mercoledì 24 ottobre 2007

l’Unità 24.10.07
Bertinotti pensa al governo istituzionale
Nervosismo a Palazzo Chigi: se cade Prodi si va al voto. Esecutivo stretto dai ricatti
di Marcella Ciarnelli


USA UN DETTO popolare il presidente della Camera per commentare il voto appena avvenuto a Palazzo Madama sul decreto collegato alla Finanziaria, un altro ostacolo superato d’un soffio dal governo. «Si potrebbe dire che il malato ha preso un brodo» dice
Fausto Bertinotti al Tg1. «Certo un po’malaticcio questo governo è, ma ci sono persone malate, con il volto emaciato e con un po’ di febbre, che stanno sempre un po’ male ma che durano a lungo». Il brodo però potrebbe non bastare. Bertinotti, all’evenienza, non mostra dubbi: «Se il governo dovesse cadere la parola tocca al presidente della Repubblica». Ma, pur nel rispetto delle prerogative del capo dello Stato, lui dice come la pensa. Ed allora, poichè «la legge elettorale è molto cattiva immagino che si tenterebbe l’esperienza di un governo tecnico che faccia la riforma elettorale e quel tanto di riforma costituzionale necessarie per sbloccare il sistema». Tutto questo potrebbe avvenire solo nel caso venga verificata l’esistenza di una maggioranza parlamentare. A Palazzo Chigi l’analisi non è stata gradita. È stata accolta con un silenzio pesante dal premier che poi ha ribadito ai suoi che lui «è stato legittimato dalle primarie e poi dal voto» e che, se il governo dovesse cadere, non può esserci «che il voto».
La tensione resta alta. «Mi sembra Asterix che guarda il cielo. Ora cade, ora cade... Non oggi ma domani». La versione a fumetti delle inquietudini del governo Prodi la fornisce in ascensore quel gentiluomo di Valerio Zanone che lascia il Senato dopo un altro giorno sull’orlo del baratro. È evidentemente perplesso il vecchio liberale che si è candidato a Torino con la lista per Veltroni e che, nei giorni scorsi, ha risposto seccato «non se ne parla proprio» al Cavaliere che, in piena campagna acquisti, gli aveva offerto di cambiare casacca.
Si sono appena concluse le due votazioni sulle pregiudiziali. L’aula è incandescente oltre il rosso delle tappezzerie. La maggioranza tira un sospiro di sollievo. Anche questa volta è andata. Per due voti e poi solo per uno. «Il governo regge» sottolinea Anna Finocchiaro. «Arriverà un giorno in cui i senatori a vita non saranno più sufficienti» sbotta Renato Schifani. Giulio Andreotti ha votato a favore perchè «sono contrario al bloccaggio, specie sui temi essenziali ed in scadenza».
Per questa volta i senatori “a rischio” si sono allineati. Nè si sono visti all’opera quelli che Silvio Berlusconi dice di essersi comprati. Che, se continua così, l’ex premier rischia di fare una gran figuraccia e di “bucare” la scadenza dell’escutivo che lui, con grande enfasi, ha fissato alla metà di novembre con grandi festeggiamenti in piazza organizzati per il giorno 17.
Occhi puntati sui dinaniani che peraltro con molta tranquillità vanno ripetendo che se si aumenta solo di un euro la spesa per il protocollo sul welfare o sulla Finanziaria loro non ci stanno. Willer Bordon ribadisce, anche a nome del collega Manzione, al termine delle votazioni, «la maggioranza siamo noi. Se fossero mancati i nostri due voti il governo se ne sarebbe andato a casa». E poi continua a tener ferma l’intenzione di non ritirare l’emendamento sulla riduzione del numero dei parlamentari. «Se non è ammissibile nel decreto fiscale lo presenteremo in Finanziaria. Possiamo discutere quando ma il taglio dovrà esserci in questa legislatura». L’Svp conferma di non avere intenzione di staccare la spina. Domenico Fisichella ha votato a favore. Il dissidente Fernando Rossi nega di essere il colpevole del mancato voto. «È impossibile. Ho spinto assolutamente il rosso». Si sarebbe trattato solo di un errore tecnico. Il senatore Pallaro ieri non c’era. Gli affari lo hanno trattenuto all’estero. Francesco D’Onofrio, occhio attento dell’opposizione, sintetizza: «Il governo cadrà quando uscirà allo scoperto chi ha vinto la partita del dopo».

l’Unità 24.10.07
Luciano Canfora: «La casta? Nell’antica Roma nacque con il maggioritario»
di Roberto Cotroneo


Filologo greco, normalista, autore di molti libri che hanno sempre suscitato accese discussioni. Con una passione per la politica nel senso più puro del termine, Luciano Canfora è uno di quegli uomini che ti stupiscono sempre e ti spiazzano. La sua bibliografia è sterminata, e va da saggi su Marx e Togliatti, a saggi sul fascismo, sulla democrazia, su Tucidide o Giulio Cesare. Rapsodico, meticoloso, ma soprattutto rigoroso, è un osservatore attentissimo della realtà politica italiana. Siamo andati a trovarlo per chiedergli di giudicare e commentare a modo suo quello che sta accadendo in Italia in questi mesi. Dalla politica all’antipolitica, dal partito democratico all’idea di democrazia, dal sistema elettorale a quello che lui chiama il grande imbroglio del bipolarismo.
Luciano Canfora, partiamo da quella che viene chiamata: la casta: Esiste secondo lei?
«Mi sembra un problema astratto da un lato, e dall’altro ozioso».
Perché?
«Perché intanto la casta esiste. Vede, qualche settimana fa ho tenuto una conferenza sul senato romano. Il senato romano era un ordine, quindi di per sé una casta di cooptazione la cui elezione era molto indiretta, perché si era scelti tra i migliori magistrati migliori, e i magistrati a loro volta erano eletti, ma erano eletti con leggi elettorali molto manipolatrici, come tutte quelle che sono diverse dal proporzionale».
I romani hanno inventato il maggioritario?
«Certo, sono stati bravissimi. Dunque, il senato romano era una casta. Era anche di una notevole qualità. I politici di oggi non hanno qualità particolari, ma hanno sommato una serie di privilegi, talvolta sfacciati, che ne fanno una casta a tutti gli effetti. A cominciare dal fatto che sono eterni. E quando un ceto è eterno, vuol dire che è una casta».
Lei si è occupato attivamente di politica?
«Sì, ma ho sempre fatto il portatore d’acqua, quando sono stato candidato in qualche formazione politica. Una volta era il Pdup, una volta era il Partito di Rifondazione Comunista, una volta era i Comunisti italiani. E l’ho fatto con piacere. Ma in fondo anche nelle formazioni piccole c’è un meccanismo castale».
Come mai?
«Il reclutamento del personale politico è generalmente una selezione a rovescio. Chi non sa fare un altro mestiere, si riversa toto corpore in questa funzione, che qualcuno deve pur svolgere. D’altronde nella storia d’Italia sono stati rari i momento in cui personale politico e qualità coincidevano. Solo nel dopoguerra».
E poi?
«Poi il mestiere di politico viene scartato dalle forze intellettualmente migliori. Questo è un grosso problema che riguarda tutti i sistemi rappresentativi, non solo quello italiano».
Lei si è occupato in vari saggi del concetto di democrazia. Sia da filologo che da intellettuale. C’è una crisi dell’idea di democrazia?
«Il martellamento consistente nell’identificare democrazia e parlamentarismo, che in realtà sono due cose che non si identificano, ha danneggiato la democrazia. Ma l’abrogazione del sistema elettorale proporzionale, che è l’unico che dia voce ai cittadini, e la trasformazione degli eletti in privilegiati, ha portato al discredito del sistema rappresentativo travolgendo il concetto di democrazia. Che è un’altra cosa».
Ovvero?
«Democrazia vuol dire potere popolare. I sistemi rappresentativi quando sono veramente tali sono uno strumento democratico, ma non l’unico».
Un dubbio. Dopo le piazze di Grillo si è parlato di antipolitica, dopo le primarie del Partito Democratico, di risposta all’antipolitica, e di grande prova di partecipa-
zione. Lei che ne pensa?
«Temevo questa domanda. Il pensiero del signor Grillo non mi interessa, è un signore qualunque».
E il partito democratico? Con i tre milioni e 500mila votanti?
«L’unificazione dei due pezzi della tradizione cattolica e di quella comunista può portare a un partito nato morto, questo lo penso e mi duole moltissimo. Perché è una fusione di vertici».
Non sembrerebbe visto il risultato delle primarie.
«Radunare 3 milioni e mezzo di persone con un battage mediatico e coinvolgendo anche i ragazzi di sedici anni mi sembra un risultato modesto. Se lei ad esempio lo paragona al milione di persone arrivate a Roma, a manifestare con la sinistra. Un milione di persone che sono arrivate tutte in una sola città».
Vuole dire che lei considera un maggior successo la manifestazione di sabato rispetto alla partecipazione delle primarie?
«Non voglio invertire i rapporti di forza, ma la cosiddetta "sinistra radicale" ha portato in piazza circa un terzo di quelli che sono andati a votare per le primarie. Tenendo conto che per le primarie ognuno votava a casa sua. E non doveva certo spostarsi. E pensare che dicevano che la sinistra era spacciata. Per me questo è stato un risultato straordinario».
Non ha nessuna simpatia per il Pd, mi sembra di capire.
«Un paese come il nostro, che ha avuto grandi culture politiche e grandi personalità, oltre che una tradizione di sinistra rigogliosa e originalissima, ripiega su un modello frigido, generico, che si nasconde dietro una parola logora, partito democratico. Come se dall’altra parte avessimo a che fare con un partito aristocratico».
E invece?
«Dall’altra parte vedi caso c’è un movimento che si chiama della libertà. E allora succede una cosa curiosa. Bobbio, e tanti altri prima e dopo di lui, hanno detto che libertà e democrazia pensati in modo pieno e assoluto diventato antitetiche».
Sicuro?
«Come si legge già nell’epitaffio pericleo di Tucidide, nel V avanti Cristo, l’esplicazione totale e piena della libertà individuale entra in conflitto con il principio di uguaglianza. E il principio di uguaglianza applicato in un modo esasperato, meccanico, totale, lede il principio di libertà. E dunque il grande problema è lì».
Pensa che gli intellettuali abbiano lentamente perso un ruolo, nell’essere la coscienza critica della politica?
«Gli intellettuali non so perché sono sempre gli umanisti, mai che uno pensi che un professore di economia politica sia un intellettuale. Quindi quando gli umanisti sono stanchi si dice che gli intellettuali sono stanchi».
Invece?
«Invece i leader delle grandi banche, gli economisti, gli statistici sono intellettuali quanto i professori di storia. Gente che decide sull’euro, che ha cambiato la vita della gente, in peggio, almeno quanto le ideologie».
Lei mi sembra molto sfiduciato.
«Questo non me lo posso permettere. È inutile. Dobbiamo rimboccarci le maniche facendo ciascuno il suo dovere. Tentando di dire la verità».
E quale la sua verità, Canfora?
«È fatta di due o tre pensierini totalmente impopolari».
Li dica.
«Sono convinto che nonostante tutta la retorica bolsa sul bipolarismo, il bipolarismo è una truffa colossale, oltre che uno strumento per far tacere un sacco di gente che non ha più rappresentanza. Mentre invece un proporzionale purissimo, senza soglie, o cose del genere, impone le convergenze politiche tra culture e istanze diverse. È faticoso. Bisogna trovare trovare compromessi. Il bipolarismo è come le corse dei cavalli, chi arriva prima prende tutto. Ma la politica non è una corsa sportiva».
La seconda cosa impopolare?
«La revocabilità dei mandati. Questa cosa non la vuole nessuno, mai. Perché è una specie di pistola puntata contro il politico che si vuole traformare in casta. La revocabilità ti tiene sotto il controllo dei tuoi elettori».
La prima regola porterebbe a una instabilità politica quasi irrisolvibile.
«Ma questo mi fa ridere. Il boom economico, di cui tutti siamo cantori, decollò con un proporzionale puro e con governi che non duravano più di un anno. Non vedo il problema francamente».
E la seconda obiezione è che la revocabilità del mandato esporrebbe l’eletto al più bieco populismo. Una sorta di ostaggio permanente.
«Se gli elettori sono dei degni soggetti nel momento in cui votano, mi chiedono come cessino di esserlo nel momento in cui dichiarano sfiducia alla persona che hanno eletto».
Un’ultima domanda. Tornerà a occuparsi di politica nel futuro, o continuerà a fare l’intellettuale e a scrivere i suoi libri?
«Ma io continuo a occuparmi di politica sempre. Sono togliattianamente convinto che tutto ciò che noi facciamo è politica. Se ne siamo coscienti...».
roberto@robertocotroneo.it

l’Unità 24.10.07
La Cosa Rossa comincia (timidamente) dai gruppi parlamentari
A Mussi non basta la Federazione proposta da Prc, Pdci e Verdi. A dicembre Stati generali e alle prossime elezioni simbolo unitario
di Simone Collini


COME DAR VITA a “La Sinistra”. E in tempi rapidi. Perché il nuovo soggetto politico «unitario e plurale» dovrà essere presentato al prossimo appuntamento elettorale. Che se tutto va bene sarà un voto di tipo amministrativo. Anche se l’eventualità di altri scenari è comunque tenuta in considerazione.
Ne discuteranno questa mattina Franco Giordano, Oliviero Diliberto, Fabio Mussi e Alfonso Pecoraro Scanio. L’incontro doveva restare riservato, anche perché si tratta di un primo giro d’orizzonte sul processo unitario da realizzare e i problemi sul piatto sono tanti. Ma sull’onda dell’entusiasmo provocato dalla manifestazione di sabato la notizia è trapelata. I leader di Rifondazione comunista, Pdci, Sinistra democratica e Verdi si confronteranno soprattutto sulla forma organizzativa del nuovo soggetto. Perché se sulla necessità di accelerare i tempi sono tutti d’accordo, sull’approdo finale dell’operazione le differenze sono di non poco conto. E allora oggi i quattro si alzeranno dal tavolo concordando sulla necessità di rafforzare il coordinamento tra i gruppi parlamentari e rilanciando tutti insieme la proposta di tenere nel mese di dicembre gli stati generali della sinistra, aperti alle quattro forze politiche che guidano ma anche ad associazioni, movimenti e personalità interessate da dar vita a quella che viene chiamata (scontentando un po’ tutti i protagonisti dell’operazione) “Cosa rossa”. Ma sull’approdo finale le posizioni divergono.
Pdci e Verdi non vanno oltre l’ipotesi di dar vita a una federazione che può anche presentarsi con simbolo unitario alle elezioni ma nella quale continuano a vivere autonomamente le singole forze politiche. Il partito unico è «una strada vecchia superata dalla storia» per la capogruppo dei Verdi-Pdci al Senato Manuela Palermi. E anche Rifondazione comunista punta a quella che il segretario Franco Giordano definisce «una federazione forte tra partiti, singoli e associazioni», in cui può insomma partecipare anche chi non è iscritto a nessun soggetto fondatore.
Sinistra democratica non è contraria a «sperimentazioni e innovazioni», però ritiene che l’obiettivo finale dell’operazione non possa che essere il partito unico. Spiega la capogruppo di Sd alla camera Titti Di Salvo: «C’è un vuoto a sinistra del Partito democratico che va colmato. La risposta alla domanda che è venuta anche dalla manifestazione di sabato non è nei singoli pezzi di sinistra oggi presenti in Italia. Capisco che vista la confusa situazione attuale, con un clima che può essere di tipo preelettorale, chi ha un partito strutturato non voglia rinunciarvi. Ma la federazione non può che essere un passaggio intermedio, non l’approdo definitivo».
Le resistenze al momento appaiono però difficili da superare. Anche perché nel processo entra in gioco inevitabilmente la discussione sui simboli. Diliberto non intende rinunciare alla falce e martello, che garantisce a prescindere un pacchetto di voti, e anche Giordano sa che nel Prc ci sono le minoranze pronte alla scissione e a impossessarsene, nel caso in cui il partito decida di abbandonare il simbolo. La federazione consentirebbe di far mantenere a ognuno il proprio simbolo, ma al tempo stesso di presentarsi di fronte agli elettori con un simbolo unitario e nuovo.
Una soluzione che però per Sd può essere accettabile solo come tappa provvisoria, perché «non risponde all’esigenza di unità e semplificazione», dice Titti Di Salvo giudicando necessario un processo di «scomposizione e ricomposizione». E non è escluso che superato il congresso di primavera, che si preannuncia infuocato con le minoranze trotzkiste pronte a dar battaglia contro il processo unitario, il Prc possa lavorare per soluzioni più avanzate rispetto a quelle prospettate oggi.
Non si dovrebbe invece parlare all’incontro di oggi della proposta di aprire un tesseramento entro dicembre della “Sinistra”. Giordano l’aveva lanciata nei giorni scorsi, ma non è piaciuta a nessuno dei partner dell’operazione. «Ogni partito porterà i suoi tesserati», ha mandato a dire Diliberto. Così come non sembra raccogliere consensi la proposta lanciata ieri da Pietro Folena di dar vita a gruppi parlamentari unitari già entro Natale. «Sarebbe un bel segno, un gesto che farebbe capire che sull’unità a sinistra non si scherza», dice l’indipendente Prc. Ma al momento, dicono in ognuno dei quattro partiti interessati, oltre il coordinamento dei gruppi non si può andare.

l’Unità 24.10.07
Neonato «omosex» contro le discriminazioni
È la campagna di sensibilizzazione della Toscana. Destra all’assalto
di Vladimiro Frulletti


IN CANADA quel volto sfocato di neonato con al polso un braccialetto di riconoscimento in cui non c’è scritto Mario o Anna, ma «homosexual», era servito, la scorsa primavera, per la giornata mondiale contro l’omofobia. L’immagine l’aveva scelta la fondazione Emergence e aveva avuto il sostegno del governo del Quebec, della città di Montreal e dell’agenzia di salute canadese. La Regione Toscana, con l’assessore Agostino Fragai e il suo collaboratore Alessio De Giorgi (già presidente dell’Arcigay toscana, e che nel 2002 si unì in un Pacs all’ambasciata francese assieme al suo compagno italo-francese), ha deciso di utilizzarla per promuovere un convegno della Ready (la rete degli enti locali contro le discriminazioni) che si svolgerà venerdì e sabato a Firenze nell’ambito del festival della creatività e per una campagna (manifesti, opuscoli, pubblicità su giornali, radio e tv) contro ogni forma di discriminazione sessuale assieme al ministero delle pari opportunità (la ministra Barbara Pollastrini chiuderà la due giorni sabato pomeriggio). E infatti proprio a fianco del minuscolo polso del neonato c’è scritto che “ l’orientamento sessuale non è una scelta”. Troppo per il capogruppo dell’Udc alla Camera Luca Volonté che dando prova di un estremismo verbale poco centrista ha definito il manifesto «raccapricciante». Sollecitando così non solo il leghista Polledri che paragona la Toscana al regime fascista che faceva mettere il fez ai bambini, ma anche dell’immancabile forzista Isabella Bertolini che addirittura vede in Toscana la volontà di «affermare un modello alternativo di società, nel quale domina l’indeterminatezza sessuale».
«Nel nostro Statuto - ricorda Fragai - sono enunciati principi antidiscriminatori. Li stiamo mettendo in pratica, come nel caso della legge contro le discriminazioni sessuali». E sia il deputato Fausto Grillini che il presidente dell’Arcigay Aurelio Mancuso chiedono al resto d’Italia di prendere esempio dalla Toscana.

l’Unità 24.10.07
Ottobre, 90 anni e li dimostra tutti
di Bruno Gravagnuolo


Nostalghija Più che «canaglia», nostalgia «anticaglia», quella che Dilberto e il Pdci mostrano per l’anniversario del 7 novembre 1917, con viaggio e convivio a Mosca e Leningrado e discorso comune con Zyuganov, «accanto» e non proprio sulla Piazza rossa. Infatti non è vero come suona lo slogan Pdci che «la Rivoluzione d’Ottobre ha 90 anni e non li dimostra». Li dimostra tutti eccome! Intanto perché se quel mondo s’è sbriciolato così, qualche problemino doveva pur esserci sin dall’inizio. E poi perché sin dall’inizio quel modello militare e totalitario di Rivoluzione ha comportato costi immensi. Con la follia del comunismo di guerra e la guera civile (non solo colpa dei «bianchi»). La subordinazione integrale del movimento operaio alla Chiesa moscovita. I contraccolpi fascisti al settarismo cominternista. Il partito giacobino base del partito staliniano. La collettivizzazione e i crimini di massa. Certo l’Ottobre fu anche liberazione, spinta propulsiva anticoloniale. Peraltro reso «inevitabile» dall’impotenza e dall’insipienza borghese, menscevica e quant’altro. E anche dalla carneficina imperialista europea. E tuttavia, oggi, come si può ancora farne un pilastro ideologico, un «modello» positivo, benché poi Diliberto protesterà che lui non ha modelli di sorta? Suvvia compagni del Pdci, un po’ di revisione, farebbe bene al vostro «comunismo». Almeno un po’! Sennò finite in formalina... e senza gli onori alla mummia di Lenin.
Disinformatia Ma c’è anche un revisionismo cattivo. Fatuo e disinformato. Come quello di cui dà prova Piero Craveri sul Il Sole24Ore. Che nel recensire trionfalisticamente l’ultimo pamphlettone di Pansa si compiace di arcinote e trite banalità. Tipo, il Pci coltivava scenari di rivoluzione violenta: «c’è oggi una documentazione inconfutabile»(sic). Oppure: Secchia bloccò tutti i tentativi di bloccare gli illegalismi nel «triangolo rosso». O ancora: l’antifascismo ha ormai perso la battaglia egemonica e storiografica. Pure frottole, specie l’ultima. Non solo infatti non è passato il tentativo di spezzare il nesso antifascismo-Costituzione. Ma c’è tutta una nuova storiografia antifascista che tiene il campo a meraviglia. E finché gli assalti sono quelli di Pansa e Craveri...

l’Unità 24.10.07
Templari: la Chiesa ora dice «Il Papa non li condannò»
di Roberto Monteforte


I MONACI-GUERRIERI sono stati sterminati per ragioni politiche e non perché eretici o blasfemi. È questa la verità che affiora, dopo oltre 700 anni, dagli atti del processo e, in particolare, da un documento inedito: il «manoscritto di Chinon»

