un testo che, come sottolinea Zertal, appare oggi straordinariamente premonitore. Anche in caso di una vittoria militare, scriveva Arendt, gli ebrei «vivrebbero circondati da una popolazione araba interamente ostile, segregati entro confini perennemente minacciati, a tal punto occupati a difendersi fisicamente da trascurare ogni altro interesse e ogni altra attività. Il pensiero politico sarebbe focalizzato sulla strategia militare; lo sviluppo economico sarebbe determinato esclusivamente dalle necessità della guerra. E questa sarebbe la sorte di una nazione che, indipendentemente dal numero di immigrati che potrebbe ancora assorbire e dall'estensione del suo territorio continuerebbe ad essere un piccolo popolo soverchiato dalla prevalenza numerica e dall'ostilità dei suoi vicini».
Idith Zertal fa proprio questo ammonimento. Il suo libro non è soltanto un brillante saggio storico. È un invito pressante a cambiare rotta.
il manifesto 24.10.07
La volontà di vedere, secondo Foucault
di Andrea Cavalletti
Un libro di saggi a cura di Michele Cometa e Salvo Vaccaro per Meltemi ripercorre il rapporto conflittuale istituito dal filosofo francese tra visibile e enunciabile. Dalle metamorfosi dello sguardo alla genealogia dei poteri alla storia degli spazi, passando per il problema dell'approdo alla verità
Concludendo il suo ritratto dell'amico come nouvel archiviste, Gilles Deleuze aveva adattato a Foucault e al suo stile una frase di Boulez sull'universo rarefatto di Webern: «Egli ha creato una nuova dimensione, che potremmo chiamare diagonale, una sorta di ripartizione dei punti, dei blocchi e delle figure non più nel piano, ma nello spazio». La partitura weberiana e l'archeologia foucaultiana degli enunciati rivelano, dunque, un valore decisamente visivo, quasi di costruzione pittorica. Tanto che la frase di Boulez potrebbe ricordare certe notazioni di Longhi (ad esempio sullo stile di Mattia Preti) sulla costruzione, lungo la trasversale della tela, di uno spazio di «forme-luce» e «volumi che s'assettano di spigolo».
Lo stesso Foucault concludeva, d'altra parte, la sua celebre conferenza tunisina su Manet affermando che sebbene non spetti a lui l'invenzione della pittura non rappresentativa, tuttavia gli dobbiamo il «quadro-oggetto»; perché in pittura potesse un giorno liberarsi, al di là di ogni rappresentazione, «lo spazio con le sue proprietà pure e semplici, le sue stesse proprietà materiali».
Si è scritto molto, dopo Deleuze, sul problema della visibilità in Foucault, e proprio Deleuze ha illustrato meglio di chiunque altro quel non-rapporto che vige in Foucault tra visibile ed enunciabile, spiegando come permanga tra questi una differenza di natura, benché abitualmente si compenetrino e si inseriscano l'uno nell'altro. Proprio l'affermazione della loro conflittualità irriducibile è forse ciò che ha permesso, sin da Le parole e le cose, di abbandonare la vecchia rappresentazione verticale dei saperi, affrancandoli dal loro piano organizzato per disporli diagonalmente, così da farli apparire nell'atmosfera più o meno rarefatta dei poteri.
Intorno a questo nucleo problematico e fecondo si muove Lo sguardo di Foucault, a cura di Michele Cometa e Salvo Vaccaro (Meltemi, pp.162, euro 16,00), il cui titolo ricorda molto Michel Foucault, un regard, la silloge di saggi che accompagna l'edizione francese della Peinture de Manet (Seuil, 2004). I testi di Daniel Defert, Martin Jay, Stefano Catucci, Thomas Lenke e Stuart Elden ne fanno uno dei più interessanti contributi alla comprensione del pensiero di Foucault apparsi da noi negli ultimi tempi, insieme all'ottimo Governare la vita, curato da Sandro Chignola (edizioni ombre corte).
Dalla lettura di Las Meniñas in Le parole e le cose, a quella di Un bar aux Folies-Bergère - il quadro che, ha ricordato una volta Defert, rappresentava per Foucault l'esatto opposto del capolavoro di Vélasquez - dalle pagine sul Panopticon fino a quelle del 1982 sulle fotografie di Duane Michals, il tema dello sguardo attraversa in effetti tutta l'opera del filosofo francese. Che si dispiega in una specialissima tecnica di descrizione, una ekphrasis che qui Michele Cometa, sulla scia del suo Parole che dipingono (Meltemi, 2004), ricostruisce attentamente, mostrandone la variabile specifica e paradossale, fondata proprio sulla chiara coscienza dell'«abisso che separa l'immagine dal testo». Attraverso una serrata polemica con il filosofo Gary Shapiro, lo storico Martin Jay offre invece una definizione teorica del ruolo della visione in Foucault, ruolo che egli non arriva a denigrare e tuttavia limita in senso fortemente negativo.