I Templari, i monaci-guerrieri, gli asceti con la spada che fondati dal nobile francese Hugues de Payns agli inizi dell’anno 1100 hanno difeso i luoghi di Terrasanta, proteggendo armi in pugno i pellegrini cristiani dai guerrieri della mezza luna, sono stati vittime di un processo farsa.
La confraternita dei «Poveri cavalieri di Cristo», votati a Dio e al martirio, nati con la prima Crociata a difesa del regno di Gerusalemme e sempre in prima linea con il loro stendardo bianconero, il mantello bianco e la croce rossa sulla spalla sinistra, che devono il loro nome per avere avuto a Gerusalemme nei pressi della spianata del Tempio di Salomone, la loro sede, sono stati sterminati per ragioni politiche. O meglio, economiche e non perché eretici o blasfemi. E soprattutto senza l’avallo del pontefice di allora, Papa Clemente V.
Il pontefice francese che viveva con la sua corte ad Avignone, non li considerò affatto eretici. Cercò sino alla fine di salvarli dalle mani dell’Inquisizione francese. Perché è stato il sovrano di Francia, Filippo IV il Bello che mirava ad impossessarsi delle loro ricchezze, a volerne lo scioglimento, la messa al bando, ad ordinarne la persecuzione senza prove. Anche contro il Papa che, se ne ordinò lo scioglimento d’autorità, lo fece per evitare che arrivasse la «condanna» ufficiale del sovrano. Così i Templari, che riconoscevano soltanto l’autorità del Papa e di nessuna altra autorità ecclesiastica, si trovaroro senza protezione. Il pontefice, però, non li assolve pubblicamente. Non può compromettere i rapporti tra la Santa Sede e la Francia. Prevale la ragion di Stato.
È questa la verità emersa dalla pubblicazione dei documenti conservati nell’Archivio segreto del Vaticano, quegli atti «Processus contra templarus», e in particolare il «manoscritto di Chinon», inedito, scoperto nel settembre 2001 dalla studiosa dell’Archivio vaticano, Barbara Frale: una pergamena che ripropone l’assoluzione concessa per autorità del Papa a Jacques de Molay, il Gran Maestro dell’Ordine e ai maggiori dignitari del Tempio fatti rinchiudere dal re di Francia nelle prigioni del castello di Chinon. In quella prigione si recarono alcuni messi di Clemente V per interrogare i Templari. Era il 20 agosto 1308. L’accusa di eresia venne derubricata a quella di apostasia. Un’assoluzione che non salvò loro la vita. Filippo il Bello dopo poco li condannerà al rogo.
Sono documenti preziosi che verrano presentati domani presso l’Aula vecchia del Sinodo dal cardinale Raffaele Farina, archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa, dal prefetto dell’Archivio segreto, monsignor Sergio Pagano, e dalla ricercatrice Barbara Frale, il suo collega Marco Maiorino, dal medievalista Franco Cardini, l’archeologo Valerio Massimo Manfredi e Ferdinando Santoro, presidente di Scrinium che pubblica l’opera.
Così dopo sette secoli dalla loro persecuzione vengono alla luce gli atti della causa che portò allo scioglimento dei Templari, l’ordine cavalleresco la cui regola era stata dettata da san Bernardo di Chiaravalle, fondatore dei cistercensi, dei «frati votati a uccidere», dei valorosi guerrieri di élite che obbedivano solo al Papa dopo aver fatto voto di povertà, castità e obbedienza. L’ordine che sino al 1312 è stato il più forte, temuto e ricco della cristianità per la tante donazioni, proprio per questo venne fatto oggetto di menzogne, intrighi e stragi. Subì un processo farsa. Le accuse di essere stati cultori di esoteriche pratiche iniziatiche, di «essere sedotti dall’Islam» o di subire «l’eresia catara» sarebbero stati pretesti. Non furono colpiti per questo.
Furono oggetto di invidie, appetiti e gelosie. La svalutazione pesava sul regno di Francia che era vicino alla bancarotta per le spese sostenute nella guerra con l’Inghilterra. Vi furono sommosse popolari a Parigi. Il re Filippo IV trovò rifugio presso la fortezza dell’Ordine al Marais. Ebbe così modo di vedere le loro grandi ricchezze. Partì l’offensiva verso i Templari del sovrano. Con l’obiettivo di appropriarsi di quel tesoro e al tempo stesso limitare il potere della Chiesa, degli ordini religiosi e del papato già iniziata con la sua guerra a Bonifacio VIII. Il re riuscì a far eleggere al soglio di Pietro il francese Clemente V che trasferì la sua corte ad Avignone. Il sovrano avrebbe voluto dominare il pontefice, ma sui Templari l’azione non riuscì. Benchè iniziò veemente la campagna diffamatoria contro di loro orchestrata dagli inquisori fedeli al re. Le accuse erano quella di eresia, di vergognosa condotta morale, di promiscuità, sodomia e corruzione.
Si è molto fantasticato su questo ordine. Storie di intrighi e misteri. I Templari sono stati dipinti come i detentori del «Santo Graal», come gli adoratori del Baphomet (immagine dell’androgino con testa di caprone sormontato da un pentacolo, la stella a cinque punte), come dententori di segreti esoterici, come una setta iniziatica direttamente collegata alla moderna massoneria.
Tutte leggende ottocentesche secondo autorevoli esperti come il professor Cardini. Quello che è certo è che i Templari non obbedivano a nessuna altra autorità ecclesiastica. Che i giovani aristocratici di tutta l’Europa cristiana aspiravano a farvi parte. Che furono una vera potenza. Che avevano l’ambizione di raggruppare gli altri ordini cavallereschi per organizzare una nuova Crociata.
Cinque anni dal 1308 al 1313 durò il processo che subirono sotto l’Inquisizione francese. Il Gran Maestro, Jacques de Molay che era in Palestina a organizzare la Crociata tornò in Francia per difendersi da tali accuse. Fu arrestato come altre centinaia di Templari. Tutti vennero imprigionati, interrogati e sottoposti a tortura affinchè confessassero le loro colpe. Il Papa si rifiutò di avvallare quelle confessioni estorte e di ratificare quel verdetto. Era l’anno 1313. Prima, questa la sua condizione, avrebbe dovuto lui stesso interrogare il Grande maestro. La cosa avvenne attraverso tre suoi delegati. Si arrivò al proscioglimento dei Templari.
È questa la grande novità emersa dal lavoro di ricerca della storica Barbara Frale effettuata sugli Archivi segreti custoditi in Vaticano. Sono state ritrovate le pergamene che riproducono i verbali degli interrogatori e la loro trascrizione per sommi capi che alla fine condussero al loro proscioglimento dall’accusa di eresia, ma non da quella di sconveniente condotta morale. L’accusa più grave riguardava il rito iniziatico per i giovani postulanti. Dovevano «rinnegare Cristo» e oltraggiare la Croce sputandoci sopra dietro l’altare. Ma vi sarebbe anche una spiegazione per questi rituali: il neofita veniva sottoposto alle possibili angherie che avrebbe subito se fosse finito prigioniero degli infedeli. Alla fine arrivò il perdono del Papa per le «pratiche immorali», ma non certo quello di Filippo il Bello che mirava a mantenere le loro ricchezze. Con l’inganno fece arrestare il Gran Maestro e gli altri dignitari dell’Ordine che condotti sull’isoletta della Senna furono condannati e bruciati sul rogo. Ragioni politiche, la minaccia di uno scisma della chiesa di Francia portarono Clemente V a tacere e a sciogliere l’Ordine. A negare loro protezione. Ma oggi le carte venute alla luce ridanno onore ai cavalieri del Tempio di Salomone.

Repubblica 24.10.07
Religione, il dogma in aula un'ora che vale un miliardo
di Curzio Maltese


L´insegnamento in classe è la seconda voce di finanziamento dello Stato
Sono infinite le diatribe legali intorno al "regalo" del posto fisso ai docenti
La Spagna studia la revisione degli accordi con la Chiesa, in Italia non se ne parla

L´ultimo dato ufficiale (2001) parla di 650 milioni di stipendi agli insegnanti ma nel frattempo sono diventati più di 25000, dei quali 14mila di ruolo

L´ultima ondata di bullismo nelle scuole ha convinto il governo a istituire dal prossimo anno due ore di educazione civica obbligatoria, chiamata Cittadinanza e Diritti Umani, in ogni ordine d´insegnamento, dalle materne ai licei. Durissima la protesta dei vescovi, che hanno parlato di «catechismo socialista» e invitato le associazioni di insegnanti e genitori cattolici a scendere in piazza e avvalersi dell´obiezione di coscienza.
Il presidente del consiglio ha risposto in televisione che, nel rispetto totale della maggioranza cattolica del paese, la laicità dello Stato resta un valore fondante della democrazia e l´educazione civica non è né può essere in competizione con l´ora facoltativa di religioni (cattolica come ebraica, islamica o luterana) già prevista nei programmi. Il premier ha aggiunto di voler confermare i tagli ai finanziamenti delle scuole private cattoliche e non, definiti «un ritorno alla legalità costituzionale» rispetto alla politica del precedente governo di destra.
A questo punto forse il lettore si sarà domandato: ma dov´ero quando è successo tutto questo? In Italia. Mentre la vicenda naturalmente si è svolta altrove, nella Spagna del governo Zapatero, otto mesi fa. Il braccio di ferro fra stato laico e vescovi è andato avanti e oggi il governo spagnolo studia addirittura una revisione del Concordato del 1979. Una realtà lontana da noi. Nelle scuole italiane, più devastate dal bullismo di quelle spagnole, l´ora di educazione civica è abolita nelle primarie e quasi inesistente nelle superiori. Lo Stato in compenso si preoccupa di tutelare il più possibile l´ora di religione, al singolare: cattolica. Quanto ai finanziamenti alle scuole private cattoliche, in teoria vietati dall´articolo 33 della Costituzione («Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato»), l´attuale governo di centrosinistra, con il ministro Fioroni all´Istruzione, è impegnato al momento a battere i record di generosità stabiliti ai tempi di Berlusconi e Letizia Moratti.
L´ora facoltativa di religione costa ai contribuenti italiani circa un miliardo di euro all´anno. E´ la seconda voce di finanziamento diretto dello Stato alla confessione cattolica, di pochi milioni inferiore all´otto per mille. Ma rischia di diventare in breve la prima. L´ultimo dato ufficiale del ministero parla di 650 milioni di spesa per gli stipendi agli insegnanti di religione, ma risale al 2001 quando erano 22 mila e tutti precari. Ora sono diventati 25.679, dei quali 14.670 passati di ruolo, grazie a una rapida e un po´ farsesca serie di concorsi di massa inaugurati dal governo Berlusconi nel 2004 e proseguita dall´attuale.
Il regalo del posto fisso agli insegnanti di religione è al centro d´infinite diatribe legali. Per almeno due ordini di ragioni. La prima obiezione è di principio. L´ora di religione è un insegnamento facoltativo e come tale non dovrebbe prevedere docenti di ruolo. Per giunta, gli insegnanti di religione sono scelti dai vescovi e non dallo Stato. Ma se la diocesi ritira l´idoneità, come può accadere per mille motivi (per esempio, una separazione), lo Stato deve comunque accollarsi l´ex insegnante di religione fino alla pensione.
L´altra fonte di polemiche è la disparità di trattamento economico fra insegnanti «normali» e di religione. A parità di prestazioni, gli insegnanti di religione guadagnano infatti più dei colleghi delle materie obbligatorie. Erano già i precari della scuola più pagati d´Italia. Nel 1996 e nel 2000, con due circolari, i governi ulivisti avevano infatti deciso di applicare soltanto agli insegnanti di religione gli scatti biennali di stipendio (2,5 per cento) e di anzianità previsti per tutti i precari della scuola da due leggi, una del 1961 e l´altra del 1980. Il vantaggio è stato confermato e anzi consolidato con il passaggio di ruolo, a differenza ancora una volta di tutti gli altri colleghi. L´inspiegabile privilegio ha spinto prima decine di precari e ora centinaia di insegnanti di ruolo di altre materie a promuovere cause legali di risarcimento. Nel caso, per nulla remoto, in cui le richieste fossero accolte dai tribunali del lavoro, lo Stato dovrebbe sborsare una cifra valutabile fra i due miliardi e mezzo e i tre miliardi di euro.
A parte le questioni economiche e legali, chiunque ricordi che cos´era l´ora di religione ai suoi tempi e oggi chiunque trascorra una mattinata nella scuola dei figli non può evitare di porsi una domanda. Vale la pena di spendere un miliardo di euro all´anno, in tempi di tagli feroci all´istruzione, per mantenere questa ora di religione? Uno strano ibrido di animazione sociale e vaghi concetti etici destinati a rimanere nella testa degli studenti forse lo spazio d´un mattino. Pochi cenni sulla Bibbia, quasi mai letta, brevi e reticenti riassunti di storia della religione.
In Europa il tema dell´insegnamento religioso nelle scuole pubbliche è al centro di un vivace e colto dibattito, ben al di sopra delle vecchie risse fra clericali e anticlericali. Nello stato più laico del mondo, la Francia, il regista Regis Debray, amico del Che Guevara e consigliere di Mitterrand, a suo tempo ha rotto il monolitico fronte laicista sostenendo l´utilità d´inserire nei programmi scolastici lo studio della storia delle religioni. In Gran Bretagna la teoria del celebre biologo Roger Dawkins ( «L´illusione di Dio»), ripresa dallo scienziato Nicholas Humprey, secondo il quale «l´insegnamento scolastico di fatti non oggettivi e non provabili, come per esempio che Dio ha creato il mondo in sei giorni, rappresenta una violazione dei diritti dell´infanzia, un vero abuso», ha suscitato un ricco dibattito pedagogico. Ma è un fatto, sostiene Dawkins, che «noi non esitiamo a definire un bambino cristiano o musulmano, quando è troppo piccolo per comprendere questi argomenti, mentre non diremmo mai di un bambino che è marxista o keynesiano, Con la religione si fa un´eccezione». In Germania, Spagna, perfino nella cattolicissima Polonia di Karol Woytjla, il dibattito non si è limitato alle pagine dei giornali ma ha prodotto cambiamenti nelle leggi e nei programmi scolastici, come l´inserimento di altre religioni (Islam e ebraismo, per esempio) fra le scelte possibili o la trasformazione dell´ora di religione in storia delle religioni comparate, tendenze ormai generali nei sistemi continentali.
In Italia ogni timido tentativo di discussione è stroncato sul nascere da una ferrea censura. L´ora di religione cattolica è un dogma. La sola ipotesi di affiancare all´ora di cattolicesimo altre religioni, come avviene in tutta Europa con le sole eccezioni di Irlanda e dell´ortodossa Cipro, procura un immediata patente di estremismo, anticlericalismo viscerale, lobbismo ebraico o addirittura simpatie per Al Quaeda. Quanto ad abolirla, come in Francia, è un´ipotesi che non sfiora neppure le menti laiche. Gli unici ad avere il coraggio di proporlo sono stati, come spesso accade, alcuni intellettuali cattolici. Lo scrittore Vittorio Messori, per esempio: «Fosse per me cancellerei un vecchio relitto concordatario come l´attuale ora di religione. In una prospettiva cattolica la formazione religiosa può essere solo una catechesi e nelle scuole statali, che sono pagate da tutti, non si può e non si deve insegnare il catechismo. Lo facciano le parrocchie a spese dei fedeli… Perciò ritiriamo i professori di religione dalle scuole pubbliche e assumiamoli nelle parrocchie tassandoci noi credenti». Messori non manca di liquidare anche gli aiuti di Stato alle scuole cattoliche, negati per mezzo secolo dalla Democrazia Cristiana, inaugurati con la legge 62 del 10 marzo 2000 dal governo D´Alema con Berlinguer all´Istruzione, dilagati nel periodo Berlusconi-Moratti (con il trucco dei «bonus» agli studenti per aggirare la Costituzione) e mantenuti dall´attuale ministro Fioroni, con giuramento solenne davanti alla platea ciellina del meeting di Rimini. «Lo Stato si limiti a riconoscere che ogni scuola non statale in più consente risparmio di danaro pubblico e di conseguenza conceda sgravi fiscali. Niente di più».
Il cardinale Carlo Maria Martini, da arcivescovo di Milano, aveva dichiarato che l´ora di religione delle scuole italiane doveva ritenersi inutile o anche «offensiva», raccomandando di raddoppiarla e farne una materia seria di studio oppure lasciar perdere.
La Cei ha sempre risposto che l´ora di religione è un successo, raccoglie il 92 per cento di adesioni, a riprova delle profonde radici del cattolicesimo in Italia. Ma se la Cei ha tanta fiducia nei fedeli non si capisce perché chieda (e ottenga dallo Stato) che l´ora di religione sia sempre inserita a metà mattinata e mai all´inizio o alla fine delle lezioni, come sarebbe ovvio per un insegnamento facoltativo. Perché chieda (e sempre ottenga) il non svolgimento nei fatti dell´ora alternativa. In molte materne ed elementari romane ai genitori è stato comunicato che i bambini di 5 o 6 anni non iscritti all´ora di religione «potevano rimanere nei corridoi». Prospettiva terrorizzante per qualsiasi madre o padre. D´altra parte la sicurezza ostentata dai vescovi si scontra con l´allarme lanciato nella relazione della Cei dell´aprile scorso sul progressivo abbandono dell´ora di religione, con un tasso di rinuncia che parte dal 5,4 delle elementari e arriva al 15,4 per cento delle superiori (con punte del 50 non solo nelle regioni «rosse» come la Toscana o l´Emilia-Romagna ma anche in Lombardia e nelle grandi città), man mano che gli studenti crescono e possono decidere da soli.
Alla fine nessun argomento ufficiale cancella il dubbio. L´ora di religione, così com´è, costituisce davvero un insegnamento del catechismo («che in ogni caso ciascuno si può portare a casa con poche lire» ricordava don Milani) o non piuttosto un altro miliardo di obolo di Stato a san Pietro?
(Hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)

Repubblica 24.10.07
La bocciatura del giurista: "Il Concordato è incostituzionale"


Il governo socialista di Josè Luis Zapatero, dopo aver eliminato molti privilegi fiscali alla Chiesa e i finanziamenti alle scuole cattoliche, studia una revisione del concordato del 1979, nell´ipotesi che si tratti di un accordo incostituzionale. E in Italia? «Sarebbe l´ora di discutere anche da noi l´incostituzionalità del concordato». E´ l´opinione di uno dei massimi esperti di diritto ecclesiastico, il professor Sergio Lariccia.
La costituzione italiana, a differenza della francese, non cita espressamente la laicità come valore supremo.
«E´ vero. Ciò non toglie che la laicità dello Stato sia un requisito fondamentale della democrazia, come ha stabilito una sentenza della Consulta nel 1989. Un ordinamento o è laico o non è democratico. Io non penso sia attuabile in Italia un regime separatista come in Francia, ma pretendo che si rispetti la libertà religiosa, pilastro della democrazia».
In Italia non c´è libertà religiosa?
«No. Non è garantito il principio di laicità delle istituzioni. Non è garantita l´eguale libertà delle confessioni davanti alla legge perché la cattolica è più eguale delle altre. Uno stato di privilegio che viola non soltanto la nostra Costituzione ma perfino il Concilio Vaticano II e la costituzione conciliare Gaudium et Spes. Con la revisione dell´84 che ha accolto in gran parte il Concordato fascista del ‘29 non sono garantite le libertà di religione e verso la religione di moltissimi italiani, credenti e non…».
Tutto deriva dal Concordato?
«Noi continuamo a parlare di rapporto fra stato e chiesa e non "chiese", ora di religione e non "di religioni". Siamo l´ultimo stato confessionale fra le democrazie».
(c.m.)


il manifesto 24.10.07
Mussi: «Sul 20 ottobre ho sbagliato»
Fabio Mussi: dalla manifestazione una richiesta di unità che mette in mora noi dirigenti. Iniziamo subito con gruppi parlamentari unici, poi modello social forum. La leadership verrà dopo
intervista di Matteo Bartocci e Gabriele Polo


«Può succedere di tutto. Chi riesce a far cadere ora il governo farebbe strike». Fabio Mussi, coordinatore di Sinistra democratica, è appena tornato da Bolzano e quando lo incontriamo lo attende un difficilissimo consiglio dei ministri. E' ben concreta la possibilità che lo scontro tra Mastella e Di Pietro sul «caso De Magistris» porti alla crisi. «Stiamo come d'autunno sugli alberi le foglie», cita Ungaretti.
Chi può avere interesse a far cadere ora il governo?
Le ragioni possono essere le più diverse. Nel merito, c'è la finanziaria e il protocollo sul welfare. C'è un quadro internazionale dove si sta riacutizzando la crisi in Iran e Medio Oriente e dove l'Italia è in prima linea. E infine c'è un centrosinistra in cui non sono riusciti a consolidarsi né il Pd né la sinistra.
Per fortuna, forse, c'è stata la manifestazione di sabato.
Devo essere onesto. Alla vigilia ho espresso timori che poi la manifestazione ha del tutto fugato. Temevo che il corteo potesse «sfuggire di mano», con un'aggressività verso il governo e verso la Cgil che poteva mettere in difficoltà la sinistra invece di aiutarla. Non ho mai dubitato delle intenzioni dei promotori, del resto tra noi c'è stato un vero dialogo, ma i miei timori si sono rivelati infondati. La manifestazione è stata bella, ampia e soprattutto politicamente forte. Mi hanno impressionato soprattutto le parole prese al volo tra i manifestanti. C'era davvero un'intelligenza politica di massa, senza nessuna dichiarazione stonata. Di fatto quel corteo ha detto tre cose: che la precarietà è la questione delle questioni, che il governo - ammesso che duri - deve ripartire dal suo programma, che c'è una forte domanda politica di unità a sinistra. Su questo, soprattutto, c'è stato «un di più», un'eccedenza, sia rispetto ai partiti che ai promotori.
Non è proprio su questo «di più» che siamo tutti inadeguati?
Assolutamente sì. Bisogna tornare alla realtà. Si dice riformismo ma poi si fa il contrario. Si rappresenta la flessibilità come una grande opportunità sapendo che significa esattamente il contrario. Nel linguaggio e nelle ideologie che corrono c'è il marchio di un'egemonia che subiamo.
Si ma come traduci questo discorso politicamente? Tu stesso hai votato, con riserva, il protocollo sul welfare.
Ho dato un giudizio articolato. Sulla parte previdenziale era un buon compromesso. Mentre è del tutto insoddisfacente, al di là di qualche miglioramento, la parte sul lavoro. E' evidente che la distanza siderale tra la dimensione drammatica della precarietà e le soluzioni proposte ha allargato il fiume della delusione.
Tu stesso hai definito quella di sabato una bella manifestazione. Nella Cgil si è aperta una riflessione su chi, della Fiom, ha partecipato. Che ne pensi?
Rispetto la dialettica interna al sindacato. Una sinistra che nasce non può prescindere dal rapporto con il sindacato. Io stesso vengo da una famiglia operaia. A casa mia erano tutti della Fiom. Mi auguro che questa discussione anche aspra non porti a una rottura. Spero che si trovi la strada per difendere l'assetto confederale del sindacato. La confederalità è il contrario del comando, ma guarda all'unità ed è un valore, non è che ognuno fa quello che vuole.
Pensi che il protocollo possa essere migliorato?
Faremo il possibile per migliorarlo, certo. Il sindacato è fondamentale per la democrazia. Ma discutere di politica economica e del lavoro non si esaurisce in una vertenza contrattuale. Si parla di un'idea di società, in cui la politica non può essere considerata un'indebita ingerenza. In questo caso la rappresentanza del lavoro non si esaurisce nel sindacato, ha bisogno di politica. Per la Costituzione il parlamento è sovrano. Tutto quello che si può fare a favore dei lavoratori deve essere guardato con simpatia e rispetto. Il sistema delle autonomie tra politica e sindacato, insomma, deve funzionare nei due versi.
E se ci fosse la fiducia?
Comunque vadano le cose il governo non deve cadere da sinistra. Va evitato come la peste.
Ma questa sinistra come può essere più credibile?
Il corteo ha detto ai quattro partiti della sinistra: fateci partecipare e datevi una mossa. Di unire le forze il Pd parla da 12 anni. Noi per farlo abbiamo non dico 12 mesi ma molto molto meno. Perciò dobbiamo essere coraggiosi e innovativi. Capisco che un passaggio «federale» possa essere considerato insufficiente ma naturalmente dobbiamo fare ciò che è possibile. Penso però che un gruppo parlamentare unico alla camera e al senato sarebbe un segnale positivo, molto visibile e molto incisivo. Del resto, sulla finanziaria abbiamo fatto un lavoro comune eccellente, abbiamo fatto sfigurare il Pd, che ha presentato il triplo di emendamenti.
Ma vanno sciolti i partiti che ci sono oppure no?
Noi non abbiamo voluto fare un nuovo partito. Alla sola idea di passare la vita a contendere a Pdci, Prc e Verdi lo 0,2% mi butto dalla finestra. La nostra funzione è dare una mano: solve et coagula, diceva Alex Langer nel suo ultimo libro. Sciogliere e riaggregare. Però sono un gradualista, faremo quello che è possibile fare sapendo che tutto dipende da noi. La manifestazione del 20 è stata chiarissima, ci ha aiutato. Ho visto che perfino il Pd ha timore di essere un «partito liquido» e senza iscritti. La nuova sinistra, se vuole avere una prospettiva di governo, deve essere qualcosa di solido, di radicato nella società, di pesante.
Qual è la prima mossa?
Domani (oggi per chi legge, ndr) ci vediamo con Giordano, Diliberto e Pecoraro. L'idea è convocare a metà dicembre gli stati generali della sinistra. Qualcosa di simile a un «social forum», dove si incontrino non solo le quattro forze politiche ma un campo di forze vastissimo, che va al di là della forza pur non irrilevante, intorno al 12-13%, dei pariti che ci sono. Una sinistra divisa non rappresenta più la società. Unificarla corrisponde alla vocazione di centinaia di migliaia di persone, che ritengono inimmaginabile che la sinistra scompaia dal lessico politico italiano. Serve però una sinistra più avanzata, che risponda ai problemi del XXI secolo. Ricombinare gli schemi del passato non funziona. La memoria è nostra ma i problemi sono nuovi.
Questa sinistra non ha anche un problema di leadership?
Non mettiamo il carro davanti ai buoi. C'è bisogno di un processo molto partecipato la cui chiave siano i programmi e le idee. Concordo con Giordano, se ci buttiamo alla contesa sulla leadership come il Pd siamo perduti. Nessuno di noi cerca primati personali, di personalizzazione della politica ce n'è fin troppa.
Prima del 20 ottobre si è vociferato di tue possibili dimissioni da coordinatore di Sd. Resti alla guida del movimento?
E' vero. Abbiamo avuto una discussione molto animata sul protocollo, sulla condotta da tenere in consiglio dei ministri e sulla manifestazione. E' una discussione che prosegue. Sì, sono ancora il coordinatore.

il manifesto 24.10.07
Quando la sicurezza è da paura
di Giuliano Pisapia


Spero che, almeno questa volta, abbia prevalso la saggezza e non motivi che nulla hanno a che vedere con la giustizia! Il pacchetto sicurezza non è stato (ancora) approvato e, forse, vi è la possibilità di un ripensamento e di una maggiore ragionevolezza. Può essere utile, allora - per memoria di chi l'ha persa - ricordare alcuni passi del programma, approvato all'unanimità da tutti i partiti dell'Unione: «la giustiza penale ha urgente bisogno di riforme che riafferimino il princìpi costituzionali di eguaglianza, della funzione rieducativa della pena e del giusto processo; bisogna garantire una giustizia celere, assicurare a tutti (parti offese e imputati) il diritto di difesa, prevedere pene diverse da quelle carcerarie, finalizzate anche al risarcimento dei danni o ad elidere le conseguenze dannose del reato; priorità assoluta deve essere il contrasto alla criminalità organizzata, che mina le basi della nostra Repubblica e ostacola lo sviluppo di large porzioni del territorio». Ognuno di questi obiettivi era accompagnato da precise, e concrete, proposte che, se approvate, avrebbero dato una svolta alla giustizia penale (e civile) del nostro paese e una risposta anche alla compresibili, e condivisibile, richiesta di sicurezza dei cittadini.
Ebbene, nulla (o, meglio, ben poco) di ciò che è stato discusso ieri dal Consiglio dei Ministri ha avuto come punto di riferimento il programma votato dagli elettori. Non si contesta, sia chiaro, la necessità della doverosa lotta al crimine e alla criminalità. Si contesta il fatto che, invece di abolire la Bossi-Fini o la legge contro i tossicodipendenti; invece di difendere con tutte le forze una legge, come la Gozzini, che ha permesso il reinserimento di oltre 700 mila persone (che, altrimenti, avrebbero contiuato a delinquere), si pensa (forse neppure credendoci) di risolvere problemi reali con misure che non potranno che aggravarli. Porre ulteriori paletti alla Simeoni-Saraceni significa mandare in carcere migliaia di persone - oggi libere in quanto giudicate non pericolose - prima che il Tribunale di Sorveglianza decida se siano meritevoli, o meno, di misure alternative alla detenzione (che è cosa ben diversa dalla impunità). Negare, come pure prevede il pacchetto sicurezza, il patrocinio ai non abbienti imputati di determinati reati, significa a negare il diritto di difesa ai più poveri e, e soprattutto, aumentare il già vergognoso numero di errori giudiziari. Rendere di fatto obbligatoria la custodia cautelare per alcuni specifici reati sarebbe un inaccettabile ritorno a un passato (fascista) e porterebbe all'incarcerazione di migliaia di innocenti. E che dire del potere di espulsione dei prefetti per motivi di «pubblica sicurezza»?. Non più l'esilio o la deportazione, ma una discrezionale, e arbitraria, espulsione, senza alcuna garanzia giurisdizionale, anche per chi partecipa a una pacifica manifestazione. E come non ricordare la dura lotta dell'intero centrosinistra contro i nuovi poteri di polizia dei sindaci arrogantemente voluta, nella scorsa legislatura, dal centrodestra? Se, infine, si aumentassero le pene per chi vende merce contraffatta o occupa il suolo pubblico (zingari, lavavetri, non certo esercenti di discariche abusive) l'involuzione democratica finirebbe col risschiare di essere irreversibile. Certo, non possiamo e non vogliamo negarlo. Vi sono state proposte condivisibili: tra queste, le nuove attribuzioni al procuratore azionale antimafia; gli interventi proposti per gli omicidi colposi causati da guidatori ubriachi; i processi immediati, senza limitare le garanzie, per chi si trova in stato di arresto (un vantaggio per gli innocenti e per le parti offese). Bisogna però essere consapevoli che anche norme giuste finiscono per essere neutralizzate da leggi demagogiche, schizofreniche, inefficaci e controproducenti. Ben venga, quindi, il rinvio, purché la riflessione porti ragionevolezza e non solo polemiche strumentali, che nulla hanno a che vedere con la giustizia.

il manifesto 24.10.07
Israele. La comunità immaginata del popolo senza stato
di Enzo Traverso


Un saggio ammirevole per l'onestà intellettuale con cui affronta un tema tanto delicato e controverso «Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia» di Idith Zertal per Einaudi

Esiste una vasta letteratura sull'uso politico che Israele ha fatto, nel corso degli anni, della memoria della Shoah. La storica israeliana Idith Zertal vi dedica ora un importante saggio, ammirevole per la chiarezza, la lucidità e l'onestà intellettuale con cui affronta un tema tanto delicato e controverso (Israele e la Shoah. La nazione e il culto della tragedia, Einaudi, pp. 253, euro 22). In fondo, sostiene Zertal, Israele e la Shoah sono indissociabili. Non soltanto perché lo Stato ebraico è nato, nel 1948, in virtù di un accordo fra le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale teso a «risarcire» gli ebrei per lo sterminio subito ad opera del nazismo. Non soltanto, quindi, perché la Shoah costituisce la premessa e il retroterra storico di Israele, ma anche e soprattutto perché ne ha accompagnato la vicenda, durante sessant'anni, come sottofondo costante, più o meno esplicitamente riconosciuto, di tutte le scelte dei suoi dirigenti. Israele, spiega Zertal, è l'erede della Shoah, non foss'altro per il fatto di aver offerto un rifugio ad alcune centinaia di migliaia di superstiti del genocidio nazista.
Nel corso degli anni, tuttavia, esso ha ridefinito la sua identità facendosi di volta in volta rappresentante, difensore e, in ultima istanza, redentore delle vittime dell'Olocausto. L'evento tragico che ne ha permesso la nascita è diventato la sua principale giustificazione storica e, una volta inscritto nel disegno provvidenziale del suo messianismo, il pretesto inattaccabile costantemente invocato per legittimarne gli atti sia politici che militari. L'Olocausto, in altre parole, è stato oggetto di una costruzione della memoria che ne ha fatto la matrice di una religione politica: il nazionalismo israeliano.
Il cemento della nazione
La memoria della Shoah è il cemento di una nazione ebraica in costruzione permanente, formata da gruppi diversi, provenienti sia dall'Europa che dall'Africa del Nord e dal Medio Oriente, e circondata da un mondo arabo ostile. Non la memoria incarnata dai superstiti dei campi della morte, fatta di ricordi individuali e singolari, ma una narrativa nazionale, elaborata dai vari governi che si sono succeduti alle redini dello Stato nel corso degli anni, sia quelli laburisti che quelli diretti dal Likud: questa memoria, sostiene Zertal evocando Benedict Anderson, è stata e continua ad essere il fulcro di una «comunità immaginata» la quale riesce in tal modo a trascendere la brevità della propria esistenza e l'eterogeneità della propria composizione.
L'incorporazione di questo passato in seno alla memoria israeliana non è stata, a dire il vero, immediata. Durante gli anni Cinquanta, quando il trauma del genocidio era ancora recente e i sopravvissuti costituivano una parte cospicua della società israeliana, la Shoah era assente dal discorso ufficiale. Un'elaborazione del lutto silenziosa coesisteva con la rimozione pubblica. Riaffermando uno stereotipo dell'ideologia sionista, Ben-Gurion dichiarava allora che la storia ebraica si era interrotta nel 135 d.C., quando i romani avevano sedato la rivolta di Bar Kochba, ed era ripresa soltanto con la fondazione di Israele. Popolo senza Stato, gli ebrei diventavano così, hegelianamente, «popolo senza storia». La palingenesi sionista restituiva agli ebrei la loro dignità nazionale perduta nei secoli. Israele sorgeva in rottura radicale con la diaspora, luogo di umiliazione, persecuzione e svilimento dei caratteri nazionali ebraici; si presentava come alternativa necessaria all'«esilio», il Galut, vera e propria malattia ebraica. L'israeliano, l'«ebreo nuovo», era un colono, un agricoltore e un combattente, non più un perseguitato. Il nuovo Stato non voleva apparire come rappresentante di un popolo di vittime e non si riconosceva nelle figure scheletriche dei sopravvissuti. In sintonia con gli stereotipi nazionalisti del tempo, i suoi figli dovevano essere fieri, sportivi, muscolosi. Occorreva quindi «inventare» una tradizione che, salvando alcuni momenti salienti della storia ebraica, potesse espungerli dalla diaspora per annetterli al panteon di un'epopea nazionale incarnata dal sionismo. Così i profughi dell'Exodus, la nave carica di superstiti dei campi nazisti, sballottata per mesi tra mare e terra prima di raggiungere la Palestina, dopo aver vinto l'opposizione britannica allo sbarco, furono trasformati in combattenti ed eroi che, a prezzo d'innumerevoli sacrifici, avevano mostrato la via di una rinascita nazionale. Così la rivolta del ghetto di Varsavia, nella primavera del 1943, fu rivisitata come eroico atto patriottico e «gesto sionista». Per questo il resoconto dell'insurrezione scritto da Marek Edelman, uno dei suoi dirigenti - allora rappresentante del Bund, un partito socialista ebraico antisionista - che decise dopo la guerra di rimanere in Polonia, fu tradotto in ebraico tardivamente, da un piccolo editore. «Nell'ambito della fiorente industria della commemorazione sviluppatasi in Israele intorno alla rivolta e ai suoi eroi - scrive Zertal -, non c'era posto per Edelman e la sua storia».
La svolta al processo Eichmann
La svolta decisiva, il momento a partire dal quale Israele cessò di considerare la Shoah come espressione di un vergognoso passato diasporico e iniziò a rivendicarne esplicitamente la memoria come fonte legittimante della propria politica, fu il processo Eichmann, che si svolse a Gerusalemme nel 1961. Ben-Gurion voleva farne «un'esperienza sacra», un monito al mondo e un atto pedagogico nei confronti della nazione. Ai suoi occhi, questo processo trascendeva ampiamente le responsabilità individuali di uno degli architetti della Soluzione finale. Ben-Gurion lo definiva allora «il processo del popolo ebraico all'eterno antisemitismo presente in tutte le nazioni e attraverso tutte le generazioni». Una volta comprovata la sua capacità di fare giustizia in nome del popolo ebraico, Israele non aveva più bisogno di nascondere la Shoah. Poteva anzi mobilitarne il ricordo per trasformare la sua politica in atto riparatore. Diventerà così una consuetudine, per ministri e ufficiali israeliani, assimilare il rifiuto arabo alla storia secolare dell'antisemitismo europeo e designare i dirigenti arabi, da Nasser ad Arafat, come reincarnazioni di Hitler.
Molti intellettuali si presteranno a questa campagna di «nazificazione» del nemico. Lo scrittore Eli Wiesel, percepito nel mondo occidentale come una sorta di figura cristica dell'Olocausto, celebrava nel 1967 la vittoria israeliana durante la Guerra dei sei giorni con un pathos nazionalista degno del primo Ernst Jünger. Zertal cita qualche passo eloquente di un suo testo dell'epoca: «Duemila anni di sofferenze, attese e speranze si mobilitarono per la battaglia, al pari di milioni di vittime della Shoah. Come nubi di fuoco giunsero a proteggere i loro eredi. E nessun nemico potrà mai sconfiggerli». La vittoria fu così sacralizzata e l'occupazione dei territori palestinesi ratificata come protezione necessaria contro la minaccia rappresentata dall'insormontabile ostilità del mondo dei gentili. L'occupazione diventò e rimane ancora oggi legittima difesa. Le vittime della Shoah saranno evocate come testimoni silenziosi dell'innocenza israeliana.
Questa politica della memoria tesa ad alimentare il nazionalismo più ottuso e intransigente, sembra concludere Zertal, ha contribuito ad armare l'assassino di Yitzhak Rabin, vittima, come Jean Jaurès e Walther Rathenau prima di lui, in altra epoca e altri contesti, di una campagna di odio nazionalista.
Un capitolo di questo libro è dedicato al carteggio tra Hannah Arendt e Gershom Scholem, poche ma profondissime lettere scambiate in occasione del processo Eichmann e delle feroci polemiche suscitate dal saggio dell'esule ebrea sulla «banalità del male». Dopo averne riassunto i termini generali, Zertal si schiera chiaramente dalla parte della Arendt, facendo proprio il postulato dell'autonomia di pensiero, il Selbstdenken di matrice illuminista ch'essa rivendicava, contro le ortodossie, i vincoli intellettuali e spesso i pregiudizi in cui rimpane inevitabilmente invischiato chi vuole anteporre un'appartenenza nazionale alla libertà della critica. Zertal ha probabilmente ragione di spiegare il tono ben poco conciliante delle risposte arendtiane con il suo rifiuto del sottile paternalismo di Scholem. E anche di sottolineare la discrepanza di fondo che separa la Arendt, cosciente di appartenere alla tradizione dell'ebraismo paria, dal sionismo di Scholem, finalmente ricaduto, forse in virtù di un'identificazione mimetica con l'oggetto delle sue ricerche, in una visione della storia ebraica come una sorta di «entità mistica» i cui tratti «trascendono la nostra comprensione».
Zertal si limita tuttavia a un'attenta lettura di questo appassionante carteggio. Una più approfondita contestualizzazione le avrebbe probabilmente permesso di spiegare i toni accesi della polemica alla luce di un'altra netta divaricazione: il Selbstdenken della Arendt entrava in collisione, in quel preciso momento storico, con la percezione ebraica della Shoah, di cui Scholem si faceva allora portavoce. Arendt aveva preso la misura dell'evento - aveva avuto la sensazione che il pavimento le stesse crollando sotto i piedi, dirà in una famosa intervista - fin dagli anni della guerra. Il mondo prendeva invece coscienza di cosa fu il genocidio degli ebrei soltanto dopo il processo Eichmann. Fu durante quel processo che, per la prima volta, i superstiti dei campi nazisti poterono esprimersi di fronte al mondo intero avendo la sensazione di essere ascoltati. Il saggio arendtiano approfondiva una riflessione iniziata almeno vent'anni prima, ma non aveva riguardi per un'opinione pubblica internazionale che iniziava appena a rendersi conto di cosa fosse stato l'Olocausto, per una diaspora ebraica che l'aveva largamente rimosso e per uno Stato israeliano che si trovava ora messo di fronte al trauma da cui era nato. I tempi dell'elaborazione di un pensiero critico e i tempi della costruzione di una memoria collettiva in seno allo spazio pubblico non sempre coincidono. Non stupisce quindi che Scholem le rimproverasse la sua mancanza di «sensibilità del cuore» (Herzenstakt).
La profezia di Hannah Arendt
Collaboratrice della casa editrice Shocken, creata negli anni Trenta da ebrei tedeschi esuli a New York, Arendt aveva contribuito alla pubblicazione in America dell'opera di Scholem. Fino al 1946, entrambi avevano condiviso la prospettiva di una Palestina binazionale, nella quale ebrei ed arabi avrebbero potuto convivere entro frontiere comuni. Ma Scholem aveva accettato la fondazione di uno Stato ebraico e adattato il suo sionismo culturale ai vincoli fatali del sionismo politico. Arendt non lo seguì su questa strada. La loro rottura risale al 1947.
In quegli anni, l'esule ebrea pubblicava un testo che, come sottolinea Zertal, appare oggi straordinariamente premonitore. Anche in caso di una vittoria militare, scriveva Arendt, gli ebrei «vivrebbero circondati da una popolazione araba interamente ostile, segregati entro confini perennemente minacciati, a tal punto occupati a difendersi fisicamente da trascurare ogni altro interesse e ogni altra attività. Il pensiero politico sarebbe focalizzato sulla strategia militare; lo sviluppo economico sarebbe determinato esclusivamente dalle necessità della guerra. E questa sarebbe la sorte di una nazione che, indipendentemente dal numero di immigrati che potrebbe ancora assorbire e dall'estensione del suo territorio continuerebbe ad essere un piccolo popolo soverchiato dalla prevalenza numerica e dall'ostilità dei suoi vicini».
Idith Zertal fa proprio questo ammonimento. Il suo libro non è soltanto un brillante saggio storico. È un invito pressante a cambiare rotta.

il manifesto 24.10.07
La volontà di vedere, secondo Foucault
di Andrea Cavalletti


Un libro di saggi a cura di Michele Cometa e Salvo Vaccaro per Meltemi ripercorre il rapporto conflittuale istituito dal filosofo francese tra visibile e enunciabile. Dalle metamorfosi dello sguardo alla genealogia dei poteri alla storia degli spazi, passando per il problema dell'approdo alla verità