Alla «distruzione delle visualità egemoniche» compiuta da Manet come poi da Magritte mancherebbe infatti la tonalità critica positiva che Foucault aveva invece scoperto nella parresia antica. Se visibile ed enunciabile non possono coincidere, è anche perché, afferma Jay, quel rapporto con la verità «che Foucault ammirava tanto nei greci e che cercò di emulare attraverso la sua stessa attività di intellettuale pubblico» è un rapporto mediato dalla franchezza, cioè esclusivamente verbale: non c'è veridicità dell'occhio, né «percezione intuitiva del mondo attraverso l'immediatezza dei sensi», tanto che la «verità in pittura» proclamata da Cézanne equivale a una promessa inesaudibile. Ma se Foucault separa il visibile dall'enunciabile non è forse per trasformarli entrambi e unire in «legami contingenti e instabili» i diversi sensi del sapere? La verità può essere implicata in giochi non egemonici - suggerisce Salvo Vaccaro - solo da parte di uno «sguardo prensivo», che sia capace di toccare, così come la parola è capace di vedere.
In poche, splendide pagine, Daniel Defert mostra come Foucault abbia opposto alla tradizione aristotelica della conoscenza quale percezione visiva quella nietschiana, che privilegia la materialità polemica del discorso: e lo fa da un lato riandando alla scoperta da parte del filosofo francese del poema La veduta di Raymond Roussel, e dall'altro ricorrendo al corso inedito del 1971, intitolato - come il libro più tardo e famoso - La volontà di sapere.
Contro ogni fenomenologia della percezione Foucault ha rivendicato un «dire la verità» che è storia, semiologica e politica delle condizioni del visibile, della «struttura di ciò che va visto». Le metamorfosi dello sguardo restituiscono quindi la genealogia dei poteri. Ma la storia dei poteri è per Foucault «una storia degli spazi». Pensare «con lui» - scrive nel suo intervento Stefano Catucci - significa allora (rileggendo Le Corbusier ma anche l'unità abitativa di Fiorentino al Corviale) svelare nel progetto della città moderna e contemporanea il sinistro intreccio delle tendenze biopolitiche e delle pratiche di sorveglianza più strettamente disciplinari. Che non vengono semplicemente superate, ma come le forze vinte di Nietzsche si trasformano e si dislocano su piani diversi: la scala urbanistica (della sicurezza, del potere che cura e detiene la vita) è così inseparabile dalla soluzione architettonica della vecchia disciplina dei corpi, dallo sguardo che sorveglia. La genealogia dell'urbanismo incrocia qui, per Catucci, l'«ontologia del presente». «Dire la verità» sulle nostre «città sicure» sembra più urgente che mai.
Rosso di Sera 23.10.07
I giornali della Sinistra? Sarebbe il caso di unire anche loro
di Ettore Colombo
Sulla proposta di Pietro Ingrao, la provocazione di un giornalista “di sinistra”.
Non è stata (solo) una bella, grande e partecipata manifestazione, quella del 20 ottobre. E’ stata anche una manifestazione molto (e ben) raccontata, dai, volendo includere, con questa accezione, molto più dei tre (Liberazione, manifesto, Carta) “coraggiosi” che ne sono stati gli sponsor. Faceva davvero bene al cuore, per dire, vedere l’amministratore delegato (storico, peraltro) di Liberazione, Mauro Belisario, fare "diffusione militante" dell’edizione straordinaria di Liberazione. O assistere alla ressa di ragazzi e ragazze attorno allo stand del manifesto, collocato proprio ai lati di piazza San Giovanni, dove le figurine del (mitico) Album del manifesto andavano letteralmente a ruba. Oppure riconoscere e abbracciare con commozione i compagni e le compagne della redazione de La Rinascita della sinistra, che reggevano tanto di striscione, nel corteo, oltre che fare diffusione militante. Oppure, infine, scoprire quanto è curioso, ricolmo di spunti (e inkazzato, come sempre) non solo Carta formato settimanale (anch’esso diffuso lungo il percorso) ma anche “il figlio” sito Internet quotidiano. Infine – e nonostante le molto poco piacevoli traversie editoriali che lo hanno recentemente scosso – faceva piacere pure scoprire di nuovo combattivo e aggressivo, oltre che di sinistra, il settimanale Left. Tutto bene, dunque? Possiamo gonfiare il petto e cantarcela e suonarcela anche dal punto di vista delle performances informative e della capacità di “bucare” agenzie, giornali e, naturalmente, tv, visto che anche la copertura mediatica dell’evento è stata più che degna (semi-diretta su Rai 3, diretta su Sky, diretta su Radio Popolare, network di nascita “milanese” ma che ormai è ben radicato anche a Roma)? Direi proprio di no. Il (nostro) “grande vecchio” Pietro Ingrao, sommerso lungo tutto il corteo dal calore della gente, oltre che dall’assedio dei media alla ricerca spasmodica di volti “glamour” (sic), lo ha detto chiaramente a Rina Gagliardi, che ne ha seguito il tragitto e raccolto i pensieri, alla fine: Siamo –nel nostro piccolo - totalmente d’accordo. Forse perché ricordiamo troppo bene come nacque Liberazione (quotidiano), quanti danni causò a un già agonizzante (in termini di idee e uomini, più che di copie, almeno allora) manifesto e quanti piccoli e grandi “dispetti”i giornali “comunisti” si sono fatti. Né capiamo a cosa serva disperdere forze ed energie intellettuali (con relativa “gara” a chi s’accaparra prima l’editorialista di turno, peraltro quasi sempre gli stessi) tra loro, Rinascita, Left (ex Avvenimenti). Solo di Carta riconosciamo un suo specifico politico-editoriale, a metà tra i movimenti no global che fu, i “cantieri sociali” che sono (?) e un’area movimentista, ecopacifista (e antipartitica) di ultrasinistra. Insomma, ha senso che Liberazione continui a rappresentare – con sempre maggiore fatica, peraltro, visto che si sono decuplicate – le “cento anime” di Rifondazione e dintorni, il manifesto un po’ quelle alla sua sinistra (i giovani) e un po’ quelle alla sua destra (i “senatori”), Rinascita elevi inni a Diliberto, Left o parli d’altro o si faccia interprete del Bertinotti-pensiero (se non di quello di Massimo Fagioli)? Se ci aggiungiamo Internet, dove campeggiano solo due siti informativi vivaci e degni di questo nome, Rosso di sera (non certo perché ci ospita…) e Aprileonline, organo della Sinistra democratica di Mussi (del mensile Aprile abbiamo, francamente, perso le tracce…) la dispersione (informativa) è massima. Nel frattempo, però, accade che il settimanale Diario, fondato e diretto da Enrico Deaglio ha chiuso, l’Unità sarà costretta – più prima che poi – a una decisa strambata “a destra”, causa la nascita del Pd, e il Riformista è sempre più orientato verso la Cosa socialista, oltre che boccheggiare in fatto di copie. Non che, da questo punto di vista, manifesto e Liberazione stiano messi molto meglio, anche se a via Tomacelli la situazione è, oserei dire endemicamente, peggiore e più opaca che a via del Policlinico. Morale, sarebbe ora di dare ascolto all’appello di Ingrao. Polo e Sansonetti, perché non ci pensate su?
Rosso di Sera 23.10.07
Repubblica dà i numeri
Erano un milione sabato scorso i manifestanti contro il precariato? Ma no, erano 150 mila. Lo dice Repubblica. La quale è molto restrittiva quando si tratta di contare la sinistra, mentre invece largheggia nel caso del Pd. Sempre lo stesso giornale, stavolta nella sua versione on-line, sostiene che il Partito democratico è al 29%. Poi, a leggere bene, si scopre che di elettori sicuri ne ha molti di meno. Lo zoccolo duro, quelli che comunque vada, lo voterebbero, sono solo il 18%. Poi c'è un'area quasi sicura, e si arriva al 23%. Infine, solo potenzialmente, potrebbe raggiungere il 29%.
Insomma, è il limite massimo, e quindi il risultato è prevedibilmente inferiore. In ogni caso, si tratta di una percentuale piuttosto bassa se si pensa al 34% delle elezioni politiche.
Repubblica, si sa, è il giornale del Partito democratico. Ma un minimo di decenza, un minimo di senso della misura, è richiesto anche a loro.
A fare la Pravda ulivista si rischia di fare brutta figura.
Se fossimo noi dirigenti del Pd, ci guarderemmo dal cantare vittoria. Intanto perché il governo e la maggioranza sono tutt'altro che stabili. in secondo luogo perché ci vuole poco a dilapidare il (peraltro magro) patrimonio sinora conquistato.
Così, riguardo i numeri, anche altri dovrebbero usarli con maggiore parsimonia e riflettendo meglio. Ad esempio la Cgil, che con i 5 milioni di partecipanti al referendum, in questo momento pare essere diventato un partito, con tanto di "linea" e sanzioni disciplinari, roba che speravamo consegnata agli archivi della storia.
I dirigenti del maggiore sindacato, piuttosto, guardino con maggiore attenzione al numero di precari che non ha votato e al fatto che la Nidil è ancora lì, ferma, con le adesioni che languono.