Concludendo il suo ritratto dell'amico come nouvel archiviste, Gilles Deleuze aveva adattato a Foucault e al suo stile una frase di Boulez sull'universo rarefatto di Webern: «Egli ha creato una nuova dimensione, che potremmo chiamare diagonale, una sorta di ripartizione dei punti, dei blocchi e delle figure non più nel piano, ma nello spazio». La partitura weberiana e l'archeologia foucaultiana degli enunciati rivelano, dunque, un valore decisamente visivo, quasi di costruzione pittorica. Tanto che la frase di Boulez potrebbe ricordare certe notazioni di Longhi (ad esempio sullo stile di Mattia Preti) sulla costruzione, lungo la trasversale della tela, di uno spazio di «forme-luce» e «volumi che s'assettano di spigolo».
Lo stesso Foucault concludeva, d'altra parte, la sua celebre conferenza tunisina su Manet affermando che sebbene non spetti a lui l'invenzione della pittura non rappresentativa, tuttavia gli dobbiamo il «quadro-oggetto»; perché in pittura potesse un giorno liberarsi, al di là di ogni rappresentazione, «lo spazio con le sue proprietà pure e semplici, le sue stesse proprietà materiali».
Si è scritto molto, dopo Deleuze, sul problema della visibilità in Foucault, e proprio Deleuze ha illustrato meglio di chiunque altro quel non-rapporto che vige in Foucault tra visibile ed enunciabile, spiegando come permanga tra questi una differenza di natura, benché abitualmente si compenetrino e si inseriscano l'uno nell'altro. Proprio l'affermazione della loro conflittualità irriducibile è forse ciò che ha permesso, sin da Le parole e le cose, di abbandonare la vecchia rappresentazione verticale dei saperi, affrancandoli dal loro piano organizzato per disporli diagonalmente, così da farli apparire nell'atmosfera più o meno rarefatta dei poteri.
Intorno a questo nucleo problematico e fecondo si muove Lo sguardo di Foucault, a cura di Michele Cometa e Salvo Vaccaro (Meltemi, pp.162, euro 16,00), il cui titolo ricorda molto Michel Foucault, un regard, la silloge di saggi che accompagna l'edizione francese della Peinture de Manet (Seuil, 2004). I testi di Daniel Defert, Martin Jay, Stefano Catucci, Thomas Lenke e Stuart Elden ne fanno uno dei più interessanti contributi alla comprensione del pensiero di Foucault apparsi da noi negli ultimi tempi, insieme all'ottimo Governare la vita, curato da Sandro Chignola (edizioni ombre corte).
Dalla lettura di Las Meniñas in Le parole e le cose, a quella di Un bar aux Folies-Bergère - il quadro che, ha ricordato una volta Defert, rappresentava per Foucault l'esatto opposto del capolavoro di Vélasquez - dalle pagine sul Panopticon fino a quelle del 1982 sulle fotografie di Duane Michals, il tema dello sguardo attraversa in effetti tutta l'opera del filosofo francese. Che si dispiega in una specialissima tecnica di descrizione, una ekphrasis che qui Michele Cometa, sulla scia del suo Parole che dipingono (Meltemi, 2004), ricostruisce attentamente, mostrandone la variabile specifica e paradossale, fondata proprio sulla chiara coscienza dell'«abisso che separa l'immagine dal testo». Attraverso una serrata polemica con il filosofo Gary Shapiro, lo storico Martin Jay offre invece una definizione teorica del ruolo della visione in Foucault, ruolo che egli non arriva a denigrare e tuttavia limita in senso fortemente negativo.
Alla «distruzione delle visualità egemoniche» compiuta da Manet come poi da Magritte mancherebbe infatti la tonalità critica positiva che Foucault aveva invece scoperto nella parresia antica. Se visibile ed enunciabile non possono coincidere, è anche perché, afferma Jay, quel rapporto con la verità «che Foucault ammirava tanto nei greci e che cercò di emulare attraverso la sua stessa attività di intellettuale pubblico» è un rapporto mediato dalla franchezza, cioè esclusivamente verbale: non c'è veridicità dell'occhio, né «percezione intuitiva del mondo attraverso l'immediatezza dei sensi», tanto che la «verità in pittura» proclamata da Cézanne equivale a una promessa inesaudibile. Ma se Foucault separa il visibile dall'enunciabile non è forse per trasformarli entrambi e unire in «legami contingenti e instabili» i diversi sensi del sapere? La verità può essere implicata in giochi non egemonici - suggerisce Salvo Vaccaro - solo da parte di uno «sguardo prensivo», che sia capace di toccare, così come la parola è capace di vedere.
In poche, splendide pagine, Daniel Defert mostra come Foucault abbia opposto alla tradizione aristotelica della conoscenza quale percezione visiva quella nietschiana, che privilegia la materialità polemica del discorso: e lo fa da un lato riandando alla scoperta da parte del filosofo francese del poema La veduta di Raymond Roussel, e dall'altro ricorrendo al corso inedito del 1971, intitolato - come il libro più tardo e famoso - La volontà di sapere.
Contro ogni fenomenologia della percezione Foucault ha rivendicato un «dire la verità» che è storia, semiologica e politica delle condizioni del visibile, della «struttura di ciò che va visto». Le metamorfosi dello sguardo restituiscono quindi la genealogia dei poteri. Ma la storia dei poteri è per Foucault «una storia degli spazi». Pensare «con lui» - scrive nel suo intervento Stefano Catucci - significa allora (rileggendo Le Corbusier ma anche l'unità abitativa di Fiorentino al Corviale) svelare nel progetto della città moderna e contemporanea il sinistro intreccio delle tendenze biopolitiche e delle pratiche di sorveglianza più strettamente disciplinari. Che non vengono semplicemente superate, ma come le forze vinte di Nietzsche si trasformano e si dislocano su piani diversi: la scala urbanistica (della sicurezza, del potere che cura e detiene la vita) è così inseparabile dalla soluzione architettonica della vecchia disciplina dei corpi, dallo sguardo che sorveglia. La genealogia dell'urbanismo incrocia qui, per Catucci, l'«ontologia del presente». «Dire la verità» sulle nostre «città sicure» sembra più urgente che mai.

Rosso di Sera 23.10.07
I giornali della Sinistra? Sarebbe il caso di unire anche loro
di Ettore Colombo


Sulla proposta di Pietro Ingrao, la provocazione di un giornalista “di sinistra”.

Non è stata (solo) una bella, grande e partecipata manifestazione, quella del 20 ottobre. E’ stata anche una manifestazione molto (e ben) raccontata, dai, volendo includere, con questa accezione, molto più dei tre (Liberazione, manifesto, Carta) “coraggiosi” che ne sono stati gli sponsor. Faceva davvero bene al cuore, per dire, vedere l’amministratore delegato (storico, peraltro) di Liberazione, Mauro Belisario, fare "diffusione militante" dell’edizione straordinaria di Liberazione. O assistere alla ressa di ragazzi e ragazze attorno allo stand del manifesto, collocato proprio ai lati di piazza San Giovanni, dove le figurine del (mitico) Album del manifesto andavano letteralmente a ruba. Oppure riconoscere e abbracciare con commozione i compagni e le compagne della redazione de La Rinascita della sinistra, che reggevano tanto di striscione, nel corteo, oltre che fare diffusione militante. Oppure, infine, scoprire quanto è curioso, ricolmo di spunti (e inkazzato, come sempre) non solo Carta formato settimanale (anch’esso diffuso lungo il percorso) ma anche “il figlio” sito Internet quotidiano. Infine – e nonostante le molto poco piacevoli traversie editoriali che lo hanno recentemente scosso – faceva piacere pure scoprire di nuovo combattivo e aggressivo, oltre che di sinistra, il settimanale Left. Tutto bene, dunque? Possiamo gonfiare il petto e cantarcela e suonarcela anche dal punto di vista delle performances informative e della capacità di “bucare” agenzie, giornali e, naturalmente, tv, visto che anche la copertura mediatica dell’evento è stata più che degna (semi-diretta su Rai 3, diretta su Sky, diretta su Radio Popolare, network di nascita “milanese” ma che ormai è ben radicato anche a Roma)? Direi proprio di no. Il (nostro) “grande vecchio” Pietro Ingrao, sommerso lungo tutto il corteo dal calore della gente, oltre che dall’assedio dei media alla ricerca spasmodica di volti “glamour” (sic), lo ha detto chiaramente a Rina Gagliardi, che ne ha seguito il tragitto e raccolto i pensieri, alla fine: Siamo –nel nostro piccolo - totalmente d’accordo. Forse perché ricordiamo troppo bene come nacque Liberazione (quotidiano), quanti danni causò a un già agonizzante (in termini di idee e uomini, più che di copie, almeno allora) manifesto e quanti piccoli e grandi “dispetti”i giornali “comunisti” si sono fatti. Né capiamo a cosa serva disperdere forze ed energie intellettuali (con relativa “gara” a chi s’accaparra prima l’editorialista di turno, peraltro quasi sempre gli stessi) tra loro, Rinascita, Left (ex Avvenimenti). Solo di Carta riconosciamo un suo specifico politico-editoriale, a metà tra i movimenti no global che fu, i “cantieri sociali” che sono (?) e un’area movimentista, ecopacifista (e antipartitica) di ultrasinistra. Insomma, ha senso che Liberazione continui a rappresentare – con sempre maggiore fatica, peraltro, visto che si sono decuplicate – le “cento anime” di Rifondazione e dintorni, il manifesto un po’ quelle alla sua sinistra (i giovani) e un po’ quelle alla sua destra (i “senatori”), Rinascita elevi inni a Diliberto, Left o parli d’altro o si faccia interprete del Bertinotti-pensiero (se non di quello di Massimo Fagioli)? Se ci aggiungiamo Internet, dove campeggiano solo due siti informativi vivaci e degni di questo nome, Rosso di sera (non certo perché ci ospita…) e Aprileonline, organo della Sinistra democratica di Mussi (del mensile Aprile abbiamo, francamente, perso le tracce…) la dispersione (informativa) è massima. Nel frattempo, però, accade che il settimanale Diario, fondato e diretto da Enrico Deaglio ha chiuso, l’Unità sarà costretta – più prima che poi – a una decisa strambata “a destra”, causa la nascita del Pd, e il Riformista è sempre più orientato verso la Cosa socialista, oltre che boccheggiare in fatto di copie. Non che, da questo punto di vista, manifesto e Liberazione stiano messi molto meglio, anche se a via Tomacelli la situazione è, oserei dire endemicamente, peggiore e più opaca che a via del Policlinico. Morale, sarebbe ora di dare ascolto all’appello di Ingrao. Polo e Sansonetti, perché non ci pensate su?

Rosso di Sera 23.10.07
Repubblica dà i numeri


Erano un milione sabato scorso i manifestanti contro il precariato? Ma no, erano 150 mila. Lo dice Repubblica. La quale è molto restrittiva quando si tratta di contare la sinistra, mentre invece largheggia nel caso del Pd. Sempre lo stesso giornale, stavolta nella sua versione on-line, sostiene che il Partito democratico è al 29%. Poi, a leggere bene, si scopre che di elettori sicuri ne ha molti di meno. Lo zoccolo duro, quelli che comunque vada, lo voterebbero, sono solo il 18%. Poi c'è un'area quasi sicura, e si arriva al 23%. Infine, solo potenzialmente, potrebbe raggiungere il 29%.
Insomma, è il limite massimo, e quindi il risultato è prevedibilmente inferiore. In ogni caso, si tratta di una percentuale piuttosto bassa se si pensa al 34% delle elezioni politiche.
Repubblica, si sa, è il giornale del Partito democratico. Ma un minimo di decenza, un minimo di senso della misura, è richiesto anche a loro.
A fare la Pravda ulivista si rischia di fare brutta figura.
Se fossimo noi dirigenti del Pd, ci guarderemmo dal cantare vittoria. Intanto perché il governo e la maggioranza sono tutt'altro che stabili. in secondo luogo perché ci vuole poco a dilapidare il (peraltro magro) patrimonio sinora conquistato.
Così, riguardo i numeri, anche altri dovrebbero usarli con maggiore parsimonia e riflettendo meglio. Ad esempio la Cgil, che con i 5 milioni di partecipanti al referendum, in questo momento pare essere diventato un partito, con tanto di "linea" e sanzioni disciplinari, roba che speravamo consegnata agli archivi della storia.
I dirigenti del maggiore sindacato, piuttosto, guardino con maggiore attenzione al numero di precari che non ha votato e al fatto che la Nidil è ancora lì, ferma, con le adesioni che languono.

Liberazione 24.10.07
Lunedì pomeriggio, a Roma, un'assemblea aperta
Il 20 ottobre non è finito. E ora propone...
di Piero Sansonetti


Ma non eravamo noi del "20 ottobre" quelli che dovevano fare cadere il governo? Furio Colombo, su l'Unità, ha scritto un articolo nel quale, addirittura, accusava Giorgio Cremaschi e me di essere diventati marionette al comando di Berlusconi. "Passati al nemico", come dicevano una volta gli occhiuti tribunali del popolo. Scriveva che abbiamo fatto tutte le mosse giuste per far cadere Prodi e ridare il potere a Berlusconi. Vedi che fessi (o peggio...). E invece ieri abbiamo passato il pomeriggio per capire se il governo lo avrebbe fatto cadere il centrista Dini, coi suoi tre seguaci, oppure se sarebbe saltato per la rissa tra il centrista Mastella e il centrista Di Pietro, che hanno posizioni politiche molto simili - e lontanissime da quelle che abbiamo espresso nella manifestazione del 20 ottobre - ma ritengono uno che l'altro sia un delinquente e l'altro che l'uno sia un analfabeta. Da ieri non si parlano più. Al consiglio dei ministri il povero Enrico Letta deve fare la spola e l'interprete.
C'è poco da scherzare. La distanza tra la politica del Palazzo (i ragionamenti di Colombo, Mastella, Di Pietro, Dini e altri) e la forza di quella manifestazione - scusate se lo facciamo notare - davvero è abissale. Su un lato della scena c'è il punto più alto della politica di massa, costruito sulla partecipazione, sull'impegno, sulla passione politica di centinaia di migliaia di cittadini, e su una piattaforma che mette sotto accusa il precariato - il precariato economico, sociale, umano, personale - scelto dalle classi dirigenti come modello per la società dei prossimi anni; e sull'altro lato della scena c'è questo spettacolo che esalta la politichetta, i personalismi, il "poterismo" senza contenuti. Cosa vuol dire "poterismo"? E' quella idea, diffusissima, secondo la quale la politica è un affare per gruppi dirigenti che - seguendo certe regole, o infrangendole - si dividono tra loro i posti di potere e le burocrazie. Il centrosinistra, negli ultimi tempi, è stato invaso dal poterismo, ne è condizionato e conquistato. E rischia anche di venirne travolto. Per questo molti leader del centrosinistra - non tutti per la verità - non sono riusciti, fino all'ultimo minuto, a capire cosa fosse il 20 ottobre. Continuavano a chiederci: ma questo corteo dà forza a Giordano o a Diliberto? E' voluto da Bertinotti o da Vendola? E' temuto da Mussi o da Pecoraro? Non c'era modo di spiegargli che la politica talvolta è un po' più complicata.
E infatti il 20 ottobre è stata una gigantesca operazione di politica - di politica grande - perché ha ridato anima e riconoscibilità al popolo della sinistra e ha proposto una idea forte di unificazione tra le sue anime, tra la sua gente e i suoi punti vista. O forse non esattamente di unificazione, ma di alleanza. E state attenti, le sue anime non sono i suoi partiti o i suoi gruppi, ma sono il movimento operaio, il femminismo, l'ambientalismo, il movimento dei gay, il pacifismo, le comunità resistenti. Cioè correnti ideali e politiche che rappresentano principi e interessi e contraddizioni assai diversi tra loro, e spesso confliggenti tra loro, ma che hanno trovato una ipotesi di unità nella comune battaglia contro il potere, e contro le gerarchie, e contro le tante e spietate forme di moderno dominio.
Ieri, un gruppo di noi promotori del 20 ottobre, si è incontrato per vedere come dare un seguito a quella manifestazione e all'opera unitaria che ha messo in moto. Abbiamo deciso di convocare una assemblea che si terrà lunedì prossimo alle 17,30 nella sede di "Carta", a Roma, alla quale invitiamo le varie realtà che hanno partecipato, o che hanno apprezzato la manifestazione, o che comunque vogliono discutere e "fare" insieme a noi. Ci siamo detti che l'obiettivo che ci poniamo è quello di rimettere in movimento meccanismi di democrazia dal basso - cioè di democrazia - che vadano oltre i confini della sinistra, con la convinzione che il problema è quello di restituire a tanta gente lo spazio e il diritto di fare politica.
Noi siamo sicuri che questo nostro lavoro e questa nostra discussione possono affiancare l'impegno dei partiti e delle associazioni che stanno lavorando per gli stati generali della sinistra unita (proprio oggi è previsto un incontro dei segretari dei quattro partiti della sinistra). Senza sovrapposizioni, né tantomeno contrapposizioni. E crediamo che non ci sarà più una sinistra né una società dove le persone e i loro diritti, individuali e collettivi, vengono prima delle merci e delle oligarchie, se ciascuno non farà adesso la sua parte.

martedì 23 ottobre 2007

l’Unità 23.10.07
Sinistra
Rc vuole gli stati generali della Cosa rossa
I Verdi rilanciano la federazione Arcobaleno


ROMA Accelerare per il nuovo soggetto unitario della sinistra, a partire dagli stati generali entro dicembre. La segreteria nazionale del Prc, riunita ieri a Roma, ha esaminato la nuova fase politica che si è aperta a sinistra dopo la manifestazione di sabato 20 ottobre.
«La grandissima partecipazione di sabato e lo spirito unitario della manifestazione - informa una nota - chiamano inoltre le forze politiche, sociali e associative di sinistra a un’improrogabile impegno in direzione della costruzione di una soggettività unitaria e plurale. Il prossimo passo è la convocazione degli Stati generali della sinistra entro la fine dell’anno. Il Prc è aperto al dialogo e impegnato a procedere nei tempi più rapidi possibili verso la costituzione della nuova soggettività, di una forza che risponda alla domanda di unità espressa in modo inequivocabile sabato scorso dal popolo della sinistra, capace di giocare una sfida di egemonia rispetto al Pd e che si fondi su un modello partecipativo e sull’allargamento delle basi della democrazia».
Dal punto di vista dell’azione volta a migliorare l’attività di governo, il Prc nota: «È evidente quanto il tema della precarietà sia una questione centrale per il governo del paese, la cui azione può solo trarre giovamento dalla capacità di rimettersi in sintonia con le istanze del popolo della sinistra e dell’Unione attraverso l’attuazione del programma elettorale. Le forze della sinistra sosterranno unitariamente in Parlamento le istanze manifestate sabato da centinaia di migliaia di elettori dell’Unione».
Tutti si vogliono unire, in qualche modo. «I Verdi sono pronti a costruire la grande federazione Arcobaleno, per creare una grande e moderna sinistra di governo in grado di rappresentare efficacemente le istanze provenienti dalla societa», afferma in una nota il capogruppo dei Verdi alla Camera Angelo Bonelli.
«In questa aggregazione - aggiunge Bonelli - tutti possono mantenere la propria identità ed il simbolo deve essere anche uno strumento per superare la tradizionale simbologia della sinistra se si vuole intercettare la voglia di unità e di rinnovamento a sinistra».

Repubblica 23.10.07
Il ministro: "Federazione tra Rifondazione, Pdci, Verdi e Sd con un suo simbolo. Ma i partiti non si sciolgono"
Ferrero: una "Sinistra" senza falce e martello
di Umberto Rosso


ROMA - Ministro Ferrero, la Cosa rossa accelera?
«La manifestazione di Roma con un milione di persone chiede un processo unitario. Perciò, direi proprio di sì: c´è una accelerazione».
Non è stata una prova di forza "identitaria", con il resto della sinistra assente?
«No, chi lo dice sbaglia completamente. Anche se unità non vuol dire scioglimento dei partiti. La contrapposizione tra identità e processo unitario per me è una sciocchezza».
Che vuol dire?
«Penso ad una federazione che consenta alle singole forze di continuare ad esistere, e allo stesso tempo permetta di partecipare a chi non è iscritto a nessun partito».
Niente scioglimento allora per il Prc, come per Pdci, Verdi e Sd?
«Se qualcuno ci tiene e lo vuol fare, liberissimo ovviamente. Ma io sono comunista, Mussi socialista, Pecoraro ambientalista: dovremmo per caso abiurare? Per forza di cose, dovrà essere un soggetto plurale. Non vedo un nuovo partito, con i suoi riti, iscritti, strutture, decisioni a maggioranza. Dobbiamo tenere insieme le diversità, l´opposto di quel che ha sempre fatto la sinistra: le scissioni dell´atomo».
Nel nuovo simbolo, la falce e martello andrà in soffitta?
«Questo lo vedremo. La federazione dovrebbe avere un minimo comune denominatore. La chiamerei "La Sinistra". Punto. Senza bisogno di simbolismi particolari. Poi ogni organizzazione rimane quello che è, ha il suo marchio».
Come nuovo leader si parla di Nichi Vendola. Ma gira anche il nome di Paolo Ferrero. Lei è in pista?
«Non abbiamo mica il problema di trovare il capo di una cosa che non c´è, come ha fatto il Pd con le sue primarie plebiscitarie. Abbiamo il problema opposto: aggregare dal basso. Magari sulla base della proposta lanciata da Mussi, sul modello del social forum: gli stati generali della sinistra politica, culturale, sociale».
Si scontrano due modelli, quello "movimentista" di Vendola e l´altro più "partitista" di Ferrero?
«Leggo che viene dipinta così. Ma è un´invenzione giornalistica, non buona, perché sposta il riflettore dal confronto ad una sorta di polemica di pollaio. Le mie posizioni sull´unità a sinistra sono sempre state queste qui, mi piace - per capirci - il modello Flm che negli anni Settanta ha messo insieme sindacati e grande partecipazione. E non ho mai avuto con Vendola alcun contrasto specifico sul punto».
All´interno di Rifondazione però c´è chi vuole bruciare i tempi, sciogliere il partito nella Cosa rossa, via falce e martello, subito liste unitarie.
«Negli organismi di partito non l´ho mai sentito. Anch´io sono per procedere rapidissimamente, ma non chiedo a nessuno di abiurare. Siamo 150 mila iscritti. In piazza c´era un milione di persone. Coinvolgiamo loro, tutti i giorni, non basta soltanto una volta. E con i compagni degli altri partiti evitiamo di celebrare matrimoni, dove dopo qualche anno le coppie scoppiano. Fidanziamoci, è meglio. Resta sempre vivo il desiderio».

l’Unità 23.10.07
Antonioni e Rohtko, registi del colore
Tra i due vi era un istintivo capirsi, nato ancor prima che i due si incontrassero
di Katy Spurrell


L’INTERVISTA Furio Colombo racconta l’incontro nello studio di New York tra il cineasta italiano e il pittore americano: due sensibilità molto affini, due maestri chiave di un cambiamento artistico

Pubblichiamo qui di seguito ampi stralci dell’intervista di Katy Spurrell a Furio Colombo, tratta dal catalogo della mostra su Mark Rohtko (Skira). In particolare vi si parla dell’incontro, organizzato da Furio Colombo, tra il regista Michelangelo Antonioni e il grande pittore. Katy Spurrell è co-curatrice con Oliver Wick della mostra in corso a Roma al Palazzo delle Esposizioni, fino al 6 gennaio 2008.