Liberazione 24.10.07
Lunedì pomeriggio, a Roma, un'assemblea aperta
Il 20 ottobre non è finito. E ora propone...
di Piero Sansonetti
Ma non eravamo noi del "20 ottobre" quelli che dovevano fare cadere il governo? Furio Colombo, su l'Unità, ha scritto un articolo nel quale, addirittura, accusava Giorgio Cremaschi e me di essere diventati marionette al comando di Berlusconi. "Passati al nemico", come dicevano una volta gli occhiuti tribunali del popolo. Scriveva che abbiamo fatto tutte le mosse giuste per far cadere Prodi e ridare il potere a Berlusconi. Vedi che fessi (o peggio...). E invece ieri abbiamo passato il pomeriggio per capire se il governo lo avrebbe fatto cadere il centrista Dini, coi suoi tre seguaci, oppure se sarebbe saltato per la rissa tra il centrista Mastella e il centrista Di Pietro, che hanno posizioni politiche molto simili - e lontanissime da quelle che abbiamo espresso nella manifestazione del 20 ottobre - ma ritengono uno che l'altro sia un delinquente e l'altro che l'uno sia un analfabeta. Da ieri non si parlano più. Al consiglio dei ministri il povero Enrico Letta deve fare la spola e l'interprete.
C'è poco da scherzare. La distanza tra la politica del Palazzo (i ragionamenti di Colombo, Mastella, Di Pietro, Dini e altri) e la forza di quella manifestazione - scusate se lo facciamo notare - davvero è abissale. Su un lato della scena c'è il punto più alto della politica di massa, costruito sulla partecipazione, sull'impegno, sulla passione politica di centinaia di migliaia di cittadini, e su una piattaforma che mette sotto accusa il precariato - il precariato economico, sociale, umano, personale - scelto dalle classi dirigenti come modello per la società dei prossimi anni; e sull'altro lato della scena c'è questo spettacolo che esalta la politichetta, i personalismi, il "poterismo" senza contenuti. Cosa vuol dire "poterismo"? E' quella idea, diffusissima, secondo la quale la politica è un affare per gruppi dirigenti che - seguendo certe regole, o infrangendole - si dividono tra loro i posti di potere e le burocrazie. Il centrosinistra, negli ultimi tempi, è stato invaso dal poterismo, ne è condizionato e conquistato. E rischia anche di venirne travolto. Per questo molti leader del centrosinistra - non tutti per la verità - non sono riusciti, fino all'ultimo minuto, a capire cosa fosse il 20 ottobre. Continuavano a chiederci: ma questo corteo dà forza a Giordano o a Diliberto? E' voluto da Bertinotti o da Vendola? E' temuto da Mussi o da Pecoraro? Non c'era modo di spiegargli che la politica talvolta è un po' più complicata.
E infatti il 20 ottobre è stata una gigantesca operazione di politica - di politica grande - perché ha ridato anima e riconoscibilità al popolo della sinistra e ha proposto una idea forte di unificazione tra le sue anime, tra la sua gente e i suoi punti vista. O forse non esattamente di unificazione, ma di alleanza. E state attenti, le sue anime non sono i suoi partiti o i suoi gruppi, ma sono il movimento operaio, il femminismo, l'ambientalismo, il movimento dei gay, il pacifismo, le comunità resistenti. Cioè correnti ideali e politiche che rappresentano principi e interessi e contraddizioni assai diversi tra loro, e spesso confliggenti tra loro, ma che hanno trovato una ipotesi di unità nella comune battaglia contro il potere, e contro le gerarchie, e contro le tante e spietate forme di moderno dominio.
Ieri, un gruppo di noi promotori del 20 ottobre, si è incontrato per vedere come dare un seguito a quella manifestazione e all'opera unitaria che ha messo in moto. Abbiamo deciso di convocare una assemblea che si terrà lunedì prossimo alle 17,30 nella sede di "Carta", a Roma, alla quale invitiamo le varie realtà che hanno partecipato, o che hanno apprezzato la manifestazione, o che comunque vogliono discutere e "fare" insieme a noi. Ci siamo detti che l'obiettivo che ci poniamo è quello di rimettere in movimento meccanismi di democrazia dal basso - cioè di democrazia - che vadano oltre i confini della sinistra, con la convinzione che il problema è quello di restituire a tanta gente lo spazio e il diritto di fare politica.
Noi siamo sicuri che questo nostro lavoro e questa nostra discussione possono affiancare l'impegno dei partiti e delle associazioni che stanno lavorando per gli stati generali della sinistra unita (proprio oggi è previsto un incontro dei segretari dei quattro partiti della sinistra). Senza sovrapposizioni, né tantomeno contrapposizioni. E crediamo che non ci sarà più una sinistra né una società dove le persone e i loro diritti, individuali e collettivi, vengono prima delle merci e delle oligarchie, se ciascuno non farà adesso la sua parte.