«Fu lui, nel corso del nostro primo incontro, a menzionare Antonioni. Aveva visto La notte e ne era rimasto molto colpito. Diceva che a New York non si facevano film di questo genere e che quella pellicola in bianco e nero in realtà era un film a colori. A suo parere quei neri, quei neri più chiari, quei grigi, quei grigi chiari e quei bianchi erano la storia di un film a colori (...). Dopo la mia prima visita allo studio, scrissi ad Antonioni (per parlargli di Rothko)... Ne seguì la lettera di Antonioni e la presentazione del film a New York.
Sta parlando dell’Eclisse?
«Sì, e in quella occasione accompagnai Antonioni e Monica Vitti a far visita a Rothko».
C’erano solo Antonioni e Monica Vitti con lei ?
«Sì, noi tre soli. Abbiamo continuato a parlare di questa visita per anni. Monica ne parlò anche con Monicelli, Francesco Rosi e altri esponenti del cinema di quel periodo».
Rothko vi fece vedere i suoi lavori più recenti? In quell’occasione parlò con Antonioni di pittura? E di luce?
«Parlarono di colore e luce. Antonioni era capace di stare anche due ore davanti a un quadro e questo certamente non costituiva un problema per Rothko. Non tanto perché si trattava di un suo quadro, ma perché gli piaceva immensamente parlare di colore. A parlare fu soprattutto Antonioni. Non che fosse logorroico, anzi. Antonioni era una persona schiva e relativamente di poche parole, molto meno espressiva di quanto non si fosse dimostrato in quella lettera. Nel corso della conversazione disse la metà della metà di quello che aveva scritto. La visita fu lunga e relativamente silenziosa, salvo che per le esclamazioni appassionate di Monica Vitti, sorpresa da quello che vedeva. Monica era una donna colta, una vera appassionata d’arte».
Infatti, Antonioni andò alla mostra di Rothko alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma con Monica Vitti.
«La mostra di Roma fu la prima immersione della Vitti e di Antonioni nell’arte di Rothko, seguita dalla visita allo studio a New York (...)».
Nella sua lettera, Antonioni parla delle possibilità di avere un’opera di Rothko. Fu un suggerimento di Rothko?
«Sì, mi disse che sarebbe stato felice se uno come Antonioni avesse avuto un suo lavoro e che poteva sceglierne uno».
Nella lettera, Antonioni disse di aver scelto “No. 7” del 1960, che aveva visto durante la visita alla mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, ma sembra che la cosa non abbia avuto alcun seguito.
«L’incontro di New York fu semplicemente una visita allo studio, la visita di un grande maestro del cinema (Rothko lo considerava tale) ad un grande maestro dell’arte. La cosa interessante è che si trattava di un riconoscimento reciproco. Il senso della visita fu proprio questo, quello di un rapporto tra artisti, Rothko e Antonioni».
Nella lettera Antonioni parla anche della serie di dipinti murali per il ristorante Four Seasons nel Seagram Building, dicendo che “sono tele che vanno collocate assieme”. Antonioni sapeva che dovevano essere collocate insieme per ragioni di impatto emotivo?
«Sì, assolutamente».
Perché era questo che Rothko voleva per tutte le sue opere, che fossero viste/collocate insieme.
«Per Antonioni si trattava di una decisione da regista e un regista è un organizzatore di immagini. La sua era un’intuizione tipicamente da regista. Quando mi venne a trovare al Seagram Building, dove avevo il mio ufficio perché in quel periodo lavoravo per Olivetti, mi disse “ io le metterei insieme, in quanto le filmerei soltanto insieme”».
Rothko, infatti, ha sempre indicato precisamente come dovevano essere collocate le sue opere e in che modo, come un regista. Alla Tate di Londra, a Harvard, a Houston...
«Vi era, tra i due, un istintivo capirsi, nato ancor prima che si incontrassero. Era come se Antonioni conoscesse le intenzioni di Rothko e sapesse a quale direzione mirava la sua pittura; e come se Rothko conoscesse le scelte che avrebbe fatto Antonioni in materia di colore. Si trattava di una grande affinità tra due persone, che in quel momento apparivano entrambe maestri chiave di un cambiamento artistico».
Un’affinità evidente tra arte e cinema...
«Direi fra l’arte e il cinema italiano. È curioso come esistesse allora, sin dagli anni del dopoguerra, un rapporto di intesa artistica del tutto particolare fra gli Stati Uniti e l’Italia (non fra gli Stati Uniti e l’Europa). Il mito che è stato Antonioni negli Stati Uniti, infatti, si deve alla comprensione di Antonioni da parte del mondo dell’arte; comprensione che non si è verificata nello stesso modo in Europa. Anche il rapporto degli Italiani colti ed intelligenti con l’arte americana è unico».
È un rapporto di amore-odio?
«No, l’odio conta poco. È un rapporto di accettazione-sdegno, che si sviluppa sempre sul territorio di un immenso interesse. Per gli italiani è implicito che ciò che è americano conta di più; per gli americani, curiosamente, l’Italia ha una qualità speciale di esistenza che la Francia e la Germania non hanno. Fa eccezione l’Inghilterra, ma l’Inghilterra è una vecchia parente. Per esempio, mentre Willem de Kooning veniva a Roma e Rothko c’era appena stato, tutta la legione di artisti che darà vita alla Pop Art italiana negli anni ’60 va in America. Tano Festa stava in America, Chia c’è sempre stato, Cucchi era in contatto con Warhol e Basquiat...».
Parliamo dell’influenza di Antonioni, regista italiano, su Rothko, artista americano. Antonioni ha avuto un’influenza enorme sugli artisti americani in generale, su Dan Flavin, per fare un esempio.
«Occorre guardare alla dimensione dell’artista al di fuori dell’appartenenza nazionale, alla sua capacità di trasmissione attraverso l’opera. È una questione di dimensioni. Quando l’artista esce dalla dimensione, anche molto alta, della cultura del suo paese, diventa esclusivamente se stesso, diventa puro, credo, È il sé che conta e che lascia il segno e credo che sia questo ciò che è accaduto ad Antonioni, che veniva accolto festosamente in quanto regista italiano, ma soppratutto in quanto Antonioni».
Il fatto che fosse italiano, quindi, non contava?
«Quando si è un artista di quel livello, la nazionalità non conta. In ogni caso, quello tra Rothko e Antonioni è un incontro tra cinema e pittura in cui Antonioni ha ricevuto una sorta di incoronazione, perché ha avuto un riconoscimento da uno dei più grandi pittori del secolo. Allo stesso tempo, Rothko ha dimostrato che dietro il suo dipingere così straordinario c’era una sensibilità finissima, impersonata da un uomo che rischiava di sembrare un meccanico. Aveva proprio l’aria di un uomo che lavorava con le mani, che contava sulla propria forza fisica, di un uomo fiducioso nella propria robustezza, nella propria capacità di imporre e di fare, tipica più dell’artigiano che dell’artista. Non lasciava trasparire nulla della fragilità dell’artista. Quello che mostrava era la forza possente di un uomo di origini popolane o contadine».
Ovviamente la fragilità c’era.
«In quel momento, però, se qualcuno avesse usato l’immagine di Rothko e la sua forza possente per raccontare una storia, avrebbe immaginato un uomo che a novant’anni è ancora guardiano del faro, domina l’isola e tiene testa alla vita. I suoi gesti, il suo modo di muoversi e quella risolutezza un po’ rude che era tipica della sua conversazione, non facevano trapelare alcuna fragilità. Gli mancava totalmente quel modo di parlare tipico dell’upper class americana, senza nessun gergo popolare. Non apparteneva a nessuno, aveva una rudezza espressiva, frontale, che non aveva niente in comune con la gentilezza mondana tipica della gente del cinema o del mondo dell’arte. Mentre Motherwell e Barnett Newman si facevano vedere spesso nelle case di Park Avenue, lui non le frequentò mai».

Repubblica 23.10.07
Un rapporto malato
di Gustavo Zagrebelsky


Non colgo, in queste parole di Rocco Buttiglione, il motivo del contrasto. Nello scritto al quale egli si riferisce è detto che "le fedi religiose non sono affatto un problema per la democrazia liberale, anzi ne possono essere forza costitutiva nella misura nella quale i credenti si impegnino, sulla base delle loro credenze, nella sfera della società civile". Su che base Buttiglione può dire che "si cerca di escluderli [i credenti] in via preliminare dalla partecipazione al dibattito nel quale si forma la decisione pubblica?". Citavo poi adesivamente l´affermazione di Böckenförde secondo la quale a partire dalla società civile "la religione può, a seconda dei vigenti processi di formazione della volontà politica, giungere a influenzare lo Stato nel senso di un´organizzazione vincolante dell´umana convivenza, a seconda della forza di cui gode tra i credenti, nella loro qualità di cittadini". Dove sta il cattivo proposito "laicista" di escludere i credenti dal dibattito pubblico, di cui parla Buttiglione? Egli mi faccia dire cose che non ho detto, avendo invece detto, qui e altrove, proprio il contrario. Tutto questo, mi pare così ovvio, per chi si ispiri all´uguale rispetto dei diritti della libera coscienza di tutti, da non richiedere altre parole. D´altra parte, volgendosi dai principi alla realtà dei fatti, si può davvero seriamente credere che i credenti, cattolici o non cattolici, per il fatto di essere tali, si trovano oggi discriminati e abbiano difficoltà a far sentire la loro parola?
La questione che ho sollevato, sottolineandola più e più volte, riguarda non i cittadini cristiani nei loro rapporti con i cittadini non cristiani nella sfera della società civile e in quella politica, ma i rapporti tra Stato e Chiesa, cioè tra i soggetti istituzionali che, in certo senso, rappresentano, uno, i cittadini tutti quanti e, l´altro, i cittadini cattolici.
Nello scritto di Böckenförde sono contenute affermazioni ambigue a questo riguardo. Su tali affermazioni ci si appoggia, da parte cattolica qui da noi, per sostenere che, data la "impronta" cristiano-cattolica del nostro Stato ch´esso deve salvaguardare come una delle sue "premesse" (le Voraussetzungen, nella lingua di riferimento), è giustificata la sua tacita alleanza con la Chiesa. Se l´alleanza è tacita, le conseguenze sono esplicite: potere di veto nella legislazione e nella giurisdizione ("dico", eutanasia, trattamenti sanitari, rapporti familiari, sperimentazione scientifica, ecc.) e trattamenti privilegiati di diversa natura (finanziamenti, agevolazioni fiscali, insegnamento confessionale nelle scuole pubbliche, simboli, presenza nelle istituzioni e nelle cerimonie pubbliche, ecc.) che si vogliono giustificare proprio per quella "impronta" (parola significativa) che la Chiesa garantisce. Questa linea di pensiero comporta precisamente la contraddizione con l´esigenza liberale primordiale: che le "premesse" del vivere comune nascano dalla e nella libertà. Böckenförde è ambiguo, anzi contraddittorio, quando parla di "legami unificanti che precedono la libertà". Se precedono, non sono liberi: sono per l´appunto la "impronta" che viene dall´accordo tra autorità, lo Stato e la Chiesa. Ma questo è clericalismo, cioè uno scambio a doppia degenerazione, della religione a instrumentum regni, dello Stato a braccio secolare della religione: una rinnovata commistione di trono e altare che contraddice le pretese affermazioni di tanti che si autodefiniscono laici (chi oggi si proclama clericale?), ma tali non sono alla prova evidente dei loro atti.
Questa era la questione. Ripeto: non la libertà di manifestare le proprie opinioni e di concorrere paritariamente alla formazione delle leggi in parlamento tramite i "compromessi pratici", normali nella democrazia pluralista. Questa libertà è di tutti, senza bisogno di concessioni o rivendicazioni. Il problema aperto è invece il rapporto malato Stato-Chiesa e le sue conseguenze circa la "confessionalizzazione" dello Stato e la "secolarizzazione" della Chiesa: un duplice motivo di malessere che dovrebbe preoccupare non solo i non-credenti ma anche, almeno in ugual misura, i credenti. Mi dispiace che il punto, anche in questo caso, non sia stato colto.

Repubblica 23.10.07
Il racconto
La musica di Mahler sotto l'occhio del boia
di Milan Kundera


Uno o due anni dopo la guerra, adolescente, incontrai una giovane coppia di ebrei che avevano all´incirca cinque anni più di me; avevano trascorso la giovinezza a Terezin, e poi in un altro campo. Mi sentivo intimidito davanti al loro destino. Il mio disagio li irritò: «Finiscila una buona volta!» e, con insistenza, mi fecero capire che la vita laggiù aveva conservato tutto il suo ventaglio di possibilità: dalle lacrime agli scherzi, dall´orrore alla tenerezza. Grazie all´amore nei confronti della loro stessa vita, essi si difendevano dall’essere trasformati in una leggenda, in statue di dolore o in documenti del libro nero del nazismo. Da allora li ho persi completamente di vista, ma non ho dimenticato quello che avevano cercato di farmi capire.
Terezin in ceco, Theresienstadt in tedesco. Una città trasformata in ghetto che i nazisti utilizzarono come paravento, come alibi, dove lasciarono vivere i prigionieri in modo relativamente civile per poter esporli ai curiosi della Croce rossa internazionale. Qui sono stati ammassati gli Ebrei dell´Europa Centrale, soprattutto coloro della parte austro-ceca; fra di loro molti intellettuali, compositori, scrittori, tutta una grande generazione che aveva vissuto alla luce di Freud, di Mahler, di Wittgenstein, di Schönberg, di Janácek, dello Strutturalismo praghese.
I prigionieri di Terezin seppero approfittare meravigliosamente della piccolissima particella di libertà concessa loro dai carcerieri; la loro attività intellettuale e artistica ci lascia stupefatti; non penso solo alle opere che riuscirono a creare (soprattutto i compositori), ma forse ancor di più a quella sete di vita culturale che s´impadronì di tutta la comunità di Terezin, che, in condizioni spaventose, frequentava teatri, concerti, mostre.
Che cosa rappresentava per loro l´arte? La maniera di mantenere completamente dispiegato il ventaglio dei sentimenti e delle idee affinché la vita non si riducesse alla sola dimensione dell´orrore. E per gli artisti detenuti laggiù? Costoro vedevano il loro destino personale confondersi con quello dell´arte moderna, l´arte cosiddetta «degenerata», l´arte perseguitata, irrisa, condannata a morte. Guardo la locandina di un concerto tenutosi nella Terezin di allora: in programma Mahler, Zemlinskij, Schönberg, Haba. Sotto gli occhi dei boia i condannati suonavano una musica condannata.
Penso agli ultimi anni del secolo passato, un secolo maledetto che, giunto alla fine, è stato preso dal desiderio di vomitarsi addosso il disgusto per se stesso. La memoria, il dovere della memoria, il lavoro della memoria, queste erano le parole d´ordine di quegli anni. Era ritenuto un atto onorevole perseguire i crimini politici del passato, dare la caccia perfino alle sue ombre, alle sue ultime sudice macchie.
Tuttavia, tale memoria del tutto particolare, «incriminatrice», serva premurosa del castigo, non aveva niente in comune con quella a cui avevano tenuto così tanto gli ebrei di Terezin, i quali se ne erano infischiati altamente dell´immortalità dei loro carcerieri e avevano fatto di tutto per conservare il ricordo di Mahler e Schönberg.
Un giorno, discutendo di questo argomento, chiesi a un amico:
«... conosci Un sopravvissuto di Varsavia? - Un sopravvissuto? Chi?» Non sapeva di che cosa stessi parlando. Eppure Un sopravvissuto di Varsavia (Ein berlebender aus Warschau), oratorio di Arnold Schönberg, è il più grande monumento che la musica abbia mai dedicato all´Olocausto. Tutta l´essenza esistenziale del dramma degli Ebrei del XX secolo è in quest´opera viva e presente. In tutta la sua atroce grandezza. In tutta la sua bellezza atroce. Ci si batte perché degli assassini non vengano dimenticati. E Schönberg, lo abbiamo dimenticato.

© Milan Kundera (traduzione di Massimo Rizzante)

Repubblica 23.10.07
Ottobre
di Hannah Arendt


La rivoluzione d´ottobre ottenne la vittoria con stupefacente facilità in un paese dove una burocrazia dispotica e accentrata governava una massa amorfa, che né i residui del feudalesimo rurale né il debole, nascente capitalismo urbano avevano saputo organizzare. Quando Lenin affermava che in nessun altro paese del mondo sarebbe stato così facile conquistare il potere e così difficile conservarlo, si rendeva conto non solo della debolezza della classe operaia russa, ma altresì delle anarchiche condizioni sociali che favorivano i cambiamenti improvvisi. Privo com´era degli istinti del capo della massa, Lenin puntò subito su tutte le possibili differenziazioni, sociali, nazionali, professionali, capaci di introdurre delle strutture nella popolazione, nella palese convinzione che tale processo stratificatore avrebbe costituito la salvezza del potere rivoluzionario.

Repubblica 23.10.07
Il mito infranto della rivoluzione
A novant'anni da quell'evento che sconvolse il mondo
di Sandro Viola


Un immenso e arretrato paese si risvegliò dal sonno e dalla oppressione zarista
La grande illusione fu di credere che quel mutamento epocale avrebbe creato l´uomo nuovo

Novant´anni dopo, della rivoluzione russa resta quasi soltanto il colore. Il pittoresco. Le immagini forti, gli eventi spettacolari di quei giorni dell´ottobre ´17 nelle strade, nei palazzi dell´aristocrazia, nelle caserme, nei covi bolscevichi di San Pietroburgo. Queste sì, restano: immortalate da fotografi anonimi eppure geniali, da qualche spezzone di ripresa cinematografica, e dalle cronache in presa diretta di tanti testimoni. Le folle che si riversano per le strade al grido di "Pane, pane", la cavalleria cosacca che le fronteggia a sciabolate, il primo sangue sulla neve precoce di quell´autunno che sarebbe risultato il più freddo da mezzo secolo. Le redingote e i colletti duri dei membri del governo provvisorio, il febbrile andirivieni dello stato maggiore bolscevico nelle stanze sin allora linde e silenziose dello Smolnij, il collegio per le ragazze della nobiltà svuotato qualche giorno prima dalle Guardia rossa con i moschetti spianati.
Nel 1917 le rivoluzioni non vengono più ritratte col bulino degli incisori o il pennello dei pittori. A partire da cinque o sei anni prima, dalla rivoluzione messicana di Villa e Zapata, sono i fotografi che s´incaricano di consegnarle alla storia. E la fotografia è capace d´un realismo senza pari, un´incisività, una forza suggestiva che neppure Jacques-Louis David, dipingendo sullo sfondo di un´altra rivoluzione la morte di Marat al bagno, poteva avere.
Ecco quindi indimenticabili – perfetti come un materiale di scena per registi molto esigenti – gli stivaloni di Trotskij, il "pince-nez" di Kamenev, l´Isotta-Fraschini di Kerenskij in fuga. Le bandiere rosse, i morti sull´asfalto con le mogli piangenti, i colbacchi e le mantelle color tortora dei "Chevaliers gardes", il reggimento della Zarina. Stalin che fuma una piccola pipa in un corridoio dello Smolnij, le maglie a strisce orizzontali dei marinai del Baltico, le ragazze del Battaglione femminile alla difesa del Palazzo d´inverno, la torpediniera "Aurora" alla fonda nelle acque della Neva, la Guardia Rossa in posa dinanzi alle officine Vulkan.
Quanto alle cronache, esse forniscono sì dettagli avvincenti, ma versioni di parte: e pertanto vanno lette con cautela. I partigiani della rivoluzione (per primo il John Reed dei Dieci giorni che sconvolsero il mondo) ricamano infatti sull´eroismo delle folle disarmate di fronte alle sciabole cosacche, mentre i testimoni di parte zarista si soffermano sulle torme d´operai bene armati che, scesi in strada, per prima cosa svuotano le gioiellerie e i negozi di liquori. Così, di tutte le cronache sulle settimane precedenti il colpo di stato bolscevico, la rivolta e la presa del Palazzo d´inverno, quelle che sento più veritiere sono i diari e le testimonianze in cui sono descritte le giornate nell´albergo Astoria. Le angosce, gli sbalzi psicologici, l´usura nervosa d´una piccola fetta del mondo che in quell´ottobre fatale sta ormai per scomparire.
Perché una cosa è certa. Dalla rivoluzione bolscevica non sorgerà, com´era stato promesso, né una società giusta né un «uomo nuovo», salvo che per uomo nuovo non s´intenda l´homo sovieticus: vale a dire l´uomo bianco più povero e oppresso del XX secolo. Ma certo la rivoluzione di Lenin dissolve il mondo di prima. Tra guerra mondiale e rivoluzione russa, infatti, l´ancien régime sprofonda. Sparisce. E la sua agonia la possiamo osservare in scene marginali ma estremamente eloquenti, nella hall, al ristorante, nelle camere dell´albergo Astoria.
Mentre la rivoluzione si prepara e poi inizia la sua marcia travolgente, nell´albergo più lussuoso di San Pietroburgo, sulla piazza Sant´Isacco, davanti al monumento equestre di Nicola I, s´è infatti radunata una singolare e febbricitante comunità.
Diplomatici stranieri che hanno lasciato per sicurezza i loro appartamenti, ufficiali di collegamento degli eserciti alleati, e molti russi. Principi del sangue, altri aristocratici, banchieri, avventurieri, avventuriere.
L´albergo è ancora confortevole di termosifoni bollenti, vini francesi, cocaina venduta a cartocci da camerieri e barman. Al bar si mescolano le avventuriere, le contesse, gli ufficiali feriti appena tornati dal fronte. La principessa Orlov saluta gli amici prima di partire per la sua proprietà nel Caucaso, il giovane principe Sumarokov Elston – di cui le donne dicono che è più bello di Nijinskij – entra sventagliando il mantello foderato di zibellino. Ma di quando in quando, la pelliccia spruzzata di neve, giunge nella hall qualcuno che porta notizie di quel che avviene in città. E sono tutte notizie, per gli ospiti dell´Astoria, ferali. Nuove rivolte, altri saccheggi, e ogni giorno reparti di soldati, marinai o cavalleggeri che s´uniscono ai cortei degli operai.
Più ferali sono le notizie, e più la vita nell´albergo Astoria si fa agitata, delirante. All´ultimo piano, un finanziere ricchissimo e omosessuale fa danzare nudo, al collo una collana di perle, il giovane guardiamarina Lazarev, mentre al piano una nobile decaduta, la baronessa Keller, suona Stravinskij. Una mattina che dalle finestre dell´albergo si vedono avanzare i dimostranti, un ufficiale delle Gardes si spara un colpo di rivoltella in bocca e la baronessa Keller rotola ubriaca dalle scale. Gli spari di fucile si fanno sempre più vicini, ma Maria Kirilovna, la moglie del direttore del teatro Marinskij, conduce come ogni sera la sua caccia agli ufficiali più giovani.
Questo resta, dell´ottobre ´17: lo sfondo pittoresco, teatrale. La materia d´un film stupendo che Ejzenstejn avrebbe forse potuto fare, ma non fece. Per il resto, l´eredità non potrebbe essere più grama. Il mito della rivolta degli oppressi, del potere agli operai e ai contadini, della società senza classi e senza sfruttamento dell´uomo sull´uomo, tutto è già svanito nel 1920 quando termina la guerra civile. Subito infuria il Terrore rosso, e una nuova autocrazia si sostituisce a quella zarista. La povertà è ancora più tremenda di prima, e quando verso il ´24 comincia ad attenuarsi e la gente non muore più di fame nelle strade, la "patria del socialismo" entra in un periodo di penurie e privazioni che durerà per più di sessant´anni. Quanto alle libertà, meglio non parlarne. A ripensarla negli anni Trenta, tra fucilazioni di massa e milioni di deportati nell´arcipelago Gulag, la polizia politica degli zar – l´Ochrana – apparirà infatti come una società di beneficenza.
Così che oggi siamo ancora a ruminare lo stesso interrogativo: com´è stato possibile che la tragedia del popolo russo, un´esperienza catastrofica come quella del comunismo, la serie ininterrotta dei fallimenti economici e sociali durata da Lenin a Gorbaciov, il precipitoso declino delle arti e della cultura russa in tutti i sette decenni dell´Urss, siano stati visti da milioni e milioni di uomini in tutto il mondo come il paradiso in terra, la più consolante delle speranze, la meta a cui dedicare – e se necessario sacrificare – le proprie vite?
Questa è la vera, la sola cosa che resta da discutere sull´ottobre ´17. Il suo incomprensibile potere di seduzione. Il mistero del fascino che ha esercitato per tanto tempo su tanta gente. Lo «charme universel d´octobre», come lo ha chiamato François Furet nel suo libro Il passato di un´illusione. Già nei primi Venti, infatti, la rivoluzione bolscevica era sfuggita all´analisi politica, alla critica, per diventare oggetto d´amore e devozione. Anche d´avversione, beninteso. Ma se il rigetto da parte del mondo borghese e capitalista era comprensibile, aveva una logica, l´incantamento dei suoi fedeli risulterà più oscuro e indecifrabile ad ogni decennio che passa. Una magia, dice ancora Furet.
Altro non c´è da aggiungere. Salvo forse ricordare i calcoli fatti dagli economisti all´inizio degli anni Novanta, subito dopo che il comunismo sovietico era finito nella pattumiera della Storia. Non ci fosse stata la rivoluzione d´ottobre, la Russia dell´ultimo scorcio del XX secolo avrebbe avuto un reddito pro-capite da tre a quattro volte superiore di quello che aveva quando Boris Eltsin mise fuori legge il partito comunista dell´Unione Sovietica.

Repubblica 23.10.07
1917, la data cancellata dalla memoria dei russi
di Boris Kolonickij


La rivoluzione russa del 1917 non suscita più le passioni che ha suscitato nel XX secolo. Le sue parole d´ordine e i suoi simboli sono stati, dopo il naufragio dell´Urss, inghiottiti dal passato. Ora, una volta conclusa l´esperienza nata dalla rottura del 1917, gli storici possono cominciare a dipanare l´intricata matassa del passato e, grattando via incrostazioni interpretative e luoghi comuni stratificatisi nel del fratello, il granduca Michele. Quando anche questi rinunciò al trono, la monarchia cessò di esistere. Formalmente, l´ordinamento statale sarebbe stato deciso dall´Assemblea Costituente, ma la monarchia era ormai di fatto impossibile. Sospettavano, molti manifestanti, di aver abbattuto la monarchia?
Non si può immaginare la rivoluzione russa senza le dicerie che correvano di bocca in bocca. Erano, i personaggi principali di queste dicerie, Rasputin e l´imperatrice. Nessuno storico ha dimostrato finora che Rasputin fosse al soldo dei tedeschi, ma l´opinione pubblica allora lo credeva. Così come credeva, senza alcun fondamento, che la zarina fosse fautrice di una pace separata con la Germania. Non c´erano forse persone assai ben informate che sostenevano persino che l´imperatrice mandasse quasi ogni giorno missive segrete a Berlino? Le maldicenze non risparmiavano nemmeno lo zar. A volte appariva come un depravato che aveva venduto la patria al nemico. Più spesso però le malelingue dipingevano Nicola II come un personaggio passivo, dolente: un ubriacone privo di volontà, succube della sua imperiosa consorte, che tradiva quel buono a nulla dello "zar scemo" con Rasputin. Poco importa che queste dicerie avessero poco a vedere con la realtà: quel che conta è che milioni di persone vi credessero. Tanto che molti sostenevano che gli oppositori della monarchia avessero messo in piedi una vera e propria "fabbrica di dicerie" per minare l´autorità dell´autocrazia.
Una rivoluzione borghese?
Storici dei più diversi orientamenti hanno sostenuto che a marzo in Russia era iniziata una rivoluzione "borghese": si erano create le condizioni per lo sviluppo capitalistico. Pensavano così anche alcuni contemporanei. Ma la lingua del 1917 era la lingua di una rivoluzione borghese?
I contemporanei chiamavano orgogliosamente la Russia "il paese più libero del mondo". C´era in questo, si capisce, una certa esagerazione, ma rispetto agli altri paesi in guerra, in cui le libertà erano sospese, le trasformazioni rivoluzionarie apparivano impressionanti. Tutti i partiti, tranne gli estremisti monarchici, godevano di piena libertà politica.
Tuttavia, se si osservava la sfera dei simboli politici - una sfera che assume un´importanza del tutto particolare durante una rivoluzione, quando l´autorità del potere va rinegoziata ogni giorno -, le cose stavano altrimenti. Questa sfera era monopolizzata dai simboli della clandestinità rivoluzionaria. Fin dai primi giorni della rivoluzione la bandiera rossa era diventata di fatto la bandiera nazionale. Veniva issata sul palazzo divenuto residenza del capo del Governo provvisorio. Dominavano le canzoni della clandestinità rivoluzionaria, e la "Marsigliese russa" – un canto in cui, rispetto all´originale francese, l´accento era spostato sulla lotta di classe - era diventata di fatto l´inno nazionale. Persino il celeberrimo emblema con la falce e il martello non era un´invenzione bolscevica: si poteva vedere già il 1° maggio del 1917 sulla residenza del Governo provvisorio! Come molti altri simboli rivoluzionari, venne poi "bolscevizzato" dal partito che aveva preso il potere.
Il fatto che i simboli rivoluzionari fossero dominanti ebbe grande importanza. Proprio i simboli avevano un´influenza del tutto particolare sulle masse che si iniziavano per la prima volta alla politica. La complessa realtà politica era descritta e classificata con l´aiuto dei simboli rivoluzionari. Questo creava non pochi problemi ai socialisti moderati, fautori di una coalizione con i partiti "borghesi". I simboli rivoluzionari erano un cattivo strumento per consolidare la pace sociale e poter proseguire la guerra. Per i bolscevichi e per gli altri socialisti radicali, invece, questa situazione di monopolio dei simboli rivoluzionari offriva non poche possibilità.
E che dire della figura del nemico? Sia i simboli che la propaganda politica dei socialisti delle diverse tendenze puntavano il dito contro il nemico principale della rivoluzione: la "borghesia". Anche i sottili distinguo dei socialisti moderati erano recepiti dalla coscienza di massa in modo estremamente radicale. Il paese rivoluzionario considerava colpevole di tutte le sventure "il borghese". Tutti lo denunciavano; nessuno desiderava identificarsi con la "borghesia". "Borghesia" era un concetto vago. Le opinioni politiche, la posizione etica e perfino l´appartenenza etnica potevano esser sufficienti per finire nella "borghesia". La retorica antiborghese era onnipresente.
Una rivoluzione democratica?
Dopo l´abbattimento della monarchia giunsero al potere uomini di orientamento democratico. Nel paese vennero introdotte le libertà democratiche; vennero eletti gli organi di autogoverno locale. La parola democrazia era straordinariamente popolare: era intesa come un magico scongiuro, come un mezzo universale per risolvere tutti i problemi politici e sociali. Democratizzarono la scuola, democratizzarono il teatro, democratizzarono la Chiesa ortodossa russa, democratizzarono l´esercito e la marina militare. Persone delle più diverse opinioni politiche si davano l´attestato di "democratici". Tuttavia la parola democrazia, che sembra così chiara, richiede, quando si leggono i testi del 1917, una traduzione particolare. Non sempre democrazia era intesa come un sistema politico: nella lingua forgiata dalla cultura politica socialista "democrazia" era intesa anche come un particolare soggetto del processo politico. A volte stava a indicare gli operai, a volte i partiti socialisti, a volte ancora i nuovi organismi nati dalla rivoluzione (soviet, comitati). Per di più la "democrazia" non era opposta alla monarchia o alla dittatura, ma alla "borghesia". Questa opposizione fra "borghesia" e "democrazia" non era usata soltanto dai socialisti, ma anche dalle pubblicazioni commerciali di massa e perfino dagli ambasciatori stranieri. Poiché tale era l´accezione del termine "democrazia", molti sostenitori dei bolscevichi si consideravano con sincerità i "democratici" più coerenti: proprio loro infatti esigevano di schiacciare risolutamente la "borghesia".
Se per certi versi Ottobre del 1917 fu la negazione di Febbraio, per molti altri ne fu la continuazione. Il dominio dei simboli rivoluzionari, la diffusione del linguaggio socialista, che veniva "tradotto" in modo particolarmente radicale dalle masse in via di politicizzazione, favorirono la formazione di varie forme di coscienza antiborghese. Questo rese più difficile la possibilità di raggiungere la pace civile e, inversamente, aumentò il pericolo di scivolare verso la guerra civile.
(Traduzione di Maria Ferretti)

Repubblica 23.10.07
Dopo l’ottobre rosso la lunga tragedia civile
di Enrico Franceschini


Non molti docenti universitari sanno maneggiare un mitra. Ancora meno sono quelli sopravvissuti all´esilio in Siberia, alla fame, agli assedi, e che poi sono tornati a servire la terra che li ha perseguitati. Teodor Shanin è nato nel 1931 a Vilnius, nell´odierna Lituania, da una famiglia di ebrei polacchi. Suo padre, che aveva combattuto nella rivoluzione d´Ottobre, fu imprigionato in Siberia da Stalin nel 1941, e Teodor lo seguì con la madre. L´esilio gli salvò la vita, perché poche settimane più tardi i nazisti entrarono a Vilnius, sterminando ogni ebreo trovato in città. Alla fine della guerra, dopo una fuga attraverso la Russia, riuscì a mettersi in salvo a Parigi. Ma ci restò poco, andando in Palestina ad arruolarsi nei commandos del nascente stato di Israele. Poi ha studiato storia della Russia alla Birmingham University, in Gran Bretagna. Tornato in Israele ha insegnato all´università di Haifa ed è stato trai fondatori di Peace Now, il movimento per la pace con i palestinesi. Se n´è andato dallo Stato ebraico per protesta quando un lettore arabo della sua università è stato licenziato per motivi di sicurezza. È tornato di nuovo nel Regno Unito, con la moglie, una ricercatrice israeliana. Ha insegnato a Oxford. È diventato rettore alla Manchester University. Dopo la fine dell´Urss ha fondato a Mosca un´università russo-britannica. Ora vive tra Mosca e Cambridge.
Professor Shanin, la rivoluzione d´Ottobre, novant´anni dopo. Come giudicarla?
«Ha segnato l´inizio di una nuova fase per l´umanità. È stata la più significativa tra le rivoluzioni che hanno sviluppato un nuovo tipo di società, come la rivoluzione messicana, cinese, vietnamita. È stata molto diversa dalle rivoluzioni dei secoli precedenti. Ed è stata incompresa dai contemporanei, anche da coloro che la fecero. Ha presente il vecchio detto secondo cui i generali combattono sempre la guerra precedente? Penso che valga anche per i rivoluzionari. Gli artefici della rivoluzione russa usavano il linguaggio e le immagini della rivoluzione francese: cantavano perfino la Marsigliese. Ma nessuna di quelle immagini era appropriata all´Ottobre rosso».
Proviamo a trovarne di appropriate, allora. Fu una tragedia?
«Tutte le rivoluzioni sono tragiche. Portano sangue, distruzione, lotta fratricida fra cittadini della stessa terra».
Veramente la rivoluzione d´Ottobre fece sì e no qualche morto a Pietroburgo e arrivò nel resto della Russia "per telegrafo": come un comunicato a cui obbedire. Sangue e guerra fratricida vennero solo dopo, con la guerra civile.
«Ha ragione, ma ha risposto da solo alla sua obiezione. La rivoluzione non finì con i giorni dell´Ottobre, che fu solo la scintilla. Non si può staccare l´Ottobre dagli anni di guerra civile tra rossi e bianchi. Lì i morti non si contarono. E lì sta la tragedia».
Alludevo non solo a sangue, morti e distruzione. Non fu una tragedia che la Russia dell'inizio del '900, un paese che esportava burro e grano in tutta Europa, con una moneta tra le più solide del mondo, e un predominio mondiale nell'arte, nella letteratura, nella musica, venisse stravolta dalla rivoluzione e dalla dittatura comunista che ne seguì?
«La dittatura comunista fu una tragedia, indubbiamente, ma a partire dal 1929, dopo la morte di Lenin e l´avvento di Stalin, nel periodo che conduce alle purghe, al terrore, alla collettivizzazione forzata. Prima di allora, fu uno sviluppo naturale e per certi versi inevitabile della storia, a cui alcuni possono guardare con favore, se credono nella necessità di un rapido cambiamento sociale».
Quel cambiamento non sarebbe stato possibile per un'altra strada? Attraverso le riforme, la graduale democratizzazione che era in corso in Russia da oltre un decennio?
«Secondo me, no. Se non ci fosse stato l´Ottobre, in Russia sarebbe avvenuta un´esplosione violenta di altro tipo. Troppo forti erano le diseguaglianze di classe. Troppo estese povertà e arretratezza, a dispetto di taluni passi avanti economici. Troppo debole, ignorante e corrotto era il potere dello zar. La rivoluzione produsse l´industrializzazione, un progresso scientifico e culturale di massa, un balzo in avanti della società. Lenin aveva corretto certi eccessi, avviato riforme democratizzatrici in campo economico e politico».
Aleksandr Jakovlev, braccio destro di Gorbaciov e cosiddetto "architetto della perestrojka", mi disse una volta che l'uomo russo aveva finalmente cominciato ad acquisire una coscienza individuale nei circa cinquant'anni trascorsi tra l'abolizione della servitù della gleba e il 1917. Poi venne la rivoluzione bolscevica, e per altri settant'anni l'uomo russo è stato di nuovo privato di una coscienza individuale. Non è stata una tragedia anche quella?
«Io contesto che tra il ´17 e il ´29 si fosse spenta la coscienza dell´individuo. Fu anche quello un decennio di grande vivacità intellettuale, in Russia, sotto molteplici aspetti. Le cose, ripeto, cambiarono completamente dopo il ´29. Lo spirito della rivoluzione russa, con Stalin, diventò tutt´altra cosa».
Una prima ondata di revisionismo storico faceva una distinzione tra Lenin, buono, e Stalin, cattivo. In anni più recenti, anche Lenin è stato dipinto, nel pensiero di gran parte della sinistra, come uno spietato dittatore con le mani lorde di sangue. Chi era Lenin, per lei?
«Lenin vedeva se stesso come un giacobino: si sentiva Robespierre. Questo fu efficace, nel farlo vincere nei giorni dell´Ottobre e poi negli anni assai più difficili della guerra civile. Anche Lenin, certo, si è coperto di sangue. Ma i suoi attacchi generalmente non furono contro i rivoluzionari, bensì contro le forze che si opponevano alla rivoluzione: lo zar, i bianchi, la nobiltà, la borghesia. Stalin invece attaccò anche e soprattutto i propri compagni, i propri fratelli. Per quanto Lenin non sia indenne da critiche e condanne, la differenza tra lui e Stalin è innegabile, profonda».
Andrebbe chiuso, il mausoleo che ospita ancora la salma imbalsamata di Vladimir Ilich, sulla Piazza Rossa?
«Ritengo che tutti gli uomini debbano essere sepolti dignitosamente e non trasformati in culto, in una forma di religione».
Dopo settant'anni, la rivoluzione si è spenta, l'Unione Sovietica è crollata, e con essa il comunismo. Come vede la fine dell'Urss?
«Una buona cosa, per la Russia e per l´Europa. Ha aperto ai russi la possibilità di nuovi sviluppi. Ha aperto la porta a un potenziale di cambiamento e di crescita sicuramente positivo».
Sarà realizzato questo potenziale? Dove andrà la Russia di Putin?
«La Russia è il più grande paese del mondo, con enormi ricchezze naturali. Può fare molto di bene e molto di male. Ma lascio le previsioni sul suo futuro ai profeti. Come storico m´accontento di provare a comprendere il passato. È già abbastanza complicato».

Corriere della Sera 23.10.07
Anniversario. Il leader dirà che «resta un punto di riferimento imprescindibile»
Rivoluzione d'ottobre, Diliberto a Mosca Discorso dal palco 70 anni dopo Togliatti
di Andrea Garibaldi


Insieme con il segretario del Pdci, che parlerà in italiano, un centinaio di militanti del partito: visita anche a San Pietroburgo

Alle cinque del pomeriggio di mercoledì 7 novembre avrà fatto già buio e la temperatura non dovrebbe scendere sotto lo zero. Attorno a quell'ora, Oliviero Diliberto salirà sul palco sotto al monumento del generale Zhukov, eroe dell'assedio di Leningrado. Al suo fianco Ghennadij Ziuganov, segretario da 14 anni del Partito comunista della Federazione russa, ciò che ha preso il posto del Pcus e che ha il 18 per cento dei seggi in Parlamento. Diliberto parlerà alla folla stretta a rievocare, come ogni 7 novembre, la Rivoluzione d'ottobre (era in vigore, allora, il calendario giuliano). Parlerà in italiano, perché è vero che il segretario dei Comunisti italiani studiò a Mosca ai tempi dell'università, ma non ha conservato un russo fluente. Diliberto sarà, a quanto risulta al momento, l'unico leader straniero a celebrare con un discorso l'evento, e quest'anno si tratta del novantesimo anniversario della presa del Palazzo d'Inverno.
Il monumento del generale Zhukov è in piazza del Maneggio, proprio adiacente alla Piazza Rossa, che da là si vede, fra il Museo storico e la Chiesa della Resurrezione. Quindi con un piccolo salto logistico e un grande orgoglio politico, i Comunisti Italiani dicono che il segretario parlerà «sulla soglia della Piazza Rossa». Certo, erano altri tempi quando il 7 novembre veniva glorificato dai segretari del Pcus sulla terrazza del Mausoleo di Lenin, proprio al centro della Piazza, il Cremlino alle spalle. Da quella balaustra s'affacciò anche Togliatti, prima e dopo la Seconda guerra mondiale. Oggi Putin non concede la piazza, se non a se stesso.
Sotto al palco ci saranno anche cento comunisti italiani che hanno aderito al «viaggio politico-turistico» predisposto dall'Associazione Italia- Russia e da Punto Critico, viaggio che come ha scritto Iacopo Venier, responsabile esteri del partito, «ha il preciso scopo politico di ribadire il nesso tra i Comunisti Italiani e l'Ottobre». Dirà Diliberto che quell'Ottobre resta punto di riferimento storico imprescindibile per chi voglia cambiare il mondo dalle fondamenta e non solo gestire le contraddizioni interne al capitalismo e dirà che quell'Ottobre ha aperto la via a numerosi processi di liberazione. «Non andremo a Mosca per nostalgia — spiega Venier —. Non siamo la sinistra che dissolve il proprio passato, quello è il Partito democratico». Altri italiani sotto quel palco? «Una delegazione di Rifondazione comunista, senza leader...». «Siamo gli ultimi che rappresentano i comunisti in questo Paese», disse Diliberto al Comitato centrale 2006. Oggi il segretario presenterà l'edizione italiana di
Granma, organo del Partito comunista cubano, allegato ogni mese a Rinascita, settimanale Pdci, mentre per i 90 anni della Rivoluzione sovietica è pronto lo slogan: "Novant'anni e non li dimostra".
In Russia i cento fortunati che hanno prenotato il viaggio passeranno da San Pietroburgo, visiteranno l'incrociatore Aurora, da cui partirono le salve sul Palazzo d'Inverno, e il Complesso dello Smolny, in via Dittatura del proletariato numero 3. Quindi a Mosca, visita al monumento a Marx e cena conviviale con il Segretario e i compagni della Federazione russa.
Coincidenza clamorosa: nello stesso 7 novembre l'Inter, che è nel cuore di Diliberto, affronterà a San Siro, in Champions League, la squadra dell'Armata rossa.

Corriere della Sera 23.10.07
Spagna, Concordato da rivedere Zapatero vuole un Paese più laico
Si studia l'abolizione del rito cattolico dai protocolli di Stato L'ala progressista spinge per la svolta. I vertici smentiscono
di Elisabetta Rosaspina


MADRID — Era già improbabile che passasse alla Storia come «José Luis, il Cattolico». Dopo la legittimazione dei matrimoni omosessuali, l'introduzione di un'educazione civica e soprattutto laica a scuola, il ritocco al trattamento fiscale riservato alla Chiesa, il Vaticano ha ricevuto forte e chiaro il messaggio laico della politica di Zapatero. Ma, ora che il Partito socialista medita addirittura di rimettere mano, dopo quasi 30 anni, al Concordato, la Santa Sede rischia di ritrovarsi in mezzo al campo di battaglia elettorale nei prossimi mesi.
I vertici del Psoe smentiscono, ma le indiscrezioni filtrate sul programma in gestazione nelle sue stanze sono piuttosto circostanziate: l'ala progressista del partito sostiene un sospetto di incostituzionalità nel ruolo che la Chiesa ancora ricopre dentro le istituzioni dello Stato. Per esempio, le forze armate.
Perché, si chiedono i revisionisti, i cappellani del Vicariato Castrense possono far carriera, fino a indossare il grado di generale? Perché l'assistenza religiosa ai soldati è soltanto cattolica, quando si sa che sta crescendo, fra gli arruolati (ormai soltanto volontari), il numero dei musulmani? E perché gli atti protocollari dello Stato seguono unicamente il rito cattolico? Tutto ciò è conforme al pluralismo religioso di cui la Spagna del XXI secolo vuole farsi portabandiera? Si rimugina sui funerali di Stato alle vittime del terrorismo, celebrati da vescovi e arcivescovi: «Eppure — qualcuno nota — tra le vittime dell'attentato alla stazione di Atocha, l'11 marzo del 2004, c'erano anche morti di altre confessioni».
Fondata o no, la discussione è scoppiata sicuramente troppo presto tra le mani dei socialisti, perché ad avvantaggiarsene non finiscano per essere i rivali del PP, il partito popolare, già in guardia sulla nuova «offensiva laica» della maggioranza.
Pedro Zerolo, segretario dei Movimenti sociali del Psoe, esclude che, nei progetti del partito, ci siano misure anticlericali o anche solo le più blande intenzioni di mettere in discussione le prerogative ecclesiastiche in terra iberica. Si ammette, però, che i gruppi di lavoro che stanno elaborando i temi della prossima campagna elettorale di Zapatero hanno vari argomenti all'ordine del giorno. E quello del pluralismo religioso è uno dei tanti.
Gli analisti politici, che cominciano a esprimersi sulla stampa sulla questione, considerano poco utile alla causa dei socialisti una vertenza con Santa Romana Chiesa, visto che già nell'ultima legislatura non sono mancati i motivi di tensione. La Conferenza Episcopale, per esempio, aveva incoraggiato quest'estate i genitori degli studenti ad avvalersi dell'obiezione di coscienza, per salvaguardare i figli dall'educazione civica introdotta per legge dal governo e troppo aperta, per esempio, in materia di famiglie omosessuali e coppie di fatto. La nuova materia scolastica, entrata in vigore quest'anno in molte comunità autonome rette dai socialisti, era stata denunciata dal cardinale Antonio Cañizares come una grave inadempienza ai patti tra Stato e Chiesa. E il governo certamente non dimentica il milione e mezzo di cittadini che gli ambienti cattolici riuscirono a mobilitare il 18 giugno di due anni fa in difesa della famiglia tradizionale.
I primi accordi erano stati firmati nel luglio del '76, alla fine della dittatura franchista, ma i trattati concordati nel gennaio del 1979 tra la Spagna e il Vaticano riformavano il Concordato stipulato nel '53, sotto il regime di Franco, ed erano stati ratificati dal parlamento eletto dopo il varo della Costituzione. Ciò basta, secondo i conservatori, a considerarli legittimi e in buona salute.

il manifesto 23.10.07
Intervista a Franco Giordano
«Decidiamo insieme forme e contenuti dell'unità a sinistra»

di Matteo Bartocci e Gabriele Polo


Per Franco Giordano dopo la manifestazione di sabato il governo non può blindare il protocollo. E la sinistra deve avviare subito una costituente aperta a chi è fuori dai partiti. Legge elettorale? Chi non vuole il sistema tedesco difende una logica di nicchia

«La straordinaria manifestazione di sabato cambia tutto. Adesso abbiamo il compito storico di unire la sinistra. Va fatto rapidamente ma è chiaro che non può essere solo un compito dei partiti. Serve un'unità molto più larga, la stessa di piazza San Giovanni».
Quando incontriamo Franco Giordano, la soddisfazione per il successo di sabato è ancora palpabile. Il segretario di Rifondazione è ben attento a non bruciare forme e modalità del confronto a sinistra. Insiste però su un «modello rovesciato» rispetto al Pd: non primarie sul leader ma «una consultazione aperta e partecipata su programmi, contenuti e modalità organizzative». «Se vogliamo presentarci uniti alle amministrative - insiste - dobbiamo accelerare. Va definito subito il processo costituente e elaborata una cultura politica pacifista, laica, antiliberista e che raccolga la differenza di genere. E' una sfida enorme. Rifondazione e la Sinistra europea sono pronti, non si torna più indietro».

Una manifestazione così grande però vi richiama a grandi responsabilità.
Quella piazza enorme e plurale ha un doppio significato: da una parte una rivendicazione chiara nei confronti del governo sulla precarietà, la pace, i diritti civili, l'ambiente. Contemporaneamente ha lanciato una fortissima richiesta di unità della sinistra.

Soprattutto ora che siete al governo.
Il nostro giudizio sul protocollo sul welfare resta critico. Non può essere che un ragazzo inizia a lavorare come precario e non esce mai da questa condizione. Ma la nostra dialettica col governo non si esaurisce qui. Accolgo in pieno la proposta di Gianni Rinaldini (segretario Fiom, ndr) al convegno degli economisti promosso dal manifesto. Dobbiamo ottenere risultati concreti verso quelle aree sociali finora invisibili e sempre più in sofferenza. Spero che sia accolta in finanziaria una proposta unitaria della sinistra che, a partire dall'armonizzazione delle rendite, propone la restituzione del fiscal drag ai lavoratori o la detassazione degli aumenti salariali ottenuti con la contrattazione nazionale.

E se sul protocollo ci fosse la fiducia?
Dopo la manifestazione penso che sia più difficile porre un aut aut. La fiducia chiuderebbe la porta a quella piazza. Una piazza più forte perché si è mossa in sintonia con una sfida europea. La settimana scorsa a Lisbona 200mila persone hanno manifestato contro la flexicurity, in Francia ci sono stati i primi scioperi contro Sarkozy e in Germania quelli dei ferrovieri contro le privatizzazioni.

La manifestazione però è stato anche il segno tangibile di una supplenza dal basso alle debolezze dei partiti.
Abbiamo tutti un dovere verso quella piazza: bisogna aprire entro l'anno il processo costituente di una nuova sinistra unitaria e plurale. Mercoledì ne discuterò con gli altri segretari e quindi non voglio entrare nei dettagli. E' chiaro però che la sinistra non si esaurisce nei partiti che ci sono. Rifondazione ha avanzato una proposta che può tenere insieme tutti: gli stati generali sul modello del «forum sociale». Una tre giorni aperta che può censire tutte le espressioni di sinistra e decidere una fase costituente che, a nostro avviso, deve essere una federazione forte tra partiti, singoli e associazioni.

In piazza un oceano di bandiere rosse. Non è che rifarete un «Pci bonsai»?
Noi non vogliamo una ricomposizione delle forze comuniste. Imprigionerebbe la novità e limiterebbe le sue potenzialità. E' vero: Rifondazione era in piazza ma quella piazza non era di Rifondazione. Il Prc è venuto come partito ma anche come collettore unitario. Il bisogno, la richiesta dell'unità a sinistra dei nostri iscritti ha fatto impressione perfino a me. Sabato è stato detto in modo chiaro che la politica non si esaurisce in un Pd onnicomprensivo. Noi restiamo saldamente ancorati al mondo del lavoro. E non esiste un soggetto unitario della sinistra che sia la semplice proiezione della maggioranza dell'orientamento sindacale. Noi, tutti insieme, abbiamo visto che c'è bisogno di una soggettività politica che vuole esprimersi in prima persona, senza appaltare a altri la propria identità.

Cos'è, una polemica con la Cgil?
Non faccio polemiche con chi non è venuto. In piazza c'era un'idea del processo unitario: o questo soggetto si costruisce con forme partecipate oppure non esiste. Non ha sfilato solo il no al referendum. C'era chi ha votato sì e perfino chi ha votato per il Pd, basti pensare a Moni Ovadia. In tanti sono in bilico e aspettano una proposta credibile da sinistra. Cedere la sovranità, del resto, vuol dire andare avanti anche se non condividi integralmente.

Come andare avanti allora?
Noi non vogliamo scioglierci. In questa fase transitoria i partiti ci sono perché sono una ricchezza di questo paese. Ma da soli non bastano. Bisogna sollecitare forme di costruzione di programmi e su questi chiamare al voto in forme binarie a partire dal basso, dalle realtà territoriali.

I problemi di rapporto con i movimenti restano. Come riallacciare il dialogo?
Bisogna incontrarsi a tutti i livelli. Spero che i promotori, i tre giornali, aprano una discussione. Mantenere aperta la relazione è decisivo per evitare possibili solitudini. Quella manifestazione non chiude nulla, è a disposizione anche di chi non è venuto.

Alla vigilia, una personalità come Nichi Vendola è finita al centro di retroscena e indiscrezioni. Questa nuova sinistra non ha un problema di leadership?
Penso che insieme alla partecipazione dal basso l'altra vera innovazione sarà la collegialità. Le primarie sul leader non appartengono alla nostra cultura, faremo l'esatto contrario di un'elezione plebiscitaria del leader.

Sulla riforma elettorale siete divisi. Mercoledì ne discuterete con gli altri segretari?
Noi sosteniamo il modello tedesco. Chi vuole davvero l'unità a sinistra con quel sistema non ha nulla da temere. Tutte le resistenze nascondono una logica di nicchia. Se abbiamo deciso di stare insieme che problema c'è? L'unità non è un ballon d'essai, chi è venuto al corteo non ce lo perdonerebbe mai.

il manifesto 23.10.07
La Cgil apre lo scontro. Nel mirino anche le aree programmatiche
Processo alla Fiom
Epifani difende il protocollo e attacca chi si è opposto. Al centro c'è la salvezza del governo. L'accordo non si può cambiare, e neanche migliorare
di Loris Campetti


«L'esito del referendum è inequivocabile, è un risultato mai raggiunto... I sì esprimono la condivisione sui contenuti dell'accordo, ma anche la fiducia nel sindacato, volontà di dare ad esso forze e autorità, fiducia nelle possibilità di cambiamento, riconoscimento di aver fatto quanto possibile. Ha vinto un'idea alta di responsabilità, autonomia e unità, solidarietà, coraggio di rischiare, un'idea alta di confederalità». Il segretario Cgil Guglielmo Epifani ha rivendicato il sì al protocollo, tanto più che «la trascrizione finale del testo corrisponde e in alcuni casi» ne «chiarisce meglio i contenuti, consentendo anche di superare alcune delle riserve espresse al momento dell'accordo».
Il direttivo della Cgil, aperto dalla relazione del segretario, si concluderà oggi con una risoluzione che, date le premesse, ben difficilmente sarà unitaria. Premesse pesanti per i reprobi del no al protocollo, aria da processo politico. Sotto processo, per ordine: 1) la Fiom, che «ha compiuto una scelta mai fatta prima esprimendosi per il no e con questa formalizzazione il referendum è diventato di fatto anche una contrapposizione fra una categoria e le confederazioni»; 2) Lavoro e società, l'area programmatica che ha compiuto l'errore di partecipare «alla manifestazione del 29 settembre», promossa da decine di Rsu contro il protocollo del 23 luglio, e siccome Lavoro e società «partecipa alla maggioranza congressuale... è una questione di cui dobbiamo discutere senza finzioni e ambiguità»; 3) chi ha lanciato «le accuse di brogli. Innestare questa polemica è stata una scelta studiata e costruita tanto dentro che fuori dalla Cgil», un «tentativo di delegittimare il voto... è una responsabilità grave, che resta tutta a carico di chi, per sostenere interessi di parte, non ha voluto pensare al bene dei lavoratori e dei pensionati». Leggasi Giorgio Cremaschi.
Il gruppo dirigente dei meccanici è nel mirino, mentre per Nicolosi (coordinatore di Lavoro e società) e Cremaschi (Rete 28 aprile) qualcuno parla addirittura di provvedimenti disciplinari. La Fiom - con le sue colpe - sarà oggetto di dibattito politico in tutte le categorie e nei regionali Cgil per due mesi e si concluderà in un nuovo direttivo nazionale. «La particolare sensibilità della Fiom rappresenta una ricchezza per la Cgil - ha detto Epifani - ma guai se si allenta lo spirito della confederalità e se non si affronta subito questo nodo le questioni si aggraveranno». Mentre il segretario Gianni Rinaldini interverrà oggi, Francesca Re David ha già preso la parola dichiarando folle l'idea di far discutere l'organizzazione per due mesi per decidere se la Fiom ha fatto bene o male a votare no, mentre sono in piedi difficili trattative e scioperi per il rinnovo del contratto. Il referendum, ha detto, è uno strumento di democrazia e partecipazione di cui i meccanici hanno una certa pratica: ma per salvarlo bisogna definire le regole. E che regole sono quelle per cui si può votare solo sì?
Un confronto duro, dove sono volate parole grosse: c'è chi che cerca possibili nessi tra il no all'accordo e l'apertura di spazi alle «stelle a cinque punte»; o chi sostiene che nelle aziende meccaniche deve entrare la Cgil che adesso non c'è, come se la Fiom fosse il quarto sindacato. Anche Nicolosi e Cremaschi, che interverranno oggi, denunciano i toni degli attacchi. E la maggioranza congressuale, che comprende Lavoro e società, potrebbe saltare. Alcuni interventi, come quelli dei segretari delle Camere del lavoro di Bologna e Torino, hanno invece evitato trionfalismi nell'analisi del voto, «tanto i sì che i no appartengono alla Cgil».
Epifani riconosce la presenza di un dissenso tra i lavoratori: «Non sfugge il malessere che esprimono alcune grandi aziende metalmeccaniche, in particolare Fiat ma il disagio è dietro anche molti sì. Ma se è necessario interrogarsi sulle ragioni del no, tutti (a cominciare da chi è stato contrario) devono interrogarsi sui tantissimi sì».
Cosa motiva tanta durezza nei confronti del dissenso? La risposta è nelle parole di Epifani: «Ci dobbiamo augurare che il governo non cada, che sia messo in condizioni di proseguire il lavoro, che non prevalgano ipotesi di segno moderato o operazioni di cambi di maggioranza nel segno del trasformismo o addirittura della compravendita dei voti di parlamentari». E ancora, il protocollo non si deve cambiare, neppure migliorare perché «dati i rapporti nella maggioranza, saranno difficili soluzioni ulteriormente migliorative: abbiamo raggiunto le migliori soluzioni possibili». Nel direttivo, ascoltate, queste parole, c'è chi lancia un appello all'autonomia.

Aprile on line 22.10.07
Sinistra, il giorno dopo
di Titti Di Salvo, capogruppo SD Camera dei deputati


Lungo la strada dell'unità, per una sinistra larga e rinnovata, si ripropongono gli stessi problemi. Due in particolare: il rapporto con il sindacato confederale e il rinnovamento della sinistra

Siamo arrivati al 21 ottobre. E una riflessione è d'obbligo, accantonando per un momento una situazione politica confusa ed instabile. Infatti gli appuntamenti che precedevano il 21, pur molto diversi tra loro, avevano in comune l'essere una verifica del grado di rappresentanza sociale e politica, come antidoto o risposta alla crisi di consenso che attraversa il paese. Il successo di quei singoli eventi rende oggi la democrazia italiana più salda.

Naturalmente ciascuno di quegli appuntamenti ha delle conseguenze. Il referendum dei lavoratori e dei pensionati rassicura il sindacato sul gradimento della mediazione raggiunta con il protocollo sul welfare. Il voto di Walter Veltroni rafforza quella leadership dandogli una investitura che può essere solo limitata dall'autocensura.
Anche la manifestazione del 20 ottobre, molto partecipata, rassicura i promotori della esistenza di un seguito importante alle parole d'ordine con le quali la manifestazione era convocata.

Da lì in avanti, dal 21 in avanti, lungo la strada dell'unità a sinistra, una sinistra larga e rinnovata, si ripropongono gli stessi problemi. Due in particolare: quale rapporto tra la sinistra e il sindacato confederale; il rinnovamento della sinistra.
In primo luogo il rapporto con il sindacato confederale. E' perfino pleonastico sottolineare come la sinistra politica che ambisce a rappresentare politicamente il lavoro, non possa prescindere dal definire ambito e qualità del rapporto con il sindacato che il lavoro lo rappresenta socialmente, lasciando al passato collateralismi e cinghie di trasmissione.
Il termine "autonomia" qualifica quel rapporto. Ma appunto autonomia non è estraneità, non è competizione. Per definizione l'autonomia intanto è possibile solo sulla base di idee proprie da mettere in relazione ad altre idee.

Dalla astrazione alla concretezza: nella frizione che si è manifestata tra parte della sinistra e sindacato confederale sul protocollo, il punto a me non chiaro è stato il metro di misura scelto per misurare l'accordo.
Se il metro di misura fosse la distanza tra quel protocollo e il programma di governo dell'Unione, la polemica andrebbe rivolta verso chi si è discostato dal programma.
E' evidente che sta e stava al governo e alla sua maggioranza l'onere del rispetto del programma.
Se a non essere condiviso fosse il metodo della concertazione (propria delle socialdemocrazie europee più avanzate e che impegna governo e sindacati a comportamenti virtuosi sulla base di obiettivi condivisi) allora la polemica sarebbe sul privilegio della relazione: perché se si è scelta la concertazione, allora i firmatari dell'accordo siglato sono impegnati a tener fede a quell'accordo, pena svuotamento della stessa modalità di relazione.
Il referendum promosso dal sindacato sul protocollo, poi, ne ha approvato i contenuti e anche della legittimità del sindacato stesso.
Rimuovere quell'esito, vedendo solo il valore del referendum in quanto prova democratica, non aiuta a costruire un rapporto positivo e quindi autonomo tra sinistra politica e sindacato.

Peraltro sarebbe miope non vedere come nella consultazione si sia espresso, nei sì e nei no, il malessere di una condizione di lavoro valorizzata socialmente. La mia opinione è che il protocollo sia stato un terreno di aspra battaglia all'interno della maggioranza perché sui temi da esso affrontati si confrontano due idee di sviluppo; il sindacato ne è stato il parafulmine. Si è trattato di un aspro confronto che il programma pre-elettorale aveva composto e il risultato elettorale ha poi scomposto in modo molto evidente.
D'altra parte stupisce e comunque a me ha stupito l'isolamento culturale delle ragioni del lavoro a quel tavolo di trattative. Liquidare quell'isolamento con un giudizio sul moderatismo sindacale a mio avviso non solo è falso, ma comunque non spiegherebbe il problema. Tentare di rompere quell'isolamento rimuovendo il risultato del referendum, altrettanto: servono alleanze.
Così come le ragioni del lavoro non hanno chance né possibilità di segnare in prospettiva lo sviluppo del paese senza che la politica assuma quelle ragioni come ragioni fondative.

E questo ci riporta all'unità a sinistra e, soprattutto, ci riporta al tema del rinnovamento della sinistra.
Una sinistra larga, femminista, pacifista, ecologista e di governo.
Una sinistra che deve avere l'ambizione di immaginare una prospettiva nazionale e generale per il paese. Rinnovata, perché conosce i propri limiti interpretativi e di rappresentanza. Limpida, coerente, credibile: che sceglie la politica come ascolto e prende le distanza dalla politica mediatica profondamente berlusconiana, anche quando cambiano i protagonisti.
Ci vorrebbe il coraggio di uscire dalle trincee della propria identità: ci vorrebbe tempo.
Ma di sicuro due cose non ci servono: identità orgogliose contrapposte in una campagna elettorale permanente, tutta giocata all'interno della sinistra; denominazione di origini controllate, "cose rosse" o scelte analoghe brandite come perimetri.

L'unità a sinistra è ciò di cui ha bisogno il paese; non nascondere i problemi che esistono lungo quella strada o rimuovere i nodi fondamentali, lungi dall'essere un ostacolo verso questa prospettiva, è l'unica condizione per garantirle successo.

Aprile on line 22.10.07
Sd e l'occasione perduta
di Giorgio Mele, Senatore Sinistra democratica


L'intervento Il 20 ottobre ha consegnato alla sinistra politica un popolo che cerca riferimenti e risposte. L'occasione giusta potrebbe essere la costituente di un nuovo grande soggetto unitario

Il 20 ottobre è passato e ha lasciato un segno positivo.
Un milione di uomini, donne e sopratutto giovani hanno invaso le strade di Roma facendo riemergere la voce di gran parte del popolo della sinistra, che in questi mesi è stato fin troppo silente e passivo di fronte alla vicenda politica.
Dal corteo di sabato scorso emergono alcuni elementi che mi sembra utile sottolineare. Il primo è quello dei contenuti e dei valori.

Il popolo che guarda a sinistra ha espresso con grande chiarezza che i temi del lavoro e della precarietà devono stare al centro dell'agenda politica altrimenti, come dice il papa, si minano le basi materiali e morali della nostra società, si lacerano i legami della convivenza sociale e civile.
E' un richiamo forte, che viene in primo luogo dai tanti giovani in piazza preoccupati del loro futuro, ma anche del futuro della nostra democrazia, se i diritti sociali non vengono rispettati o accantonati.
E' stato un monito forte e razionale a tutta la coalizione di centrosinistra, che chiede di rimettere al centro della propria iniziativa di governo i temi che tutti abbiamo sottoscritto nel programma, e con cui abbiamo vinto le elezioni.

In secondo luogo la manifestazione, come tutti hanno affermato, non è stata contro il governo. Si sono così allontanate le paure, i fantasmi, gli spauracchi che per mesi hanno animato strumentalmente il dibattito politico. Il governo infatti non deve temere imboscate da questa parte della coalizione: sono altri che proprio in queste ore sono impegnati in mercimoni e manovre che dobbiamo tutti sventare.

Il governo deve solo temere il distacco e la perdita di consenso di tanta gente che ha guardato con speranza al centrosinistra, e che ora potrebbe ritirare la propria fiducia e la propria delega, come in parte sta già avvenendo, se non diamo risposte chiare e inequivoche sui temi del lavoro e del Welfare.

La manifestazione inoltre non è stata nemmeno contro il sindacato, che farebbe bene a comprendere le ragioni del successo del 20 ottobre, piuttosto che evocare esso stesso fantasmi irrazionali.
Da ultimo, quel grande corteo ha fondamentalmente espresso un gran bisogno di sinistra, di una sinistra unita e non di tante sinistre sparse e non comunicanti; e con questo spirito io e altri compagni vi abbiamo convintamene partecipato.

Da oggi possiamo riparlare della unità a sinistra con qualche ragione in più, e spero con qualche polemica in meno. Nei mesi scorsi non pochi hanno vissuto questo appuntamento con fastidio e diffidenza, se non addirittura con ostilità. La risposta di massa ha fatto giustizia di questi atteggiamenti, legittimi ma poco comprensibili.

Penso con franchezza che la non partecipazione di alcuni settori come quello di Sinistra Democratica sia stata più un'occasione mancata che una presa di posizione lungimirante.

Ora comunque è il momento di superare le diatribe delle settimane scorse e guardare in avanti, stabilendo un percorso certo, che sappia condurci attraverso la partecipazione di tanta gente a superare le poche cose che ci dividono: mettere giù una carta di intenti e avviare entro la fine dell'anno la costituente di un nuovo grande soggetto unitario della sinistra.
Dobbiamo evitare di perdere altro tempo perché potremmo non avere un'altra occasione.

Rosso di Sera 22.10.07
Chi non vuole l’unità della sinistra lo dica


C’è chi vuole rimanere comunista. E sta bene. Ma pretenderebbe che lo diventino anche coloro che non lo sono. Poi c’è chi ha scoperto da poco il socialismo europeo. E sta bene. Ma pretenderebbe di far diventare anche gli altri socialisti europei (poi qualcuno ci dovrà spiegare una volta per tutte che cos’è il socialismo europeo).
Basta leggere i giornali di oggi per capire che l’unità a sinistra sarebbe già cosa fatta se non ci fossero coloro che, sotterraneamente, remano contro. Quelli che non vengono alla manifestazione, gufano per settimane, prevedono quattro gatti e proibiscono le bandiere, e che dopo il milione di piazza San Giovanni si scagliano contro chi c’era e visto che ci sono chiedono pure che il Parlamento (eletto dal popolo, fino a prova contraria) si zittisca.
Quelli che c’erano e pretendono di dettare la linea (“voglio la falce e il martello”) senza capire che se si vuole l’unità la si deve costruire anche con chi non c’era, ma avrebbe voluto esserci.
Tutto questo ambaradan sarebbe facile da districare se ognuno prendesse, per ciò che gli compete, la propria responsabilità, se ognuno dicesse dove vuole andare, magari evitando di mettere i bastoni tra le ruote a chi vuole fare una certa strada.
Siamo onestamente stufi dei giochetti, da qualunque parte arrivino...

Aprile on line 21.10.07
Il Vaticano marcia su Roma


Anniversari Domenica 28 ottobre 2007, anniversario della marcia su Roma, saranno beatificati in San Pietro 498 franchisti perché, secondo i prelati spagnoli, sono "martiri della Repubblica". La gerarchia vaticana con questa azione entra violentemente nel dibattito politico spagnolo

Domenica 28 ottobre 2007, anniversario della marcia su Roma, saranno beatificati in San Pietro 498 franchisti, tra appartenenti al clero e laici, saranno beatificati perché, secondo i prelati spagnoli, sono "martiri della Repubblica". Sarà la più numerosa delle beatificazioni mai realizzate, è prevista una folla di fedeli (filofranchisti) dalla Spagna e il battage pubblicitario delle grandi occasioni sui media italiani.
La gerarchia vaticana con questa azione di massa entra violentemente nel dibattito politico spagnolo: il governo Zapatero sta per varare una legge sulla memoria che condanni il franchismo e la chiesa cattolica spagnola, supportata da Ratzinger, prende posizione in questo modo.

Ma d'altro canto, attraverso questa iniziativa, le gerarchie vaticane continuano a fare politica in supporto al fronte clerico fascista: la scelta della data della marcia su Roma allarga il significato dell'operazione e la colloca nel tentativo sempre più visibile di sdoganamento e legittimazione del fascismo, tentativo operato dall'integralista Ratzinger per affermare un modello di società chiuso e reazionario, patriarcale, omofobico e razzista.

La beatificazione di 498 franchisti presentati come martiri è un esempio vergognoso di revisionismo storico, la strategia vaticana è ancora il vittimismo: si costruisce un'iniziativa per mostrare il clero come vittima di sanguinari comunisti quando la realtà storica racconta che la chiesa fu parte di una reazione fascista che portò in Spagna alla guerra civile e all'instaurazione della dittatura. D'altra parte in Italia conosciamo bene questa tattica vaticana: negli ultimi mesi si cerca di far passare la chiesa cattolica, gli esponenti del clero e persino i politici che dichiaratamente ne supportano le istanze come vittime di una campagna anticlericale, quando, al contrario, la chiesa cattolica condiziona in modo sempre più palese la vita culturale, politica e sociale del nostro paese e conduce una campagna di istigazione all'odio e alla violenza contro donne, lesbiche, gay e trans che produce aggressioni, stupri, omicidi e diffusa intolleranza.

Dall'operazione revisionista che verrà celebrata domenica 28 ottobre esce rafforzata la marcia del dissolvimento della laicità (voluto dal Vaticano e operato dalla politica istituzionale) e la fascistizzazione della società, basata sulla creazione della paura e sulla caccia alle streghe dello scontro di civiltà; ne fanno le spese, ancora una volta, tutte le soggettività non conformi al modello unico dominante, la verità storica, l'antifascismo fondamento del nostro vivere civile.

Coordinamento Facciamo Breccia - NO VAT

Liberazione 23.30.07
Sinistra, impara dal 20 ottobre: cambia e unisciti
Intervista a Marco Revelli: «Quella piazza dimostra che esiste
l'intelligenza di massa. E vuole nuova unità politica e sociale»
di Anubi D'Avossa Lussurgiu


L'intervista: «Era una piazza esigente. Ora sarebbe triviale imitare le primarie»
Revelli: «Dopo il 20 ci vuole molta unità e molta discontinuità»

Marco come va? E a te? Bene, ora. Meglio, adesso. Iniziare a parlare con Marco Revelli, dopo sabato scorso, significa ritrovare e scambiarsi quello stesso tono, quel cambio di stato d'animo, quel "fiato" che si sono respirati nella piazza. Con lui, tra le firme "intellettuali" di quel piccolo cartello significativo che promosse il 3 agosto ciò che poi è stato il 20 ottobre, proviamo a ragionare sul "giorno dopo", anzi sul "tempo dopo". Su ciò che a partire da là dev'essere oggi, per il domani.

Cominciamo da sabato scorso: cosa ha significato, cioè cosa voleva significare, quella folla?
Partirei da un dato: il numero dei protagonisti del 20 ha travolto anche noi. Nei miei più rosei sogni quella dimensione non era prevedibile, li supera anzi di quattro se non cinque volte. Eppure nei due mesi precedenti di gente ne avevo incontrata, in assemblee, dibattiti... Soprattutto con i militanti. Cosa vuol dire allora quest'esplosione di popolo di sinistra, che mi pare la definizione più appropriata?

Ecco, cosa? Come mai, secondo te, questo scarto sorprendente e stavolta non in negativo?
Credo ci sia stata una grande intelligenza politica collettiva, che ha fatto sì che molte centinaia di migliaia di persone cogliessero l'essenza del momento. E il momento è questo: l'ottobre 2007. L'intuizione che stava sottopelle a tutti noi e che la grande piazza del 20 ha reso palpabile era che in questo tempo, in questo passaggio si giocava il destino di una sinistra in Italia. Cioè la possibilità o meno che nei prossimi anni esista una sinistra politica e sociale in Italia. Credo sia questo che, intorno alla spina dorsale del corpo militante, si è condensato con quella galassia di popolo. Ciò che si è capito è che ci si giocava il futuro, non il governo. Che la posta non era Prodi: il problema non era lui ma la sinistra italiana. E la capacità di una sinistra di superare il Capo delle Tempeste di quest'ottobre, nel quale si materializzava la possibilità di non poter parlare più, in Italia, di sinistra.

In effetti, c'era chi aveva descritto la sequenza della consultazione sul protocollo governo-sindacati-Confindustria e delle primarie del Piddì quasi come un "uno-due" fatale, a sinistra...
Già, ma la piazza secondo me non ha pensato, né è stata attratta, a riequilibrare il punteggio in una sorta di match tra "corpi militanti", rispetto a quelli delle confederazioni sindacali o del Partito democratico. Penso invece si sia capito qualcosa di più: che nel quadro sconvolto dagli eventi di questi mesi, nel cambio radicale di scenario che interviene con la nascita del Pd, con la trasformazione del sindacato e con quella della rappresentanza politica e sociale, si determinava chi è dentro e chi è fuori, per il futuro. Cioè, insisto: la possibilità che una sinistra, non questa o quella formazione particolare, ma una sinistra in generale non ci fosse più.

Tu dici che la posta in gioco era ben altra rispetto a quella su governo sì o governo no. Però il tam tam mediatico spingeva tutto su questo: solo miopia? E non erano solo i media...
In parte, è vero, il governo c'entra: ma non perché quella piazza potesse abbatterlo o innalzarlo sugli altari, come pensava chi non ha capito la posta in gioco, chi ha mostrato di non avere l'intelligenza della massa scesa in piazza. Parlo di quanti nel percorso di costruzione del 20 ci hanno detto, simmetricamente: non veniamo perché non volete buttare giù Prodi, anzi lo volete sostenere; e non veniamo perché lo volete buttare giù, anzi così aiutate il ritorno di Berlusconi. Il governo c'entrava e c'entra in modo molto più sostanziale: la sua fragilità, persino imprevedibile per quanto si rivela estrema, è la cartina di tornasole della trasformazione in corso.

Precisamente, dove individui il rapporto tra la crisi strisciante del governo e il "cambio di scenario" generale?
La debolezza di Prodi sta da una parte in una crisi di delegittimazione: cioè nel gran numero di delusi, che non sono solo a sinistra, per le inadempienze programmatiche. Ma dall'altra - e questa è la vera mina che l'ha dissanguato - sta nella costituzione del Pd. La fusione di due forze che rappresentano culture e storie profondamente diverse in un unico soggetto politico, è già di per sé un clamoroso salto mortale: in politica come in economia fusioni così hanno molte possibilità di fallire. Ma questo è addirittura un doppio salto mortale: perché le due grandi forze di centro della coalizione lo fanno mentre il governo è in carica e con una maggioranza parlamentare risicata.

Da questo punto di vista come collochi l'evento del 20 ottobre? Voglio dire: che risposta ha dato?
Mi limito a considerare che se quel terremoto politico fosse avvenuto in assenza d'un segnale corporeo, materiale, della sinistra, sarebbe stata veramente una tragedia. Io ringrazio il cielo che sia stata convocata e si sia svolta questa manifestazione: se il ciclo avesse finito di definirsi con il 14 ottobre, il segno conclusivo sarebbe stato la desertificazione dell'aerea della sinistra. Invece sabato si è come materializzata una resistente condensazione di energie, come intorno ad un magnete.

Tu come le descriveresti quelle energie? E il magnete, ora, che se ne fa? O piuttosto che se ne fanno loro, del magnete?
Sono energie portatrici, intanto, di una enorme generosità; e poi di un forte legame con situazioni reali. Parlo della costellazione del lavoro in quella parte che ha ancora un "luogo" anche se ha perso la sua centralità storica, ma anche del mondo del lavoro ipermoderno, il precariato dei giovani. E, ancora, i territori: quella parte che ha capito - alcuni no, ma adesso capiranno... E il popolo della pace, che attraversa tutte queste componenti, ma anche una bella fetta di opinione: gente che non ci sta a vedere il Paese ridotto alla rappresentanza lobbistica o alla rappresentazione giornalistica.

Aggiungerei tanti "invisibili", al di là della stessa precarietà lavorativa: i soggetti portatori di rivendicazioni di diritti e differenze irriducibili alle compatibilità di potere...
Certo. E si capiva bene dalle voci del palco finale: linguaggi di una composizione ipermoderna, non di un'ossificazione storica. E mostravano che essere ipermoderni non vuol dire essere aconflittuali, anzi al contrario. Ma cosa dicevano quelle voci? Dicevano siamo qui, nessuno di noi dopo oggi è più solo - lo credevamo ma scopriamo che non è vero - . Più un'altra cosa: così come è andata finora non può più andare avanti. Ci vuole una soluzione di continuità, a tutti i livelli, anche quelli delle forme della politica; il che poi, bada bene, non significa negare se stessi, ma "transitare", con tutta la propria memoria.

Noi abbiamo titolato: «Non deludiamoli»...
Diciamo meglio: non deludiamo ci . Perché non è che qualcuno abbia delegato qualcun altro a inventarsi una soluzione. E' stato posto lì e ora, direi, un problema che impone una responsabilizzazione collettiva molto forte. La disponibilità che si è rivelata, infatti, non dura in eterno. A me è parsa una piazza esigente e molto riflessiva, usando la bella espressione di Ginsborg sul "ceto medio" dei girotondi: non per dire che fosse invece questo un "proletariato" riflessivo, ma che era la base sociale riflessiva d'una possibile sinistra.

Come deve fare ora a passare dalla possibilità al prendere corpo, questa sinistra?
Non ci sono scorciatoie mediatiche: sarebbe persino triviale se ci si affidasse davvero all'imitazione delle primarie. O se si derivasse dal 20 lo spirito d'un semplice "embrassons-nous" tra sigle, esteso a Sd e Verdi. Penso così: non c'è dubbio che alla prossima scadenza elettorale o c'è un soggetto unitario a sinistra o davvero si è fuori dal mondo. Allo stesso tempo però la costruzione di una sinistra unitaria e plurale, come si dice con bella espressione, può avvenire solo con il coinvolgimento sociale più ampio possibile di quell'intelligenza di massa delle persone. Ossia ravvicinando il corpo sociale alla rappresentanza politica: il che presuppone il riconoscimento della crisi e dei limiti della rappresentanza stessa, non nella sua dimensione tattica ma nel senso che ha nel tempo della globalizzazione.

E come si fa esplicarla in positivo, questa crisi?
Sapendo che si tratta di ricostruire la rappresentanza democratica: a livello di governo, a livello parlamentare, a livello amministrativo, a livello della rappresentanza sociale, a livello dei territori. E' richiesta molta fantasia. E il saper fare in fretta le cose che possono e debbono concretizzarsi velocemente: ma anche la necessaria e giusta lentezza in quelle che richiedono profondità. Nessuno può farcela da sé o pensare d'essere autosufficiente nel determinare i modi e i tempi del processo, che sia la sinistra sociale o quella politica, tanto meno questo o quel corpo organizzato. Bisogna avviare una divisione del lavoro efficace e condivisa a tutti i livelli. Sabato abbiamo messo un piede in mezzo alla porta: cosa faremo oltre quella porta cui abbiamo impedito di chiudersi, è affidato a molta unità, molta responsabilità e a quella stessa intelligenza dimostrata dalle molte e dai molti che sono venuti.

Liberazione 23.30.07
Quella piazza che pensa
di Antonella Marrone


A due giorni dalla manifestazione, dopo aver parlato, letto, discusso, analizzato, ci sono ancora alcune cose da dire sul 20 ottobre. Sui partiti e sulla capacità di analisi politica dei media e dei manifestanti. Cominciamo da quest'ultima considerazione. Chiunque abbia partecipato al corteo o abbia visto le immagini televisive avrà percepito come il livello di analisi della situazione politica fosse piuttosto approfondito tra i partecipanti, anche nelle veloci e semplici risposte date ai cronisti. Molto più articolate rispetto a quella degli organi di stampa che hanno seguito, dall'inizio, l'idea della manifestazione e da un osservatorio privilegiato. Le risposte date dai manifestanti ai giornalisti aprivano un mondo di possibilità e di provocazioni che i massmedia, nel lungo periodo precedente all'evento, avevano sempre ricondotto alla banale dicotomia "pro o contro" il governo. E da quello stereotipo - come ben sa l'ufficio stampa della manifestazione - non ci si è mai allontanati. Era ed è rimasta una manifestazione esclusivamente contro la Legge 30, ad esempio, senza che nessuno abbia mai voluto mettere insieme le istanze collettive che erano alla base dell'appello sottoscritto ad agosto. Commenti ed editoriali si sono invece lanciati in estenuanti elucubrazioni su Prodi e Berlusconi (e valga per tutti l'editoriale di Furio Colombo di domenica, su l'Unità : una specie di delirio), già vecchie prima ancora di essere scritte.
I giornali hanno dimostrato di essere come i filosofi dell' Uomo senza qualità (romanzo di Robert Musil), diventano aggressivi e si impadroniscono del mondo chiudendolo in un sistema. Ma, a differenza dei filosofi, loro hanno anche a disposizione gli eserciti: imprenditori o nuovi partiti emergenti. Per questo la varietà di risposte e la varietà delle motivazioni colpiscono: perché sono molto al di sopra di chi sostiene di saperli "interpretare". Un esempio per tutti: il più citato e ripreso cartellone della manifestazione (insieme a quello che richiedeva, provocatoriamente, il ritorno di Berlusconi) è stato quello con la scritta: " Questo è un governo di merda, ma è il nostro governo ". Si tratta di un'alta espressione di "patriottismo", come gli americanisti sanno bene, perché traduce in modo colorito e un po' liberamente l'espressione " My country, right or wrong ", ovvero questo è il mio paese, giusto o sbagliato che sia (e io gli sto accanto, lo difendo). E' incazzata quella donna che ha portato quel cartello? Sicuramente sì. Una manifestazione di incazzati? Certo, ma questo non ha impedito - come qualcuno ha anche ammesso - che fosse anche una manifestazione "grande, bella, forte politicamente". Non c'è contraddizione, dunque, si può essere più articolati di un semplice "pro o contro". Che poi è l'assunto sul quale, oggi si muove tutto il pensiero unico e semplificato dell'economia (e della politica che la rincorre): il pensiero digitale, fulmineo, dalle decisioni veloci, per la semplificazione delle regole, dei mandati, della democrazia, meno lacci e lacciuoli per tutti, soprattutto per chi decide, mani libere, bianco o nero, si o no. E' già tanto che siano riusciti a mettere insieme sette candidati per il partito democratico.
A proposito di partiti, ecco la seconda considerazione. Un ragazzo, sempre dallo schermo (internet questa volta) intervistato da Repubblica-tv dice a proposito dell'assenza di Sinistra democratica: «Quello che conta è la militanza. Non è il partito che fa la militanza, ma è la militanza che fa il partito». Affermazione che richiederebbe un po' di attenzione e anche qualche riflessione più approfondita. Soprattutto per chi, come la Sinistra, in questo momento si trova davanti a un ventaglio di possibilità, a un cambio forse epocale della propria consistenza e certamente davanti a una prova di coraggio, di fantasia, di "alterità". Bisognerebbe sviluppare questo concetto di militanza, andare incontro alla "riflessione" che ci ha posto questa piazza d'ottobre. Troveremmo, probabilmente, un'idea interessante di militanza, assai diversa da quella cui siamo stati abituati dalla nostra storica sinistra, radicata in sezioni, vissuta con impegno (ma anche allegria) da milioni di persone capaci e appassionate dal dopoguerra fino ad oggi. Una militanza che forse non chiede più statuti, ma partecipazione, che non pensa alle primarie e che vorrebbe sostenere programmi ed idee per il futuro. Che unisca la passione dei "vecchi" con quella dei nuovi militanti. Perché senza gli uni e gli altri non sarebbe stato possibile il successo del 20 ottobre.

Liberazione 23.30.07
Il milione in piazza chiama
Sinistra al lavoro sull'unità
di Angela Mauro


Domani, vertice dei leader di Prc, Sd, Verdi e Pdci per stabilire le altre tappe del percorso
Rifondazione rilancia su stati generali entro dicembre e simbolo unico alle prossime elezioni


Oltre al milione di persone, presenti mente e corpo in piazza, l'altro dato certo prodotto dal 20 ottobre è che il successo della manifestazione è servito a scoprire un po' di altarini del processo unitario a sinistra. Se da un lato, Rifondazione Comunista, al termine della consueta riunione di segreteria del lunedì, avanza determinata sulla «accelerazione del processo unitario», dall'altro il Pdci rimarca sui propri simboli identitari, i Verdi nicchiano in attesa dell'incontro tra i leader, Sd si esprime con una pluralità di voci non tutte sgombre di nodi. Sia chiaro: nessuno dei quattro partiti interessati si dichiara contrario alla prosecuzione del processo avviato in primavera. Ma è difficile non notare la diversità degli accenti, sopratttutto tra chi in piazza c'era (anche dirigenti e militanti di Sd) e chi invece non ha aderito.
Il Prc rilancia con la convocazione degli stati generali entro dicembre. Il modello, come ripete ormai da tempo colui che l'ha proposto, Franco Giordano, dovrà essere quello dei social forum, esperienza altamente significativa e formativa per la sinistra degli anni scorsi che permette una partecipazione di massa e non legata ai soli militanti e iscritti di partito. Insomma, un modo, il più convincente - viene ribadito - per coinvolgere la piazza di sabato scorso, caratterizzata, si legge nella nota della segreteria del Prc, da uno «spirito unitario» che chiama la sinistra a costruire una «soggettività unitaria e plurale».
Non sfugge la cornice in cui tutto questo dovrà avvenire: il confronto in corso su welfare e Finanziaria in un governo sempre più a rischio crisi. Ma lo scenario non cambia i termini della questione, semmai li rafforza. Per il capogruppo al Senato, Giovanni Russo Spena, l'importante è non imitare le «alchimie politiche e verticistiche che hanno segnato la nascita del Pd», ma puntare alla costruzione di un «soggetto politico dal basso». L'idea è di segnare le prossime elezioni con un «simbolo unico» della sinistra, rilancia Gennaro Migliore, capogruppo del Prc alla Camera. Quale simbolo? «Discutiamone, ma da subito, in modo da essere pronti alle prossime amministrative», osserva Michele De Palma, responsabile Enti Locali della segreteria del Prc. Dato per scontato che nessuna delle dirigenze dei quattro partiti interessati ha intenzione di sciogliersi in un nuovo soggetto, è ovvio che ogni forza conserverà il proprio simbolo, ma è anche ovvio che il contrassegno elettorale della sinistra unita dovrà porsi il problema di rappresentare tutti, anche chi la immagina più "Arcobaleno", come ribadiscono da sempre i Verdi. «Il simbolo deve essere anche uno strumento per superare la tradizionale simbologia della sinistra se si vuole intercettare la voglia di unità e di rinnovamento», spiega Angelo Bonelli del "Sole che ride", rimarcando la scelta della «federazione in cui tutti possano mantenere la propria identità». In questo senso appaiono un po' forzati gli affondi di Oliviero Diliberto sulla necessità di conservare i «simboli del lavoro» ("falce e martello") pure per la confederazione della sinistra. E poi no al tesseramento della nuova forza: «Ogni partito porterà i suoi tesserati, più chi ci vorrà stare», è perentorio il segretario del Pdci. E all'interno di Rifondazione non manca chi, all'indomani del 20 ottobre, fa notare il «politicismo» di certe discussioni su liste uniche e costruzione di un unico partito. «L'indicazione che arriva dalla piazza - dice Claudio Grassi di Essere Comunisti - è di essere più decisi per cambiare la politica economica e sociale del governo. E' di questo che dobbiamo preoccuparci».
Sinistra Democratica sfoggia il ventaglio più variegato di posizioni interne rispetto al processo unitario. C'è chi ha respirato la piazza, perchè ha scelto di esserci aderendo alla mobilitazione a livello individuale: sono i meno timorosi. Carlo Leoni in piazza non c'era, ma non ha dubbi: «Per la sinistra è il momento delle scelte. La federazione tra forze politiche distinte può essere il punto di partenza, non certo quello di arrivo». Per il vicepresidente della Camera, bisogna lavorare ad un «obiettivo più ambizioso: un soggetto politico nuovo e unito, che superi la frammentazione esistente». D'accordo sul «simbolo unico alle prossime amministrative». Viene lasciato a Titti Di Salvo, capogruppo di Sd a Montecitorio, il compito di porre il problema del rapporto con il «sindacato confederale», dopo i termini burrascosi del confronto tra Cgil, Cisl e Uil, da un lato, e Prc e Pdci, dall'altro, a proposito del protocollo sul welfare (che la piazza di sabato ha chiesto a gran voce di cambiare). «Dobbiamo capire quale deve essere il rapporto tra sinistra politica e sindacato confederale», spiega Di Salvo, rilanciando su un altro nodo: «L'unità della sinistra deve passare per il profondo rinnovamento della sinistra stessa: uscire dalle trincee delle proprie singole identità». Il rischio, si ragiona negli ambienti di Sd più convinti dell'asse con Rifondazione, è che si cerchi di «fare il più uno per frenare il processo». In quanto (questo lo riconoscono un po' tutti), partire dall'abbandono hic et nunc delle proprie identità è il modo migliore per arrivare ad un nulla di fatto.
Farà chiarezza il vertice dei segretari, che dovrebbe tenersi domani. Tra le ipotesi anche quella di lanciare una consultazione di popolo (forse già a gennaio) su come costruire l'unità e sull'identità della nuova sinistra.